REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, composto dai
Signori:
1) dott. Antonino Savo Amodio
Presidente
2) dott. Nicola Gaviano
Consigliere relatore
3) dott. Mario Alberto Di Nezza
Referendario
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 5604\2002 Reg. Gen., proposto dalla ESE-Insight World
Education Systems Limited, società corrente in Londra e con sede
secondaria in Italia, in persona del legale rappresentante p.t. sig.ra Kristin
Renée Sharpe, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giuseppe Conte, Alberto
Marconi e Giovanni Candido Di Gioia
contro
l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale
rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello
Stato
e nei confronti
del sig. Silvestri Massimo, del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica e dell’Autorità per le Garanzie nelle
Comunicazioni, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., nn.cc.;
per l’annullamento
2
-
del provvedimento emesso dall’Autorità Garante della Concorrenza
e del Mercato nella seduta dell’11\4\2002, comunicato alla società
ricorrente il successivo giorno 24;
-
di ogni atto preparatorio, presupposto, consequenziale o comunque
connesso, ed in particolare del parere dell’Autorità per le Garanzie
nelle Comunicazioni del 29\3\2002, e delle note del Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica in data
16\6\1993, 20\6\2000 e 3\10\2000, atti tutti citati nel provvedimento
dell’Autorità Garante.
VISTI i ricorsi ed i relativi allegati;
VISTI gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato;
VISTE le memorie presentate dalle parti a sostegno delle loro rispettive
difese;
VISTI gli atti tutti di causa;
UDITI alla pubblica udienza del 4\2\2004 il relatore ed altresì l’avv. G.
Conte e l’avv. dello Stato D. Del Gaizo;
RITENUTO e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con provvedimento n.
10643 (PI3433) in data 11 aprile 2002, comunicato il 24 aprile successivo,
qualificava come fattispecie di pubblicità ingannevole ai sensi del d.lgs. n.
74 del 1992 due messaggi pubblicitari comparsi sul Corriere della Sera del
14 giugno e del 6 luglio 2001 e reclamizzanti i corsi tenuti dalla European
School of Economics (facente capo alla ESE-Insight World Education
3
Systems Limited), vietandone l’ulteriore diffusione ed impartendo l’ordine
di pubblicazione di una dichiarazione rettificativa.
Contro tale provvedimento insorgeva la società interessata (di
seguito, semplicemente “ESE”) mediante il ricorso in epigrafe, ritualmente
notificato e depositato, con il quale ne deduceva l’illegittimità a titolo di
violazione di legge e di eccesso di potere mediante l’articolazione di
molteplici mezzi.
L’Amministrazione
intimata,
costituitasi
in
giudizio
in
resistenza
all’impugnativa, con memorie del 22\5\2002 e del 29\1\2004 deduceva
l’infondatezza delle censure della ricorrente, concludendo per la reiezione
del ricorso.
La società ESE, dal canto suo, ribadiva e sviluppava le proprie doglianze
con scritti del 7\12\2002, 30\12\2003 e 28\1\2004, insistendo per
l’accoglimento del gravame.
Alla pubblica udienza del 4\2\2004 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1
Forma oggetto di ricorso il provvedimento in data 11 aprile 2002 con
il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha qualificato
come fattispecie di pubblicità ingannevole ai sensi del d.lgs. n. 74 del 1992
due messaggi pubblicitari comparsi sul Corriere della Sera e reclamizzanti i
corsi tenuti dalla European School of Economics, vietandone l’ulteriore
diffusione e prescrivendo la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa.
La società ricorrente ha articolato una pluralità di censure avverso il
provvedimento. Sui motivi di carattere formale e procedimentale merita
peraltro la precedenza, per il suo carattere assorbente, l’ultimo mezzo
4
d’impugnativa, con il quale è stata contestata la sostanza del giudizio di
ingannevolezza che ha colpito le pubblicità in questione.
Il motivo è fondato.
2
I messaggi intorno ai quali è causa riguardano, entrambi, due distinte
tipologie di titoli conseguibili attraverso i corsi offerti dall’ESE : un titolo di
tipo universitario, denominato “European degree (BA with Hons)”
(abbreviazione di “Bachelor of Arts with Honours”), in economia e finanza
internazionale o altre discipline; un MBA (Master in Business
Administration), con diversi possibili settori di specializzazione.
La valutazione di ingannevolezza dell’Autorità ha investito, sulla
base di ragioni diverse, la pubblicità di ambedue i titoli.
In questa sede verranno trattate per prime (come è stato fatto tanto
dal provvedimento quanto nel ricorso) le problematiche connesse alla
pubblicità del titolo universitario.
3a
All’esito della propria istruttoria procedimentale l’Autorità ha
riconosciuto che l’ESE, pur non essendo ex se abilitata a rilasciare titoli
universitari, con i suoi corsi è effettivamente in grado di far conseguire il
“BA with Hons” di una università britannica, e quindi un titolo di laurea
riconducibile a tutti gli effetti al relativo ordinamento. In virtù del contratto
esistente tra ESE e Nottingham Trent University (NTU), tutti gli studenti
che abbiano seguito i corsi nelle sedi italiane della ESE e superato i relativi
esami ricevono il titolo britannico di “BA Hons” della NTU anche senza
essersi mai recati di persona presso la predetta università inglese.
Ciò che ha indotto l’Autorità ad intervenire è, però, il fatto che un
titolo ottenuto in questo modo (vale a dire, studiando essenzialmente in
5
Italia) non potrebbe conseguire riconoscimento legale nel nostro Paese, in
quanto il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica richiede alle
università italiane, a partire dal 1993, di verificare, in occasione di ogni
richiesta di riconoscimento di titoli rilasciati da università straniere, che gli
studi che hanno condotto ad essi siano stati realmente compiuti in loco.
Nel provvedimento in esame è stato rilevato, quindi, che, per quanto
nei messaggi non venga esplicitamente dichiarato che il titolo ottenibile
attraverso l’ESE sia equipollente ad una laurea italiana, il “BA Hons” non vi
viene descritto –come sarebbe stato appropriato- semplicemente quale
“british degree”, bensì, più ampiamente, come “european degree”.
Ebbene, ad avviso dell’Autorità l’ampliamento della portata del
titolo suggerito dall’uso dell’aggettivo “european” dovrebbe essere
considerato decettivo, in quanto “il BA in questione non è, al momento,
automaticamente riconosciuto in alcuni paesi UE, tra i quali l’Italia, né,
data la normativa vigente, risulta che esso possa essere anche solo
ammesso alla procedura per il riconoscimento. In altre parole, la
caratterizzazione, effettuata nei messaggi in esame, del BA Hons della NTU
come “european degree” può indurre a ritenere che, una volta raggiunto,
esso costituisca un titolo di studio universitario a tutti gli effetti non solo nel
Regno Unito ma anche in tutti i paesi d’Europa e, dunque, in particolare,
anche in Italia, cosa che invece al momento non corrisponde a verità”.
3b
Le valutazioni appena riportate formano oggetto di contestazione
mediante il ricorso in esame.
La ESE, con il proprio atto introduttivo, premesso che l’insegnamento
impartito dagli istituti di natura privata assume le caratteristiche di una
6
prestazione di servizi ai sensi del Trattato, si è doluta che l’Autorità non
abbia tenuto conto dei principi dell’ordinamento comunitario nel senso –tra
l’altro- della libera scelta individuale dell’istituto e del luogo della
formazione professionale (principi applicabili anche nei rapporti tra il
cittadino e lo Stato membro di appartenenza): principi con i quali sarebbero
incompatibili norme o prassi amministrative nazionali tali che il “degree” in
questione si veda già in astratto preclusa l’ammissione alla procedura per il
riconoscimento.
Ha osservato la ricorrente, in particolare, che, se è vero che il titolo di BA
rilasciato dalla NTU a chi abbia completato i corsi ESE, stante la normativa
attualmente vigente, non è riconosciuto né riconoscibile in Italia, ciò è
dovuto soltanto al mancato rispetto da parte dello Stato italiano dei principi
fondamentali dell’ordinamento comunitario, che per contro imporrebbero di
ammettere tale titolo al riconoscimento nel Paese.
Il consumatore, tuttavia, dovrebbe poter conoscere la verità, vale a
dire essere reso edotto della riconoscibilità del titolo in discorso nonostante
la difforme normativa nazionale, la quale per la propria incompatibilità con
il diritto comunitario non potrebbe ricevere applicazione.
In questo contesto, quindi, concludeva la ESE, l’Autorità, piuttosto
che giudicare ingannevole la pubblicità di cui si tratta, avrebbe dovuto
semmai avvalersi dei propri poteri di segnalazione di cui agli artt. 21 e 22
della legge n. 287\1990 (fonte normativa che riguarda tuttavia, va subito
detto, una materia distinta). E la ricorrente chiedeva, comunque, che questo
Tribunale rimettesse alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 del
7
Trattato, le pregiudiziali comunitarie ritenute rilevanti ai fini della decisione
della controversia.
3c
Osserva il Tribunale che la ricostruzione dello stato del diritto
comunitario operata dalla ESE ha trovato sostanziale conferma, in corso di
giudizio, nella sopraggiunta decisione della Corte di Giustizia 13 novembre
2003 resa su domanda di pronuncia pregiudiziale del Giudice di pace di
Genova, dinanzi al quale pendeva una causa che vedeva come parte proprio
l’ESE, convenuta in giudizio da un’allieva mediante l’esperimento di una
domanda di restituzione della retta.
La Corte di Giustizia ha sottolineato, innanzitutto, che l'organizzazione
dietro corrispettivo di corsi di formazione superiore è un'attività economica
che rientra nel capitolo del Trattato relativo al diritto di stabilimento quando
sia svolta da un cittadino di uno Stato membro in un altro Stato membro, in
maniera stabile e continuativa, a partire da un centro di attività principale o
secondario ubicato in quest'ultimo.
La Corte, dopo avere riconosciuto che la ESE integra una situazione siffatta,
ha ricordato che l'articolo 43 del Trattato impone l'abolizione delle
restrizioni alla libertà di stabilimento, dovendo essere considerate tali "tutte
le misure che vietano, ostacolano o rendono meno attraente l'esercizio di
tale libertà".
Essa ha soggiunto, inoltre, che, "per un istituto di istruzione, quale l’ESE,
che organizza corsi di formazione intesi a permettere agli studenti di
ottenere diplomi che possano facilitare il loro accesso al mercato del
lavoro, il riconoscimento di tali diplomi da parte delle autorità dello Stato
membro presenta un'importanza rilevante".
8
È stato quindi definito "evidente che una prassi amministrativa,
quale quella controversa nella causa principale, in forza della quale taluni
diplomi rilasciati a conclusione dei corsi di formazione universitaria tenuti
dall’ESE non sono riconosciuti in Italia, può dissuadere gli studenti dal
seguire tali corsi e in tal modo ostacolare gravemente l'esercizio da parte
dell'ESE della sua attività economica in tale Stato membro".
Di qui la puntualizzazione che una prassi amministrativa quale
quella di cui trattasi "rappresenta una restrizione alla libertà di stabilimento
dell'ESE ai sensi dell'art. 43 CE ”.
In relazione, poi, all'argomento difensivo del Governo italiano teso a
giustificare il proprio orientamento restrittivo con la necessità di garantire un
elevato livello dell'istruzione universitaria, la Corte ha rilevato quanto segue.
"Se l'obiettivo di garantire un livello elevato delle formazioni universitarie
sembra legittimo per giustificare restrizioni alla libertà fondamentali, tali
restrizioni devono essere idonee a garantire il conseguimento dello scopo
perseguito e non devono andare oltre quanto necessario per il
raggiungimento di questo".
La Corte ha riscontrato, però, la mancanza di entrambi tali presupposti. Essa
ha rilevato, infatti, che la prassi amministrativa in questione non solo non
risulta atta a realizzare l'obiettivo, fatto valere dal Governo italiano, di
garantire un elevato livello delle formazioni universitarie, ma soprattutto,
per il fatto di escludere qualsiasi esame da parte delle autorità nazionali, e
pertanto qualsiasi possibilità di riconoscimento dei diplomi rilasciati nelle
circostanze indicate, va oltre quanto necessario per garantire l'obiettivo
perseguito, contravvenendo al principio di proporzionalità.
9
Da tutto ciò, dunque, la conclusione della Corte che " l'art. 43 CE
osta a una prassi amministrativa, quale quella controversa della causa
principale, in forza della quale i diplomi universitari rilasciati da
un'università di uno Stato membro non possono essere riconosciuti in un
altro Stato membro quando i corsi propedeutici a tali diplomi sono stati
tenuti in quest'ultimo Stato membro ad opera di un diverso istituto di
istruzione in conformità ad un accordo concluso fra tali due istituti".
3d
Ora, la tesi di fondo della difesa erariale è che queste enunciazioni
non potrebbero riverberare influenza sulla questione, qui controversa, della
legittimità del provvedimento in epigrafe.
Dinanzi ai messaggi pubblicitari di cui si tratta, è stato subito obiettato
dall’Avvocatura dello Stato, il compito dell’Autorità è solo quello di
verificare quali possibilità esistano, per lo studente che abbia frequentato i
relativi corsi, di utilizzare legalmente in Italia i conseguenti titoli. E questa
possibilità è stata verificata dalla resistente presso l’Amministrazione
nazionale a ciò specificamente competente, il Ministero dell’Università e
della Ricerca Scientifica, alle cui indicazioni essa non ha fatto altro che
attenersi.
Potrà anche darsi, allora, si diceva già nella memoria erariale del 22\5\2002,
che il Ministero erri nell’escludere a priori la riconoscibilità in Italia della
laurea inglese conseguita nel modo indicato; e potrà anche darsi che in
questa maniera esso violi principi di diritto comunitario. Ciò che conta,
però, è il dato di fatto presente ed attuale che nessuno studente dell’ESE
potrebbe ottenere in Italia il riconoscimento del proprio titolo.
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Questa posizione è stata sviluppata dalla difesa dell’Autorità con una
successiva memoria, posteriore al pronunciamento della Corte di Giustizia.
Il punto di vista dell’Avvocatura dello Stato, già affiorato, è che
l’illegittimità della prassi amministrativa censurata dal Giudice Comunitario
non spiegherebbe rilevanza sul piano dello scrutinio di ingannevolezza
pubblicitaria.
Per i consumatori, viene ribadito, il contrasto con il diritto comunitario della
circolare ministeriale che escludeva dalla procedura di riconoscimento i
titoli rilasciati in esito a corsi come quelli dell’ESE sarebbe, in pratica,
ininfluente, dal momento che il semplice fatto dell’esistenza stessa di tale
circolare già sarebbe stato sufficiente a frustrare lo scopo dell’adesione
all’offerta commerciale della ricorrente.
Si soggiunge, inoltre, che la ricorrente, anche se al tempo magari dubitava
della legittimità della suddetta prassi, non avrebbe però potuto ignorarla
nella propria comunicazione d’impresa, dando ad intendere al mercato che il
riconoscimento in Italia dei propri titoli fosse un fatto acquisito.
È stato fatto notare, infine, che la Corte di Giustizia non contesta il
fatto che la normativa italiana non contempli un riconoscimento automatico
dei titoli di studio conseguiti all’estero, ma censura semplicemente la
pregiudiziale esclusione dall’accesso alla procedura di riconoscimento per i
titoli conseguiti dietro frequenza di corsi tenuti in un Paese diverso da quello
dell’istituzione che li rilascia. Da ciò si desume, quindi, che non si pone in
contrasto con l’art. 43 del Trattato, così come letto dalla Corte di Giustizia,
una normativa nazionale che faccia dipendere il riconoscimento dei titoli
accademici rilasciati all’estero da una previa verifica dell’Amministrazione
11
finalizzata a controllare il livello formativo assicurato dal corso di studi
frequentato in concreto.
Sicchè, nel mentre i messaggi in questione avrebbero lasciato intendere che
il titolo BA della NTU era automaticamente riconosciuto nell’ordinamento
italiano, anche dopo la pronuncia della Corte comunitaria rimarrebbe pur
sempre vero che i titoli in questione non possono beneficiare di un
riconoscimento in via automatica, potendo ottenerlo solo a seguito di una
valutazione amministrativa di congruità operata caso per caso.
3e
Il Tribunale non può condividere la linea argomentativa di parte
resistente.
Si è visto sopra come la prassi amministrativa alla luce della quale l'Autorità
ha valutato l'ingannevolezza dei messaggi in discorso (e che è stata posta a
fondamento della prescritta dichiarazione rettificativa) si sia rivelata
illegittima per contrasto con i principi comunitari, in base a ragioni
riconducibili a quelle allegate mediante il presente ricorso.
Ora, questa circostanza non sembra poter essere qualificata
irrilevante in nome della presunta decisività dell'ostacolo di fatto che tale
prassi comunque frapponeva, per il sol fatto di esistere (e a prescindere dalla
sua legittimità), alla realizzazione delle aspirazioni dei consumatori
interessati.
Il Tribunale non si nasconde la problematicità del punto in esame, né la
serietà delle ragioni –di salvaguardia dei consumatori la più immediata
possibile-
che
ispirano
l’interpretazione
patrocinata
dalla
difesa
dell’Autorità. Ritiene, tuttavia, che il principio di unità dell'ordinamento
giuridico e quello del primato del diritto comunitario comportino che
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l'operatore economico cui le norme comunitarie conferiscono determinate
prerogative debba senz’altro essere ammesso (almeno nei suoi rapporti di
tipo c.d. verticale) a commisurare a tale elemento costitutivo del proprio
patrimonio giuridico la propria comunicazione pubblicitaria. E questo anche
quando la concreta operatività delle dette prerogative sia destinata ad
incontrare ostacoli di fatto in prassi nazionali illegittime.
Lo Stato che si sia dato una prassi in violazione del diritto comunitario –
nella specie, del diritto di stabilimento-, e perciò antigiuridica, non può
essere infatti ammesso ad opporre -attraverso un proprio organo, quale è
anche la resistente Autorità- l’esistenza di tale illegittima prassi al fine di
limitare la libertà di espressione pubblicitaria dell'operatore che già una
prima volta, nelle sue relazioni economiche, ne era stato leso, giacché ciò si
tradurrebbe in una ulteriore violazione dei diritti individuali del soggetto,
che questo Tribunale non potrebbe assolutamente autorizzare.
Come ben dice la ricorrente, quindi, posto che l’art. 43 del Trattato
esige l'ammissione dei titoli di cui si tratta alla procedura di riconoscimento,
un messaggio pubblicitario che evochi questa prospettiva non può essere
ritenuto ingannevole, ancorché la vigente normativa o prassi amministrativa
nazionali siano a ciò ostative: la diffusione di un messaggio non potrebbe
essere vietata, per il fatto che questo si richiami a, o comunque presupponga,
diritti che l'ordinamento comunitario garantisce, senza con ciò violare norme
imperative dello stesso ordinamento.
Il Tribunale, chiarito quanto precede, osserva che i messaggi dei
quali si discute dovrebbero nondimeno essere giudicati ingannevoli qualora
avessero univocamente garantito l’automatica operatività dei titoli de quibus
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in Italia. Così, però, non era; né, del resto, a suo tempo nel provvedimento in
epigrafe è stato affermato con chiarezza che così fosse.
Nei testi pubblicitari della ricorrente ci si limitava a far
genericamente parola di un “European degree (BA with Hons)”, con il che,
se poteva evocarsi indubbiamente nel lettore la possibilità di un
riconoscimento di siffatto titolo anche in Italia, non lo si assicurava, però, in
alcun modo. E all’uso dell’aggettivo “european”, in luogo di quello
“british”, non appare logico annettere alcuna portata decettiva, se si
considera che il titolo in questione effettivamente non costituisce un mero
dato straniero, ma è un quid che, proprio sulla base della normativa
comunitaria, e al pari di ogni altro titolo accademico europeo, è
riconoscibile anche nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali.
4
Le censure di parte ricorrente meritano accoglimento anche rispetto
al giudizio di ingannevolezza che ha colpito la pubblicità data –nel contesto
degli stessi messaggi di cui si è detto- al Master in Business Administration
dell’ESE.
Vengono qui in rilievo dei corsi della durata di 12 mesi offerti a laureati (o a
soggetti che abbiano già comunque maturato una significativa esperienza di
lavoro), rivolti all’aggiornamento professionale e destinati a mettere capo ad
un semplice attestato di frequenza, non assimilabile ad un titolo di studio.
4a
Il giudizio critico espresso in proposito dall’Autorità poggia su due
argomenti.
Nel provvedimento impugnato viene notato in primo luogo che, poiché i
messaggi de quibus non opererebbero una significativa differenziazione tra
la pubblicità dei corsi per il conseguimento del “BA with Hons” e quella dei
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corsi per il MBA (entrambi titoli tipici dell’ordinamento universitario
britannico), essi ingenererebbero in questo modo il convincimento che anche
i secondi potrebbero condurre, come i primi, all’ottenimento di titoli
ufficiali rilasciati da un’università del Regno Unito, laddove, per converso,
per loro tramite si otterrebbe solo un semplice attestato di frequenza
rilasciato dall’ESE (poiché il MBA dell’ESE non rientra nell’accordo di
convalida esistente tra la medesima e la NTU, ma è organizzato e gestito in
piena autonomia dalla ricorrente).
L’Autorità ha osservato, inoltre, che la dicitura “unico in Europa”
accompagnante nei due messaggi il riferimento al MBA sarebbe
ingannevole in quanto non suffragata dai fatti, esistendo in realtà in tutta
l’Europa, Italia compresa, numerosi corsi analoghi aventi la stessa
denominazione.
Entrambi gli argomenti sono stati convincentemente criticati dalla
ricorrente.
4b
E’ stato fatto notare con il ricorso in esame che solo una fugace
lettura potrebbe far ritenere che i messaggi non rechino una significativa
differenziazione tra le pubblicità dei corsi per il conseguimento del “BA with
Hons” e quelli per il MBA. Pare determinante, invece, -né il punto è del
resto sfuggito all’Autorità- che nei relativi testi, nel mentre il “BA with
Hons” viene definito con l’appellativo di “european degree”, nessuna
definizione viene impiegata per designare in qualsiasi modo il MBA, a
proposito del quale si dice semplicemente che lo stesso sarebbe –un Master“unico in Europa”.
15
Se, quindi, è pacifico che il sistema universitario britannico preveda
anche l’esistenza di “degree MBA”, appare però già prima facie arduo
ipotizzare che possa sorgere la temuta confusione quando un corso di Master
si astenga dal fregiarsi della formale specificazione di “degree”, e si presenti
quindi come un semplice ed ordinario corso di aggiornamento professionale.
E questa eventualità di confusione va tanto più esclusa se,
intendendo doverosamente il messaggio, come fa il consumatore-tipo, alla
luce del linguaggio comune, si tiene nel debito conto il fatto che nel
territorio
nazionale
è
diffusissima
-ed
ampiamente
pubblicizzata-
l’organizzazione, da parte dei soggetti più disparati, di corsi c.d. “Master” la
cui frequenza non vale a procurare alcun effettivo titolo di studio.
A riprova dell’incapacità del vocabolo “Master”, in se stesso, di
evocare un titolo avente valore legale, va ricordato che quando nella
disciplina positiva si è inteso mutuare il termine è stata avvertita in pari
tempo la necessità di specificarlo, per sottolineare, appunto, che ci si riferiva
a corsi idonei a sfociare in veri e propri titoli di studio, con l’uso della più
ampia dizione di “master universitari di primo e di secondo livello” (art. 3,
comma 8, d.m. n. 509 del 3\11\1999). E, come ha documentato la ricorrente,
allorché in sede normativa si è voluto in seguito riferirsi a corsi post
lauream sfocianti in un titolo di studio, si è utilizzata proprio la più ampia
dizione appena riportata, e non la mera dicitura di “Master” (doc. n. 25).
Esiste, pertanto, una diffusa e consolidata prassi espressiva di
denominare “Master” i più vari corsi di perfezionamento post lauream,
aventi la funzione di arricchire i curricula accrescendo le potenzialità
individuali sul mercato del lavoro, ancorché si tratti di percorsi insuscettibili
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il più delle volte di sfociare in un titolo di studio (all. n. 13 di parte
ricorrente; la stessa AGCM, notando nel suo provvedimento che esistono in
tutta Europa, ed anche in Italia, corsi analoghi -denominati MBA- offerti da
numerose altre istituzioni, non sembra aliena dal riconoscere la
volgarizzazione invalsa nell’uso comune del termine Master)
E l’esistenza di questa prassi, unita alla differenziata denominazione
che nei messaggi in discussione è stata impiegata -come si è visto- per i due
titoli, persuade dell’irragionevolezza della qualificazione della pubblicità in
esame come ingannevole.
4c
Una conclusione simile si impone, infine, a proposito delle critiche
mosse dall’Autorità alla dizione di “unico in Europa”, che ESE ha
adoperato nel promuovere il suo MBA.
Proprio il dato, sottolineato nel provvedimento, della notoria esistenza di
numerosi corsi analoghi sia in Italia che all’estero costringeva ad
interpretare l’espressione appena riportata ponendo l’accento essenzialmente
sull’aspetto qualitativo dell’offerta formativa della ricorrente.
L’Autorità non ha mancato di porsi da questa angolazione. In questa
prospettiva, tuttavia, essa non ha particolarmente argomentato in merito al
punto centrale del giudizio devoluto alla sua competenza. Non ha contestato,
cioè, in sostanza, il fatto che la ricchezza di gamma delle specializzazioni
dei corsi di Master dell’ESE potesse a buon diritto far considerare
effettivamente in qualche modo “unica” la sua offerta. Ha invece appuntato
la propria attenzione sul mero e pur secondario dato tipografico, osservando
che l’elencazione delle dette specializzazioni era stata riportata in caratteri
molto più piccoli di quelli adoperati per l’espressione “unico in Europa”, e
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che nei messaggi non appariva individuabile con immediatezza la
dipendenza del “claim” dalla variegatezza dell’offerta della ricorrente.
Così facendo, però, si è finito con l’ancorare la valutazione in esame
ad elementi del tutto secondari, omettendo di coordinarli con il punto testè
definito centrale, e soprattutto senza tenere nel necessario conto le esigenze
di sinteticità ed enfasi espressiva che sono indissolubilmente legate alla
comunicazione pubblicitaria. In questo modo l’Autorità è dunque incorsa
nella dedotta censura di difetto di motivazione.
5
Per le ragioni esposte, in conclusione, il ricorso deve essere accolto,
rimanendo logicamente assorbiti i motivi che residuano.
Si rinvengono ragioni tali da giustificare la compensazione delle spese
processuali tra tutte le parti in causa.
PQM
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, accoglie il
ricorso in epigrafe, e per l’effetto annulla l’impugnato provvedimento
dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Spese compensate.
La presente decisione sarà eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, Camera di consiglio del 4\2\2004.
Il Presidente
L'estensore