rigoletto - Gruppo Telecom Italia

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GIUSEPPE
VERDI
RIGOLETTO
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Commissario straordinario
Carlo Fuortes
Direttore musicale
Daniele Rustioni
Collegio Revisori dei Conti
Presidente
Giovanni Argondizza
Membri effettivi
Marco Aldo Amoruso
Ruggiero Pierno
INDICE
Rigoletto in breve
di Anna Cepollaro
pag.19
Rigoletto in brief
by Anna Cepollaro“
Trame d’autore
Rigoletto, Mantova e la maledizione di Monterone di Philip Gossett “
Tempo e spazio nella ‘trilogia popolare’ di Verdi
di Paolo Gallarati “
23
27
33
Rigoletto: la genesi dell’opera
di Julian Budden “
47
Quarta parete
Le strategie del genio: un Verdi popolare, civile e democratico
di Gianfranco Capitta “
67
VISTO DA LONTANO
Lassù in cielo, vicino alla mamma.
Osservazioni attorno ad un inevitabile suicidio di Carlida Steffan “
57
VISIONI
Sagome difformi di Stefania Aluigi “
FLATUS VOCIS
di Alessandro Taverna “
INTERVISTE PARALLELE
di Mauro Mariani “
73
85
89
POLVERE d’ARCHIVIO
Lettera a Carlo Marzari: la censura del “Rigoletto”
“
95
Rigoletto
Il soggetto
“
98
Rigoletto
The theme
“ 101
IL LIBRETTO
Rigoletto di Francesco Maria Piave “
con GUIDA ALL’ ASCOLTO
di Federico Vizzaccaro “
105
107
GLI ARTISTI
Biografie e organici
“ 161
giuseppe
verdi
rigoletto
venerdì 31 maggio / ore 20.30
domenica 2 giugno / ore 18.00
martedì 4 giugno / ore 20.30
mercoledì 5 giugno / ore 20.30
venerdì 7 giugno / ore 20.30
sabato 8 giugno / ore 17.00
domenica 9 giugno / ore 18.00
lunedì 10 giugno / ore 20.30
il disegno del manifesto - Marco Sauro
RIGOLETTO
melodramma in tre atti
di Giuseppe Verdi (1813 - 1901)
libretto di Francesco Maria Piave (1816 - 1867)
tratto dal dramma “Le Roi s’amuse” di Victor Hugo
prima rappresentazione:
Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851
Carlo Rizzari direttore
Denis Krief regia
maestro del coro Franco Sebastiani
scene, costumi, disegno luci Denis Krief
assistente regia
Pia Di Bitonto
assistente scene e costumi Angela Vasta
Il Duca di Mantova
Fabrizio Paesano
(31 maggio - 5, 8, 10 giugno)
Alessandro Scotto di Luzio
(2, 4, 7, 9 giugno)
Rigoletto
Stefano Antonucci
(31 maggio - 2, 5, 8, 10 giugno)
Yanni Yannissis
(4, 7, 9 giugno)
Gilda Mariangela Sicilia
(31 maggio - 5, 8, 10 giugno)
Sofia Mchedlishvili
(2, 4, 7, 9 giugno)
Sparafucile Emanuele Cordaro
(31 maggio - 5, 8, 10 giugno)
David Cervera
(2, 4, 7, 9 giugno)
Maddalena Marianna Vinci
(31 maggio - 4, 8, 10 giugno)
Sofia Janelidze
(2, 5, 7, 9 giugno)
Giovanna Olga Podgornaya
Conte di Monterone Gianfranco Cappelluti
Marullo Antonio Muserra
Matteo Borsa Raffaele Pastore
Conte di Ceprano Rocco Cavalluzzi
Contessa di Ceprano
Teresa Caricola
Usciere
Carlo Provenzano
Paggio
Caterina Daniele
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Produzione Fondazione Petruzzelli
Nuovo allestimento
Scene
Laboratorio Fondazione
Petruzzelli
Attrezzeria
Fondazione Petruzzelli
Parrucche
Studio Maschera d’Apollo
Roma
Casa della Parrucca snc
Bari
Sopratitoli
Studio Prescott
9
Rigoletto, foto di scena
RIGOLETTO in breve
di Anna Cepollaro
Nonostante le difficoltà già affrontate con la censura per
il suo Stiffelio, Giuseppe Verdi decide di musicare Le Roi
s’amuse, il dramma in cinque atti di Victor Hugo che Parigi
ha vietato subito dopo la prima rappresentazione, il 22
novembre 1832 alla Comédie-Française, e che per i censori
veneziani si basa su un soggetto indecoroso, nel quale il ruolo
più negativo è dissacrantemente attribuito a un sovrano. “Il
poeta Piave ed il celebre maestro Verdi non hanno saputo
scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che
quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità”,
afferma il Governatore di Venezia alla lettura, il 28 novembre
1850, della prima edizione del libretto. “Le Roi s’amuse è
il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi
moderni”, scrive invece Verdi al librettista Francesco Maria
Piave, in una lettera dello stesso anno.
L’opera va in scena al Teatro La Fenice di Venezia l’11 marzo
1851, con Teresa Brambilla nella parte di Gilda, Felice Varesi
in quella di Rigoletto e Raffaele Mirate come Duca. Avvezzi
alla cautela nei confronti dei Diktat dei revisori, musicista e
librettista declassano il re della commedia a duca, cambiano
i nomi a molti personaggi e trasportano l’azione dalla corte
di Francia al ducato di Mantova. Ma Verdi non vuole il re
come protagonista principale, bensì il suo buffone di corte:
di qui il titolo Rigoletto (tradotto dal francese Triboulet) che
sostituisce il censurato La Maledizione.
Immediato il successo di pubblico, mentre la critica rimane
disorientata. Il lavoro, infatti, rompe con alcune convenzioni
operistiche: “Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali,
con una sfilza interminabile di duetti”, dichiara Verdi. La
celebre aria del Duca, “La donna è mobile”, come un coup de
théâtre, appare nel tessuto musicale senza alcun preavviso.
E, come osserva Julian Budden, “che fra tutti proprio lui canti
sull’incostanza delle donne è un bel tocco ironico, derivato
dal dramma originale”. Dramma e melodramma sono animati
da passioni dolenti e irragionevoli, dagli slanci della “più
elevata delle creature”, come Hugo definisce l’uomo, verso
Anna Cepollaro
Per vari anni conduttrice e
consulente di Radio Tre, è
attualmente uno dei critici
musicali del quotidiano
“La Repubblica”. Curatrice
dei programmi di sala
del Teatro dell’Opera
di Roma, redige saggi
per teatri lirici e festival
musicali. Nel 2012 ha
partecipato alla revisione
della messa in scena de
Il marito disperato di
Cimarosa per la regia
di Paolo Rossi al Teatro
San Carlo di Napoli.
È docente di Tecniche
della comunicazione
e di Tecniche
dell’organizzazione dello
spettacolo.
11
Rigoletto, durante le prove
“il più sublime degli ideali”, la donna, secondo il poeta e
drammaturgo francese. Inoltre, in Rigoletto, così come ne La
traviata e, in parte, nel Trovatore, le opere della cosiddetta
‘trilogia popolare’, Verdi rafforza la sua idea fondamentale e
nuova di adattare l’impianto del melodramma alla creazione
di un protagonista assoluto, attorno al quale si dispongono
gli altri personaggi, la cui connotazione morale sfugge alla
consueta netta divisione tra buoni e cattivi. Caratteri morali di
consueto contraddistinti anche dalla tessitura vocale: tenore
e soprano buoni e innamorati e, contro di loro, il cattivo
baritono. Ma in questa trama non è buono il tenore-Duca che
considera le donne alla stregua di oggetti e non è del tutto
cattivo il baritono-Rigoletto, dal cui sentimento paterno Verdi
parte per presentare poi tutti i lati di un carattere tortuoso
e oscuro. La tensione accumulata nella scena tenebrosa del
protagonista con Sparafucile e nel successivo “Pari siamo”
si scarica nella regolarità formale del duetto con Gilda, che
esprime uno stato d’animo amorevole, tutto volto alla cura
di un padre verso sua figlia. Dagli antri bui della coscienza,
Rigoletto emerge alla luce solo nella sfera di serenità e di
affetto creata dall’innocente fanciulla. Ma entro la fine
del secondo atto, la rabbia che si intuisce durante “Tutte
le feste al tempio” esploderà in “Si, vendetta”. Le tragiche
conseguenze di questo furore diventano il punto focale
dell’intera vicenda. L’apertura dell’atto finale contiene due
dei pezzi più famosi dell’opera: oltre a “La donna è mobile”,
il quartetto “Bella figlia dell’amore”. “Le maschere della
tragedia e della commedia, invece di fronteggiarsi a vicenda,
fronteggiano insieme il pubblico”, scrive il musicologo Piero
Weiss di questo Andante concertato, la cui scrittura musicale
orizzontale assegna ad ognuno dei quattro personaggi un
preciso ruolo drammatico che accompagna la relativa azione:
il corteggiamento del superficiale Duca a Maddalena, il
compiacimento complice di quest’ultima che ridacchia, la
sofferenza di Gilda che piange, la rabbia di Rigoletto che cerca
di controllare i propri impulsi.
Annus mirabilis
Nel 1851 a Hyde Park la
regina Vittoria inaugura
la Grande Esposizione
Universale; Luigi
Napoleone Bonaparte
con un colpo di stato si
proclama imperatore dei
francesi con il nome di
Napoleone III; un cavo
telegrafico sottomarino
fra Dover e Calais mette
in comunicazione la
Francia e l’Inghilterra;
Cavour firma due
trattati doganali,
primo atto di vero
liberismo commerciale;
viene emesso il primo
francobollo d’Italia;
nascono Vincent D’Indy,
Aristide Bruant e
Margherita di Savoia,
prima regina d’Italia;
nasce l’America’s Cup
e, a Baltimora, la prima
fabbrica del gelato; esce
il primo numero del
quotidiano New York
Times; viene pubblicato
Moby-Dick di Herman
Melville; in un discorso
all’Assemblea Nazionale
francese Victor Hugo
usa l’espressione “Stati
Uniti d’Europa”; Annibale
de Gasparis scopre
l’asteroide 15 Eunomia
mentre William Lassell
scopre Ariel e Umbriel,
satelliti di Urano;
muoiono Mary Shelley
e Gaspare Spontini;
viene eseguita la Terza
sinfonia (“La Renana”)
di Schumann; Wagner
inizia la stesura della
Tetralogia; Baudelaire
scrive i Journaux
intimes; Liszt completa
i 12 Studi di esecuzione
trascendentale;
Schopenhauer, ormai
anziano, ottiene il
successo come pensatore.
(Chiara Rizzo)
13
Rigoletto, foto di scena
RIGOLETTO in BRIEF
Anna Cepollaro
In spite of the censorship problems he had already had to face
with his Stiffelio, Giuseppe Verdi decided to set to music Le Roi
s’amuse, Victor Hugo’s five-act play which had been banned in
Paris immediately after the first performance, on 22 November
1832 at the Comédie-Française, and which the Venetian censors
considered indecorous on account of the fact that the most
negative role was irreverently assigned to a sovereign. “The
poet Piave and the famous maestro Verdi were unable to find
any better way of showing off their talents than by indulging in
repugnant immorality and crude obscenity,” was the view of the
Governor of Venice on reading the first edition of the libretto
on 28 November 1850. Verdi, on the other hand, wrote to the
librettist Francesco Maria Piave, in a letter of the same year, that
“Le Roi s’amuse is the greatest subject and maybe the greatest
drama of modern times”.
The opera opened at Venice’s La Fenice Theatre on 11 March
1851, with Teresa Brambilla in the role of Gilda, Felice Varesi
playing Rigoletto, and Raffaele Mirate as the Duke. Being used
to having to adopt a cautious policy when dealing with the
diktats of the censors, the musician and his librettist demoted
the king to the rank of duke, changed the names of many of the
characters and switched the scene from the French court to the
Duchy of Mantua. Moreover, Verdi did not want the king but
the court jester as his protagonist: whence the title Rigoletto
(derived from the French character Triboulet), which replaced
the censored La Maledizione [The Curse].
Public acclaim was immediate but the critics were unsure how
to react. The work, in fact, represents a break with certain
operatic conventions: “I wrote Rigoletto without arias, without
crescendos, and with an interminable series of duets,” declared
Verdi. In a veritable coup de théâtre, the Duke’s famous aria
“La donna è mobile” appears without warning. And, as Julian
Budden points out, the fact that he, of all people, is the one
to sing about the inconstancy of women is a neat ironic touch,
inspired by the original play. Both the drama and melodrama
are driven by painful, uncontrolled passions, by the frenzied
aspiration of “the most noble of creatures”, as Hugo defines
Anna Cepollaro
After working for a
number of years as a
presenter and consultant
for the Italian radio
station Radio Tre, she
is currently working
as a music critic for
the newspaper “La
Repubblica”. As well as
being responsible for
scheduling for the Rome
Opera House, she writes
reviews of operatic
productions and music
festivals. In 2012 she was
involved in overseeing the
production of Cimarosa’s
“Il marito disperato”
directed by Paolo Rossi
at the San Carlo Theatre
in Naples. She teaches
Communication Skills
and Techniques for
the Organisation of
Performing Arts Events.
15
Rigoletto, foto di scena
man, towards woman, who for the French poet and dramatist is
“the most sublime of ideals”.
In Rigoletto, as in La Traviata and, in part, in Il Trovatore, the
operas of the so-called ‘popular trilogy’, Verdi further develops
his basic new idea of placing a sole protagonist at the centre of
a work and arranging the other characters, who cannot be easily
classified in the traditional categories of good and bad, around
him. The morality of the characters is usually also reflected in
the voices of those who play them: the tenors and sopranos
tend to be good and in love while the evil baritone is set against
them. In this case, however, the Duke-tenor, who sees women
simply as objects, can hardly be considered good, while Rigoletto, the baritone, is not all bad: Verdi begins by focusing on
his paternal feelings before delving into the more tortuous and
obscure sides of his character. The tension that builds in the
sombre scene involving the protagonist and Sparafucile, and in
the subsequent “Pari siamo”, is released in the formal regularity
of the duet with Gilda, which evokes the tender feelings of
father for daughter. From the dark depths of his conscience,
Rigoletto emerges into the light thanks to the atmosphere of
serenity and affection created by the innocent young girl. Before
the end of the second act, however, the anger which can be
glimpsed in him during “Tutte le feste al tempio” will explode in
“Si, vendetta”. The tragic consequences of his rage become the
focal point of the whole story.
The opening of the final act contains two of the opera’s most
famous pieces: in addition to “La donna è mobile”, there is the
quartet “Bella figlia dell’amore”. “Instead of confronting each
other, tragedy and comedy confront the audience,” wrote
the musicologist Piero Weiss of this Andante concertato,
in which the music assigns to each of the four characters a
precise characteristic to accompany his or her dramatic role:
superficiality in the case of the Duke, as he seeks to woo
Maddalena; Maddalena’s self-satisfied complicity as she
responds with giggles; Gilda’s suffering, which brings her to
tears; and the anger that possesses Rigoletto in spite of his
attempts to control his own impulses.
17
Rigoletto, durante le prove
TRAMA D’AUTORE
Rigoletto, Mantova
e la Maledizione di Monterone
di Philip Gossett
‘Di cosa tratta il Rigoletto?’: questa sembrerebbe una
domanda semplice, alla quale si potrebbe rispondere
raccontando una storia: la storia del Duca di Mantova,
della città da lui governata, del suo gobbo buffone di
corte, Rigoletto, e della figlia del buffone, Gilda. Una storia
d’amore, inganno, vendetta e morte. La storia, ovviamente,
è essenzialmente la stessa raccontata dal drammaturgo,
novellista e poeta Victor Hugo, nel suo dramma Le Roi
s’amuse (Il Re si diverte). E in questo senso l’opera e il
dramma hanno e che fare con le stesse cose.
Chi ama l’opera lirica, tuttavia, non potrebbe accontentarsi
di questa spiegazione. Nelle opere più belle, la musica è più
di un accompagnamento alla storia: è attraverso la potenza
della musica che la storia viene raccontata, i personaggi si
realizzano e l’intensità del dramma si definisce.
Verdi lesse il dramma di Hugo, se ne innamorò, e si convinse
a tradurlo in musica. Ma sapeva che i censori austriaci, a
Venezia, dove si sarebbe tenuta la prima, avrebbero posto
obiezioni alla storia. Infatti, nel maggio 1850, scrisse al suo
librettista, Francesco Maria Piave:
Oh Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran
dramma dei tempi moderni. Tribolet [più tardi, Rigoletto]
è creazione degna di Shakespeare!! [...] Ebbene, adunque,
interessa la Presidenza, metti sottosopra Venezia e fai che
la Censura permetta questo soggetto.
Verdi era preoccupato per il soggetto dell’opera poichè il
dramma teatrale aveva avuto enormi problemi con i censori.
Un Re francese, Francesco I, che sulla scena si comporta
come un libertino e seduce una fanciulla innocente, il
desiderio di vendetta del buffone, l’appuntamento del Re
con una prostituta in una locanda isolata: erano temi che
difficilmente sarebbero stati accolti con indifferenza dal
nervoso governo francese, e Le Roi s’amuse era stato proibito
dopo una sola recita.
Sebbene il suo librettista fosse nervoso su molti aspetti,
incluso il palco diviso nell’ultimo atto e la deposizione
del corpo di Gilda in un sacco, Verdi lo rassicurava
Philip Gossett
Philip Gossett è uno
dei più illustri studiosi
delle opere di Gioachino
Rossini. Nato a New York
nel 1941 si è laureto
in musicologia presso
la Princeton University
e si è poi trasferito a
Parigi per approfondire
lo studio del linguaggio
musicale rossiniano.
Dal 1968 insegna alla
Chicago University
ed è presidente della
American Musicological
Society. Fino al 2006
ha collaborato con la
Fondazione Rossini di
Pesaro e con il Rossini
Opera Festival. Fino alla
scorso anno ha insegnato
Filologia musicale presso
l’Università La Sapienza
di Roma. E’ autore di
una trentina di volumi
dedicati a Rossini e ha
curato l’edizione critica di
undici opere di Giuseppe
Verdi. Fra le edizioni
critiche rossiniane le più
importanti sono quelle
di Ermione, Semiramide
e Tancredi. Si è dedicato
anche alle opere teatrali
di Donizetti e alla storia
sociale dei teatri italiani
dell’Ottocento.
19
continuamente. In una lettera di giugno, il compositore
spiegava il suo pensiero sul tema del dramma:
In quanto al titolo quando non si possa tenere Roi s’amuse
che sarebbe bello... il titolo deve essere necessariamente
La Maledizione di Vallier [più tardi, Monterone], ossia
per esser più corto, La Maledizione. Tutto il soggetto è in
quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice
padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso
da un buffone di corte che il padre maledice, e questa
maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone,
mi sembra morale e grande, al sommo grande. Bada che
La Vallier non deve comparire (come nel francese) che
due volte e dire pochissime parole enfatiche, profetiche.
Ti ripeto che tutto il soggetto sta in quella maledizione.
Le paure sia di Piave sia di Verdi che il libretto potesse
scontrarsi con i censori veneziani erano tutte corrette. Seri
problemi sorsero in ottobre e novembre 1850. In alcuni
casi, Verdi trovò un compromesso: stava predisponendo
di sostituire la corte di Francia con una piccola corte del
Rinascimento italiano, purché ci fosse un sovrano assoluto.
Perciò, sebbene non fosse originariamente ideato per
Mantova e non necessitando di quel tipo di ‘colore locale’
presente, ad esempio, in Tosca o Carmen, Verdi era
perfettamente a suo agio ad immaginare Mantova come il
luogo dove si svolgeva l’opera.
Questo non fu un compromesso per lui: ciò che importava
erano i personaggi e le loro interazioni, e quelli gli fu
consentito di conservarli intatti. Era anche preparato a
omettere la scena in cui il Duca trionfante esibisce la chiave
della camera in cui Gilda rapita si è rinchiusa (il risultato,
comunque, è l’unica vera debolezza drammaturgica del
Rigoletto, la scena del Duca all’inizio del II Atto, dove i suoi
voti al “Possente Amor” sembrano insinceri.)
Ma su molti altri aspetti inquisiti dai censori, Verdi resistette
risolutamente, rifiutando il libretto sostitutivo che gli era
stato inviato. La sua lettera dell’11 dicembre alle autorità
di Venezia è una affermazione di maturità artistica del
20
compositore. Eccone alcuni estratti:
Il Duca diventa un carattere nullo e il Duca deve essere
assolutamente un libertino, senza di ciò non si può
giustificare il timore di Triboletto che sua figlia sorta
dal suo nascondiglio, senza di ciò è impossibile questo
Dramma.
Non capisco perché si sia tolto il sacco: cosa importava del
sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta
dire, perché ne vogliono sapere in questo più di me?
[...] Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli
una mezza ora al cadavere senza che un lampo venga a
scoprirlo per quello di sua figlia.
Osservo infine che si è evitato di fare Triboletto brutto e
gobbo!! Per qual motivo? Un gobbo che canta dirà taluno!
e perché no?... Farà effetto?... non lo so, ma se non lo
so io, non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa
modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare
questo personaggio esternamente defforme e ridicolo, ed
internamente appassionato e pieno d’amore.
Una delle principali obiezioni di Verdi riguarda la maledizione:
Nella scena V dell’Atto Io, l’ira de’ cortigiani contro
Triboletto non ha senso. La maledizione del vecchio,
così terribile e sublime nell’originale, quì diventa ridicola
perché il motivo che lo spinge a maledire non ha più
quell’importanza e perché non è più il suddito che parla
così arditamente al suo re. Senza questa maledizione
quale scopo, quale significato ha il Dramma?
E Verdi conclude:
Scelsi appunto tale soggetto per tutte queste qualità e
questi tratti originali, se si tolgono io non posso più farvi
musica. Se mi si dirà che le note possono stare egualmente
su questo dramma, io rispondo che non comprendo
queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle
o brutte che sieno non le scrivo a caso, e che procuro
sempre di darvi un carattere. In somma di un dramma
originale, potente, se ne è fatto una cosa comunissima, e
fredda. [...] in coscienza d’artista io non posso mettere in
21
Rigoletto, foto di scena
musica questo libretto.
La retorica di Verdi era così potente che i censori, in effetti,
cedettero, e la maggior parte di quanto avevano bloccato
fu in seguito permessa. Egli passò gran parte di gennaio
e febbraio a comporre e a orchestrare la partitura, e la
prima ebbe un enorme successo l’11 marzo 1851. Da quel
momento, Rigoletto è sempre stato ambientato a Mantova, e
la scena funziona molto bene: con la presenza di un sovrano
assoluto libertino, la maledizione di un padre la cui figlia è
stata stuprata dallo stesso re, i cortigiani, il buffone e le sue
burle, l’assassino e sua sorella, la prostituta, la locanda sulla
sponda deserta del Mincio (per anni le edizioni stampate
riportavano che l’azione si svolgeva sulla sponda destro del
Mincio, un totale nonsense...), Verdi aveva tutto ciò che
occorreva per ambientare perfettamente l’opera a Mantova
e, in questa realizzazione, nella città reale e nei suoi dintorni.
Verdi era preoccupato non soltanto del luogo, ma anche del
periodo. Piave originariamente ideò l’azione in modo che,
dopo la festa al palazzo del Duca, tutto il resto dell’opera
avesse luogo nella stessa notte. Ma presto realizzò che,
se la festa doveva terminare all’alba, non c’era il tempo di
pianificare e portare a termine il rapimento di Gilda nella
stessa notte. Così modificò il testo della parte cantata dai
cortigiani nel II Atto, così da far rapire Gilda la notte dopo
la festa. Ma Verdi era consapevole che avrebbe dovuto
cambiare il testo nel I Atto, dove originariamente vi erano
i cortigiani che venivano alla “Stasera” di Ceprano. Disse
a Piave di modificarlo in “Domani”, e il librettista cambiò
il suo testo. Verdi inserì il testo rivisto la prima volta che
appariva, ma la seconda volta dimenticò di modificarlo. Così,
per molti anni tutte le edizioni dell’opera riportavano che
Ceprano diceva ai cortigiani di andare da lui “Domani” e poi,
dopo poche battute, “Stasera”. La nuova edizione critica ha
corretto ciò, come Verdi sicuramente intendeva. Quello che
importa alla fine, comunque, non è che il rapimento si svolga
nella stessa notte o quella successiva, ma che il riferimento
sia coerente.
23
Rigoletto, durante le prove
Tempo e spazio nella ‘trilogia
popolare’ di Verdi
di Paolo Gallarati
Con Rigoletto (1851), Il Trovatore (1853) e La Traviata (1853)
Verdi s’insediava definitivamente nella cerchia dei massimi
operisti di tutti i tempi: la straordinaria energia musicale
e la capacità di concentrazione drammatica esibite nelle
prime opere venivano poste al servizio di soggetti che, per
la loro originalità, la potenza dei caratteri e la tensione
teatrale, spalancavano nuovi orizzonti al teatro moderno.
Di punto in bianco, con Rigoletto, il melodramma verdiano
si svincola volutamente dai modelli consueti, a cominciare
dagli argomenti che escono completamente dalla moda
librettistica del tempo. La consapevolezza di Verdi a tale
proposito è inequivocabile, come mostra la lettera a Cesare
de Sanctis, del primo gennaio 1853:
Io non vi nascondo che leggo mal volentieri libretti che mi si
mandano: è impossibile, o quasi impossibile che un altro indovini
quello che io desidero: io desidero soggetti nuovi, grandi, belli,
variati, arditi... ed arditi all’estremo punto, con forme nuove ecc.
ecc., e nello stesso tempo musicabili... Quando mi si dice: ho
fatto così perché così han fatto Romani, Cammarano ecc., non
s’intendiamo più: appunto perché così han fatto quei grandi, io
vorrei si facesse diversamente.
Una poetica innovativa, dunque, che non investe solo
la scelta del soggetto, ma anche la sua veste formale. A
partire da Rigoletto, infatti, la drammaturgia verdiana, che
per sintesi, velocità di decorso e forza dei contrasti aveva
trasformato, sin dall’inizio, il melodramma italiano, non
è più riempita di contenuti generici: l’impostazione degli
atti, il taglio delle scene, la loro articolazione nel tempo e
nello spazio, gli argomenti e la distribuzione dei dialoghi e
dei monologhi, le forme musicali e la scelta dei materiali
discendono per deduzione dal contenuto drammatico
del soggetto, mentre i vari strati compositivi – letterario,
scenografico, drammatico, musicale – acquistano una
interdipendenza così stretta che li condiziona a vicenda e
conferisce all’opera una poderosa unità. Tra l’argomento e
la veste formale si stabilisce una compenetrazione assoluta:
nulla è più, neppur minimamente, fungibile. Ce lo suggerisce
Paolo Gallarati
è uno dei maggiori
musicologi e critici
musicali italiani. Nato a
Torino nel 1948, allievo
di Massimo Mila, è
professore ordinario
di Istituzioni di Storia
della musica e di
Drammaturgia musicale
presso l’Università
di Torino. Collabora
stabilmente al quotidiano
“La Stampa” e al mensile
“Amadeus”. Tra i suoi
libri Musica e maschera.
Il libretto italiano del
Settecento e La forza
delle parole. Mozart
drammaturgo che ha
ottenuto il “Premio
Internazionale Massimo
Mila per la saggistica
musicale”. Nel 2011 gli è
stato assegnato il Premio
“Mario Soldati”. Fa parte
del Comitato d’onore
della edizione critica
delle “Opere di Gioachino
Rossini”.
25
anche il vecchio, e oggi un po’ sopravvalutato Basevi, quando
scrive:
La musica trova però nel concetto generale del dramma un punto
di appoggio, un centro verso cui convergono più o meno, secondo
l’ingegno del maestro, i vari pezzi che compongono l’Opera; ed
allora si ottiene ciò che chiamasi il colorito o la tinta generale.
E qualche riga sotto:
È indubitato che il colorito generale di un’Opera rivela meglio d’ogni
altra cosa l’ingegno del maestro, perché ne mostra l’indole sua
sintetica.
Queste affermazioni sembrano ispirate direttamente da Verdi
e tracciano una strada molto precisa per la critica; ma restano
vaghe se non vengono riferite ad un concetto operativo che
spieghi l’origine di questa unità sintetica. In Rigoletto, Il
Trovatore e La Traviata è possibile, secondo me, individuare
questo dispositivo nell’esperienza del tempo, assunta come
soggetto della rappresentazione drammatica. Sin dal Nabucco,
Verdi compie una operazione sul tempo: le lentezze, le
dilatazioni, le simmetrie a distanza dei dialoghi in musica, i
lunghi interventi orchestrali tra una battuta e l’altra, la
ripetizione delle parole, insomma, la definizione di un tempo
ideale come condizione comunicativa a priori viene sostituita
da un tempo molto più realistico, che mira a rappresentare i
ritmi della vita: la stessa operazione, in pratica, compiuta da
Mozart nei confronti dell’opera buffa italiana, con altri mezzi e
in altro contesto estetico e stilistico, ma con gli stessi intenti di
forte individualizzazione drammatica. Ma, come sappiamo,
non esiste un solo modo di vivere il tempo dell’esistenza: nella
‘trilogia popolare’ Verdi scopre che la musica ha il potere di
rappresentarne diversi, e in tal senso differenzia Rigoletto, Il
Trovatore e La Traviata. Rigoletto è l’opera del tempo sospeso.
Un presagio di sventura la domina da capo a fondo nell’attesa
di eventi che incombono, dirottando l’attenzione dello
spettatore dai fatti reali al mistero di ciò che può accadere.
26
Leggere
Una lettura preliminare
utile per la conoscenza
di Rigoletto è il capitolo
ad esso dedicato nel
fondamentale saggio
di Julian Budden
intitolato Le opere
di Verdi, pubblicato
in tre volumi da EDT
(volume I, Da Oberto a
Rigoletto, Torino, EDT,
1985, pp. 521-558).
Nuove prospettive nella
ricerca verdiana sono
fornite da Philip Gossett
e dagli altri studiosi
intervenuti nel convegno
internazionale svoltosi
a Vienna nel 1983, in
occasione della prima
del Rigoletto in edizione
critica, nei relativi atti
(Parma, Istituto di Studi
Verdiani/Milano, Ricordi,
1987). Un’ampia analisi
drammatico-musicale
del capolavoro verdiano
è fornita da Marcello
Conati nell’omonimo
saggio edito da Marsilio
nel 1992. La bottega della
musica. Verdi e la Fenice
(Il Saggiatore, 1983),
dello stesso autore,
approfondisce i rapporti
del compositore con il
teatro che ospitò la prima
Così, le situazioni drammatiche e musicali sono sovente
interrotte dall’arrivo di altri personaggi, e il ‘tuffo al cuore’, lo
spavento, il dubbio, l’incertezza sono stati d’animo ricorrenti la
cui forza espressiva prorompe in due situazioni chiave:
quando Rigoletto s’aggira, canterellando con finta indifferenza,
mentre cerca Gilda nel palazzo dove è tenuta prigioniera; poi
durante l’ultimo atto, percorso dall’attesa della tempesta che
incombe sulla scena con i suoi rumori e il bagliore dei lampi,
così come la morte si profila minacciosa sul destino dei singoli.
Rigoletto predilige il declamato: prende atto razionalmente
della sua condizione esistenziale e trova nella lingua, l’unico
mezzo per dominare il mondo (“Pari siamo, io la lingua egli ha
il pugnale” dice a proposito di Sparafucile). Il suo antagonista,
il Duca di Mantova, è invece tutta musica: canta melodie
sfrontate che sovente deformano la parola. Rigoletto, creatura
della lingua, si oppone al Duca, creatura della musica: il
contrasto tra i due assume, così, una potenza inaudita di
raffigurazione tragica. Tra lingua e musica il conflitto è aperto:
per questo nel Rigoletto la forma musicale è sovente rotta,
spezzata: il declamato la corrode dall’interno, e
massimamente nel Terzetto dell’ultimo atto, che riproduce
nella propria forma il dramma della distruzione morale. Alla
fine il protagonista è schiacciato: Rigoletto non muore, non si
uccide, come farà Otello, spirando dolcemente sul cadavere di
Desdemona, ma assiste impietrito alla morte di Gilda. Il futuro
si chiude davanti a lui, respingendolo in uno stato di
alienazione senza scampo: l’uomo, che si realizzava nell’amor
paterno, torna ad essere un burattino condannato alla
dannazione del riso. In Rigoletto manca la catarsi, la
trasfigurazione. Se i personaggi del Rigoletto vivono in un
presente sospeso sull’abisso, quelli del Trovatore sono
continuamente proiettati in un romantico altrove, tesi nel
ricordo o nell’immaginazione. I pochi fatti che accadono in
quest’opera sono solo pretesti per evocare situazioni passate
o immaginare eventi futuri. I racconti e le immagini che
abbagliano la mente hanno quindi nel Trovatore un’enorme
importanza: opera “lirica”, se mai ve ne fu, bloccata in una
assoluta dell’opera. Sugli
effetti della censura
letteraria nella genesi
dell’opera interessante è il
libro di Mario Lavagetto,
Un caso di censura. Il
Rigoletto, pubblicato nel
1979 e recentemente
riedito da Bruno
Mondadori (2010).
(Chiara Rizzo)
27
fissità contemplativa da cima a fondo, questa partitura è
estranea sia al tempo drammatico del Rigoletto, che si carica
di elettricità nella misura in cui indugia nell’attesa, sia a quello
incalzante della Traviata. L’originalità del Trovatore consiste in
un miracoloso ossimoro: fissate nel tempo metafisico
dell’immaginazione, del ricordo o della visione, le statiche
situazioni sono trascinate dalla musica in una corrente
precipitosa, sferzata ovunque da uno scatto giambico che dal
racconto di Azucena, che evoca il guizzo della fiamma, si
propaga, come un tizzone ardente, in tutta la partitura per
alimentare il fuoco delle passioni che divora l’animo dei
personaggi. Questo uscire dal presente, per vivere in un
mondo immaginario e visionario, impone a Verdi una scelta
stilistica totalmente diversa da quella del Rigoletto: il
declamato sinfonico che là coglieva la flagranza del presente
qui, in pratica, non esiste; sola, divampa la melodia, libera dai
legami della parola, in pezzi rigorosamente chiusi e collegati
da pochi, sommari recitativi. Se Rigoletto è fatto di trapassi
graduali, sfumature, mezzetinte, Il Trovatore vive invece di
brusche antitesi: il modo maggiore si oppone al minore, la
melodia al recitativo volutamente banale, il bagliore del fuoco
all’oscurità delle tenebre, la vita alla morte che Leonora
affronta consapevolmente, vincendo il destino avverso con un
atto supremo di fedeltà a Manrico. Dopo Rigoletto, il mondo
morale di Verdi subisce una svolta: d’ora in poi i suoi
personaggi affronteranno le avversità del destino con la forza
serena che nasce in loro dall’attaccamento ai grandi valori
morali. Il tempo della Traviata ci riporta sulla terra, ma lo
scorrere dell’esistenza è totalmente diverso rispetto a quello
di Rigoletto. Domina, infatti, un’ansia precipitosa: il tempo
corre, la giovinezza sfiorisce, le notti sono troppo corte per
divertirsi appieno; e, soprattutto, c’è un il limite, fissato dal
destino, alla possibilità di amare. “È tardi!” esclama Violetta
nell’ultimo atto. Ma è sempre tardi nella Traviata. Così, se il
tempo sospeso di Rigoletto tende a rallentare, quello ansioso
della Traviata, spinto dal perdurante ritmo di valzer, va verso
l’accelerazione: rappresentabile da un otto rovesciato, come
28
ha osservato Rémi Hess, che in matematica è il segno
dell’infinito, la figura coreografica del valzer sembra alludere
al tentativo di trattenere all’infinito qualche cosa che sfugge.
Questo conferisce alle forme chiuse della Traviata, sovente
modellate sullo schema francese dell’aria a couplets, un
dinamismo del tutto diverso dalla mobilità immobile che
caratterizza le fiamme reali e metaforiche del Trovatore. Nella
sovrabbondanza melodica della Traviata la parola non è
ostentata, come in Rigoletto, né conculcata come nel
Trovatore; nella parte di Violetta essa nutre la melodia con i
suoi accenti, le dà verità e spessore, si fa tramite di esperienze
interiori. Lo stile della Traviata è una sintesi tra la tendenza al
declamato espressivo, tipico del Rigoletto, e il trionfo della
melodia pura, affermatosi nel Trovatore. Non si tratta,
beninteso, di un “progresso”, ma di una diversa organizzazione
dei medesimi ingredienti stilistici in vista di nuove esigenze
drammatiche ed espressive. Non solo le melodie di Violetta,
come quelle di Rigoletto, e diversamente da quelle del
Trovatore, nascono tutte dal suono della parola; anche i suoi
declamati, o semplici recitativi, sono impregnati di melodia.
Questo dà al canto un aspetto naturale e vero, rende il calore
dell’umanità riconquistata dopo i gorgheggi da usignolo
meccanico che ritraevano, nel primo atto, l’esistenza alienata
della donna perduta. Nella sua fusione di accento e melodia,
la parte di Violetta è particolarmente moderna, e si oppone a
quella di Germont che canta nel vecchio stile donizettiano,
meccanizzando la prosodia in una rappresentazione
compassata del perbenismo borghese e della sua indifferenza.
Se è vero che il tempo è l’elemento più importante della
musica, Verdi, assumendolo come una sorta di protagonista
occulto, conferisce dunque ai soggetti della ‘trilogia popolare’
una predisposizione speciale all’incontro con la musica. Mai
più userà, ad esempio, con la stessa efficacia lo choc allusivo
della reminiscenza, che afferma la continuità del tempo,
ripresentando a distanza i temi musicali collegati con le idee
fisse che condizionano le esistenze di Rigoletto, Azucena e
Violetta: l’idea della maledizione, quella del fuoco e quella
29
dell’amore redentore. Considerando l’isomorfismo che collega
la musica e l’esperienza del tempo, si capisce perché Rigoletto,
Il Trovatore e La Traviata si siano imposte alla coscienza
moderna come le tre incarnazioni più tipiche del melodramma
assoluto. E se la funzione principale del poeta drammatico è
quella, shakespeariana, di imporre al teatro il proprio tempo,
si comprende quanto fosse profondo il legame di Verdi con il
suo modello supremo, che era, per inciso, anche quello di
Wagner, responsabile, come è noto, di una vera rivoluzione
nella concezione del tempo musicale in funzione drammatica.
A questo si aggiunge, nella ‘trilogia popolare’, un nuovo
impiego dello spazio. Non si tratta dei soliti effetti di voci e
strumenti fuori scena, ma di una ricostruzione musicale dello
spazio inteso come proiezione dell’interiorità. Il dispositivo
determinante è quello di rendere il primo piano indipendente
dallo sfondo. Non era ancora così nella festa di Ernani, dove il
coro, sulla scena, cantava gli stessi motivi della musica dietro
le quinte. Del tutto indipendenti sono invece, nella festa che
apre Rigoletto, il canto in primo piano e le danze nelle sale
interne. Questo genera due spazi distinti, con uno strano
effetto di vuoto intermedio prodotto dal lungo intervento
iniziale della musica fuori scena, nel silenzio dell’orchestra. Gli
spazi si moltiplicano in seguito, quando entrano in gioco
addirittura quattro fonti sonore: i cantanti, l’orchestra che
suona in modo intermittente, la banda interna e un gruppo di
archi sul palcoscenico. Il modello è chiaro: la scena del ballo
nel Don Giovanni. Ma là l’effetto era di addensamento
centripeto, mentre qui mira alla dispersione: i quattro temi di
danza, mescolati alla rinfusa nello spazio sonoro, frantumato e
instabile, rendono alla perfezione quel luogo dell’ebbrezza e
del disordine in cui prendeva posto l’orgia prescritta da Victor
Hugo, prudentemente espunta da Piave ma realizzata
puntualmente da Verdi nel vorticoso accoppiamento dei temi
di danza. La frantumazione dello spazio potenzia, in Rigoletto,
l’espressione del tempo sospeso: si veda la pantomima di
“Caro nome” con Gilda che appare in strada, sparisce dentro
la casa, riappare sulla terrazza, mentre in primo piano il coro
30
dei rapitori, trattenendo il respiro, ne commenta la bellezza;
oppure la stamberga di Sparafucile, vista in sezione e divisa tra
alto e basso, fuori e dentro, centro di una frantumazione
spaziale che si estende al paesaggio, con i suoni e i rumori del
vento, del tuono, dell’orologio che segna le ore, di Gilda che
batte alla porta, della canzone del Duca, tutti provenienti da
punti diversi, vicini e lontani, segno della casualità del destino
che sta per colpire gli uomini. Nel Trovatore i casi frequenti di
voci e suoni fuori scena hanno altre funzioni: determinano
sempre una peripezia; concretano le immagini evocate nel
tempo metafisico delle visioni; ci trasportano in una
dimensione assoluta, in cui avviene lo scontro tra princìpi
primordiali, come quello tra amore e morte nella scena del
“Miserere”, o tra sacro e profano in quella del chiostro. Nella
prima scena della Traviata, il contrasto tra la festa che
continua nelle stanze interne, e il dramma privato che si
svolge in primo piano, rende icastica la contrapposizione tra
Violetta e l’ambiente da cui lei si staccherà, ritrovando se
stessa. Per non dire dello straordinario effetto determinato,
alla fine del primo atto, dal canto fuori scena di Alfredo, così
ricco di valenze psicologiche, spaziali, semiotiche, memoriali
che sarebbe qui troppo lungo illustrare e che danno a quel
canto una forza impressiva adeguata al contenuto che deve
rappresentare. La funzione espressiva ottenuta attraverso
l’articolazione sonora dello spazio non si esaurisce, infatti, nel
singolo quadro ma finisce per riverberarsi su tutta l’opera:
essa, infatti, non solo esalta contenuti specifici, ma presta una
dimensione fisica alla durata interiore. “Il tempo qui diventa
spazio” potremmo commentare, rubando la battuta dalla
bocca di Gurnemanz. Queste e altre differenze, impossibili,
qui, da analizzare, caratterizzano le parti della ‘trilogia
popolare’, trilogia fondamentalmente disunita che addita nella
poliedricità il tratto più stupefacente dell’invenzione verdiana,
capace non solo di rinnovarsi nel tempo ma di incarnare
un’idea morale in modi diversissimi, nel breve volgere di due
anni cruciali.
31
Rigoletto, foto di scena
Rigoletto:
la genesi dell’opera
di Julian Budden
Nell’aprile del 1850 Verdi aveva firmato un contratto con il
Teatro La Fenice di Venezia per l’allestimento di una nuova
opera. Il librettista doveva essere Piave, la data per la messa
in scena il periodo compreso fra il carnevale e la quaresima
del 1851; l’argomento dell’opera non era ancora stato scelto,
anche se il Kean di Dumas era fra i primi nell’elenco dei
possibili.
In realtà, Verdi e Piave non si erano ancora messi d’accordo
sul contenuto del lavoro che avrebbero dovuto consegnare
a Ricordi ai primi d’autunno. Quindi verso la fine del
mese, mentre attendeva ancora di saperne di più sulla
trama di Stiffelio, Verdi scrisse a Piave con una nuova idea,
introducendola con una cautela quasi furtiva che indica
quanto fosse consapevole dei rischi impliciti nella proposta.
Difficilmente troveremo cosa migliore di Gusmano il Buono,
nonostante avrei un altro soggetto che se la polizia volesse
permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro
moderno. Chi sa! Hanno permesso l’Ernani potrebbe (la polizia)
permettere anche questo, e qui non ci saranno congiure.
Tentate! Il soggetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che
è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi
e di tutte le epoche. Il soggetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere
di cui parlo sarebbe Tribolet che se Varese è scritturato nulla di
meglio per lui e per noi.
P.S. Appena ricevuta questa lettera mettiti quattro gambe:
corri per tutta la città, e cerca una persona influente che possa
ottenere il permesso di fare Le Roi s’amuse. Non addormentarti:
scuotiti: fa presto. Ti aspetto a Busseto ma non adesso, dopo che
avremo scelto il soggetto.
Alcuni giorni dopo, nella stessa lettera nella quale dava il
proprio assenso allo Stiffelio per Ricordi, Verdi scriveva:
Julian Budden
è considerato uno dei
più autorevoli studiosi
verdiani del Novecento.
Nato in Inghilterra nel
1924 e scomparso a
Firenze nel 2007, ha
legato la sua fama ad
un’opera in tre volumi,
pubblicata tra il 1973
e il 1981, dedicata
alla ventisette opere
di Giuseppe Verdi. Nel
2002 ha anche realizzato
una fondamentale
monografia su Giacomo
Puccini. Ha studiato al
Royal College di Oxford e
al Royal College of Music
di Londra. Dal 1951 al
1983 ha lavorato come
produttore radiofonico
presso la BBC. Si è poi
stabilito a Firenze dove è
stato corrispondente per
la rivista “Opera”. Anima
instancabile dell’Istituto di
Studi Verdiani di Parma,
ha diretto fino alla morte
il Centro di Studi Giacomo
Puccini di Lucca.
Oh Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma
dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!!
Altro che Ernani!! è soggetto che non può mancare. Tu sai che 6
anni fa quando Mocenigo mi suggerì Ernani, io esclamai: “sì, per
Dio… ciò non sbaglia”. Ora riandando diversi sogetti quando mi
passò per la mente Le Roi fu come un lampo, un’ispirazione e
dissi l’istessa cosa… “sì, per Dio ciò non sbaglia”.
33
Non si trattava, comunque sia, di amore a prima vista. L’anno
precedente Verdi aveva suggerito a Flauto quest’opera
teatrale di Hugo come possibile soggetto per Napoli. Tuttavia,
solo quando Cammarano e Shakespeare si eclissarono,
almeno temporaneamente dall’orizzonte verdiano, il
compositore sembrò cogliere in pieno le possibilità offerte
da Le Roi s’amuse. Come al solito, Piave fece quanto Verdi gli
diceva. Ottenne assicurazioni, sia pure vaghe, che il soggetto
sarebbe stato permesso, e già dal mese di giugno, con Stiffelio
ancora in cantiere, discuteva con Verdi sull’impostazione che
si sarebbe dovuta dare alla tragedia di Hugo.
Come sempre Verdi aveva le sua idee, Piave avrebbe dovuto
attenersi il più strettamente possibile all’originale, anche
nella doppia scena dell’ultimo atto e nel particolare del
corpo nel sacco (il librettista aveva sollevato obiezioni in
entrambi i casi). Se non avessero potuto mantenere il titolo
di Hugo (il che sarebbe stato un peccato), l’opera sarebbe
stata ribattezzata La Maledizione di Saint-Vallier, in quanto
l’intera vicenda si impernia sugli avvenimenti che portano
al compimento di tale maledizione. Il personaggio di SaintVallier sarebbe apparso in scena solo due volte, come
avveniva nel testo di Hugo.
Ad agosto suonò il primo campanello dall’arme. Piave si
trovava a Busseto e Verdi lo rispedì immediatamente a
Venezia, con una lettera per Marzari, presidente della Fenice:
Il dubbio che Le Roi s’amuse non si permetta mi mette in grave
imbarazzo. – Fui assicurato da Piave che non eravi ostacolo per
quel soggetto, ed io, fidando nel suo poeta, mi misi a studiarlo, a
meditarlo profondamente, e l’idea, la tinta musicale erano nella
mia mente trovate. Posso dire che per me il principale lavoro era
fatto. Se ora fossi costretto appigliarmi ad altro soggetto, non
basterebbe più il tempo di fare tale studio, e non potrei scriver
un’opera di cui la mia coscienza [non] fosse contenta.
Per il mese di ottobre Verdi aveva la stesura completa del
libretto di Piave e autorizzava Ricordi a pagare al librettista
la prima rata, come dagli accordi stabiliti. Quindi mentre
34
Verdi e Piave erano ancora a Trieste per le prove di Stiffelio,
giunse una lettera di Marzari, ancora più di cattivo augurio,
che chiedeva loro di inviargli il libretto, per sottoporlo alla
Direzione d’Ordine Pubblico. Correva infatti voce che, alla sua
prima apparizione in Francia e in Germania, Le Roi s’amuse
avesse suscitato reazioni sfavorevoli per “la dissolutezza di
cui va gonfio”. Nondimeno la Direzione Centrale confidava
che, in considerazione dell’onestà del poeta e del maestro,
l’argomento sarebbe stato trattato in modo adeguato.
Sembrava che la storia di quest’opera fosse destinata a
ripetere quella del dramma originale.
La prima di Le Roi s’amuse ebbe luogo al Théâtre Français di
Parigi, nel novembre del 1832. L’accoglienza fu tempestosa. Il
giorno seguente, Hugo poté leggere nella bacheca del teatro
l’annuncio che, per ordine del Governo, ogni successiva
replica del dramma era sospesa. Lo scrittore perorò la sua
causa di fronte al Tribunal de Commerce, ma invano. Le
Roi s’amuse non andò più in scena a Parigi fino al 1882. Fu
tuttavia pubblicato e l’autore ne approfittò per aggiungere
una vigorosa difesa della sua opera nella prefazione.
Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è il buffone
di corte; triplice infelicità che lo rende cattivo. Triboulet odia
il re perché è re, i gentiluomini perché sono gentiluomini, gli
uomini perché non hanno tutti una gobba sulla schiena. Il suo
passatempo è di mettere continuamente in urto tra di loro i
gentiluomini e il re, facendo spezzare il più debole contro il più
forte. Deprava il re, lo corrompe, lo abbrutisce; lo spinge alla
tirannide, all’ignoranza, al vizio; lo sguinzaglia attraverso tutte le
famiglie dei gentiluomini, indicandogli continuamente la moglie
da sedurre, la sorella da rapire, la figlia da disonorare. Il re fra le
mani di Triboulet non è che un fantoccio onnipotente che spezza
tutte le esistenze in mezzo alla quali il buffone lo fa muovere. Un
giorno durante una festa, nel momento stesso in cui Triboulet
spinge il re a rapire la moglie del signor di Cossé, il signor di
Saint-Vallier penetra fino al re e lo rimprovera aspramente per il
disonore di Diana di Poitier. Questo padre, al quale il re ha preso
la figlia, Triboulet lo deride e lo gomento reale del dramma è La
maledizione del signor di Saint-Vallier. Ascoltate. Siete al secondo
atto. Quella maledizione su chi è piombata? Su Triboulet buffone
del re? No. Su Triboulet uomo e padre, che ha un cuore, che ha
una figlia. Triboulet ha una figlia, tutto è qui. Triboulet non ha
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al mondo che la figlia; la tiene nascosta a tutti gli occhi, in un
quartiere deserto, in una casa solitaria. Più fa circolare nella città
il contagio della sregolatezza e del vizio, più tiene la figlia isolata
e murata. Educa la sua bambina nell’innocenza, nella fede e nel
pudore. La sua più grande paura è che ella cada nel male, perché
lo sa, lui, il cattivo, quanto il male faccia soffrire. Ebbene! La
maledizione del vecchio raggiungerà Triboulet nell’unica cosa che
egli ami al mondo: in sua figlia. Quel medesimo re che Triboulet
spinge al ratto, rapirà la figlia di Triboulet. Il buffone verrà colpito
dalla provvidenza esattamente nel medesimo modo del signor
di Saint-Vallier. Poi, una volta sua figlia sedotta e perduta, egli
preparerà una trappola al re per vendicarla; ed è sua figlia che
vi cadrà. Così Triboulet ha due allievi, sua figlia e il re: il re che
educa al vizio, la figlia che alleva nella virtù. L’uno perderà l’altra.
Vuol rapire per il re la signora di Cossé, e invece rapisce la propria
figlia. Vuole assassinare il re per vendicare la figlia, ed è la figlia
che egli assassinerà. Il castigo non si ferma a metà strada; la
maledizione del padre di Diana si compie sul padre di Bianca.
La lettera di Verdi a Piave indica che il compositore conosceva
questa prefazione e che non nutriva dubbi a proposito
dell’intento morale della tragedia. Dove si nascondeva
allora il pericolo? In parte nella fama che Hugo aveva di
repubblicano; in parte nella descrizione del libertinaggio
regale rappresentato in atto: un re che progetta di rapire la
moglie di un cortigiano, che si mischia ai frequentatori di
una taverna equivoca e infine, peggio di tutto, la seduzione
di una virtuosa giovinetta. La tragedia comprende una
scena a palazzo, omessa nell’opera, nella quale Bianca, che
è stata rapita, si trova faccia a faccia con il re Francesco, da
essa creduto un povero studente. Resasi conto finalmente
delle intenzioni dell’uomo, Bianca fugge spaventata in una
stanza adiacente, di cui chiude a chiave la porta. Con aria
trionfale il re estrae una chiave di tasca, apre la porta (Bianca
è andata a rifugiarsi proprio nel talamo reale) ed entra nella
stanza ridendo… Sipario. Verdi, prevedendo che sarebbe
stato necessario fare qualche concessione, scrisse a Piave,
autorizzandolo a intervenire saltuariamente sul dialogo,
qualora non se ne fosse potuto fare a meno, ma di non
alterare in nessun modo l’azione, unica eccezione la scena
della chiave. Non sarebbe comunque stato troppo difficile
36
sostituirla con qualcosa di meglio. A parte questo, si doveva
assolutamente conservare la scena in cui il sovrano si recava
nella taverna di Saltabadil, il sicario prezzolato, altrimenti la
tragedia non avrebbe più avuto senso.
Infine ai primi di dicembre giunse la notizia che il
governatore militare di Venezia aveva assolutamente
proibito ogni rappresentazione di Le Roi s’amuse, con o
senza modificazioni. Il governatore deplorava vivamente
che il poeta Piave e il celebre maestro Verdi non avessero
saputo scegliere soggetto più consono al loro talento che
la “ributtante immoralità e oscena trivialità” della trama
della Maledizione. Verdi reagì addossando a Piave l’intera
responsabilità dell’accaduto: era stato affidato a lui, egli disse,
il compito di far passare il soggetto; era stato sulla base delle
assicurazioni date da Piave che Verdi si era messo al lavoro.
Nel frattempo, visto che sarebbe stato impossibile comporre
un’altra opera in tempo per la data stabilita, suggeriva di
mettere in cartellone Stiffelio, che per lo meno avrebbe
costituito una novità per il pubblico veneziano. Egli avrebbe
rifatto l’ultima scena, nel caso fosse stata respinta dai
censori. Marzari ritenne che Stiffelio avrebbe rappresentato
una soluzione di ripiego troppo insoddisfacente e decise di
continuare, insieme a Piave, la lotta per trovare il modo di
aggirare il veto austriaco contro Le Roi s’amuse. Verdi aveva
nel Direttore dell’Ordine Pubblico, Martelli, un simpatizzante;
su suo suggerimento Piave trasformò il libretto in un Duc de
Vendôme. Verdi trovò questa soluzione affatto inaccettabile.
Dalla risposta data a Marzari possiamo desumere che la
moralità del personaggio dovesse risultare irreprensibile: il
Duca non andava in giro a sedurre o a rapire le mogli, le figlie
e le sorelle dei suoi sudditi; né era incoraggiato a compiere
simili imprese dal suo giullare. Perciò…
l’ira de’ cortigiani contro Triboletto non ha senso. – La
maledizione del vecchio, così terribile e sublime nell’originale,
qui diventa ridicola, perché il motivo che lo spinge a maledire
non ha più quell’importanza e perché non è più il suddito che
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parla così arditamente al suo re. […] Il Duca è un carattere nullo:
il Duca deve essere assolutamente un libertino; senza di ciò non
è giustificato il timore di Triboletto che sua figlia sorta dal suo
nascondiglio: impossibile il Dramma. Come mai nell’ultimo Atto
il Duca va in una remota taverna solo, senza un invito, senza un
appuntamento? – non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa
importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si
permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me?
Chi può fare da Maestro? […] Una difficoltà di questo genere
c’era pel corno d’Ernani: ebbene chi ha riso al suono di quel
corno? Tolto quel sacco non è probabile parli una mezza ora a
cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello della
figlia. Osservo infine che si è evitato di fare Triboletto brutto e
gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!… Farà effetto? non lo
so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposta
questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare
questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed
internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto
questo soggetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali,
se si tolgono, io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le
mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo
che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le
mie note o belle o brutte che siano non le scriverò mai a caso e
che procuro sempre di darvi un carattere.
Insomma, di un dramma originale, potente, se ne è fatto una
cosa comunissima e fredda.
Su suggerimento di Marzari, e con l’approvazione di Martelli,
Piave e Brenna si recarono a Busseto per sistemare, una volta
per tutte, la questione della nuova opera per la stagione
del carnevale già cominciata. I tre stilarono e firmarono un
memorandum in sei punti. L’accordo proponeva che: (1)
l’azione fosse spostata dalla corte di Francia e trasferita in
un ducato indipendente, non importa se italiano o francese;
(2) che si mantenessero i personaggi del dramma di Hugo,
cambiando loro solo il nome; (3) che si omettesse la scena
con la chiave della camra da letto; (4) che il Duca fosse
attirato con l’inganno nella taverna di Maguelonne;
(5) che a Verdi solo spettasse decidere, al momento della
stesura, sull’opportunità o no di modificare la scena in cui
Triboulet scopre il corpo di sua figlia chiuso in un sacco;
(6) che, in conseguenza di tutti questi cambiamenti, la
prima dell’opera dovesse essere rimandata sino alla fine di
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febbraio o i primi di marzo. Il censore approvò tutti questi
suggerimenti, divenuti pertanto esecutivi. Francesco I si
tramutò nel Duca di Mantova, forse proprio quel famoso,
o famigerato, Vincenzo Gonzaga, patrono di Monteverdi e
di Tiziano. È pur vero che il suo nome non doveva essere
menzionato, ma “ciò a noi poco deve importare, perché già
si sa chi regnava in quell’epoca” (Verdi). Triboulet divenne
Rigoletto; Bianca, Gilda; il sicario Saltabadil, Sparafucile;
sua sorella Maguelonne, Maddalena; e così via. I signori di
Saint-Vallier e Cossé subirono una duplice trasformazione,
in quanto i nomi loro attribuiti dapprima appartenevano a
famiglie nobili ancora viventi (Castiglione e Cepriano) che
indubbiamente avrebbero potuto risentirsi; pertanto furono
modificati rispettivamente in Monterone e Ceprano. L’opera
stessa, il cui titolo originale doveva essere La Maledizione,
fu ribattezzata secondo il nome del protagonista. Per il 26 di
gennaio, Piave potè annunciare con un “Te Deum Laudamus”
che il Rigoletto era ritornato “sano e salvo” alla Presidenza
della Fenice, “senza fratture o amputazioni” (Piave). Fu un
ammirevole trionfo di pazienza e diplomazia.
Anche il cast aveva posto dei problemi. Felice Varesi, che
aveva creato il ruolo di Macbeth, era senz’altro la persona
più adatta per il Rigoletto. Il Duca, Raffaele Mirate, era
relativamente fresco di esperienza (descritto da Piave come
“un Moriani giovane”), quindi l’interprete ideale per una delle
parti tenorili di più leggiadro lirismo mai composte da Verdi.
La scelta della protagonista femminile richiese altro tempo.
Verdi avrebbe voluto Teresa De Giuli, la protagonista della
Battaglia di Legnano. Essendogli stata rifiutata la richiesta,
mise il broncio. Non prese neanche in considerazione la
cantante dell’impresa, la Sanchioli, nonostante La Fenice
l’avesse già scritturata, nel corso di quella stagione, per la
Luisa Miller; sollevò obiezioni all’idea di avere Sofia Cruvelli,
data la sua fama di persona eccentrica (quanto questa
reputazione fosse poi vera, Verdi doveva scoprirlo ben presto,
con Les Vêpres Siciliennes). “Ti dirò francamente – scrisse a
39
Brenna – che io non amo queste caricature alla Malibran, che
non hanno che le sue stravaganze senza nulla avere del suo
genio”. Delle altre due cantanti che gli furono suggerite dalla
direzione, Teresina Brambilla, sorella del famoso contralto
Marietta, secondo Verdi “…canta meglio e ha più accento”.
Nel frattempo Piave si era rivolto a Brenna, indicandogli
una certa Boccabadati, il cui nome era stato suggerito in
origine da Verdi stesso. Ma il compositore respinse l’idea
con irritazione, essendogli giunta notizia che la cantante
stesse attraversando un pessimo periodo di voce. Gilda fu
così assegnata a Teresina Brambilla. Delle parti minori, il
basso profondo destinato a Sparafucile era Feliciano Ponz,
“che ha voce robusta ed è plausibilmente artista”. Il contralto
Annetta Casaloni fu felice di essere Maddalena, anche se al
suo personaggio non era stato riservato nessun “a solo”. A
proposito invece del secondo baritono, Piave avvisò Verdi di
non fidarsi troppo di De Kunnerth, che aveva voce totalmente
incolore e mediocre presa sul pubblico, ma era intimo amico
di Varesi. Alla fine gli fu data la parte di Marullo, nella quale
si disimpegnò senza sfigurare. È abbastanza curioso che non
si trovi menzione di una caratteristica che a molti potrebbe
sembrare la più singolare della partitura: la mancanza di voci
femminili nel coro. In realtà il caso non era affatto inconsueto
nell’opera dell’Ottocento sebbene in Verdi si trovi solo qui.
Il Barbiere di Siviglia, Tancredi, L’Italiana in Algeri, fanno
tutte a meno del coro femminile e altrettanto, con maggior
pertinenza, avviene nella Lucrezia Borgia, l’opera più vicina al
Rigoletto per forma e contenuto drammatico.
Come al solito, sono interessanti le richiesta di Verdi per
modificare il testo all’ultimo minuto. Nel duetto finale
del secondo atto, egli insistette perché Gilda cantasse
rivolgendosi al padre e non in un “a parte”: “Vedo che due
attori che dicono le loro faccende uno da una parte l’altro
dall’altra specialmente nei tempi mossi non fanno effetto”.
Appare chiaro che, nello stesso atto, l’aria del Duca costituì
un’ulteriore fonte di difficoltà, dal momento che a Piave fu
40
chiesto di riscrivere il testo della cabaletta con una nuova
accentuazione delle parole. In particolare, Verdi voleva
che la seconda strofa dell’adagio fosse “più bella” della
prima, ammettendo in qualche modo la sua propensione ad
aumentare l’interesse di un episodio man mano che procede.
Le prove erano già cominciate quando Verdi arrivò a Venezia,
il 19 febbraio, con appena poche battute del duetto finale
da completare. La prima ebbe luogo tre settimane più tardi.
Il pubblico decretò al Rigoletto un successo immediato. La
stampa, da parte sua, reagì con una certa dose di stupore
e perplessità. Il critico della “Gazzetta di Venezia” dichiarò
che una sola serata non era sufficiente per esprimere un
giudizio definitivo su un’opera come questa; dopo di che
si mise a vagliare tutte le novità più sorprendenti: nella
musica, nello stile, nella forma di ogni singolo brano, nella
splendida e non meno insolita strumentazione; anche la
scrittura vocale gli parve del tutto diversa (e non sempre per
il meglio) da quanto avesse mai sentito prima. A un altro
successivo recensore, Verdi sembrò ricalcare canoni arcaici,
ritornando alla stile di Mozart e dei suoi contemporanei.
Un altro giudicò l’opera totalmente priva di invenzione
e originalità, e tutt’altro che un modello di buon gusto.
Volendo, si potrebbe proseguire all’infinito in questa bizzarra
crestomazia critica espressa da chi ascoltò il Rigoletto per la
prima volta, fra questi l’inglese Chorley, che sull’“Athenaeum”
definì la musica “puerile e ridicola, piena di volgarità e di
eccentricità, e povera di idee”. E il “Times”: “l’opera sua più
debole”. Tutti sembrano aver ascoltato un’opera diversa;
eppure, salvo Chorley, ciascuno descriveva una delle
sfaccettature effettivamente presenti in una delle sintesi
artistiche più importanti dell’opera italiana. Nella produzione
di Verdi, Rigoletto tiene il posto della Sinfonia Eroica in
quella di Beethoven. Lo stesso compositore non era restio a
riconoscerne il carattere rivoluzionario, non certo costituito
dal taglio netto che l’opera presentava con il passato. Gli
elementi compositivi, in se stessi, sono per lo più tradizionali,
41
ma vengono fusi insieme in maniera nuova ed emozionante.
In certi punti troviamo forme nuove, o quanto meno mai
usate da Verdi fino a questo momento; in altri, le vecchie
forme sono dissolte in una prospettiva più vasta. Il divario tra
melodia formalizzata e recitativo è annullato come mai prima
d’ora. In tutta l’opera vi è una sola doppia aria convenzionale.
Rigoletto è anche l’unica opera verdiana priva di concertati
di fine atto: l’equivalente più prossimo è la conclusione della
prima scena, in cui (incredibile!) il concertato si libra sulla
musica per banda.
All’egregio signor Borsi, che in una lettera dell’estate del 1852
gli chiese se fosse possibile inserire nel Rigoletto un’aria per
sua moglie, la cantante Teresa De Giuli, Verdi replicò in modo
scherzoso ma fermo:
Se tu fossi persuaso che il mio talento si limiti a non saper far di
meglio di quanto ho fatto nel Rigoletto, tu non mi avresti chiesto
un’aria per quell’opera. […] Difatti dove trovare una posizione?
[…] Una ve ne sarebbe, ma Dio ci liberi! Saremmo flagellati.
Bisognerebbe far vedere Gilda col Duca nella sua stanza da
letto!! Mi capisci? In tutti i casi sarebbe un duetto […] aggiungo
che ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una filza
interminabile di duetti, perché così ero convinto.
Verdi non aveva dubbi nel ritenere il Rigoletto una pietra miliare
della sua carriera. Ad Antonio Somma, il futuro librettista di Un
ballo in maschera, poteva descrivere quest’opera come:
il miglior soggetto in quanto ad effetto che io m’abbia finora
posto in musica […]. Vi sono posizioni potentissime, varietà, brio,
patetico: tutte le peripezie nascono dal personaggio leggero,
libertino del Duca, da questo i timori di Rigoletto, la passione di
Gilda ecc. ecc., che formano molti punti drammatici eccellenti, e
fra gli altri la scena del quartetto, che in quanto ad effetto sarà
sempre una delle migliori che vanti il nostro teatro.
In una lettera scritta a De Sanctis si parla di Rigoletto come
della sua “opera migliore”, in senso assoluto. Rivolgendosi
a Piave, Verdi usò l’espressione di lavoro “rivoluzionario”,
a proposito di un confronto con l’Ernani. Tutte queste
42
testimonianze appartengono alle lettere posteriori al
Trovatore e alla Traviata. Bisogna tuttavia riconoscere che
sarebbe vano cercare, nell’epistolario verdiano, una qualsiasi
formulazione coerente dei suoi ideali drammatici. Essi
mutavano secondo le esigenze della sua personalità creativa
in evoluzione ed è per questo che quanto più andava avanti
con gli anni, tanto meno si ripeteva. Fino a un certo periodo
gli occorrevano soggetti “monocordi” per mettere a fuoco le
sue facoltà inventive; in seguito cominciò a richiedere tele più
ampie. Rigoletto resta un miracolo e in quanto tale trascende
qualsiasi tentativo di analisi; tuttavia due osservazioni si
impongono. Sia nei progetti per L’assedio di Firenze, sia nelle
riflessioni sulla Luisa Miller, Verdi aveva rivelato il desiderio
di attirare la commedia nella sua musica, di sfruttare le
risorse di un mondo che gli pareva interdetto dal fiasco di
Un giorno di regno. La trama del Rigoletto poté fornirgli
per la prima volta l’occasione che andava cercando. L’intera
prima scena, dal preludio fino alla comparsa di Monterone,
è concepita nel linguaggio dell’opera comica, inserito
però nel più ampio contesto della tragedia, a sua volta
approfondito dal contrasto. Di qui quella “varietà di effetti”
di cui, retrospettivamente, Verdi tanto si entusiasmerà;
di qui anche le stoccate alquanto scortesi contro Piave a
proposito delle sue trame: “Basta con i soggetti monotoni
e piagnucolosi” scritti per deliziare le orecchie “delle
sartine infedeli” (un’allusione agli amori senza successo del
librettista). Anche in precedenza, discutendo del Re Lear
con Cammarano, Verdi aveva affermato di voler battere vie
nuove, senza preoccuparsi dell’etichetta dei cantanti. Nel
Rigoletto le “convenienze teatrali” ricevono scarsa attenzione,
con un cast di tre personaggi principali, due comprimari
e cinque ruoli secondari. Altro punto: come abbiamo già
detto, Le Roi s’amuse non costituiva una novità per Verdi,
l’aveva più di una volta preso in considerazione ritenendolo
adatto per un’opera, ma fu solo quando dovette accantonare
temporaneamente il Re Lear che se ne innamorò. È troppo
43
media nella sua musica, di sfruttare le risorse di un mondo che gli pareva interdetto dal fiasco di Un giorno di regno. La trama del Rigoletto poté fornirgli per la
prima volta l’occasione che andava cercando. L’intera prima scena, dal preludio
fino alla comparsa di Monterone, è concepita nel linguaggio dell’opera comica,
inserito però nel più ampio contesto della tragedia, a sua volta approfondito dal
contrasto. Di qui quella “varietà di effetti” di cui, retrospettivamente, Verdi tanto
si entusiasmerà; di qui anche le stoccate alquanto scortesi contro Piave a proposito delle sue trame: “Basta con i soggetti monotoni e piagnucolosi” scritti
che lainfedeli”
nuova vampata
d’entusiasmo
per deliziareimmaginoso
le orecchie supporre
“delle sartine
(un’allusione
agli amori senza
il dramma
di Victor
Hugo abbiadiscutendo
avuto origine
stesso
successo del per
librettista).
Anche
in precedenza,
deldallo
Re Lear
con Camimpulso
creativo
che
aveva
spinto
Verdi
a
cimentarsi
con
marano, Verdi aveva affermato di voler battere vie nuove, senza preoccuparsi
Il raggio
di luce
aveva penetrato
i meandri
dell’etichettaShakespeare?
dei cantanti. Nel
Rigoletto
le che
“convenienze
teatrali”
ricevono scarsa
nascosti
di di
Retre
Lear
non si è puramente
rivolto
a illuminare
attenzione, con
un cast
personaggi
principali, due
comprimari
e cinque ruoli
Le Roi
s’amuse?
vertono
paternità.
Il
secondari. Altro
punto:
comeEntrambi
abbiamoi drammi
già detto,
Le Roisulla
s’amuse
non costituiva
buffone
corte èpiù
tratto
distintivo
di entrambi.
Di certo, dopo
una novità per
Verdi, di
l’aveva
di una
volta preso
in considerazione
ritenendolo
adatto per un’opera,
ma fua termine
solo quando
dovetteVerdi
accantonare
temporaneamente
il
aver portato
il Rigoletto,
ritornò per
qualche
Re Lear che tempo
se ne innamorò.
troppo immaginoso
supporre
che la nuova vama tecnicheÈcompositive
più tradizionali.
Il Trovatore
pata d’entusiasmo
per il dramma
Victorsotto
Hugoil profilo
abbia avuto
origine
e la Traviata
(specie ildiprimo)
formale
sonodallo stesso
impulso creativo
che aveva
spinto
a cimentarsi
Shakespeare?
più affini
alle opere
delVerdi
passato.
Rigolettocon
potrebbe
essere Il raggio
di luce che aveva
i meandri
nascosti
di ReCon
Lear
è puramente
anche penetrato
considerato
una Re Lear
mancato.
ciò non
non si
intendo
rivolto a illuminare
Le
Roi
s’amuse?
Entrambi
i
drammi
vertono
sulla
paternità.
sminuire la parte avuta da Victor Hugo nella grandezza
Il buffone didell’opera.
corte è tratto
distintivo
entrambi.
Di certo,
dopo aver
Già altre
volte di
Verdi
era riuscito
a individuare
la portato a
termine il Rigoletto, Verdi ritornò per qualche tempo a tecniche compositive più
forza unificante, la logica stringente che stanno alla base del
tradizionali. Il Trovatore e la Traviata (specie il primo) sotto il profilo formale
romanticismo spaccamontagne di Hugo.
sono più affini alle opere del passato. Rigoletto potrebbe essere anche considerato
Prima di volgere la nostra attenzione all’opera in sé, è
una Re Lear mancato. Con ciò non intendo sminuire la parte avuta da Victor Hugo
opportuno menzionare uno dei documenti più eccezionali
nella grandezza
dell’opera. Già altre volte Verdi era riuscito a individuare la forza
cui possa
valersiche
lo studioso
verdiano,
unificante, ladilogica
stringente
stanno alla
base delil cosiddetto
romanticismo spaccamon“abbozzo”
del
Rigoletto,
pubblicato
in facsimile da Carlo
tagne di Hugo.
Gatti nel 1941. Consiste di 56 pagine, di cui le prima due e
Prima di volgere la nostra attenzione all’opera in sé, è opportuno menzionare
l’ultimapiù
sono
coperte dadifitte
singole
frasi e idee
uno dei documenti
eccezionali
cuiannotazioni,
possa valersi
lo studioso
verdiano, il
isolate,
alcune
delle
quali
saranno
utilizzate
nella
stesura
cosiddetto “abbozzo” del Rigoletto, pubblicato in facsimile da Carlo Gatti nel
finale,
altre
no. Addiesempio
troviamo
il primosono
spunto
1941. Consiste
di 56
pagine,
cui le prima
due equi
l’ultima
coperte da fitte
temafrasi
orchestrale
su cui alcune
è basato
il duetto
Rigoletto
annotazioni, del
singole
e idee isolate,
delle
quali tra
saranno
utilizzate nella
scena
secondaqui
dell’Atto
I, assieme
ad tema orchestesura finale,e Sparafucile,
altre no. Ad nella
esempio
troviamo
il primo
spunto del
tentativi
per iltrapasso
che vede
Rigoletto farsi
beffe
strale su cui alcuni
è basato
il duetto
Rigoletto
e Sparafucile,
nella
scena seconda
Monterone.
Sull’ultima
pagina
si trova
“La donna
dell’Atto I°, dell’anziano
assieme ad alcuni
tentativi
per il passo
che vede
Rigoletto
farsi beffe
dell’anziano èMonterone.
Sull’ultima
si trova “La donna è mobile” nella
mobile” nella
seguente pagina
variante:
seguente variante:
[Esempio 329]
a riprova che in Verdi, come in Beethoven, le melodie più
44
semplici e apparentemente spontanee erano spesso il frutto
di un progressivo lavoro di cesello.
Ma il corpo centrale del documento presenta un abbozzo
continuo dell’intera opera, annotato per lo più su uno o
due pentagrammi con non più di due dozzine di battute
cancellate. Nella prefazione, Gatti cita un’osservazione di
Verdi, fatta apparentemente per esprimere il concetto che
“per scrivere bene occorre poter scrivere rapidamente,
quasi d’un fiato, riservandosi poi di accomodare, vestire,
ripulire l’abbozzo generale; senza di che si corre il rischio di
produrre un’opera a lunghi intervalli con musica a mosaico,
priva di stile e di carattere”. Ciò nonostante l’abbozzo sembra
essere stato scritto in un arco di tempo piuttosto lungo,
poiché nel primo atto i nomi dei personaggi sono quelli del
testo francese italianizzati (Triboletto, il Re, ecc.), mentre
nel secondo e terzo atto il compositore ha ormai adottato
la forma che noi oggi conosciamo, con la sola eccezione
di Monterone che per il momento si chiama Castiglione.
Nessun altro abbozzo verdiano di simile ampiezza è mai stato
riportato alla luce. Quelli dei Due Foscari e Attila riguardano
una sola scena. Oggi non si può ancora dire se i frammenti
pubblicati in facsimile da Gatti nel suo Verdi nelle immagini
facciano parte di abbozzi continui, come nel caso di Rigoletto;
tuttavia, la pagina che si riferisce alla Traviata suggerisce
un metodo meno sistematico e più impressionistico. Dopo
poche battute, le note cedono il posto alle didascalie di scena
(“Margherita si sente male”, ecc.). È possibile che un lavoro
come Rigoletto, così complesso, così poco ortodosso nella
forma e pur tuttavia così organico nella concezione, abbia
avuto bisogno fin da principio di un canovaccio quanto mai
saldo, un po’ come usava Beethoven negli abbozzi delle
opere tarde quando segnava sul rigo solo l’“imbeccata” di
idee da sviluppare successivamente. In diversi punti l’abbozzo
differisce in modo significativo dal testo finale. La confessione
di Gilda (“Tutte le feste”) è in Fa minore invece di Mi minore,
testimoniando ancora una volta l’assenza, in Verdi, di un
45
(Triboletto, il Re, ecc.), mentre nel secondo e terzo atto il compositore ha ormai
adottato la forma che noi oggi conosciamo, con la sola eccezione di Monterone
che per il momento si chiama Castiglione. Nessun altro abbozzo verdiano di simile
ampiezza è mai stato riportato alla luce. Quelli dei Due Foscari e Attila riguardano una sola scena. Oggi non si può ancora dire se i frammenti pubblicati in
facsimile da Gatti nel suo Verdi nelle immagini facciano parte di abbozzi continui,
come nel caso di Rigoletto; tuttavia, la pagina che si riferisce alla Traviata suggerisce un metodo meno sistematico e più impressionistico. Dopo poche battute,
le note cedono il posto alle didascalie di scena (“Margherita si sente male”, ecc.).
È possibile che un lavoro come Rigoletto, così complesso, così poco ortodosso
nella forma e pur tuttavia così organico nella concezione, abbia avuto bisogno fin
da principio di un canovaccio quanto mai saldo, un po’ come usava Beethoven
negli abbozzi delle opere tarde quando segnava sul rigo solo l’“imbeccata” di
idee da sviluppare successivamente. In diversi punti l’abbozzo diferisce in modo
sistema
di relazioni
a vasto raggio
e allo (“Tutte
stesso tempo
significativo
dal testo
finale. tonali
La confessione
di Gilda
le feste”) è in fa
rivelando
la fonte
della melodia
nel duetto
tra Raoul
e in Verdi, di un
min. invece
di mi min.,
testimoniando
ancora
una volta
l’assenza,
sistema diValentina,
relazioni nel
tonali
a vasto
e allo stessoCiòtempo
rivelando la fonte
quarto
atto raggio
di Les Huguenots.
che colpisce
della melodia
duetto
tra Raoul
e Valentina,
quarto atto di Les Huguenots.
di piùnel
è la
definizione
finale
del motivonel
fondamentale
Ciò che colpisce
di più
la definizione
finale
del motivo fondamentale
dell’opera:
la èfrase
che scolpisce
la maledizione
di Monteronedell’opera:
la frase che
scolpisce
la maledizione
nella
memoria
di Rigoletto. di Monterone nella memoria di Rigoletto.
[Esempio
330] 330]
[Esempio
La carica esplosiva viene fatta detonare nel modo più
ovvio, con un’ascesa culminante alla tonica fa. Nelle
versione definitiva, l’apice è risolto internamente, con una
La carica esplosiva viene fatta detonare nel modo più ovvio, con un’ascesa
progressione armonica in orchestra. Per di più, la carica
culminante alla tonica fa. Nelle versione definitiva, l’apice è risolto internamente,
non esplode: la spinta alla risoluzione in fa min. è repressa.
con una progressione armonica in orchestra. Per di più, la carica non esplode: la
Musicalmente
frase
è infinitamente
più efficace,
mentre
spinta alla risoluzione
in fa la
min.
è repressa.
Musicalmente
la frase
è infinitamente
l’insistenza
della
dominante
aumenta
l’effetto
di
incubo
più efficace, mentre l’insistenza della dominante aumenta l’effetto di nella
incubo nella
mente del personaggio,
avverrà nel
Trovatore
con pari
mente del personaggio,
come avverràcome
nel Trovatore
con
pari forza.
forza.
331]
[Esempio[Esempio
331]
Seguendo l’esempio di Ernani, Verdi ha basato il preludio sul motivo fondamentale del dramma (es. 331), orchestrandolo per un’analoga combinazione di
46però la frase è sull’asse della tonica, anziché su quello della dominante.
ottoni; qui
Perché allora conserva parte della sua identità? Intanto perché in Verdi l’altezza
dei suoni è più importante dell’ambito tonale e poi perché la frase stessa è ricca di
più implicazioni armoniche, come Verdi stesso inconsciamente rivela quando in
un punto successivo dell’autografo notò erroneamente mi bem. e sol bem. invece
di re diesis e fa diesis. Si potrebbe ugualmente osservare che l’affermazione del
do min. alla quinta battuta trova un riscontro parallelo nella svolta decisiva al do
magg. alla fine del monologo “Pari siamo!”, dove il motivo dell’es. 331 trova la
sua compiuta esposizione. Manca qualsiasi contrasto tematico, a differenza del
Seguendo l’esempio di Ernani, Verdi ha basato il preludio sul
motivo fondamentale del dramma (es. 331), orchestrandolo
per un’analoga combinazione di ottoni; qui però la frase è
sull’asse della tonica, anziché su quello della dominante.
Perché allora conserva parte della sua identità? Intanto
perché in Verdi l’altezza dei suoni è più importante
dell’ambito tonale e poi perché la frase stessa è ricca di più
implicazioni armoniche, come Verdi stesso inconsciamente
rivela quando in un punto successivo dell’autografo notò
erroneamente Mi bemolle e Sol bemolle invece di Re
diesis e Fa diesis. Si potrebbe ugualmente osservare che
l’affermazione del Do minore alla quinta battuta trova un
riscontro parallelo nella svolta decisiva al Do maggiore alla
fine del monologo “Pari siamo!”, dove il motivo dell’es.
331 trova la sua compiuta esposizione. Manca qualsiasi
contrasto tematico, a differenza del preludio dell’Ernani.
Melodicamente il motivo è vago, amorfo, con struttura
irregolare di tre battute e contorni melodici appena
abbozzati. Il suo potenziale energetico è concentrato nel
ritmo doppiamente puntato di tromba e trombone, che
in nove battute di crescendo conduce all’esplosione di un
fortissimo, dissolto poi in una catena di figure singhiozzanti
di violini e legni. Ricompare un breve richiamo al motivo
principale, modellato per due volte in schema di cadenza;
quindi una coda di sei battute, con i sordi rintocchi di un
incisivo “a solo” di timpani, conduce alla veemente cadenza
finale.
47
Rigoletto, foto di scena
Visto da lontano
Lassù in cielo, vicino alla mamma.
Osservazioni attorno ad un
inevitabile suicidio
di Carlida Steffan
Io trovo [...] bellissimo rappresentare questo personaggio
esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato
e pieno d’amore.
Così Verdi guarda a Rigoletto: buffone sgradevole, cinico,
crudele, socialmente infimo, che si alimenta della propria
degradazione mentre tiene nascosto dentro di sé il sacro
sentimento dell’amore paterno. Questa lacerazione di
sentimenti lo porta ad esasperare il suo ruolo di istigatore e
regista delle depravazioni del Duca e della corte mantovana,
tanto da attirarsi sul capo la “maledizione” di un altro padre
(Monterone) e subirne la più tragica delle conseguenze: il
“suicidio” della propria figlia.
La maledizione, quindi, come motore del dramma: lanciata
nelle prime scene, avvertita da Rigoletto dopo il rapimentobeffa della figlia e alla fine inevitabilmente subita.
Sulla centralità della maledizione aveva già detto tutto Hugo
consegnando finalmente alle stampe (1846) il suo Le Roi
s’amuse, straordinaria fonte di Rigoletto. Lo stampa dopo
oltre dieci anni da una sola apparizione sulla scena teatrale,
bruscamente interrotta: non era ammissibile per la censura
mettere alla berlina del giudizio del pubblico parigino un
buffone che corrompe il re, “lo abbrutisce, [...], lo esorta a
turbare la quiete delle famiglie dei nobili di corte, gli indica
incessantemente la moglie da sedurre, la sorella da rapire,
la figlia da disonorare”. Che poi questo re finisse anche
per cercare le prostitute nei bassifondi parigini faceva del
dramma un “lavoro immorale”. E così Hugo, nello stampare il
suo drame, passa in silenzio le vicende non certo
edificanti del re Francesco I e di Bianca, la figlia del buffone,
e concentra tutta l’attenzione su quest’ultimo, o meglio sulla
maledizione di un padre deriso verso un altro padre, che,
ahimè, non riesce neppure a salvare la figlia ormai persa nella
“follia” amorosa.
E Verdi, scrivendo con entusiasmo all’inseparabile Piave circa
il soggetto della nuova opera per il Teatro La Fenice non fa
che parafrasare le parole del drammaturgo francese.
Carlida Steffan
Carlida Steffan è una
musicologa italiana
particolarmente
attenta alle relazioni
tra la prassi musicale
e l’interpretazione
registica. Ha applicato
questa griglia di
lettura, in particolare,
al Flauto magico di
Mozart. Si è anche
dedicata alla studio
della critica rossiniana
nelle prima metà
dell’Ottocento e
al teatro d’opera
del Novecento.
Si è laureata in
musicologia presso la
Scuola di Paleografia
e Filologia Musicale
di Cremona e insegna
Storia della musica
presso l’Istituto
“Orazio Vecchi” di
Modena.
49
Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale.
Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da
un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione
coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e
grande, al sommo grande.
Ma la maledizione basta da sola a giustificare il complesso
percorso drammaturgico-musicale che porta Gilda al suicidio?
Che cosa possiamo intuire del suo punto di vista interno al
di là della violenza macroscopica che subisce sulla scena –
peraltro non così rara al tempo, data la sua
condizione sociale?
Spalleggiati da alcune declinazioni della musicologia à
la mode (ce ne sono per tutti i gusti: antropologia della
ricezione, gender studies – con i pregiudizi delle ‘femministe’
– o queer studies – dalla parte degli omosessuali) vorremmo
provare a rileggere il dramma con gli occhi di Gilda,
confessando di provare un senso di imbarazzo di fronte al
suo folle suicidio messo lucidamente in atto per salvare
un amante (non val la pena di scomodare tutti i giudizi di
nefandezza che si continuano a prodigare verso il povero
Duca, anche lui anima sconnessa che nel fondo vorrebbe
poter provare sentimenti autentici d’amore, che gli sono
impediti dal ruolo libertino a cui è obbligato – prima di
tutti da Rigoletto – per mantenere appariscente la propria
posizione di potere, ovvero di chi può sovvertire ogni buon
ordine morale), un amante che apparentemente ha solo
“giuocato” con il suo candore e, ormai saturo anche delle nobili dame, se la fa con le prostitute.
Ma la percezione di un personaggio all’in- terno delle
convenzioni del melodramma è una faccenda complicata che
passa ovvia- mente attraverso le parole con cui si esprime
ma anche – e soprattutto – attraverso le modalità con cui
vengono assecondati o deformati o stravolti i cliché delle
forme musicali.
Tutto è già stato detto. Rigoletto dovendo guerreggiare
50
incessantemente con la parola – virtù che per altro si
autoriconosceva – usa soprattutto l’andamento duttile,
spezzato e libero del declamato, dove la parola è a volte
buttata fuori con rabbia, a volte plasmata in linee melodiche;
e anche quando è costretto nel numero chiuso tradisce nella forma la lacerazione continua, la mancanza di stabilità
psicologica ed emotiva. Al contrario, il Duca si muove senza
alcun senso di colpa tra il gioco d’identificazione in uno
studente povero e i panni del potente depravato, impiegando
così all’occasione una “solita forma” per l’aria patetica
(inizio secondo atto) oppure un motivo da canzonetta senza
pretese o quasi di irriverente fattura (“La donna è mobile”
dell’atto finale, fondamentale per riconvertire ai nostri occhi
la percezione del personaggio, condizionata, per l’appunto,
dall’aria “Parmi veder le lagrime”).
Facilissimo, quindi, percepire all’interno del codice melodicoformale che i due personaggi (come ogni baritono e tenore
nelle convenzioni della scena melodrammatica) sono tra loro
antagonisti (ma costretti dal burrone della differenza sociale a
non confrontarsi mai in un duetto) e mirano
entrambi (per differenti motivi, ovviamente) a ‘possedere’
Gilda. Sì, perché rimbalza subito dal duetto del primo atto
la possessività con cui Rigoletto ‘gestisce’ il rapporto con
la figlia (un sospetto: forse c’entra con la “pazzia” finale
di Gilda): “apre con chiave [un’altra chiave verrà invece
censurata], ed entra nel cortile” della casa dove la tiene
segregata, dopo essersi triturato l’animo, bestemmiando il
cielo e confidandoci l’estrema delusione ed annichilimento
della sua esistenza. Il duetto sortisce al contrario con tutte
le risorse semantiche della tensione felice (energia ritmica
dell’orchestra e luminosa tonalità d’impianto), che mantiene
alta la nostra tensione di fronte all’incontro. Ma Gilda non
canta un suo motivo, non apporta
musicalmente un’idea diversa da Rigoletto; l’impressione
è che preferisca rispecchiare (senza esserne convinta fino
in fondo) le idee (musicali) del padre, perché ‘immatura’
51
e non preparata ad affrontare un confronto diretto. Così,
dopo essersi vicendevolmente trastullati (Gilda: “Oh quanto
amore!” / Rigoletto: “Mia vita sei”) su schemi melodici
discendenti affini, bastano poche domande dirette a far
precipitare tutto dentro accordi ribattuti nella zona grave
dopo aver fatto sparire i trilli in orchestra. Chi sono? Come
ti chiami? Chi è la mia famiglia? – chiede Gilda (difficile
immaginare un rapporto filiale che non implichi neppure
la conoscenza del “nome” – parola che invece la ragazza
intonerà di lì a poco rivolgendosi a tutt’altro amore).
Da parte di Rigoletto nessuna risposta: solo la proibizione
a non uscire di casa. Gilda insiste; chiede della madre
confidando nella seduzione melodica di un canto puro e
innocente (quasi eco di chiesa); ma l’egoriferimento di
Rigoletto si traduce in un cantabile in cui si piange addosso
per aver perso la donna tanto buona cara e dolce che per di
più aveva avuto il coraggio di amarlo (che poi le mamme non
compaiano mai è un tòpos del melodramma dell’Ottocento
funzionale sia alla distillazione del terzetto soprano e due
antagonisti – ovvero lui, lei e l’altro oppure il padre, lei e lui
– sia a riflettere la condizione di una società patriarcale che
per altro si prende la briga di mandare tutte le mamme in
paradiso e trasformarle in angeli tutelari), istillando all’uopo
in Gilda il classico complesso di colpa (“tu sola resti al
misero”) per cui, quando è costretta ad intervenire, aggiunge
un’artificiosa fiorettatura litanica (“Oh, quanto dolor! Quanto
dolor!”).
Molto si è scritto su questo duetto, soprattutto in rapporto al
superamento delle convenzionali articolazioni tra cantabile
e cabaletta; potremmo aggiungere che tale “mediazione” (C.
Dahlhaus) rispetto alle scansioni rigide della “solita forma”
è funzionale ad esprimere l’inesistenza di un rapporto
familiare, dove Rigoletto tratta Gilda da figlia-oggetto e lei
(con una verginità vocale di facciata) non può fare a meno
di avere l’approvazione del padre e prova con un tenero
cantabile (“Già da tre lune”): ma Rigoletto non ci sente e
52
la ragazza, nella cabaletta finale, si dimentica di aver già
confessato le sue fughe in chiesa e mente spudoratamente
di fronte all’ostinazione paterna. E neppure nella cabaletta –
luogo formale ideale per convogliare cliché musicali di sicuro
effetto risolutivo – i due arrivano ad un confronto sincero:
Rigoletto intona un Allegro assai moderato chiedendo a
Giovanna di “vegliare” sulla figlia e Gilda rinuncia a metterci
una sua idea musicale (rinuncia ad esprimere il suo punto
di vista), preferisce ripetere meccanicamente le sedici
battute declinate dal padre, rendendo palese quanto fittizia
e di ‘convenzione’ sia l’obbedienza filiare della ragazza, che
esploderà tra breve, appena Rigoletto avrà girato l’angolo.
Di più apparente convenzione formale è invece il duetto in
cui Gilda dialoga con il Duca. Qui la “solita forma” si esprime
con un più naturale svolgimento, con tanto di cabaletta
precipitosa (“Addio, addio speranza ed anima”) che proprio
nella convenzionalità del vecchio stile operistico – deplorato
da molti commentatori – e nel carattere di conclusione
enfatica (i due amanti sembrano non volersi mai lasciare)
comunica all’ascoltatore che il Duca ha invece pieno controllo
sul cuore di Gilda. Ma anche qui, nell’esordio del duetto,
la ragazza ripete un frammento di due battute, poi imitato
dall’orchestra, senza che riesca a finire di formalizzare il suo
episodio lirico e
poi sul più bello il Duca le porta via rapidamente il canto e
impone vocalmente la sua capacità di controllo sulla ragazza
intonando “È il sol dell’anima”. Gilda, quindi, sparge più di
un segnale musicale che ci avverte della sua immaturità e
incapacità di affermare la propria personalità: preferisce
assecondare senza convinzione il padre o lasciarsi risucchiare
nelle fatue scaltrezze dell’amore del Duca, perché priva di
un’adeguata educazione sentimentale che proprio il padre le
ha negato.
(Nel testo di Hugo l’amore di Bianca per il misterioso
“cavaliere” si declina in versi di autentica autoconvinzione:
“Tranne me, le donne non sono niente per lui. Pensa sol-
53
tanto a me, per lui non esiste altro: né giochi, né feste, né
passatempi”!!!)
La sua aria, nel consumarsi del primo atto, dove invoca
con forte emotività il “caro nome” finalmente conosciuto
dell’amante (nome invece negato dal padre), è di nuovo
lontana dalla struttura dialettica convenzionale; è una
‘cavatina’ in un tempo solo, strana forma con variazioni,
funzionale per lasciare libero sfogo interiore alle fioriture
(si noti: sempre sul “nome” di Gualtiero): in altre parole,
è l’inevitabile fantasticare di un’adolescente che, arrivata
sguarnita di strumenti all’incontro amoroso, ha perso ogni
controllo e manifesta la propria totale passività.
Quando, dopo il fattaccio, Rigoletto scopre la figlia nelle
stanze del Duca, quest’ultima, concentrata nel suo dolore,
non ha il tempo per dirci cosa prova, ora che ha finalmente
dato un ‘volto sociale’ al proprio padre; da parte sua Rigoletto
recita alla grande, fa il duro, prova anche lui a lanciare
qualche maledizione nei confronti del Duca (stessi moduli
melodici usati da Monterone); forse cerca solo di apparire
agli occhi della figlia in una situazione di forza (“Se il Duca
vostro d’appressarsi osasse, / Ch’ei non entri, gli dite! e ch’io
ci sono”, suggellata dal più scontato degli effetti armonici,
una cadenza perfetta, che assume una ridefinizione semiotica
di gran forza e di autorevolezza...). Rimasti soli, Gilda prova
con fatica dolorosa a raccontare al padre il suo vero incontro
con l’amore proprio a ridosso del rapimento e Rigoletto dopo
un a parte di invocazione a Dio non ha di meglio che indurre
la figlia al pianto, senza entrare in un ‘veritiero’ incontroscontro degli opposti sentimenti ed ancora una volta nella
cabaletta (che, come abbiamo già visto, funziona un po’ da
cartina tornasole del rapporto) la musica non fa nulla per
distinguere queste opposizioni.
E se le articolazioni formali del duetto non riescono a
convincere fino in fondo è soprattutto perché il cantabile di
Gilda passa senza soluzione di continuità dalla descrizione di
Gualtiero a quella del rapimento senza metterci a conoscenza
54
diretta dell’incontro tra i due amanti come avviene nella
scena seconda del terzo atto de Le Roi s’amuse. Qui l’incontro
tra Bianca e il Re rende palese il grado di coinvolgimento
della ragazza e, perché no, anche del giovane sovrano. Lei è
senza parole quando scopre che il mandante del rapimento
è il suo povero studentello e dimostra di essere assai più
scaltra ed avveduta di quanto si possa pensare; sa valutare
bene l’inconsistenza di ogni promessa da parte di un potente
(“Tutto questo è un gioco, non è vero?”), che da parte sua
si lascia sfuggire l’amara constatazione di essere risucchiato
nelle spire della convenzione sociale (“[...] se sono il re,
questa non è una buona ragione per accogliermi con tanta
avversione! Se non ho avuto la fortuna di nascere povero, che
male c’è?”). Un duetto importante, quindi, per capire come
vanno le vicende del terzo atto di Rigoletto, ma purtroppo un
duetto da confezionare sullo sfondo della camera da letto e
con un paio di allusioni – se si voleva tenere il testo sagace
di Hugo – che non sarebbero certo passate indenni all’occhio
vigile della censura austriaca di stanza a Venezia.
Censura che da parte sua impose non pochi sacrifici alla
gestazione del libretto di Rigoletto (si sa: da Re Francesco di
Hugo al Duca di Mantova di Piave, e poi vari cambiamenti del
titolo, ecc..), e l’Imperial Regia Direzione Centrale d’Ordine
Pubblico se la prese direttamente con i vertici del teatro
veneziano, anche se fu lo stesso Verdi, da uomo di mondo
qual era, a comandare per suo conto all’obbediente Piave di
cassare la scena a corte dove il Re toglie dalla tasca una bella
chiave d’oro e si appresta ad entrare nella camera dove si era
infilata la verginella rapita.
Bisognerebbe trovare qualche cosa di più pudico e togliere
quel fotisterio troppo evidente. Levare la chiave che suggerisce
l’idea chiavare et... et... Oh Dio! Son cose semplici, naturali ma il
patriarca non può più gustare quest’idea!!
Un taglio che continuò a rodere il ricordo di Verdi e a far
soffrire certo soprattutto il suo spiritello anticlericale ribelle,
55
ma anche – mi piace oggi azzardare – la sua sensibilità
drammaturgica lucidissima, giacché a lavoro concluso
continuava ad interrogarsi, scrivendo sempre all’inseparabile
Piave:
un pezzo nuovo vi sarebbe in più. Difatti deve trovare una
posizione? Dei versi e delle note se ne possono fare, ma sarebbero
sempre senza effetto dal momento che non vi è una posizione: una
ve ne sarebbe, ma Dio ci liberi; saressimo flagellati. Bisognerebbe
far vedere Gilda col Duca nella sua stanza da letto!!! Mi capisci?
In tutti i casi sarebbe un Duetto. Magnifico Duetto!! Ma i preti, gli
ipocriti griderebbero allo scandalo...
Proprio negli ultimi versi della cabaletta conclusiva del
secondo atto Gilda continua a ripetere fra sé di amare il Duca;
la loro relazione continua idealmente durante l’intervallo fra
i due atti (da Hugo sappiamo che la ragazza continuava con
serafica beatitudine la relazione amorosa, “Vedete – dice
al padre – anche lui mi ama”; glielo ha confessato e giurato
anche il giorno avanti e lei si sente disposta a tutto per
questo amore – “io sarei pronta a morire per lui come per
voi”). Sotto il peso di tali allucinazioni amorose va da sé che
l’architettata scena del quartetto con il Duca tra le braccia
di Maddalena spiato da Rigoletto e Gilda contribuisce non a
prendere posizioni decise e razionali ma accelera il processo
di deflagrazione interna e sotto gli assalti sinistri della
tempesta Gilda consuma nella lucidità della “follia” il suo
inutile suicidio. Quando Rigoletto se la ritrova fra le braccia
morenti, Gilda ha ancora il coraggio (bel coraggio) di chiedere
perdono non solo per lei, ma anche per il Duca:
GILDA
V’ho ingannato! Colpevole fui! L’amai troppo! Ora muoio per lui!
prima che Verdi le accordi una melodia ondulante con
lunghi arpeggi acuti che presagisce il passaggio al cielo,
dove – secondo la convenzione operistica – potrà finalmente
abbracciare la propria madre.
56
La follia del suicidio è in realtà l’unica scelta che finalmente
emancipa Gilda dai rapporti di forza imposti dagli uomini che
hanno gestito e consumato la sua vita. Se il Duca è arrivato a
conquassare la sua anima e la sua ragione a tal punto, è pur
sempre per colpa di Rigoletto, il quale, sia pur in buona fede,
si è preoccupato di preservare la figlia dal mondo esterno ma
non da sé stessa. (E le vergini, si sa, non vanno tenute sotto
una campana di vetro.)
57
Rigoletto, durante le prove
QUARTA PARETE
LE STRATEGIE DEL GENIO: UN VERDI
POPOLARE, CIVILE E DEMOCRATICO
di Gianfranco Capitta
Quando le arie di un’opera lirica entrano nel linguaggio
quotidiano di chi all’opera non è mai stato, è evidente che
quel racconto musicale ha colpito in profondità le radici
antropologiche di quel paese. In questo senso Rigoletto
batte molti altri titoli, perché Verdi, col suo fido librettista
Francesco Maria Piave, ha colpito forte, anche se la storia
deriva da Le Roi s’amuse di Victor Hugo. Oggi come ieri il re, il
principe, l’uomo di potere, continua a divertirsi assai, né più
né meno del libidinoso Duca di Mantova. Tanto che Verdi e la
sua creazione, di grane con la censura ne ebbero parecchie:
troppo facile anche allora riconoscere (e senza tanti filtri o
filigrane) debolezze funeste, perfino cruente, di alti esponenti
imperialregi o di aristocratici prepotenti. Senza che ci fosse
allora un movimento delle donne a battersi in difesa delle
vittime, sempre femminili, di qualche vizietto di ‘sangue blu’.
Oggi sarebbe fin troppo facile per noi identificare nella Gilda
verdiana, vittima sacrificale che paga con la vita la propria
illusione amorosa, le protagoniste di ormai numerosissimi
fattacci di cronaca. Certo Verdi l’anatema di classe (oggi
anche di genere) contro i “Cortigiani, vil razza dannata” lo fa
gridare chiaro a Rigoletto. E questo, se da un lato accrebbe
la sua grandezza, dall’altro gli attirò persecuzioni: un padano
come lui, che mette a nudo l’abiezione del signore della
padanissima Mantova… Non sono da meno, sul fronte
linguistico e antropologico, alcune espressioni memorabili,
tanto irresistibili quanto oggi poco politically correct: “La
donna è mobile” e, peggio ancora, “Questa o quella per me
pari sono”, fulminanti sintesi maschiliste che la dicono più
lunga di un saggio ponderoso. E infatti le sentiamo spesso
da chi meno ce lo aspettiamo. Insomma Rigoletto è una vera
summa di comportamenti sociali, di conflitti, di vittorie e di
sconfitte che ben si prolungano e si rinnovano, da quasi due
secoli, nel nostro immaginario quotidiano. Con dei punti di
svolta, negli ultimi decenni, che hanno ribadito sulle nostre
scene, non solo teatrali, la centralità ancestrale e permanente
di quel buffone di corte (un guitto, un comico, senza più l’aura
Gianfranco Capitta
Vive e lavora a Roma.
Giornalista de
“Il manifesto”, si è
occupato da sempre
di spettacoli e cultura,
sul quotidiano
e su altre testate.
Ha collaborato per molti
anni con Radio Tre Rai
ed attualmente
con Rai Educational.
È autore di diversi saggi,
tra i quali due dedicati
al regista Harold Pinter
(con Roberto Canziani
per Anabasi e Garzanti,
2005); in seguito con
Toni Servillo ha pubblicato
Interpretazione e
creatività (ed. Laterza,
2008) e con Luca Ronconi
Teatro della conoscenza
(ed. Laterza, 2012).
59
epica e quasi sacrale dei fool shakespeariani) che fa le pulci a
quello stesso potere che ogni volta, immancabilmente, finisce
per sconfiggerlo e stritolarlo nei propri ingranaggi.
Due esempi abbastanza memorabili negli ultimi vent’anni
di vita scenica del Rigoletto verdiano sono quelli di Venezia
e di Piacenza. Nel 1992 La Fenice commissionò per il
bicentenario del teatro un’importante edizione dell’opera
ad Andrei Serban, geniale regista rumeno che con il Cafè La
MaMa ha realizzato a New York edizioni molto innovative e
perturbanti dei tragici classici (indimenticabili le sue Troiane
che parlavano in greco antico, confuse tra il pubblico in una
soffocante e claustrofobica scatola scenica) come anche
di classici più vicini a noi, da Gozzi a Brecht. Il risultato del
suo lavoro veneziano fu scenicamente grandioso, quanto
filologicamente fondato: lo sviluppo di quella cruciale
‘debolezza’ maschile, costante perniciosa, e rivelatrice, di un
rapporto scorretto tra chi il potere ce l’ha e chi lo subisce,
assumeva sul palcoscenico l’aspetto visivo di un percorso
attraverso i secoli. Tutto in una notte: il ballo nel salone del
duca era animato da maschere dai costumi fiamminghi,
davanti a fondali che sembravano dipinti da Giulio Romano,
cui la forte inclinazione del palcoscenico conferiva una
prospettiva rinascimentale, per altro animata da fantasie
erotiche e tableaux vivants già barocchi. La quotidianità
invece, quella in cui il buffone si scopre padre, e quindi
tradito dall’amore nascosto di sua figlia Gilda e il perfido
Duca, indossava le palandrane e i mantelli a ruota di fine
ottocento, l’epoca di Verdi. Mentre la stanza della fanciulla
si prosciugava in un anonimo Biedermeier di radica, dentro
un’archeologia industriale col cui muro delabré Serban citava
il suo maestro, Peter Brook. Se il palazzo ducale incendiava le
passioni nel marmo vermiglio di un salone con rampa di scale
elicoidale, l’ultima scena trasformava l’osteria di Sparafucile
in un bordello di un’odierna periferia del mondo. Lì Rigoletto
preparava la vendetta contro il duca, per ricavarne invece il
60
sacrificio innocente della figlia. La cui abbacinante apoteosi
restituiva un sorriso al pubblico, e dignità alla tragedia di quel
padre “ridicolo”. Eppure tanta articolata precisione non fu
gradita, non solo al pubblico e alla critica (a giudicare dai tanti
bu bu in teatro e sulla stampa), ma neppure agli stessi artisti
in scena. Tutti presero le distanze dalla regia, e i cantanti
arrivarono addirittura a dettare ai giornali delle vere e proprie
‘autostroncature’. Eppure il lavoro di Serban (e di Gianni
Quaranta e Dada Saligeri, autori eccellenti e pluripremiati di
scene e costumi) rivelava qualcosa di importante nascosto
nelle pieghe della partitura verdiana.
Totalmente diversa, anche se non meno radicale, è stata
la scelta di Marco Bellocchio per il “suo” Rigoletto, con cui
ha debuttato nella regia lirica nel 2004. Per il regista era un
‘ritorno a casa’ in quella sua Piacenza, dove erano nati non
solo i fondamentali Quaderni piacentini diretti dal fratello
Piergiorgio, ma anche i suoi esplosivi Pugni in tasca, che
aprirono sullo schermo il ‘68. Usando da maestro il proprio
sguardo cinematografico, Bellocchio parte dall’opera per
raccontare e capire le trasformazioni della sua terra nel
dopoguerra. Rigoletto diventa un noir, coscienziale e oscuro,
ambientato in quella provincia benestante e fosca che nei
primi anni cinquanta preparava nuovi assetti sociali sotto
l’onda pressante della propaganda democristiana. Il ballo
d’apertura diventa così un carnevale da grande albergo
cittadino, dove l’insolenza maschile del Duca di Mantova
verso le signore della buona società trova eco cameratesca
nello squadrismo solidale dei giovanotti, “vil razza dannata”.
E la beffa al buffone protagonista, una bravata simmetrica
alla pubblicità democristiana di quegli anni fatta di madonne
pellegrine (che hanno l’aspetto piacentino e raffaellesco di
quella Sistina) e di appelli alle madri “contro i bolscevichi”
come gridano i manifesti ai lati della scena. Fino alla natura
morta, padana e ‘viscontiana’, in cui è risolta la casa di
Sparafucile. Le luci di Pasquale Mari, maestro della fotografia
in scena e sullo schermo, si rivelano decisive per la visione
61
di Bellocchio: capaci di far muovere nella nebbia le barche
sulla riva del Mincio, e di movimentare la natura di terra e
cielo. Bellocchio insomma attualizzava e ricontestualizzava
l’amata opera di Verdi, ma senza eccessi didascalici, semmai
indagando, dragando e portando alla luce della nostra
prospettiva la complessità della morale verdiana, attraverso
la riflessione sulla resistenza e la fine della guerra come
secondo risorgimento, non solo politico, ma anche sociale e
comportamentale.
Rigoletto insomma può risvegliare e far risuonare accordi
insospettabili nella coscienza del pubblico: non è un caso,
d’altronde, che in Fitzcarraldo Werner Herzog scelga proprio
una delle arie più note del capolavoro verdiano, “Bella figlia
dell’amore”, er accompagnare Klaus Kinski nella sua titanica
scalata attraverso la foresta amazzonica all’inseguimento del
sogno dell’arte, di Caruso e di un teatro d’opera in quel luogo
remoto e inaccessibile.
Ma il monumento maggiore del cinema all’opera verdiana è
la bellissima, avvolgente e inquietante Strategia del ragno
di Bernardo Bertolucci, un film prodotto dalla Rai nel 1970 e
andato in onda prima dell’uscita nelle sale cinematografiche.
Attraverso l’indagine di un figlio sulla storia del proprio padre
(i due si somigliano assai, entrambi interpretati da Giulio
Brogi), noto eroe antifascista celebrato per aver attentato
al duce durante una prima di Rigoletto rimanendo vittima
del suo stesso gesto, il film allarga le maglie della provincia
padana. Portandone alla luce contraddizioni e mitologie,
dall’antifascismo alla venerazione, tutta padana, per Verdi
e per Rigoletto, appunto: è durante le prove per un nuovo
allestimento dell’opera, infatti, che il figlio scopre verità,
ombre e misteri della propria storia familiare. Girata nella
bellissima Sabbioneta (ribattezzata col nome immaginario
di Tara) e ispirata a un racconto di Borges, la vicenda, che
da una dimensione analitica e storica attinge a un orizzonte
civile e umano, trova proprio nell’opera di Verdi la propria
scansione narrativa e il valore della memoria.
63
VISIONI
SAgome difformi
di Stefania Aluigi
Come sosteneva Platone nel Simposio il miglior poeta tragico
è anche il miglior poeta comico. Entrambe le scritture infatti
nascono dalla stessa profondità di spirito ed esprimono
una forza simile. Accanto alle trilogie gli antichi tragici
componevano un dramma satiresco; a noi è rimasto soltanto
il Ciclope di Euripide mentre tutti gli altri componimenti sono
andati perduti.
La caricatura sappiamo avere una storia molto lontana e
possiamo considerarla una forma d’arte che, sfuggendo alle
leggi generali del Bello, si costruisce sul principio della libertà
totale dei tratti. L’arte, almeno fino al secolo XIX, ha sempre
avuto una relazione armonica con la Bellezza ed infatti
esistono poche pitture o sculture dove compaia con evidenza
il carattere della bruttezza o meglio della deformità. Le arti
plastiche e figurative solo in età moderna e contemporanea
assumeranno il “brutto” come valore estetico fino a farlo
diventare la cifra sostanziale e stilistica delle loro opere.
La satira ha trovato più facilmente spazio nella scrittura e
la parola nel corso dei secoli ha potuto accompagnarne i
vortici dissennati e capricciosi. Il linguaggio della comicità,
sviluppandosi da un nucleo di estrema individualizzazione nel
rappresentare un carattere, allude tuttavia sempre a qualcosa
d’altro rispetto alla forma distorta che ritrae. Il pretesto
viene offerto dalla varietà della realtà umana e si combinerà
in forme sempre diverse a seconda dei contesti e delle
culture di appartenenza. L’arte, in questi casi, non nasconde
il grottesco e il deforme, anzi li comprende in un’ottica più
ampia di criticità.
La letteratura satirica e le sue “figure” attraversano i secoli,
da Aristofane e Menandro, Orazio e Luciano, si arriva a
Calderón e Shakespeare, Ariosto e Cervantes, Rabelais e
Swift fino a Molière e Voltaire. Una linea espressiva dotata
di un segno di notevole comunicatività che è stata analizzata
con estrema acutezza da Michail Bachtin nei suoi studi su
Rabelais e la cultura popolare.
Nelle arti figurative i primi riferimenti della distorsione delle
forme sono Brueghel, Grandville e Gavarni.
Nel Settecento la caricatura, attraverso la diffusione delle
Stefania Aluigi
È laureata in lettere
moderne e in filosofia.
Dopo un’esperienza
di curatrice indipendente
di mostre di arte
contemporanea in Italia
e all’estero, dal 2000
è stata Direttrice di Arte
Fiera Bologna.
Ha coordinato la
produzione e la messa
in opera di Ritratto del
Novecento con Edoardo
Sanguineti.
Nel 2011 ha curato il
progetto scientifico,
organizzativo ed
editoriale della mostra
Giorgio Morandi - Josef
Sudek. Collabora con
riviste e case editrici
specializzate nel
settore delle arti visive
contemporanee.
Francisco Goya, Capricci (23),
1799 circa, acquatinta
65
riviste, diventò un soggetto di grande interesse per il
pubblico soprattutto in Francia e in Inghilterra. I grandi
maestri di questo periodo furono Hogarth, Watteau e Goya,
che molto insegnarono alla satira dell’Ottocento. Le due
edizioni dei Capricci (la prima del 1799, la seconda del 1855)
costituiscono la grammatica visiva più raffinata dei vizi e delle
ambiguità della società del tempo. Ottanta tavole rigorose
e beffarde ritraggono l’umanità borghese con uno sguardo
tagliente e incisivo.
“La Caricature” fu il primo giornale satirico al mondo e,
fondato a Parigi nel 1830, venne pubblicato fino al 1835. In
quegli stessi anni Honoré Daumier, a causa della sua famosa
tavola Gargantua, venne condannato a sei mesi di carcere.
Questa nuova maniera espressiva con pochi tratti riassumeva
lo sguardo vivo e critico degli artisti verso il mondo borghese
e la società mondana, causando così spesso gli interventi
della censura. Quando poi si diffuse la riproduzione
litografica e successivamente la zincografia a perfezionarne la
tecnica, ecco che il pubblico crebbe notevolmente e le tavole
di artisti come Gavarni si diffusero in tutta Europa attraverso i
periodici umoristici.
In Italia, e arriviamo così a Rigoletto, la caricatura moderna
è alle prime armi rispetto agli altri Paesi. Torino, Venezia,
Napoli e Milano furono a metà Ottocento i primi centri
dove si diffuse la litografia e di conseguenza la nascita dei
giornali satirici. Uno dei più interessanti caricaturisti italiani
del Risorgimento fu Melchiorre Delfico, che compose
persino due opere e conobbe personalmente Verdi di cui era
appassionato estimatore.
Lo sguardo mobile e irriverente di questo tipo di linguaggio si
trasmuta in maniera del tutto naturale nella rappresentazione
teatrale di Rigoletto.
Il riferimento letterario del libretto di Francesco Maria Piave
è il testo di Victor Hugo Le Roi s’amuse rappresentato a Parigi
nel 1832; il giorno dopo la prima un atto ministeriale intimerà
al direttore del Teatro di sospendere le recite previste. Il
gesto nasceva dall’accusa di immoralità del contenuto e del
66
Gustave Doré, Triboulet,
illustrazione per le Opere
di Rabelais, 1894
Gustave Doré, Il pubblico
prima di una tipica
esperienza wagneriana,
disegno
Melchiorre Delfico, Verdi,
1860, illustrazione
protagonista stesso, il re Francesco I; persino il titolo viene
ritenuto un vero e proprio “ferro rovente” per il pubblico.
Hugo, indignato e offeso, replicherà a tale provvedimento con
parole e toni accesi difendendo l’indipendenza della propria
arte.
Lo scrittore francese nel corso del dramma insiste sulla
difformità del protagonista Triboulet e sul rapporto a volte
crudele tra gli opposti gruppi di personaggi: i frequentatori
della corte, i cosiddetti gentiluomini e la misera esistenza
del buffone, condannato a “non volere, non potere, non
dovere e non fare altro che ridere!”. Oltre la superficie
infausta dell’apparenza, emerge la morbosità esasperata che
lo lega alla figliola Gilda che mantiene segregata dal mondo.
In lei Triboulet-Rigoletto riscatta e sublima la tristezza del
suo aspetto fisico, e proprio in tale lato eroico merita la
rappresentazione che culminerà nel folle tragicità del finale.
Il governo francese è del parere che “un re che ride è un re
pericoloso” e che il dramma schernisca in maniera troppo
esplicita e irriverente il costume della corte, anzi il suo stesso
sistema.
Non possiamo non accennare anche alla straordinaria
capacità di Victor Hugo come disegnatore: una serie infinita
di opere grafiche e schizzi di ottima qualità accompagnerà
l’esistenza dello scrittore. Il soggetto umano, tra i temi
presenti, è trattato con piglio ironico e spesso aggressivo
nelle sue caratterizzazioni; qui si esprime con estrema
naturalezza la natura umana nella sua spontaneità che
comprende anche il difforme e l’irregolare.
Il disegno, così rapido ed essenziale nel definire i
tratti, accompagna la scrittura come un suo aspetto
complementare.
Sullo sfondo del testo dell’autore francese avviene quello
che la critica dell’epoca definì lo “strano impasto”; il libretto
italiano tuttavia glisserà su alcuni aspetti che nel testo
francese al contrario erano stati più approfonditi e sviluppati
e si concentra sulla vicenda dal punto di vista più teatrale.
Allo spazio della rappresentazione viene concesso di
disegnare a tutto tondo e con maggiore libertà il dramma
GUARDARE
Rigoletto è stato soggetto
prediletto di registi e
produttori sin dagli
albori del cinema. Esiste
infatti un’ampia scelta
tra videoregistrazioni di
allestimenti, trasposizioni
cinematografiche e film
che riproducono arie
dell’opera. Un esempio
recente e alla portata di
tutti: The Family Man,
con Nicolas Cage. Senza
dire della fiction televisiva
di Rai1 trasmessa in
mondovisione nel 2010
e girata nei luoghi
dell’ambientazione
verdiana. Con Placido
Domingo, Zubin Metha
sul podio e la regia di
Marco Bellocchio. Un film
d’opera vero e proprio è
quello girato dal francese
jean-Pierre Ponnelle nel
1982 con la direzione di
Chailly e Pavarotti nel
ruolo del Duca. Gli interni
sono ambientati nel
ligneo Teatro Farnese di
Parma e ben riconoscibile
è la mano del direttore
della fotografia
Pasqualino De Santis, lo
stesso del viscontiano
Morte a Venezia
(Deutsche Grammophon
DVD). Dello stesso anno è
anche la videoproduzione
dell’English National
Opera (in inglese)
67
Melchiorre Delfico, La coppia, 1855 circa, illustrazione
Le Triboulet, 1882, Parigi, giornale satirico
69
dell’esclusione, il dilemma della non appartenenza. In
Rigoletto, e la musica verdiana ne segue costantemente il
passo, emerge il contrasto tra l’apparenza e l’essenza, tra
il gruppo e l’individuo. La storia non cade mai nella troppo
facile versione caricaturale e la componente grottesca non
viene esacerbata al punto tale da chiudere il personaggio
in una sola dimensione. Quello che interessa, e in questo
aspetto l’opera richiama il modus delle riproduzioni satiriche
del tempo, è l’umana debolezza che vive dietro le apparenze
del difforme; la diversità dice sempre di qualcosa d’altro e
spesso ciò che è occulto ai più racchiude nuclei di intimità
profonda. L’elemento ironico sfiora il personaggio in modo
lieve e sfuggente; Rigoletto, come i ritratti di Daumier, si
affaccia con una fisionomia che proprio in virtù della sua
scomposizione si carica di una intensità emotiva a volte anche
esagerata. Il racconto teatrale ci consegna un’iconografia
quasi disegnata: il bozzetto che lo spettatore visualizzerà
dovrà tenere conto dell’ambiguità che il personaggio
custodisce. E i passaggi repentini dall’una all’altra dimensione
appartengono alla Natura disperata e vitale del protagonista.
ambientata nella Little
Italy newyorkese degli
anni ‘50, dove “The Duke”
è un boss mafioso stile Il
Padrino. Infine degna di
nota è l’attualizzazione,
repellente ma non meno
efficace, proposta dal
regista David McVicar nel
2000 alla Royal Opera
House di Londra (Naxos/
BBC Opus Arte DVD).
Honoré Daumier, Victor
Hugo, 1849
L’uomo con il sacco di monete d’oro
e i suoi adulatori, attibuito a scuola
di Pieter Brueghel, incisione
70
J. A. Beaucé e G. Rouget,
Triboulet, incisione per Le
Roi s’amuse di Victor Hugo,
1832 circa
Honoré Daumier, Intervallo, 1858, acquerello
71
Victor Hugo, L’invidioso, 1869 circa,Parigi
Victor Hugo, Gavroche a 11 anni, 1850, disegno
72
73
Honoré Daumier, Gargantua, 1830, litografia
Honoré Daumier, Le pere (caricatura di Luigi Filippo), 1831, disegno
74
Triboulet e la Morte, Francia, 1500 circa
75
Rigoletto, durante le prove
76
FLATUS VOCIS
di Alessandro Taverna
Le voci dei personaggi di Rigoletto hanno cancellato i
personaggi del Roi s’amuse che, del resto, voce ne hanno
potuto dimostrare pochissima.
Il dramma di Victor Hugo uscì subito di scena all’indomani
della prima e unica recita. Per divieto della censura, le roi
François I, Blanche e Triboulet non furono incarnati da
nessuna generazione di attori, e tantomeno poterono lasciare
qualche memoria interpretativa. Cancellati a forza e per
sempre dal palcoscenico, quei personaggi in gran numero
tratti dalla storia – incluso Triboulet che molto prima di Hugo
era stato trasformato in personaggio letterario da Rabelais
– hanno sofferto anticipatamente la sorte cui dovettero
adeguarsi le rispettive figure nel dramma di Piave e Verdi.
Ad attenuare lo scandalo, rendendolo irriconoscibile, ecco
che perfino il nome di Rigoletto è camuffato dalla censura
in Viscardello; e tutte le azioni più intimamente necessarie
all’efficacia dell’intreccio sono deliberatamente alterate.
Come il sacco mutato in “drappo”, così altre precauzioni
toccano ai protagonisti dell’opera verdiana.
“Il Duca è uno dei tanti scapati”: così la cautela esibita
nell’introduzione ad un’edizione del libretto non censurata
per una rappresentazione di pochi anni successiva alla prima
assoluta. Ma il Duca, nel Roi s’amuse, era in origine il re di
Francia, Francesco I che, segnala Victor Hugo in didascalia,
doveva apparire “comme l’a peint Titian” e nella sua sete
insaziabile di piaceri e di svaghi, anche proibiti, con un
registro invariabile di tono. Il Re si diverte, e canticchia anche,
su un refrain ripreso tale e quale nell’opera: “Une femme
souvent n’est qu’une plume au vent”.
In Rigoletto, al Duca, è tolta ogni facoltà dialettica.
Verdi si accorge che dopo il ratto e il possesso il seduttore
non ha nessuna ragione per incontrarsi ancora con Gilda,
come accade nel dramma di Hugo. E così Verdi e Piave
tralasciano frasi che non stonerebbero in una rilettura
brechtiana: “Ton père! mon bouffon! mon fou! mon
Triboulet! Ton père! Il est à moi! J’en fais ce qui me plaît! Il
veut ce que je veux!”
Il Duca non deve ragionare. E’ puro canto. Musica con cui
Alessandro Taverna
Laureato in Lettere e
Filosofia all’Università
Bologna. Ha collaborato
alle pagine di culturali
dei quotidiani del gruppo
Finegil-L’Espresso e
attualmente all’edizione
di Bologna del “Corriere
della Sera”. Ha
condotto per sei anni la
trasmissione quotidiana
“All’Opera!” realizzata
dal Teatro Comunale di
Bologna, riscuotendo il
plauso della Corte dei
Conti. Ha curato per sei
anni le edizioni del Teatro
Regio di Parma e del
Festival Verdi. Dal 2004
è l’ideatore di progetti
musicali e teatrali
per la Sagra Musicale
Malatestiana. Tra i libri,
la prima versione italiana
dei Grotteschi della
musica di Hector Berlioz,
un’edizione della vita di
Mozart scritta da Paolina
Leopardi.
ASCOLTARE
La tradizione discografica
di Rigoletto è tra le
più longeve e copiose
della storia dell’opera.
L’incisione di Kubelik del
1963 stabilisce una linea
di demarcazione tra il
vecchio e il nuovo gusto.
77
Rigoletto, durante le prove
78
occupare tutto lo squillante registro di un tenore fin dal suo
esordio volutamente superficiale, beffardo. E la plausibilità
con cui Verdi traccia l’identikit vocale del libertino sta in quel
verso di Hugo che risuona come una coazione a ripetere e
che suggerisce un canto squillante e spianato: “Tout est pour
moi, tout est à moi, je suis le roi!”
Tra i personaggi imprestati dalla storia del Roi s’amuse,
Blanche è invenzione di Hugo per scatenare il dramma
fra il servo e il suo padrone. “E se costei fosse stata mia
moglie?” protesta Leporello ritrovando Don Giovanni reduce
dall’incontro con una sconosciuta che l’aveva scambiato per
qualcun altro. Inventando Blanche, Hugo somma all’effetto
di questa scena il moto di collera del Commendatore che
scopre il tentato stupro ai danni della figlia. Per Gilda
l’identikit vocale è doppio, perfettamente consequenziale
al dramma che vive. Coloratura purissima e magiche
accensioni vocali nel primo atto. E poi, dopo l’incontro a letto
con il Duca, una trasformazione, crudelmente sottolineata
da Verdi increspando la linea vocale, facendole ritrovare
quella concitazione drammatica che appartiene di diritto
e fin dal principio a Rigoletto. Con Triboulet il triangolo si
chiude. Un baritono, che in Don Giovanni aveva il ruolo del
libertino e che qui è diventato una creatura mobile, instabile,
contraddittoria. Cinica sul lavoro e amorevolissima in casa.
Né buono né cattivo. Fu Felice Varesi a vestirne per primo
questi panni tanto disagevoli da portare in scena. Con il
teatro verdiano il cantante aveva fatto già qualche esperienza
– un’altra raffigurazione cavata da un dramma di Victor Hugo
con il Don Carlos di Ernani e poi, per primo, Macbeth – e
aveva preso le misure di padre umiliato cantando la prima
assoluta dei Due Foscari. Varesi avrebbe fallito invece il
primo incontro con Germont padre, contribuendo così al
naufragio della prima Traviata sullo stesso palcoscenico
che aveva ospitato il primo Rigoletto. Con quell’attrezzo
scenico con cui Verdi sfigurava un cantante – come un secolo
dopo avrebbe fatto Francis Bacon nei suoi ritratti – tenne a
battesimo il gobbo che canta, sul cui effetto teatrale Verdi
non nutrì mai dubbi.
Registrata alla Scala per
la DG e tutta giocata
sull’incisività dell’accento,
in essa le trasparenti
atmosfere introspettive
scuotono lo spettatore
ben più che gli estroversi
contrasti propri della
vecchia maniera. La
visione fortemente
teatrale del direttore è
il trait d’union di un cast
già sfolgorante nel quale
svetta un grandissimo
Fischer-Dieskau nel ruolo
del protagonista. Un’altra
pietra miliare nella storia
interpretativa dell’opera
è l’incisione di Giulini del
‘79, sempre per la DG,
dove l’umanità dolente di
Rigoletto è dipanata da
Cappuccilli in un fraseggio
eccellentemente
legato e con un timbro
indimenticabile, a
dispetto di un Domingo
(Duca) non impeccabile.
Marcata, infine, la
vocazione drammatica
mostrata da Sinopoli
nell’incisione del 1984 per
la Philips; un’espressività
contrastante ma fedele
alla partitura e severa
contro gli abusi della
tradizione. In essa Bruson
mostra non minore
finezza psicologica di
Fischer-Dieskau e una più
spontanea adesione al
fraseggio italiano.
79
Rigoletto, il Direttore ed il Regista durante le prove
INTERVISTE PARALLELE
di Mauro Mariani
A lungo Rigoletto è stata la più popolare delle opere della
cosiddetta ‘trilogia popolare’ di Verdi: ne è un curioso ma
preciso indicatore la trasformazione di molte espressioni
dei protagonisti - “La donna è mobile, “Questa o quella per
me pari sono”, “Bella figlia dell’amore”, “Cortigiani, vil razza
dannata”, “Si, vendetta, tremenda vendetta” - in modi di
dire proverbiali. Ma oggi Il Trovatore e La Traviata l’hanno
superato nell’amore del pubblico, probabilmente perché
certi punti del libretto - la gobba di Rigoletto, il candore
liliale di Gilda e il dramma per la sua verginità perduta, il
suo corpo infilato in un sacco - ci appaiono caricaturali,
perfino fastidiosi. Eppure musicalmente è forse la più
moderna delle tre e - al di là degli aspetti tutto sommato
marginali cui si è accennato prima - non ha perso nulla
del suo impatto teatrale. Cosa devono fare direttore e
regista per far giungere intatta questa sua forza al pubblico
odierno?
Mauro Mariani
Musicologo e critico
musicale, collabora con
varie riviste italiane
e straniere, come “Il
Giornale della Musica”
e “Opera Actual”. Scrive
testi e tiene conferenze
per importanti istituzioni
musicali, dall’Accademia
di Santa Cecilia di
Roma al Teatro Real di
Madrid. Ha pubblicato un
volume su Verdi. Insegna
Storia della Musica e
Metodolgia della Critica
al Conservatorio “Santa
Cecilia” di Roma.
Carlo Rizzari
“Forse possono apparire invecchiati certi momenti
musicali che suonano alle nostre orecchie come musica
d’accompagnamento un po’ troppo ‘leggera’: ma si deve
metterli nella giusta luce e rendere loro giustizia. D’altro
lato la valenza drammatica del recitativo e certe tinte scure
dell’orchestra sono molto efficaci e comunicative ancora oggi.
E rimangono intatte la pura emozione del canto italiano, la
sua seduzione melodica, la sua energia ritmica. Ogni volta
si stabilisce quella corrente elettrica col pubblico che Verdi
riesce a creare infallibilmente: è un rapporto immediato,
qualcosa di molto più profondo del brivido provocato
dall’acuto. Nelle opere di Wagner, l’altro genio che tutto il
mondo celebra nel 2013, questo rapporto col pubblico non
c’è, o, meglio, c’è ma è diverso, non è così diretto.”
Denis Krief
“Per capire la drammaturgia del Rigoletto bisogna pensare
che Le Roi s’amuse di Victor Hugo (da cui è tratto il libretto)
81
appartiene a un periodo molto preciso, il romanticismo
francese, e si riferisce al credo di quel movimento estetico. Il
teatro di Hugo mescolava sublime e grottesco e il pubblico
in sala oscillava tra pianto e riso. Qualcosa di simile esiste
anche oggi, nel cinema di Quentin Tarantino: si ride alle scene
più violente, quando si vede tutta quella salsa di pomodoro.
Ma alla fine dell’Ottocento il perbenismo e il pudore hanno
travisato il Rigoletto. Qui, quando si parla d’amore, in realtà
s’intende sesso. Il Duca pensa soltanto a quello e Gilda non
è una santarellina ma una ragazza nell’età in cui i sensi si
svegliano. Per Hugo e per Verdi questo era chiaro, tanto
che Verdi avrebbe voluto mettere bene in vista il lettone su
cui si era appena consumato il rapporto tra il Duca e Gilda,
ma la censura glielo vietò. Quanto a far finire la diva in un
sacco, la trovo un’idea degna di Hitchcock, che fa morire la
protagonista di Psycho sotto la doccia, o di Tarantino: se oggi
piace tanto Tarantino, perché non Rigoletto?”
Per questo dramma di passioni estreme, spinte fino
all’esasperazione, Verdi ha scritto, se si rispettano le sue
indicazioni, una musica dai colori prevalentemente brillanti,
leggeri. Allora non sbagliava il critico che dopo la prima del
1851 accostò il Rigoletto a Mozart?
Carlo Rizzari
“Il paragone con Mozart non è del tutto immotivato. L’uso
dell’orchestra in scena durante la festa riprende un’analoga
situazione del Don Giovanni e Monterone ricorda la figura
del Commendatore. D’altronde Verdi stesso racconta in
una lettera che da giovane - sotto la guida del suo maestro
Vincenzo Lavigna, compositore pugliese a sua volta allievo di
Paisiello - aveva studiato a fondo il Don Giovanni. La partitura
del Rigoletto è piena di pianissimo: è difficile rimanere
intensi quasi sussurrando, ma ci proverò, e chiederò anche ai
cantanti di sforzarsi a rispettare queste indicazioni di Verdi,
perché le voci italiane tendono spesso a forzare. Cercherò di
mettere in evidenza anche i momenti più leggeri, non solo
82
NAVIGARE
Anche la rete fornisce
innumerevoli e talvolta
preziose occasioni di
approfondimento. Ad
esempio, nell’archivio
storico on line del Teatro
La Fenice di Venezia
(www.teatrolafenice.
it/mediateca/libretti)
è reperibile l’intero
programma di sala
relativo alla stagione
2001 contenente, tra
gli altri, l’importante
saggio di Michele Girardi
intitolato Due facce di
Rigoletto - già presente
in Verdi-Studien: Pierluigi
Petrobelli zum 60.
Geburtstag, München,
Ricordi/Bühnen und
Musikverlag, 2000 – oltre
a una ricca bibliografia
tematica curata da Gildo
Salerno. Vi si trovano
anche il libretto e la
locandina della prima
assoluta dell’opera
“espressamente scritta”
per la Fenice “nella
stagione di carnovale
e quadragesima 18501851”. Similmente, sul sito
del Teatro Regio di Parma
(www.teatroregioparma.
org), alla voce
“Approfondimenti” della
sezione “Archivio”, sono
quelli drammatici: per esempio, il duetto “Veglia, o donna” è
quasi tutto piano e nell’aria “Parmi veder le lagrime” l’ansia
del Duca deve essere resa senza forzature. Ovviamente ci
sono anche momenti più violenti, come “Sì, vendetta”, ma
anche qui bisogna iniziare piano e non troppo veloce, per poi
crescere gradualmente.”
Denis Krief
“Sono d’accordo. Durante le prove ho parlato agli interpreti
più di Mozart che di Verdi. Ho detto a Gilda e al Duca di
pensare durante il duetto “Addio, speranza ed anima” ad
“Aprite, presto aprite” delle Nozze di Figaro di Mozart.
In un punto in particolare cito in modo preciso il Don
Giovanni, perché trovo Monterone un personaggio molto
‘dongiovannesco’: io lo faccio uccidere nel primo atto e,
quando torna in scena a rivendicare l’onore della figlia, è
dunque un fantasma, come il Commendatore nell’opera di
Mozart. Tutta la mia regia è costruita intorno al modello del
Don Giovanni. Sono simili i continui passaggi dal tragico al
comico, dal sublime al grottesco. Solo nel terzo atto me ne
allontano, perché nel finale il riferimento di Hugo è piuttosto
La tempesta di Shakespeare, precisamente il monologo di
Prospero. Mi ha anche aiutato molto un saggio di Pierre
Boulez sul Wozzeck di Berg, in cui lui vede una serie di
‘stazioni’ attraverso cui passa il protagonista nel suo percorso
verso la catastrofe: in questo caso la protagonista è Gilda, che
sceglie la morte - il suo è quasi un suicidio - perché la sua vita
è stata tutta una delusione e non le si apre nessuno spiraglio
d’uscita.”
scaricabili gli interessanti
saggi della stagione
2004-2005 nonché una
vasta disco e videografia
commentata da Elvio
Giudici. Infine, nel sito
dedicato al musicologo
Sergio Sablich si legge un
suo intelligente articolo,
uscito su La Voce del 5
maggio 1994, in merito
alla questione filologica
(www.sergiosablich.org).
I cantanti di questo Rigoletto sono molto giovani, spesso al
loro debutto: com’è stato lavorare con loro?
Carlo Rizzari
“Dalla loro i giovani hanno l’energia e la freschezza, ma
vanno aiutati, perché sono anche inesperti. Si oscilla
tra questi due poli, ma è molto bello lavorare con loro e
83
Rigoletto, durante le prove
84
sono sicuro che abbiamo raggiunto un ottimo risultato.
D’altronde Gilda e il Duca sono personaggi giovanissimi
e sembrano scritti per due ragazzi, sebbene siano molto
impegnativi sotto l’aspetto vocale. È importante anche la
presenza di un protagonista della classe e dell’esperienza di
Stefano Antonucci, che è di grande aiuto per questi giovani,
rappresenta un riferimento sicuro e li stimola a crescere.”
Denis Krief
“È chiaro che ai giovani si devono spiegare tante cose che un
professionista esperto già conosce. Ma non è l’età a fare la
differenza, c’è chi ha l’istinto della scena a vent’anni e chi non
l’ha né a venti né a quaranta. E, se non l’ha, il regista non può
fare molto. Per fortuna ora, a differenza d’un tempo, quasi
tutti i cantanti hanno una buona presenza e sanno come stare
in scena.
85
Rigoletto, foto di scena
86
POLVERE D’ARCHIVIO
LETTERA A CARLO MARZARI,
la censura del rigoletto
Busseto, sabato 14 dicembre 1850
Sig. Presidente Marzari
onde rispondere subito alla pregiat. sua II corrente ho avuto
ben poco tempo per esaminare il nuovo libretto: ho visto
però abbastanza per capire che ridotto in questo modo
manca di carattere, d’importanza ed infine i punti di scena
sono divenuti freddissimi.
S’era necessario cambiare i nomi, dovevasi cambiare anche
la località e farne un Duca, un Principe d’altro luogo, per
esempio un Pier Luigi Farnese od altro, oppure portare
l’azione indietro prima di Luigi XI quando la Francia non era
regno unito, e farne o un Duca di Borgogna o di Normandia
etc. etc., i ogni modo un padrone assoluto.
Nella scena V del I° Atto tutta l’ira de’ cortigiani contro
Triboletto non ha senso. La maledizione del vecchio, così
terribile e sublime nell’originale, qui diventa ridicola perché il
motivo che lo spinge a maledire non ha più quell’importanza
e perché non è più il suddito che parla così arditamente
al suo re. Senza questa maledizione quale scopo, quale
significato ha il Dramma?
Il Duca è un carattere nullo: il Duca deve essere
assolutamente un libertino; senza di ciò non è giustificato il
timore di Triboletto che sua figlia sorta dal suo nascondiglio:
impossibile il Dramma. Come mai nell’ultimo Atto il Duca
va in una taverna remota solo, senza un invito, senza un
appuntamento?
Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del
sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta
dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può
fare da Maestro? Chi può dire questo farà effetto, e quello
no? Una difficoltà di questo genere c’era pel corno d’Ernani:
ebbene chi ha riso al suono di quel corno? Tolto quel sacco
non è probabile che Triboletto parli una mezza ora a cadavere
prima che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia.
Osservo in fine che s’è evitato di fare Triboletto brutto e
Era fatale, persino
scontato. Il Rigoletto
di Verdi e Piave era
destinato, per sua stessa
natura, a sbattere contro
il muro della censura. E
in particolare contro i
severissimi commissari
dell’Imperial Regio
Governo Asburgico. I
motivi per far scattare le
forbici erano innumerevoli:
nel libretto originale il
detentore del potere
(il Duca di Mantova)
è un seduttore lascivo
e privo di morale, il
suo antagonista è un
buffone deforme pronto
ad uccidere il proprio
padrone e gravato, oltre
tutto, da una paternità
misteriosa. Per di più la
vicenda è attraversata
da cima a fondo dal
brivido di un’assai poco
cristiana “maledizione”.
Veramente troppo per
un’opera sola. E difatti
le traversie, che pesano
soprattutto sulle spalle del
povero Piave, sono infinite:
i censori cancellano
il titolo originale, La
Maledizione, e impongono
un scialbissimo Il Duca
di Vendôme che infatti
Verdi rifiuta. La scena
viene spostata da Parigi a
Mantova, i nomi di Hugo
cambiati. L’umore di Verdi
è nero. La contrattazione
è serratissima fino agli
ultimi giorni di gennaio
del 1851: manca poco più
di un mese alla prima e
il compositore annuncia
finalmente che il sigillo
87
Rigoletto, foto di scena
gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!... Farà effetto? non
lo so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha
proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo
rappresentare questo personaggio esternamente deforme
e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore.
Scelsi appunto questo soggetto per tutte queste qualità, e
questi tratti originali, se si tolgono, io non posso più farvi
musica. Se mi si dirà che le mie note possono stare anche
con questo dramma, io rispondo che non comprendo queste
ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte
che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di
darvi un carattere.
Insomma di un dramma originale, potente, se ne è fatto
una cosa comunissima e fredda. Sono dolentissimo che la
Presidenza non abbia risposto alla ultima mia. Non posso che
ripetere e pregare di fare quanto dicevo in quella, perché in
coscienza d’artista io non posso mettere in musica questo
libretto.
Ho l’onore di dirmi colla più profonda stima
Dev. Serv. G. Verdi
delle autorità è stato
posto. In extremis. Artefice
dell’accordo è, più di
ogni altro, il direttore del
Teatro La Fenice, Carlo
Marzari, terrorizzato più
che altro dalla penale
stratosferica che avrebbe
dovuto pagare se l’opera
non fosse andata in scena.
Ma l’ostinazione di Verdi lo
lascia col fiato sospeso fino
all’ultimo. Il 15 dicembre,
come si comprende dalla
lettera che pubblichiamo,
la situazione è ancora
in alto mare. Verdi è
furioso: il nuovo libretto
uscito dalle maglie della
censura è inaccettabile,
accusa Marzari di non
avere mosso un dito per
salvare il progetto iniziale
e minaccia di rinunciare.
Ma in realtà la censura
lavora, come sempre,
contro se stessa. Più
tenta di nascondere e
più è costretta e rivelare.
E difatti alla fine della
trattativa lo spettro di
Victor Hugo e del suo
dramma scandaloso
rimane perfettamente
in luce. Come osserva
felicemente Mario
Lavagetto in uno studio
prezioso dedicato al
‘caso’ Rigoletto, “una
buona censura avrebbe
dovuto far dimenticare le
tracce dell’originale. Se
nel testo restano cicatrici
visibili, queste rischiano di
stimolare la curiosità del
lettore, cosicché il lavoro di
censura si ritorce contro se
stesso”. (gb)
89
RIGOLETTO
IL SOGGETTO
Mantova, secolo XVI
ATTO PRIMO
Gran festa a palazzo ducale.
Dopo aver vantato le proprie
conquiste al cortigiano Borsa, il duca rivela di desiderare una fanciulla che vede ogni domenica in chiesa ove si
reca sotto mentite spoglie per fare conquiste tra le giovani
mantovane. Frattanto egli corteggia l’avvenente moglie del
conte di Ceprano. Il gobbo buffone di corte, Rigoletto, irride
a quest’ultimo; pur divertiti, i cortigiani astanti meditano
vendetta nei suoi confronti... ne hanno scoperto un segreto:
Rigoletto tiene nascosta una donna, che suppongono sia la
sua amante. Si aprono le danze, ma lo spettacolo è interrotto
dal conte Monterone, sopraggiunto a difendere l’onore della
figlia, sedotta dal duca. La lingua di Rigoletto non si ferma
neppure innanzi a lui. Monterone, trascinato fuori dalla sala,
scaglia una maledizione al duca e soprattutto a Rigoletto, che
ammutolisce.
Una via cieca. Notte. Rigoletto, avvolto nel proprio mantello,
pensa alla maledizione di Monterone; con lui Sparafucile,
che gli offre i suoi servigi di sicario. Rigoletto si informa del
suo nome e recapito; una volta rimasto solo egli sfoga lo
struggimento della sua vita: deforme, sfortunato, schernito, è
costretto a far ridere gli altri; in Sparafucile egli vede una possibilità per far giustizia ai torti patiti. In casa lo attende l’unico
affetto rimastogli dopo la morte della moglie: quello di Gilda
sua figlia. Egli teme che questo suo segreto venga scoperto,
in particolar modo il suo timore è rivolto ai cortigiani. Mentre, immerso nei sospetti, esce dal cortile di casa, vi penetra
furtivamente il duca, in abiti borghesi. A Gilda questi si finge
Gualtier Maldè, studente e povero. È lui il giovane che l’aveva
avvicinata in chiesa e che ora le dichiara il proprio amore.
L’idillio è interrotto da rumori improvvisi provenienti dall’esterno: il duca scompare, aiutato da Giovanna, cui Rigoletto
aveva affidato l’incarico di sorvegliare la figlia e che in precedenza il duca aveva avvinto alla propria causa con una borsa
90
di danari. Gilda sale nella propria stanza ancora trasportata
per l’incontro poc’anzi vissuto. Al di fuori Marullo, Borsa e gli
altri cortigiani armati e mascherati attirano l’attenzione di Rigoletto: gli fanno credere di voler rapire la moglie di Ceprano.
Quest’ultimo in realtà è con loro; la vittima designata è Gilda.
Rigoletto si unisce loro: mascherato e bendato, egli sostiene
la scala per consentire di scavalcare il muro. Gilda viene rapita e perde una sciarpa. Rigoletto vede la sciarpa, corre a casa
e, resosi conto della sciagura piombatagli addosso, rievoca la
maledizione.
ATTO SECONDO
Salotto nel palazzo ducale.
Il duca è in preda a forte agitazione: tornato in casa di Gilda,
l’ha trovata deserta; giura vendetta e prova tenerezza al suo
ricordo. Sopraggiungono Marullo, Ceprano, Borsa e gli altri
cortigiani raccontando l’avventura notturna: il duca viene
così a sapere che la giovane è a palazzo: esce di fretta con
sorpresa di tutti. Entra Rigoletto, cercando di nascondere il
dolore e la preoccupazione che lo attanagliano; irrequieto, si
guarda intorno. Un paggio viene a cercare il duca su ordine
della duchessa, i cortigiani gli fanno intendere la sua occupazione; comprendendo che oggetto dell’occupazione del duca
è Gilda, Rigoletto perde il controllo: infuriato, si getta contro
la porta, smania e impreca, ma alla fine implora i cortigiani
affinché gli rendano la figlia. Gilda stessa esce incontro al
padre, confessandogli di aver perduto l’onore; quindi narra di
come abbia conosciuto Gualtier Maldè, ossia il duca. Rigoletto medita vendetta.
ATTO TERZO
La sponda deserta del Mincio. Un’osteria mezza diroccata.
Sullo sfondo Mantova. Notte.
Gilda e Rigoletto sono sulla strada. Il padre chiede alla figlia
se è ancora innamorata del duca: Gilda conferma... Rigoletto
la invita a guardar dentro l’osteria, dove il suo adoratore,
91
travestito da ufficiale di cavalleria, chiede una stanza e del
vino, e canta una canzonetta amorosa; scende Maddalena,
che il duca corteggia. Un veloce dialogo fra Sparafucile e Rigoletto lascia comprendere la segreta intesa che li unisce per
sopprimere il duca. Rigoletto dà conforto alla figlia, sconvolta
dal comportamento del duca con Maddalena e le promette
un’imminente vendetta, lei intanto riparerà a Verona ove il
padre la raggiungerà l’indomani. Gilda si allontana, Rigoletto
anticipa dieci scudi d’oro a Sparafucile; altri dieci verranno
alla consegna del cadavere. Si avvicina un temporale. Il duca
va a dormire, Maddalena cerca di convincere Sparafucile a
risparmiare il giovane avventore. Gilda rientra con addosso gli
abiti maschili che dovevano servirle per la fuga a Verona ed
ascolta, non vista, il colloquio. Maddalena dice al fratello di
uccidere il gobbo: il duca è troppo bello e lei ne è innamorata. Sparafucile rifiuta, ma si dichiara disposto a sostituire la
vittima designata con qualche altro avventore, purché giunga
all’osteria prima della mezzanotte, l’ora convenuta con Rigoletto. Gilda chiede perdono a Dio ed al padre; augura ogni
bene all’uomo che ama e che salverà, batte l’uscio e viene
trafitta da Sparafucile. Il temporale diminuisce. A mezzanotte
Rigoletto salda il debito con Sparafucile e ritira il sacco con
il cadavere, apprestandosi a gettarlo nel fiume. Nella notte
si ode la voce del duca che si allontana canticchiando la sua
canzone. Rigoletto è preso dall’angoscia taglia il sacco e alla
luce di un lampo riconosce Gilda. Dalla locanda nessuno gli
risponde. Gilda, ancora in vita, gli racconta l’accaduto e muore con parole di perdono: in cielo, vicina alla madre, pregherà
per lui. Rigoletto, quasi in preda alla follia, cade sul cadavere
della figlia riconoscendo nell’accaduto il terribile effetto della
maledizione.
92
RIGOLETTO
the theme
Mantua, XVIth century
ACT I
Great feast in the ducal palace.
Having boasted of his own
conquests to the courtier Borsa, the Duke reveals that he
desires a young lady whom he sees every Sunday in church
where he goes in disguise to make conquests among the
young women of Mantua. In the meantime he courts the
lovely wife of the Count of Ceprano. The hunchback court
jester, Rigoletto, makes fun of the Count of Ceprano; though
amused, the courtiers present meditate to take their revenge
upon him; they have discovered a secret: Rigoletto keeps a
woman hidden, whom they assume is his lover. The dances
begin, but the spectacle is interrupted by the Count of Monterone, come to defend the honor of his daughter who has
been seduced by the Duke. Rigoletto does not hold his tongue even before him. Monterone, dragged out of the room,
yells a curse at the Duke and especially at Rigoletto, who falls
silent.
A blind alley. At night. Rigoletto, wrapped in his own
cloak, thinks of Monterone’s curse; with him is Sparafucile,
who offers his services as an assassin. Rigoletto asks for his
name and address; when he is left alone, he unburdens the
tragedy of his life: deformed, unlucky, jeered at, he is forced
to make others laugh; Sparafucile seems to him to be a way
to achieve justice for all the wrongs he has suffered. At home
awaits the only loved one left to him after the death of his
wife: his daughter. He is afraid that this secret of his will be
discovered, and he is especially afraid of the courtiers. While,
immersed in his suspicions, he leaves the courtyard of his
house, the Duke secretly enters it, dressed as commoner. To
Gilda he pretends to be Gualtier Maldè, a poor student. He is
the young man who had approached her in church and who
now declares his love to her. The moment is interrupted by
sudden noises coming from outside: the Duke disappears,
assisted by Giovanna, whom Rigoletto has charged with
looking out for his daughter, and whom the Duke had earlier
93
won over with a bag of money. Gilda goes up to her room
still transported by the encounter she had just experienced.
Outside, Marullo, Borsa and the other masked and armed
courtiers attract Rigoletto attention: they make him believe
they want to kidnap Ceprano’s wife. Ceprano, in fact, is with
them; the designated victim of the kidnapping is Gilda. Rigoletto joins them: masked and hooded, he holds the ladder
which allows them to climb over the wall. Gilda is kidnapped
and loses a scarf. Rigoletto sees the scarf, runs home and
realizing what tragedy has just befallen him, remembers the
curse.
ACT II
The great Hall in the Ducal palace.
The Duke is deeply disturbed: upon his return to Gilda’s
house, he found it deserted; he swears revenge and fondly
remembers her. Marullo, Ceprano, Borsa and the other
courtiers arrive and recount their night of adventure: the
Duke thus discovers that the girl is in the palace: he leaves
quickly, to everyone’s surprise. Rigoletto enters, trying to
hide the pain and the worry that grip him; restlessly, he looks
around. A page comes looking for the Duke by order of the
Duchess, the courtiers hint at what he is up to, understanding
that the object of the Duke’s occupation is Gilda, Rigoletto
loses control: infuriated, he throws himself against the door,
ranting and raving, but in the end implores the courtiers to
give him back his daughter. Gilda herself comes out to her
father, confessing that she has lost her honor; then she tells
how she has met Gualtier Maldè, that is the Duke. Rigoletto
plans his revenge.
ACT III
The desert bank of the Mincio. A dilapidated tavern. In the
background, Mantua. At night.
Gilda and Rigoletto are on the road. The father asks his daughter if she is still in love with the Duke: Gilda says that she
94
is... Rigoletto invites her to look into the tavern, where her
admirer, dressed as an officer of the cavalry, asks for a room
and some wine, and sings a love song; Maddalena whom the
Duke is wooing, comes down the stairs. A quick conversation
between Rigoletto and Sparafucile hints at the agreement
which binds them to eliminate the Duke. Rigoletto consoles
his daughter, upset by the Duke’s behavior with Maddalena
and promises her a rapid revenge, she in the meantime will
go to Verona where her father will meet her the next day. Gilda walks away, Rigoletto gives ten golden scudi to Sparafucile;
another ten will come when the body is delivered. A storm
is approaching. The Duke goes to sleep, Maddalena tries to
convince Sparafucile to save the young man. Gilda comes
back in dressed in the men’s clothes that she was to use for
her escape to Verona, and listens to the conversation unseen.
Maddalena tells her brother to kill the hunchback: the Duke
is too handsome and she is in love with him. Sparafucile
refuses, but says he is willing to substitute the designated
victim with some other young man, as long as he comes to
the tavern before midnight, the hour he has agreed upon
with Rigoletto. Gilda begs forgiveness from God and from her
father; she wishes well to the man that she loves and whom
she will save, knocks on the door and is killed by Sparafucile.
The storm abades. At midnight, Rigoletto pays his debt to
Sparafucile and takes the bag with the corpse, to throw into
the tavern. In the night the voice of the Duke is heard humming his song as he leaves. Rigoletto is taken by panic: he
cuts the bag open and recognized Gilda by lamplight. Nobody
from the tavern answers his cries. Gilda, still alive, tells him
what has happened and dies with words of forgiveness: in
Heaven, next to her mother, she will pray for him. Rigoletto,
almost in prey to madness, falls on the corpse of his daughter
and recognizes the terrible effect of the curse in what has
happened.
95
il libretto
RIGOLETTO
di Francesco Maria Piave
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114
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116
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ů͛ĞĨĨĞƚƚŽĐŽŶĐƵŝsĞƌĚŝ
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^ŽŶŝŽĐŽůů͛ĂŶŝŵĂΕĐŚĞƚŝƌŝƐƉŽŶĚŽ͘͘͘
Ś͕ĚƵĞĐŚĞƐ͛ĂŵĂŶŽΕƐŽŶƚƵƚƚŽƵŶŵŽŶĚŽ͊͘͘͘
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^͛ĂŶŐĞůŽŽĚĞŵŽŶĞΕĐŚĞŝŵƉŽƌƚĂĂƚĞ͍
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ŚŝŶƐĞƉĂƌĂďŝůĞΕĚ͛ĂŵŽƌĞŝůĚŝŽ
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131
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132
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133
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135
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ĞƐƵƉĞƌĨŝĐŝĂůĞ͕ĞƐĞŵďƌĂƵŶ
ƉĂƌĂĚŽƐƐŽĐŚĞƐŝĂůƵŝ͕
ĚŽŶŐŝŽǀĂŶŶŝŝŶĐĂůůŝƚŽ͕
ĂĚĞĐůĂŵĂƌĞƚĂůĞĐŽŶĐĞƚƚŽ
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ĚĂůĚƌĂŵŵĂŽƌŝŐŝŶĂůĞĚŝ
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ŶƵŵĞƌŝĚĞůů͛ŽƉĞƌĂŝƚĂůŝĂŶĂ͕
ǀĞƌƌăƌŝƉƌĞƐŽƉŝƶǀŽůƚĞ
ŶĞůĐŽƌƐŽĚĞůů͛ĂƚƚŽ͕
ĨƵŶŐĞŶĚŽĚĂĞůĞŵĞŶƚŽ
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ƉĂƌƚĞĚĞůůĂĐĂŶnjŽŶĞğ
ƉƌŽůƵŶŐĂƚĂŶĞůůĂǀĞƌƐŝŽŶĞ
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ůĂƌŝƉĞƚŝnjŝŽŶĞĚĞůĐĞůĞďƌĞ
ƚĞŵĂ͕ĚŝŶŶĂŶnjŝĂůƵĐĂ
ƐŝƉĂůĞƐĂDĂĚĚĂůĞŶĂ͕
ƐŽƌĞůůĂĚŝ^ƉĂƌĂĨƵĐŝůĞ͖
ƋƵĞƐƚ͛ƵůƚŝŵŽ͕ŶĞů
ĨƌĂƚƚĞŵƉŽ͕ƐŝƉŽƌƚĂ
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ĐŽŶĨĂďƵůĂƌĞĐŽŶZŝŐŽůĞƚƚŽ
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136
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ĚĂǀĞƌŽůŝďĞƌƚŝŶŽ͘͘͘
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^Ş͍͘͘͘ƵŶŵŽƐƚƌŽƐŽŶ͘͘͘
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ǀĞĚĞĚƵĞĐŽƉƉŝĞ
ĚŝƉĞƌƐŽŶĂŐŐŝŝŶƚĞƌĂŐŝƌĞ
ƐƵůůĂƐĐĞŶĂ͗ĚĂƵŶĂƉĂƌƚĞ
ŝůƵĐĂĐŽƌƚĞŐŐŝĂ
DĂĚĚĂůĞŶĂ͕ĐŚĞůŽƌĞƐƉŝŶŐĞ
ĐŽŶŵĂůŝnjŝĂ;ƐĞĐŽŶĚŽ
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Ěŝ͞ƵŶĂƐĐŚĞƌŵĂŐůŝĂ
ĚŝďĂƐƐĂŐĂůĂŶƚĞƌŝĂ͟Ϳ͖
ĚĂůů͛ĂůƚƌĂ'ŝůĚĂ
ĞZŝŐŽůĞƚƚŽĂƐƐŝƐƚŽŶŽ
ĂůĐŽƌƚĞŐŐŝĂŵĞŶƚŽ
ĚĂůů͛ĞƐƚĞƌŶŽ͘EĞůĐŽƌƐŽ
ĚĞůů͛ĞƉŝƐŽĚŝŽ͕ĐŚĞğ
ĐŽŶĚŽƚƚŽĚĂůů͛ŽƌĐŚĞƐƚƌĂ
;ĂŝǀŝŽůŝŶŝ͕ŝŶƉƌŝŵŽůƵŽŐŽ͕
ğĂĨĨŝĚĂƚŽŝůƚĞŵĂƐƵůƋƵĂůĞ
ŝŶƚĞƌǀĞŶŐŽŶŽŝĐĂŶƚĂŶƚŝͿ͕
ĞŵĞƌŐŽŶŽůĞĞƐĐůĂŵĂnjŝŽŶŝ
ĚŝƐĚĞŐŶŽĚĞůůĂƉƌŝŵĂ
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ĞĚŝƌŝŵƉƌŽǀĞƌŽĚĞůƐĞĐŽŶĚŽ
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Rigoletto, foto di scena
GLI ARTISTI
Carlo Rizzari
direttore
Dal 2006 è assistente musicale di Antonio
Pappano e collabora con la direzione artistica
dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
di Roma. Ha diretto inoltre l’Orchestra
Filarmonica della Radiotelevisione Olandese,
l’Orchestra Sinfonica di Montreal, l’Orchestra
della Suisse Romande, l’Orchestra Sinfonica
di Graz, l’Orchestra Regionale Toscana,
l’Orchestra di Padova e del Veneto, l’Orchestra
del Teatro di San Carlo di Napoli, i Solisti
Aquilani, l’Orchestra della Fondazione
Toscanini, l’Orchestra de “I Pomeriggi
musicali2 di Milano, l’Orchestra Tafelmusik di
Toronto e ha partecipato a numerosi festival
tra cui il Festival di Knowlton, la Biennale di
Venezia, il Festival Belcanto, il Reate Festival.
Fra le sue collaborazioni più note si
annoverano Il Signor Bruschino di Rossini per
la regia di D. Abbado, il concerto dedicato
ai tre tenori J. Osborn, B. Banks e C. Albelo
e l’originale versione di Pierino e il lupo di
Prokovief, con F. Timi, nella Villa Adriana di
Tivoli.
Nel 2009 ha ottenuto un grande successo di
critica e pubblico dirigendo la Nona Sinfonia di
Beethoven e Street Song di M. Tilson Thomas.
Nel 2010 ha diretto La bohème con M.
Giordani e D. D’Annunzio Lombardi al Teatro
Bellini di Catania. Ha inaugurato le edizioni
154
2009 e 2010 del Reate Festival, dirigendo
Il Campanello di Donizetti con la Belcanto
Orchestra.
Nel 2012 è stato invitato da Claudio Abbado
come assistente alla direzione dell’Orchestra
Mozart per alcuni concerti a Bologna e a
Lucerna. È stato protagonista della stagione
estiva 2012 dell’Accademia Nazionale di
Santa Cecilia accanto a grandi solisti come
Lang Lang, dirigendo inoltre le cinque
sinfonie dispari di Beethoven. Nel settembre
2012, alla guida dell’ensemble dei corsi di
perfezionamento dell’Accademia, ha realizzato
il dittico Opera 900 (M. Ravel, L’heure
espagnole e G. Puccini, Gianni Schicchi) e
come ospite del Reate Festival ha diretto poi
l’Adina di G. Rossini. In seguito ad un concerto
nell’Auditorio Alfredo Kraus di Las Palmas,
ha debuttato con il Don Pasquale al Teatro
São Carlos di Lisbona e ha diretto Rigoletto al
Teatro Carlo Felice di Genova.
Denis Krief
regia, scene, costumi, disegno luci
Regista, scenografo, costumista e realizzatore
luci. Vive a Roma. Di formazione cosmopolita,
ha compiuto studi musicali a Parigi e si
è formato alla scuola italiana di regia
guardando anche al teatro d’opera in
Germania e al teatro di prosa russo.
Musicista e uomo di teatro, si è dedicato
al repertorio classico e contemporaneo
realizzando regie di opere distanti nel tempo.
Ospite dei principali teatri d’opera italiani,
ha lavorato anche all’Opéra Bastille di
Parigi con Benvenuto Cellini di Berlioz e allo
Staatstheater di Karlsruhe con Der Ring des
Nibelungen di Wagner.
In Italia ha realizzato: A Midsummer Night’s
Dream di Britten all’Opera di Roma; Moses
und Aron di Schoenberg al Massimo di
Palermo; Un ballo in maschera di Verdi e
Linda di Chamounix di Donizetti al Comunale
di Bologna; Parsifal di Wagner alla Fenice
di Venezia; Lucia di Lammermoor, Aida, Il
barbiere di Siviglia, Die Walküre e la prima
italiana di Die ägyptische Helena di Strauss al
Lirico di Cagliari.
Nel 2006, in occasione della 57ª Sagra
Musicale Malatestiana di Rimini, ha curato
la prima regia in Italia del Diario di uno
scomparso di Janáček. Nel 2007 ha realizzato
Turandot di Puccini per Karlsruhe e per la
Suntory Hall di Tokyo. Ha collaborato con
l’Accademia Chigiana di Siena, realizzando
diversi spettacoli, tra cui La madre del mostro
di F. Vacchi. Ha inaugurato la stagione estiva
dell’Arena di Verona con Nabucco di Verdi,
ha aperto il Festival Verdi di Parma con Luisa
Miller, ha messo in scena Turandot di Puccini
al Teatro La Fenice di Venezia e al San Carlo
di Napoli.
Il 2008 è stato consacrato alle opere
contemporanee del compositore cinese Tan
Dun: The First Imperor, in prima europea per
lo Staatstheater di Saarbrücken in Germania,
e Water Passion per la Sagra Malatestiana di
Rimini (prima italiana), dove ha anche allestito
Kafka Fragmente di Kurtág (prima italiana).
Nel 2009 ha allestito Lucia di Lammermoor
al Regio di Parma, la sua prima produzione
della Dama di Picche di Ciakovski al Regio di
Torino e Maria Stuarda di Donizetti a La Fenice
di Venezia.
Nel 2010 ha messo in scena Il Trovatore e
l’Alzira di Verdi e ripreso Luisa Miller per il
Regio di Torino. Ha debuttato con Die Frau
ohne Schatten di Strauss al New National
Theater di Tokyo ed è tornato alla Sagra
Malatestiana con uno spettacolo originale su
testi di Rilke con musiche di Martin e Ullmann.
Nel 2000 ha ricevuto il Premio Abbiati
quale migliore regista per Turandot di
Puccini e Busoni, Carmen di Bizet e Lucia di
Lammermoor di Donizetti.
155
Franco Sebastiani
maestro del coro
Nato a Trento, ha studiato Ingegneria
presso l’Università di Bologna e
contemporaneamente composizione, musica
corale, strumentazione e direzione d’orchestra
al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna.
Dal 1980 al 1984 ha insegnato al
Conservatorio bolognese e dal 1998 al 2007 al
Conservatorio di Adria.
Dal 1982 al 2001 è stato maestro suggeritore
e altro maestro del coro del Teatro Comunale
di Bologna, partecipando alle stagioni liriche
e alle tournée in Giappone del ’93 e del ’98.
È stato maestro del coro al Teatro Valli di
Reggio Emilia, al Comunale di Bologna, al
Teatro Alighieri di Ravenna, al Teatro Verdi
di Salerno, al Teatro dell’Opera di Roma, alla
Maison Radio France di Parigi e a Fort Worth
negli Stati Uniti.
Ha diretto concerti e allestimenti di opere
liriche in Italia e in Europa, è stato più volte
assistente di direttori d’orchestra, tra cui P.
Maag, G. Gelmetti e R. Muti.
In qualità di direttore ha preso parte a diverse
edizioni delle Feste Musicali del Comunale
di Bologna e del Ravenna Festival.
È stato più volte presidente di commissione
nei concorsi per strumenti dell’orchestra al
Teatro Carlo Felice di Genova.
È autore di revisioni e trascrizioni di partiture
156
di opere inserite nella programmazione del
Comunale di Bologna.
Dal 2001 al 2003 ha ricoperto la carica
di segretario artistico del Teatro Verdi di
Trieste.
Fabrizio Paesano
tenore
Alessandro Scotto di Luzio
tenore
Nato a Napoli nel 1985. Appassionato di
canto, ha iniziato giovanissimo ad esibirsi in
spettacoli e concerti che spaziano dalla musica
sacra alla canzone napoletana.
L’interesse per la musica lirica lo ha portato
successivamente ad intraprendere la
formazione musicale e vocale con la guida di
Marilena Laurenza al Conservatorio di Salerno.
Nel 2009 ha vinto il Concorso “Luigi Denza”
a Castellammare di Stabia e nel 2010 ha
debuttato al Teatro Sociale di Como nel ruolo
di Elvino ne La sonnambula di Bellini, finalista
idoneo al ruolo del 61° Concorso As.Li.Co.
Nella stagione 2011 ha collaborato con il
Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia per
L’elisir d’amore (prova generale aperta al
pubblico in sostituzione di Ramón Vargas) ed
è stato riconfermato al Teatro Sociale di Como
come Fadinard nella produzione Il cappello
di paglia di Rota in scena anche al Teatro
Chiabrera di Savona, al Teatro Fraschini di
Pavia e al Teatro Sociale di Rovigo.
Recentissimo il debutto come Tebaldo ne I
Capuleti e Montecchi di Bellini nel Circuito
Regionale Lombardo.
Giovanissimo ha iniziato privatamente lo
studio del canto, per poi proseguire la sua formazione al conservatorio Cimarosa di Avellino.
Tra il 2006 e il 2008 è stato aggiunto del coro
dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma.
Nel 2008 ha vinto il concorso per l’ammissione
alla Scuola dell’Opera Italiana del Comunale
di Bologna ed il XIV Concorso Internazionale
“Ritorna Vincitor” di Ercolano.
Nel 2009 è stato finalista del 60° Concorso
per giovani cantanti lirici d’Europa indetto
dall’As.Li.Co, vincitore nella sezione tenori delle
trasmissioni televisive “Domenica In” e “Tour
de Chant” su RAI Uno.
Nello stesso anno ha cantato nell’anfiteatro
romano di Bet She’An in occasione del “Concerto per la Riconciliazione” durante la visita
di Papa Benedetto XVI in Israele; si è esibito
nei concerti di apertura del Concorso “Spiros
Argiris” 2009 con l’Orchestra di Torre del Lago
diretta da Beltrami; ha debuttato come Rodolfo ne La bohéme diretta da Veronesi e nel
ruolo di Tonio ne La figlia del reggimento con
D’Agostini al Teatro Sociale di Como; nel 2010
è stato Nemorino ne L’elisir d’amore diretto da
Rustioni.
Nel 2012 ha debuttato come Duca di Mantova
in Rigoletto a Trapani, come Ernesto in Don
Pasquale a Padova con Bisanti ed ha riscosso
successo come Edgardo in Lucia di Lammermoor con As.Li.Co a Como, a Cremona, a
Fermo e a Ravenna. Il 2013 è iniziato con Un
giorno di regno ed Elisir d’amore a Verona.
157
158
Stefano Antonucci
baritono
Yanni Yannissis
baritono
Ha debuttato nel 1988 come Marcello ne La
bohème al Teatro alla Scala, ritornandovi
per Manon Lescaut e Fedora. Nel ’97 ha
debuttato come Rigoletto al Teatro Donizetti
di Bergamo, intraprendendo una brillante
carriera che lo ha portato a collaborare in
Italia con i teatri Regio di Torino, Comunale di
Bologna, Filarmonico di Verona, Carlo Felice
di Genova, Maggio Musicale Fiorentino,
Fenice di Venezia, Massimo di Palermo,
e all’estero con i teatri di Berlino, Lione,
Parigi, Montpellier, Losanna, Zurigo, Vienna,
Monaco e Montecarlo. Ha lavorato con i
direttori Maazel, Solti, Gavazzeni, Delman,
Gelmetti e Renzetti. Nelle ultime stagioni si è
concentrato sull’interpretazione dei principali
ruoli verdiani. Ha cantato La traviata (Berlino,
Catania, Macerata, Verona, Firenze, Bologna,
Torre del Lago, Monte Carlo), Falstaff (Torino,
Berlino, Parigi), Luisa Miller (Barcellona,
Losanna, Napoli e in tournée in Giappone),
Ernani (Palermo), Il trovatore (Roma, Verona,
Parigi), La forza del destino (Torino, Parma),
Simon Boccanegra e Un ballo in maschera in
diversi teatri italiani. Si distinguono: Madama
Butterfly a Bologna con la direzione di D. Gatti
e a Parma, Lucia di Lammermoor a Macerata
(Guingal/Brockhaus), L’Arlesiana a Montpellier
incisa per Universal. Ha interpretato La
Favorita a Santiago del Cile, La bohème e
Adriana Lecouvreur a Firenze, Pagliacci a San
Pietroburgo, Rigoletto all’Opéra di Dijon, a Tel
Aviv, a Genova e a Caracalla. Recentemente è
stato Simon Boccanegra a Göteborg.
Nato ad Atene, ha studiato canto al
Conservatorio di Atene e successivamente,
con Charles Kellis, alla Juilliard School of the
Performing Arts di New York.
Ha debuttato ad Atene con la National Opera
nel ruolo di Cecil in Maria Stuarda di Donizetti
ed ha proseguito la sua carriera partecipando
a numerose produzioni in Europa e in America,
al fianco di celebri direttori, cantanti e registi
come Levine, Pappano, Abbado, Pavarotti,
Domingo e Mirella Freni.
Si è esibito in molti teatri greci e italiani. Nel
Regno Unito ha cantato Leporello nel Don
Giovanni con la Scottish Opera, in Francia ha
interpretato Melitone nella Forza del destino
ed è stato Sharpless con la Frankfurt Opera
House.
Negli Stati Uniti ha cantato Cirillo in Fedora
alla Washington Opera House e Colline nella
Bohème alla San Diego Opera House; dal 1991
al 2001 è stato membro del Metropolitan
Opera House di New York City.
Le sue registrazioni includono Andrea Chénier,
La fanciulla del West, Idomeneo, Rigoletto, I
Lombardi, Fedora, Don Carlos.
I suoi ultimi impegni lo hanno visto coinvolto in
Macbeth e in Makropolus case al Metropolitan
Opera di New York, nel ruolo di Amonasro
all’Herodion Theatre e in Gianni Schicchi al
Teatro São Carlos di Lisbona, dove nel 2012 ha
interpretato Malatesta nel Don Pasquale.
Dal 2008 al 2010 è stato direttore artistico
dell’Opera di Salonicco.
Sofia Mchedlishvili
soprano
Mariangela Sicilia
soprano
Nata nel 1989 a Tbilisi in Georgia.
Dal 2007 ha frequentato la classe di canto
al Conservatorio “V. Sarajishvili” di Tbilisi,
studiando con Nodar Andghuladze.
Nel 2008/2009 ha vinto la borsa di studio
“Maia Tomadze”.
Nel 2009 ha debuttato nel ruolo della prima
dama nel Flauto Magico.
Nel 2010 ha vinto il Concorso “Lado Ataneli”.
Nel 2011 ha debuttato come Susanna ne Le
nozze di Figaro ed ha partecipato all’Opera
Festival di Augsburg.
Nel 2012 è stata al festival Rossini in Wildbad
e, subito dopo, ha debuttato in Carmina
Burana a Tbilisi e in Lucia di Lammermoor a
Jesi e a Fermo.
Nel 2013 ha vinto l’As.Li.Co e debutterà nel
ruolo di Amenaide in Tancredi nel circuito
lombardo. Interpreterà anche Euridice in Orfeo
all’inferno a Firenze.
Giovane soprano italiano si è diplomata nel
2010 al conservatorio “S. Giacomantonio”
di Cosenza. Formatasi con la guida di
Carmela Remigio e Leone Magiera,
attualmente si è perfezionata con Fernando
Cordeiro Opa. Collabora con artisti di fama
internazionale. È stata allieva della Scuola
dell’Opera Italiana del Teatro Comunale di
Bologna (a.a.2009/2010) ed ha frequentato
l’accademia mozartiana di Aix-en-Provence nel
2011 specializzandosi con Susanna Eken.
Nel 2009 ha debuttato in Hänsel und Gretel
(Gretel) di Humperdinck per una tourneé nei
più importanti teatri italiani. Ha interpretato:
Serpina nella Serva Padrona di Pergolesi e
Arsenia nel Don Trastullo di Jommelli al San
Carlo di Napoli; Livietta e Tracollo e Serva
Padrona di Pergolesi al Comunale di Bologna;
Musetta nella Bohème a Lucca, Pisa, Livorno
e Ravenna; Charmion nella Cléopâtre di
Massenet al Festival di Salisburgo; Corinna ne
Il viaggio a Reims al ROF di Pesaro.
Al Festival di Wexford è stata Vivetta
ne L’Arlesiana, con grande successo di
pubblico e critica. Più recentemente è stata
protagonista dello Stabat Mater di Pergolesi a
Gerusalemme e Ravenna trasmesso dalla Rai.
Si è distinta in importanti concorsi
internazionali: primo premio “R. Leoncavallo”
di Montalto Uffugo nel 2009, vincitrice del
ruolo di Adina al “T. Schipa” di Lecce e premio
straordinario al “F. Viñas” di Barcellona
nel 2012.
159
160
David Cervera
basso
Emanuele Cordaro
basso
È nato nel 1986 a Vilamarxant (Valencia,
Spagna). Ha iniziato gli studi musicali di
bombardino e trombone all’età di 7 anni nella
scuola musicale della banda Unió Artística
Musical de Vilamarxant, con la guidaa dei
professori G. Sanchis, J. M. Arrué e J. Martínez.
Nel 2008 ha conseguito il diploma di trombone
al Conservatorio di Musica di Castelló. Nel 2004
ha iniziato gli studi di canto nel Conservatorio
di Musica di Valencia. Dal 2005 ha studiato con
il basso-baritono Francisco Valls. Nel 2009 si è
trasferito a Madrid per proseguire gli studi nella
Escuela Superior de Canto di Madrid con Juan
Lomba e i maestri di repertorio Pilar Gallo e D.
Gifford.
Come solista ha interpretato l’opera Pinocchio
(Omino) di Natalia Valli, La bohème (Colline),
Turandot (Timur), Il barbiere di Siviglia (Basilio),
Lucia di Lamermoor (Raimondo) e la zarzuela
La Tabernera del Puerto (Simpson) di Pablo
Sorozábal. Il suo repertorio d’oratorio include la
Messa di Coronazione e il Requiem di Mozart,
il Requiem di Fauré, la Missa Solemnis e lo
Stabat Mater di Rossini e Requiem di Verdi. Ha
partecipato alla registrazione della Cantata
Oda a Jovellanos di J. Muñiz e A. Gamoneda. Ha
cantato recital di opera e zarzuela, incluso il ciclo
“Amigos de la Ópera de Madrid”.
Nel 2009 è stato finalista del Concorso
Internazionale di canto “Manuel Ausensi” al
Gran Teatre del Liceu di Barcellona e nel 2010 ha
vinto il terzo premio del Concorso Internazionale
di Canto di Colmenar Viejo (Madrid).
Nato a Catania nel 1987, ha iniziato lo studio
del canto privatamente. Si è perfezionato con il
Maestro Marcello Lippi e con il basso Bonaldo
Giaiotti.
Nel 2011 ha partecipato al concorso a ruoli
per l’Aida di Giuseppe Verdi indetto da Ramfis
Production ad Avignone ed ha vinto il ruolo del
Re, che ha debuttato in una tournè tra Spagna,
Francia e Italia.
Nel 2012 è stato impegnato nel ruolo di Brown
nell’Opera da tre soldi di Kurt Weill nei teatri di
Pisa, Lucca e Livorno. Si è esibito come basso
solista nella Messa di Requiem di Giuseppe
Verdi in una coproduzione Teatro Regio di
Parma ed Eurorchestra ed ha interpretato i
ruoli del secondo console e del podestà di Como
ne La battaglia di Legnano al Regio di Parma,
il ruolo del basso nel Manfred di Schumann al
Teatro Massimo di Palermo, il gran sacerdote di
Belo al Teatro Verdi di Pisa.
Nel 2013 ha interpretato Antonio ne Le nozze
di Figaro di Mozart e Ludovico in Otello, per la
regia di Enrico Stinchelli, entrambe al Teatro
Verdi di Pisa; è stato Pistola nel Falstaff al
Teatro della Fortuna di Fano e come basso
solista ha partecipato alla Messa di Requiem
di G. Verdi alla Loyola University di Chicago.
Sempre nel 2013 canterà Sparafucile nel
Rigoletto anche al Festival di Taormina.
Sofia Janelidze
mezzosoprano
Marianna Vinci
mezzosoprano
Di nazionalità georgiana ha terminato gli studi
al conservatorio della capitale Tbilisi. All’età
di 24 anni è entrata a far parte della State
Opera Theatre dove ha lavorato per tre anni,
interpretando ruoli primari in opere di Mozart,
Verdi e Tchaikovsky.
Nel 2008, su invito dell’ambasciata, si è
trasferita in Italia, studiando e perfezionandosi
con artisti di chiara fama, tra cui Gianfranca
Ostini, Jenny Anvelt, Katia Ricciarelli, Jaume
Aragall e Marcello Lippi. È stata premiata nei
concorsi “Martini”, “G. Simionato”, “G. Zecca”,
“E. Lisca”, “Giovani voci” di Magenta, “La città
sonora”. Nel 2009 è stata finalista ai prestigiosi
concorsi Operalia di Placido Domingo e Hans
Gabor Belvedere.
Ha riscosso successo di pubblico e critica al
fianco di Leo Nucci nel Rigoletto alla Scala
di Milano, in Suzuky al Teatro Pirandello di
Agrigento, all’Arena Alpe Adria di Lignano e al
Festival di Cura Carpignano. È stata Santuzza
al Cagnoni di Vigevano, Madame Flora nella
Medium di Menotti al festival Piccola Spoleto,
Farnace nel Mitridate di Mozart in tournée
dalla Georgia al Libano nel Al Bustan Festival.
Ha interpretato Maddalena al fianco di Ivan
Magrì al Teatro Vanemuine in Estonia. Ha
cantato Adelaide nella Napoli milionaria di Nino
Rota nei teatri Verdi di Pisa, Goldoni di Livorno
e del Giglio di Lucca.
Nata a Taranto, ha studiato canto all’Istituto
Musicale “G. Paisiello”. Nel 2005 si è diplomata
con la lode ed è stata ammessa come migliore
allieva dell’istituto all’Accademia “P. Grassi” di
Martina Franca, dove ha frequentato i corsi di
perfezionamento di E. Papadia e di S. Segalini.
Dal 2009 si è perfezionata con M. Beltrami e W.
Matteuzzi ed ha frequentato la Scuola dell’Opera
di Bologna.
Nel 2007 ha debuttato come Flora ne La traviata
diretta da S. Monterisi al Bitonto Opera Festival,
ha cantato lo Stabat Mater di G. Paisiello diretto da
A. Cavallaro a Taranto e si è laureata con lode in
discipline musicali.
Nel 2008 ha cantato l’Oratorio di Natale di C. SaintSaëns diretto da S. Sica.
In seguito al concorso televisivo per cantanti lirici
della RAI, ha partecipato ad un concerto in Israele
in occasione della visita del Santo Padre. Nel
2009 ha cantato Rosina ne Il barbiere di Siviglia al
Cervinara Opera Festival, il Requiem di Mozart a
Ravenna e Ferrara.
Nel 2009/10 è stata Maddalena in Rigoletto
con As.Li.Co. nel circuito lombardo, dove è stata
riconfermata per il 2010/11 nel ruolo di Flora ne
La traviata. Al Comunale di Bologna ha debuttato
come Mercedes in Carmen, al Politeama di Lecce
ha cantato il Requiem di Mozart diretto da L.
Bacalov e Berta ne Il barbiere di Siviglia diretta da
F. Zigante, La traviata e Napoli milionaria a Cagliari,
Carmen story al Comunale di Bologna, Il Cappello
di paglia di Firenze nel Circuito As.li.co, Cavalleria
Rusticana a Mumbai e Macbeth a Bologna.
161
Orchestra del Teatro Petruzzelli
direzione musicale
Daniele Rustioni
PRIMI VIOLINI
Pacalin Pavaci**
Enrico Vacca
Paolo Manzionna
Giacomo Bianchi
Raffaele Fuccilli
Vigilio Aristei
Simona Cappabianca
Aniello Alessandrella
Sabina Morelli
Matilde Ditaranto
Presta Luigi
Elena Di Felice
SECONDI VIOLINI
Maria Saveria Mastromatteo*
Carmine Marcello Rizzi
Milena De Magistris
Stefania Di Lascio
Piermarco Benzi
Marcello Alemanno
Antonio Maggiolo
Domenico Passidomo
Maria Giuseppa Parisi
Luigi Paradiso
VIOLE
Jonathan Cutrona*
Antonio Buono
Cecilia Iacomini
Federica Di Schiena
Michela Carnevale
Anna Maria Losignore
Luca Pellegrino
Giuseppe Rutigliano
VIOLONCELLI
Andrea Waccher *
Maria Cristina Mazza
Marco Schiavone
Giovanni Astorino
Ubaldo Chirizzi
Claudia Fiore
162
CONTRABBASSI
Vincenzo Antonio Venneri*
Alessandro Terlizzi
Francesco Saverio Piccarreta
Daniele De Pascalis
PERCUSSIONI
Giuseppe Costa*
Alberto Semeraro
FLAUTI
Raffaele Bifulco*
Camilla Castellucci
OBOI
Gianpiero Fortini*
Klidi Brahimi (anche corno
inglese)
CLARINETTI
Michele Naglieri *
Daniele Galletto
FAGOTTI
Matteo Morfini*
Mauro Leonardo
CORNI
Antonio Pirrotta *
Francesca Bonazzoli
Fabio Chillemi
Giuseppe Smaldino
TROMBE
Ettore Luigi Rivarola*
Giovanni Nicosia
TROMBONI
Giuseppe Zizzi*
Gianfranco Cipriani
Domenico Toteda
CIMBASSO
Nicola Di Grigoli
TIMPANI
Raffaele Collazzo
** spalla
* prima parte
QUINTETTO
IN PALCOSCENICO
VIOLINI
Maria Teresa Amenduni
Mattia Cuccillato
Viole
Giulia Dessy
Angelo Conversa
CONTRABBASSO
Vincenzo Loconte
BANDA
in palcoscenico
OTTAVINO
Sacha De Ritis
Flauto
Simone De Franceschi
Clarinetti
Mark La Regina
Andrea F. Zecchillo
Fabio Castiello
Corni
Vincenzo Colucci
Vincenzo Convertini
Vitalba Siliberti
Trombe
Alex Cesare Elia
Emanuele Spina
Tromboni
Francesco Chisari
Riccardo Fersini
Tuba
Rosario Tramontano
dietro le QUINTE
PERCUSSIONI
Michele Acquafredda
163
Coro del Teatro Petruzzelli
Mimi
MAESTRO DEL CORO
Alessandra Calearno
Barbara De Toma
Ester Gisotti
Alessandra Grassi
Anna Maria La Stella
Benedetta Piccionna
Anna Moscatelli
Luciana Scarli
Franco Sebastiani
TENORI
Giuseppe Cacciapaglia
Alessandro Cosentino
Nicola Domenico Cuocci
Sebastiano Giotta
Carlo Losito
Giuseppe Maiorano
Antonio Manfreda
Pantaleo Metta
Raffaele Pastore
Marcello Recca
Vito Tralli
BARITONI
Francesco De Candia
Carlo Giuseppe Monaco
Francesco Paolo Morelli
Antonio Muserra
Carlo Provenzano
Saverio Sangiacomo
BASSI
Cataldo Cannillo
Rocco Cavalluzzi
Francesco Colaianni
Graziano De Pace
Roberto Galanto
Giacomo Selicato
165
OPERA
BALLETTO
SINFONICA
STAGIONE 2013
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CREDITI E CONTATTI
Progetto editoriale Guido Barbieri
Design e disegni Marco Sauro
Editing Stefania Donnini
Traduzioni in lingua inglese Paul Jarvis
Foto Carlo Cofano
Stampa Grafiche Deste Srl
Si ringrazia Nico Stella e Domenico Andriani per la collaborazione
Info 080.9752840
[email protected]
Botteghino 080.9752810
[email protected]
Ufficio stampa 080.9752830
[email protected]
www.fondazionepetruzzelli.it
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