GIUSEPPE VERDI RIGOLETTO Commissario straordinario Carlo Fuortes Direttore musicale Daniele Rustioni Collegio Revisori dei Conti Presidente Giovanni Argondizza Membri effettivi Marco Aldo Amoruso Ruggiero Pierno INDICE Rigoletto in breve di Anna Cepollaro pag.19 Rigoletto in brief by Anna Cepollaro“ Trame d’autore Rigoletto, Mantova e la maledizione di Monterone di Philip Gossett “ Tempo e spazio nella ‘trilogia popolare’ di Verdi di Paolo Gallarati “ 23 27 33 Rigoletto: la genesi dell’opera di Julian Budden “ 47 Quarta parete Le strategie del genio: un Verdi popolare, civile e democratico di Gianfranco Capitta “ 67 VISTO DA LONTANO Lassù in cielo, vicino alla mamma. Osservazioni attorno ad un inevitabile suicidio di Carlida Steffan “ 57 VISIONI Sagome difformi di Stefania Aluigi “ FLATUS VOCIS di Alessandro Taverna “ INTERVISTE PARALLELE di Mauro Mariani “ 73 85 89 POLVERE d’ARCHIVIO Lettera a Carlo Marzari: la censura del “Rigoletto” “ 95 Rigoletto Il soggetto “ 98 Rigoletto The theme “ 101 IL LIBRETTO Rigoletto di Francesco Maria Piave “ con GUIDA ALL’ ASCOLTO di Federico Vizzaccaro “ 105 107 GLI ARTISTI Biografie e organici “ 161 giuseppe verdi rigoletto venerdì 31 maggio / ore 20.30 domenica 2 giugno / ore 18.00 martedì 4 giugno / ore 20.30 mercoledì 5 giugno / ore 20.30 venerdì 7 giugno / ore 20.30 sabato 8 giugno / ore 17.00 domenica 9 giugno / ore 18.00 lunedì 10 giugno / ore 20.30 il disegno del manifesto - Marco Sauro RIGOLETTO melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi (1813 - 1901) libretto di Francesco Maria Piave (1816 - 1867) tratto dal dramma “Le Roi s’amuse” di Victor Hugo prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851 Carlo Rizzari direttore Denis Krief regia maestro del coro Franco Sebastiani scene, costumi, disegno luci Denis Krief assistente regia Pia Di Bitonto assistente scene e costumi Angela Vasta Il Duca di Mantova Fabrizio Paesano (31 maggio - 5, 8, 10 giugno) Alessandro Scotto di Luzio (2, 4, 7, 9 giugno) Rigoletto Stefano Antonucci (31 maggio - 2, 5, 8, 10 giugno) Yanni Yannissis (4, 7, 9 giugno) Gilda Mariangela Sicilia (31 maggio - 5, 8, 10 giugno) Sofia Mchedlishvili (2, 4, 7, 9 giugno) Sparafucile Emanuele Cordaro (31 maggio - 5, 8, 10 giugno) David Cervera (2, 4, 7, 9 giugno) Maddalena Marianna Vinci (31 maggio - 4, 8, 10 giugno) Sofia Janelidze (2, 5, 7, 9 giugno) Giovanna Olga Podgornaya Conte di Monterone Gianfranco Cappelluti Marullo Antonio Muserra Matteo Borsa Raffaele Pastore Conte di Ceprano Rocco Cavalluzzi Contessa di Ceprano Teresa Caricola Usciere Carlo Provenzano Paggio Caterina Daniele Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli Produzione Fondazione Petruzzelli Nuovo allestimento Scene Laboratorio Fondazione Petruzzelli Attrezzeria Fondazione Petruzzelli Parrucche Studio Maschera d’Apollo Roma Casa della Parrucca snc Bari Sopratitoli Studio Prescott 9 Rigoletto, foto di scena RIGOLETTO in breve di Anna Cepollaro Nonostante le difficoltà già affrontate con la censura per il suo Stiffelio, Giuseppe Verdi decide di musicare Le Roi s’amuse, il dramma in cinque atti di Victor Hugo che Parigi ha vietato subito dopo la prima rappresentazione, il 22 novembre 1832 alla Comédie-Française, e che per i censori veneziani si basa su un soggetto indecoroso, nel quale il ruolo più negativo è dissacrantemente attribuito a un sovrano. “Il poeta Piave ed il celebre maestro Verdi non hanno saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità”, afferma il Governatore di Venezia alla lettura, il 28 novembre 1850, della prima edizione del libretto. “Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni”, scrive invece Verdi al librettista Francesco Maria Piave, in una lettera dello stesso anno. L’opera va in scena al Teatro La Fenice di Venezia l’11 marzo 1851, con Teresa Brambilla nella parte di Gilda, Felice Varesi in quella di Rigoletto e Raffaele Mirate come Duca. Avvezzi alla cautela nei confronti dei Diktat dei revisori, musicista e librettista declassano il re della commedia a duca, cambiano i nomi a molti personaggi e trasportano l’azione dalla corte di Francia al ducato di Mantova. Ma Verdi non vuole il re come protagonista principale, bensì il suo buffone di corte: di qui il titolo Rigoletto (tradotto dal francese Triboulet) che sostituisce il censurato La Maledizione. Immediato il successo di pubblico, mentre la critica rimane disorientata. Il lavoro, infatti, rompe con alcune convenzioni operistiche: “Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti”, dichiara Verdi. La celebre aria del Duca, “La donna è mobile”, come un coup de théâtre, appare nel tessuto musicale senza alcun preavviso. E, come osserva Julian Budden, “che fra tutti proprio lui canti sull’incostanza delle donne è un bel tocco ironico, derivato dal dramma originale”. Dramma e melodramma sono animati da passioni dolenti e irragionevoli, dagli slanci della “più elevata delle creature”, come Hugo definisce l’uomo, verso Anna Cepollaro Per vari anni conduttrice e consulente di Radio Tre, è attualmente uno dei critici musicali del quotidiano “La Repubblica”. Curatrice dei programmi di sala del Teatro dell’Opera di Roma, redige saggi per teatri lirici e festival musicali. Nel 2012 ha partecipato alla revisione della messa in scena de Il marito disperato di Cimarosa per la regia di Paolo Rossi al Teatro San Carlo di Napoli. È docente di Tecniche della comunicazione e di Tecniche dell’organizzazione dello spettacolo. 11 Rigoletto, durante le prove “il più sublime degli ideali”, la donna, secondo il poeta e drammaturgo francese. Inoltre, in Rigoletto, così come ne La traviata e, in parte, nel Trovatore, le opere della cosiddetta ‘trilogia popolare’, Verdi rafforza la sua idea fondamentale e nuova di adattare l’impianto del melodramma alla creazione di un protagonista assoluto, attorno al quale si dispongono gli altri personaggi, la cui connotazione morale sfugge alla consueta netta divisione tra buoni e cattivi. Caratteri morali di consueto contraddistinti anche dalla tessitura vocale: tenore e soprano buoni e innamorati e, contro di loro, il cattivo baritono. Ma in questa trama non è buono il tenore-Duca che considera le donne alla stregua di oggetti e non è del tutto cattivo il baritono-Rigoletto, dal cui sentimento paterno Verdi parte per presentare poi tutti i lati di un carattere tortuoso e oscuro. La tensione accumulata nella scena tenebrosa del protagonista con Sparafucile e nel successivo “Pari siamo” si scarica nella regolarità formale del duetto con Gilda, che esprime uno stato d’animo amorevole, tutto volto alla cura di un padre verso sua figlia. Dagli antri bui della coscienza, Rigoletto emerge alla luce solo nella sfera di serenità e di affetto creata dall’innocente fanciulla. Ma entro la fine del secondo atto, la rabbia che si intuisce durante “Tutte le feste al tempio” esploderà in “Si, vendetta”. Le tragiche conseguenze di questo furore diventano il punto focale dell’intera vicenda. L’apertura dell’atto finale contiene due dei pezzi più famosi dell’opera: oltre a “La donna è mobile”, il quartetto “Bella figlia dell’amore”. “Le maschere della tragedia e della commedia, invece di fronteggiarsi a vicenda, fronteggiano insieme il pubblico”, scrive il musicologo Piero Weiss di questo Andante concertato, la cui scrittura musicale orizzontale assegna ad ognuno dei quattro personaggi un preciso ruolo drammatico che accompagna la relativa azione: il corteggiamento del superficiale Duca a Maddalena, il compiacimento complice di quest’ultima che ridacchia, la sofferenza di Gilda che piange, la rabbia di Rigoletto che cerca di controllare i propri impulsi. Annus mirabilis Nel 1851 a Hyde Park la regina Vittoria inaugura la Grande Esposizione Universale; Luigi Napoleone Bonaparte con un colpo di stato si proclama imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III; un cavo telegrafico sottomarino fra Dover e Calais mette in comunicazione la Francia e l’Inghilterra; Cavour firma due trattati doganali, primo atto di vero liberismo commerciale; viene emesso il primo francobollo d’Italia; nascono Vincent D’Indy, Aristide Bruant e Margherita di Savoia, prima regina d’Italia; nasce l’America’s Cup e, a Baltimora, la prima fabbrica del gelato; esce il primo numero del quotidiano New York Times; viene pubblicato Moby-Dick di Herman Melville; in un discorso all’Assemblea Nazionale francese Victor Hugo usa l’espressione “Stati Uniti d’Europa”; Annibale de Gasparis scopre l’asteroide 15 Eunomia mentre William Lassell scopre Ariel e Umbriel, satelliti di Urano; muoiono Mary Shelley e Gaspare Spontini; viene eseguita la Terza sinfonia (“La Renana”) di Schumann; Wagner inizia la stesura della Tetralogia; Baudelaire scrive i Journaux intimes; Liszt completa i 12 Studi di esecuzione trascendentale; Schopenhauer, ormai anziano, ottiene il successo come pensatore. (Chiara Rizzo) 13 Rigoletto, foto di scena RIGOLETTO in BRIEF Anna Cepollaro In spite of the censorship problems he had already had to face with his Stiffelio, Giuseppe Verdi decided to set to music Le Roi s’amuse, Victor Hugo’s five-act play which had been banned in Paris immediately after the first performance, on 22 November 1832 at the Comédie-Française, and which the Venetian censors considered indecorous on account of the fact that the most negative role was irreverently assigned to a sovereign. “The poet Piave and the famous maestro Verdi were unable to find any better way of showing off their talents than by indulging in repugnant immorality and crude obscenity,” was the view of the Governor of Venice on reading the first edition of the libretto on 28 November 1850. Verdi, on the other hand, wrote to the librettist Francesco Maria Piave, in a letter of the same year, that “Le Roi s’amuse is the greatest subject and maybe the greatest drama of modern times”. The opera opened at Venice’s La Fenice Theatre on 11 March 1851, with Teresa Brambilla in the role of Gilda, Felice Varesi playing Rigoletto, and Raffaele Mirate as the Duke. Being used to having to adopt a cautious policy when dealing with the diktats of the censors, the musician and his librettist demoted the king to the rank of duke, changed the names of many of the characters and switched the scene from the French court to the Duchy of Mantua. Moreover, Verdi did not want the king but the court jester as his protagonist: whence the title Rigoletto (derived from the French character Triboulet), which replaced the censored La Maledizione [The Curse]. Public acclaim was immediate but the critics were unsure how to react. The work, in fact, represents a break with certain operatic conventions: “I wrote Rigoletto without arias, without crescendos, and with an interminable series of duets,” declared Verdi. In a veritable coup de théâtre, the Duke’s famous aria “La donna è mobile” appears without warning. And, as Julian Budden points out, the fact that he, of all people, is the one to sing about the inconstancy of women is a neat ironic touch, inspired by the original play. Both the drama and melodrama are driven by painful, uncontrolled passions, by the frenzied aspiration of “the most noble of creatures”, as Hugo defines Anna Cepollaro After working for a number of years as a presenter and consultant for the Italian radio station Radio Tre, she is currently working as a music critic for the newspaper “La Repubblica”. As well as being responsible for scheduling for the Rome Opera House, she writes reviews of operatic productions and music festivals. In 2012 she was involved in overseeing the production of Cimarosa’s “Il marito disperato” directed by Paolo Rossi at the San Carlo Theatre in Naples. She teaches Communication Skills and Techniques for the Organisation of Performing Arts Events. 15 Rigoletto, foto di scena man, towards woman, who for the French poet and dramatist is “the most sublime of ideals”. In Rigoletto, as in La Traviata and, in part, in Il Trovatore, the operas of the so-called ‘popular trilogy’, Verdi further develops his basic new idea of placing a sole protagonist at the centre of a work and arranging the other characters, who cannot be easily classified in the traditional categories of good and bad, around him. The morality of the characters is usually also reflected in the voices of those who play them: the tenors and sopranos tend to be good and in love while the evil baritone is set against them. In this case, however, the Duke-tenor, who sees women simply as objects, can hardly be considered good, while Rigoletto, the baritone, is not all bad: Verdi begins by focusing on his paternal feelings before delving into the more tortuous and obscure sides of his character. The tension that builds in the sombre scene involving the protagonist and Sparafucile, and in the subsequent “Pari siamo”, is released in the formal regularity of the duet with Gilda, which evokes the tender feelings of father for daughter. From the dark depths of his conscience, Rigoletto emerges into the light thanks to the atmosphere of serenity and affection created by the innocent young girl. Before the end of the second act, however, the anger which can be glimpsed in him during “Tutte le feste al tempio” will explode in “Si, vendetta”. The tragic consequences of his rage become the focal point of the whole story. The opening of the final act contains two of the opera’s most famous pieces: in addition to “La donna è mobile”, there is the quartet “Bella figlia dell’amore”. “Instead of confronting each other, tragedy and comedy confront the audience,” wrote the musicologist Piero Weiss of this Andante concertato, in which the music assigns to each of the four characters a precise characteristic to accompany his or her dramatic role: superficiality in the case of the Duke, as he seeks to woo Maddalena; Maddalena’s self-satisfied complicity as she responds with giggles; Gilda’s suffering, which brings her to tears; and the anger that possesses Rigoletto in spite of his attempts to control his own impulses. 17 Rigoletto, durante le prove TRAMA D’AUTORE Rigoletto, Mantova e la Maledizione di Monterone di Philip Gossett ‘Di cosa tratta il Rigoletto?’: questa sembrerebbe una domanda semplice, alla quale si potrebbe rispondere raccontando una storia: la storia del Duca di Mantova, della città da lui governata, del suo gobbo buffone di corte, Rigoletto, e della figlia del buffone, Gilda. Una storia d’amore, inganno, vendetta e morte. La storia, ovviamente, è essenzialmente la stessa raccontata dal drammaturgo, novellista e poeta Victor Hugo, nel suo dramma Le Roi s’amuse (Il Re si diverte). E in questo senso l’opera e il dramma hanno e che fare con le stesse cose. Chi ama l’opera lirica, tuttavia, non potrebbe accontentarsi di questa spiegazione. Nelle opere più belle, la musica è più di un accompagnamento alla storia: è attraverso la potenza della musica che la storia viene raccontata, i personaggi si realizzano e l’intensità del dramma si definisce. Verdi lesse il dramma di Hugo, se ne innamorò, e si convinse a tradurlo in musica. Ma sapeva che i censori austriaci, a Venezia, dove si sarebbe tenuta la prima, avrebbero posto obiezioni alla storia. Infatti, nel maggio 1850, scrisse al suo librettista, Francesco Maria Piave: Oh Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet [più tardi, Rigoletto] è creazione degna di Shakespeare!! [...] Ebbene, adunque, interessa la Presidenza, metti sottosopra Venezia e fai che la Censura permetta questo soggetto. Verdi era preoccupato per il soggetto dell’opera poichè il dramma teatrale aveva avuto enormi problemi con i censori. Un Re francese, Francesco I, che sulla scena si comporta come un libertino e seduce una fanciulla innocente, il desiderio di vendetta del buffone, l’appuntamento del Re con una prostituta in una locanda isolata: erano temi che difficilmente sarebbero stati accolti con indifferenza dal nervoso governo francese, e Le Roi s’amuse era stato proibito dopo una sola recita. Sebbene il suo librettista fosse nervoso su molti aspetti, incluso il palco diviso nell’ultimo atto e la deposizione del corpo di Gilda in un sacco, Verdi lo rassicurava Philip Gossett Philip Gossett è uno dei più illustri studiosi delle opere di Gioachino Rossini. Nato a New York nel 1941 si è laureto in musicologia presso la Princeton University e si è poi trasferito a Parigi per approfondire lo studio del linguaggio musicale rossiniano. Dal 1968 insegna alla Chicago University ed è presidente della American Musicological Society. Fino al 2006 ha collaborato con la Fondazione Rossini di Pesaro e con il Rossini Opera Festival. Fino alla scorso anno ha insegnato Filologia musicale presso l’Università La Sapienza di Roma. E’ autore di una trentina di volumi dedicati a Rossini e ha curato l’edizione critica di undici opere di Giuseppe Verdi. Fra le edizioni critiche rossiniane le più importanti sono quelle di Ermione, Semiramide e Tancredi. Si è dedicato anche alle opere teatrali di Donizetti e alla storia sociale dei teatri italiani dell’Ottocento. 19 continuamente. In una lettera di giugno, il compositore spiegava il suo pensiero sul tema del dramma: In quanto al titolo quando non si possa tenere Roi s’amuse che sarebbe bello... il titolo deve essere necessariamente La Maledizione di Vallier [più tardi, Monterone], ossia per esser più corto, La Maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande. Bada che La Vallier non deve comparire (come nel francese) che due volte e dire pochissime parole enfatiche, profetiche. Ti ripeto che tutto il soggetto sta in quella maledizione. Le paure sia di Piave sia di Verdi che il libretto potesse scontrarsi con i censori veneziani erano tutte corrette. Seri problemi sorsero in ottobre e novembre 1850. In alcuni casi, Verdi trovò un compromesso: stava predisponendo di sostituire la corte di Francia con una piccola corte del Rinascimento italiano, purché ci fosse un sovrano assoluto. Perciò, sebbene non fosse originariamente ideato per Mantova e non necessitando di quel tipo di ‘colore locale’ presente, ad esempio, in Tosca o Carmen, Verdi era perfettamente a suo agio ad immaginare Mantova come il luogo dove si svolgeva l’opera. Questo non fu un compromesso per lui: ciò che importava erano i personaggi e le loro interazioni, e quelli gli fu consentito di conservarli intatti. Era anche preparato a omettere la scena in cui il Duca trionfante esibisce la chiave della camera in cui Gilda rapita si è rinchiusa (il risultato, comunque, è l’unica vera debolezza drammaturgica del Rigoletto, la scena del Duca all’inizio del II Atto, dove i suoi voti al “Possente Amor” sembrano insinceri.) Ma su molti altri aspetti inquisiti dai censori, Verdi resistette risolutamente, rifiutando il libretto sostitutivo che gli era stato inviato. La sua lettera dell’11 dicembre alle autorità di Venezia è una affermazione di maturità artistica del 20 compositore. Eccone alcuni estratti: Il Duca diventa un carattere nullo e il Duca deve essere assolutamente un libertino, senza di ciò non si può giustificare il timore di Triboletto che sua figlia sorta dal suo nascondiglio, senza di ciò è impossibile questo Dramma. Non capisco perché si sia tolto il sacco: cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire, perché ne vogliono sapere in questo più di me? [...] Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli una mezza ora al cadavere senza che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia. Osservo infine che si è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo!! Per qual motivo? Un gobbo che canta dirà taluno! e perché no?... Farà effetto?... non lo so, ma se non lo so io, non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente defforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Una delle principali obiezioni di Verdi riguarda la maledizione: Nella scena V dell’Atto Io, l’ira de’ cortigiani contro Triboletto non ha senso. La maledizione del vecchio, così terribile e sublime nell’originale, quì diventa ridicola perché il motivo che lo spinge a maledire non ha più quell’importanza e perché non è più il suddito che parla così arditamente al suo re. Senza questa maledizione quale scopo, quale significato ha il Dramma? E Verdi conclude: Scelsi appunto tale soggetto per tutte queste qualità e questi tratti originali, se si tolgono io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le note possono stare egualmente su questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte che sieno non le scrivo a caso, e che procuro sempre di darvi un carattere. In somma di un dramma originale, potente, se ne è fatto una cosa comunissima, e fredda. [...] in coscienza d’artista io non posso mettere in 21 Rigoletto, foto di scena musica questo libretto. La retorica di Verdi era così potente che i censori, in effetti, cedettero, e la maggior parte di quanto avevano bloccato fu in seguito permessa. Egli passò gran parte di gennaio e febbraio a comporre e a orchestrare la partitura, e la prima ebbe un enorme successo l’11 marzo 1851. Da quel momento, Rigoletto è sempre stato ambientato a Mantova, e la scena funziona molto bene: con la presenza di un sovrano assoluto libertino, la maledizione di un padre la cui figlia è stata stuprata dallo stesso re, i cortigiani, il buffone e le sue burle, l’assassino e sua sorella, la prostituta, la locanda sulla sponda deserta del Mincio (per anni le edizioni stampate riportavano che l’azione si svolgeva sulla sponda destro del Mincio, un totale nonsense...), Verdi aveva tutto ciò che occorreva per ambientare perfettamente l’opera a Mantova e, in questa realizzazione, nella città reale e nei suoi dintorni. Verdi era preoccupato non soltanto del luogo, ma anche del periodo. Piave originariamente ideò l’azione in modo che, dopo la festa al palazzo del Duca, tutto il resto dell’opera avesse luogo nella stessa notte. Ma presto realizzò che, se la festa doveva terminare all’alba, non c’era il tempo di pianificare e portare a termine il rapimento di Gilda nella stessa notte. Così modificò il testo della parte cantata dai cortigiani nel II Atto, così da far rapire Gilda la notte dopo la festa. Ma Verdi era consapevole che avrebbe dovuto cambiare il testo nel I Atto, dove originariamente vi erano i cortigiani che venivano alla “Stasera” di Ceprano. Disse a Piave di modificarlo in “Domani”, e il librettista cambiò il suo testo. Verdi inserì il testo rivisto la prima volta che appariva, ma la seconda volta dimenticò di modificarlo. Così, per molti anni tutte le edizioni dell’opera riportavano che Ceprano diceva ai cortigiani di andare da lui “Domani” e poi, dopo poche battute, “Stasera”. La nuova edizione critica ha corretto ciò, come Verdi sicuramente intendeva. Quello che importa alla fine, comunque, non è che il rapimento si svolga nella stessa notte o quella successiva, ma che il riferimento sia coerente. 23 Rigoletto, durante le prove Tempo e spazio nella ‘trilogia popolare’ di Verdi di Paolo Gallarati Con Rigoletto (1851), Il Trovatore (1853) e La Traviata (1853) Verdi s’insediava definitivamente nella cerchia dei massimi operisti di tutti i tempi: la straordinaria energia musicale e la capacità di concentrazione drammatica esibite nelle prime opere venivano poste al servizio di soggetti che, per la loro originalità, la potenza dei caratteri e la tensione teatrale, spalancavano nuovi orizzonti al teatro moderno. Di punto in bianco, con Rigoletto, il melodramma verdiano si svincola volutamente dai modelli consueti, a cominciare dagli argomenti che escono completamente dalla moda librettistica del tempo. La consapevolezza di Verdi a tale proposito è inequivocabile, come mostra la lettera a Cesare de Sanctis, del primo gennaio 1853: Io non vi nascondo che leggo mal volentieri libretti che mi si mandano: è impossibile, o quasi impossibile che un altro indovini quello che io desidero: io desidero soggetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi... ed arditi all’estremo punto, con forme nuove ecc. ecc., e nello stesso tempo musicabili... Quando mi si dice: ho fatto così perché così han fatto Romani, Cammarano ecc., non s’intendiamo più: appunto perché così han fatto quei grandi, io vorrei si facesse diversamente. Una poetica innovativa, dunque, che non investe solo la scelta del soggetto, ma anche la sua veste formale. A partire da Rigoletto, infatti, la drammaturgia verdiana, che per sintesi, velocità di decorso e forza dei contrasti aveva trasformato, sin dall’inizio, il melodramma italiano, non è più riempita di contenuti generici: l’impostazione degli atti, il taglio delle scene, la loro articolazione nel tempo e nello spazio, gli argomenti e la distribuzione dei dialoghi e dei monologhi, le forme musicali e la scelta dei materiali discendono per deduzione dal contenuto drammatico del soggetto, mentre i vari strati compositivi – letterario, scenografico, drammatico, musicale – acquistano una interdipendenza così stretta che li condiziona a vicenda e conferisce all’opera una poderosa unità. Tra l’argomento e la veste formale si stabilisce una compenetrazione assoluta: nulla è più, neppur minimamente, fungibile. Ce lo suggerisce Paolo Gallarati è uno dei maggiori musicologi e critici musicali italiani. Nato a Torino nel 1948, allievo di Massimo Mila, è professore ordinario di Istituzioni di Storia della musica e di Drammaturgia musicale presso l’Università di Torino. Collabora stabilmente al quotidiano “La Stampa” e al mensile “Amadeus”. Tra i suoi libri Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento e La forza delle parole. Mozart drammaturgo che ha ottenuto il “Premio Internazionale Massimo Mila per la saggistica musicale”. Nel 2011 gli è stato assegnato il Premio “Mario Soldati”. Fa parte del Comitato d’onore della edizione critica delle “Opere di Gioachino Rossini”. 25 anche il vecchio, e oggi un po’ sopravvalutato Basevi, quando scrive: La musica trova però nel concetto generale del dramma un punto di appoggio, un centro verso cui convergono più o meno, secondo l’ingegno del maestro, i vari pezzi che compongono l’Opera; ed allora si ottiene ciò che chiamasi il colorito o la tinta generale. E qualche riga sotto: È indubitato che il colorito generale di un’Opera rivela meglio d’ogni altra cosa l’ingegno del maestro, perché ne mostra l’indole sua sintetica. Queste affermazioni sembrano ispirate direttamente da Verdi e tracciano una strada molto precisa per la critica; ma restano vaghe se non vengono riferite ad un concetto operativo che spieghi l’origine di questa unità sintetica. In Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata è possibile, secondo me, individuare questo dispositivo nell’esperienza del tempo, assunta come soggetto della rappresentazione drammatica. Sin dal Nabucco, Verdi compie una operazione sul tempo: le lentezze, le dilatazioni, le simmetrie a distanza dei dialoghi in musica, i lunghi interventi orchestrali tra una battuta e l’altra, la ripetizione delle parole, insomma, la definizione di un tempo ideale come condizione comunicativa a priori viene sostituita da un tempo molto più realistico, che mira a rappresentare i ritmi della vita: la stessa operazione, in pratica, compiuta da Mozart nei confronti dell’opera buffa italiana, con altri mezzi e in altro contesto estetico e stilistico, ma con gli stessi intenti di forte individualizzazione drammatica. Ma, come sappiamo, non esiste un solo modo di vivere il tempo dell’esistenza: nella ‘trilogia popolare’ Verdi scopre che la musica ha il potere di rappresentarne diversi, e in tal senso differenzia Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata. Rigoletto è l’opera del tempo sospeso. Un presagio di sventura la domina da capo a fondo nell’attesa di eventi che incombono, dirottando l’attenzione dello spettatore dai fatti reali al mistero di ciò che può accadere. 26 Leggere Una lettura preliminare utile per la conoscenza di Rigoletto è il capitolo ad esso dedicato nel fondamentale saggio di Julian Budden intitolato Le opere di Verdi, pubblicato in tre volumi da EDT (volume I, Da Oberto a Rigoletto, Torino, EDT, 1985, pp. 521-558). Nuove prospettive nella ricerca verdiana sono fornite da Philip Gossett e dagli altri studiosi intervenuti nel convegno internazionale svoltosi a Vienna nel 1983, in occasione della prima del Rigoletto in edizione critica, nei relativi atti (Parma, Istituto di Studi Verdiani/Milano, Ricordi, 1987). Un’ampia analisi drammatico-musicale del capolavoro verdiano è fornita da Marcello Conati nell’omonimo saggio edito da Marsilio nel 1992. La bottega della musica. Verdi e la Fenice (Il Saggiatore, 1983), dello stesso autore, approfondisce i rapporti del compositore con il teatro che ospitò la prima Così, le situazioni drammatiche e musicali sono sovente interrotte dall’arrivo di altri personaggi, e il ‘tuffo al cuore’, lo spavento, il dubbio, l’incertezza sono stati d’animo ricorrenti la cui forza espressiva prorompe in due situazioni chiave: quando Rigoletto s’aggira, canterellando con finta indifferenza, mentre cerca Gilda nel palazzo dove è tenuta prigioniera; poi durante l’ultimo atto, percorso dall’attesa della tempesta che incombe sulla scena con i suoi rumori e il bagliore dei lampi, così come la morte si profila minacciosa sul destino dei singoli. Rigoletto predilige il declamato: prende atto razionalmente della sua condizione esistenziale e trova nella lingua, l’unico mezzo per dominare il mondo (“Pari siamo, io la lingua egli ha il pugnale” dice a proposito di Sparafucile). Il suo antagonista, il Duca di Mantova, è invece tutta musica: canta melodie sfrontate che sovente deformano la parola. Rigoletto, creatura della lingua, si oppone al Duca, creatura della musica: il contrasto tra i due assume, così, una potenza inaudita di raffigurazione tragica. Tra lingua e musica il conflitto è aperto: per questo nel Rigoletto la forma musicale è sovente rotta, spezzata: il declamato la corrode dall’interno, e massimamente nel Terzetto dell’ultimo atto, che riproduce nella propria forma il dramma della distruzione morale. Alla fine il protagonista è schiacciato: Rigoletto non muore, non si uccide, come farà Otello, spirando dolcemente sul cadavere di Desdemona, ma assiste impietrito alla morte di Gilda. Il futuro si chiude davanti a lui, respingendolo in uno stato di alienazione senza scampo: l’uomo, che si realizzava nell’amor paterno, torna ad essere un burattino condannato alla dannazione del riso. In Rigoletto manca la catarsi, la trasfigurazione. Se i personaggi del Rigoletto vivono in un presente sospeso sull’abisso, quelli del Trovatore sono continuamente proiettati in un romantico altrove, tesi nel ricordo o nell’immaginazione. I pochi fatti che accadono in quest’opera sono solo pretesti per evocare situazioni passate o immaginare eventi futuri. I racconti e le immagini che abbagliano la mente hanno quindi nel Trovatore un’enorme importanza: opera “lirica”, se mai ve ne fu, bloccata in una assoluta dell’opera. Sugli effetti della censura letteraria nella genesi dell’opera interessante è il libro di Mario Lavagetto, Un caso di censura. Il Rigoletto, pubblicato nel 1979 e recentemente riedito da Bruno Mondadori (2010). (Chiara Rizzo) 27 fissità contemplativa da cima a fondo, questa partitura è estranea sia al tempo drammatico del Rigoletto, che si carica di elettricità nella misura in cui indugia nell’attesa, sia a quello incalzante della Traviata. L’originalità del Trovatore consiste in un miracoloso ossimoro: fissate nel tempo metafisico dell’immaginazione, del ricordo o della visione, le statiche situazioni sono trascinate dalla musica in una corrente precipitosa, sferzata ovunque da uno scatto giambico che dal racconto di Azucena, che evoca il guizzo della fiamma, si propaga, come un tizzone ardente, in tutta la partitura per alimentare il fuoco delle passioni che divora l’animo dei personaggi. Questo uscire dal presente, per vivere in un mondo immaginario e visionario, impone a Verdi una scelta stilistica totalmente diversa da quella del Rigoletto: il declamato sinfonico che là coglieva la flagranza del presente qui, in pratica, non esiste; sola, divampa la melodia, libera dai legami della parola, in pezzi rigorosamente chiusi e collegati da pochi, sommari recitativi. Se Rigoletto è fatto di trapassi graduali, sfumature, mezzetinte, Il Trovatore vive invece di brusche antitesi: il modo maggiore si oppone al minore, la melodia al recitativo volutamente banale, il bagliore del fuoco all’oscurità delle tenebre, la vita alla morte che Leonora affronta consapevolmente, vincendo il destino avverso con un atto supremo di fedeltà a Manrico. Dopo Rigoletto, il mondo morale di Verdi subisce una svolta: d’ora in poi i suoi personaggi affronteranno le avversità del destino con la forza serena che nasce in loro dall’attaccamento ai grandi valori morali. Il tempo della Traviata ci riporta sulla terra, ma lo scorrere dell’esistenza è totalmente diverso rispetto a quello di Rigoletto. Domina, infatti, un’ansia precipitosa: il tempo corre, la giovinezza sfiorisce, le notti sono troppo corte per divertirsi appieno; e, soprattutto, c’è un il limite, fissato dal destino, alla possibilità di amare. “È tardi!” esclama Violetta nell’ultimo atto. Ma è sempre tardi nella Traviata. Così, se il tempo sospeso di Rigoletto tende a rallentare, quello ansioso della Traviata, spinto dal perdurante ritmo di valzer, va verso l’accelerazione: rappresentabile da un otto rovesciato, come 28 ha osservato Rémi Hess, che in matematica è il segno dell’infinito, la figura coreografica del valzer sembra alludere al tentativo di trattenere all’infinito qualche cosa che sfugge. Questo conferisce alle forme chiuse della Traviata, sovente modellate sullo schema francese dell’aria a couplets, un dinamismo del tutto diverso dalla mobilità immobile che caratterizza le fiamme reali e metaforiche del Trovatore. Nella sovrabbondanza melodica della Traviata la parola non è ostentata, come in Rigoletto, né conculcata come nel Trovatore; nella parte di Violetta essa nutre la melodia con i suoi accenti, le dà verità e spessore, si fa tramite di esperienze interiori. Lo stile della Traviata è una sintesi tra la tendenza al declamato espressivo, tipico del Rigoletto, e il trionfo della melodia pura, affermatosi nel Trovatore. Non si tratta, beninteso, di un “progresso”, ma di una diversa organizzazione dei medesimi ingredienti stilistici in vista di nuove esigenze drammatiche ed espressive. Non solo le melodie di Violetta, come quelle di Rigoletto, e diversamente da quelle del Trovatore, nascono tutte dal suono della parola; anche i suoi declamati, o semplici recitativi, sono impregnati di melodia. Questo dà al canto un aspetto naturale e vero, rende il calore dell’umanità riconquistata dopo i gorgheggi da usignolo meccanico che ritraevano, nel primo atto, l’esistenza alienata della donna perduta. Nella sua fusione di accento e melodia, la parte di Violetta è particolarmente moderna, e si oppone a quella di Germont che canta nel vecchio stile donizettiano, meccanizzando la prosodia in una rappresentazione compassata del perbenismo borghese e della sua indifferenza. Se è vero che il tempo è l’elemento più importante della musica, Verdi, assumendolo come una sorta di protagonista occulto, conferisce dunque ai soggetti della ‘trilogia popolare’ una predisposizione speciale all’incontro con la musica. Mai più userà, ad esempio, con la stessa efficacia lo choc allusivo della reminiscenza, che afferma la continuità del tempo, ripresentando a distanza i temi musicali collegati con le idee fisse che condizionano le esistenze di Rigoletto, Azucena e Violetta: l’idea della maledizione, quella del fuoco e quella 29 dell’amore redentore. Considerando l’isomorfismo che collega la musica e l’esperienza del tempo, si capisce perché Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata si siano imposte alla coscienza moderna come le tre incarnazioni più tipiche del melodramma assoluto. E se la funzione principale del poeta drammatico è quella, shakespeariana, di imporre al teatro il proprio tempo, si comprende quanto fosse profondo il legame di Verdi con il suo modello supremo, che era, per inciso, anche quello di Wagner, responsabile, come è noto, di una vera rivoluzione nella concezione del tempo musicale in funzione drammatica. A questo si aggiunge, nella ‘trilogia popolare’, un nuovo impiego dello spazio. Non si tratta dei soliti effetti di voci e strumenti fuori scena, ma di una ricostruzione musicale dello spazio inteso come proiezione dell’interiorità. Il dispositivo determinante è quello di rendere il primo piano indipendente dallo sfondo. Non era ancora così nella festa di Ernani, dove il coro, sulla scena, cantava gli stessi motivi della musica dietro le quinte. Del tutto indipendenti sono invece, nella festa che apre Rigoletto, il canto in primo piano e le danze nelle sale interne. Questo genera due spazi distinti, con uno strano effetto di vuoto intermedio prodotto dal lungo intervento iniziale della musica fuori scena, nel silenzio dell’orchestra. Gli spazi si moltiplicano in seguito, quando entrano in gioco addirittura quattro fonti sonore: i cantanti, l’orchestra che suona in modo intermittente, la banda interna e un gruppo di archi sul palcoscenico. Il modello è chiaro: la scena del ballo nel Don Giovanni. Ma là l’effetto era di addensamento centripeto, mentre qui mira alla dispersione: i quattro temi di danza, mescolati alla rinfusa nello spazio sonoro, frantumato e instabile, rendono alla perfezione quel luogo dell’ebbrezza e del disordine in cui prendeva posto l’orgia prescritta da Victor Hugo, prudentemente espunta da Piave ma realizzata puntualmente da Verdi nel vorticoso accoppiamento dei temi di danza. La frantumazione dello spazio potenzia, in Rigoletto, l’espressione del tempo sospeso: si veda la pantomima di “Caro nome” con Gilda che appare in strada, sparisce dentro la casa, riappare sulla terrazza, mentre in primo piano il coro 30 dei rapitori, trattenendo il respiro, ne commenta la bellezza; oppure la stamberga di Sparafucile, vista in sezione e divisa tra alto e basso, fuori e dentro, centro di una frantumazione spaziale che si estende al paesaggio, con i suoni e i rumori del vento, del tuono, dell’orologio che segna le ore, di Gilda che batte alla porta, della canzone del Duca, tutti provenienti da punti diversi, vicini e lontani, segno della casualità del destino che sta per colpire gli uomini. Nel Trovatore i casi frequenti di voci e suoni fuori scena hanno altre funzioni: determinano sempre una peripezia; concretano le immagini evocate nel tempo metafisico delle visioni; ci trasportano in una dimensione assoluta, in cui avviene lo scontro tra princìpi primordiali, come quello tra amore e morte nella scena del “Miserere”, o tra sacro e profano in quella del chiostro. Nella prima scena della Traviata, il contrasto tra la festa che continua nelle stanze interne, e il dramma privato che si svolge in primo piano, rende icastica la contrapposizione tra Violetta e l’ambiente da cui lei si staccherà, ritrovando se stessa. Per non dire dello straordinario effetto determinato, alla fine del primo atto, dal canto fuori scena di Alfredo, così ricco di valenze psicologiche, spaziali, semiotiche, memoriali che sarebbe qui troppo lungo illustrare e che danno a quel canto una forza impressiva adeguata al contenuto che deve rappresentare. La funzione espressiva ottenuta attraverso l’articolazione sonora dello spazio non si esaurisce, infatti, nel singolo quadro ma finisce per riverberarsi su tutta l’opera: essa, infatti, non solo esalta contenuti specifici, ma presta una dimensione fisica alla durata interiore. “Il tempo qui diventa spazio” potremmo commentare, rubando la battuta dalla bocca di Gurnemanz. Queste e altre differenze, impossibili, qui, da analizzare, caratterizzano le parti della ‘trilogia popolare’, trilogia fondamentalmente disunita che addita nella poliedricità il tratto più stupefacente dell’invenzione verdiana, capace non solo di rinnovarsi nel tempo ma di incarnare un’idea morale in modi diversissimi, nel breve volgere di due anni cruciali. 31 Rigoletto, foto di scena Rigoletto: la genesi dell’opera di Julian Budden Nell’aprile del 1850 Verdi aveva firmato un contratto con il Teatro La Fenice di Venezia per l’allestimento di una nuova opera. Il librettista doveva essere Piave, la data per la messa in scena il periodo compreso fra il carnevale e la quaresima del 1851; l’argomento dell’opera non era ancora stato scelto, anche se il Kean di Dumas era fra i primi nell’elenco dei possibili. In realtà, Verdi e Piave non si erano ancora messi d’accordo sul contenuto del lavoro che avrebbero dovuto consegnare a Ricordi ai primi d’autunno. Quindi verso la fine del mese, mentre attendeva ancora di saperne di più sulla trama di Stiffelio, Verdi scrisse a Piave con una nuova idea, introducendola con una cautela quasi furtiva che indica quanto fosse consapevole dei rischi impliciti nella proposta. Difficilmente troveremo cosa migliore di Gusmano il Buono, nonostante avrei un altro soggetto che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno. Chi sa! Hanno permesso l’Ernani potrebbe (la polizia) permettere anche questo, e qui non ci saranno congiure. Tentate! Il soggetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il soggetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui parlo sarebbe Tribolet che se Varese è scritturato nulla di meglio per lui e per noi. P.S. Appena ricevuta questa lettera mettiti quattro gambe: corri per tutta la città, e cerca una persona influente che possa ottenere il permesso di fare Le Roi s’amuse. Non addormentarti: scuotiti: fa presto. Ti aspetto a Busseto ma non adesso, dopo che avremo scelto il soggetto. Alcuni giorni dopo, nella stessa lettera nella quale dava il proprio assenso allo Stiffelio per Ricordi, Verdi scriveva: Julian Budden è considerato uno dei più autorevoli studiosi verdiani del Novecento. Nato in Inghilterra nel 1924 e scomparso a Firenze nel 2007, ha legato la sua fama ad un’opera in tre volumi, pubblicata tra il 1973 e il 1981, dedicata alla ventisette opere di Giuseppe Verdi. Nel 2002 ha anche realizzato una fondamentale monografia su Giacomo Puccini. Ha studiato al Royal College di Oxford e al Royal College of Music di Londra. Dal 1951 al 1983 ha lavorato come produttore radiofonico presso la BBC. Si è poi stabilito a Firenze dove è stato corrispondente per la rivista “Opera”. Anima instancabile dell’Istituto di Studi Verdiani di Parma, ha diretto fino alla morte il Centro di Studi Giacomo Puccini di Lucca. Oh Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!! Altro che Ernani!! è soggetto che non può mancare. Tu sai che 6 anni fa quando Mocenigo mi suggerì Ernani, io esclamai: “sì, per Dio… ciò non sbaglia”. Ora riandando diversi sogetti quando mi passò per la mente Le Roi fu come un lampo, un’ispirazione e dissi l’istessa cosa… “sì, per Dio ciò non sbaglia”. 33 Non si trattava, comunque sia, di amore a prima vista. L’anno precedente Verdi aveva suggerito a Flauto quest’opera teatrale di Hugo come possibile soggetto per Napoli. Tuttavia, solo quando Cammarano e Shakespeare si eclissarono, almeno temporaneamente dall’orizzonte verdiano, il compositore sembrò cogliere in pieno le possibilità offerte da Le Roi s’amuse. Come al solito, Piave fece quanto Verdi gli diceva. Ottenne assicurazioni, sia pure vaghe, che il soggetto sarebbe stato permesso, e già dal mese di giugno, con Stiffelio ancora in cantiere, discuteva con Verdi sull’impostazione che si sarebbe dovuta dare alla tragedia di Hugo. Come sempre Verdi aveva le sua idee, Piave avrebbe dovuto attenersi il più strettamente possibile all’originale, anche nella doppia scena dell’ultimo atto e nel particolare del corpo nel sacco (il librettista aveva sollevato obiezioni in entrambi i casi). Se non avessero potuto mantenere il titolo di Hugo (il che sarebbe stato un peccato), l’opera sarebbe stata ribattezzata La Maledizione di Saint-Vallier, in quanto l’intera vicenda si impernia sugli avvenimenti che portano al compimento di tale maledizione. Il personaggio di SaintVallier sarebbe apparso in scena solo due volte, come avveniva nel testo di Hugo. Ad agosto suonò il primo campanello dall’arme. Piave si trovava a Busseto e Verdi lo rispedì immediatamente a Venezia, con una lettera per Marzari, presidente della Fenice: Il dubbio che Le Roi s’amuse non si permetta mi mette in grave imbarazzo. – Fui assicurato da Piave che non eravi ostacolo per quel soggetto, ed io, fidando nel suo poeta, mi misi a studiarlo, a meditarlo profondamente, e l’idea, la tinta musicale erano nella mia mente trovate. Posso dire che per me il principale lavoro era fatto. Se ora fossi costretto appigliarmi ad altro soggetto, non basterebbe più il tempo di fare tale studio, e non potrei scriver un’opera di cui la mia coscienza [non] fosse contenta. Per il mese di ottobre Verdi aveva la stesura completa del libretto di Piave e autorizzava Ricordi a pagare al librettista la prima rata, come dagli accordi stabiliti. Quindi mentre 34 Verdi e Piave erano ancora a Trieste per le prove di Stiffelio, giunse una lettera di Marzari, ancora più di cattivo augurio, che chiedeva loro di inviargli il libretto, per sottoporlo alla Direzione d’Ordine Pubblico. Correva infatti voce che, alla sua prima apparizione in Francia e in Germania, Le Roi s’amuse avesse suscitato reazioni sfavorevoli per “la dissolutezza di cui va gonfio”. Nondimeno la Direzione Centrale confidava che, in considerazione dell’onestà del poeta e del maestro, l’argomento sarebbe stato trattato in modo adeguato. Sembrava che la storia di quest’opera fosse destinata a ripetere quella del dramma originale. La prima di Le Roi s’amuse ebbe luogo al Théâtre Français di Parigi, nel novembre del 1832. L’accoglienza fu tempestosa. Il giorno seguente, Hugo poté leggere nella bacheca del teatro l’annuncio che, per ordine del Governo, ogni successiva replica del dramma era sospesa. Lo scrittore perorò la sua causa di fronte al Tribunal de Commerce, ma invano. Le Roi s’amuse non andò più in scena a Parigi fino al 1882. Fu tuttavia pubblicato e l’autore ne approfittò per aggiungere una vigorosa difesa della sua opera nella prefazione. Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è il buffone di corte; triplice infelicità che lo rende cattivo. Triboulet odia il re perché è re, i gentiluomini perché sono gentiluomini, gli uomini perché non hanno tutti una gobba sulla schiena. Il suo passatempo è di mettere continuamente in urto tra di loro i gentiluomini e il re, facendo spezzare il più debole contro il più forte. Deprava il re, lo corrompe, lo abbrutisce; lo spinge alla tirannide, all’ignoranza, al vizio; lo sguinzaglia attraverso tutte le famiglie dei gentiluomini, indicandogli continuamente la moglie da sedurre, la sorella da rapire, la figlia da disonorare. Il re fra le mani di Triboulet non è che un fantoccio onnipotente che spezza tutte le esistenze in mezzo alla quali il buffone lo fa muovere. Un giorno durante una festa, nel momento stesso in cui Triboulet spinge il re a rapire la moglie del signor di Cossé, il signor di Saint-Vallier penetra fino al re e lo rimprovera aspramente per il disonore di Diana di Poitier. Questo padre, al quale il re ha preso la figlia, Triboulet lo deride e lo gomento reale del dramma è La maledizione del signor di Saint-Vallier. Ascoltate. Siete al secondo atto. Quella maledizione su chi è piombata? Su Triboulet buffone del re? No. Su Triboulet uomo e padre, che ha un cuore, che ha una figlia. Triboulet ha una figlia, tutto è qui. Triboulet non ha 35 al mondo che la figlia; la tiene nascosta a tutti gli occhi, in un quartiere deserto, in una casa solitaria. Più fa circolare nella città il contagio della sregolatezza e del vizio, più tiene la figlia isolata e murata. Educa la sua bambina nell’innocenza, nella fede e nel pudore. La sua più grande paura è che ella cada nel male, perché lo sa, lui, il cattivo, quanto il male faccia soffrire. Ebbene! La maledizione del vecchio raggiungerà Triboulet nell’unica cosa che egli ami al mondo: in sua figlia. Quel medesimo re che Triboulet spinge al ratto, rapirà la figlia di Triboulet. Il buffone verrà colpito dalla provvidenza esattamente nel medesimo modo del signor di Saint-Vallier. Poi, una volta sua figlia sedotta e perduta, egli preparerà una trappola al re per vendicarla; ed è sua figlia che vi cadrà. Così Triboulet ha due allievi, sua figlia e il re: il re che educa al vizio, la figlia che alleva nella virtù. L’uno perderà l’altra. Vuol rapire per il re la signora di Cossé, e invece rapisce la propria figlia. Vuole assassinare il re per vendicare la figlia, ed è la figlia che egli assassinerà. Il castigo non si ferma a metà strada; la maledizione del padre di Diana si compie sul padre di Bianca. La lettera di Verdi a Piave indica che il compositore conosceva questa prefazione e che non nutriva dubbi a proposito dell’intento morale della tragedia. Dove si nascondeva allora il pericolo? In parte nella fama che Hugo aveva di repubblicano; in parte nella descrizione del libertinaggio regale rappresentato in atto: un re che progetta di rapire la moglie di un cortigiano, che si mischia ai frequentatori di una taverna equivoca e infine, peggio di tutto, la seduzione di una virtuosa giovinetta. La tragedia comprende una scena a palazzo, omessa nell’opera, nella quale Bianca, che è stata rapita, si trova faccia a faccia con il re Francesco, da essa creduto un povero studente. Resasi conto finalmente delle intenzioni dell’uomo, Bianca fugge spaventata in una stanza adiacente, di cui chiude a chiave la porta. Con aria trionfale il re estrae una chiave di tasca, apre la porta (Bianca è andata a rifugiarsi proprio nel talamo reale) ed entra nella stanza ridendo… Sipario. Verdi, prevedendo che sarebbe stato necessario fare qualche concessione, scrisse a Piave, autorizzandolo a intervenire saltuariamente sul dialogo, qualora non se ne fosse potuto fare a meno, ma di non alterare in nessun modo l’azione, unica eccezione la scena della chiave. Non sarebbe comunque stato troppo difficile 36 sostituirla con qualcosa di meglio. A parte questo, si doveva assolutamente conservare la scena in cui il sovrano si recava nella taverna di Saltabadil, il sicario prezzolato, altrimenti la tragedia non avrebbe più avuto senso. Infine ai primi di dicembre giunse la notizia che il governatore militare di Venezia aveva assolutamente proibito ogni rappresentazione di Le Roi s’amuse, con o senza modificazioni. Il governatore deplorava vivamente che il poeta Piave e il celebre maestro Verdi non avessero saputo scegliere soggetto più consono al loro talento che la “ributtante immoralità e oscena trivialità” della trama della Maledizione. Verdi reagì addossando a Piave l’intera responsabilità dell’accaduto: era stato affidato a lui, egli disse, il compito di far passare il soggetto; era stato sulla base delle assicurazioni date da Piave che Verdi si era messo al lavoro. Nel frattempo, visto che sarebbe stato impossibile comporre un’altra opera in tempo per la data stabilita, suggeriva di mettere in cartellone Stiffelio, che per lo meno avrebbe costituito una novità per il pubblico veneziano. Egli avrebbe rifatto l’ultima scena, nel caso fosse stata respinta dai censori. Marzari ritenne che Stiffelio avrebbe rappresentato una soluzione di ripiego troppo insoddisfacente e decise di continuare, insieme a Piave, la lotta per trovare il modo di aggirare il veto austriaco contro Le Roi s’amuse. Verdi aveva nel Direttore dell’Ordine Pubblico, Martelli, un simpatizzante; su suo suggerimento Piave trasformò il libretto in un Duc de Vendôme. Verdi trovò questa soluzione affatto inaccettabile. Dalla risposta data a Marzari possiamo desumere che la moralità del personaggio dovesse risultare irreprensibile: il Duca non andava in giro a sedurre o a rapire le mogli, le figlie e le sorelle dei suoi sudditi; né era incoraggiato a compiere simili imprese dal suo giullare. Perciò… l’ira de’ cortigiani contro Triboletto non ha senso. – La maledizione del vecchio, così terribile e sublime nell’originale, qui diventa ridicola, perché il motivo che lo spinge a maledire non ha più quell’importanza e perché non è più il suddito che 37 parla così arditamente al suo re. […] Il Duca è un carattere nullo: il Duca deve essere assolutamente un libertino; senza di ciò non è giustificato il timore di Triboletto che sua figlia sorta dal suo nascondiglio: impossibile il Dramma. Come mai nell’ultimo Atto il Duca va in una remota taverna solo, senza un invito, senza un appuntamento? – non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? […] Una difficoltà di questo genere c’era pel corno d’Ernani: ebbene chi ha riso al suono di quel corno? Tolto quel sacco non è probabile parli una mezza ora a cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello della figlia. Osservo infine che si è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!… Farà effetto? non lo so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposta questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto questo soggetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali, se si tolgono, io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scriverò mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere. Insomma, di un dramma originale, potente, se ne è fatto una cosa comunissima e fredda. Su suggerimento di Marzari, e con l’approvazione di Martelli, Piave e Brenna si recarono a Busseto per sistemare, una volta per tutte, la questione della nuova opera per la stagione del carnevale già cominciata. I tre stilarono e firmarono un memorandum in sei punti. L’accordo proponeva che: (1) l’azione fosse spostata dalla corte di Francia e trasferita in un ducato indipendente, non importa se italiano o francese; (2) che si mantenessero i personaggi del dramma di Hugo, cambiando loro solo il nome; (3) che si omettesse la scena con la chiave della camra da letto; (4) che il Duca fosse attirato con l’inganno nella taverna di Maguelonne; (5) che a Verdi solo spettasse decidere, al momento della stesura, sull’opportunità o no di modificare la scena in cui Triboulet scopre il corpo di sua figlia chiuso in un sacco; (6) che, in conseguenza di tutti questi cambiamenti, la prima dell’opera dovesse essere rimandata sino alla fine di 38 febbraio o i primi di marzo. Il censore approvò tutti questi suggerimenti, divenuti pertanto esecutivi. Francesco I si tramutò nel Duca di Mantova, forse proprio quel famoso, o famigerato, Vincenzo Gonzaga, patrono di Monteverdi e di Tiziano. È pur vero che il suo nome non doveva essere menzionato, ma “ciò a noi poco deve importare, perché già si sa chi regnava in quell’epoca” (Verdi). Triboulet divenne Rigoletto; Bianca, Gilda; il sicario Saltabadil, Sparafucile; sua sorella Maguelonne, Maddalena; e così via. I signori di Saint-Vallier e Cossé subirono una duplice trasformazione, in quanto i nomi loro attribuiti dapprima appartenevano a famiglie nobili ancora viventi (Castiglione e Cepriano) che indubbiamente avrebbero potuto risentirsi; pertanto furono modificati rispettivamente in Monterone e Ceprano. L’opera stessa, il cui titolo originale doveva essere La Maledizione, fu ribattezzata secondo il nome del protagonista. Per il 26 di gennaio, Piave potè annunciare con un “Te Deum Laudamus” che il Rigoletto era ritornato “sano e salvo” alla Presidenza della Fenice, “senza fratture o amputazioni” (Piave). Fu un ammirevole trionfo di pazienza e diplomazia. Anche il cast aveva posto dei problemi. Felice Varesi, che aveva creato il ruolo di Macbeth, era senz’altro la persona più adatta per il Rigoletto. Il Duca, Raffaele Mirate, era relativamente fresco di esperienza (descritto da Piave come “un Moriani giovane”), quindi l’interprete ideale per una delle parti tenorili di più leggiadro lirismo mai composte da Verdi. La scelta della protagonista femminile richiese altro tempo. Verdi avrebbe voluto Teresa De Giuli, la protagonista della Battaglia di Legnano. Essendogli stata rifiutata la richiesta, mise il broncio. Non prese neanche in considerazione la cantante dell’impresa, la Sanchioli, nonostante La Fenice l’avesse già scritturata, nel corso di quella stagione, per la Luisa Miller; sollevò obiezioni all’idea di avere Sofia Cruvelli, data la sua fama di persona eccentrica (quanto questa reputazione fosse poi vera, Verdi doveva scoprirlo ben presto, con Les Vêpres Siciliennes). “Ti dirò francamente – scrisse a 39 Brenna – che io non amo queste caricature alla Malibran, che non hanno che le sue stravaganze senza nulla avere del suo genio”. Delle altre due cantanti che gli furono suggerite dalla direzione, Teresina Brambilla, sorella del famoso contralto Marietta, secondo Verdi “…canta meglio e ha più accento”. Nel frattempo Piave si era rivolto a Brenna, indicandogli una certa Boccabadati, il cui nome era stato suggerito in origine da Verdi stesso. Ma il compositore respinse l’idea con irritazione, essendogli giunta notizia che la cantante stesse attraversando un pessimo periodo di voce. Gilda fu così assegnata a Teresina Brambilla. Delle parti minori, il basso profondo destinato a Sparafucile era Feliciano Ponz, “che ha voce robusta ed è plausibilmente artista”. Il contralto Annetta Casaloni fu felice di essere Maddalena, anche se al suo personaggio non era stato riservato nessun “a solo”. A proposito invece del secondo baritono, Piave avvisò Verdi di non fidarsi troppo di De Kunnerth, che aveva voce totalmente incolore e mediocre presa sul pubblico, ma era intimo amico di Varesi. Alla fine gli fu data la parte di Marullo, nella quale si disimpegnò senza sfigurare. È abbastanza curioso che non si trovi menzione di una caratteristica che a molti potrebbe sembrare la più singolare della partitura: la mancanza di voci femminili nel coro. In realtà il caso non era affatto inconsueto nell’opera dell’Ottocento sebbene in Verdi si trovi solo qui. Il Barbiere di Siviglia, Tancredi, L’Italiana in Algeri, fanno tutte a meno del coro femminile e altrettanto, con maggior pertinenza, avviene nella Lucrezia Borgia, l’opera più vicina al Rigoletto per forma e contenuto drammatico. Come al solito, sono interessanti le richiesta di Verdi per modificare il testo all’ultimo minuto. Nel duetto finale del secondo atto, egli insistette perché Gilda cantasse rivolgendosi al padre e non in un “a parte”: “Vedo che due attori che dicono le loro faccende uno da una parte l’altro dall’altra specialmente nei tempi mossi non fanno effetto”. Appare chiaro che, nello stesso atto, l’aria del Duca costituì un’ulteriore fonte di difficoltà, dal momento che a Piave fu 40 chiesto di riscrivere il testo della cabaletta con una nuova accentuazione delle parole. In particolare, Verdi voleva che la seconda strofa dell’adagio fosse “più bella” della prima, ammettendo in qualche modo la sua propensione ad aumentare l’interesse di un episodio man mano che procede. Le prove erano già cominciate quando Verdi arrivò a Venezia, il 19 febbraio, con appena poche battute del duetto finale da completare. La prima ebbe luogo tre settimane più tardi. Il pubblico decretò al Rigoletto un successo immediato. La stampa, da parte sua, reagì con una certa dose di stupore e perplessità. Il critico della “Gazzetta di Venezia” dichiarò che una sola serata non era sufficiente per esprimere un giudizio definitivo su un’opera come questa; dopo di che si mise a vagliare tutte le novità più sorprendenti: nella musica, nello stile, nella forma di ogni singolo brano, nella splendida e non meno insolita strumentazione; anche la scrittura vocale gli parve del tutto diversa (e non sempre per il meglio) da quanto avesse mai sentito prima. A un altro successivo recensore, Verdi sembrò ricalcare canoni arcaici, ritornando alla stile di Mozart e dei suoi contemporanei. Un altro giudicò l’opera totalmente priva di invenzione e originalità, e tutt’altro che un modello di buon gusto. Volendo, si potrebbe proseguire all’infinito in questa bizzarra crestomazia critica espressa da chi ascoltò il Rigoletto per la prima volta, fra questi l’inglese Chorley, che sull’“Athenaeum” definì la musica “puerile e ridicola, piena di volgarità e di eccentricità, e povera di idee”. E il “Times”: “l’opera sua più debole”. Tutti sembrano aver ascoltato un’opera diversa; eppure, salvo Chorley, ciascuno descriveva una delle sfaccettature effettivamente presenti in una delle sintesi artistiche più importanti dell’opera italiana. Nella produzione di Verdi, Rigoletto tiene il posto della Sinfonia Eroica in quella di Beethoven. Lo stesso compositore non era restio a riconoscerne il carattere rivoluzionario, non certo costituito dal taglio netto che l’opera presentava con il passato. Gli elementi compositivi, in se stessi, sono per lo più tradizionali, 41 ma vengono fusi insieme in maniera nuova ed emozionante. In certi punti troviamo forme nuove, o quanto meno mai usate da Verdi fino a questo momento; in altri, le vecchie forme sono dissolte in una prospettiva più vasta. Il divario tra melodia formalizzata e recitativo è annullato come mai prima d’ora. In tutta l’opera vi è una sola doppia aria convenzionale. Rigoletto è anche l’unica opera verdiana priva di concertati di fine atto: l’equivalente più prossimo è la conclusione della prima scena, in cui (incredibile!) il concertato si libra sulla musica per banda. All’egregio signor Borsi, che in una lettera dell’estate del 1852 gli chiese se fosse possibile inserire nel Rigoletto un’aria per sua moglie, la cantante Teresa De Giuli, Verdi replicò in modo scherzoso ma fermo: Se tu fossi persuaso che il mio talento si limiti a non saper far di meglio di quanto ho fatto nel Rigoletto, tu non mi avresti chiesto un’aria per quell’opera. […] Difatti dove trovare una posizione? […] Una ve ne sarebbe, ma Dio ci liberi! Saremmo flagellati. Bisognerebbe far vedere Gilda col Duca nella sua stanza da letto!! Mi capisci? In tutti i casi sarebbe un duetto […] aggiungo che ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una filza interminabile di duetti, perché così ero convinto. Verdi non aveva dubbi nel ritenere il Rigoletto una pietra miliare della sua carriera. Ad Antonio Somma, il futuro librettista di Un ballo in maschera, poteva descrivere quest’opera come: il miglior soggetto in quanto ad effetto che io m’abbia finora posto in musica […]. Vi sono posizioni potentissime, varietà, brio, patetico: tutte le peripezie nascono dal personaggio leggero, libertino del Duca, da questo i timori di Rigoletto, la passione di Gilda ecc. ecc., che formano molti punti drammatici eccellenti, e fra gli altri la scena del quartetto, che in quanto ad effetto sarà sempre una delle migliori che vanti il nostro teatro. In una lettera scritta a De Sanctis si parla di Rigoletto come della sua “opera migliore”, in senso assoluto. Rivolgendosi a Piave, Verdi usò l’espressione di lavoro “rivoluzionario”, a proposito di un confronto con l’Ernani. Tutte queste 42 testimonianze appartengono alle lettere posteriori al Trovatore e alla Traviata. Bisogna tuttavia riconoscere che sarebbe vano cercare, nell’epistolario verdiano, una qualsiasi formulazione coerente dei suoi ideali drammatici. Essi mutavano secondo le esigenze della sua personalità creativa in evoluzione ed è per questo che quanto più andava avanti con gli anni, tanto meno si ripeteva. Fino a un certo periodo gli occorrevano soggetti “monocordi” per mettere a fuoco le sue facoltà inventive; in seguito cominciò a richiedere tele più ampie. Rigoletto resta un miracolo e in quanto tale trascende qualsiasi tentativo di analisi; tuttavia due osservazioni si impongono. Sia nei progetti per L’assedio di Firenze, sia nelle riflessioni sulla Luisa Miller, Verdi aveva rivelato il desiderio di attirare la commedia nella sua musica, di sfruttare le risorse di un mondo che gli pareva interdetto dal fiasco di Un giorno di regno. La trama del Rigoletto poté fornirgli per la prima volta l’occasione che andava cercando. L’intera prima scena, dal preludio fino alla comparsa di Monterone, è concepita nel linguaggio dell’opera comica, inserito però nel più ampio contesto della tragedia, a sua volta approfondito dal contrasto. Di qui quella “varietà di effetti” di cui, retrospettivamente, Verdi tanto si entusiasmerà; di qui anche le stoccate alquanto scortesi contro Piave a proposito delle sue trame: “Basta con i soggetti monotoni e piagnucolosi” scritti per deliziare le orecchie “delle sartine infedeli” (un’allusione agli amori senza successo del librettista). Anche in precedenza, discutendo del Re Lear con Cammarano, Verdi aveva affermato di voler battere vie nuove, senza preoccuparsi dell’etichetta dei cantanti. Nel Rigoletto le “convenienze teatrali” ricevono scarsa attenzione, con un cast di tre personaggi principali, due comprimari e cinque ruoli secondari. Altro punto: come abbiamo già detto, Le Roi s’amuse non costituiva una novità per Verdi, l’aveva più di una volta preso in considerazione ritenendolo adatto per un’opera, ma fu solo quando dovette accantonare temporaneamente il Re Lear che se ne innamorò. È troppo 43 media nella sua musica, di sfruttare le risorse di un mondo che gli pareva interdetto dal fiasco di Un giorno di regno. La trama del Rigoletto poté fornirgli per la prima volta l’occasione che andava cercando. L’intera prima scena, dal preludio fino alla comparsa di Monterone, è concepita nel linguaggio dell’opera comica, inserito però nel più ampio contesto della tragedia, a sua volta approfondito dal contrasto. Di qui quella “varietà di effetti” di cui, retrospettivamente, Verdi tanto si entusiasmerà; di qui anche le stoccate alquanto scortesi contro Piave a proposito delle sue trame: “Basta con i soggetti monotoni e piagnucolosi” scritti che lainfedeli” nuova vampata d’entusiasmo per deliziareimmaginoso le orecchie supporre “delle sartine (un’allusione agli amori senza il dramma di Victor Hugo abbiadiscutendo avuto origine stesso successo del per librettista). Anche in precedenza, deldallo Re Lear con Camimpulso creativo che aveva spinto Verdi a cimentarsi con marano, Verdi aveva affermato di voler battere vie nuove, senza preoccuparsi Il raggio di luce aveva penetrato i meandri dell’etichettaShakespeare? dei cantanti. Nel Rigoletto le che “convenienze teatrali” ricevono scarsa nascosti di di Retre Lear non si è puramente rivolto a illuminare attenzione, con un cast personaggi principali, due comprimari e cinque ruoli Le Roi s’amuse? vertono paternità. Il secondari. Altro punto: comeEntrambi abbiamoi drammi già detto, Le Roisulla s’amuse non costituiva buffone corte èpiù tratto distintivo di entrambi. Di certo, dopo una novità per Verdi, di l’aveva di una volta preso in considerazione ritenendolo adatto per un’opera, ma fua termine solo quando dovetteVerdi accantonare temporaneamente il aver portato il Rigoletto, ritornò per qualche Re Lear che tempo se ne innamorò. troppo immaginoso supporre che la nuova vama tecnicheÈcompositive più tradizionali. Il Trovatore pata d’entusiasmo per il dramma Victorsotto Hugoil profilo abbia avuto origine e la Traviata (specie ildiprimo) formale sonodallo stesso impulso creativo che aveva spinto a cimentarsi Shakespeare? più affini alle opere delVerdi passato. Rigolettocon potrebbe essere Il raggio di luce che aveva i meandri nascosti di ReCon Lear è puramente anche penetrato considerato una Re Lear mancato. ciò non non si intendo rivolto a illuminare Le Roi s’amuse? Entrambi i drammi vertono sulla paternità. sminuire la parte avuta da Victor Hugo nella grandezza Il buffone didell’opera. corte è tratto distintivo entrambi. Di certo, dopo aver Già altre volte di Verdi era riuscito a individuare la portato a termine il Rigoletto, Verdi ritornò per qualche tempo a tecniche compositive più forza unificante, la logica stringente che stanno alla base del tradizionali. Il Trovatore e la Traviata (specie il primo) sotto il profilo formale romanticismo spaccamontagne di Hugo. sono più affini alle opere del passato. Rigoletto potrebbe essere anche considerato Prima di volgere la nostra attenzione all’opera in sé, è una Re Lear mancato. Con ciò non intendo sminuire la parte avuta da Victor Hugo opportuno menzionare uno dei documenti più eccezionali nella grandezza dell’opera. Già altre volte Verdi era riuscito a individuare la forza cui possa valersiche lo studioso verdiano, unificante, ladilogica stringente stanno alla base delil cosiddetto romanticismo spaccamon“abbozzo” del Rigoletto, pubblicato in facsimile da Carlo tagne di Hugo. Gatti nel 1941. Consiste di 56 pagine, di cui le prima due e Prima di volgere la nostra attenzione all’opera in sé, è opportuno menzionare l’ultimapiù sono coperte dadifitte singole frasi e idee uno dei documenti eccezionali cuiannotazioni, possa valersi lo studioso verdiano, il isolate, alcune delle quali saranno utilizzate nella stesura cosiddetto “abbozzo” del Rigoletto, pubblicato in facsimile da Carlo Gatti nel finale, altre no. Addiesempio troviamo il primosono spunto 1941. Consiste di 56 pagine, cui le prima due equi l’ultima coperte da fitte temafrasi orchestrale su cui alcune è basato il duetto Rigoletto annotazioni, del singole e idee isolate, delle quali tra saranno utilizzate nella scena secondaqui dell’Atto I, assieme ad tema orchestesura finale,e Sparafucile, altre no. Ad nella esempio troviamo il primo spunto del tentativi per iltrapasso che vede Rigoletto farsi beffe strale su cui alcuni è basato il duetto Rigoletto e Sparafucile, nella scena seconda Monterone. Sull’ultima pagina si trova “La donna dell’Atto I°, dell’anziano assieme ad alcuni tentativi per il passo che vede Rigoletto farsi beffe dell’anziano èMonterone. Sull’ultima si trova “La donna è mobile” nella mobile” nella seguente pagina variante: seguente variante: [Esempio 329] a riprova che in Verdi, come in Beethoven, le melodie più 44 semplici e apparentemente spontanee erano spesso il frutto di un progressivo lavoro di cesello. Ma il corpo centrale del documento presenta un abbozzo continuo dell’intera opera, annotato per lo più su uno o due pentagrammi con non più di due dozzine di battute cancellate. Nella prefazione, Gatti cita un’osservazione di Verdi, fatta apparentemente per esprimere il concetto che “per scrivere bene occorre poter scrivere rapidamente, quasi d’un fiato, riservandosi poi di accomodare, vestire, ripulire l’abbozzo generale; senza di che si corre il rischio di produrre un’opera a lunghi intervalli con musica a mosaico, priva di stile e di carattere”. Ciò nonostante l’abbozzo sembra essere stato scritto in un arco di tempo piuttosto lungo, poiché nel primo atto i nomi dei personaggi sono quelli del testo francese italianizzati (Triboletto, il Re, ecc.), mentre nel secondo e terzo atto il compositore ha ormai adottato la forma che noi oggi conosciamo, con la sola eccezione di Monterone che per il momento si chiama Castiglione. Nessun altro abbozzo verdiano di simile ampiezza è mai stato riportato alla luce. Quelli dei Due Foscari e Attila riguardano una sola scena. Oggi non si può ancora dire se i frammenti pubblicati in facsimile da Gatti nel suo Verdi nelle immagini facciano parte di abbozzi continui, come nel caso di Rigoletto; tuttavia, la pagina che si riferisce alla Traviata suggerisce un metodo meno sistematico e più impressionistico. Dopo poche battute, le note cedono il posto alle didascalie di scena (“Margherita si sente male”, ecc.). È possibile che un lavoro come Rigoletto, così complesso, così poco ortodosso nella forma e pur tuttavia così organico nella concezione, abbia avuto bisogno fin da principio di un canovaccio quanto mai saldo, un po’ come usava Beethoven negli abbozzi delle opere tarde quando segnava sul rigo solo l’“imbeccata” di idee da sviluppare successivamente. In diversi punti l’abbozzo differisce in modo significativo dal testo finale. La confessione di Gilda (“Tutte le feste”) è in Fa minore invece di Mi minore, testimoniando ancora una volta l’assenza, in Verdi, di un 45 (Triboletto, il Re, ecc.), mentre nel secondo e terzo atto il compositore ha ormai adottato la forma che noi oggi conosciamo, con la sola eccezione di Monterone che per il momento si chiama Castiglione. Nessun altro abbozzo verdiano di simile ampiezza è mai stato riportato alla luce. Quelli dei Due Foscari e Attila riguardano una sola scena. Oggi non si può ancora dire se i frammenti pubblicati in facsimile da Gatti nel suo Verdi nelle immagini facciano parte di abbozzi continui, come nel caso di Rigoletto; tuttavia, la pagina che si riferisce alla Traviata suggerisce un metodo meno sistematico e più impressionistico. Dopo poche battute, le note cedono il posto alle didascalie di scena (“Margherita si sente male”, ecc.). È possibile che un lavoro come Rigoletto, così complesso, così poco ortodosso nella forma e pur tuttavia così organico nella concezione, abbia avuto bisogno fin da principio di un canovaccio quanto mai saldo, un po’ come usava Beethoven negli abbozzi delle opere tarde quando segnava sul rigo solo l’“imbeccata” di idee da sviluppare successivamente. In diversi punti l’abbozzo diferisce in modo sistema di relazioni a vasto raggio e allo (“Tutte stesso tempo significativo dal testo finale. tonali La confessione di Gilda le feste”) è in fa rivelando la fonte della melodia nel duetto tra Raoul e in Verdi, di un min. invece di mi min., testimoniando ancora una volta l’assenza, sistema diValentina, relazioni nel tonali a vasto e allo stessoCiòtempo rivelando la fonte quarto atto raggio di Les Huguenots. che colpisce della melodia duetto tra Raoul e Valentina, quarto atto di Les Huguenots. di piùnel è la definizione finale del motivonel fondamentale Ciò che colpisce di più la definizione finale del motivo fondamentale dell’opera: la èfrase che scolpisce la maledizione di Monteronedell’opera: la frase che scolpisce la maledizione nella memoria di Rigoletto. di Monterone nella memoria di Rigoletto. [Esempio 330] 330] [Esempio La carica esplosiva viene fatta detonare nel modo più ovvio, con un’ascesa culminante alla tonica fa. Nelle versione definitiva, l’apice è risolto internamente, con una La carica esplosiva viene fatta detonare nel modo più ovvio, con un’ascesa progressione armonica in orchestra. Per di più, la carica culminante alla tonica fa. Nelle versione definitiva, l’apice è risolto internamente, non esplode: la spinta alla risoluzione in fa min. è repressa. con una progressione armonica in orchestra. Per di più, la carica non esplode: la Musicalmente frase è infinitamente più efficace, mentre spinta alla risoluzione in fa la min. è repressa. Musicalmente la frase è infinitamente l’insistenza della dominante aumenta l’effetto di incubo più efficace, mentre l’insistenza della dominante aumenta l’effetto di nella incubo nella mente del personaggio, avverrà nel Trovatore con pari mente del personaggio, come avverràcome nel Trovatore con pari forza. forza. 331] [Esempio[Esempio 331] Seguendo l’esempio di Ernani, Verdi ha basato il preludio sul motivo fondamentale del dramma (es. 331), orchestrandolo per un’analoga combinazione di 46però la frase è sull’asse della tonica, anziché su quello della dominante. ottoni; qui Perché allora conserva parte della sua identità? Intanto perché in Verdi l’altezza dei suoni è più importante dell’ambito tonale e poi perché la frase stessa è ricca di più implicazioni armoniche, come Verdi stesso inconsciamente rivela quando in un punto successivo dell’autografo notò erroneamente mi bem. e sol bem. invece di re diesis e fa diesis. Si potrebbe ugualmente osservare che l’affermazione del do min. alla quinta battuta trova un riscontro parallelo nella svolta decisiva al do magg. alla fine del monologo “Pari siamo!”, dove il motivo dell’es. 331 trova la sua compiuta esposizione. Manca qualsiasi contrasto tematico, a differenza del Seguendo l’esempio di Ernani, Verdi ha basato il preludio sul motivo fondamentale del dramma (es. 331), orchestrandolo per un’analoga combinazione di ottoni; qui però la frase è sull’asse della tonica, anziché su quello della dominante. Perché allora conserva parte della sua identità? Intanto perché in Verdi l’altezza dei suoni è più importante dell’ambito tonale e poi perché la frase stessa è ricca di più implicazioni armoniche, come Verdi stesso inconsciamente rivela quando in un punto successivo dell’autografo notò erroneamente Mi bemolle e Sol bemolle invece di Re diesis e Fa diesis. Si potrebbe ugualmente osservare che l’affermazione del Do minore alla quinta battuta trova un riscontro parallelo nella svolta decisiva al Do maggiore alla fine del monologo “Pari siamo!”, dove il motivo dell’es. 331 trova la sua compiuta esposizione. Manca qualsiasi contrasto tematico, a differenza del preludio dell’Ernani. Melodicamente il motivo è vago, amorfo, con struttura irregolare di tre battute e contorni melodici appena abbozzati. Il suo potenziale energetico è concentrato nel ritmo doppiamente puntato di tromba e trombone, che in nove battute di crescendo conduce all’esplosione di un fortissimo, dissolto poi in una catena di figure singhiozzanti di violini e legni. Ricompare un breve richiamo al motivo principale, modellato per due volte in schema di cadenza; quindi una coda di sei battute, con i sordi rintocchi di un incisivo “a solo” di timpani, conduce alla veemente cadenza finale. 47 Rigoletto, foto di scena Visto da lontano Lassù in cielo, vicino alla mamma. Osservazioni attorno ad un inevitabile suicidio di Carlida Steffan Io trovo [...] bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Così Verdi guarda a Rigoletto: buffone sgradevole, cinico, crudele, socialmente infimo, che si alimenta della propria degradazione mentre tiene nascosto dentro di sé il sacro sentimento dell’amore paterno. Questa lacerazione di sentimenti lo porta ad esasperare il suo ruolo di istigatore e regista delle depravazioni del Duca e della corte mantovana, tanto da attirarsi sul capo la “maledizione” di un altro padre (Monterone) e subirne la più tragica delle conseguenze: il “suicidio” della propria figlia. La maledizione, quindi, come motore del dramma: lanciata nelle prime scene, avvertita da Rigoletto dopo il rapimentobeffa della figlia e alla fine inevitabilmente subita. Sulla centralità della maledizione aveva già detto tutto Hugo consegnando finalmente alle stampe (1846) il suo Le Roi s’amuse, straordinaria fonte di Rigoletto. Lo stampa dopo oltre dieci anni da una sola apparizione sulla scena teatrale, bruscamente interrotta: non era ammissibile per la censura mettere alla berlina del giudizio del pubblico parigino un buffone che corrompe il re, “lo abbrutisce, [...], lo esorta a turbare la quiete delle famiglie dei nobili di corte, gli indica incessantemente la moglie da sedurre, la sorella da rapire, la figlia da disonorare”. Che poi questo re finisse anche per cercare le prostitute nei bassifondi parigini faceva del dramma un “lavoro immorale”. E così Hugo, nello stampare il suo drame, passa in silenzio le vicende non certo edificanti del re Francesco I e di Bianca, la figlia del buffone, e concentra tutta l’attenzione su quest’ultimo, o meglio sulla maledizione di un padre deriso verso un altro padre, che, ahimè, non riesce neppure a salvare la figlia ormai persa nella “follia” amorosa. E Verdi, scrivendo con entusiasmo all’inseparabile Piave circa il soggetto della nuova opera per il Teatro La Fenice non fa che parafrasare le parole del drammaturgo francese. Carlida Steffan Carlida Steffan è una musicologa italiana particolarmente attenta alle relazioni tra la prassi musicale e l’interpretazione registica. Ha applicato questa griglia di lettura, in particolare, al Flauto magico di Mozart. Si è anche dedicata alla studio della critica rossiniana nelle prima metà dell’Ottocento e al teatro d’opera del Novecento. Si è laureata in musicologia presso la Scuola di Paleografia e Filologia Musicale di Cremona e insegna Storia della musica presso l’Istituto “Orazio Vecchi” di Modena. 49 Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande. Ma la maledizione basta da sola a giustificare il complesso percorso drammaturgico-musicale che porta Gilda al suicidio? Che cosa possiamo intuire del suo punto di vista interno al di là della violenza macroscopica che subisce sulla scena – peraltro non così rara al tempo, data la sua condizione sociale? Spalleggiati da alcune declinazioni della musicologia à la mode (ce ne sono per tutti i gusti: antropologia della ricezione, gender studies – con i pregiudizi delle ‘femministe’ – o queer studies – dalla parte degli omosessuali) vorremmo provare a rileggere il dramma con gli occhi di Gilda, confessando di provare un senso di imbarazzo di fronte al suo folle suicidio messo lucidamente in atto per salvare un amante (non val la pena di scomodare tutti i giudizi di nefandezza che si continuano a prodigare verso il povero Duca, anche lui anima sconnessa che nel fondo vorrebbe poter provare sentimenti autentici d’amore, che gli sono impediti dal ruolo libertino a cui è obbligato – prima di tutti da Rigoletto – per mantenere appariscente la propria posizione di potere, ovvero di chi può sovvertire ogni buon ordine morale), un amante che apparentemente ha solo “giuocato” con il suo candore e, ormai saturo anche delle nobili dame, se la fa con le prostitute. Ma la percezione di un personaggio all’in- terno delle convenzioni del melodramma è una faccenda complicata che passa ovvia- mente attraverso le parole con cui si esprime ma anche – e soprattutto – attraverso le modalità con cui vengono assecondati o deformati o stravolti i cliché delle forme musicali. Tutto è già stato detto. Rigoletto dovendo guerreggiare 50 incessantemente con la parola – virtù che per altro si autoriconosceva – usa soprattutto l’andamento duttile, spezzato e libero del declamato, dove la parola è a volte buttata fuori con rabbia, a volte plasmata in linee melodiche; e anche quando è costretto nel numero chiuso tradisce nella forma la lacerazione continua, la mancanza di stabilità psicologica ed emotiva. Al contrario, il Duca si muove senza alcun senso di colpa tra il gioco d’identificazione in uno studente povero e i panni del potente depravato, impiegando così all’occasione una “solita forma” per l’aria patetica (inizio secondo atto) oppure un motivo da canzonetta senza pretese o quasi di irriverente fattura (“La donna è mobile” dell’atto finale, fondamentale per riconvertire ai nostri occhi la percezione del personaggio, condizionata, per l’appunto, dall’aria “Parmi veder le lagrime”). Facilissimo, quindi, percepire all’interno del codice melodicoformale che i due personaggi (come ogni baritono e tenore nelle convenzioni della scena melodrammatica) sono tra loro antagonisti (ma costretti dal burrone della differenza sociale a non confrontarsi mai in un duetto) e mirano entrambi (per differenti motivi, ovviamente) a ‘possedere’ Gilda. Sì, perché rimbalza subito dal duetto del primo atto la possessività con cui Rigoletto ‘gestisce’ il rapporto con la figlia (un sospetto: forse c’entra con la “pazzia” finale di Gilda): “apre con chiave [un’altra chiave verrà invece censurata], ed entra nel cortile” della casa dove la tiene segregata, dopo essersi triturato l’animo, bestemmiando il cielo e confidandoci l’estrema delusione ed annichilimento della sua esistenza. Il duetto sortisce al contrario con tutte le risorse semantiche della tensione felice (energia ritmica dell’orchestra e luminosa tonalità d’impianto), che mantiene alta la nostra tensione di fronte all’incontro. Ma Gilda non canta un suo motivo, non apporta musicalmente un’idea diversa da Rigoletto; l’impressione è che preferisca rispecchiare (senza esserne convinta fino in fondo) le idee (musicali) del padre, perché ‘immatura’ 51 e non preparata ad affrontare un confronto diretto. Così, dopo essersi vicendevolmente trastullati (Gilda: “Oh quanto amore!” / Rigoletto: “Mia vita sei”) su schemi melodici discendenti affini, bastano poche domande dirette a far precipitare tutto dentro accordi ribattuti nella zona grave dopo aver fatto sparire i trilli in orchestra. Chi sono? Come ti chiami? Chi è la mia famiglia? – chiede Gilda (difficile immaginare un rapporto filiale che non implichi neppure la conoscenza del “nome” – parola che invece la ragazza intonerà di lì a poco rivolgendosi a tutt’altro amore). Da parte di Rigoletto nessuna risposta: solo la proibizione a non uscire di casa. Gilda insiste; chiede della madre confidando nella seduzione melodica di un canto puro e innocente (quasi eco di chiesa); ma l’egoriferimento di Rigoletto si traduce in un cantabile in cui si piange addosso per aver perso la donna tanto buona cara e dolce che per di più aveva avuto il coraggio di amarlo (che poi le mamme non compaiano mai è un tòpos del melodramma dell’Ottocento funzionale sia alla distillazione del terzetto soprano e due antagonisti – ovvero lui, lei e l’altro oppure il padre, lei e lui – sia a riflettere la condizione di una società patriarcale che per altro si prende la briga di mandare tutte le mamme in paradiso e trasformarle in angeli tutelari), istillando all’uopo in Gilda il classico complesso di colpa (“tu sola resti al misero”) per cui, quando è costretta ad intervenire, aggiunge un’artificiosa fiorettatura litanica (“Oh, quanto dolor! Quanto dolor!”). Molto si è scritto su questo duetto, soprattutto in rapporto al superamento delle convenzionali articolazioni tra cantabile e cabaletta; potremmo aggiungere che tale “mediazione” (C. Dahlhaus) rispetto alle scansioni rigide della “solita forma” è funzionale ad esprimere l’inesistenza di un rapporto familiare, dove Rigoletto tratta Gilda da figlia-oggetto e lei (con una verginità vocale di facciata) non può fare a meno di avere l’approvazione del padre e prova con un tenero cantabile (“Già da tre lune”): ma Rigoletto non ci sente e 52 la ragazza, nella cabaletta finale, si dimentica di aver già confessato le sue fughe in chiesa e mente spudoratamente di fronte all’ostinazione paterna. E neppure nella cabaletta – luogo formale ideale per convogliare cliché musicali di sicuro effetto risolutivo – i due arrivano ad un confronto sincero: Rigoletto intona un Allegro assai moderato chiedendo a Giovanna di “vegliare” sulla figlia e Gilda rinuncia a metterci una sua idea musicale (rinuncia ad esprimere il suo punto di vista), preferisce ripetere meccanicamente le sedici battute declinate dal padre, rendendo palese quanto fittizia e di ‘convenzione’ sia l’obbedienza filiare della ragazza, che esploderà tra breve, appena Rigoletto avrà girato l’angolo. Di più apparente convenzione formale è invece il duetto in cui Gilda dialoga con il Duca. Qui la “solita forma” si esprime con un più naturale svolgimento, con tanto di cabaletta precipitosa (“Addio, addio speranza ed anima”) che proprio nella convenzionalità del vecchio stile operistico – deplorato da molti commentatori – e nel carattere di conclusione enfatica (i due amanti sembrano non volersi mai lasciare) comunica all’ascoltatore che il Duca ha invece pieno controllo sul cuore di Gilda. Ma anche qui, nell’esordio del duetto, la ragazza ripete un frammento di due battute, poi imitato dall’orchestra, senza che riesca a finire di formalizzare il suo episodio lirico e poi sul più bello il Duca le porta via rapidamente il canto e impone vocalmente la sua capacità di controllo sulla ragazza intonando “È il sol dell’anima”. Gilda, quindi, sparge più di un segnale musicale che ci avverte della sua immaturità e incapacità di affermare la propria personalità: preferisce assecondare senza convinzione il padre o lasciarsi risucchiare nelle fatue scaltrezze dell’amore del Duca, perché priva di un’adeguata educazione sentimentale che proprio il padre le ha negato. (Nel testo di Hugo l’amore di Bianca per il misterioso “cavaliere” si declina in versi di autentica autoconvinzione: “Tranne me, le donne non sono niente per lui. Pensa sol- 53 tanto a me, per lui non esiste altro: né giochi, né feste, né passatempi”!!!) La sua aria, nel consumarsi del primo atto, dove invoca con forte emotività il “caro nome” finalmente conosciuto dell’amante (nome invece negato dal padre), è di nuovo lontana dalla struttura dialettica convenzionale; è una ‘cavatina’ in un tempo solo, strana forma con variazioni, funzionale per lasciare libero sfogo interiore alle fioriture (si noti: sempre sul “nome” di Gualtiero): in altre parole, è l’inevitabile fantasticare di un’adolescente che, arrivata sguarnita di strumenti all’incontro amoroso, ha perso ogni controllo e manifesta la propria totale passività. Quando, dopo il fattaccio, Rigoletto scopre la figlia nelle stanze del Duca, quest’ultima, concentrata nel suo dolore, non ha il tempo per dirci cosa prova, ora che ha finalmente dato un ‘volto sociale’ al proprio padre; da parte sua Rigoletto recita alla grande, fa il duro, prova anche lui a lanciare qualche maledizione nei confronti del Duca (stessi moduli melodici usati da Monterone); forse cerca solo di apparire agli occhi della figlia in una situazione di forza (“Se il Duca vostro d’appressarsi osasse, / Ch’ei non entri, gli dite! e ch’io ci sono”, suggellata dal più scontato degli effetti armonici, una cadenza perfetta, che assume una ridefinizione semiotica di gran forza e di autorevolezza...). Rimasti soli, Gilda prova con fatica dolorosa a raccontare al padre il suo vero incontro con l’amore proprio a ridosso del rapimento e Rigoletto dopo un a parte di invocazione a Dio non ha di meglio che indurre la figlia al pianto, senza entrare in un ‘veritiero’ incontroscontro degli opposti sentimenti ed ancora una volta nella cabaletta (che, come abbiamo già visto, funziona un po’ da cartina tornasole del rapporto) la musica non fa nulla per distinguere queste opposizioni. E se le articolazioni formali del duetto non riescono a convincere fino in fondo è soprattutto perché il cantabile di Gilda passa senza soluzione di continuità dalla descrizione di Gualtiero a quella del rapimento senza metterci a conoscenza 54 diretta dell’incontro tra i due amanti come avviene nella scena seconda del terzo atto de Le Roi s’amuse. Qui l’incontro tra Bianca e il Re rende palese il grado di coinvolgimento della ragazza e, perché no, anche del giovane sovrano. Lei è senza parole quando scopre che il mandante del rapimento è il suo povero studentello e dimostra di essere assai più scaltra ed avveduta di quanto si possa pensare; sa valutare bene l’inconsistenza di ogni promessa da parte di un potente (“Tutto questo è un gioco, non è vero?”), che da parte sua si lascia sfuggire l’amara constatazione di essere risucchiato nelle spire della convenzione sociale (“[...] se sono il re, questa non è una buona ragione per accogliermi con tanta avversione! Se non ho avuto la fortuna di nascere povero, che male c’è?”). Un duetto importante, quindi, per capire come vanno le vicende del terzo atto di Rigoletto, ma purtroppo un duetto da confezionare sullo sfondo della camera da letto e con un paio di allusioni – se si voleva tenere il testo sagace di Hugo – che non sarebbero certo passate indenni all’occhio vigile della censura austriaca di stanza a Venezia. Censura che da parte sua impose non pochi sacrifici alla gestazione del libretto di Rigoletto (si sa: da Re Francesco di Hugo al Duca di Mantova di Piave, e poi vari cambiamenti del titolo, ecc..), e l’Imperial Regia Direzione Centrale d’Ordine Pubblico se la prese direttamente con i vertici del teatro veneziano, anche se fu lo stesso Verdi, da uomo di mondo qual era, a comandare per suo conto all’obbediente Piave di cassare la scena a corte dove il Re toglie dalla tasca una bella chiave d’oro e si appresta ad entrare nella camera dove si era infilata la verginella rapita. Bisognerebbe trovare qualche cosa di più pudico e togliere quel fotisterio troppo evidente. Levare la chiave che suggerisce l’idea chiavare et... et... Oh Dio! Son cose semplici, naturali ma il patriarca non può più gustare quest’idea!! Un taglio che continuò a rodere il ricordo di Verdi e a far soffrire certo soprattutto il suo spiritello anticlericale ribelle, 55 ma anche – mi piace oggi azzardare – la sua sensibilità drammaturgica lucidissima, giacché a lavoro concluso continuava ad interrogarsi, scrivendo sempre all’inseparabile Piave: un pezzo nuovo vi sarebbe in più. Difatti deve trovare una posizione? Dei versi e delle note se ne possono fare, ma sarebbero sempre senza effetto dal momento che non vi è una posizione: una ve ne sarebbe, ma Dio ci liberi; saressimo flagellati. Bisognerebbe far vedere Gilda col Duca nella sua stanza da letto!!! Mi capisci? In tutti i casi sarebbe un Duetto. Magnifico Duetto!! Ma i preti, gli ipocriti griderebbero allo scandalo... Proprio negli ultimi versi della cabaletta conclusiva del secondo atto Gilda continua a ripetere fra sé di amare il Duca; la loro relazione continua idealmente durante l’intervallo fra i due atti (da Hugo sappiamo che la ragazza continuava con serafica beatitudine la relazione amorosa, “Vedete – dice al padre – anche lui mi ama”; glielo ha confessato e giurato anche il giorno avanti e lei si sente disposta a tutto per questo amore – “io sarei pronta a morire per lui come per voi”). Sotto il peso di tali allucinazioni amorose va da sé che l’architettata scena del quartetto con il Duca tra le braccia di Maddalena spiato da Rigoletto e Gilda contribuisce non a prendere posizioni decise e razionali ma accelera il processo di deflagrazione interna e sotto gli assalti sinistri della tempesta Gilda consuma nella lucidità della “follia” il suo inutile suicidio. Quando Rigoletto se la ritrova fra le braccia morenti, Gilda ha ancora il coraggio (bel coraggio) di chiedere perdono non solo per lei, ma anche per il Duca: GILDA V’ho ingannato! Colpevole fui! L’amai troppo! Ora muoio per lui! prima che Verdi le accordi una melodia ondulante con lunghi arpeggi acuti che presagisce il passaggio al cielo, dove – secondo la convenzione operistica – potrà finalmente abbracciare la propria madre. 56 La follia del suicidio è in realtà l’unica scelta che finalmente emancipa Gilda dai rapporti di forza imposti dagli uomini che hanno gestito e consumato la sua vita. Se il Duca è arrivato a conquassare la sua anima e la sua ragione a tal punto, è pur sempre per colpa di Rigoletto, il quale, sia pur in buona fede, si è preoccupato di preservare la figlia dal mondo esterno ma non da sé stessa. (E le vergini, si sa, non vanno tenute sotto una campana di vetro.) 57 Rigoletto, durante le prove QUARTA PARETE LE STRATEGIE DEL GENIO: UN VERDI POPOLARE, CIVILE E DEMOCRATICO di Gianfranco Capitta Quando le arie di un’opera lirica entrano nel linguaggio quotidiano di chi all’opera non è mai stato, è evidente che quel racconto musicale ha colpito in profondità le radici antropologiche di quel paese. In questo senso Rigoletto batte molti altri titoli, perché Verdi, col suo fido librettista Francesco Maria Piave, ha colpito forte, anche se la storia deriva da Le Roi s’amuse di Victor Hugo. Oggi come ieri il re, il principe, l’uomo di potere, continua a divertirsi assai, né più né meno del libidinoso Duca di Mantova. Tanto che Verdi e la sua creazione, di grane con la censura ne ebbero parecchie: troppo facile anche allora riconoscere (e senza tanti filtri o filigrane) debolezze funeste, perfino cruente, di alti esponenti imperialregi o di aristocratici prepotenti. Senza che ci fosse allora un movimento delle donne a battersi in difesa delle vittime, sempre femminili, di qualche vizietto di ‘sangue blu’. Oggi sarebbe fin troppo facile per noi identificare nella Gilda verdiana, vittima sacrificale che paga con la vita la propria illusione amorosa, le protagoniste di ormai numerosissimi fattacci di cronaca. Certo Verdi l’anatema di classe (oggi anche di genere) contro i “Cortigiani, vil razza dannata” lo fa gridare chiaro a Rigoletto. E questo, se da un lato accrebbe la sua grandezza, dall’altro gli attirò persecuzioni: un padano come lui, che mette a nudo l’abiezione del signore della padanissima Mantova… Non sono da meno, sul fronte linguistico e antropologico, alcune espressioni memorabili, tanto irresistibili quanto oggi poco politically correct: “La donna è mobile” e, peggio ancora, “Questa o quella per me pari sono”, fulminanti sintesi maschiliste che la dicono più lunga di un saggio ponderoso. E infatti le sentiamo spesso da chi meno ce lo aspettiamo. Insomma Rigoletto è una vera summa di comportamenti sociali, di conflitti, di vittorie e di sconfitte che ben si prolungano e si rinnovano, da quasi due secoli, nel nostro immaginario quotidiano. Con dei punti di svolta, negli ultimi decenni, che hanno ribadito sulle nostre scene, non solo teatrali, la centralità ancestrale e permanente di quel buffone di corte (un guitto, un comico, senza più l’aura Gianfranco Capitta Vive e lavora a Roma. Giornalista de “Il manifesto”, si è occupato da sempre di spettacoli e cultura, sul quotidiano e su altre testate. Ha collaborato per molti anni con Radio Tre Rai ed attualmente con Rai Educational. È autore di diversi saggi, tra i quali due dedicati al regista Harold Pinter (con Roberto Canziani per Anabasi e Garzanti, 2005); in seguito con Toni Servillo ha pubblicato Interpretazione e creatività (ed. Laterza, 2008) e con Luca Ronconi Teatro della conoscenza (ed. Laterza, 2012). 59 epica e quasi sacrale dei fool shakespeariani) che fa le pulci a quello stesso potere che ogni volta, immancabilmente, finisce per sconfiggerlo e stritolarlo nei propri ingranaggi. Due esempi abbastanza memorabili negli ultimi vent’anni di vita scenica del Rigoletto verdiano sono quelli di Venezia e di Piacenza. Nel 1992 La Fenice commissionò per il bicentenario del teatro un’importante edizione dell’opera ad Andrei Serban, geniale regista rumeno che con il Cafè La MaMa ha realizzato a New York edizioni molto innovative e perturbanti dei tragici classici (indimenticabili le sue Troiane che parlavano in greco antico, confuse tra il pubblico in una soffocante e claustrofobica scatola scenica) come anche di classici più vicini a noi, da Gozzi a Brecht. Il risultato del suo lavoro veneziano fu scenicamente grandioso, quanto filologicamente fondato: lo sviluppo di quella cruciale ‘debolezza’ maschile, costante perniciosa, e rivelatrice, di un rapporto scorretto tra chi il potere ce l’ha e chi lo subisce, assumeva sul palcoscenico l’aspetto visivo di un percorso attraverso i secoli. Tutto in una notte: il ballo nel salone del duca era animato da maschere dai costumi fiamminghi, davanti a fondali che sembravano dipinti da Giulio Romano, cui la forte inclinazione del palcoscenico conferiva una prospettiva rinascimentale, per altro animata da fantasie erotiche e tableaux vivants già barocchi. La quotidianità invece, quella in cui il buffone si scopre padre, e quindi tradito dall’amore nascosto di sua figlia Gilda e il perfido Duca, indossava le palandrane e i mantelli a ruota di fine ottocento, l’epoca di Verdi. Mentre la stanza della fanciulla si prosciugava in un anonimo Biedermeier di radica, dentro un’archeologia industriale col cui muro delabré Serban citava il suo maestro, Peter Brook. Se il palazzo ducale incendiava le passioni nel marmo vermiglio di un salone con rampa di scale elicoidale, l’ultima scena trasformava l’osteria di Sparafucile in un bordello di un’odierna periferia del mondo. Lì Rigoletto preparava la vendetta contro il duca, per ricavarne invece il 60 sacrificio innocente della figlia. La cui abbacinante apoteosi restituiva un sorriso al pubblico, e dignità alla tragedia di quel padre “ridicolo”. Eppure tanta articolata precisione non fu gradita, non solo al pubblico e alla critica (a giudicare dai tanti bu bu in teatro e sulla stampa), ma neppure agli stessi artisti in scena. Tutti presero le distanze dalla regia, e i cantanti arrivarono addirittura a dettare ai giornali delle vere e proprie ‘autostroncature’. Eppure il lavoro di Serban (e di Gianni Quaranta e Dada Saligeri, autori eccellenti e pluripremiati di scene e costumi) rivelava qualcosa di importante nascosto nelle pieghe della partitura verdiana. Totalmente diversa, anche se non meno radicale, è stata la scelta di Marco Bellocchio per il “suo” Rigoletto, con cui ha debuttato nella regia lirica nel 2004. Per il regista era un ‘ritorno a casa’ in quella sua Piacenza, dove erano nati non solo i fondamentali Quaderni piacentini diretti dal fratello Piergiorgio, ma anche i suoi esplosivi Pugni in tasca, che aprirono sullo schermo il ‘68. Usando da maestro il proprio sguardo cinematografico, Bellocchio parte dall’opera per raccontare e capire le trasformazioni della sua terra nel dopoguerra. Rigoletto diventa un noir, coscienziale e oscuro, ambientato in quella provincia benestante e fosca che nei primi anni cinquanta preparava nuovi assetti sociali sotto l’onda pressante della propaganda democristiana. Il ballo d’apertura diventa così un carnevale da grande albergo cittadino, dove l’insolenza maschile del Duca di Mantova verso le signore della buona società trova eco cameratesca nello squadrismo solidale dei giovanotti, “vil razza dannata”. E la beffa al buffone protagonista, una bravata simmetrica alla pubblicità democristiana di quegli anni fatta di madonne pellegrine (che hanno l’aspetto piacentino e raffaellesco di quella Sistina) e di appelli alle madri “contro i bolscevichi” come gridano i manifesti ai lati della scena. Fino alla natura morta, padana e ‘viscontiana’, in cui è risolta la casa di Sparafucile. Le luci di Pasquale Mari, maestro della fotografia in scena e sullo schermo, si rivelano decisive per la visione 61 di Bellocchio: capaci di far muovere nella nebbia le barche sulla riva del Mincio, e di movimentare la natura di terra e cielo. Bellocchio insomma attualizzava e ricontestualizzava l’amata opera di Verdi, ma senza eccessi didascalici, semmai indagando, dragando e portando alla luce della nostra prospettiva la complessità della morale verdiana, attraverso la riflessione sulla resistenza e la fine della guerra come secondo risorgimento, non solo politico, ma anche sociale e comportamentale. Rigoletto insomma può risvegliare e far risuonare accordi insospettabili nella coscienza del pubblico: non è un caso, d’altronde, che in Fitzcarraldo Werner Herzog scelga proprio una delle arie più note del capolavoro verdiano, “Bella figlia dell’amore”, er accompagnare Klaus Kinski nella sua titanica scalata attraverso la foresta amazzonica all’inseguimento del sogno dell’arte, di Caruso e di un teatro d’opera in quel luogo remoto e inaccessibile. Ma il monumento maggiore del cinema all’opera verdiana è la bellissima, avvolgente e inquietante Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, un film prodotto dalla Rai nel 1970 e andato in onda prima dell’uscita nelle sale cinematografiche. Attraverso l’indagine di un figlio sulla storia del proprio padre (i due si somigliano assai, entrambi interpretati da Giulio Brogi), noto eroe antifascista celebrato per aver attentato al duce durante una prima di Rigoletto rimanendo vittima del suo stesso gesto, il film allarga le maglie della provincia padana. Portandone alla luce contraddizioni e mitologie, dall’antifascismo alla venerazione, tutta padana, per Verdi e per Rigoletto, appunto: è durante le prove per un nuovo allestimento dell’opera, infatti, che il figlio scopre verità, ombre e misteri della propria storia familiare. Girata nella bellissima Sabbioneta (ribattezzata col nome immaginario di Tara) e ispirata a un racconto di Borges, la vicenda, che da una dimensione analitica e storica attinge a un orizzonte civile e umano, trova proprio nell’opera di Verdi la propria scansione narrativa e il valore della memoria. 63 VISIONI SAgome difformi di Stefania Aluigi Come sosteneva Platone nel Simposio il miglior poeta tragico è anche il miglior poeta comico. Entrambe le scritture infatti nascono dalla stessa profondità di spirito ed esprimono una forza simile. Accanto alle trilogie gli antichi tragici componevano un dramma satiresco; a noi è rimasto soltanto il Ciclope di Euripide mentre tutti gli altri componimenti sono andati perduti. La caricatura sappiamo avere una storia molto lontana e possiamo considerarla una forma d’arte che, sfuggendo alle leggi generali del Bello, si costruisce sul principio della libertà totale dei tratti. L’arte, almeno fino al secolo XIX, ha sempre avuto una relazione armonica con la Bellezza ed infatti esistono poche pitture o sculture dove compaia con evidenza il carattere della bruttezza o meglio della deformità. Le arti plastiche e figurative solo in età moderna e contemporanea assumeranno il “brutto” come valore estetico fino a farlo diventare la cifra sostanziale e stilistica delle loro opere. La satira ha trovato più facilmente spazio nella scrittura e la parola nel corso dei secoli ha potuto accompagnarne i vortici dissennati e capricciosi. Il linguaggio della comicità, sviluppandosi da un nucleo di estrema individualizzazione nel rappresentare un carattere, allude tuttavia sempre a qualcosa d’altro rispetto alla forma distorta che ritrae. Il pretesto viene offerto dalla varietà della realtà umana e si combinerà in forme sempre diverse a seconda dei contesti e delle culture di appartenenza. L’arte, in questi casi, non nasconde il grottesco e il deforme, anzi li comprende in un’ottica più ampia di criticità. La letteratura satirica e le sue “figure” attraversano i secoli, da Aristofane e Menandro, Orazio e Luciano, si arriva a Calderón e Shakespeare, Ariosto e Cervantes, Rabelais e Swift fino a Molière e Voltaire. Una linea espressiva dotata di un segno di notevole comunicatività che è stata analizzata con estrema acutezza da Michail Bachtin nei suoi studi su Rabelais e la cultura popolare. Nelle arti figurative i primi riferimenti della distorsione delle forme sono Brueghel, Grandville e Gavarni. Nel Settecento la caricatura, attraverso la diffusione delle Stefania Aluigi È laureata in lettere moderne e in filosofia. Dopo un’esperienza di curatrice indipendente di mostre di arte contemporanea in Italia e all’estero, dal 2000 è stata Direttrice di Arte Fiera Bologna. Ha coordinato la produzione e la messa in opera di Ritratto del Novecento con Edoardo Sanguineti. Nel 2011 ha curato il progetto scientifico, organizzativo ed editoriale della mostra Giorgio Morandi - Josef Sudek. Collabora con riviste e case editrici specializzate nel settore delle arti visive contemporanee. Francisco Goya, Capricci (23), 1799 circa, acquatinta 65 riviste, diventò un soggetto di grande interesse per il pubblico soprattutto in Francia e in Inghilterra. I grandi maestri di questo periodo furono Hogarth, Watteau e Goya, che molto insegnarono alla satira dell’Ottocento. Le due edizioni dei Capricci (la prima del 1799, la seconda del 1855) costituiscono la grammatica visiva più raffinata dei vizi e delle ambiguità della società del tempo. Ottanta tavole rigorose e beffarde ritraggono l’umanità borghese con uno sguardo tagliente e incisivo. “La Caricature” fu il primo giornale satirico al mondo e, fondato a Parigi nel 1830, venne pubblicato fino al 1835. In quegli stessi anni Honoré Daumier, a causa della sua famosa tavola Gargantua, venne condannato a sei mesi di carcere. Questa nuova maniera espressiva con pochi tratti riassumeva lo sguardo vivo e critico degli artisti verso il mondo borghese e la società mondana, causando così spesso gli interventi della censura. Quando poi si diffuse la riproduzione litografica e successivamente la zincografia a perfezionarne la tecnica, ecco che il pubblico crebbe notevolmente e le tavole di artisti come Gavarni si diffusero in tutta Europa attraverso i periodici umoristici. In Italia, e arriviamo così a Rigoletto, la caricatura moderna è alle prime armi rispetto agli altri Paesi. Torino, Venezia, Napoli e Milano furono a metà Ottocento i primi centri dove si diffuse la litografia e di conseguenza la nascita dei giornali satirici. Uno dei più interessanti caricaturisti italiani del Risorgimento fu Melchiorre Delfico, che compose persino due opere e conobbe personalmente Verdi di cui era appassionato estimatore. Lo sguardo mobile e irriverente di questo tipo di linguaggio si trasmuta in maniera del tutto naturale nella rappresentazione teatrale di Rigoletto. Il riferimento letterario del libretto di Francesco Maria Piave è il testo di Victor Hugo Le Roi s’amuse rappresentato a Parigi nel 1832; il giorno dopo la prima un atto ministeriale intimerà al direttore del Teatro di sospendere le recite previste. Il gesto nasceva dall’accusa di immoralità del contenuto e del 66 Gustave Doré, Triboulet, illustrazione per le Opere di Rabelais, 1894 Gustave Doré, Il pubblico prima di una tipica esperienza wagneriana, disegno Melchiorre Delfico, Verdi, 1860, illustrazione protagonista stesso, il re Francesco I; persino il titolo viene ritenuto un vero e proprio “ferro rovente” per il pubblico. Hugo, indignato e offeso, replicherà a tale provvedimento con parole e toni accesi difendendo l’indipendenza della propria arte. Lo scrittore francese nel corso del dramma insiste sulla difformità del protagonista Triboulet e sul rapporto a volte crudele tra gli opposti gruppi di personaggi: i frequentatori della corte, i cosiddetti gentiluomini e la misera esistenza del buffone, condannato a “non volere, non potere, non dovere e non fare altro che ridere!”. Oltre la superficie infausta dell’apparenza, emerge la morbosità esasperata che lo lega alla figliola Gilda che mantiene segregata dal mondo. In lei Triboulet-Rigoletto riscatta e sublima la tristezza del suo aspetto fisico, e proprio in tale lato eroico merita la rappresentazione che culminerà nel folle tragicità del finale. Il governo francese è del parere che “un re che ride è un re pericoloso” e che il dramma schernisca in maniera troppo esplicita e irriverente il costume della corte, anzi il suo stesso sistema. Non possiamo non accennare anche alla straordinaria capacità di Victor Hugo come disegnatore: una serie infinita di opere grafiche e schizzi di ottima qualità accompagnerà l’esistenza dello scrittore. Il soggetto umano, tra i temi presenti, è trattato con piglio ironico e spesso aggressivo nelle sue caratterizzazioni; qui si esprime con estrema naturalezza la natura umana nella sua spontaneità che comprende anche il difforme e l’irregolare. Il disegno, così rapido ed essenziale nel definire i tratti, accompagna la scrittura come un suo aspetto complementare. Sullo sfondo del testo dell’autore francese avviene quello che la critica dell’epoca definì lo “strano impasto”; il libretto italiano tuttavia glisserà su alcuni aspetti che nel testo francese al contrario erano stati più approfonditi e sviluppati e si concentra sulla vicenda dal punto di vista più teatrale. Allo spazio della rappresentazione viene concesso di disegnare a tutto tondo e con maggiore libertà il dramma GUARDARE Rigoletto è stato soggetto prediletto di registi e produttori sin dagli albori del cinema. Esiste infatti un’ampia scelta tra videoregistrazioni di allestimenti, trasposizioni cinematografiche e film che riproducono arie dell’opera. Un esempio recente e alla portata di tutti: The Family Man, con Nicolas Cage. Senza dire della fiction televisiva di Rai1 trasmessa in mondovisione nel 2010 e girata nei luoghi dell’ambientazione verdiana. Con Placido Domingo, Zubin Metha sul podio e la regia di Marco Bellocchio. Un film d’opera vero e proprio è quello girato dal francese jean-Pierre Ponnelle nel 1982 con la direzione di Chailly e Pavarotti nel ruolo del Duca. Gli interni sono ambientati nel ligneo Teatro Farnese di Parma e ben riconoscibile è la mano del direttore della fotografia Pasqualino De Santis, lo stesso del viscontiano Morte a Venezia (Deutsche Grammophon DVD). Dello stesso anno è anche la videoproduzione dell’English National Opera (in inglese) 67 Melchiorre Delfico, La coppia, 1855 circa, illustrazione Le Triboulet, 1882, Parigi, giornale satirico 69 dell’esclusione, il dilemma della non appartenenza. In Rigoletto, e la musica verdiana ne segue costantemente il passo, emerge il contrasto tra l’apparenza e l’essenza, tra il gruppo e l’individuo. La storia non cade mai nella troppo facile versione caricaturale e la componente grottesca non viene esacerbata al punto tale da chiudere il personaggio in una sola dimensione. Quello che interessa, e in questo aspetto l’opera richiama il modus delle riproduzioni satiriche del tempo, è l’umana debolezza che vive dietro le apparenze del difforme; la diversità dice sempre di qualcosa d’altro e spesso ciò che è occulto ai più racchiude nuclei di intimità profonda. L’elemento ironico sfiora il personaggio in modo lieve e sfuggente; Rigoletto, come i ritratti di Daumier, si affaccia con una fisionomia che proprio in virtù della sua scomposizione si carica di una intensità emotiva a volte anche esagerata. Il racconto teatrale ci consegna un’iconografia quasi disegnata: il bozzetto che lo spettatore visualizzerà dovrà tenere conto dell’ambiguità che il personaggio custodisce. E i passaggi repentini dall’una all’altra dimensione appartengono alla Natura disperata e vitale del protagonista. ambientata nella Little Italy newyorkese degli anni ‘50, dove “The Duke” è un boss mafioso stile Il Padrino. Infine degna di nota è l’attualizzazione, repellente ma non meno efficace, proposta dal regista David McVicar nel 2000 alla Royal Opera House di Londra (Naxos/ BBC Opus Arte DVD). Honoré Daumier, Victor Hugo, 1849 L’uomo con il sacco di monete d’oro e i suoi adulatori, attibuito a scuola di Pieter Brueghel, incisione 70 J. A. Beaucé e G. Rouget, Triboulet, incisione per Le Roi s’amuse di Victor Hugo, 1832 circa Honoré Daumier, Intervallo, 1858, acquerello 71 Victor Hugo, L’invidioso, 1869 circa,Parigi Victor Hugo, Gavroche a 11 anni, 1850, disegno 72 73 Honoré Daumier, Gargantua, 1830, litografia Honoré Daumier, Le pere (caricatura di Luigi Filippo), 1831, disegno 74 Triboulet e la Morte, Francia, 1500 circa 75 Rigoletto, durante le prove 76 FLATUS VOCIS di Alessandro Taverna Le voci dei personaggi di Rigoletto hanno cancellato i personaggi del Roi s’amuse che, del resto, voce ne hanno potuto dimostrare pochissima. Il dramma di Victor Hugo uscì subito di scena all’indomani della prima e unica recita. Per divieto della censura, le roi François I, Blanche e Triboulet non furono incarnati da nessuna generazione di attori, e tantomeno poterono lasciare qualche memoria interpretativa. Cancellati a forza e per sempre dal palcoscenico, quei personaggi in gran numero tratti dalla storia – incluso Triboulet che molto prima di Hugo era stato trasformato in personaggio letterario da Rabelais – hanno sofferto anticipatamente la sorte cui dovettero adeguarsi le rispettive figure nel dramma di Piave e Verdi. Ad attenuare lo scandalo, rendendolo irriconoscibile, ecco che perfino il nome di Rigoletto è camuffato dalla censura in Viscardello; e tutte le azioni più intimamente necessarie all’efficacia dell’intreccio sono deliberatamente alterate. Come il sacco mutato in “drappo”, così altre precauzioni toccano ai protagonisti dell’opera verdiana. “Il Duca è uno dei tanti scapati”: così la cautela esibita nell’introduzione ad un’edizione del libretto non censurata per una rappresentazione di pochi anni successiva alla prima assoluta. Ma il Duca, nel Roi s’amuse, era in origine il re di Francia, Francesco I che, segnala Victor Hugo in didascalia, doveva apparire “comme l’a peint Titian” e nella sua sete insaziabile di piaceri e di svaghi, anche proibiti, con un registro invariabile di tono. Il Re si diverte, e canticchia anche, su un refrain ripreso tale e quale nell’opera: “Une femme souvent n’est qu’une plume au vent”. In Rigoletto, al Duca, è tolta ogni facoltà dialettica. Verdi si accorge che dopo il ratto e il possesso il seduttore non ha nessuna ragione per incontrarsi ancora con Gilda, come accade nel dramma di Hugo. E così Verdi e Piave tralasciano frasi che non stonerebbero in una rilettura brechtiana: “Ton père! mon bouffon! mon fou! mon Triboulet! Ton père! Il est à moi! J’en fais ce qui me plaît! Il veut ce que je veux!” Il Duca non deve ragionare. E’ puro canto. Musica con cui Alessandro Taverna Laureato in Lettere e Filosofia all’Università Bologna. Ha collaborato alle pagine di culturali dei quotidiani del gruppo Finegil-L’Espresso e attualmente all’edizione di Bologna del “Corriere della Sera”. Ha condotto per sei anni la trasmissione quotidiana “All’Opera!” realizzata dal Teatro Comunale di Bologna, riscuotendo il plauso della Corte dei Conti. Ha curato per sei anni le edizioni del Teatro Regio di Parma e del Festival Verdi. Dal 2004 è l’ideatore di progetti musicali e teatrali per la Sagra Musicale Malatestiana. Tra i libri, la prima versione italiana dei Grotteschi della musica di Hector Berlioz, un’edizione della vita di Mozart scritta da Paolina Leopardi. ASCOLTARE La tradizione discografica di Rigoletto è tra le più longeve e copiose della storia dell’opera. L’incisione di Kubelik del 1963 stabilisce una linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo gusto. 77 Rigoletto, durante le prove 78 occupare tutto lo squillante registro di un tenore fin dal suo esordio volutamente superficiale, beffardo. E la plausibilità con cui Verdi traccia l’identikit vocale del libertino sta in quel verso di Hugo che risuona come una coazione a ripetere e che suggerisce un canto squillante e spianato: “Tout est pour moi, tout est à moi, je suis le roi!” Tra i personaggi imprestati dalla storia del Roi s’amuse, Blanche è invenzione di Hugo per scatenare il dramma fra il servo e il suo padrone. “E se costei fosse stata mia moglie?” protesta Leporello ritrovando Don Giovanni reduce dall’incontro con una sconosciuta che l’aveva scambiato per qualcun altro. Inventando Blanche, Hugo somma all’effetto di questa scena il moto di collera del Commendatore che scopre il tentato stupro ai danni della figlia. Per Gilda l’identikit vocale è doppio, perfettamente consequenziale al dramma che vive. Coloratura purissima e magiche accensioni vocali nel primo atto. E poi, dopo l’incontro a letto con il Duca, una trasformazione, crudelmente sottolineata da Verdi increspando la linea vocale, facendole ritrovare quella concitazione drammatica che appartiene di diritto e fin dal principio a Rigoletto. Con Triboulet il triangolo si chiude. Un baritono, che in Don Giovanni aveva il ruolo del libertino e che qui è diventato una creatura mobile, instabile, contraddittoria. Cinica sul lavoro e amorevolissima in casa. Né buono né cattivo. Fu Felice Varesi a vestirne per primo questi panni tanto disagevoli da portare in scena. Con il teatro verdiano il cantante aveva fatto già qualche esperienza – un’altra raffigurazione cavata da un dramma di Victor Hugo con il Don Carlos di Ernani e poi, per primo, Macbeth – e aveva preso le misure di padre umiliato cantando la prima assoluta dei Due Foscari. Varesi avrebbe fallito invece il primo incontro con Germont padre, contribuendo così al naufragio della prima Traviata sullo stesso palcoscenico che aveva ospitato il primo Rigoletto. Con quell’attrezzo scenico con cui Verdi sfigurava un cantante – come un secolo dopo avrebbe fatto Francis Bacon nei suoi ritratti – tenne a battesimo il gobbo che canta, sul cui effetto teatrale Verdi non nutrì mai dubbi. Registrata alla Scala per la DG e tutta giocata sull’incisività dell’accento, in essa le trasparenti atmosfere introspettive scuotono lo spettatore ben più che gli estroversi contrasti propri della vecchia maniera. La visione fortemente teatrale del direttore è il trait d’union di un cast già sfolgorante nel quale svetta un grandissimo Fischer-Dieskau nel ruolo del protagonista. Un’altra pietra miliare nella storia interpretativa dell’opera è l’incisione di Giulini del ‘79, sempre per la DG, dove l’umanità dolente di Rigoletto è dipanata da Cappuccilli in un fraseggio eccellentemente legato e con un timbro indimenticabile, a dispetto di un Domingo (Duca) non impeccabile. Marcata, infine, la vocazione drammatica mostrata da Sinopoli nell’incisione del 1984 per la Philips; un’espressività contrastante ma fedele alla partitura e severa contro gli abusi della tradizione. In essa Bruson mostra non minore finezza psicologica di Fischer-Dieskau e una più spontanea adesione al fraseggio italiano. 79 Rigoletto, il Direttore ed il Regista durante le prove INTERVISTE PARALLELE di Mauro Mariani A lungo Rigoletto è stata la più popolare delle opere della cosiddetta ‘trilogia popolare’ di Verdi: ne è un curioso ma preciso indicatore la trasformazione di molte espressioni dei protagonisti - “La donna è mobile, “Questa o quella per me pari sono”, “Bella figlia dell’amore”, “Cortigiani, vil razza dannata”, “Si, vendetta, tremenda vendetta” - in modi di dire proverbiali. Ma oggi Il Trovatore e La Traviata l’hanno superato nell’amore del pubblico, probabilmente perché certi punti del libretto - la gobba di Rigoletto, il candore liliale di Gilda e il dramma per la sua verginità perduta, il suo corpo infilato in un sacco - ci appaiono caricaturali, perfino fastidiosi. Eppure musicalmente è forse la più moderna delle tre e - al di là degli aspetti tutto sommato marginali cui si è accennato prima - non ha perso nulla del suo impatto teatrale. Cosa devono fare direttore e regista per far giungere intatta questa sua forza al pubblico odierno? Mauro Mariani Musicologo e critico musicale, collabora con varie riviste italiane e straniere, come “Il Giornale della Musica” e “Opera Actual”. Scrive testi e tiene conferenze per importanti istituzioni musicali, dall’Accademia di Santa Cecilia di Roma al Teatro Real di Madrid. Ha pubblicato un volume su Verdi. Insegna Storia della Musica e Metodolgia della Critica al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma. Carlo Rizzari “Forse possono apparire invecchiati certi momenti musicali che suonano alle nostre orecchie come musica d’accompagnamento un po’ troppo ‘leggera’: ma si deve metterli nella giusta luce e rendere loro giustizia. D’altro lato la valenza drammatica del recitativo e certe tinte scure dell’orchestra sono molto efficaci e comunicative ancora oggi. E rimangono intatte la pura emozione del canto italiano, la sua seduzione melodica, la sua energia ritmica. Ogni volta si stabilisce quella corrente elettrica col pubblico che Verdi riesce a creare infallibilmente: è un rapporto immediato, qualcosa di molto più profondo del brivido provocato dall’acuto. Nelle opere di Wagner, l’altro genio che tutto il mondo celebra nel 2013, questo rapporto col pubblico non c’è, o, meglio, c’è ma è diverso, non è così diretto.” Denis Krief “Per capire la drammaturgia del Rigoletto bisogna pensare che Le Roi s’amuse di Victor Hugo (da cui è tratto il libretto) 81 appartiene a un periodo molto preciso, il romanticismo francese, e si riferisce al credo di quel movimento estetico. Il teatro di Hugo mescolava sublime e grottesco e il pubblico in sala oscillava tra pianto e riso. Qualcosa di simile esiste anche oggi, nel cinema di Quentin Tarantino: si ride alle scene più violente, quando si vede tutta quella salsa di pomodoro. Ma alla fine dell’Ottocento il perbenismo e il pudore hanno travisato il Rigoletto. Qui, quando si parla d’amore, in realtà s’intende sesso. Il Duca pensa soltanto a quello e Gilda non è una santarellina ma una ragazza nell’età in cui i sensi si svegliano. Per Hugo e per Verdi questo era chiaro, tanto che Verdi avrebbe voluto mettere bene in vista il lettone su cui si era appena consumato il rapporto tra il Duca e Gilda, ma la censura glielo vietò. Quanto a far finire la diva in un sacco, la trovo un’idea degna di Hitchcock, che fa morire la protagonista di Psycho sotto la doccia, o di Tarantino: se oggi piace tanto Tarantino, perché non Rigoletto?” Per questo dramma di passioni estreme, spinte fino all’esasperazione, Verdi ha scritto, se si rispettano le sue indicazioni, una musica dai colori prevalentemente brillanti, leggeri. Allora non sbagliava il critico che dopo la prima del 1851 accostò il Rigoletto a Mozart? Carlo Rizzari “Il paragone con Mozart non è del tutto immotivato. L’uso dell’orchestra in scena durante la festa riprende un’analoga situazione del Don Giovanni e Monterone ricorda la figura del Commendatore. D’altronde Verdi stesso racconta in una lettera che da giovane - sotto la guida del suo maestro Vincenzo Lavigna, compositore pugliese a sua volta allievo di Paisiello - aveva studiato a fondo il Don Giovanni. La partitura del Rigoletto è piena di pianissimo: è difficile rimanere intensi quasi sussurrando, ma ci proverò, e chiederò anche ai cantanti di sforzarsi a rispettare queste indicazioni di Verdi, perché le voci italiane tendono spesso a forzare. Cercherò di mettere in evidenza anche i momenti più leggeri, non solo 82 NAVIGARE Anche la rete fornisce innumerevoli e talvolta preziose occasioni di approfondimento. Ad esempio, nell’archivio storico on line del Teatro La Fenice di Venezia (www.teatrolafenice. it/mediateca/libretti) è reperibile l’intero programma di sala relativo alla stagione 2001 contenente, tra gli altri, l’importante saggio di Michele Girardi intitolato Due facce di Rigoletto - già presente in Verdi-Studien: Pierluigi Petrobelli zum 60. Geburtstag, München, Ricordi/Bühnen und Musikverlag, 2000 – oltre a una ricca bibliografia tematica curata da Gildo Salerno. Vi si trovano anche il libretto e la locandina della prima assoluta dell’opera “espressamente scritta” per la Fenice “nella stagione di carnovale e quadragesima 18501851”. Similmente, sul sito del Teatro Regio di Parma (www.teatroregioparma. org), alla voce “Approfondimenti” della sezione “Archivio”, sono quelli drammatici: per esempio, il duetto “Veglia, o donna” è quasi tutto piano e nell’aria “Parmi veder le lagrime” l’ansia del Duca deve essere resa senza forzature. Ovviamente ci sono anche momenti più violenti, come “Sì, vendetta”, ma anche qui bisogna iniziare piano e non troppo veloce, per poi crescere gradualmente.” Denis Krief “Sono d’accordo. Durante le prove ho parlato agli interpreti più di Mozart che di Verdi. Ho detto a Gilda e al Duca di pensare durante il duetto “Addio, speranza ed anima” ad “Aprite, presto aprite” delle Nozze di Figaro di Mozart. In un punto in particolare cito in modo preciso il Don Giovanni, perché trovo Monterone un personaggio molto ‘dongiovannesco’: io lo faccio uccidere nel primo atto e, quando torna in scena a rivendicare l’onore della figlia, è dunque un fantasma, come il Commendatore nell’opera di Mozart. Tutta la mia regia è costruita intorno al modello del Don Giovanni. Sono simili i continui passaggi dal tragico al comico, dal sublime al grottesco. Solo nel terzo atto me ne allontano, perché nel finale il riferimento di Hugo è piuttosto La tempesta di Shakespeare, precisamente il monologo di Prospero. Mi ha anche aiutato molto un saggio di Pierre Boulez sul Wozzeck di Berg, in cui lui vede una serie di ‘stazioni’ attraverso cui passa il protagonista nel suo percorso verso la catastrofe: in questo caso la protagonista è Gilda, che sceglie la morte - il suo è quasi un suicidio - perché la sua vita è stata tutta una delusione e non le si apre nessuno spiraglio d’uscita.” scaricabili gli interessanti saggi della stagione 2004-2005 nonché una vasta disco e videografia commentata da Elvio Giudici. Infine, nel sito dedicato al musicologo Sergio Sablich si legge un suo intelligente articolo, uscito su La Voce del 5 maggio 1994, in merito alla questione filologica (www.sergiosablich.org). I cantanti di questo Rigoletto sono molto giovani, spesso al loro debutto: com’è stato lavorare con loro? Carlo Rizzari “Dalla loro i giovani hanno l’energia e la freschezza, ma vanno aiutati, perché sono anche inesperti. Si oscilla tra questi due poli, ma è molto bello lavorare con loro e 83 Rigoletto, durante le prove 84 sono sicuro che abbiamo raggiunto un ottimo risultato. D’altronde Gilda e il Duca sono personaggi giovanissimi e sembrano scritti per due ragazzi, sebbene siano molto impegnativi sotto l’aspetto vocale. È importante anche la presenza di un protagonista della classe e dell’esperienza di Stefano Antonucci, che è di grande aiuto per questi giovani, rappresenta un riferimento sicuro e li stimola a crescere.” Denis Krief “È chiaro che ai giovani si devono spiegare tante cose che un professionista esperto già conosce. Ma non è l’età a fare la differenza, c’è chi ha l’istinto della scena a vent’anni e chi non l’ha né a venti né a quaranta. E, se non l’ha, il regista non può fare molto. Per fortuna ora, a differenza d’un tempo, quasi tutti i cantanti hanno una buona presenza e sanno come stare in scena. 85 Rigoletto, foto di scena 86 POLVERE D’ARCHIVIO LETTERA A CARLO MARZARI, la censura del rigoletto Busseto, sabato 14 dicembre 1850 Sig. Presidente Marzari onde rispondere subito alla pregiat. sua II corrente ho avuto ben poco tempo per esaminare il nuovo libretto: ho visto però abbastanza per capire che ridotto in questo modo manca di carattere, d’importanza ed infine i punti di scena sono divenuti freddissimi. S’era necessario cambiare i nomi, dovevasi cambiare anche la località e farne un Duca, un Principe d’altro luogo, per esempio un Pier Luigi Farnese od altro, oppure portare l’azione indietro prima di Luigi XI quando la Francia non era regno unito, e farne o un Duca di Borgogna o di Normandia etc. etc., i ogni modo un padrone assoluto. Nella scena V del I° Atto tutta l’ira de’ cortigiani contro Triboletto non ha senso. La maledizione del vecchio, così terribile e sublime nell’originale, qui diventa ridicola perché il motivo che lo spinge a maledire non ha più quell’importanza e perché non è più il suddito che parla così arditamente al suo re. Senza questa maledizione quale scopo, quale significato ha il Dramma? Il Duca è un carattere nullo: il Duca deve essere assolutamente un libertino; senza di ciò non è giustificato il timore di Triboletto che sua figlia sorta dal suo nascondiglio: impossibile il Dramma. Come mai nell’ultimo Atto il Duca va in una taverna remota solo, senza un invito, senza un appuntamento? Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? Chi può dire questo farà effetto, e quello no? Una difficoltà di questo genere c’era pel corno d’Ernani: ebbene chi ha riso al suono di quel corno? Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli una mezza ora a cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia. Osservo in fine che s’è evitato di fare Triboletto brutto e Era fatale, persino scontato. Il Rigoletto di Verdi e Piave era destinato, per sua stessa natura, a sbattere contro il muro della censura. E in particolare contro i severissimi commissari dell’Imperial Regio Governo Asburgico. I motivi per far scattare le forbici erano innumerevoli: nel libretto originale il detentore del potere (il Duca di Mantova) è un seduttore lascivo e privo di morale, il suo antagonista è un buffone deforme pronto ad uccidere il proprio padrone e gravato, oltre tutto, da una paternità misteriosa. Per di più la vicenda è attraversata da cima a fondo dal brivido di un’assai poco cristiana “maledizione”. Veramente troppo per un’opera sola. E difatti le traversie, che pesano soprattutto sulle spalle del povero Piave, sono infinite: i censori cancellano il titolo originale, La Maledizione, e impongono un scialbissimo Il Duca di Vendôme che infatti Verdi rifiuta. La scena viene spostata da Parigi a Mantova, i nomi di Hugo cambiati. L’umore di Verdi è nero. La contrattazione è serratissima fino agli ultimi giorni di gennaio del 1851: manca poco più di un mese alla prima e il compositore annuncia finalmente che il sigillo 87 Rigoletto, foto di scena gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!... Farà effetto? non lo so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto questo soggetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali, se si tolgono, io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere. Insomma di un dramma originale, potente, se ne è fatto una cosa comunissima e fredda. Sono dolentissimo che la Presidenza non abbia risposto alla ultima mia. Non posso che ripetere e pregare di fare quanto dicevo in quella, perché in coscienza d’artista io non posso mettere in musica questo libretto. Ho l’onore di dirmi colla più profonda stima Dev. Serv. G. Verdi delle autorità è stato posto. In extremis. Artefice dell’accordo è, più di ogni altro, il direttore del Teatro La Fenice, Carlo Marzari, terrorizzato più che altro dalla penale stratosferica che avrebbe dovuto pagare se l’opera non fosse andata in scena. Ma l’ostinazione di Verdi lo lascia col fiato sospeso fino all’ultimo. Il 15 dicembre, come si comprende dalla lettera che pubblichiamo, la situazione è ancora in alto mare. Verdi è furioso: il nuovo libretto uscito dalle maglie della censura è inaccettabile, accusa Marzari di non avere mosso un dito per salvare il progetto iniziale e minaccia di rinunciare. Ma in realtà la censura lavora, come sempre, contro se stessa. Più tenta di nascondere e più è costretta e rivelare. E difatti alla fine della trattativa lo spettro di Victor Hugo e del suo dramma scandaloso rimane perfettamente in luce. Come osserva felicemente Mario Lavagetto in uno studio prezioso dedicato al ‘caso’ Rigoletto, “una buona censura avrebbe dovuto far dimenticare le tracce dell’originale. Se nel testo restano cicatrici visibili, queste rischiano di stimolare la curiosità del lettore, cosicché il lavoro di censura si ritorce contro se stesso”. (gb) 89 RIGOLETTO IL SOGGETTO Mantova, secolo XVI ATTO PRIMO Gran festa a palazzo ducale. Dopo aver vantato le proprie conquiste al cortigiano Borsa, il duca rivela di desiderare una fanciulla che vede ogni domenica in chiesa ove si reca sotto mentite spoglie per fare conquiste tra le giovani mantovane. Frattanto egli corteggia l’avvenente moglie del conte di Ceprano. Il gobbo buffone di corte, Rigoletto, irride a quest’ultimo; pur divertiti, i cortigiani astanti meditano vendetta nei suoi confronti... ne hanno scoperto un segreto: Rigoletto tiene nascosta una donna, che suppongono sia la sua amante. Si aprono le danze, ma lo spettacolo è interrotto dal conte Monterone, sopraggiunto a difendere l’onore della figlia, sedotta dal duca. La lingua di Rigoletto non si ferma neppure innanzi a lui. Monterone, trascinato fuori dalla sala, scaglia una maledizione al duca e soprattutto a Rigoletto, che ammutolisce. Una via cieca. Notte. Rigoletto, avvolto nel proprio mantello, pensa alla maledizione di Monterone; con lui Sparafucile, che gli offre i suoi servigi di sicario. Rigoletto si informa del suo nome e recapito; una volta rimasto solo egli sfoga lo struggimento della sua vita: deforme, sfortunato, schernito, è costretto a far ridere gli altri; in Sparafucile egli vede una possibilità per far giustizia ai torti patiti. In casa lo attende l’unico affetto rimastogli dopo la morte della moglie: quello di Gilda sua figlia. Egli teme che questo suo segreto venga scoperto, in particolar modo il suo timore è rivolto ai cortigiani. Mentre, immerso nei sospetti, esce dal cortile di casa, vi penetra furtivamente il duca, in abiti borghesi. A Gilda questi si finge Gualtier Maldè, studente e povero. È lui il giovane che l’aveva avvicinata in chiesa e che ora le dichiara il proprio amore. L’idillio è interrotto da rumori improvvisi provenienti dall’esterno: il duca scompare, aiutato da Giovanna, cui Rigoletto aveva affidato l’incarico di sorvegliare la figlia e che in precedenza il duca aveva avvinto alla propria causa con una borsa 90 di danari. Gilda sale nella propria stanza ancora trasportata per l’incontro poc’anzi vissuto. Al di fuori Marullo, Borsa e gli altri cortigiani armati e mascherati attirano l’attenzione di Rigoletto: gli fanno credere di voler rapire la moglie di Ceprano. Quest’ultimo in realtà è con loro; la vittima designata è Gilda. Rigoletto si unisce loro: mascherato e bendato, egli sostiene la scala per consentire di scavalcare il muro. Gilda viene rapita e perde una sciarpa. Rigoletto vede la sciarpa, corre a casa e, resosi conto della sciagura piombatagli addosso, rievoca la maledizione. ATTO SECONDO Salotto nel palazzo ducale. Il duca è in preda a forte agitazione: tornato in casa di Gilda, l’ha trovata deserta; giura vendetta e prova tenerezza al suo ricordo. Sopraggiungono Marullo, Ceprano, Borsa e gli altri cortigiani raccontando l’avventura notturna: il duca viene così a sapere che la giovane è a palazzo: esce di fretta con sorpresa di tutti. Entra Rigoletto, cercando di nascondere il dolore e la preoccupazione che lo attanagliano; irrequieto, si guarda intorno. Un paggio viene a cercare il duca su ordine della duchessa, i cortigiani gli fanno intendere la sua occupazione; comprendendo che oggetto dell’occupazione del duca è Gilda, Rigoletto perde il controllo: infuriato, si getta contro la porta, smania e impreca, ma alla fine implora i cortigiani affinché gli rendano la figlia. Gilda stessa esce incontro al padre, confessandogli di aver perduto l’onore; quindi narra di come abbia conosciuto Gualtier Maldè, ossia il duca. Rigoletto medita vendetta. ATTO TERZO La sponda deserta del Mincio. Un’osteria mezza diroccata. Sullo sfondo Mantova. Notte. Gilda e Rigoletto sono sulla strada. Il padre chiede alla figlia se è ancora innamorata del duca: Gilda conferma... Rigoletto la invita a guardar dentro l’osteria, dove il suo adoratore, 91 travestito da ufficiale di cavalleria, chiede una stanza e del vino, e canta una canzonetta amorosa; scende Maddalena, che il duca corteggia. Un veloce dialogo fra Sparafucile e Rigoletto lascia comprendere la segreta intesa che li unisce per sopprimere il duca. Rigoletto dà conforto alla figlia, sconvolta dal comportamento del duca con Maddalena e le promette un’imminente vendetta, lei intanto riparerà a Verona ove il padre la raggiungerà l’indomani. Gilda si allontana, Rigoletto anticipa dieci scudi d’oro a Sparafucile; altri dieci verranno alla consegna del cadavere. Si avvicina un temporale. Il duca va a dormire, Maddalena cerca di convincere Sparafucile a risparmiare il giovane avventore. Gilda rientra con addosso gli abiti maschili che dovevano servirle per la fuga a Verona ed ascolta, non vista, il colloquio. Maddalena dice al fratello di uccidere il gobbo: il duca è troppo bello e lei ne è innamorata. Sparafucile rifiuta, ma si dichiara disposto a sostituire la vittima designata con qualche altro avventore, purché giunga all’osteria prima della mezzanotte, l’ora convenuta con Rigoletto. Gilda chiede perdono a Dio ed al padre; augura ogni bene all’uomo che ama e che salverà, batte l’uscio e viene trafitta da Sparafucile. Il temporale diminuisce. A mezzanotte Rigoletto salda il debito con Sparafucile e ritira il sacco con il cadavere, apprestandosi a gettarlo nel fiume. Nella notte si ode la voce del duca che si allontana canticchiando la sua canzone. Rigoletto è preso dall’angoscia taglia il sacco e alla luce di un lampo riconosce Gilda. Dalla locanda nessuno gli risponde. Gilda, ancora in vita, gli racconta l’accaduto e muore con parole di perdono: in cielo, vicina alla madre, pregherà per lui. Rigoletto, quasi in preda alla follia, cade sul cadavere della figlia riconoscendo nell’accaduto il terribile effetto della maledizione. 92 RIGOLETTO the theme Mantua, XVIth century ACT I Great feast in the ducal palace. Having boasted of his own conquests to the courtier Borsa, the Duke reveals that he desires a young lady whom he sees every Sunday in church where he goes in disguise to make conquests among the young women of Mantua. In the meantime he courts the lovely wife of the Count of Ceprano. The hunchback court jester, Rigoletto, makes fun of the Count of Ceprano; though amused, the courtiers present meditate to take their revenge upon him; they have discovered a secret: Rigoletto keeps a woman hidden, whom they assume is his lover. The dances begin, but the spectacle is interrupted by the Count of Monterone, come to defend the honor of his daughter who has been seduced by the Duke. Rigoletto does not hold his tongue even before him. Monterone, dragged out of the room, yells a curse at the Duke and especially at Rigoletto, who falls silent. A blind alley. At night. Rigoletto, wrapped in his own cloak, thinks of Monterone’s curse; with him is Sparafucile, who offers his services as an assassin. Rigoletto asks for his name and address; when he is left alone, he unburdens the tragedy of his life: deformed, unlucky, jeered at, he is forced to make others laugh; Sparafucile seems to him to be a way to achieve justice for all the wrongs he has suffered. At home awaits the only loved one left to him after the death of his wife: his daughter. He is afraid that this secret of his will be discovered, and he is especially afraid of the courtiers. While, immersed in his suspicions, he leaves the courtyard of his house, the Duke secretly enters it, dressed as commoner. To Gilda he pretends to be Gualtier Maldè, a poor student. He is the young man who had approached her in church and who now declares his love to her. The moment is interrupted by sudden noises coming from outside: the Duke disappears, assisted by Giovanna, whom Rigoletto has charged with looking out for his daughter, and whom the Duke had earlier 93 won over with a bag of money. Gilda goes up to her room still transported by the encounter she had just experienced. Outside, Marullo, Borsa and the other masked and armed courtiers attract Rigoletto attention: they make him believe they want to kidnap Ceprano’s wife. Ceprano, in fact, is with them; the designated victim of the kidnapping is Gilda. Rigoletto joins them: masked and hooded, he holds the ladder which allows them to climb over the wall. Gilda is kidnapped and loses a scarf. Rigoletto sees the scarf, runs home and realizing what tragedy has just befallen him, remembers the curse. ACT II The great Hall in the Ducal palace. The Duke is deeply disturbed: upon his return to Gilda’s house, he found it deserted; he swears revenge and fondly remembers her. Marullo, Ceprano, Borsa and the other courtiers arrive and recount their night of adventure: the Duke thus discovers that the girl is in the palace: he leaves quickly, to everyone’s surprise. Rigoletto enters, trying to hide the pain and the worry that grip him; restlessly, he looks around. A page comes looking for the Duke by order of the Duchess, the courtiers hint at what he is up to, understanding that the object of the Duke’s occupation is Gilda, Rigoletto loses control: infuriated, he throws himself against the door, ranting and raving, but in the end implores the courtiers to give him back his daughter. Gilda herself comes out to her father, confessing that she has lost her honor; then she tells how she has met Gualtier Maldè, that is the Duke. Rigoletto plans his revenge. ACT III The desert bank of the Mincio. A dilapidated tavern. In the background, Mantua. At night. Gilda and Rigoletto are on the road. The father asks his daughter if she is still in love with the Duke: Gilda says that she 94 is... Rigoletto invites her to look into the tavern, where her admirer, dressed as an officer of the cavalry, asks for a room and some wine, and sings a love song; Maddalena whom the Duke is wooing, comes down the stairs. A quick conversation between Rigoletto and Sparafucile hints at the agreement which binds them to eliminate the Duke. Rigoletto consoles his daughter, upset by the Duke’s behavior with Maddalena and promises her a rapid revenge, she in the meantime will go to Verona where her father will meet her the next day. Gilda walks away, Rigoletto gives ten golden scudi to Sparafucile; another ten will come when the body is delivered. A storm is approaching. The Duke goes to sleep, Maddalena tries to convince Sparafucile to save the young man. Gilda comes back in dressed in the men’s clothes that she was to use for her escape to Verona, and listens to the conversation unseen. Maddalena tells her brother to kill the hunchback: the Duke is too handsome and she is in love with him. Sparafucile refuses, but says he is willing to substitute the designated victim with some other young man, as long as he comes to the tavern before midnight, the hour he has agreed upon with Rigoletto. Gilda begs forgiveness from God and from her father; she wishes well to the man that she loves and whom she will save, knocks on the door and is killed by Sparafucile. The storm abades. At midnight, Rigoletto pays his debt to Sparafucile and takes the bag with the corpse, to throw into the tavern. In the night the voice of the Duke is heard humming his song as he leaves. Rigoletto is taken by panic: he cuts the bag open and recognized Gilda by lamplight. Nobody from the tavern answers his cries. Gilda, still alive, tells him what has happened and dies with words of forgiveness: in Heaven, next to her mother, she will pray for him. Rigoletto, almost in prey to madness, falls on the corpse of his daughter and recognizes the terrible effect of the curse in what has happened. 95 il libretto RIGOLETTO di Francesco Maria Piave 97 Z/'K>ddK Ǥ ǣǡ ǡͳͳͳͺͷͳ WĞƌƐŽŶĂŐŐŝ />h Ȁ Z/'K>ddK Ȁ '/> Ȁ ^WZ&h/> Ȁ D>E Ȁ '/KsEE Ȁ DKEdZKE Ȁ DZh>>K Ȁ KZ^ ǡ Ȁ WZEK Ȁ >KEd^^ Ȁ h^/Z Ȁ W''/K Ȁ ĂǀĂůŝĞƌŝ͕ĂŵĞ͕WĂŐŐŝ͕ůĂďĂƌĚŝĞƌŝ͘ Ǥ ǡ Ǥ ǤǤ ǯǤ 98 ϭϭϴ >ddKZEsK>K WĞƌĐŝƌĐŽƐƚĂŶnjĞƐƉĞĐŝĂůŝ ƐĞŶƚŽŝůďŝƐŽŐŶŽ ĚŝƌĂĐĐŽŵĂŶĚĂƌĞ ĂůůĂƚƵĂŝŶĚƵůŐĞŶnjĂ͕ ƉŝƵĐĐŚ͛ĂůƚƌŽŵĂŝ͕ ƋƵĞƐƚŽŵŝŽůĂǀŽƌŽ͕ ĞƐƉĞƌŽĚŝŶŽŶ ŝŶŐĂŶŶĂƌŵŝ͕ĐŽŶĨŝĚĂŶĚŽ ĐŚĞŶŽŶƐĂƌĂŝƉĞƌ ŶĞŐĂƌŵĞůĂ͘sŝǀŝĨĞůŝĐĞ͘ WŝĂǀĞ͘ ϭ͘ ƚƚŽƉƌŝŵŽ ǯ Ěŝ&ĞĚĞƌŝĐŽsŝnjnjĂĐĐĂƌŽ ȏȐ ϭ͘WZ>h/K /ůďƌĞǀĞƉƌĞůƵĚŝŽ ;ƐŽůŽϯϰďĂƚƚƵƚĞͿğ ŝŶĐĞŶƚƌĂƚŽƐƵůŵŽƚŝǀŽ ĚĞůůĂ͚ŵĂůĞĚŝnjŝŽŶĞ͕͛ĐŚĞ ĐĂƌĂƚƚĞƌŝnjnjĂƚƵƚƚĂů͛ŽƉĞƌĂ͘ ĂůĐĂƌĂƚƚĞƌĞǀĂŐŽ ĞƐŝŶŝƐƚƌŽ͕ĂĚĞƐƐŽĨĂ ĚĂĐŽŶƚƌĂůƚĂƌĞŝůƚĞŵĂ ŐƌŽƚƚĞƐĐŽĐŚĞŝŶƚƌŽĚƵĐĞ ĂůůĂĨĞƐƚĂĚĂďĂůůŽĐŽŶĐƵŝ ƐŝĂƉƌĞŝůƐŝƉĂƌŝŽ͕ĞƐĞŐƵŝƚŽ ĚĂƵŶĂďĂŶĚĂƉŽƐƚĂĚŝĞƚƌŽ ůĂƐĐĞŶĂ͘ŵƵƐŝĐĂĚŝƐĐĞŶĂ͕ ĐŽŶĨƵŶnjŝŽŶĞĚŝĞŐĞƚŝĐĂ͕ ĐŚĞĂůĐŽŶƚĞŵƉŽĚĞƐĐƌŝǀĞ ƉĞƌĨĞƚƚĂŵĞŶƚĞů͛ĂƚŵŽƐĨĞƌĂ ůŝďĞƌƚŝŶĂĚĞůůĂĐŽƌƚĞ 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Ha diretto inoltre l’Orchestra Filarmonica della Radiotelevisione Olandese, l’Orchestra Sinfonica di Montreal, l’Orchestra della Suisse Romande, l’Orchestra Sinfonica di Graz, l’Orchestra Regionale Toscana, l’Orchestra di Padova e del Veneto, l’Orchestra del Teatro di San Carlo di Napoli, i Solisti Aquilani, l’Orchestra della Fondazione Toscanini, l’Orchestra de “I Pomeriggi musicali2 di Milano, l’Orchestra Tafelmusik di Toronto e ha partecipato a numerosi festival tra cui il Festival di Knowlton, la Biennale di Venezia, il Festival Belcanto, il Reate Festival. Fra le sue collaborazioni più note si annoverano Il Signor Bruschino di Rossini per la regia di D. Abbado, il concerto dedicato ai tre tenori J. Osborn, B. Banks e C. Albelo e l’originale versione di Pierino e il lupo di Prokovief, con F. Timi, nella Villa Adriana di Tivoli. Nel 2009 ha ottenuto un grande successo di critica e pubblico dirigendo la Nona Sinfonia di Beethoven e Street Song di M. Tilson Thomas. Nel 2010 ha diretto La bohème con M. Giordani e D. D’Annunzio Lombardi al Teatro Bellini di Catania. Ha inaugurato le edizioni 154 2009 e 2010 del Reate Festival, dirigendo Il Campanello di Donizetti con la Belcanto Orchestra. Nel 2012 è stato invitato da Claudio Abbado come assistente alla direzione dell’Orchestra Mozart per alcuni concerti a Bologna e a Lucerna. È stato protagonista della stagione estiva 2012 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia accanto a grandi solisti come Lang Lang, dirigendo inoltre le cinque sinfonie dispari di Beethoven. Nel settembre 2012, alla guida dell’ensemble dei corsi di perfezionamento dell’Accademia, ha realizzato il dittico Opera 900 (M. Ravel, L’heure espagnole e G. Puccini, Gianni Schicchi) e come ospite del Reate Festival ha diretto poi l’Adina di G. Rossini. In seguito ad un concerto nell’Auditorio Alfredo Kraus di Las Palmas, ha debuttato con il Don Pasquale al Teatro São Carlos di Lisbona e ha diretto Rigoletto al Teatro Carlo Felice di Genova. Denis Krief regia, scene, costumi, disegno luci Regista, scenografo, costumista e realizzatore luci. Vive a Roma. Di formazione cosmopolita, ha compiuto studi musicali a Parigi e si è formato alla scuola italiana di regia guardando anche al teatro d’opera in Germania e al teatro di prosa russo. Musicista e uomo di teatro, si è dedicato al repertorio classico e contemporaneo realizzando regie di opere distanti nel tempo. Ospite dei principali teatri d’opera italiani, ha lavorato anche all’Opéra Bastille di Parigi con Benvenuto Cellini di Berlioz e allo Staatstheater di Karlsruhe con Der Ring des Nibelungen di Wagner. In Italia ha realizzato: A Midsummer Night’s Dream di Britten all’Opera di Roma; Moses und Aron di Schoenberg al Massimo di Palermo; Un ballo in maschera di Verdi e Linda di Chamounix di Donizetti al Comunale di Bologna; Parsifal di Wagner alla Fenice di Venezia; Lucia di Lammermoor, Aida, Il barbiere di Siviglia, Die Walküre e la prima italiana di Die ägyptische Helena di Strauss al Lirico di Cagliari. Nel 2006, in occasione della 57ª Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, ha curato la prima regia in Italia del Diario di uno scomparso di Janáček. Nel 2007 ha realizzato Turandot di Puccini per Karlsruhe e per la Suntory Hall di Tokyo. Ha collaborato con l’Accademia Chigiana di Siena, realizzando diversi spettacoli, tra cui La madre del mostro di F. Vacchi. Ha inaugurato la stagione estiva dell’Arena di Verona con Nabucco di Verdi, ha aperto il Festival Verdi di Parma con Luisa Miller, ha messo in scena Turandot di Puccini al Teatro La Fenice di Venezia e al San Carlo di Napoli. Il 2008 è stato consacrato alle opere contemporanee del compositore cinese Tan Dun: The First Imperor, in prima europea per lo Staatstheater di Saarbrücken in Germania, e Water Passion per la Sagra Malatestiana di Rimini (prima italiana), dove ha anche allestito Kafka Fragmente di Kurtág (prima italiana). Nel 2009 ha allestito Lucia di Lammermoor al Regio di Parma, la sua prima produzione della Dama di Picche di Ciakovski al Regio di Torino e Maria Stuarda di Donizetti a La Fenice di Venezia. Nel 2010 ha messo in scena Il Trovatore e l’Alzira di Verdi e ripreso Luisa Miller per il Regio di Torino. Ha debuttato con Die Frau ohne Schatten di Strauss al New National Theater di Tokyo ed è tornato alla Sagra Malatestiana con uno spettacolo originale su testi di Rilke con musiche di Martin e Ullmann. Nel 2000 ha ricevuto il Premio Abbiati quale migliore regista per Turandot di Puccini e Busoni, Carmen di Bizet e Lucia di Lammermoor di Donizetti. 155 Franco Sebastiani maestro del coro Nato a Trento, ha studiato Ingegneria presso l’Università di Bologna e contemporaneamente composizione, musica corale, strumentazione e direzione d’orchestra al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna. Dal 1980 al 1984 ha insegnato al Conservatorio bolognese e dal 1998 al 2007 al Conservatorio di Adria. Dal 1982 al 2001 è stato maestro suggeritore e altro maestro del coro del Teatro Comunale di Bologna, partecipando alle stagioni liriche e alle tournée in Giappone del ’93 e del ’98. È stato maestro del coro al Teatro Valli di Reggio Emilia, al Comunale di Bologna, al Teatro Alighieri di Ravenna, al Teatro Verdi di Salerno, al Teatro dell’Opera di Roma, alla Maison Radio France di Parigi e a Fort Worth negli Stati Uniti. Ha diretto concerti e allestimenti di opere liriche in Italia e in Europa, è stato più volte assistente di direttori d’orchestra, tra cui P. Maag, G. Gelmetti e R. Muti. In qualità di direttore ha preso parte a diverse edizioni delle Feste Musicali del Comunale di Bologna e del Ravenna Festival. È stato più volte presidente di commissione nei concorsi per strumenti dell’orchestra al Teatro Carlo Felice di Genova. È autore di revisioni e trascrizioni di partiture 156 di opere inserite nella programmazione del Comunale di Bologna. Dal 2001 al 2003 ha ricoperto la carica di segretario artistico del Teatro Verdi di Trieste. Fabrizio Paesano tenore Alessandro Scotto di Luzio tenore Nato a Napoli nel 1985. Appassionato di canto, ha iniziato giovanissimo ad esibirsi in spettacoli e concerti che spaziano dalla musica sacra alla canzone napoletana. L’interesse per la musica lirica lo ha portato successivamente ad intraprendere la formazione musicale e vocale con la guida di Marilena Laurenza al Conservatorio di Salerno. Nel 2009 ha vinto il Concorso “Luigi Denza” a Castellammare di Stabia e nel 2010 ha debuttato al Teatro Sociale di Como nel ruolo di Elvino ne La sonnambula di Bellini, finalista idoneo al ruolo del 61° Concorso As.Li.Co. Nella stagione 2011 ha collaborato con il Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia per L’elisir d’amore (prova generale aperta al pubblico in sostituzione di Ramón Vargas) ed è stato riconfermato al Teatro Sociale di Como come Fadinard nella produzione Il cappello di paglia di Rota in scena anche al Teatro Chiabrera di Savona, al Teatro Fraschini di Pavia e al Teatro Sociale di Rovigo. Recentissimo il debutto come Tebaldo ne I Capuleti e Montecchi di Bellini nel Circuito Regionale Lombardo. Giovanissimo ha iniziato privatamente lo studio del canto, per poi proseguire la sua formazione al conservatorio Cimarosa di Avellino. Tra il 2006 e il 2008 è stato aggiunto del coro dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma. Nel 2008 ha vinto il concorso per l’ammissione alla Scuola dell’Opera Italiana del Comunale di Bologna ed il XIV Concorso Internazionale “Ritorna Vincitor” di Ercolano. Nel 2009 è stato finalista del 60° Concorso per giovani cantanti lirici d’Europa indetto dall’As.Li.Co, vincitore nella sezione tenori delle trasmissioni televisive “Domenica In” e “Tour de Chant” su RAI Uno. Nello stesso anno ha cantato nell’anfiteatro romano di Bet She’An in occasione del “Concerto per la Riconciliazione” durante la visita di Papa Benedetto XVI in Israele; si è esibito nei concerti di apertura del Concorso “Spiros Argiris” 2009 con l’Orchestra di Torre del Lago diretta da Beltrami; ha debuttato come Rodolfo ne La bohéme diretta da Veronesi e nel ruolo di Tonio ne La figlia del reggimento con D’Agostini al Teatro Sociale di Como; nel 2010 è stato Nemorino ne L’elisir d’amore diretto da Rustioni. Nel 2012 ha debuttato come Duca di Mantova in Rigoletto a Trapani, come Ernesto in Don Pasquale a Padova con Bisanti ed ha riscosso successo come Edgardo in Lucia di Lammermoor con As.Li.Co a Como, a Cremona, a Fermo e a Ravenna. Il 2013 è iniziato con Un giorno di regno ed Elisir d’amore a Verona. 157 158 Stefano Antonucci baritono Yanni Yannissis baritono Ha debuttato nel 1988 come Marcello ne La bohème al Teatro alla Scala, ritornandovi per Manon Lescaut e Fedora. Nel ’97 ha debuttato come Rigoletto al Teatro Donizetti di Bergamo, intraprendendo una brillante carriera che lo ha portato a collaborare in Italia con i teatri Regio di Torino, Comunale di Bologna, Filarmonico di Verona, Carlo Felice di Genova, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Massimo di Palermo, e all’estero con i teatri di Berlino, Lione, Parigi, Montpellier, Losanna, Zurigo, Vienna, Monaco e Montecarlo. Ha lavorato con i direttori Maazel, Solti, Gavazzeni, Delman, Gelmetti e Renzetti. Nelle ultime stagioni si è concentrato sull’interpretazione dei principali ruoli verdiani. Ha cantato La traviata (Berlino, Catania, Macerata, Verona, Firenze, Bologna, Torre del Lago, Monte Carlo), Falstaff (Torino, Berlino, Parigi), Luisa Miller (Barcellona, Losanna, Napoli e in tournée in Giappone), Ernani (Palermo), Il trovatore (Roma, Verona, Parigi), La forza del destino (Torino, Parma), Simon Boccanegra e Un ballo in maschera in diversi teatri italiani. Si distinguono: Madama Butterfly a Bologna con la direzione di D. Gatti e a Parma, Lucia di Lammermoor a Macerata (Guingal/Brockhaus), L’Arlesiana a Montpellier incisa per Universal. Ha interpretato La Favorita a Santiago del Cile, La bohème e Adriana Lecouvreur a Firenze, Pagliacci a San Pietroburgo, Rigoletto all’Opéra di Dijon, a Tel Aviv, a Genova e a Caracalla. Recentemente è stato Simon Boccanegra a Göteborg. Nato ad Atene, ha studiato canto al Conservatorio di Atene e successivamente, con Charles Kellis, alla Juilliard School of the Performing Arts di New York. Ha debuttato ad Atene con la National Opera nel ruolo di Cecil in Maria Stuarda di Donizetti ed ha proseguito la sua carriera partecipando a numerose produzioni in Europa e in America, al fianco di celebri direttori, cantanti e registi come Levine, Pappano, Abbado, Pavarotti, Domingo e Mirella Freni. Si è esibito in molti teatri greci e italiani. Nel Regno Unito ha cantato Leporello nel Don Giovanni con la Scottish Opera, in Francia ha interpretato Melitone nella Forza del destino ed è stato Sharpless con la Frankfurt Opera House. Negli Stati Uniti ha cantato Cirillo in Fedora alla Washington Opera House e Colline nella Bohème alla San Diego Opera House; dal 1991 al 2001 è stato membro del Metropolitan Opera House di New York City. Le sue registrazioni includono Andrea Chénier, La fanciulla del West, Idomeneo, Rigoletto, I Lombardi, Fedora, Don Carlos. I suoi ultimi impegni lo hanno visto coinvolto in Macbeth e in Makropolus case al Metropolitan Opera di New York, nel ruolo di Amonasro all’Herodion Theatre e in Gianni Schicchi al Teatro São Carlos di Lisbona, dove nel 2012 ha interpretato Malatesta nel Don Pasquale. Dal 2008 al 2010 è stato direttore artistico dell’Opera di Salonicco. Sofia Mchedlishvili soprano Mariangela Sicilia soprano Nata nel 1989 a Tbilisi in Georgia. Dal 2007 ha frequentato la classe di canto al Conservatorio “V. Sarajishvili” di Tbilisi, studiando con Nodar Andghuladze. Nel 2008/2009 ha vinto la borsa di studio “Maia Tomadze”. Nel 2009 ha debuttato nel ruolo della prima dama nel Flauto Magico. Nel 2010 ha vinto il Concorso “Lado Ataneli”. Nel 2011 ha debuttato come Susanna ne Le nozze di Figaro ed ha partecipato all’Opera Festival di Augsburg. Nel 2012 è stata al festival Rossini in Wildbad e, subito dopo, ha debuttato in Carmina Burana a Tbilisi e in Lucia di Lammermoor a Jesi e a Fermo. Nel 2013 ha vinto l’As.Li.Co e debutterà nel ruolo di Amenaide in Tancredi nel circuito lombardo. Interpreterà anche Euridice in Orfeo all’inferno a Firenze. Giovane soprano italiano si è diplomata nel 2010 al conservatorio “S. Giacomantonio” di Cosenza. Formatasi con la guida di Carmela Remigio e Leone Magiera, attualmente si è perfezionata con Fernando Cordeiro Opa. Collabora con artisti di fama internazionale. È stata allieva della Scuola dell’Opera Italiana del Teatro Comunale di Bologna (a.a.2009/2010) ed ha frequentato l’accademia mozartiana di Aix-en-Provence nel 2011 specializzandosi con Susanna Eken. Nel 2009 ha debuttato in Hänsel und Gretel (Gretel) di Humperdinck per una tourneé nei più importanti teatri italiani. Ha interpretato: Serpina nella Serva Padrona di Pergolesi e Arsenia nel Don Trastullo di Jommelli al San Carlo di Napoli; Livietta e Tracollo e Serva Padrona di Pergolesi al Comunale di Bologna; Musetta nella Bohème a Lucca, Pisa, Livorno e Ravenna; Charmion nella Cléopâtre di Massenet al Festival di Salisburgo; Corinna ne Il viaggio a Reims al ROF di Pesaro. Al Festival di Wexford è stata Vivetta ne L’Arlesiana, con grande successo di pubblico e critica. Più recentemente è stata protagonista dello Stabat Mater di Pergolesi a Gerusalemme e Ravenna trasmesso dalla Rai. Si è distinta in importanti concorsi internazionali: primo premio “R. Leoncavallo” di Montalto Uffugo nel 2009, vincitrice del ruolo di Adina al “T. Schipa” di Lecce e premio straordinario al “F. Viñas” di Barcellona nel 2012. 159 160 David Cervera basso Emanuele Cordaro basso È nato nel 1986 a Vilamarxant (Valencia, Spagna). Ha iniziato gli studi musicali di bombardino e trombone all’età di 7 anni nella scuola musicale della banda Unió Artística Musical de Vilamarxant, con la guidaa dei professori G. Sanchis, J. M. Arrué e J. Martínez. Nel 2008 ha conseguito il diploma di trombone al Conservatorio di Musica di Castelló. Nel 2004 ha iniziato gli studi di canto nel Conservatorio di Musica di Valencia. Dal 2005 ha studiato con il basso-baritono Francisco Valls. Nel 2009 si è trasferito a Madrid per proseguire gli studi nella Escuela Superior de Canto di Madrid con Juan Lomba e i maestri di repertorio Pilar Gallo e D. Gifford. Come solista ha interpretato l’opera Pinocchio (Omino) di Natalia Valli, La bohème (Colline), Turandot (Timur), Il barbiere di Siviglia (Basilio), Lucia di Lamermoor (Raimondo) e la zarzuela La Tabernera del Puerto (Simpson) di Pablo Sorozábal. Il suo repertorio d’oratorio include la Messa di Coronazione e il Requiem di Mozart, il Requiem di Fauré, la Missa Solemnis e lo Stabat Mater di Rossini e Requiem di Verdi. Ha partecipato alla registrazione della Cantata Oda a Jovellanos di J. Muñiz e A. Gamoneda. Ha cantato recital di opera e zarzuela, incluso il ciclo “Amigos de la Ópera de Madrid”. Nel 2009 è stato finalista del Concorso Internazionale di canto “Manuel Ausensi” al Gran Teatre del Liceu di Barcellona e nel 2010 ha vinto il terzo premio del Concorso Internazionale di Canto di Colmenar Viejo (Madrid). Nato a Catania nel 1987, ha iniziato lo studio del canto privatamente. Si è perfezionato con il Maestro Marcello Lippi e con il basso Bonaldo Giaiotti. Nel 2011 ha partecipato al concorso a ruoli per l’Aida di Giuseppe Verdi indetto da Ramfis Production ad Avignone ed ha vinto il ruolo del Re, che ha debuttato in una tournè tra Spagna, Francia e Italia. Nel 2012 è stato impegnato nel ruolo di Brown nell’Opera da tre soldi di Kurt Weill nei teatri di Pisa, Lucca e Livorno. Si è esibito come basso solista nella Messa di Requiem di Giuseppe Verdi in una coproduzione Teatro Regio di Parma ed Eurorchestra ed ha interpretato i ruoli del secondo console e del podestà di Como ne La battaglia di Legnano al Regio di Parma, il ruolo del basso nel Manfred di Schumann al Teatro Massimo di Palermo, il gran sacerdote di Belo al Teatro Verdi di Pisa. Nel 2013 ha interpretato Antonio ne Le nozze di Figaro di Mozart e Ludovico in Otello, per la regia di Enrico Stinchelli, entrambe al Teatro Verdi di Pisa; è stato Pistola nel Falstaff al Teatro della Fortuna di Fano e come basso solista ha partecipato alla Messa di Requiem di G. Verdi alla Loyola University di Chicago. Sempre nel 2013 canterà Sparafucile nel Rigoletto anche al Festival di Taormina. Sofia Janelidze mezzosoprano Marianna Vinci mezzosoprano Di nazionalità georgiana ha terminato gli studi al conservatorio della capitale Tbilisi. All’età di 24 anni è entrata a far parte della State Opera Theatre dove ha lavorato per tre anni, interpretando ruoli primari in opere di Mozart, Verdi e Tchaikovsky. Nel 2008, su invito dell’ambasciata, si è trasferita in Italia, studiando e perfezionandosi con artisti di chiara fama, tra cui Gianfranca Ostini, Jenny Anvelt, Katia Ricciarelli, Jaume Aragall e Marcello Lippi. È stata premiata nei concorsi “Martini”, “G. Simionato”, “G. Zecca”, “E. Lisca”, “Giovani voci” di Magenta, “La città sonora”. Nel 2009 è stata finalista ai prestigiosi concorsi Operalia di Placido Domingo e Hans Gabor Belvedere. Ha riscosso successo di pubblico e critica al fianco di Leo Nucci nel Rigoletto alla Scala di Milano, in Suzuky al Teatro Pirandello di Agrigento, all’Arena Alpe Adria di Lignano e al Festival di Cura Carpignano. È stata Santuzza al Cagnoni di Vigevano, Madame Flora nella Medium di Menotti al festival Piccola Spoleto, Farnace nel Mitridate di Mozart in tournée dalla Georgia al Libano nel Al Bustan Festival. Ha interpretato Maddalena al fianco di Ivan Magrì al Teatro Vanemuine in Estonia. Ha cantato Adelaide nella Napoli milionaria di Nino Rota nei teatri Verdi di Pisa, Goldoni di Livorno e del Giglio di Lucca. Nata a Taranto, ha studiato canto all’Istituto Musicale “G. Paisiello”. Nel 2005 si è diplomata con la lode ed è stata ammessa come migliore allieva dell’istituto all’Accademia “P. Grassi” di Martina Franca, dove ha frequentato i corsi di perfezionamento di E. Papadia e di S. Segalini. Dal 2009 si è perfezionata con M. Beltrami e W. Matteuzzi ed ha frequentato la Scuola dell’Opera di Bologna. Nel 2007 ha debuttato come Flora ne La traviata diretta da S. Monterisi al Bitonto Opera Festival, ha cantato lo Stabat Mater di G. Paisiello diretto da A. Cavallaro a Taranto e si è laureata con lode in discipline musicali. Nel 2008 ha cantato l’Oratorio di Natale di C. SaintSaëns diretto da S. Sica. In seguito al concorso televisivo per cantanti lirici della RAI, ha partecipato ad un concerto in Israele in occasione della visita del Santo Padre. Nel 2009 ha cantato Rosina ne Il barbiere di Siviglia al Cervinara Opera Festival, il Requiem di Mozart a Ravenna e Ferrara. Nel 2009/10 è stata Maddalena in Rigoletto con As.Li.Co. nel circuito lombardo, dove è stata riconfermata per il 2010/11 nel ruolo di Flora ne La traviata. Al Comunale di Bologna ha debuttato come Mercedes in Carmen, al Politeama di Lecce ha cantato il Requiem di Mozart diretto da L. Bacalov e Berta ne Il barbiere di Siviglia diretta da F. Zigante, La traviata e Napoli milionaria a Cagliari, Carmen story al Comunale di Bologna, Il Cappello di paglia di Firenze nel Circuito As.li.co, Cavalleria Rusticana a Mumbai e Macbeth a Bologna. 161 Orchestra del Teatro Petruzzelli direzione musicale Daniele Rustioni PRIMI VIOLINI Pacalin Pavaci** Enrico Vacca Paolo Manzionna Giacomo Bianchi Raffaele Fuccilli Vigilio Aristei Simona Cappabianca Aniello Alessandrella Sabina Morelli Matilde Ditaranto Presta Luigi Elena Di Felice SECONDI VIOLINI Maria Saveria Mastromatteo* Carmine Marcello Rizzi Milena De Magistris Stefania Di Lascio Piermarco Benzi Marcello Alemanno Antonio Maggiolo Domenico Passidomo Maria Giuseppa Parisi Luigi Paradiso VIOLE Jonathan Cutrona* Antonio Buono Cecilia Iacomini Federica Di Schiena Michela Carnevale Anna Maria Losignore Luca Pellegrino Giuseppe Rutigliano VIOLONCELLI Andrea Waccher * Maria Cristina Mazza Marco Schiavone Giovanni Astorino Ubaldo Chirizzi Claudia Fiore 162 CONTRABBASSI Vincenzo Antonio Venneri* Alessandro Terlizzi Francesco Saverio Piccarreta Daniele De Pascalis PERCUSSIONI Giuseppe Costa* Alberto Semeraro FLAUTI Raffaele Bifulco* Camilla Castellucci OBOI Gianpiero Fortini* Klidi Brahimi (anche corno inglese) CLARINETTI Michele Naglieri * Daniele Galletto FAGOTTI Matteo Morfini* Mauro Leonardo CORNI Antonio Pirrotta * Francesca Bonazzoli Fabio Chillemi Giuseppe Smaldino TROMBE Ettore Luigi Rivarola* Giovanni Nicosia TROMBONI Giuseppe Zizzi* Gianfranco Cipriani Domenico Toteda CIMBASSO Nicola Di Grigoli TIMPANI Raffaele Collazzo ** spalla * prima parte QUINTETTO IN PALCOSCENICO VIOLINI Maria Teresa Amenduni Mattia Cuccillato Viole Giulia Dessy Angelo Conversa CONTRABBASSO Vincenzo Loconte BANDA in palcoscenico OTTAVINO Sacha De Ritis Flauto Simone De Franceschi Clarinetti Mark La Regina Andrea F. Zecchillo Fabio Castiello Corni Vincenzo Colucci Vincenzo Convertini Vitalba Siliberti Trombe Alex Cesare Elia Emanuele Spina Tromboni Francesco Chisari Riccardo Fersini Tuba Rosario Tramontano dietro le QUINTE PERCUSSIONI Michele Acquafredda 163 Coro del Teatro Petruzzelli Mimi MAESTRO DEL CORO Alessandra Calearno Barbara De Toma Ester Gisotti Alessandra Grassi Anna Maria La Stella Benedetta Piccionna Anna Moscatelli Luciana Scarli Franco Sebastiani TENORI Giuseppe Cacciapaglia Alessandro Cosentino Nicola Domenico Cuocci Sebastiano Giotta Carlo Losito Giuseppe Maiorano Antonio Manfreda Pantaleo Metta Raffaele Pastore Marcello Recca Vito Tralli BARITONI Francesco De Candia Carlo Giuseppe Monaco Francesco Paolo Morelli Antonio Muserra Carlo Provenzano Saverio Sangiacomo BASSI Cataldo Cannillo Rocco Cavalluzzi Francesco Colaianni Graziano De Pace Roberto Galanto Giacomo Selicato 165 OPERA BALLETTO SINFONICA STAGIONE 2013 ­ ­ ­ ­ ­ 168 ­ ­ ­ ­ 169 CREDITI E CONTATTI Progetto editoriale Guido Barbieri Design e disegni Marco Sauro Editing Stefania Donnini Traduzioni in lingua inglese Paul Jarvis Foto Carlo Cofano Stampa Grafiche Deste Srl Si ringrazia Nico Stella e Domenico Andriani per la collaborazione Info 080.9752840 [email protected] Botteghino 080.9752810 [email protected] Ufficio stampa 080.9752830 [email protected] www.fondazionepetruzzelli.it 171