Angelo Trimarco La parabola del teorico sull'arte e la critica Introduzione di Stefania Zuliani Introduction by Stefania Zuliani CRITICAL GROUNDS #03 1 3 Arshake • Reinventing Technology Via Giuseppe Pisanelli, 4 | 00196 Rome, Italy www.arshake.com contacts [email protected] ISSN - 2283-3676 Direttore Editoriale / Editorial Director Elena Giulia Rossi Critical Grounds Progetto Editoriale Diretto da / Editorial Project Directed by Christian Caliandro e Antonello Tolve Comitato Scientifico / Scientific Committee Alexandra Antonopoulou Francesca Bacci Giselle Beiguelman Nina Czegledy Francesca Gallo José Jiménez Eva Kekou Christiane Paul Eugenio Viola E-book/design Cristian Rizzuti Traduzione Italiano/Inglese Francesco Caruso Copyright © Arshake, A. Trimarco e S. Zuliani per i testi. Copyright © Arshake, A. Trimarco e S. Zuliani for text. ISBN - 978-88-98709-02-1 Le pubblicazioni edite da Arshake sono sottoposte al preliminare vaglio scientifico di un comitato di referee anonimi e si avvale quindi della procedura peer review. / Arshake pubblications are submitted for peer-review to a scientific committee of undisclosed members. La Parabola del Teorico CRITICAL GROUNDS - 03 - Angelo Trimarco La parabola del teorico sull'arte e la critica Introduzione di Stefania Zuliani 7 8 Indice / Index Introduzione / introduction di / by Stefania Zuliani11 Gli anni settanta 1. Lo sfiorire del teorico 2. L’arte dopo la filosofia (e altre considerazioni) 3. Convergenze sull’antropologia Intermezzo 1. Mukařovský. Il legame obliquo 2. Hauser. Il corso tortuoso della dialettica 31 47 63 75 91 Terminabile, interminabile 1. 2. 3. 4. Sulla critica interminabile Il motto di spirito, il poetico La storia con Freud Storia dell’arte, storia delle cose 99 109 115 129 Biografia / Biography 151 Bibliografia / Bibliography 153 10 Introduzione Un bilancio, una proposta A proposito di un libro interminabile di Stefania Zuliani La cronologia, innanzitutto: è il 1982 quando La parabola del teorico (Sull’arte e la critica è l’ambizioso sottotitolo) viene pubblicato dalle romane edizioni Kappa nella collana Figure diretta da Filiberto Menna, fondatore nello stesso anno dell’omonima rivista (Figure. Teoria e critica dell’arte, appunto), che nel corso del decennio fu spazio d’elezione per il confronto tra i protagonisti e i temi del dibattito critico più aggiornato e dissidente, in Italia e non solo. Erano passati solo quattro anni dal cruciale convegno di Montecatini, davvero gli stati generali della critica d’arte1, un incontro affollato e intenso che nell’ampio e non sempre sereno presentarsi delle voci e dei metodi, ancora apparentemente (modernamente) saldi e taglienti, aveva di fatto sancito l’avvenuto ingresso nella stagione postmoderna, una latitudine dagli incerti confini e dai discorsi plurali, irriducibile ad una risolutiva definizione, ad una direzione univoca. Una condizione a tal punto segnata dalla differenza da poter essere interpretata, in Europa e negli Stati Uniti, secondo orientamenti persino contraddittori, talvolta semplificati in schematiche ma efficaci opposizioni: «postmodernismo poststrutturalista» vs. «postmodernismo neoconservatore»2 o, ancora, «postmodernism of resistence» vs. «postmodernism of accomodation»3, per riprendere 1 Teoria e pratiche della critica d’arte è il titolo del convegno, curato da Egidio Mucci e da Pier Luigi Tazzi nel maggio del 1978. Gli atti, a cura dei due studiosi, verranno pubblicati l’anno successivo (Mondadori, Milano). Tra i numerosi interventi, segnaliamo quelli di Amman, Barilli, Bonito Oliva, Buchloh, Dorfles, Calvesi, Eco, Lyotard, Maltese, Menna, Millet, Pleynet, Restany, oltre quello dello stesso Trimarco. Cfr. A. Trimarco, Italia 1960-2000. Teoria e critica d’arte, Paparo edizioni, Napoli 2012, pp. 113ss. 2 Così H. Foster, R. Krauss,Y.A. Bois, B.H.D. Buchloh, Art Since 1900: Modernism, Antimodernism, Postmodernism, Thames and Hudson, London 2005, trad. it. E. Grazioli, Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna 2006, pp. 596-599. 3 D. Crimp, On the museum’s ruins, MIT Press, Cambridge MA- London 2000 (1993), p. 4. 11 le proposte teoriche sostenute dalla rivista statunitense «October»4. Il Convegno di Montecatini del 1978 aveva dunque rappresentato un punto di non ritorno, non solo e non tanto per il delinearsi di tesi dagli esiti inconciliabili – e basterà pensare al «lassismo critico» proposto da Lyotard, certo distante dalla rigorosa «critica della critica» sostenuta con ostinazione dallo stesso Menna5 come dalle posizioni di Gillo Dorfles, anche in quest’occasione attento a riflettere sulla possibilità di un giudizio assiologico6 – quanto per il carattere involontariamente conclusivo di una discussione che dichiarava, di fatto, l’impossibilità di un unico e definitivo discorso sul metodo aprendo alla scena del rischio, alle incertezze di una navigazione le cui rotte andavano di volta in volta stabilite e sperimentate. Senza improvvisazione, però, utilizzando con lucidità strumenti teorici magari flessibili ma non per questo estemporanei e immotivati. Ed è proprio muovendo dalla consapevolezza che il farsi della critica, pur rigettando con decisione «il totalitarismo dei metodi»7 non poteva affidarsi ad una sensibilità puramente soggettiva e neppure cedere alla tentazione di limitarsi ad affiancare soltanto l’opera d’arte con la scrittura critica, intesa anch’essa come produzione di assoluti «testi di godimento» (Barthes), che Angelo Trimarco ha scelto di raccogliere nell’architettura solida de La parabola del teorico i risultati e le prospettive di un lavoro critico avvezzo alla fatica delle teoria, all’esercizio di una ragione analitica che, scongiurato definitivamente il «fantasma della metafisica», fosse in grado di rimettere in questione il soggetto e la complessità delle sue relazioni, fuori da ogni rigido dettato storicista ma non senza una irrinunciabile sensibilità dialettica, «contro discorso» non denunciato eppure sempre attivo nel pensiero di Trimarco. È certo significativo che ad aprire il volume sia il saggio più recente tra quelli che costituiscono l’impalcatura tripartita del libro – Gli anni Settanta, Intermezzo, Terminabile, interminabile – un contributo del 1981, ragionatissimo, fitto di note e di rimandi, di eterogenei riferimenti (da Althusser a Portoghesi, da Devade ad Habermas) che fin dal titolo, Lo sfiorire del teorico, segnalava con precisione inequivocabile una tesi e indicava, per sottrazione, se non una prospettiva almeno un campo di possibilità per la critica d’arte, chiamata a fare i conti non tanto con l’azzeramento dei valori, con il troppo discusso e persino banalizzato crollo delle ideologie, quanto con una diversa lettura della storia e, quindi, della storia dell’arte, 4 Sul ruolo della rivista americana nel dibattito critico di questi anni si veda M. G. Mancini, October. Una rivista militante, Luciano Editore, Napoli 2014. 5 Cfr. F. Menna, Critica della critica, Feltrinelli, Milano 1980. 6 G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico?, in E. Mucci e P. Tazzi, a cura di, Teorie e pratiche della critica d’arte, cit., pp. 12-14. 7 Infra, p. - 128. 12 sottratta ai vincoli di un continuismo ottuso e riduttivo: «Non è un caso – scriveva Trimarco – che sia saltato, di recente, uno dei confini più sicuri della storia dell’arte, quello tra l’Avanguardia e il Novecento, appunto. D’altra parte l’arte concettuale ha mostrato l’inutilità, la non necessità, di riferirsi all’Avanguardia nell’elaborare la più decisiva proposta di smaterializzazione dell’oggetto artistico»8. Così, La parabola del teorico prende l’avvio da un’esplicita dichiarazione di crisi – lo sfiorire appunto della critica, che poi diverrà, nel corso degli anni e della scrittura di Trimarco, «dimagrimento» e «collasso», in un sinistro processo di riduzione mai però veramente, definitivamente luttuoso – senza per questo rinunciare nel corso del suo svolgimento a individuare percorsi praticabili, pensieri non nostalgici di trasformazione in grado di sottrarre l’arte e la critica dalle nebbie di un paesaggio indeterminato e privo di gerarchie, dove, sotto l’insegna del ritorno del soggettivo, si giungeva inesorabilmente «al pareggiamento del linguaggio interiore e del linguaggio privato e pubblico, del silenzio e del rumore, dell’Infanzia e della Storia»9. Una ricerca, questa di un possibile ambito di azione per il pensiero critico, indebolito, forse, ma non meno necessario, che si declinava in un percorso ovviamente discontinuo eppure coerente nei nessi e nelle prospettive. L’attenzione all’arte concettuale e, in particolare, al contributo di Joseph Kosuth, una delle costanti (e delle anticipazioni sorprendenti) della riflessione critica di Trimarco, è senz’altro indicativa di una disposizione per nulla rinunciataria rispetto all’urgenza della critica, che nello spazio dell’arte può trovare nuove radici e altri strumenti, lontano da ogni misticismo, fosse pure quello implicito nelle tesi più radicali dell’arte concettuale, di cui, ed è dato interessante, già nel 1973, anno a cui risale L’arte dopo la filosofia (e altre considerazioni), seconda stazione della Parabola, Trimarco sospettava i limiti e le interne fratture, evidenziando la lettura cognitiva implicita nella lezione di Kosuth. Prendendo le distanze dalle posizioni di Migliorini, dal canto suo convinto degli esiti ascetici del pensiero di Kosuth, Trimarco suggeriva infatti qui una maggiore cautela nel valutare il portato conoscitivo dell’arte concettuale, addirittura anticipando quello spostamento verso il contesto che Kosuth avrebbe dichiarato soltanto qualche anno più tardi nelle pagine del saggio The artist as anthropologist (1975). Del resto, l’apertura all’antropologia, una delle questioni che avrebbe attraversato il dibattito critico negli ultimi decenni del secolo scorso informando, tra l’altro, le tesi espresse da Hal Foster in The return of Real (1996), una proposta accolta in Italia 8 Infra, p. - 43. 9 Ibidem. 13 con entusiasmo forse un po’attardato grazie alla traduzione del 200610, trovava già spazio e discussione nelle pagine della Parabola del teorico, dove la Convergenza sull’antropologia più che essere il titolo del terzo capitolo della Parabola è, a tutti gli effetti, una precisa indicazione di metodo riconoscibile in differenti luoghi del discorso teorico proposto da Trimarco in questo volume (e non soltanto)11. La necessità, più volte sottolineata, era quella di aprire il campo della critica ad altri saperi e ad altre discipline, contrastando la rigidità di ogni approccio dogmatico o strettamente (solamente) filologico grazie al costante dialogo con le elaborazioni e le acquisizioni teoriche maturate in ambiti differenti – dall’urbanistica alla linguistica, dalla psicoanalisi alla sociologia, dall’estetica alla filosofia politica, e ancora – individuando di volta in volta transiti e connessioni efficaci, puntuali, motivati. Non un gioco di suggestioni, di enciclopediche analogie, ma un foucaultiano lavoro di archeologia e di archivio, orientato a riconoscere procedure utili a restituire all’opera il suo valore di oggetto di conoscenza e di strumento di interpretazione della realtà. La psicoanalisi, in questo senso, rappresenta per Trimarco, che nel 1974 aveva pubblicato L’inconscio dell’opera. Sociologia e psicoanalisi dell’arte12, un modello e un metodo d’elezione giacché la critica freudiana mette in crisi non soltanto ogni idea di ragione unitaria ma problematizza anche «i progetti parziali, legati alla frantumazione dei linguaggi, che pretendono d’innalzare la verità del proprio discorso a verità onnicomprensiva»13. Ad essere centrale è la nozione di sovradeterminazione e, quindi, di sovrainterpretazione, che Trimarco rivendica come risorsa indispensabile per un lavoro critico che si vuole, o, meglio, che è interminabile, mettendo da un canto in luce come l’incertezza e la caducità non significhino insufficienza e mancanza ma negazione dell’assoluto e, dall’altro, riflettendo sulle strategie di normalizzazione (di riduzione e di addomesticamento) di questo infinito potenziale. In questo senso va letta, ad esempio, la critica condotta nelle pagine del capitolo intitolato appunto Sulla critica interminabile al progetto iconologico di Ernst Gombrich, centrato sull’individuazione del significato dominante e quindi finalizzato al conseguimento di un risultato definitivo, conclusivo e perciò indiscutibile. Diversamente, la lezione 10 H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia books, Milano 2006. 11 Per una ricognizione generale sul pensiero critico di Trimarco si veda Lavori in corso. Giovani critici in dialogo con Angelo Trimarco, a cura di S. Zuliani con una premessa di A. Bonito Oliva, Plectica, Salerno 2011, in particolare il saggio di A. Tolve, La ginestra o il fiore della critica d’arte, pp. 71ss. 12 Officina Edizioni, Roma 1974. 13 Infra, p. - 100. 14 freudiana, riattraversata da Trimarco senza trascurare la curvatura operata da Lacan, si offre come pratica critica aperta, un processo interpretativo – inclusione, esclusione – in grado di accogliere la deformazione. La direzione è, in ogni caso, trasversale, mai diretta e, per questo, capace di intercettare significati e relazioni imprevisti, tangenti: anche quando si misura in un serrato, densissimo corpo a corpo teorico con l’estetica di Mukařovský, la cui ricezione in Italia è stata tardiva e lacunosa, Trimarco non può non sottolineare che «il rapporto tra significante e significato, tra opera-cosa e oggetto-estetico è una relazione obliqua, è un rapporto indiretto», insistendo sull’obliquità come condizione e garanzia dello spostamento che l’oggetto artistico compie rispetto al già noto, sfuggendo ad ogni deterministico rapporto con le condizioni storiche e sociali (e non a caso è «tortuoso» il corso della dialettica di Hauser, altro autore che nella Parabola trova ulteriore occasione di analisi e di ripensamento). Insomma, attraverso una molteplicità persino vertiginosa di riferimenti e di temi, di analisi testuali e di velati ma riconoscibili spunti polemici, il discorso sull’arte e sulla critica qui condotto da Trimarco si offre innanzitutto come un argine alle derive (postmoderne?) di una critica senza teoria e sceglie la strada, faticosa, impegnativa, anche irta di ostacoli e di incognite, di un continuo allargamento dei confini disciplinari che non significa però, va chiarito, una rinuncia allo specifico critico ma la messa in questione delle rigidità, dei rassicuranti perimetri metodologici che costringono l’opera ad abdicare alla propria tensione eversiva azzerandone la profondità, il carattere comunque eterologico. In questo senso, l’itinerario – obliquo, tortuoso, interminabile – che viene qui suggerito mantiene inalterata la propria paradossale attualità: per quanto frutto di una condizione epistemologica ancora molto distante dallo scenario globale contemporaneo, dalle inquietudini identitarie e dai conflitti del global art world, oggetto di indagine da parte di Trimarco in alcuni importanti saggi dei primi anni del 200014, La parabola del teorico, proprio perché così fortemente impregnato degli umori degli anni Settanta del secolo scorso, specifico e urgente, conserva intatto il suo carattere di militanza, il suo essere un elogio della critica e dell’arte come esercizio di pensiero, pratica di conoscenza e messa in discussione dello status quo. Al di là, quindi, della distanza che ci separa da alcune esperienze critiche e artistiche oggi forse dimenticate – penso a Karel Teige e alle sue tesi sul mercato dell’arte o, ancora, al gruppo di Peinture e alla sua raffinata proposta teorica – a restare vivo è il rigore di una ricerca che non si sottrae al rischio, che si vuole parziale per scelta e non per approssimazione, un modello che si afferma ancora efficace non 14 Cfr. almeno A. Trimarco, L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001; Post- storia. Il sistema dell’arte, Editori Riuniti, Roma 2004; Galassia. Avanguardia e postmodernità, Editori Riuniti, Roma 2006. 15 solo per l’anticipazione di alcune questioni e per l’attenzione precoce ad alcune figure – Kubler, con la sua «traversata antropologica» non smette di interrogarci – ma per la capacità di affermare senza enfasi la necessità di non abdicare ad un’osservazione consapevole e lucida sul nostro tempo, per sottrarlo all’indeterminatezza di un eterno presente e restituirlo alle tensioni e ai turbamenti, agli sprofondamenti e alle lacerazioni della storia. Senza nostalgie teleologiche, ovviamente, ma con la determinazione di chi non vuole soccombere alle seduzioni del contemporaneo presentism (Bishop), di quello che Bruno Latour definisce il mostruoso «Tempo della simultaneità», terreno di coltura per ogni fondamentalismo15. Nella certezza che obliqua e interminabile, faticosa e irrinunciabile è la traiettoria di un pensiero del dialogo e della conoscenza dell’altro. 15 Cfr. B. Latour, P. Weibed, Making Things Public. Atmospheres of Democracy, MIT Press, Massachusset 2005. 16 18 Introduction An Assessment and a Proposal About an Interminable Book by Stefania Zuliani First, some chronology: it was 1982 when the Rome-based Kappa editions published La parabola del teorico [The Theorist’s parabola*] (with On Art and Criticism as its ambitious subtitle). The book was hosted in the collection Figure, directed by Filiberto Menna, who in that very year had published a journal with the same title: Figure: Teoria e critica d’arte [Figures: Art Theory and Criticism]. In the following decade, this journal would become a privileged space where, within and outside Italy, the protagonists and the themes of the most up-to-date and nonconformist critical debate would meet. Only four years had passed since the crucial Montecatini conference (1978) – indeed the general assembly of art criticism1. This packed and lively meeting saw the encounter of several and often vehemently contrasting opinions and methods that, according to the categories of modern art criticism, were at that time still seemingly solid and sharp. In fact, this conference signaled the entrance in the post-modern season, a land of blurred boundaries and multiple discourses that could not be subsumed under one single definition or taken to one single direction. Diversity was so typical a trait of it that in Europe and in the US it was interpreted in ways that were almost contradictory and sometimes simplified according to schematic but quite effective oppositions: «poststructuralist postmodernism» vs. «neocon * The Italian word «parabola» refers to both the English words «parable» (a story, a fable) and «parabola» (the geometric figure, especially in its descending part). [Note of the Translator]. 1 Teoria e pratiche della critica d’arte [Theory and Practices of Art Criticism] is the title of the conference, organized in May 1978 by Egidio Mucci and Pier Luigi Tazzi. They also edited the proceedings published in the following year by Mondadori. Among the various contributions, I would like to point out those by Amman, Barilli, Bonito Oliva, Buchloh, Dorfles, Calvesi, Eco, Lyotard, Maltese, Menna, Millet, Pleynet, Restany, and Trimarco. See Trimarco, Angelo, Italia 1960-2000: Teoria e critica d’arte, Naples: Paparo edizioni, 2012. Pp. 113ff. 19 postmodernism»2, or «postmodernism of resistance» vs. «postmodernism of accommodation»3, to quote the theoretical terminology of the American journal October4. Thus, the 1978 Montecatini conference represented a point of no return: not only because some of the opinions expressed in that occasion were irreconcilable – here one may just think to Lyotard’s «critical laxity», a very distant position from the rigorous «criticism of criticism» pertinaciously held by Menna5 as well as from Gillo Dorfles’ reflections on the possibility of an axiological critical judgment6 – but rather because of the unwittingly conclusive quality of a discussion that, as a matter of fact, declared the impossibility of finding a single and definitive discourse on the method of art criticism. On these premises, the field was opened to hazard and to an uncertain navigation whose routes had to be mapped out and experimented each time. Still, this had to be done without improvising and by applying knowingly theoretical tools that could certainly be flexible but should not be improvisatory or whimsical. Moving from the awareness that on the one hand the critical gesture must reject any «totalitarianism of methodologies»7 but on the other should not embrace a merely subjective sensibility nor yield to the temptation to limit itself to juxtapose critical writing next to the work of art, an activity seen as production of «texts of bliss» (Barthes), in the solid architecture of his La parabola del teorico, Angelo Trimarco has gathered the results and the perspectives of a critical work used to the labor entailed in the theoretical speculation and to the exercise of the analytical reasoning that, cast away once and for all the «phantom of metaphysics», was able put again into question the subject and the complexity of its relations. Trimarco does so outside the rigid schemes of historicism but at the 2 See H. Foster, et al., Art Since 1900: Modernism, Antimodernism, Postmodernism, Thames and Hudson, London 2004. 3 D. Crimp, On the Museum’s Ruins, Cambridge, Mass.-London: MIT Press, 2000 [1993]. 4. 4 On the role that this American journal has played in the contemporary critical debate, see M. G. Mancini, October: Una rivista militante, Luciano Editore, Napoli 2014. 5 Cf. F. Menna, Critica della critica, Feltrinelli, Milano 1980. 6 G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico?, in E. Mucci, P. L. Tazzi, eds. Teorie e pratiche, cit. 7 Infra, p. - 128. 20 same time does not abandon dialectic sensibility, an implicit «counterdiscourse» that is always present in his thought. It is quite telling that the essay opening the tripartite structure of the book – Gli anni Settanta; Intermezzo; Terminabile, interminabile – is the most recent among those collected there. It is a most carefully reasoned 1981 contribution, rich with endnotes and heterogeneous references (from Althusser to Portoghesi, from Devade to Habermas), that from its very title, Lo sfiorire del teorico [The Withering of Theory], unambiguously supports a thesis, and envisages a certain domain of possibilities for art criticism. In this essay, art criticism is invited to reckon not as much with the dissolution of values or with the over-discussed and even trivialized collapse of ideologies, but rather with a different reading of history – and therefore of art history – delivered from a dull and reductive sense of continuity: «Not by chance – wrote Trimarco – one of the most fixed boundary of art history, that between Avant-Garde and Novecento, has just been recently broken. On the other hand, conceptual art has shown the uselessness, the non-necessity of using Avant-Garde as point of reference for advancing the ultimate proposal of de-materialisation of the artistic object»8. Thus, La parabola del teorico begins by explicitly announcing a crisis – indeed a withering of theory that over the years and in Trimarco’s writings will become a «slimming down» and a «collapse», all encompassed in a rather sinister process of reduction that still never reaches its gloomy end – but nevertheless attempts at detecting viable critical paths and at formulating thoughts that are not nostalgic and are able to dispel the fog which has rendered the landscape of art and criticism a land with no directions or hierarchies; a place where, under the label of ‘going back to subjectivity’ one inevitably landed where «interior and private and public language, silence and noise, Childhood and History hold an even course»9. This quest of a new field of application for critical thought, perhaps weakened but still necessary, moved along a discontinuous path whose connections and directions were nevertheless coherent. The attention placed on conceptual art and, more particularly, on Joseph Kosuth’s contribution – one of the recurring references in Trimarco’s writings as well 8 Infra, p. - 43. 9 Ibidem. 21 as one of his surprising theoretical forerunners – shows that Trimarco’s attitude toward the urgency of criticism is all but defeatist: in the realm of art, criticism can find new roots and new tools, far from any form of mysticism, even that mysticism contained in the most radical tenets about conceptual art, whose limits and internal gaps Trimarco already detected in his 1973 «L’arte dopo la filosofia (altre considerazioni)» [Art after Philosophy (other reflections)], the second section of the Parabola del critico, when he emphasised the cognitive aspects reflected in Kosuth’s interpretation. Distancing himself from Migliorini, who was persuaded of the ascetic quality of Kosuth’s thought, Trimarco asked for more caution I considering the cognitive value of conceptual art. In so doing, he was anticipating that shifting toward context that Kosuth would have espoused only some years later in his essay The Artist as Anthropologist (1975). The idea of opening the field to anthropology – a critical issue debated in the last decades of the twentieth century and which shaped the theses Hal Foster expressed in his The Return of the Real (1996), which in Italy were received with enthusiasm only after its late translation in 200610 – was discussed in the Parabola del critico, where the expression «Convergenza sull’antropologia [Converging upon Anthropology]», besides being just the title of its third section, undoubtedly offered a precise methodological indication, which could be detected in different parts of the theoretical discourse Trimarco offered in his book (and elsewhere)11. The point was, as it was often emphasized, that of opening the field of art criticism to other areas of study and to other disciplines. Thanks to a continuous dialog with the processes and the theoretical acquisitions made in other fields – from urban studies to linguistics, from psychoanalysis to sociology, from aesthetics to political philosophy, and many others – and by detecting each time effective, precise, and well-supported intersections, it was possible to contrast the rigidity of any dogmatic or exclusively philological approach. To be sure, this had not to end up into a game of suggestions or encyclopedic analogies, but 10 H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia books, Milano 2006 [orig. publ.: MIT Press, Cambridge, Mass 1996]. 11 For a general overview of Trimarco’s critical thought see S. Zuliani, ed. Lavori in corso. Giovani critici in dialogo con Angelo Trimarco, With a foreword by A. Bonito Oliva, Plectica, Salerno 2011, and especially the essay by A. Tolve, entitled La ginestra o il fiore della critica d’arte, 71-80. 22 rather to produce an archaeological and archival work à la Foucault that is oriented to determining and mapping those procedures can give back to the work of art its value as object of knowledge and instrument for the interpretation of reality. In this perspective, for Trimarco, who in 1974 published L’inconscio dell’opera. Sociologia e piscoanalisi dell’arte [The Artwork’s Unconscious: Sociology and Psychoanalysis of Art]12, psychoanalysis represents a model and a privileged method of investigation, as Freudian criticism not only throws into crisis the notion of unitary reason but also calls into question “those biased endeavors that, founded on the dissolution of languages, claim to put the ‘truth’ of their own discourse on the pedestal of an all-embracing truth”13. Central to his thesis is the Freudian notion of overdetermination, and therefore of overinterpretation, which Trimarco affirms to be an essential resource for a critical work that we may want to be, or that actually is, interminable. In so doing, on the one hand he highlights how uncertainty and transience do not amount to deficiency or lack, but rather to a negation of the absolute, while on the other he reflects on the strategies of normalization (that is of reduction and regulation) of that infinite potential. In this vein one should read the chapter entitled «Sulla critica interminabile [On Interminable Criticism]» where Trimarco moves some criticism to Ernst H. Gombrich’s iconological project, centered, as it is, on the identification of the prevailing meaning of artworks and therefore aimed at achieving results that are final, ultimate, and unquestionable. Quite differently, Freud’s teachings, which Trimarco reads also in the light of some Lacanian insights, offer themselves as a form of open critical practice, an interpretative process – inclusion, exclusion – that is capable of receiving deformation. Such interpretive operation is always indirect, never frontal, and for this very reason capable of grasping meanings and relations that are tangent and unexpected, also when it engages a close and intense theoretical dialog with Mukařovský’s aesthetics, whose reception in Italy has been tardive and fragmentary. Trimarco cannot help underlying that «the relationship between signifier and signified, between 12 Officina Edizioni, Roma 1974. 13 Infra, p. - 100. 23 artwork-thing and aesthetic object is oblique and indirect», stresses upon obliquity as the condition and guarantee of the deviation from acquired knowledge performed by the artwork, and distances himself from any deterministic relation between it and the social and historical conditions of its creations – not by chance he finds «tortuous» the path along which moves Hauser’s dialectic, another author that in the Parabola del teorico is reexamined and reassessed. In sum, through a staggering amount of references and themes, textual analyses and veiled but recognizable polemical prompts, the discussion on art and criticism that Trimarco brings up appears first of all to be a remedy against the (postmodern?) drifting away of a criticism without a theory and chooses to beat a wearing and challenging path, dotted with obstacles and wild cards, consisting in the progressive widening of the disciplinary boundaries. It must be made clear, however, that such an option does not entail to give up to the task of the art critic, but rather to put into question the rigidity and the reassuring methodological fences forcing the artwork to relinquish its subversive potential and to annihilate its independent nature. In this sense, the critical itinerary envisaged here – transversal, tortuous, interminable – maintains unaltered its paradoxical topicality. La parabola del teorico is the product of epistemological conditions largely different from the contemporary global scenario, from those issues of identities and from those conflicts of the global art world to which Trimarco devoted some important essays at the beginning of this century14. But the very fact of being heavily imbued with the spirit of the 1970s, an age pressed by urgent and specific matters, maintains the book militant quality, its praise of criticism and art as reflective practices, forms of knowledge, and ways of bringing into question the status quo. Therefore, setting aside the distance that separates us from those critical and artistic endeavors that nowadays have probably been forgotten – I am thinking of Karel Teige and his theses on the art market, or to the group revolving around the journal Peinture and its sophisticated theoretical tenets – what is alive in Trimarco’s book is the idea of a research that does not shy away from risk and whose judgments may be one-sided not because of lack of critical attention but as they aim at being so. 14 See at least, A. Trimarco, L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001; Id. Post-storia. Il sistema dell’arte, Editori Riuniti, Roma 2006. 24 This research has proven effective not only as it has anticipated future discussions on some key issues and recalled the attention, before others did, on some important figures of critics – Kubler and his «anthropological crossing» has never ceased to question us – but also because it has been able to affirm advisedly the necessity of maintaining our eyes fixed on our time, in order to deliver it from the indefiniteness of an eternal present and to bring it back to the tensions and upheavals and to the failures and lacerations of history. Of course, there will not be any teleological nostalgia, but determination will be needed for those who do not wish to yield to the seductions of contemporary presentism (Bishop), of what Bruno Latour has defined the monstrous «Time of Simultaneity», the breeding ground of any fundamentalism15: this in the awareness that the path of a thought that is dialogical and open to the knowledge of the Other is transversal and interminable, laborious and indispensable. 15 Cf. B. Latour, P. Weibel, eds. Making Things Public: Atmospheres of Democracy, MIT Press, London 2005. 25 26 LA PARABOLA DEL TEORICO SULL’ARTE E LA CRITICA Gli anni settanta Lo sfiorire del teorico 1. La figurazione, il Witz, il colore, i generi, la professione, le tecniche, la decorazione, il debole, l’effimero, il caduco, l’incerto, il provvisorio, il frammento, il brano, il soffice, l’instabile, il discontinuo, la catastrofe, l’indifferenza, la seduzione. Ognuno di questi sostantivi è anche una figura che evoca nomi e persone, gesti e comportamenti di una situazione comune, della condizione postmoderna: una nozione inventata dai sociologi e portata allo splendore da Lyotard. Usata, perfino senza ritegno, dall’architettura, sfiorata dalle arti figurative che, per conto loro, preferiscono altri emblemi. Sembra esistere un filo che scorre tra le esperienze dell’arte più recente: un’esperienza, per la verità assai diversificata e in movimento, che ha lo sguardo puntato sulla storia e il passato, sulla memoria e il remoto, sul ricordo e l’inattuale. Dunque, l’arte torna liberamente a tessere le proprie arguzie e a lavorare sulla propria dinastia senza rimozioni né censure. Il territorio dell’arte, dell’architettura come della pittura, diventa così l’infinito campo delle pronunzie che l’hanno animato. L’intero campionario dell’arte, delle arti maggiori come della storia delle cose, diviene un segmento interminabile, una riserva, una latitudine, un orizzonte ritrovato e da attraversare. Perciò, indifferentemente, si confondono l’Avanguardia, il Movimento Moderno, il Novecento mentre si affacciano scritture lontane come il mosaico o la ceramica. Le nuove generazioni ci avvertono, allora, che è intervenuto un taglio nel sentiero dell’arte, che si è interrotto e come disperso il passo abituale. Quella continuità che ha dominato gli anni Settanta, trafitti dalla progressiva smaterializzazione dell’opera, dalla riflessione sulla nozione di arte, dal rapporto fra produzione intellettuale e produzione materiale, dal posto del soggetto a dalla funzione del teorico. Il fascino perverso della favola, i fragili percorsi dell’anima, l’indifferenza per i linguaggi, l’amore che è anche tentazione per l’ornamento, l’uso frenetico delle mani, il pianeta dell’infanzia (privata e collettiva), il disseminarsi del soggettivo, impongono, certamente, intervalli e misure, cadenze e ritmi specifici al corpo della pittura recente. In misura differente e con diversa calibratura, evidentemente. 31 2. L’arte degli anni Settanta è solcata dalla vertigine del teorico, dalla teoria come progetto unitario. È l’incontro con i grandi sistemi: sfilano, così, lungo i sentieri dell’arte immagini ormai amiche, la Semiotica, il Marxsismo secondo Althusser (e con un amore per il Maotsetungpensiero), Freud avec Lacan, la Sociologia, l’Antropologia e, talvolta, il desiderio demartiniano per le terre del rimorso. Basta ricordare Kosuth e quella sua idea dell’arte dopo la filosofia: vale a dire la fine della filosofia come metafisica e come finzione a favore dell’arte che esibisce il rigore delle proposizioni analitiche e della pratica semiotica. O quell’accanimento sull’investigazione dell’arte e non di un suo genere, pittura, scultura che sia. Tuttavia poteva capitare (ed è capitato, come vedremo) che Kosuth si impigliasse nel Mistico. Ma questa circostanza gli è servita più tardi per mutare sistema, per spostarsi dalle teorie analitiche del linguaggio dell’antropologia, dal Wittgenstein del Tractatus appunto al dialetto delle culture marginali e dei saperi periferici. Questo spostamento è avvenuto compiutamente dopo The Tenth Investigation, del 1975, proprio per l’intrecciarsi di due temi: la riduzione dell’arte concettuale a stile e forma, a una variante dell’arte di avanguardia, del modernismo. E insieme la necessità di cogliere nessi più precisi tra arte, antropologia, storia1. Eludendo, però, il candore dell’arte di protesta che è estetizzazione dell’azione politica (con un ricordo benjaminiano non esplicitato). La critica di Kosuth è rivolta al Modernismo, identificato con lo scientismo e la logica della neutralità, con l’obiettività e le mitologie che le sono connesse con la contemplazione e l’attitudine a stare fuori, con la vocazione al disimpegno. Ma cosa significa per l’artista stare dentro, essere impegnato, come intendere che l’arte è prassi? Kosuth, con grande consapevolezza, non soltanto critica il mito scientista del modello fisicalista ma anche certe zone (in vero molto ampie) della stessa ricerca antropologica. «Poiché l’antropologo è al di fuori della cultura che studia non è parte della comunità. Ciò significa che qualunque effetto 1 È un «public statement», pronunziato da Kosuth nel gennaio del 1975 in occasione della mostra alla galleria Castelli di New York, ora riportato (alla nota 2 della parte III) in The artist as anthropologist, «The Fox», 1, 1975, p.30. 32 egli abbia sulla popolazione che sta studiando è simile all’effetto di un atto di natura. Egli no è parte della matrice sociale». La distanza da questo modello antropologico avviene attraverso la riflessione di Stanley Diamond e Bob Scholte (infatti «l’antropologia marxista di Diamond e Scholte non è inclusa in questa generalizzazione…In verità, il loro ruolo di antropologi richiede che siano impegnati»). La critica di Diamond e di Scholte allo scientismo è, naturalmente, rifiuto «dell’inevitabile progresso nel nome della scienza» divenuta «ideologia consacrata», negazione che lo scienziato possa «permettersi di restare in gran parte indifferente al proprio ambiente esistenziale, sociale, storico e filosofico», insistenza sul fatto che lo scientismo «rimane largamente indifferente alla storicità della prassi scientifica», dal momento che il «suo scopo trascendentale è quello di stabilire e verificare leggi formali e verità eterne». Per questo Diamond, radicalmente, dice che «l’antropologo deve essere uno storico». Da questo punto di vista non fa meraviglia il paradosso di Kosuth: «L’artista è un modello dell’antropologo impegnato». Non fa meraviglia questo stretto legame che attraversa l’Are e l’Antropologia, l’Artista e l’Antropologo. Ecco, dunque, il senso della proposta, The artist as anthropologist. In senso che, privilegiando l’arte come prassi e come analisi all’interno della cultura, la promuove a modello della stessa antropologia (almeno di quella impegnata). Così, ancora una volta, Kosuth, con raffinata destrezza, ripropone l’arte come modello. Solo che questa volta, alla metà degli anni Settanta, l’arte viene dopo lo scientismo e la stessa antropologia accademica (come anche la chiama). Mentre l’arte dopo la filosofia era, si è ricordato, alla fine degli anni Settanta, l’elogio del rigore e della tautologia, l’esplicitazione di protocolli e di procedure verificabili. Era un voltare pagina con la filosofia e l’idealismo, con l’estetico. La critica al modernismo e allo scientismo colpisce con pari rigore l’iperrealismo, il Photo-realism, e lo statuto della storia e della critica dell’arte. Il Photo-realism, infatti, interiorizzando totalmente l’ironia pop, diventa la glorificazione dell’obiettività fotografica e della oggettività meccanica, la «perfetta visione burocratica dell’obiettività». Così, «l’obiettività meccanizzata, dipinta a mano, del Photo-realism, finisce in una frode senza problemi, naturalmente, quando ci si rende conto che gli imbrogli selezionati di una realtà intravista sono glorificati». 33 Il discorso sulla storia e la critica meritano, senza dubbio, un’attenta riconsiderazione. Perché questo rinnovato e persistente rifiuto? Lo storico e il critico si comportano come l’antropologo accademico, lavorano concetti e nozioni con la stessa impassibilità e oggettività dello scienziato, sono disimpegnati («dis-engaged»). Siamo alla questione. «Il motivo per cui tradizionalmente non si è considerato artista lo storico dell’arte e il critico è che a causa del Modernismo (Scientismo) il critico e lo storico dell’arte si sono sempre mantenuti in una posizione esterna alla prassi… ma facendo ciò resero la cultura natura. Questa è una delle ragioni per cui gli artisti si sono sentiti lontani (alienated) dagli storici dell’arte e dai critici». Ancora una denegazione dalla funzione della storia e della critica, dunque. Le ragioni adesso sono un po’diverse dai tempi di Art after philosophy, come si dirà più avanti distesamente. A quel tempo il rifiuto investiva l’ovvietà mediativa della critica, il suo essere considerata essenzialmente strumento e tramite tra l’artista e il pubblico, fra la produzione e il consumo. Adesso perché la storia e la critica dell’arte lavorano all’interno di un paradigma scientista non meno burocratico e ufficiale del Postrealism. Allora come oggi, comunque, perché la storia e la critica non sono arte. Con molta lucidità (e lungimiranza) Kosuth, alla metà degli anni Settanta, teorizza la fine del Modernism, solcato dalla perversione dello scientismo e l’apertura al Post-Modern, come para-Marxist situation: come condizione che rende possibile questa nuova figura. The artist as anthropologist, e, insieme, differenti procedure culturali2. Un percorso che, pur diversamente scandito, è tuttavia prossimo all’esperienza di Art-Language che, negli stessi anni, prende a frequentare il materialismo dialettico3. Il cammino di Kosuth e di Art-Language è, dunque, singolarmente opposto alla storia di Support/Surface, il gruppo di Cane e Devade che, a partire dagli anni Settanta sperimenta la possibilità di pensare il corpo 2 J. Kosuth, The artist as anthropologist, cit., pp. 26, 30n., 5, 19, 26, 24, 25, 26, 29. Sulla posizione di Diamond e Scholte si v. almeno il volume Antropologia radicale, a cura di Dell Hymes, trad. it., pref., di M. Callari Galli, Milano 1979. Sulla questione arte uguale critica, si cfr. F. Menna, Critica della critica, Milano 1980 (in particolare il cap. Contro l’interpretazione). 3 Il testo è Dialectical materialism, in «Extra», 2, 1974. 34 della pittura con Marx e Freud. Si dice con chiarezza, già dal primo numero, di Peinture, cahiers théoriques, che un artista consapevole non può lavorare al di fuori delle filosofie che riflettono la lotta di classe: lotta di classe che la pratica pittorica, a sua volta, media all’infinito attraverso il suo codice e la complessità dei suoi strumenti disciplinari. La pittura, così da esercizio e riflessione sulla propria specificità si fa ora attenta alle relazioni con le altre pratiche significative, si chiede in che misura può trasformare sé da objet réel in objet de connaissance. In definitiva in che modo la peinture può diventare un campo di lavoro dialettico che prova sopra di sé le contraddizioni del reale determinato. Dunque, la pittura è, althusserianamente, «pratica significante relativamente autonoma» che s’inscrive nel «processo di conoscenza dialettica»: una pratica surdeterminata dall’historie matérielle (in evidente polemica con le concezioni meccanicistiche e riflessiologiche del marxismo). Un campo dialettico perpetuamente in lotta, violato dalle contraddizioni, mai conciliabile: un’ipotesi che coniuga Lenin a Mao e prende distanza dal referto di Althusser che giudica astratto e descrittivo il celebre saggio Sulla contraddizione4. In vero, l’apertura al pensiero di Mao, alla questione orientale, diventa, com’era prevedibile dopo il Maggio, printemps rouge, certamente sguardo sulla rivoluzione culturale, ma, anche più specificatamente, riflessione sulle teorie della pittura dell’antica Cina. Marc Devade non mostra dubbi quando presenta la traduzione di un testo di Shi Tao, un luogo di confronto utile a produrre le «basi teoriche della modernité», a rompere perciò con la tradizione del modernisme. Infatti, «le matérialisme antique chinois tel qu’il se transcrit dans les peintures anciennes pouvait servir à produire une ropture-décalage destinée à analyser-subvertir l’evolution et la tradition du modernisme». Una mentalità giudaico-cristiana, idealistica, 4 L. Althusser, Per Marx, trad. it., introd. di C. Luporini, Roma 1969, p. 76, n. 1. La risposta di Sollers è in Sul materialismo, trad. it., pref. di P. A. Rovatti, Milano 1973, p. 63. Lo scritto di Sollers è stato largamente utilizzato e discusso da Pleynet e Devade. Si v. di Pleynet almeno l’introduzione, Contraddizione principale, contraddizione specifica, limitazione della lettura a L’insegnamento della pittura, trad. it., Milano 1974 e di Louis Cane, A propos de «Sur le matérialisme» de Philippe Sollers, in «Peinture, cahiers théoriques», 8-9, 1974. È abbastanza interessante per questi e altri problemi che discuteremo seguire anche il dibattito avviato da Cane e Devade su L’insegnamento della pittura. Cfr. L. Cane, Purquoi lire et travailler le livre de Marcelin Pleynet: «L’enseignement de la peinture», in «Peinture», 2-3, 1972 e M. Devade, La peinture et son double, in «Peinture», 4-5, 1972. 35 rassicurante5. La distanza da Althusser tocca ancora un altro nodo, la questione del soggetto. È a questo punto che scatta il dispositivo Freud/Lacan: un dispositivo che, come si sa, è attivo anche in Althusser quando parla della surdeterminazione («Storicamente e teoricamente è rivelatore il fatto che Althusser, per dare conto di una difficoltà obiettiva del funzionamento della dialettica materialistica, abbia dovuto “passare” attraverso il riferimento freudiano: prova che essa non può essere scritta nel linguaggio di una vecchia coscienza di se, di un antico dominio del discorso in cui, continuamente, la dialettica idealistica si reintroduce», avverte Sollers, nume tutelare di Peinture), quando all’interno di Lire le Capital sottolinea «la profondità di un secondo, del tutto diverso discorso, il discorso dell’inconscio»6. Il soggetto di Supports/Surfaces non è, però, un soggetto pieno, unificante, è semplicemente le sujet de la peinture, il soggetto produttore della pittura. Così, all’inizio degli anni Settanta, Supports/Surfaces pongono la questione della pittura come pratica significante, come critica della svista empiristica (la distinzione fra tableau e peinture) e idealistica, come rottura, coupure, décalage, abbandono definitivo del modernismo. La modernità, il moderno, si apre, invece, per il gruppo di Peinture come discorso serrato contro le esperienze recenti dell’arte e la storia tenace che le sorregge, in sostanza, contro un esercizio che non tiene conto delle trasformazioni con le quali Marx, Nietzsche, Freud hanno segnato il corpo del mondo. Il bersaglio immediato è, naturalmente, la régression arcaïque dell’iperrealismo, la reductio pseudo-théoriciste dell’arte concettuale, letti come momenti della «fase declinante dell’imperialismo americano» e degli alleati europei7. Esperienze lontane, oltre che da Marx, Nietzsche, Freud, necessariamente anche dalla «radicale trasformazione» introdotta da Cézanne nel sistema specifico della storia della pittura e da Lautrémont 5 M. Devade, Note sure «La Chine» et la modernité, in «Peinture», 8-9, 1974, p.119. Del resto Peinture ha mostrato, a più riprese, testi filosofici artistici e politici cinesi; v. Textes philosphques de la Republique populaire de Chine, in «Peinture», 4-5, 1972 e Textes philosphques de la Republique populaire de Chine (2), in «Peinture», 6-7, 1973. 6 L. Althusser e E. Balibar, Leggere il Capitale, trad. it.. Milano 1971, p. 16. 7 M. Devade, La Peinture vue d’en bas, in «Peinture», 8-9, 1974, p. 19. 36 in quello della letteratura8. Alla svista empiristica e idealistica, Cane e Devade (insieme a Sollers e Playnet), l’intera formazione di Supports/Surfaces alleata di Tel Quel, oppongono una pratica e una teoria materialistica e dialettica del funzionamento della peinture e dei suoi meccanismi di produzione. E, con grande lucidità, riaprono il tema delicato dei rapporti con il pubblico, il mercato, i luoghi di esposizione, i modi di comunicazione. Ci sono almeno due testimonianze che vale la pena di raccogliere, sono del ’73. La prima, di Devade, riguarda la fondazione di Art Press, la seconda, di Cane, riguarda Contemporanea e altre mostre fatte in Itala. La fondazione di una nuova rivista, pur con tutte le contraddizioni che reca (ma il sistema della pittura lavora appunto l’infinito delle contraddizioni), è per Devade, fondamentalmente una tattica per forzare «un champ hégémonique qui censurait toute analyse matérialist e historique psycanalitique de l’art», un «compromis dialectique donc avec un appareil de production sur la base d’un travail pictural nouveau destiné à faire passer pratiquement la théorie la plus avancée». Non meno esplicito Louis Cane. Certo, le grandi mostre, il mercato, le gallerie intrappolano, smorzano le tensioni, rendono ogni cosa omogenea all’altra: sono, appunto, luoghi di contraddizioni. Contraddizioni secondarie, secondo il dettato di Mao, rispetto a quella principale: al taglio idealismo/materialismo borghesia/proletariato. Tuttavia «la scelta di questo terreno è determinata dal concentramento di gallerie, musei, organi di stampa specializzata, ecc., che ne cinge e ne delimita la geografia. Ciò significa che noi dobbiamo muoverci e lottare attraverso queste stesse “istituzioni”. È in questo senso che va considerato superato ed inefficace qualsiasi tentativo corporativista di creare dei “circuiti paralleli” che agiscano contro il mercato dell’arte, come anche sono superati i problemi piccolo-borghesi connessi al mito della non-recuperabilità commerciale dell’oggetto fisico, il quadro, la pittura stessa intesa come pezzo di tela, legno, colore, plastica, ecc.»9. Alla metà degli anni Settanta, da provenienze diverse. Kosuth e ArtLanguage, Supports/Surfaces danno scacco al Modernism e si affacciano 8 Sulla «rottura» operata da Cézanne e da Lautréamont si v. Playnet, L’insegnamento della pittura, cit., e Lautréamont, trad. it., Napoli 1971. 9 M. Devade, Note sur la situation idiologique et politique en peinture, in «Peinture», 8-9, 1974, p. 192, e L. Cane, Qualche contraddizione nel campo della pittura, ciclostilato, 1973, p. 1. 37 sulla realtà inquieta e difficile del Post-Modern o della Modernità. Una latitudine, il Post-Modern o la Modernità, che s’inscrive nell’ordine del discorso marxiano, scandito, di volta in volta (come si è ricordato), nei ragionamenti dell’antropologia di Diamond e Scholte o, più radicalmente nell’intreccio di Lenin e Mao, Althusser e Lacan. A questa data, in conclusione, s’incontrano il «controdiscorso» di Cane e Devade, di Sollers e Pleynet con la «linea analitica» di Kosuth e Art-Language10. Ma l’incontro dura un momento, giusto il tempo che occorre per tornare a separarsi, per prendere, ognuno, la propria strada. Una via che conduce, nuovamente, dall’altra parte. A prendere l’altra via questa volta è proprio Peinture: il cammino condurrà presto al di là dei grandi sistemi, oltre il marxismo e la psicoanalisi, lontano dalla semiotica e dall’utopia della trasformazione sociale. I primi avvisi sono già del ’74: li offre ancora Sollers, Psicoanalisi e semiotica: alcune tesi. E le tesi sono brucianti. «L’avvenire della psicoanalisi è quello di venire a porsi, sempre più “al posto” della religione. Di essere la verità… di questa illusione»11. La critica al potere della psicoanalisi, alla sua sacralità, al suo governo assoluto rinvia ai veleni di Deleuze e Guattari, alla tomba di Edipo. Ma, quel che più conta, è che la psicoanalisi diventa, come più tardi il marxismo, un modello globale, asfissiante, di controllo, uno sguardo totalizzante, un’ideologia carceraria. Il cammino di Peinture, ancora una volta, è strettamente collegato al destino di Tel Quel, ai suoi sommovimenti, alle scomuniche alle dipartite furenti, alle svolte radicali. La più clamorosa, nel ’77, è l’assunzione del modello americano dopo lo sfiorire del vento dell’est, dopo che la Cina è sempre più perduta. E, insieme, l’abbandono di Marx, Lenin, Mao, Althusser per amore dei nuovi filosofi, di Lévy, di Benoist. La rotta suggerisce, ora, che la ragione è totalitaria, che lo Stato è sempre repressione, che «non esiste reale differenza tra il pensiero tecnocratico, quello del “desiderio” e il socialismo», che il «socialismo non è l’alternativa del capitalismo bensì la sua forma meno riuscita, ossia semplicemente concentrazionaria», che la «barbarie dal volto umano 10 Si v. F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Torino 1975, pp. 96-113. 11 Ph. SOLLERS, Psicoanalisi e semiotica: alcune tesi, in Psicoanalisi e semiotica, a cura di A. Verdiglione, Milano 1975, p. 136. 38 è innanzitutto una ripresa e un approfondimento dell’analisi del fatto totalitario come fatto moderno», che il «razionalismo e la sua punta sistematizzata, il marxismo, fungono da religione del nostro tempo», che il Gulag è l’emblema della nostra condizione razionale, che Solženicyn è il dante del nostro tempo (secondo l’immagine di Lévy) o Arnaud12. Questo mutamento scuote Tel Quel e, in misura meno clamorosa ma non meno profonda, tocca Peinture, la segna e la indirizza diversamente. Del resto, anche al di là del clamore dei nuovi filosofi, si vive in Francia, come del resto da noi la crisi del marxismo: crisi di modelli, rifiuto del socialismo reale, difficoltà ad articolare un pensiero trasparente, contrasti sempre più duri fra intellettuali e partito, fra vertice e base. Il caso di Althusser è davanti agli occhi, tra eresia e scomunica. Il suo pamphlet, Quel che deve cambiare nel partito comunista, è un viatico: si legge appunto del «partito modellato sull’apparato di Stato e sull’apparato militare», si fa sapere che «tutto si decide al vertice», si invita a «uscire dalla fortezza», a stabilire rapporti meno filistei con le masse13. Certo, dal millenovecentosettantasette, la Modernità non può essere più identificata da Cane e Devade, da Pleynet con la stella del marxismo. La peinture non è più una pratica significante ricollegata, secondo i propri modi di riproduzione, alle altre forme del sociale. L’autocritica di Marceline Pleynet, del resto, diventa un transito obbligato. Rileggendo adesso, L’enseignement de la peinture, Pleynet ne critica la trama che lo sorregge: la suggestione, appunto, che l’arte possa essere partecipe «dell’organizzazione complessiva della struttura sociale, politica, ideologica ed economica»14. E Devade, dal canto suo, sottolinea che l’intervenire sulla pittura ora «vuol dire rivendicare quel che costituisce la specificità del pittore, ossia il fatto che egli lavora nel mutismo, più vicino alla materia non detta e che non dice niente salvo metterla in conto alle parole». La questione, perciò, è proprio questo legame tra mutismo e parola, verbalizzazione e silenzio («Anziché prendere la parola, il pittore fa silenzio e dal fondo della sua sofferenza lancia i gesti del 12 Ph. Sollers, La rivoluzione impossibile, in I nuovi filosofi, introd. Di W. Pedullà, nota di M. d’Eramo, Cosenza 1978, pp. 144, 145, 146, 147, 148. 13 L. Althusser, Quel che deve cambiare nel partito comunista, trad. it., Milano 1978. 14 M. Pleynet, La scena dell’arte, in L’arte e la psicoanalisi, a cura di A. Verdiglione, Milano 1979, p. 195. 39 colore»). Ora il discorso investe l’unicità della pittura e il commento che tenta di doppiarne il silenzio: l’accusa è rivolta, irrimediabilmente, alla parola e alla tradizione logocentrica della nostra cultura. Una civiltà che privilegia la parola ma anche lo sguardo, gli occhi non meno del verbo: «L’occhio calcola i resti, cifre, decifra. Attraverso l’occhio il discorso congiungerà il gesto alla parola per frane il suo rapporto, per rimetterne nel senso comune dello sguardo, della comunicazione quel che sfugge e che nessuna parola soddisfa». Invece, conclude Devade, «il gesto unico della pittura non può essere decifrato: l’uno non è un numero»15. Il mutamento è evidente: il pourmarxsismo e Mao lasciano il posto a Foucault, a Derrida, a Sollers ormai nuovo filosofo. Con la conseguenza che la pittura è sempre più vicina all’assenza e al silenzio, al mutismo, e la critica, il commento, sono nuovamente esiliati nel dominio del Logos. Sollers, rileggendo Lévy, non ha esitazioni: «L’intellettuale…da ora in poi potrà essere solo “metafisico, artista, moralista”. Non stavamo forse per giudicare colpevole una simile affermazione? Di vergognarcene? E ora eccola: è il dissenso del nostro tempo ed è antico e nuovo come ogni resistenza al Principe che pretende, grazie alla nostra rinuncia, di regnare eternamente in questo mondo. Sottolineo il termine “artista” senza il quale, a mio avviso, i due altri non significano più nulla»16. Ma artista, lo sappiamo da tempo, significa dispendio, rottura del senso Spaltung, traccia, vertigine, dissenso. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’arte e la pittura continuano a essere investita da uno spessore teorico forte, da responsabilità marcate, da un surplus di decisioni che, come vedremo, le generazioni più recenti abbandoneranno. L’arte degli anni Settanta gioca, comunque, un ruolo critico di primo piano. E non solamente l’arte concettuale o peinture. Si pensi, per un momento, all’art sociologique di Fischer, Forest, Thénot: al loro progetto di una pratica utopica negativa e socio-analitica. All’idea dell’arte come pedagogia negativa, alla strategia d’attacco ai media (tanto da meritare perfino un elogio di McLuhan), all’animazione come modello d’incontro. La domanda è la stessa, anche se i riferimenti sono 15 M. Devade, La pittura… più da vicino, in L’arte e la psicoanalisi, cit., pp. 188, 193. 16 Ph. Sollers, La rivoluzione impossibile, cit., p. 149. 40 diversi: «Comment penser le matérialisme aujourd’hui?»17. 3. C’è Clemente come riprova. Una sua opera. Foucault occupa il centro del quadro e tutt’intorno, ai lati e in alto, la sua mano reca frammenti scrupolosamente dipinti. Un’archeologia del sapere e del pensiero e insieme i pensieri dell’archeologia, avverte l’autore con uno dei suoi Witz. Così, il declino del teorico costituisce, radicalmente, il tratto che distingue il lavoro degli artisti dell’ultima generazione. Lo sfiorire del teorico reca con sé l’abbandono dei grandi temi: il Soggetto, la Smaterializzazione dell’opera, la Pittura come valore d’uso, l’Ideologia, l’Arte come segmento per niente privilegiato nella griglia della storia delle cose, il Reale e l’Iperreale, la Simulazione. Si sa, da tempo, di Baudrillard, dell’angelo di stucco («Lo stucco è la democrazia trionfale di tutti i segni artificiali, l’apoteosi del teatro e della moda…Nelle chiese e i palazzi, lo stucco sposa tutte le forme, imita tutte le materie, i tendaggi di velluto, le cornici di legno, le rotondità carnali dei corpi. Lo stucco…specie di equivalente generale») e del trompe l’oeil («Nel trompe l’oeil non si tratta di confusione con il reale; si tratta di produrre un simulacro con la piena consapevolezza del gioco e con l’artificio…mimando e oltrepassando l’effetto di reale, gettare un dubbio radicale sul principio di realtà»), della seduzione, perché se ne riparli con accanimento18. Tuttavia non si può rivolgere un pensiero alla soluzione finale: al suggerimento che «…l’arte è ovunque, poiché l’artificio è al centro della realtà. Così l’arte è morta, perché non soltanto la sua trascendenza critica è morta, ma perché la stessa realtà, interamente impregnata d’una estetica che dipende dalla sua stessa strutturalità, s’è confusa con la propria immagine». Ancora una volta l’arte muove perché è ovunque, nel cuore come ai margini della realtà. Solo che adesso la morte dell’arte no esprime più la tensione a bruciare lo spazio che la separa dalla vita, non inscena questa separatezza, ma cinicamente dice 17 H. Fischer, Théorie de l’art sociologique, Tournai 1977 e H. Fischer, F. Forest, J.-P. Thenot, Collectif art sociologique. Théorie- Pratique-Critique, Musée Galliera, Paris 1975 (il giudizio di McLuhan del 2 agosto 1972 è a p. 49). 18 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it., Milano 1979, p. 63 e Della seduzione, trad. it., a cura di P. Lalli, Bologna 1980, p.90. 41 che la realtà e l’immagine, il vero e il falso, il naturale e l’artificiale, sono parimenti simulacri e finzioni («il vecchio slogan “La realtà supera la finzione”, che corrisponde ancora allo stadio surrealista di questa estetizzazione della vita, è superato: niente più finzione alla quale la vita possa confrontarsi, sia pure vittoriosamente – è la realtà intera passata al gioco della realtà – disincantamento radicale, stadio cool e cibernetico che succede alla fase hot e fantasmatica»19. La morte dell’arte ha perduto, dunque, la sua forza utopica (la fine dell’arte come sistema di tecniche specializzate e scissura dell’esistenza) per divenire l’orizzonte in cui s’inscrivono le finzioni, in cui cessa la distinzione, qualunque distinzione, fra l’arte e i media. La curvatura, forse meglio, che segnala l’illimitata occupazione dei media, il loro dominio. Il problema, allora, per le nuove generazioni non è tanto quello di preparare trappole e innescare micce, aprire varchi e luoghi inediti, nella latitudine della morte dell’arte, né quello di continuare, utopicamente, a dare battaglia alla galassia dei media, quanto quello di lavorare il patrimonio dell’arte, questo artificio che è la sua storia, liberamente e con indifferenza. L’indifferenza dei linguaggi, la loro equivalenza, nate dallo sfiorire del teorico, caratterizzano senz’altro la linea dell’arte postmoderna, il Post-Modern. L’indifferenza e l’equivalenza dei linguaggi è, fondamentalmente, la caduta dei valori e della loro gerarchizzazione. Valori inestimabili sono stati, per oltre mezzo secolo, l’Avanguardia e il Movimento Moderno. In sostanza, la tendenza che ha definito l’arte buona e l’arte cattiva, l’architettura di ricerca e l’architettura della falsa coscienza. Avanguardia e Movimento Moderno sono diventati garanzia di sperimentazione e, perfino, di sensibilità progressiva. Certo, nell’arte postmoderna, Transavanguardia o Nuovi Nuovi, non c’è quella rabbia e quella violenza che serpeggia nella geografia dell’architettura, dove l’attacco allo star system e allo stato funzionalista del Movimento Moderno 19 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., pp. 89,87. 42 segna momenti di innegabile incandescenza20. Questo comportamento più pacato e sereno nei confronti dell’Avanguardia si spiega con il fatto che, da più di vent’anni, i conti con la tradizione del nuovo sono stati elusi né rimossi. Del resto lo conferma, in tempi più recenti, la stessa esperienza storiografica. Non è un caso, infatti, che sia saltato, di recente, uno dei confini più sicuri della storia dell’arte contemporanea, quello tra l’Avanguardia e il Novecento, appunto. D’altra parte l’arte concettuale ha mostrato l’inutilità, la non necessità di riferirsi all’Avanguardia nell’elaborare la più decisa proposta di smaterializzazione dell’oggetto artistico. Ora, la storia dell’arte, tutta intera la storia dell’arte, si presenta al vaglio degli Anni Ottanta come uno sconfinato cielo di segni e di figure, di risoluzioni e di scarti, persistenze linguistiche assolutamente indifferenti ed equi-valenti. Cadono, così, le gerarchie e si azzerano i valori, si cancellano i privilegi e le remore, i rimorsi e i pentimenti. Questi materiali e queste memorie diventano solamente tessere del gioco, momenti e transiti incerti. Come tessere, non meno provvisorie, sono i referti e i ricordi delle culture basse, i loro sistemi di tecniche. E ancora. Insieme al repertorio delle forme della storia dell’arte e della cultura materiale ritroviamo scandalosamente, pezzi di autobiografia e schegge di privato, quel lento fluire della soggettività, gli inciampi del ricordare e il velo della favola. Il ritorno del soggettivo, dunque, come pareggiamento del linguaggio interiore e del linguaggio pubblico, del silenzio e del rumore, dell’Infanzia e della Storia. Bonito Oliva, rileggendo Nietzsche, ricorda che «Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiuolo». E «questo significa non avere nostalgia di niente, in quanto tutto è continuamente raggiungibile, senza più categorie temporali e gerarchie di presente e passato, tipiche dell’avanguardia che ha sempre vissuto il tempo alle spalle come archeologia e comunque come reperto da rianimare»21. 20 P. Portoghesi, Dopo l’architettura moderna, Bari, 1980. Si cfr. almeno Ch. Jenks, The language of Post-Modern Architecture, London 1977, Late-modern Architecture, New York 1980 e C. Ray Smith, Supermannerism. New Attitudes in Post-Modern Architecture, New York 1977. Ricognizioni puntuali sono in C. De Seta, Origini ed eclissi del Movimento Moderno, Bari 1980 (in particolare la presentazione) e M. L. Scalvini, Prima e dopo il Post-Modernism, in «Op. Cit.», maggio 1980. 21 A. Bonito Oliva, La Transavanguardia italiana, Milano 1980, p. 54. 43 La critica al tempo lineare, rettilineo, uniforme e l’idea dell’arte come simulacro («Il simulacro sta agli antipodi del travestimento e dello spettacolo: la sua doppiezza è senza colpa, il suo velo è trasparente. La sua innocenza è appunto connessa al fatto che non nasconde nulla, o meglio non nasconde il nulla», suggerisce Perniola), eclettismo e Supermannerism sottolineano, in varia misura e con diversa consapevolezza, la fine di un’esperienza che ha fissato nella profondità e nell’originalità il suo modello e la sua verità. Una ricerca che ha guardato al passato come cifra e come nostalgia e non come a un gioco in cui si potessero prendere nelle maglie i sacri concetti e le nozioni inviolabili. Ora, invece, il Mannerism, mille volte invocato in questi anni per l’eresia e la sovversione del suo «spazio», ricompare sulla scena in compagnia di Supermann e il Trauerspiel barocco si riaffaccia proprio per quell’infinito rimando della copia alla copia, della finzione alla finzione22. Di recente Habermas, riconducendo il problema alla radice, ha innescato nel dibattito il nero del neoconservatorismo: il problema, in sostanza, investe una questione di fondo, la svolta conservatrice per via della perversa «alleanza del postmoderno col premoderno». L’attacco al moderno è, fondamentalmente, vagheggiamento del lontano e dell’arcaico, dell’evocazione (Bataille, Foucault, Derrida), è tensione verso «un’etica cosmica della problematica ecologica» (Jonas, Spaemann), è infine una politica della scienza che acceleri «il progresso tecnico, la creatività capitalistica e una ammirazione razionale». È quel disegno, insomma, che, delimitando rigorosamente (e rigidamente) la scienza, la morale e l’arte in ambiti specifici da affidare ad esperti di settore, fa che «della modernità culturale» rimanga «solamente ciò che si può ottenere dal moderno sacrificando il progetto moderno». Il nodo per Habermas è quello di ritentare il progetto moderno, puntando, magari con più cautela, ancora su una linea unitaria di intervento e sulla forza dell’utopia che è propria dell’arte, sull’implacabile rifiuto degli specialismi e delle regioni separate23. 22 M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna 1980, pp. 171, 170. 23 J. Habermas, Moderno, Postmoderno e Neoconservatorismo, trad. it., in «Alphabeta», marzo 1981, p. 17. Si v. anche Theorie des Kommunicativen Handelns, Frankfurt am Mein, 1981. Estremamente positivo è il giudizio di Thomás Maldonado, Il movimento moderno e la questione «post», in «Casabella», nov.-dic. 1980. 44 La posizione di Habermas è una difesa estrema del moderno, dell’arte d’avanguardia, del pensiero negativo e dei suoi recenti approfondimenti. Ma è in parte nostalgica: è l’evocazione di ciò che è andato perduto e si è consumato, di un modello che non è più riproponibile. Il declino del teorico è, appunto è l’orizzonte lungo il quale questo progetto si è assottigliato, si è sfibrato fino a morire. È quella curvatura che si dice di un sapere incerto e caduco, che parla il linguaggio dell’Unsicherheit e della Vergänglichkeit. Un sapere che suggerisce all’arte di non mettersi al posto della filosofia o della scienza, di non occupare i recinti di Utopia. (1981) 45 L’arte dopo la filosofia (e altre considerazioni) «… L’arte è analoga a una posizione analitica, e … solo un’arte tautologica può tenersi a distanza da presupposti filosofici»24. Kosuth, dunque, senza preamboli ci segnala la strada che intende percorrere, i suoi interessi, le ragioni e i racconti che ha scelto, lungo i quali lavora. Cerchiamo di registrare questi motivi: li indicherei anzitutto nella critica alla filosofia hegeliana nell’adesione, insieme, al positivismo logico, alla filosofia analitica. Ma (ed è questo un punto che dovrà essere calcolato con precisione) bisognerà accertare anche tutti gli spostamenti, gli slittamenti che Kosuth compie all’interno dello stesso universo logico e analitico. Ma andiamo avanti con ordine, e quindi ripartiamo da Hegel. Giacché si capisce che Kosuth rovescia, e radicalmente, l’ipotesi hegeliana, il cammino dello Spirito Assoluto. In Hegel, si sa, è la filosofia che viene dopo l’arte. Arte, Religione, Filosofia sono, infatti, i movimenti attraverso i quali lo Spirito viaggia per divenire in sé e per sé (il grande vetro dell’autocoscienza). «La forma di questo sapere è, in quanto immediata (il momento della finalità dell’arte), da una parte un dirompersi in un’opera di esistenza esterna e comune...; dall’altra parte, essa è l’intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell’ideale; - della forma concreta, nato dallo spirito soggettivo, nella quale l’immediatezza naturale è soltanto segno dell’idea». Mentre la filosofia, si continua a leggere nell’Enciclopedia, è «l’Idea che pensa se stessa col significato che, la verità che sa, la logicità, essa è l’universalità convalidata dal contenuto concreto come dalla sua realtà. La scienza è, per tal guisa, tornata al suo cominciamento»25. La perlustrazione, del resto, di altri testi, della Fenomenologia dello spirito, per esempio, o, più specifici per il nostro discorso, dell’Estetica, conferma punto per punto l’assunto già registrato nell’Enciclopedia. La critica che Kosuth muove alla filosofia, in quanto sapere assoluto, non riguarda soltanto, a pensarci 24 J. Kosuth, Dopo la filosofia, trad. it. (e soltanto la prima parte del testo pubblicato da Art International, oct.-nov.-dic. 1969) in «Data», n. 3, aprile 1972. Tutte le citazioni si riferiscono a questa traduzione. 25 G. W. Hegel, Enciclopedia, trad. it., III ed., Bari 1951, parr. 556 e 574 (rispettivamente alle pp. 504 e 527-28). 47 bene, la sua assolutezza. Riguarda e investe, in maniera più decisiva e estrema, il significato stesso della filosofia in quanto sapere scientifico. Col sapere filosofico, nel discorso hegeliano, la scienza torna al suo cominciamento. Per Kosuth, invece, perché ci sia sapere la filosofia deve morire e al suo posto deve splendere l’arte. «L’influenza hegeliana ha portato la maggior parte dei filosofi contemporanei ad essere poco più storici della filosofia, Bibliotecari della verità, per così dire. Si comincia ad avere l’impressione che non c’è più niente da fare; e certamente, una volta realizzate le indicazioni del pensiero di Wittegenstein e della filosofia da lui influenzata e a lui successiva, non è più il caso di prendere in seria considerazione in questa sere la filosofia continentale». Kosuth lavora, esplicitamente, su due fronti: critica la filosofia hegeliana con gli argomenti e gli strumenti messi a punto dalla filosofia analitica ma, al tempo stesso, ne radicalizza le posizioni teoriche, giacché ritiene infruttuosa l’ipotesi che la filosofia possa continuare a svolgere un ruolo interamente critico. «Possiamo considerare una qualunque particolare teoria filosofica…come la rivelazione di qualche parte della struttura di un dato linguaggio», aveva detto Ayer, un autore vitatissimo da Kosuth. Ma ora, seconda l’artista americano, anche questo compito, indicato precocemente dal Tractatus wittgensteiniano, si è esaurito. Perciò Kosuth può concludere che, se la filosofia analitica è una «filosofia a una sola marcia», la filosofia continentale (la fenomenologia e l’esistenzialismo, segnatamente) no dispone neanche di questa sola marcia. Si è detto che Kosuth rovescia l’ipotesi hegeliana e radicalizza l’argomentazione wittgensteiniana e del positivismo logico sul ruolo del discorso filosofico. D’altra parte, come vedremo, Kosuth no è meno radicale (e questa volta proprio nei confronti della filosofia analitica) sulla funzione dell’arte. A proposito rovescia di centottanta gradi l’ottica del neopositivismo. Riprendiamo ancora da Ayer. «Ci disporremo a dimostrare che, nella misura in cui sono significative, le affermazioni di valore sono normali affermazioni scientifiche; e, nella misura in cui non risultano scientifiche, non sono significative nel senso letterale della parola ma sono semplicemente espressioni di emozioni, che non possono essere né vere né false. Nel sostenere questa prospettiva, per il momento ci possiamo limitare al caso delle affermazioni etiche. Quanto diciamo di queste si troverà che vale, mutatis mutandis, anche nel caso 48 delle affermazioni estetiche»26. Ayer, dunque, nel 1946, riafferma una nozione centrale della filosofia analitica: la netta distinzione tra enunciati scientifici ed espressioni emotive. Le proposizioni della scienza da una parte e, dall’altra, le affermazioni etiche, la metafisica, la parola dei poeti. «La differenza fra chi si serve del linguaggio in modo scientifico e chi se ne serve emotivamente, non sta in una produzione d’enunciati che non possono ispirare emozioni contrapposta a una produzione d’enunciati privi di senso, ma nel fatto che alcuni si preoccupano fondamentalmente di esprimere proposizioni vere e altri di creare opere d’arte»27. Ayer, in conclusione, sulla linea Russell-Wittgenstein-Carnap-Richards (per citare nomi emblematici) conferma che il discorso dell’arte è un discorso emozionale, sintomo di una condizione emotiva, mai attraversato né sfiorato dal discorso logico. Una linea che, come sappiamo, troverà altre conferme (e, quel che più conta, specifiche per le nostre ipotesi). Infatti è sicuro che Morris ha offerto, nell’ambito del disegno teorico fino ad ora registrato, un contributo fondamentale alla riformulazione del discorso estetico. Nei documenti specifici, Aesthetics and the Theory of Sign e Science, Art and Technology, Morris, infatti, si domanda quale sia lo statuto segnico del discorso estetico (che è discorso non intorno all’arte ma sulle opere d’arte). Il discorso estetico, in quanto discorso che lavora in particolare sulla struttura segnica, rinvia alla dimensione sintattica. I segni che costituiscono il discorso estetico sono segni iconici: segni, ciò, che incorporano dentro di sè alcuni tratti, alcune proprietà, dell’oggetto designato. «In altre parole (adesso è Dorfles che parla di Morris), il segno estetico è un segno iconico in cui il designatum è un valore (value). Considerato sotto questo aspetto, l’artista è colui che si vale di un medium in maniera tale da fargli assumere il valore d’una esperienza significante; e l’opera che ne deriva ha – come icone – la proprietà che il valore designato è incorporato nell’opera stessa… Per questo l’arte si può considerare come quel linguaggio che serve alla comunicazione di 26 A. J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, trad. it., a cura di G. De Toni, Milano 1961, pp. 128-29. 27 A. J. Ayer, op. cit., p. 28. 49 valori»28. Il discorso estetico, dunque, comunica e presenta valori, ma non li discute, non può porre, in altri termini, asserzioni come la scienza. Il progetto di Charles Morris, in sostanza, non sposta l’ottica dell’arte (o discorso estetico) intesa come discorso emozionale. Tuttavia non c’è dubbio che, rispetto ai dati precedenti, arricchisca la dimensione estetica di indicazioni e sollecitazioni che non possono essere trascurate. E poi (sottolineature decisiva) che il segno, e quindi anche quello estetico (però talvolta c’è anche qualche incertezza), è una totalità. Leggiamo direttamente i Lineamenti. «… Implica è un termine della sintattica, designa e denota sono termini della semantica, esprime è un termine della pragmatica. E siccome le varie dimensioni sono soltanto aspetti di un processo unitario ci saranno talune relazioni fra i termini delle varie branche e saranno necessari segni distintivi per caratterizzare queste relazioni e con ciò il processo di semiosi come un tutto. Segno è un termine strettamente semiotico, nel senso che sintattica o semantica o pragmatica da sole non bastano a definirlo; invece tutti i vari termini delle sotto-discipline sono semiotici solo se intendiamo semiotico nel senso più largo»29. Senz’altro la nozione di segno come totalità deve essere prontamente collegata con un’altra nozione (di Wittengenstein), ampiamente richiamata da Kosuth: la nozione di contesto. «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» dice una celebre proposizione delle Ricerche filosofiche. «E non è possibile non sentire una tal quale aria di famiglia… fra il contestualismo di Wittengenstein da un lato e, dall’altro, per esempio: quanto già diceva Ferdinand de Saussure sul valore linguistico, sulla lingua come sistema, sull’uso di modelli come quello offerto dal gioco degli scacchi», per riprendere una nota di Rossi-Landi30. Infatti, anticipando un po’le cose, sono appunto le nozioni di segno come totalità e di contesto o sistema che Kosuth utilizza per la propria strategia, per riformulare, contro le filosofie analitiche, il discorso artistico. 28 G. Dorfles, Simbolo e metafora come strumenti di comunicazione in estetica, in AA.VV., Il pensiero americano contemporaneo, a cura di F. Rossi-Landi, Milano 1958, p. 64. Dorfles ha ripreso e ampliato in lavori successivi la trama di questa rigorosa ricerca. Per i problemi in esame si cfr. anche Morpurgo-Tagliabue, L’Esthétique contemporaine, Milano 1960, pp.219-275. 29 Ch. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, trad. it., introd. e comm. di F. Rossi-Landi, Torino 1954, pp. 23-25. 30 F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano 1968. 50 È inevitabile, a questo punto, almeno un riferimento alla Langer: l’arte, per la Langer, è «simbolo di un sentimento…, è la creazione di forme simboliche del sentimento umano»31. Certamente la Langer approfondisce, come soltanto Richards aveva saputo fare tra il Venti e il Trenta, il discorso dell’arte in senso specifico, soprattutto la decodificazione del linguaggio musicale. Tuttavia non si discosta dalla traiettoria segnata dalle filosofie analitiche: accoglie, perciò, la distinzione carnapiana tra linguaggio scientifico e linguaggio libero, distingue nettamente i simboli discorsivi dai simboli non discorsivi. E l’arte, naturalmente, è un simbolo non discorsivo. Anzi, per la precisione non si potrebbe neanche dire che l’arte sia un simbolo presentativo, visto che la Langer afferma che la musica non lo è. Quando parliamo dell’arte, pertanto, ci troviamo di fronte a un simbolismo emozionale: la conclusione non può che essere questa, ancora una volta. Naturalmente non sono mancati tentativi (che non sempre, però, sono stati valutati con la dovuta attenzione) di dissenso e di rifiuto di questa tendenza: la storia delle idee estetiche registra, infatti, una tenace querelle tra la teoria emozionale e la teoria cognitiva dell’arte. L’arte, dunque, è un veicolo di conoscenza (e di quale conoscenza?). Giustamente Dorfles, tra i primi ha ricordato il contributo della Dorothy Walsh, The Cognitive Contento of Art. Per la Walsh l’arte è «delineazione del possibile», dato che il possibile è una categoria comune sia all’esperienza artistica che a quella scientifica o filosofica. In questa prospettiva l’arte non è più né realtà puramente soggettiva né espressione di emozioni o di stati d’animo e neppure l’oggettivazione del reale («Essere possibile significa essere compossibile con un qualche contesto esistenziale o concettuale»). Gli scritti teorici di Kosuth, le sue dichiarazioni, non offrono sufficienti spie per confermare, sul piano filologico, questo complesso reticolato di riferimenti. Tuttavia è innegabile che se non si tiene conto e non si ricollega la tematica di Kosuth al vivo di questo dibattito – teoria emozionale o cognitiva del discorso artistico – difficilmente se ne potrà comprendere la portata innovativa. Soltanto inserita in questa griglia è possibile considerare Art after philosophy come un testo di semiotica dell’arte: precisamente l’ultima scena di un dibattito iniziato negli anni 31 S. K. Langer, Sentimento e forma, trad. it., Milano 1965, p. 57. 51 venti e, forse, anche prima. L’ultima scena che proclamava appunto l’arte un’esperienza da porre alla stessa altezza dei discorsi scientifici. L’arte ha, dunque, uno statuto segnico simile a quello della logica e della matematica. In questo senso l’arte viene dopo la filosofia: perché, finalmente, analoga a una proposizione scientifica. Kosuth per il suo progetto pretende che si tengano ben distinti l’arte e l’estetica. «L’estetica concerne le opinioni sulla percezione del mondo in generale» a differenza dell’arte che non stabilisce relazioni con il mondo, che non è mediazione, ma è invece tautologia. «Solo un’arte tautologica può tenersi a distanza da presupposti filosofici». Ecco ricomparire l’ombra acerrima del nemico: la filosofia continentale, fenomenologia ed esistenzialismo, che è senz’altro una filosofia dell’opacità e della mondanità, della corporeità e del sensorio, dell’estasi. Perciò Kosuth la rifiuta. Perché avverte che l’arte per diventare conoscenza deve liberarsi di qualsiasi memoria di realtà e di mondanità, di referenzialità, deve diventare tautologia e assumere lo statuto di proposizione analitica. In verità, Kosuth è estremamente rigoroso e preciso su questo punto. L’arte (insiste) «… non è propriamente l’attività di costruire proposizioni artistiche, ma un elaborare, uno sviscerare tutte le implicazioni di tutti gli aspetti del concetto arte». Il piano è, così, elaborato: non si tratta neppure di costruire proposizioni artistiche quanto di sviscerare in ogni sua faccia il concetto arte. Per questo Kosuth non esita a dire che «essere artisti significa interrogare la natura dell’arte» e non una sua specificazione, la pittura o la scultura. Fare pittura, scultura, è il modo estetico di fare arte: cioè, che è lo stesso, non è fare arte. Joseph Kosuth, nel 1970, nell’Introductory Note by Amerian Editor di Art-Language (un documento del resto abbastanza frequentato) rende àncora più esplicito, polemicamente il suo punto di vista, insistendo su tre nozioni-chiave: estetico, reattivo, concettuale. «L’estetico prende in considerazione l’elaborazione dei dati percettivi e, data l’immediatezza dell’esperienza, l’arte è ricondotta a un semplice punto di partenza umano per voli percettivi, allineandosi così (e competendo) con le fonti naturali delle esperienze visive… L’artista è pertanto escluso dall’attività artistica…, non è concettualmente implicato nella costruzione della proposizione artistica». L’artista non svolge così alcuna funzione critica, è soltanto uno strumento per l’elaborazione di stimoli, non partecipa 52 alla costruzione della proposizione artistica. Kosuth intende la nozione di estetica come aisthesis, etimologicamente appunto come «analisi della percezione». Per il secondo punto, l’arte reattiva, Kosuth è ancora più deciso: «L’arte reattiava è l’immondezzaio, per lo più, delle idee artistiche del XX secolo: rimandi di ogni genere, evoluzionismi, pseudostoricismi, culto della personalità, eccetera; la maggior parte delle quali possono essere agevolmente descritte come una successione di azioni inconsulte dominate dall’angoscia»32. L’arte reattiva si fonda sul come, si fonda, cioè, sull’abilità e la tecnica, sull’esterno (sui materiali). Non lavora, dunque, sulla natura dell’arte, non costruisce dall’interno, non sviscera tutte le implicazioni dell’idea dell’arte. Il nodo è invece un altro: è l’Art as idea as idea. Infatti, «tutte le indagini a cominciare dalla prima (1966) hanno avuto come sottotitolo Arte come idea, come idea»33. L’investigazione di Kosuth si pone, dunque, su un’altra frontiera: «L’arte concettuale… è una ricerca condotta dagli artisti che capiscono che l’attività artistica non è esclusivamente limitata alla strutturazione di proposizioni artistiche, ma comprende l’indagine sulla funzione, il significato e l’uso di ogni e tutte le proposizioni (artistiche), e la loro collocazione all’interno del concetto del termine generico arte». Affermazione, quest’ultima, di notevole spessore in quanto esprime la consapevolezza di non svolgere soltanto un operazione sintattica o semantica. L’insistenza sull’uso delle proposizioni artistiche, oltre che della funzione e del significato, indubbiamente mostra come a Kosuth non sia sfuggito il senso della lezione morrisiana. Il significato della nozione di uso e di contesto, l’accentrare tutta la questione sulla natura dell’arte, sono certamente «episodi» che devono essere analizzati con attenzione e rigore. Incominciamo dalla natura dell’arte. Si è ricordato che, per Kosuth, essere artista significa interrogare la natura dell’arte. Ma qual è la natura dell’arte? E soprattutto come un artista può individuare la natura dell’arte? La risposta alle due domande è, in sostanza, una sola, si capisce. E riguarda, appunto, la natura dell’arte: un concetto che è a priori. Per la formulazione di quest’ipotesi Kosuth segue la linea che slitta da Kant 32 J. Kosuth, Nota introduttiva del redattore americano, trad. it. in «Data», aprile 1972 (tutte le citazioni si riferiscono a questa traduzione). 33 J. Kosuth, Function, Funzione, Funcion, Fonction, Funktion, Torino 1970. 53 a Ayer (con tutti gli opportuni aggiustamenti). Dice Ayer, concludendo il capitolo su L’«a priori»: «Abbiamo… mostrato che le verità della ragion pura, le proposizioni che sappiamo valide indipendentemente da ogni esperienza, sono tali solo a causa della loro mancanza di contenuto fattuale. Dire vera a priori una proposizione equivale a dire che è una tautologia. E le tautologie, benché ci possano servire da guida nell’indagine empirica intesa al sapere, in se stesse non contengono alcuna informazione intorno a dati di fatto»34. Kosuth, dunque, attraverso Ayer, definisce la natura dell’arte come a priori e, al tempo stesso, colloca sullo stesso piano le proposizioni artistiche con le verità della ragione pura. La strategia è ormai evidente: stabilire un raccordo tra arte, logica, matematica. Raccordo che può essere stabilito, ripeto, proprio perché le proposizioni che costituiscono i rispettivi universi di discorso sono a priori. Le proposizioni artistiche, come ogni altra verità a priori, sono tali perché sono tautologiche. «La tautologia non ha condizioni di verità, perché è incondizionatamente (bedingungslos) vera; e la contraddizione a nessuna condizione è vera». Mentre «la verità della tautologia è certa», avverte Wittgenstein35. Kosuth, ripercorrendo i territori analitici, può così concludere che le «proposizioni dell’arte non sono di carattere materiale, ma linguistiche, e cioè non descrivono il comportamento di oggetti fisici o mentali, ma esprimono definizioni dell’arte o le conseguenze formali di definizioni dell’arte. Perciò possiamo dire che l’arte segue una logica perché… la caratteristica di una ricerca puramente logica è quella di interessarsi alle conseguenze formali delle nostre definizioni (dell’arte) e non hai dati del fatto empirico…L’arte ha in comune con la logica e la matematica il fatto di essere una tautologia; e cioè l’idea dell’arte (o l’opera) e l’arte sono la stessa cosa e possono essere apprezzate come arte senza uscire dal contesto dell’arte per una verifica». Diviene, così, fondamentale la nozione di contesto (come, del resto, si è ricordato). «L’arte esiste unicamente come contesto, questa è la sua natura, non ha altre qualità», dirà nel ’70 Kosuth in un lavoro che, per tanti versi, costituisce il punto-limite della sua esperienza teorica e 34 A. J. Ayer, op. cit., p.100. 35 L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, trad. it., a cura di Colombo, paragrafi 4.461 e 4.464 a p. 217. Si cfr. anche la trad. proposta da Amedeo G. Conte per l’edizione einaudiana alle pp. 38-39. 54 operativa. A Migliorini questo testo sembra addirittura un ripensamento di Art after Philosophy. Vediamo perché. La proposizione incriminata è la seguente: «Data la natura del soggetto il contesto finale e definitivo è completamente sconosciuto (se non in termini personali) e non può esistere in alcuna maniera che sia attinente ad una Gestalt o una qualsiasi altra entità iconica ivi sottesa». Secondo Migliorini, «il contesto, l’essenza, l’éidos, a questo punto, rifiutano dunque una forma, e nessuna funzione (nessuna proposizione unitaria) può definire la proposizione arte: l’arte rifiuta insomma la definizione dell’arte. Il logos, come in Plotino, ha solo la funzione di indicare l’anéideon, quel privo di forma che è, qui, la vecchia nozione di arte»36. In questa prospettiva Migliorini ritiene di poter rilanciare, addirittura, un profetico aforisma di Sol LeWitt. «Gli artisti concettuali sono dei mistici piuttosto che dei razionalisti. Essi balzano a conclusioni cui la logica non può giungere». Function, Funzione, Funcion, Fonction, Funktion, secondo questa lettura, denunzia uno sbandamento preoccupante verso l’ascetismo e il misticismo, il logos che plotinianamente si limitava soltanto a indicare l’anéideon, il privo di forma. Certo, il rilievo di Migliorini è incontestabile. Tuttavia, per comprendere fino in fondo lo sforzo teorico dell’artista americano, bisognerà cercare di sondare proprio questo abbandono ascetico e irrazionale, emotivo. L’abbandono emotivo, ascetico, il viaggio verso Plotino, è, alla resa dei conti, lo scotto doloroso che Kosuth deve pagare per rendere trasparente la sua tesi. La progressiva, ostinata, caparbia, liquidazione di qualsiasi referenzialità, di ogni dato esterno, materiale e formale, la riduzione delle proposizioni artistiche alla tautologia, l’affermazione dell’arte come idea, come idea sono tappe di un progresso riduttivo che culmina nel rifiuto dello stesso contesto come Gestalt o entità iconica (iconic entity). Adesso 36 E. Migliorini, Conceptual art, Firenze 1972, p. 163. Per una ricognizione complessiva dell’esperienza concettuale mi sembra ragionevole ricordare i lavori di K. HONNEF, Concept art, Köln 1971, di C. Millet, Textes sur l’Art Conceptuel, Paris 1972, di Wedewer-Fischer, Konzeption-Conception, Köln 1969, di Aloisio-Menna, Analisi delle proposizioni concettuali (intervento tenuto in occasione del Convegno «Critica in atto», Incontri Internazionali d’Arte, Roma 1972), di R. Barilli, Le due anime del concettuale, in «Op. Cit.», n. 26, 1973, di G. Dorfles, Valori socio-estetici nelle tendenze concettuali (il sunto di questo complesso intervento detto a Belgrado in occasione dell’assemblea generale dell’AICA, è stato pubblicato in «NAC», agostosettembre 1973). Molto approssimativo è invece il libro di Ursula Mayer, Conceptual art, New York 1972, perché congela in un’unica categoria – il concettuale – temi e risoluzioni che hanno poco (o niente) a che fare. 55 l’arte non si dà più come definizione dell’arte, come proposizione che sviscera tutte le implicazioni di tutti gli aspetti del concetto arte. «L’arte in questo caso si riferisce solo alla successione degli elementi (o diretti, o impliciti) nei loro rapporti con un’indagine». Rifiutato il contesto come Gestalt o entità iconica è chiaro che salta la stessa articolazione tra sintattica, semantica e pragmatica a favore della orizzontalità degli elementi. La negazione del contesto è, dunque, il punto-limite del lavoro teorico di Kosuth: un luogo che, come si è detto, lo spinge verso il misticismo e la rarefazione del logos, verso l’ascesi e la perdita della conoscenza. Kosuth, in latri termini, non approfondisce la linea Wittgenstein-Morris, come invece, in un primo momento, sembra disposto a fare. Non approfondisce, cioè, nozioni come segno-totalità, contesto, uso. Lascia cadere nel corso della ricerca le implicazioni dialettiche che, come si è precisato, costituiscono l’ossatura di Morris e del secondo Wittgenstein, il Wittgenstein delle Ricerche logiche. Così, in particolare rispetto a queste acquisizioni capitali, Kosuth fa alla fine due passi indietro. Non soltanto non lavora all’interno di queste traiettorie quanto, addirittura, le trascura e le abbandona. Si direbbe, in conclusione, che Kosuth per eccessiva trasparenza (per voler dare all’arte una trasparenza eccessiva) abbia superato gli argini di sicurezza, condividendo la profezia di Sol. Dunque, Kosuth ha commesso lo stesso errore di visuale dei mistici che per purgare il copro lo negano e per pregare Dio lo annullano come uomini. Così, Kosuth per amore dell’arte si rivolge all’anéidon, per assegnare alle proposizioni artistiche dignità (uno statuto logico e semiotico), la stessa dignità che la filosofia analitica aveva assegnato alle proposizioni della matematica e alle verità della logica, rarefa talmente il concetto-arte che risulta inafferrabile e sconosciuto. Kosuth invece di spingere l’indagine, lascia in sospeso Wittgenstein, verso l’approfondimento del legame linguaggio/lavoro, per esempio, o anche verso l’accertamento del senso che svolge lo stesso linguaggio analitico all’interno della struttura di potere capitalistica, fa retrocedere la ricerca, in modo deludente, verso un originario magma informe, verso una meta completamente sconosciuta. L’uscita mistica rende, pertanto, precario e incerto anche un altro passaggio della teoria di Kosuth, un punto in verità assai importante. Centrale non solamente per la formulazione dell’arte 56 concettuale. Alludo al rapporto arte-pubblico-critica. Al ruolo nuovo che la critica è chiamata a svolgere, smesso l’abito banalmente mediativo: la cerniera tra galleria (e anche artista) e pubblico. L’arte concettuale «riassume in sé anche la funzione del critico, rendendo superflua la mediazione. Il sistema artista-critico-pubblico aveva la sua ragion d’essere in quanto gli elementi visivi della costruzione del come davano all’arte un aspetto di intrattenimento, donde la presenza del pubblico». L’arte concettuale, invece, non ha un pubblico esterno, per così dire: il pubblico è costituito dagli stessi artisti, dai partecipanti. Non esiste più, per Kosuth un pubblico separato dai partecipanti. Esistono soltanto i partecipanti che interrogano la natura dell’arte, gli artisti insomma. «In un certo senso, pertanto, l’arte diventa seria come la scienza o la filosofia, che non hanno certo un pubblico. Nella misura in cui si partecipi o no, l’arte concettuale diventa più o meno interessante. Nel passato, lo status privilegiato dell’artista lo confinava a svolgere il ruolo di un grande sacerdote o di uno stregone dell’industria dello spettacolo». Arte e critica, così, non sono più due operazioni distinte ma una sola attività. E, al tempo stesso, Kosuth, riconducendo l’arte alla critica e la critica all’arte tenta di superare la grave impasse della relazione arte/ pubblico. L’arte concettuale non si rivolge a un pubblico esterno, non richiede partecipazione che non sia quella degli addetti ai lavori. Il pubblico è all’interno, ora. È la stessa famiglia degli artisti. Pubblico e artisti coincidono. Con questa mossa Kosuth pone l’arte concettuale sull’altra sponda rispetto a quelle esperienze che, negli anni Sessanta (o poco prima), avevano cercato, invece, di risolvere i rapporti arte/pubblico chiedendo e sollecitando proprio l’intervento attivo, costante, vitale del pubblico. Dalla crisi dell’oggetto, dalla caduta dei linguaggi oggettuali, il problema è stato appunto quello di coinvolgere, di rendere compartecipi gli spettatori, di infrangere la loro pigrizia, di sospingerli a un ruolo attivo, di renderli, finché possibile, attori dell’evento, del rito, che non deve soltanto sfiorare lo sguardo, né correre veloce sulla pelle, ma deve lasciare tracce e segni duraturi. L’arte, in questi dintorni, si pone nei confronti dello spettatore come struttura dell’immaginario, come palese irritazione dello spirito, se si volessero usare le parole di Max Ernst. Lo spettatore aiuta l’artista 57 nell’esercizio dell’estasi, dall’uscita fuori di sé voglio dire, e l’artista, con il suo gesto, con la riappropriazione della corporeità, con lo slargare la dimensione dell’arte riferendosi al mondo e alla natura, sollecita lo spettatore/attore a partecipare alla nascita di un’altra realtà, alla rigenerazione della sensibilità. L’arte accorcia (o si illude) la distanza dalla vita, vuole divenire vita, ma non lo può per via che è arte, cioè linguaggio. Così, patisce fino all’ultimo la frustrazione, annulla nella sua vertigine ogni mediazione, richiede un contatto diretto e immediato. Fa esplodere la funzione della critica. Kosuth lavora, invece, in direzione opposta. Sa benissimo che il rapporto immediato arte/pubblico è una leggenda, una soluzione acritica (anche se generosa). Perciò, per evitare la trappola dell’immediatezza, riassorbe la critica e il pubblico all’interno della stessa operazione artistica o, meglio ancora, del concetto arte. Ma se la soluzione avanzata dall’arte che interviene direttamente e immediatamente sul mondo si apre a un’esperienza mistica, d’altro canto l’arte concettuale, nella pronunzia di Kosuth, non è esente da rischi e da disagi. Perplessità e disagi che diventano ancora più marcati quando pensiamo alle conclusioni di Function, Funzione, Funcion, Fonction, Funktion. L’uscita mistica, il logos che può indicare soltanto l’anéidon, riducono inevitabilmente il ruolo, la possibilità e la funzione della critica. Se, in ultima istanza l’arte è il privo di forma, se il contesto finale è sconosciuto, l’artista nuovamente diviene il grande sacerdote dell’evento. In questo caso il sacerdote evoca il Logos che, invece di essere linguaggio, è un principio oscuro e nebuloso. E partecipa a sé e al pubblico (costituito da artisti) questo mistero. Allora il problema non è tanto quello di formare il pubblico soltanto con gli artisti, con quelli che partecipano realmente all’arte, quanto di evitare l’ascesi e il misticismo. Diversamente la stessa funzione critica, pur riscattata dal banale ruolo di intermediaria, torna a essere inventario o catalogo di visioni, il registro su quale il sacerdote-artista annota il suo silenzioso contatto con il Logos. Così, tristemente, l’Arte dopo la filosofia, l’ultima scena del dibattito tra teoria cognitiva e emotiva dell’arte, diventa soltanto un transito verso il misticismo di Function, Funzione, Funcion, Fonction, Funktion? Francamente, pur insistendo su questa difficoltà, non ridurrei, tuttavia, l’intero discorso di Kosuth a quest’epilogo, come mi sembra faccia 58 Migliorini. Il misticismo è, certamente, il punto-limite della teoria di Kosuth. Ma la teoria, nella sua complessità, non si riduce a questo punto. D’altra parte la riflessione più recente dell’arte concettuale sembra più orientata verso Art after Philosophy che in direzione di Function. E questo significa che si è cercato di riguadagnare la lezione cognitiva della proposta di Kosuth, vagliando ogni indicazione emersa. Infatti è abbastanza interessante, per limitarci a un esempio, il modo con il quale lo stesso Kosuth rilegge Duchamp: una lettura che ha offerto e offre sollecitazioni e scatti diversi. Indicativa è la stessa riconsiderazione di Ad Reinhardt37. Del resto non può essere un caso che Duchamp e Reinhardt siano diventati, in questi ultimi anni un polo obbligato per gli artisti e i critici delle nuove generazioni: non è un caso se li ritroviamo alla testa del viaggio che si avvia a percorrere la «linea analitica»38. Senza che per questo si dica, poi, semplicisticamente che Duchamp o Reinhardt siano artisti concettuali o, addirittura, i padri del concettualismo. A questo punto non si può non accennare, proprio per rendere trasparente il discorso, al tema della riflessione, giacché la riflessione sembra, appunto, caratterizzare le ultime ricerche dell’arte. Il momento della riflessione era, in verità, già attivo nelle zone più mature e meno selvagge dell’arte povera, della Land Art, dell’arte di comportamento39. La nuova pittura, ora, gioca le sue carte, quando non è il ritorno del rimosso, proprio come «riflessione sulla pittura». Ma vi è una differenza fondamentale tra la riflessione sulla pittura di Cane o Devade e la riflessione metalinguistica dell’arte concettuale. «L’arte concettuale affronta il problema disciplinare al primo livello. Essa cioè si interessa essenzialmente al concetto di Arte situato a monte delle forme specifiche delle pratiche artistiche, 37 Segnaliamo rapidamente i contributi più significativi dei concettuali sul caso Duchamp. Anzitutto Kosuth, in Art after Philosophy. Poi T. Atkinson, Concerning Interpretation of the Bainbridge-Hurrel, in «Art-Language», n. 1, 1970. Dello stesso autore e sullo stesso numero di «Art-Language», si veda Duchamp’s Concepts of Transubstantiation ed ancora la nota all’Introduction, n. 1, vol. 1, 1969. E. Migliorini, Lo scolabottiglie di Duchamp, Firenze 1970, ha ripreso e analizzato con rigore il discorso dei concettuali su questo punto. 38 F. Menna, Per una linea analitica dell’arte moderna, in AA. VV., La riflessione sulla pittura, Acireale 1973. 39 Sulla questione si cfr. almeno A. Bonito Oliva, Il territorio magico, Firenze 1971, F. Menna, Dibbets una rotazione di 360 gradi, in «Qui arte contemporanea», n. 9, 1972. Importante il saggio di G. Dorfles, Il simbolismo del tempo nell’arte, in «Archivio di Filosofia», Roma 1973, che costituisce la premessa teorica di quest’altro scritto, La componente temporale nell’arte statunitense contemporanea, in «Qui arte contemporanea», n. 11, 1973. 59 mentre la Nuova Pittura pone esplicitamente il problema della disciplina pittorica»40. La Nuova Pittura fa, cioè, esattamente quello che l’arte concettuale rigetta: è, cioè, analisi di un linguaggio specifico, la Pittura, delle sue articolazioni. Si passa, così, nuovamente dal metalinguaggio alla riflessione sul linguaggio specifico. Della Nuova Pittura (sotto questa etichetta si nascondono non pochi pasticci) l’esperienza più sottile è rappresentata, evidentemente, dal gruppo di Peinture. Di questo lavoro va sottolineato in particolare la tensione teorica: una tensione che nasce all’incrocio tra il pourmarxismo althusseriano e la psicoanalisi lacaniana, fra il maoismo di Tel Quel, le illuminazioni di Sollers e l’acutezza di Pleynet. Ed è appunto questo pensiero, per diversi aspetti, il contrappunto teorico dell’arte concettuale. Insistendo, infatti, sull’approdo mistico di Kosuth, ci si è rammaricati del fatto che l’artista americano, invece di sospingere l’eredità Wittgenstein/Morris (segno-totalità, contestualità, dialettica dei livelli semiotici), sia regredito al Logos e al privo di forma. Approfondire la lezione di Wittgenstein e di Morris significava, si è detto, affrontare il tema dell’idealismo e del solipsismo del metalinguaggio, il rapporto tra analiticità e dialetticità. Problematica, questa, che occupa il centro del lavoro di Cane e Devade, di Peinture. Louis Cane, per ricondurre al minimo le citazioni e concludere, segnala che «la pittura è solo un lavoro personale il cui processo specifico non si riconosce se non attraverso la sua dialettica nell’insieme sociale contraddittorio». O ancora che si dà la possibilità «attraverso la pittura (di) riflettere una pratica e un lavoro dialettico nelle infinite possibilità offerte storicamente dal codice pittorico»41. La via dialettica di Peinture e di Supports/Surfaces è, senz’altro, il correttivo più energico all’uscita mistica di Kosuth: al mito dell’analiticità che si contempla come in uno specchio. Kosuth, Cane, Devade, Art after Philosophy (senza saltare la zona d’ombra di Function), Peinture e Supports/Surfaces costituiscono i transiti obbligati per una rifondazione della pratica e della teoria della 40 F. Menna, op. cit., manca la pagina (il testo infatti non reca numerazione). 41 L. Cane, Per terra, piegata, con il colore, in «Data», nn. 7-8, 1973, pp. 78 e 82. Si rinvia complessivamente ai contributi di Cane, Devade, Sollers, Pleynet comparsi in questi anni su Peinture. Indispensabile, si è detto, L’enseignement de la peinture. 60 pittura: per ridefinire la rete tra la specificità linguistica dell’opera e l’alterità che la costruisce, per abbandonare definitivamente i territori della presenzialità. (1973) 61 Convergenza sull’antropologia 1. Certo non si esce dal modello della Presenza e dell’Estasi, dall’attacco al mondo e alle sue maglie, dalla conquista di nuovi materiali e di rinnovate sollecitazioni sensoriali e psichiche. Apparentemente, sembra proprio così. ad ascoltare ci si accorge invece come all’interno di questi «due modelli culturali in conflitto», tra Presenza e Assenza, dei meccanismi si inceppano mentre altri, di diverso segno, s’innescano e vanno in moto. Cioè, come il modello della Presenza possa essere minacciato e percorso, nel suo stesso spazio, dall’ombra inquieta dell’Assenza. Per questo ha ragione Natalini: «La linea che divide l’Assenza dalla Presenza si poteva tracciare solo sul muro di museo e poteva dividere solo nomi incisi su piccole lapidi fragili»42. Addirittura, è probabile che questa linea non si possa tracciare neppure sul muro di un museo. Un’ombra può essere appunto questa convergenza sull’antropologia, che si annunzia da molteplici avvisi: una pratica diversificata di architetti e artisti che interrogano margini abbondanti di cultura, zone inesplorate, un paesaggio di oggetti e di tecniche di strumenti e di esercizi, di rituali e di simboli dispersi e decaduti. Che si misurano (ed è il punto difficile ma affascinante) con una cultura altra. E, da questa alterità, sperano rifondare gli stessi loro campi disciplinari, il corpo della pittura e il sistema dell’architettura. La sorpresa viene, come sappiamo, da Kosuth. The artist as anthropologist organizza uno spostamento radicale della direzione teorica dell’arte concettuale, dell’idea che l’arte è analoga a una proposizione analitica «giacché possiede uno statuto simile a quello della logica e della matematica». Adesso, invece, «l’artista come antropologo opera all’interno del contesto socio-culturale… È totalmente immerso ed ha un impatto sociale. Le sue attività danno corpo alla cultura»43. La dimensione antropologica interviene, dunque, a mettere in questione le certezze delle proposizioni analitiche, la lucentezza dell’arte come tautologia, a collegare la concettualità alla prassi, la ragione analitica 42 A. Natalini, Presenza/Assenza in Refrattario, in Assenza/Presenza: un’ipotesi per l’architettura, a cura di F. Irace, Ascoli Piceno 1979, p. 57. 43 J. Kosuth, The artist as anthropologist, cit., p. 26. 63 alla ragione dialettica e al suo fondamento socio-culturale. Diviene un transito per riaffacciarsi sulla «politica dell’esperienza». Ma, mal di là di Kosuth (e del suo esempio), questa volta, si vuole insistere più puntualmente su un’altra occasione che questa convergenza suggerisce: sulla relazione, appunto, tra alcune opere e alcuni nomi che la rassegna rubrica nell’Archivio della Presenza con quei nomi e quelle opere disseminati nei territori delle arti figurative. Penso, da un lato, al Superstudio, a La Pietra, a Dalisi, e sull’altro argine, a Claudio Costa, a Paradiso, a Simonds o ai Poirier (per certe cose), e a pochi altri. E penso a loro non tanto (o forse per niente) per la capacità che mostrano di continuare a costruire manufatti e oggetti con le proprie mani, quanto per il rigore con il quale sfondano i confini della loro disciplina per dare voce e aprire varchi «ai saperi assoggettati». Ripartiamo ancora da Natalini, da una sua recente incursione (sua e del Superstudio o almeno di una parte): una linea che vive sotto la costellazione della didattica e s’indirizza verso la cultura materiale e la storia delle cose. «L’antropologia culturale, la ricerca dell’uomo e le sue produzioni mentali e materiali, i tentativi di modificazione cosciente dell’ambiente e di noi stessi, sono tutte le parti di un processo di educazione permanente che ci coinvolge completamente». Dunque, il paradosso e l’euforia, i falsi sillogismi e l’utopia che avevano caratterizzato l’esperienza dell’architettura radicale lasciano il passo, ora, ad un’indagine sull’origine e sui processi lavorativi di utensili, di oggetti e di luoghi dimenticati, addirittura cancellati. «…Ci interessa mettere in luce l’aspetto primario della progettazione degli attrezzi agricoli dove, dalla zappa alla forma del territorio, ogni oggetto è caratterizzato dal suo valore d’uso, e dove ogni trasformazione si realizza attraverso una conoscenza globale della realtà su cui si opera»44. Giacché, suggerisce La Pietra, «l’oggetto veniva costruito facendo riferimento al suo uso, ai materiali, al significato simbolico e religioso, e alla capacità creativa del suo fabbricatore». Una dimensione riscontrabile anche (o ancora) oggi ai bordi delle grandi città, al fianco delle metropoli dove se ne stanno «gli eredi di quei sapienti manipolatori di materiali…, uomini liberi che operano segnando come unico parametro lo sfruttamento del territorio, 44 A. Natalini, A. Poli, C. Toraldo Di Francia, Viaggio con la matita tra gli artefatti del mondo contadino, in «Modo», 1978, 7, pp.49, 51. 64 che poi sono i rifiuti (accumulati nelle discariche) di una società che si stanca troppo presto degli oggetti che fabbrica». Ed ancora (ma su un registro forse un po’diverso) vorrei ricordare l’esperienza di Riccardo Dalisi e di Costa, di Antonio Paradiso che, demartinianamente, si volge a «testimoniare» il dramma dei tarantati, il loro dolore senza fine e la loro teatralità. Ma stavo dicendo del lavoro di Dalisi a Camastro Alto Sauro, una comunità montana disseminata tra le alture della Lucania, e di Costa a Montegrifo, sulle colline di Genova. Un esempio, questo di Dalisi, destinato, mi pare, ad ampliare gli spazzi della sua stessa ricerca verso un progetto che investe non soltanto momenti privilegiati, l’infanzia o la vecchiaia, ma un’intera fascia di umanità, portatrice di un sistema di tecniche ancora vive e operante. L’attenzione si sposta, allora, con decisione sulla storia delle cose e sul sistema delle tecniche. Un movimento, questo, attivo anche in Costa fino a sollecitare e motivare quel lento, caparbio, lavoro di selezione e schedatura di materiali e di oggetti, ti utensili. Tanto da animargli l’idea affascinante (ma anche rischiosa) di un museo45. Una lunga, interminabile, scansione di cose e di latitudini di tecniche collegata a modi di produzioni e di vita ormai dimenticati e travolti, una temporalità diversa e una zona di storia sommersa vengono, dunque, fatte emergere e vagliate, analizzate e (se è possibile) riutilizzate per tornare a visitare le specifiche pratiche artistiche. Ecco perché di questa insistita convergenza antropologica mi interessa solamente la riflessione sul sapere rimosso, questo sconfinato campo, rovescio silenzioso della cultura egemone e, insieme, fondamento inaccessibile di qualunque sapere non totalitario. Ombra che minaccia, all’infinito, il lucido modello della Presenza e fa che la barra, Assenza/Presenza, non possa essere mai segnata né tracciata. 2. Ma ritorniamo a Dalisi e, partendo dai monti della Lucania, cerchiamo di graffiare nel fondo del suo discorso la trama teorica che lo sostiene: la 45 R. Dalisi, L’artigiano è un ready made, in «Modo», 1978, 8. «Al centro della Basilicata la comunità montana di Camastra Alto Sauro…(è) una zona fra le più intatte di tutta la penisola: è una occasione importante per una sperimentazione sull’artigianato che investe sia i piani culturali sia le forma del lavoro» (p.53). A. Caminati, C. Costa, Montegrifo. Museo di antropologia (sezione Arte Moderna), settembre 1975 (ciclostilato). Interessante il contributo di A. M. Cirese, Oggetti, segni, musei, Torino 1977 (specialmente la parte seconda). 65 critica allo strutturalismo che fa delle costanti e delle invarianti la stella che guida alla comprensione del sapere. «L’uomo non può conoscere se stesso se non proiettandosi nella città, così il fanciullo non si svilupperà in maniera integrata, superando ogni forma educativa di tipo intellettualistico, se non abituandosi a sentirsi come facente parte dell’intera dinamica della città». Ogni progetto pedagogico serio ha, dunque, come orizzonte la città, giacché lo spazio urbano è un sistema di comunicazione, un’inesauribile sorgente di informazioni e di figuralità da decifrare. la socialità, l’erotismo (come suggerisce Barthes), sono la linea che l’attraversa e la segna, la marca. l’esperienza progettuale è, così, un lavoro che nasce come riflessione sulla città, come scrittura che ritesse, nuovamente, la maglia urbana: uno spazio che non è soltanto fisico, pura dimensione geografica, ma latitudine sociale e itinerario del desiderio. Riflessione sulla città e lavoro pedagogico costituiscono, fin dall’avvio, i transiti della ricerca di Riccardo Dalisi. La scuola, l’università, almeno dal 1964, sono infatti l’asse di questo discorso: della relazione scuola/ società (città, voglio dire). I progetti per la scuola media di Bologna (’64) e per la facoltà di scienze e farmacia all’università di Messina (1966) sono, senz’altro, momenti decisivi. e quando, nel ’67, Dalisi, in modo più disteso, torna a proporre la questione non ci sono più dubbi né incertezze. «In un certo senso possiamo definire come facente parte della scuola quell’elemento urbano, quell’insieme di relazioni, di fatti, di comunicazioni visive che si recepiscono, nell’insieme dei legami percettivi tra la scuola, in quanto spazio fisico-educativo, ed il complesso delle immagini, dall’intorno più o meno immediato, fino agli spazi che caratterizzano l’ambiente familiare dell’allievo»46. La dialettica scuola/ città è evidente. La scuola non è un semplice attrezzo della città, un servizio e una funzione (più o meno specializzata), non è un luogo dove si imbandisce il banchetto della cultura egemone. La scuola è radicalmente scena urbana. Allora diviene chiara, per esempio, la polemica di Dalisi sulla scelta carismatica del topos, sull’incondizionato «valore strategico della localizzazione», sulla stessa mitizzazione di spazi privilegiati, il centro 46 R. Dalisi, Forma (intervallo) Spazio, Napoli 1967, pp. 57, 64. 66 storico (dopo Urbino). La questione non riguarda la relazione dentro/fuori la città: in gioco è l’intersezione università/città. Infatti «l’intersezione è assai più di un rapporto diretto e non è integrazione che comporta un’assimilazione ed assorbimento. Essa è compresenza di due o più entità eterogenee di cui ognuna tende a modificare sostanzialmente l’altra pur mantenendo la propria individualità. Essa crea un terzo elemento (il punto di intersezione). Sono dunque in ballo unità ed eterogeneità, una tensione a modificare ed un termine di passaggio». Dalisi gioca sull’eterogeneo, sulla differenza piuttosto che sull’identità e l’assimilazione, sulla tensione più che sulla quiete, sulla produzione di un terzo elemento che non è l’addizione dell’eterogeneità/unità ma è il momento della diversità che fa esplodere la tentazione della pacificazione. «Quando i sistemi di intersezione diventano complessi e dinamici specie quando uno dei termini tende ad acquistare significato e consistenza attraverso le intersezioni, nascono l’imprevedibilità ed il disordine come elementi strutturanti l’insieme». L’imprevedibilità e il disordine sono, certamente, nozioni che in modo ricorrente frequentano lo spazio teorico e la pratica di Dalisi. Direi da sempre. Ma in questi anni (gli anni Settanta) imprevedibilità, disordine, discontinuo, eterogeneo, divengono strumenti e spie insostituibili di questa manovra, fondano il discorso. È da questa postazione che Dalisi affronta ed interpreta lo strutturalismo (certe pretese formalizzanti dello strutturalismo).È interessante il modo con il quale vengono ribaditi alcuni punti-chiave. Vediamo. Per Riccardo Dalisi il tema capitale non è la ricerca delle invarianti e delle costanti. «Per me le costanti sono soltanto i punti di intersezione di linee di sviluppo, sono in funzione delle varianti e non viceversa… Un segno appare come costante, ma ciò che lo rende vivo è il gioco delle trasformazioni dei significati che gli ruotano intorno». Il rapporto segno/contesto è, perciò, un legame dinamico: «Contesti diversi mutano il significato di qualsiasi segno, è quindi nella diversità e nel dinamismo del contesto che va ricercato il senso del segno»47. Il problema della mutazione, i continui slittamenti del segno, la dialetticità del contesto, i movimenti all’interno (e fuori, soprattutto), la struttura 47 R. Dalisi, L’architettura della imprevedibilità, Urbino 1970, pp. 89, 7, 8. 67 come sistema di trasformazione costituiscono la rete sottesa a questo discorso. È questa consapevolezza che consente a Dalisi di scansare il rischio di ridisegnare la città, il territorio o porzione, isole, della città a tavolino, sul foglio. O di denegare la disciplina (perché logorata) traducendola in momento animativo ed evento teatrale, in esperienza comportamentale. Certo, anche per Dalisi la disciplina, lo strumento antico, subisce scosse e turbamenti violenti, viene sospinta lungo gli argini dell’animazione e dell’analisi del vissuto. ma una distinzione s’impone. La precisazione che la ricerca di Dalisi sceglie immediatamente come ruolo d’intervento un contesto storico-sociale, una configurazione urbana, ben caratterizzati: il quartiere Traiano, a Napoli, un’area larga d’emarginazione del sottoproletariato, una zona precisa di subcultura. L’analisi investe, allora, uno spaccato puntuale della città (per composizione di classe e per sfruttamento) e il rapporto inevitabile che quest’isola ha con il resto dell’area metropolitana. Dalisi non propone una riscrittura del Traiano e delle sue connessioni con la città su carta, non ci offre una salvazione utopica di questa condizione di espropriazione culturale e politica. Ci propone, invece, un’indagine che mira a sconvolgere dall’interno la logica dell’emarginazione e della violenza attraverso un lavoro che coinvolge direttamente i bambini, i vecchi, la gente che abita questo lazzaretto. Cioè, attraverso una lenta ma continua presa di coscienza del degrado morale e politico (urbano, direbbe semplicemente Lefebvre) al quale una spietata gestione della città li ha ridotti. Il Traiano, nella zona flegrea, ideato da una quarantina di architetti, diviene in breve tempo (e non senza ragioni) un ghetto di 50.000 abitanti. Anzi bisognerà aggiungere che già nel disegno iniziale viene pensato come un dormitorio: infatti non viene dotato né di attrezzature né di servizi e neppure ci si preoccupa di collegarlo in qualche maniera al resto del tessuto urbano. siamo alla fine degli anni ’60. L’intervento di Dalisi (e del suo gruppo, formato prevalentemente dagli studenti della facoltà di architettura)è degli anni Settanta. E si svolge a diversi livelli: ma, fin dall’avvio, l’azione è rivolta ai bambini, al loro vissuto, alla loro creatività. «A paragone dello stato generale di incertezze e di crisi della cultura ufficiale, la subcultura del sottoproletariato sembra invece provvista di una sua continuità e di un suo senso. Specie dove 68 trapela nella sua genuinità, cioè nei fanciulli e nei ragazzi, essa appare fertile e autentica; ha molto da insegnare (come ha molto da insegnare la cultura dei primitivi). È letteralmente sorprendente la vivezza e la complessità dell’immaginazione sottoproletaria-infantile»48. Dalle prime battute, dunque, l’architettura d’animazione praticata da Dalisi è analisi del vissuto e delle potenzialità creative (represse dalla cultura alta), è analisi di classe. Ed è, al tempo stesso, un modo di ribaltare l’esperienza del fare architettura. Questa pratica colpisce,m infatti, alla radice la disciplina come strumento di configurazione urbana disceso dal cielo della specializzazione, dal capitale e dalla burocrazia dei partiti che ne esprime la violenza. L’architettura di animazione è architettura di partecipazione, in prima istanza: esprime l’esigenza di una crescita dell’urbano sollecitata dal basso, dai bisogni e dai desideri degli emarginati, dall’orizzonte del proletariato. Dalisi capisce con estrema lucidità che è qui, nella fascia larga della cultura del proletariato e del sottoproletariato, che si determina il destino della città, in suo uso differente, la sua riappropriazione. Dal Traiano a Ponticelli, altra area della sofferenza napoletana, a Pozzuoli, al centro storico di Salerno o alla subcultura di Mariconda (un altro suburbio salernitano) il lavoro di Riccardo Dalisi, in questi anni, si è arricchito di nuovi umori. Soprattutto ha fatto l’esperienza, a Ponticelli, di un’altra situazione di espropriazione, quello dei vecchi. I bambini e i vecchi, si sa, sono banditi dalla città del capitale perché forze improduttive. L’incontro con questa realtà è assai stimolante: ben presto, opportunatamente coinvolti, i vecchi di Ponticelli hanno intrapreso una fruttuosa anamnesis, un ritorno alle loro origini, alla loro memoria storica. Alla storia del quartiere, agli avvenimenti di cui sono stati protagonisti (la guerra, la carestia, la miseria e il malgoverno), ai rapporti interpersonali, all’esigenza di capire un po’di più. Alcuni di loro hanno, poi, continuato il discorso adoperando altre forme di comunicazione: alla parola (ellittica, stentata ma ricca, provocatoria e ironica) si è affiancato il linguaggio plastico. Il modellare ( una forma artigianale, dunque) diviene presto espressione privilegiata. E il modellato si popola di figure che rinviano alle tradizioni popolari, a momenti scomparsi o rimossi, a una lontananza che si tende ad archiviare o a consegnare ai canali del 48 R. Dalisi, Architettura d’animazione, Assisi-Roma 1975, pp. 50-52. 69 mercato, al consumo. Le indicazioni offerte, questi esempi, credo che bastino a segnalare il cammino di Riccardo Dalisi, il suo progetto. Per il nostro sguardo è opportuno sottolineare, invece, due o tre cose: cose che attengono alla questione stessa della pratica dell’architettura e alla teoria. Avverte Mendini che «Riccardo Dalisi sta nello spazio intermedio fra coinvolgimento creativo e radicalismo utopico, in una sorta di ideologia della partecipazione attraverso la forma, specialmente chiara nel suo atto più profondo e maturo, che a tutt’oggi rimane il Traiano»49. Il nodo è appunto questo: cercare d’intendere il senso da attribuire alla forma, al rapporto tra partecipazione e forma, animazione e drammaturgia (anche inconscia, perché no?), creatività e linguaggio, tra evento e progettualità che quell’accadimento teatralizza. Dalisi è abbastanza esplicito. «La tecnica povera contesta la sottrazione progressiva ed ineluttabile della partecipazione attiva dell’uomo alla modellazione, alla costruzione dei propri progetti, del proprio spazio». La tecnica povera, il linguaggio dell’architettura secondo Dalisi, non si schiera sul fronte delle poetiche che sfruttano la povertà per ricostruire oggetti, manufatti, abitazioni. È un linguaggio che non santifica l’artigianato (o si dà come artigianato, ancora peggio), né ha in odio la tecnologia in una rinnovata estasi pauperistica e francescana. «La tecnica povera, nel rieducare gli strumenti sensoriali e percettivi, vuole rifondare la ricerca tecnica e scientifica; presuppone un rinnovamento del senso e del ruolo della scienza»: della scienza dell’architettura, prima di tutto. E, subito dopo, Dalisi aggiunge (e vale la pena di riportare per intero il passaggio) che la «tecnica povera richiama il problema della partecipazione, anzi ne costituisce un capitolo fondamentale. Se nel futuro la gamma delle esperienze che la tecnica dovrà alimentare, non comprenderà in un’unica dinamica anche l’elaborazione e l’ideazione dei non tecnici, non si potrà parlare di partecipazione. La tecnica povera è in stato di rivolta sotterranea (e in futuro lo sarà apertamente), non per soppiantare e distruggere, bensì per allargare e recuperare la sfera della creatività nel lavoro e nella produttività. Rivendica quindi un mutamento 49 A. Mendini, Dalisi e l’imprevedibilità, in Architettura d’animazione, cit., p. 14. 70 strutturale dei rapporti di produzione e di gestione»50. Il senso e il ruolo della scienza dell’architettura viene ridefinito, dunque, dal basso, come momento di partecipazione e di gestione (anzitutto), del processo produttivo, del piano. Della città, in una parola. Da quest’ottica appare evidente, adesso, ed acquista forza e incisività la critica allo strutturalismo delle costanti e delle invarianti. Mentre si precisano meglio le nozioni di disordine e di mutazione, di segno e di contesto (e la loro relazione plurale), l’idea di eterogeneità. L’esperienza di Dalisi si colloca, così, in bilico, sulla soglia dell’architettura e della sua denegazione, della progettualità e della pratica animativa. Dalisi è però consapevole che l’identificazione dell’architettura con la pratica sociale è ormai un frutto che va problematizzato secondo la critica dell’immediatezza per ristabilire, in modo altrettanto problematico, il disegno della distanza e della lucidità, del raffreddamento tra vissuto e arte, fra animazione e architettura. È questa lucidità, che, attraversando l’intero progetto, mette in questione non soltanto (come si è detto) l’idea utopica del contro piano, della città ideale, della città effimera, ma anche l’altra, giocata, immediatamente, sull’animazione e la partecipazione, sulla ricchezza del vissuto e sull’ascolto politico. L’ipotesi è, dunque, un scienza dell’architettura che fondi il proprio linguaggio, eterogeneo, discontinuo e plurale, dal basso, dalla (e con la) partecipazione di una cultura altra, emarginata e sfruttata, espropriata. E non è un’ipotesi da poco. (1976/1979) 50 R. Dalisi, op. cit., pp. 49,54. 71 Intermezzo Mukařovský, il legame obliquo 1. Il ritardo con il quale sono state presentate alcune figure della cultura cecoslovacca è, senz’altro, all’origine di incomprensioni, incertezze e delusioni: Mukařovský, Teige, sono giunti da noi troppo tardi. E Kalivoda, che per certi versi, è l’interprete più sensibile dello strutturalismo ceco ( ed appassionato esegeta di Mukařovský), ha finito per creare molta confusione. Eppure voleva mettere ordine51. Mukařovský (ed è questa, senza dubbio, una ricchezza) vive, all’incrocio di molteplici esigenze, è il luogo di convergenza di interessi differenti, e, al tempo stesso campo dal quale è possibile compiere altre incursioni e sorprendenti sortite. Il formalismo russo, la lezione delle Tesi (Mukařovský è uno dei redattori), i rapporti con la fenomenologia e il sospetto fenomenologico, l’ipotesi strutturalistica, il cammino verso la semiotica dell’arte e, infine (o in principio), il bisogno di trovare legami sempre più stetti con il marxismo sono i punti fondamentali della sua esperienza. Una rete così aperta e complessa lascia, certamente, spazio a dubbi e a perplessità: in verità, sembra che la teoria dell’arte mukařovskýana sia fatta a posta per confezionare un prodotto ambiguo. Infatti si affaccia subito lo spettro strutturalismo/marxismo insieme a quest’altro fantasma non meno minaccioso: la questione della costanza antropologica, dell’estetica come fondo antropologico. I problemi, messi in fila, sono seri e decisivi. Perciò un punto di vista corretto, il più corretto possibile, è quello che cercherà di ridurre (se non di cancellare) il ritardo con il quale ci è stato restituito. È, dunque, l’unico modo per evitare interventi selvaggi, in altalena tra il furore di chi dice che Mukařovský ha risolto tutti problemi e l’astio di chi non esita a 51 J. Mukařovský, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, trad. it., introd. di S. Corduas, Torino 1971. Nel ’73 venivano pubblicati, sempre da Einaudi, i fondamentali Studie z estetiky con il titolo Il significato dell’estetica che comprende, oltre La funzione, un consistente numero di saggi sulla semiotica delle arti. Non c’è dubbio che avere presentato Il significato dell’estetica, nel ’71, mutilato dall’apporto semiotico ha contribuito a deformare l’immagine teorica di Mukařovský. K. Teige, Il mercato dell’arte, trad. it., a cura di G. Pacini, Torino 1973. Solo quest’anno Sergio Corduas ha curato per Einaudi due volumi di saggi di Teige, Arte e ideologia. 1922-1933 e Surrealismo Realismo socialista Irrealismo. 1934-1951. R. Kalivoda, La realtà spirituale moderna e il marxismo, trad. it., a cura di S. Corduas, Torino 1971. 75 sospingerlo tra i parenti di Croce e dell’idealismo. 2. Due sono, quindi, i movimenti che occorre compiere: anzitutto collocare la figura teorica di Mukařovský nella sua storia. Poi, per quel che riguarda i rapporti con la nostra cultura, insistere su qualche circostanza decisiva. Per esempio sul fatto che, negli anni (subito dopo il ’70) nei quali è stato tradotto, è attiva la proposta dell’utopia e dell’estetico, della profezia di una società estetica. Soltanto all’interno di questa maglia si può comprendere l’elogio di Mukařovský scritto da Barilli: un arrivo che viene salutato, appunto, come un’altra conferma della rivincita dell’estetica. Una linea che, muovendo da Baumgarten, tocca Schiller e Kant, si rafforza con Ruskin e Morris, viene rilanciata da Dewey e, in altro contesto proprio da Mukařovský. «La completa indipendenza dei due percorsi (di quello di Dewey e di Mukařovský) sta ad attestare l’inevitabilità di certi traguardi culturali, la necessità di rispondere con risposte analoghe (meglio: omologhe) a situazioni culturali corrispondenti, anche se tali risposte vengono redatte giovandosi di materiali tra loro diversi, a seconda degli influssi che hanno agito su ciascuno dei due autori»52. Naturalmente, non si può dimenticare che il rilancio dell’estetico viene organizzato all’ombra di Eros and Civilization. Tuttavia, non va trascurata neppure l’istanza semiotica: il lavoro attento di rianalisi, sul piano teorico e critico, degli esiti della linguistica e delle teorie dell’arte che, esplicitamente, pongono il problema dell’opera e della sua costituzione (fabbricazione, insistevano i formalisti russi). il problema è di non ridurre l’opera alla sua presenzialità, alla latitudine orizzontale del suo intrico segnico, di spingere l’opera, senza rinunziare al livello della favola e delle figure, dei tropi e dei passaggi retorici, verso un’alterità costitutiva. Quest’immagine, che certamente coesiste accanto all’altra, assume, come è facilmente comprensibile, un valore e un ruolo decisivi. Basti pensare al denso saggio del ’36, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali. Ora, si tratta di decidere se privilegiare l’intestazione o rivolgersi al sottotitolo, non meno significativo, che lavora i rapporti tra semiologia e sociologia dell’arte. In verità, dal punto di osservazione di chi scrive 52 R. Barilli, La rivincita dell’estetica, in «Marcatre», 61-62, nn.6-7, p. 64. 76 alcuni anni dopo la ripresa dell’estetico e la sua caduta, il problema non è tanto quello di scartare come inutilizzabile il tema dell’estetico, quanto di sottolineare alcune minacce e qualche impossibilità. Quanto di insistere sulla rottura dell’opera come sistema chiuso, struttura che si autodefinisce: una rottura che spinge la teoria dell’arte a fare l’ipotesi che il livello semiotico è un piano che vive, dialetticamente in bilico, sul versante di una realtà altra che lo costituisce. Vedremo, comunque, fin dove anche questa lettura di Mukařovský potrà condurci. 3. La ripresa del discorso non può che individuare il significato che assumono la funzione, il valore e la norma estetica. Bisognerà avvertire, immediatamente, che Mukařovský si muove in una geografia dichiaratamente antimetafisica. La funzione estetica, la norma, il valore sono fatti sociali. Così come è opportuno tenere conto che «la funzione estetica ha un campo d’azione più vasto della sola arte», anche se «nell’arte la funzione estetica è la funzione dominante»53. Scartare l’equazione funzione estetica/arte significa, evidentemente, tenere distinti i due campi: il discorso sulla totalità dell’umano in quanto nesso di funzioni e il discorso sull’arte come produzione che privilegia la funzione estetica (ma non nega le altre). Mukařovský, quindi, prende subito distanza sia dall’estetica metafisica sia dalle concezioni panestetistiche dell’arte. La funzione estetica è in rapporto con la vita e il sociale, è soggetta alle variazioni storiche, ai suoi mutamenti, alle impennate come alle cadute, è, a secondo dei livelli di operazione, in relazione dialettica con le altre funzioni. Mukařovský delinea, così, con grande rigore una sociologia dell’estetico: «La stessa arte, per quanto il predominio della funzione estetica e l’autonomia che gliene deriva la isolino in misura considerevole dalla realtà e la escludano da un rapporto attivo diretto con le forme e tendenze della convivenza sociale... presenta una serie di complessi problemi sociologici. Tanto più dunque la sfera estetica extra-artistica, alla quale qui è volta in primo luogo la nostra attenzione, si inserisce nel sistema complessivo della morfologia sociale e partecipa degli avvenimenti 53 J. Mukařovský, Il significato dell’estetica, cit., pp. 5, 10. 77 sociali»54. Dove va sottolineato che la nozione di isolamento non significa, per l’arte, l’abbandono dell’esperienza, ma indica, precisamente, l’impossibilità per qualsiasi produzione di eludere la dimensione sociale, i fatti sociali. Un’altra citazione ancora più esplicita dice: «La funzione estetica ha un posto importante nella vita dei singoli e dell’intera società». Ma la funzione estetica (lo ricordiamo) non è l’unica funzione né tutte le altre le sono subordinate o gerarchizzate. Mukařovský vuole soltanto precisare, magari con forza, che il confine tra funzione estetica e funzioni extraestetiche è meno sensibile e marcato di quanto non si creda. Che, al contrario, vi è un «continuo rapporto dinamico» tra le funzioni che costituiscono l’esperienza umana: un movimento dinamico che si configura come «antinomia dialettica»55. Il progetto mukařovskýano assume, a questo punto, un volto più preciso. La funzione estetica, per un verso, si correla alle altre funzioni e, per altre cose, a secondo del ruolo e della specificità che gioca nella formazione delle singole operazioni, fa da ponte tra l’arte e i fenomeni estetici. Una duplicità d’intervento che mette in crisi, come sappiamo, le tentazioni della metafisica e, al tempo stesso, revoca in dubbio la superiorità dell’arte rispetto ai fenomeni estetici. Del resto se si tiene conto che la distinzione tra arti maggiori e arti minori ha trovato la propria legalizzazione nella vertigine metafisica (l’arte come espressione del Bello, della Verità o dello Spirito), si capisce come sia efficace questa mossa. La leggenda dell’estetico, il carattere dinamico e dialettico della funzione estetica, la sua variabilità e mutabilità, l’apertura dell’opera verso il mondo e il sociale sono, certamente, i motivi affiorati fino ad ora. Del resto l’intenzione di Mukařovský è quella di fondare sociologicamente l’intero progetto, come sappiamo. Infatti, come la funzione estetica è immersa nei fatti sociali così anche la norma e il valore devono essere inscritti nell’ordine del reale e del mondano. E non c’è dubbio che l’assunzione di queste due nozioni (la norma e il valore), che nel corso del loro incedere hanno subito una continua violenza metafisica, sottolinea la volontà teorica di colpire le concezioni metastoriche dell’arte proprio nei punti 54 J. Mukařovský, op. cit., p. 20. 55 J. Mukařovský, op. cit., pp. 5, 8. 78 più esposti, nei transiti consacrati. La dichiarazione giunge puntuale a suggerire che «la norma estetica, regolatrice della funzione estetica, non è una regola immutabile ma un processo complesso e continuamente rinnovantesi»56. L’idea della norma come processo, come perpetuo rinnovamento e continua mutazione, come movimento, la svuota sia della pretesa di valere come dogma o paradigma, come verità e regola assoluta, sia anche come canone aureo: la distanzia, dunque, dalla metafisica come dalla normatività del classicismo. La funzione estetica è energia (energheia e non ergon), movimento, così, parimenti, la norma, tradizionalmente paradigma o canone, diviene processo, attività, tensione, mediazione. «Non soltanto la norma può essere violata ma è anche pensabile il caso di due o più norme applicabili allo stesso caso concreto e che misurino lo stesso valore. La norma si fonda dunque sull’antinomia dialettica fondamentale tra una validità senza eccezioni e una potenza soltanto regolativa o addirittura semplicemente orientativa che implica la pensabilità della sua violazione». L’opera, per progetto, ci insegna Mukařovský, si struttura come dialettica norma/ violazione della norma: «Esaminata dal punto di vista della norma estetica, la storia dell’arte appare come la storia delle rivolte contro la norma (le norme) dominante»57. La norma non è, dunque, un principio immutabile, un emblema valido per la misurazione di tutte le esperienze dell’arte. È variabile nel tempo («Ogni norma muta già per il solo fatto di venir sempre nuovamente applicata e di doversi adattare ai nuovi compiti che la prassi le assegna»). Le stesse norme lessicali, grammaticali, anche se con più lentezza, sono soggette alla mutazione («Grazie allo scopo pratico della lingua e al fatto che nella sua normale funzione (comunicazione) la lingua tende alla creazione, le norme linguistiche sono molto più salde di quelle estetiche; pur tuttavia, mutano anch’esse»). Come mutano le norme giuridiche, che sono misure ancora più salde e certe. Mukařovský compie anche un altro passo: si sforza (lui avverte che ricorre a uno «schema grezzo») di relazionare la norma, anzi le norme, ai diversi strati sociali. «Si affaccia insinuante l’ipotesi che la gerarchia dei canoni estetici sia in diretta 56 J. Mukařovský, op. cit., p. 19. 57 J. Mukařovský, op. cit., pp. 25, 31. 79 relazione con quella dei diversi strati sociali: la norma più giovane, che occupa la sommità, sembra corrispondere allo strato più alto della società; a strati socialmente più bassi corrisponderebbero poi canoni sempre meno giovani»58. Il passaggio di generazioni, la dinamica dei gruppi, le promozioni sociali, sono, tutti, motivi da tenere presenti. C’è da dire (e Mukařovský lo ha detto) che questo schema è assai approssimato, grezzo: averlo dichiarato non lo assolve, si capisce. Uno schema simile è talmente generico da suscitare non pochi sospetti: il più serio è che il rapporto non può essere tra strati sociali ma fra classi. Da questo sguardo l’estetica materialistica di Mukařovský (il nesso strutturalismo/materialismo, tanto decantato da Kalivoda) risulta deludente, fragile, incerto. Non ci sono dubbi, allora, sulla variabilità della norma estetica, sul suo destino dinamico e antidogmatico. Le perplessità aumentano, invece, a proposito della fondazione sociologica. La relazione tra funzione estetica, norma sociale, gli strati sociali, è una relazione francamente assai generalizzante. Così come precaria è la stessa nozione di fatti sociali invocata fin dal titolo. La norma è, naturalmente, strettamente collegata al valore estetico: su quest’ultimo raccordo si fonda la concezione noetico-filosofica dell’estetica. Il collegamento norma/valore ci porta ad una svolta, inevitabilmente, soprattutto se si pensa agli esiti e alle riprese recenti. Cominciamo con una citazione. «Anche il valore estetico... il cui campo d’azione è specialmente l’arte, nella quale la norma estetica viene piuttosto violata che osservata, appartiene per sua natura all’ambito dei fenomeni sociali. Non soltanto la variabilità della valutazione estetica attuale ma anche la stabilità del valore estetico obiettivo deve essere desunta dal rapporto tra l’arte e la società»59. Il valore estetico, dunque, non è un valore alto, a statuto metafisico, ma per sua natura appartiene alla dimensione sociale. Non ha, perciò, una stabilità definita per tutte le volte né una consistenza universale: è variabile, soggetto a cadute e a modificazioni, ad accidentalità. Non è una grandezza costante. Mukařovský si adopera, in ogni modo, ad approntare un sistema di appoggi per dimostrare la mutabilità del valore estetico. Appronta, 58 J. Mukařovský, op. cit., pp. 29, 40. 59 J. Mukařovský, op. cit., p. 79. 80 infatti, un organigramma di situazioni, attraverso le quali, analizzando i materiali, le intenzioni, le mosse, si dimostri che il valore estetico «è determinato da un lato dallo sviluppo immanente della stessa struttura artistica..., dall’altro dal moto e dagli spostamenti della struttura della convivenza sociale»60. Per noi non è tanto interessante criticare questa o quell’analisi (per tanti versi ingenua risulta oggi l’indagine sui materiali utilizzati dagli artisti) quanto richiamare ancora l’attenzione sull’insuccesso sociologico. Certamente è un merito, per Mukařovský, avere sottolineato il legame dialettico che solca il valore estetico e la struttura della convivenza sociale. Tuttavia questo gesto è insufficiente e inadeguato a motivare sociologicamente il valore estetico. Questa insufficienza si lega a uno scarso approfondimento della lezione di Marx, che filtra attraverso mediazioni e referenze indirette. Manca, infatti, in Mukařovský, una riflessione specifica sull’opera di Marx e di Engels, una lettura di prima mano. E questa mancanza ha lasciato segni, evidentemente. Una mancanza attenuata dalla lettura dei Quaderni filosofici di Lenin (tradotti in ceco all’inizio degli anni ‘30), una lettura che lo ha condotto, appunto, a Marx e a Engels. Ma c’è ancora un altro luogo che occorre analizzare con molta pazienza: lo slittamento del valore estetico verso la dimensione antropologica, più precisamente il nesso tra estetico e costituzione antropologica. È una meditazione ulteriore di Mukařovský (del 1939), è la risposta alla domanda se il valore estetico può essere universale. Anche in questa circostanza Mukařovský si guarda dall’affidare il valore estetico a una cifra metafisica, a una fondazione mitica. Il valore estetico è sempre un valore storico, legato alla costituzione antropologica dell’umano. In fondo il punto di partenza è collegato a un sospetto di Marx. «È vero che i cambiamenti del valore estetico che lo storico registra possono apparirgli come la prova della relatività fondamentale di questo valore e che è possibile trovare una giustificazione per qualsiasi opera. Ciò nonostante il suo compito è di tracciare una linea coerente del processo dell’arte e in questo lavoro egli incontra ad ogni passo opere che esercitano ancora un influsso attivo molto tempo dopo che hanno lasciato lo studio dell’artista. 60 J. Mukařovský, op. cit., p. 57. 81 In queste opere il valore universale appare come un fattore potente»61. La lunga citazione vuole sottolineare che il problema dell’universalità del valore nasce dall’esigenza, tutta concreta, di dare conto del fatto che un’opera può essere vitale anche oltre i confini storici che l’hanno prodotta. Perché l’epos è «norma e modello irraggiungibile», si era già chiesto Marx. Ma la risposta marxiana, sostenuta con vigore, tra i primi, da Lukács, è guidata dall’idea che «Marx e Engels hanno scoperto le leggi della società gentilizia e della dissoluzione di essa». Soltanto per questa ragioni, che sono naturalmente ragioni determinate, «l’arte greca, in quanto espressione dell’infanzia normale nell’ambito dell’evoluzione del genere umano, viene ad occupare il suo vero posto storico»62. Che è, ricordiamolo, un posto privilegiato. Ma, a differenza di Hegel, per il quale l’arte greca costituiva la vera arte, anzi l’unica, Marx e Engels, negli abbozzi dei loro discorsi sull’arte, non sono così pessimisti (sono ancora termini lukácsiani) verso l’arte loro contemporanea. Comunque sia, il problema ha, nello stesso pensiero marxiano un precedente che non può essere trascurato. Mukařovský non lo discute: forse la motivazione storica per giustificare l’universalità del valore estetico gli sarebbe sembrata inadeguata. Perfino contenutistica. Il valore estetico universale, pur essendo variabile, non trae la propria universalità dal concreto storico. «La sua variabilità in ritorni sempre rinnovati a una determinata costante, cioè alla costituzione generale dell’uomo». Le indicazioni sulla costanza antropologica dell’uomo sono assai illuminanti, in verità: si precisa, anzitutto, che «la costituzione antropologica in se stessa non ha nulla di estetico; essa è perciò in una tensione qualitativa con le sue realizzazioni estetiche, e ogni realizzazione scopre un nuovo aspetto della costituzione generale dell’uomo». E, subito dopo, si legge che «anche è possibile che il valore estetico universale... possa malgrado la stabilità di questo suo sostrato dare impulsi ai cambiamenti e rivolgimenti nel processo dell’arte»63. La tensione mukařovskýana è rivolta, dunque, a sottolineare come la costanza antropologica non sia una condizione estetica e come l’opera, 61 J. Mukařovský, op. cit., p. 129. 62 G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, trad. it., Milano 1957, p. 143. 63 J. Mukařovský, op. cit., pp. 139, 140. 82 in sostanza, non si riduca alla ripetizione di questo sostrato generale dell’uomo. Il rapporto tra l’opera e il fondo antropologico non è una relazione tautologica, una semplice notizia intorno all’inaccessibilità antropologica dell’umano. Tuttavia, se Mukařovský evita di ridurre l’opera a tautologia (tentativo che del resto non supera la buona volontà) non evita, sicuramente, la trappola del contenutismo. «Il postulato di una norma estetica generale legata alla costituzione antropologica dell’uomo ci appare come un evidente residuo eterogeneo dell’estetica contenutistica metafisica nel sistema della teoria strutturale»64. Il rilievo, corretto, è di Kalivoda. Se, però, la critica di Kalivoda è condividibile, la soluzione avanzata per correggere Mukařovský è francamente peggiore del male. Basterà questa conclusione: «… L’estetico stesso si manifesta appunto come uno specifico valore antropico puro, come una manifestazione estrema della costante antropologica dell’uomo, manifestazione vuota e pertanto anche essenzialmente non di classe»65. Indubbiamente siamo fuori di qualsiasi tentazione contenutistica. Però è altrettanto vero che l’estetico come valore antropico puro, non di classe (anzi «l’estetico è in grado di liberare l’uomo dai suoi limiti di classe»), è un valore metafisico, una credenza mistica addirittura. 4. Il rischio che comporta la costanza antropologica, il fondo antropologico, non è sfuggito a Mukařovský se, nel corso della sua ricerca, ha abbandonato questo concetto per puntare sulla funzione. Lo spostamento non è casuale né immotivato, evidentemente. L’obiettivo è esorcizzare il fantasma della metafisica. Sullo strutturalismo (1946) e soprattutto Sulla concezione cecoslovacca della teoria dell’arte (1947) segnano una svolta in questa direzione. Ora i punti di analisi sono i rapporti tra la struttura e l’holismo, la relazione tra struttura e dialettica, la falsità del legame forma/contenuto, l’insistenza sul nesso arte/lingua, la sottolineatura che l’arte è segno e non espressione, l’attenzione alla semioticità interna dell’opera, il problema della funzione e, infine, l’antica questione arte/società. E, questa volta, il legame arte/società viene avvistato come rapporto arte/classi sociali. Ma, 64 R. Kalivoda, La realtà spirituale moderna e il marxismo, cit., p. 62. 65 R. Kalivoda, op. cit., p. 68. Precisi, a proposito, i rilievi di M. Costa, Teoria e sociologia dell’arte, Napoli 1974, pp. 19, 32. 83 giova dirlo, si tratta soltanto di un accenno. Magari da esibire all’istante: «Il marxismo... ha mostrato che il rapporto tra l’opera e la società è nella sua essenza attivo: l’arte è portatrice della tendenza della società, eventualmente di una parte della società (classe) e partecipa attivamente alla formazione della sua ideologia e alla difesa dei suoi interessi»66. Dove è chiaro che, inevitabilmente, si affaccia anche il tema dell’ideologia. I nuclei da mettere in evidenza sono adesso immediatamente due: l’opera come struttura e l’opera come segno. La configurazione della struttura è, almeno nelle intenzioni, formulata in chiari termini dialettici in aspra polemica con l’holismo che concepisce la struttura come tutto. «Lo strutturalismo invece concepisce l’unità del tutto come dovuta ai rapporti reciproci tra le componenti, e non soltanto ai rapporti positivi (concordanze e accordi) ma anche a quelli negativi (opposizioni e contrasti); perciò il concetto di struttura è in essenziale relazione con il pensiero dialettico». L’indicazione è ancora più rigorosa se colleghiamo la citazione con quest’altro brano: «I rapporti tra le componenti, proprio perché dialettici, non possono dedursi dal tutto; il tutto non è nei loro confronti prius ma posterius e la loro individuazione quindi non è una questione di speculazione astratta ma empirica»67. D’accordo, senz’altro, sulla nozione di struttura come sistema di relazioni, si dissente, invece,. E proprio per l’invocato carattere dialettico delle relazioni che la costituiscono, sulla sua empiricità. La struttura, certamente, non è un prius rispetto alle relazioni che la costituiscono, ma non può essere neanche un posterius. Perché se fosse così sarebbe il risultato di una somma, di un’addizione. Se, dunque, Mukařovský sfugge alla trappola della Struttura/Tutto non sfugge, però, alla suggestione della Struttura/Addizione: le due facce, in conclusione, della stessa svista. La svista dell’adialetticità della struttura. La dialetticità della struttura è, tuttavia, affermata e inseguita da Mukařovský marcandone il movimento incessante e il cambiamento («L’equilibrio interno tra le componenti è continuamente spezzato e ricostruito e l’unità della struttura ci appare come un equilibrio di energie»), al punto da dire che «ad ogni attimo la struttura è e non è la 66 J. Mukařovský, op. cit., p. 214. 67 J. Mukařovský, op. cit., p. 206. 84 stessa». Mukařovský si sforza, così, di non imprigionarla nella propria configurazione(«La chiusura della struttura (è) soltanto relativa», avverte). Non solo. Ma tenta anche di collegarla agli «impulsi evolutivi esterni». Tanto da dire, riferendosi alla creazione artistica, che la «struttura non è soltanto la composizione interna dell’opera... ma anche e prima di tutto la tradizione viva di una data arte»68. Indicazione importante che rinvia a una significativa acquisizione di Šklovskij. «Come regola generale aggiungo: un’opera d’arte viene percepita sullo sfondo di altre opere d’arte in relazione ad esse. La forma di un’opera d’arte viene determinata dal suo rapporto con le altre forme che l’hanno preceduta»69. Il saggio di Šklovskij, Rapporti tra gli artifici della costruzione della trama e i comuni artifici stilistici del ’19, segna, come ragionevolmente suggerisce Ejchenbaum, il «passaggio dalla poetica alla storia letteraria»70. Per ritornare a Mukařovský, dopo il richiamo a Šklovskij, va registrato ancora un altro spostamento: la sottolineatura della «natura sovra individuale, sociale» della struttura, appunto. Mossa che fa slittare il progetto dalla struttura come sistema di relazione dialettica tra gli elementi che la costituiscono a una dimensione che, rompendo il proprio limite, si apre al sociale e al collettivo. In quest’orizzonte si colloca, allora, l’affermazione che «l’essenza principale dell’arte… non è l’opera d’arte individuale ma l’insieme delle consuetudini e delle norme… La singola opera d’arte sta a questa struttura sopraindividuale come la manifestazione linguistica individuale sta al sistema linguistico, che anch’esso è proprietà di tutti e oltrepassa colui che in un dato momento fa uso della lingua»71. Con questo nuovo rapporto (la relazione opera d’arte/sistema linguistico) Mukařovský pone, in maniera assai fruttuosa, la questione dell’opera come struttura linguistica. Questa consapevolezza non è nuova, in verità. Mukařovský l’ha formulata, per la prima volta, nel ’34, L’arte come fatto semiologico: uno scritto nel quale viene ripreso il complesso discorso dei formalisti russi reinterpretato all’ombra delle Tesi. Il collegamento, quindi, con questo saggio, precoce, è inevitabile. 68 J. Mukařovský, op. cit., pp. 207-208. 69 V. Šklovskij, Una teoria della prosa, trad. it., Bari 1966, pp. 40-41. 70 B. Ejchenbaum, Il giovane Tolstoi. La teoria del metodo formale, trad. it., Bari 1968, p. 159. 71 J. Mukařovský, op. cit., p. 208. 85 In apertura di discorso Mukařovský delinea con chiarezza il suo punto di vista. «La scienza dei segni (semiologia di Saussure, sematologia per Bühler) deve essere elaborata in tutta la sua ampiezza: come la linguistica contemporanea (cfr. le ricerche della scuola di Praga cioè del Circolo Linguistico di Praga) amplia il campo della semantica studiando da questo punto di vista tutti gli elementi del sistema linguistico, non escluso i suoni, così risultati della semantica linguistica devono essere applicati a tutte le altre serie di segni ed essere distinti secondo i loro caratteri specifici»72. È indicata, appunto, la necessità di una semiotica dell’arte: manovra che, secondo l’insegnamento dei formalisti e dello strutturalismo, significa liquidazione di tutte quelle teorie che riconducono l’opera allo stato d’animo dell’autore e alla psicologia dei personaggi, alla fruizione del lettore e dello spettatore, alla genesi socio-politica. Sono gli anni, questi dopo il ’30, che, tramontate le esperienze dell’avanguardia, in Russia, si affacciano prepotentemente sulla scena le idee e i precetti zdanoviani. L’oggetto artistico come oggetto semiotico, si è detto, non si esaurisce nell’articolazione interna dei suoi elementi, i quali, mobili quanto si voglia, sono inevitabilmente giocati nel recinto della struttura. «L’opera d’arte è un segno autonomo, caratterizzato soltanto dal fatto di mediare tra i membri di una comunità», continuo a dire Mukařovský. Dove, innanzitutto, è da chiarire il senso, da attribuire all’autonomia del segno e, poi, la sua caratterizzazione (quella di consentire la mediazione con il sociale). Mukařovský, come si è accennato, riprende alcune nozioni saussuriane: anzitutto l’indicazione capitale del segno come rapporto significate/significato. Vediamo come avviene lo spostamento dei concetti saussuriani dal livello specifico della teoria della lingua alla teoria dell’arte. «L’opera-cosa…non funziona che come simbolo esteriore (il significane nella terminologia di Saussure) al quale corrisponde nella coscienza collettiva un significato (che a volte chiamiamo “oggetto estetico”) dato da ciò che hanno in comune gli stati di coscienza soggettivi stimolati nei membri di un dato collettivo dell’opera-cosa». Il rapporto tra significante e significato, tra opera-cosa e oggetto-estetico è una relazione obliqua, è un rapporto indiretto. «Dalla natura semiologica dell’opera discende che non si deve mai usare un’opera d’arte come 72 J. Mukařovský, op. cit., p. 141. 86 documento storico e sociologico»73 . In questo senso (e soltanto così) si deve intendere l’autonomia del segno: nel senso che il “qualcosa” a cui si riferisce, il significato, non è univocamente determinato. Il segno, in altri termini, non coincide con il significato né l’opera, perciò, può mai essere il rispecchiamento, il riflesso, della realtà. Mukařovský, ricollegandosi, appunto, alla tradizione saussuriana e alla tematizzazione linguistica della scuola di Praga, rifiuta con energia la teoria dell’arte come riflesso e come rispecchiamento. Non c’è dubbio che la proposta prende l’avvio, tra l’altro, da quel celebre punto, il quinto, del paragrafo Sulla lingua poetica delle Tesi, dove si dice senza tentennamenti che «il principio (nel testo: indice) organizzatore dell’arte, in funzione del quale essa si distingue dalle altre strutture semiologiche, è che l’intenzione viene diretta non sul significato ma sul segno stesso…Il segno è una componente dominante in un sistema artistico»74. L’autonomia del segno, invocata da Mukařovský, apre dunque alla riconsiderazione dell’opera come oggetto semiotico, come indagine sulla struttura linguistica che la costituisce: un oggetto che, comunque, non si riduce alla propria interna semioticità ma che si ribalta costantemente all’esterno verso il significato o oggetto estetico. Soltanto il segno che è l’opera non combacia con il significato, con l’oggetto estetico depositato nella coscienza collettiva, nella rete dei gruppi sociali e delle classi. L’operazione di Mukařovský non si ferma, in vero, neanche a questa considerazione teorica. Si spinge, nell’intenzione di chiarire al massimo la natura dell’opera come segno, ad un’ulteriore distinzione: la distinzione tra segno autonomo e segno comunicativo. Ormai sappiamo come intendere il segno autonomo. Il segno comunicativo si definisce proprio in opposizione al segno autonomo. «Un’opera poetica con funziona soltanto come opera d’arte ma contemporaneamente come “parola” che esprime un dato stato d’animo, un pensiero, un’emozione, ecc.»75. 73 J. Mukařovský, op. cit., pp. 142, 143, 144. 74 Il Circolo Linguistico di Praga, Le Tesi del ’29, trad. it., introd. di E. Garroni, Milano 1966, p. 78. Sui complessi rapporti tra lingua poetica e linguaggio standard si v. di Mukařovský, Standard language and poetic language, in A Prague School reader on esthetics, literary structure and style, a cura di P. L. Garvin, Washington 1964. 75 J. Mukařovský, op. cit., p. 144. 87 Il segno comunicativo è, dunque, un segno che svolge una funzione secondaria, un ruolo pratico. L’ipotesi s’inscrive e rinvia al lungo, tormentato, lavoro dei formalisti. Ejchenbaum, ricostruendo la teoria del metodo formale, a proposito di questa distinzione, richiama i contributi di Jakubinskij. Nel primo dei suoi lavori, Sui suoni del linguaggio poetico, 1916, Jakubinskij delinea la questione in termini evidenti: «Se il parlante persegue un fine meramente pratico, avremo a che fare con un sistema linguistico pratico (di pensiero linguistico) in cui gli elementi della lingua (i suoni, le particelle morfologiche) non posseggono alcun valore autonomo e sono semplici mezzi. Ma sono pensabili (e di fatto esistono) anche altri sistemi linguistici in cui il fine pratico si attenua (senza peraltro sparire completamente) e gli elementi linguistici assumono un valore autonomo»76. Da Jakubinskij a Šklovski, a Jakobson (citando per emblemi) la questione, come si sa, giunge ai praghesi, che, nelle Tesi, individuano come proprietà specifica del linguaggio poetico (rispetto alla lingua della comunicazione) l’accentuazione di un «elemento di conflitto e di deformazione» e l’attuazione dei diversi piani della lingua poetica. Siamo giunti, così, alla distinzione tra funzione poetica e funzione comunicativa77. Mukařovský, nell’area di questi riferimenti, lavora per dimostrare che l’«opera d’arte ha...una duplice funzione semiologica, autonoma e comunicativa, dove la seconda è riservata soprattutto alle arti tematiche»78. In breve: pittura e letteratura sono arti tematiche mentre, invece, la musica e l’architettura sono arti atematiche. E la distinzione è legata alla maggiore o minore comunicabilità dell’oggetto artistico, naturalmente. 5. L’indicazione del 1928 di Tynjanov e Jakobson per la continuazione dei lavori è decisiva perquel richiamo all’analisi della «correlazione della serie letteraria con le altre serie storiche» senza perdere di vista 76 La citazione di Jakubinskij è in E. Ejchenbaum, op. cit., p. 147. 77 Il Circolo Linguistico di Praga, op. cit., pp. 71-75. Sulla questione si rinvia a L. Rosiello, Struttura, uso e funzioni della lingua, Firenze 1965, a G. C. Lepschy, La linguistica strutturale, Torino 1966 (cap. III), a M. GRANDE, Il problema della lingua poetica nella Scuola di Praga, in «Nuova Corrente», 1971, n.56. 78 J. Mukařovský, op. cit., p. 145. 88 però le «leggi immanenti ad ogni sistema»79. Mukařovský muove da questa esigenza, non c’è dubbio, anche se non lo dichiara esplicitamente: esigenza che, come si è registrato, spinge molto oltre. Il problema per Mukařovský non si circoscrive, infatti, alla semplice correlazione della serie letteraria o artistica con quella storica. La questione diviene un’altra: questa volta è il significato ad appartenere al sociale, è l’oggetto estetico ad essere dislocato nella coscienza collettiva e nella dinamica dei conflitti sociali. L’opera, si è detto, è un segno autonomo. E, in quanto segno, è una relazione significante/significato: soltanto che questa relazione non si costituisce come rapporto univoco, diretto, come due facce che combaciano perfettamente. Con questa manovra Mukařovský, più di quarant’anni fa, pone il problema del significato come «qualcosa» che non determina l’opera. L’accento è spostato in modo palese sul significante. Solo che il significante rinvia, per statuto logico, al significato. Ma è un rinvio obliquo, che segue la mossa del cavallo raccomandata da Šklovski. Se la tematizzazione dell’estetico, della funzione, della norma e del valore estetico lasciano uno spazio considerevole alle incursioni della metafisica, se la stessa nozione di struttura è aperta allo scacco dell’empirico (la struttura è un posterius), il discorso sull’oggetto artistico come oggetto semiotico è, invece, il luogo sul quale maggiormente si può contare. Il punto suscettibile di incrementi e scatti. L’avere insistito, vigorosamente, sulla tensione sociale della struttura, sulla sua estroversione, è certamente un merito notevole. Avere, poi, centrato il legame significante/significato come nesso obliquo e indiretto è senz’altro un contributo irrinunciabile. L’opera-segno, dunque, rimanda a un’alterità (il significato che vive nella comunità) per eludere la tentazione di rimanere imprigionata nel lucido congegno delle correlazioni strutturali. Ma quest’alterità non si pone come un significato che la costituisce geneticamente. Il mito della genesi storico-sociale, ora, è decisamente cancellato. L’obliquità del legamento opera/significato dà garanzia che l’oggetto artistico non è la ripetizione 79 J. Tynjanov, R. Jacobson, Problemi di studio della letteratura e del linguaggio, in I Formalisti russi, a cura di T. Todorov, pref. di R. Jacobson, trad. it., Torino 1969, p. 149. 89 del già noto, di una trama storico-concettuale definita80. (1974/1975) 80 «Come ogni segno, l’opera può avere con la cosa significata un rapporto indiretto, per esempio metaforico o in altro modo obliquo» (J. Mukařovský, op. cit., p. 144). 90 Hauser. Il corso tortuoso della dialettica 1. Riprendiamo, per un momento il discorso dal principio, dalla Storia sociale dell’arte (e siamo alla metà degli anni ’50). Il progetto è quello di stringere in un rapporto dialettico il nesso tra arte e società. Per Hauser la vita delle opere d’arte non è rinchiusa in una compiuta autosufficienza microcosmale ma rinvia, necessariamente, a un contesto extrartistico, a una genesi storico-sociale. Il contributo di Hauser all’elaborazione di questo taglio storico attraversa due varchi difficili: lo scontro con modelli che si fondano sulla «compiutezza microcosmale» dell’opera e il rifiuto netto del sociologismo e del contenutismo becero. La critica alla «compiutezza microcosmale» dell’opera d’arte non investe solamente le concezioni di discendenza romantica, l’art pour l’art, le stesse istituzioni poetiche di fine secolo, ma anche quelle teorie che riducono i linguaggi artistici al congegno dei rapporti interni. Sfilano, così, tra gli altri, Croce, Riegl, panofsky, responsabili, per ragioni diverse, di avere privilegiato il momento dell’autonomia se non proprio dell’indipendenza dell’opera rispetto alla genesi storico-sociale. Invece, «la storia dell’arte, se vuole capire il fenomeno dei mutamenti dello stile, non può assolutamente evitare il salto dell’opera d’arte chiusa alla realtà aperta, extrartistica»81. Sul fronte della critica al contenutismo e al sociologismo dialettico, Hauser assume come bersaglio polemico il mito dell’equivalente sociologico: la certezza, cioè, che esista sempre una relazione diretta fra la produzione dell’arte, la realtà sociale e la lotta di classe. «sarebbe un grave errore vedere nelle condizioni sociali dell’Atene contemporanea le premesse necessarie o anche soltanto le premesse ideali della nascita di un’arte simile e così alta», avverte Hauser in un celebre passaggio. Transito che viene ulteriormente specificato quando aggiunge che «il valore artistico non ha alcun equivalente sociologico: tutt’al più, la sociologia può ricondurre alla loro origine gli elementi di cui si compone un’opera d’arte, ma questi 81 A. Hauser, Le teorie dell’arte. Tendenze e metodi della critica moderna, trad. it., Torino 1969, p. 213. 91 elementi possono essere gli stessi in opere di qualità diversissima»82. La sociologia, dunque, non è in grado di dare conto della qualità e del pregio dell’opera (e della sua complessa organizzazione). Può solamente riconoscere dell’opera le premesse sociali e le articolazioni, non meno difficili e reticolari. Hauser, nella Philosophie der Kunstgeschichte, 1958, sospinge più avanti la sua ipotesi, insistendo sulle diverse motivazioni che costituiscono l’opera d’arte: «Essa è condizionata tre volte: psicologicamente, sociologicamente e dal punto di vista storico-stilistico»83. La tensione, adesso, è rivolta all’analisi più rigorosa e puntuale dei «fini e limiti della sociologia dell’arte» (come si intitola l’introduzione), a una maggiore attenzione teorica verso il rapporto arte/ideologia, lasciato con troppa cautela in ombra nella Storia sociale dell’arte, alla ripresa della psicoanalisi e alle relazioni con il marxismo. La critica alla teoria del rispecchiamento, al legame meccanico tra arte e struttura economico-sociale, si arricchisce ora di un argomento nuovo: «Lo stimolo sociale che sta dietro a una manifestazione spirituale può essere anche inconscio e operare inconsciamente». Anzi lo stimolo sociale «opererà tanto più fortemente, quanto meno consciamente è stato espresso e quanto meno intenzionalmente cerca o sembra cercare consensi». Il sociale diviene, dunque, una genesi inconscia, che lavora nascostamente e che si offre nella ricchezza e nella molteplicità delle mediazioni: «In arte… il modo di esprimersi indiretto, ideologico, non è soltanto il più efficace, ma anche il più rivelatore per la storia dello stile, perché i princìpi sociali diventano veramente determinanti stilistiche soltanto quando non possono essere espressi direttamente»84. L’attenzione alla genesi inconscia del sociale, alle articolazioni intermedie (Engels), all’ideologia come falsa coscienza, sposta, senza dubbio, l’asse del discorso. I punti di riferimento si aprono così a ventaglio: insieme a Marx debuttano Nietzsche e Freud. La nozione di ideologia come falsa 82 A. Hauser, Storia sociale dell’arte, trad. it., II ed., v. I, p. 150. Il brano conclude il capitolo Classicità e democrazia, che presenta, a tutta prima, un «problema sociologico insolitamente arduo»: l’inconciliabilità della democrazia, liberale e individualistica, con lo stile classico (p. 137). 83 A. Hauser, Le teorie dell’arte. Tendenze e metodi della critica moderna, cit., p. 23. 84 A. Hauser, op. cit., pp. 33, 34. 92 coscienza richiama certamente il concetto freudiano di razionalizzazione e le nietzschiane maschere del soggetto. Nell’intrico della falsa coscienza e del suo smascheramento, dei meccanismi inconsci, della razionalizzazione e dell’ideologia, l’arte gioca, secondo Hauser, un ruolo decisivo: è un sistema capace di modificare la parzialità dell’ideologia, la sua falsa coscienza, le sue inafferrabili (sfuggenti) razionalizzazioni. «La storia è il conflitto dialettico tra l’ideologia e l’idea di verità, fra volere e sapere, fra il desiderio di mutare la nostra esistenza e l’inerzia… di questa esistenza»85. I simboli dell’arte sono in grado di mettere allo scoperto e superare i difetti dell’ideologia, l’inerzia che impedisce al desiderio il mutamento. L’arte è, perciò, utopicamente, negazione dell’ideologia e smascheramento della falsificazione, desiderio di vincere la parzialità. Secondo un insegnamento che ritrova in Mannheim e poi in Bloch punti di raccordo esemplari: una lezione che sarà attiva, con rinnovata lucidità e acutezza di esiti, nella Sociologia dell’arte del ’74, il suo lascito testamentale oramai. Il percorso hauseriano, dalla Storia sociale dell’arte e Le teorie dell’arte, si sposta, dunque, dal livello arte/società al più delicato nodo arte/ideologia, lungo una linea che coinvolge la psicoanalisi e, per certe suggestioni, Nietzsche. Ora c’è un punto che va discusso: ed è precisamente quel luogo dal quale siamo partiti. Il rifiuto, cioè, di assegnare alla qualità e al pregio artistici equivalenti sociologici. Decisione dialetticamente sapiente, come si è ricordato, ma che, tuttavia, per il modo com’è stata formulata lascia spazio a numerosi problemi. La sociologia dell’arte è in grado di spiegare le premesse sociali e la genesi delle differenze stilistiche di Rubens e di Rembrandt ma non il mistero della loro arte, sottolinea Hauser secondo modelli ermeneutici consueti. Questo compito (indagine sul mistero) spetta invece all’estetica. Ma, così facendo, Hauser non affida all’estetica un compito assolutamente ingrato: l’ufficio di decifrare nozioni (il mistero, la grandezza) sfuggenti, ineffabili, ambigue, metastoriche? Col risultato di minacciare la stessa idea dell’arte come totalità dialettica e di abbandonarsi a pericolose sortite neoromantiche? 85 A. Hauser, op. cit., p. 43. Su questi temi e, più in generale, sulla posizione teorica di Hauser rinviamo al nostro saggio, L’inconscio dell’opera. Sociologia e psicoanalisi dell’arte, Roma 1974. 93 2. Non è un caso che la riflessione sulla dialettica e sulla totalità sia uno dei momenti più significativi della Soziologie der Kunst. La critica hauseriana si rivolge alla validità illimitata della dialettica, anzitutto. E poi alla sua riduzione, da parte di Hegel, alla filosofia dell’identità, l’identità di vero e di realtà («La realtà però non è né razionale né irrazionale, bensì estranea alla ragione; essa corrisponde alla ragione o la contraddice a seconda del rapporto dialettico in cui viene posta con essa»)86. O anche (ed è l’altra variante della filosofia dell’identità) all’idea dell’automovimento dello spirito e della società. La pratica hauseriana della dialettica, di contro all’identità e alla continuità, apre al discontinuo e alle cesure: «Il passaggio dalla tesi all’antitesi, dalla contraddizione alla conciliazione, dalla chiarificazione al superamento, include da qualche parte un salto immediato». Perciò «l’unica forma adeguata e chiara in cui si può rappresentare il movimento dialettico da un grado all’altro è il rinviare alle fratture nella catena delle mediazioni»87. La dialettica, dunque, ha un decorso imprevedibilmente tortuoso giacché «il processo storico non è un processo indirizzato in senso univoco, un processo deducibile direttamente e senza cesure dalla sua origine»88 La dialettica, così rivisitata, ha, comunque, come prospettiva e telos la pienezza dell’umano, la totalità contro la frammentazione e l’alienazione della società tardo capitalistica, post-industriale. L’arte, in questo progetto, svolge un ruolo singolare, direi privilegiato. Basta una citazione. «La proprietà attribuita alla “totalità dialettica” da parte del marxismo ortodosso, cioè che i suoi singoli momenti “portano in sé la struttura del tutto”, in realtà la mostrano soltanto le opere d’arte. I singoli costituenti nell’opera d’arte sono della medesima specie della loro totalità e unità; soltanto qui batte in essi la medesima vita che nell’organismo di cui sono membri»89. Perché l’arte debba essere esperienza privilegiata tra le produzioni culturali resta, naturalmente, un problema, una resistenza umanistica (forse). 86 A. Hauser, Sociologia dell’arte, trad. it., v. II, p. 101. 87 A. Hauser, op. cit., p. 103. 88 A. Hauser, op. cit., p. 9. 89 A. Hauser, op. cit., p. 106. 94 3. La ricerca di Hauser è stata, dunque, per quasi trent’anni, un lavoro incessante, assiduo, di messa in questione di una disciplina, la teoria sociale dell’arte e del suo statuto. Analisi dei limiti delle tecniche e degli strumenti che, di volta in volta, adopera. Distanza, in parte, dalla stessa trama concettuale, fondamentale per una storia sociale dell’arte, d’ispirazione marxiana: le nozioni, appunto, di dialettica e di totalità. E, tuttavia, non c’è dubbio che, all’altezza degli anni Ottanta, la sua proposta risulta poco soddisfacente. In sostanza, Hauser non riesce a organizzare un discorso accettabile (talvolta dà l’idea di non preoccuparsene) proprio su quel terzo livello che avevano individuato Le teorie dell’arte, la dimensione storico-stilistica. Nella Sociologia dell’arte a questo piano del discorso non si fa neanche un cenno: eppure la tortuosità della dialettica, gli scarti e le mosse del discontinuo, avrebbero dovuto offrire possibilità nuove per la risoluzione di questi problemi. Una risoluzione (e vale soltanto come indicazione) che ha invece avviato, per tempo, Francastel, ponendo il pensiero plastico all’incrocio di esigenze teoriche multilaterali, dalla sociologia alla linguistica, all’antropologia. Gli Studi di sociologia dell’arte del ’70 e l’Esthétique et etnologie del ’68 non c’è dubbio che, insieme a La figure et le lieu, costituiscono una svolta rispetto alle posizioni, pur così ricche di umori, di Arnold Hauser. Ma, in vero, non è sui limiti di quest’esperienza che si vuole concludere il preambolo su Hauser. Quanto sulla circostanza che in Hauser si corrode uno dei punti di forza delle teorie sociologiche dell’arte d’ispirazione marxiana: l’illusione che l’arte, attraverso una sapienza dialettica, possa rappresentare il significato ed esprimerlo nella sua compiutezza. Il cammino tortuoso della dialettica, i varchi che il discontinuo apre nel tessuto della storia, le lacune e i bianchi, sono spie che suggeriscono una relazione con il significato difficile e mai a senso unico. È singolare, perciò, la convergenza di Hauser con Mukařovský, che muove da riferimenti e da ambiti teorici differenti. La tortuosità della dialettica, i suoi impervi itinerari, sono così prossimi all’obliquità mukařovskýana: all’idea che il rapporto tra opera e significato (un significato naturalmente collocato nella coscienza collettiva e nel sociale) è, appunto, indiretto, un legame laterale. Il lungo viaggio di Mukařovský intorno al nodo strutturalismo, semiotica, marxismo, e la riflessione di Hauser sulle categorie centrali 95 della tradizione marxiana, si ritrovano, alla fine, a pensare la stessa questione: l’impossibilità di configurare il significato come «qualcosa» immediatamente rappresentabile. Non c’è dubbio, poi, che la messa in discussione del significato indica lo sfiorire di uno dei punti fondamentali degli ultimi grandi sistemi, semiotica e marxismo, o del loro possibile intreccio. Averlo indicato e patito, per Mukařovský come per Hauser, non è, certamente, un semplice fatto. (1978) 96 Terminabile, interminabile Sulla critica interminabile 1. In verità, non si tratta di mettere la critica al posto dell’arte e nemmeno di pensare la critica come arte. Il punto è un altro, ed è di ordine epistemologico: investe i modi di produzione di questa pratica sociale, la sua struttura di relazione, i percorsi che disegna, la dichiarata pretesa di porsi come metodo globale e le stesse suggestioni totalizzanti alle quali non riesce a sfuggire malgrado tutte le cautele. Un’analisi, dunque, del linguaggio critico e dei suoi riti di egemonia e di governabilità assoluta, in questo caso della governabilità assoluta, senza residui, dell’arte. La revisione del linguaggio della critica s’inscrive, allora, nel più articolato discorso sulla crisi della ragione, nel dibattito che individua nel metodo un nemico da combattere e ripensa talvolta la scienza «molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere»90. Un progetto che, d’altra parte, non può non essere consapevole anche dei rischi che innescano, su un fronte opposto, le voci rizomatiche e la marginalità i bordi silenziosi e le tessiture fragili del mito. Dunque, l’arte non c’entra (e non ci deve entrare), neppure se la si assume come modello di decostruzione. Un modello, questo del poetico, al quale Baudrillard assegna il compito di sterminare la linguistica e la psicoanalisi, perché vive oltre «la barra di equivalenza fra ciò che è detto e ciò che vuol dire…(e oltre) la barra della rimozione fra ciò che è detto e ciò che è taciuto, rimosso»91. Un modello, questo dell’arte, al quale (e proprio all’opposto) è stato assegnato il compito, nella pronunzia della psicoanalisi come arte, di funzionare da dispositivo denegativo nei confronti della psicoanalisi come scienza, presenza positivistica e paradigma scientista. Una produzione, questa dell’arte, che vive, così, ancora come nostalgia di assoluto, l’assoluto della totale simbolizzazione della morte, piuttosto che come trasparenza d’infinito e azzurro del cielo. 2. Non la critica al posto dell’arte e nemmeno la critica come arte, l’arte della critica (dunque). Ma piuttosto la critica come strega 90 P. K. Feyrabend, Contro il metodo, trad. it., Milano 1979, p. 240. 91 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., 1979, p. 32. 99 metapsicologica, secondo il detto di Freud: «Non si può avanzare di un passo se non speculando, teorizzando – stavo per dire fantasticando – in termini metapsicologici»92. Ma cosa significa dire esattamente che la critica è una strega metapsicologica, la quale non rimuove il fantasticare e sembra, anzi, stabilire proprio un’aria di famiglia tra teorizzare e fantasticare? Forse la ripresa (e di questa ripresa del resto le tracce sono molteplici) di una dialettica tra astrattezza delle forme e materialità dei contenuti, fra il temperato, dolce, calore della fantasia e la rigidità ordinatrice dell’intelletto? Insomma, un ritorno a Kant, magari sotto travestimenti sofisticatissimi? Per la via di Freud, in verità, il ritorno a Kant sembra improbabile, addirittura impossibile, giacché la critica freudiana è propriamente critica della macchina, kantiana e postkantiana, che si svolge nel segno di un soggetto costituente che risarcisce le scissure e unifica le fratture che scuotono il sistema, garantendo la pienezza della ragione. Con Freud, non soltanto viene scossa l’idea della ragione unitaria, ma anche i progetti parziali, legati alla frantumazione dei linguaggi, che pretendono d’innalzare la verità del proprio discorso e verità onnicomprensiva. La critica freudiana colpisce, dunque, non solamente la rappresentazione unitaria e totalizzante della ragione ma anche le procedure più caute e accorte, nel nome di un linguaggio che non si pone come il linguaggio della verità93. Allora (ed è la prima indicazione) la critica come strega metapsicologica non è e non aspira ad essere linguaggio unitario e scrittura di verità, discorso capace di ridurre nel proprio spazio la pluralità dell’oggetto: quel testo che Bachtin ha pensato come intreccio e scansione infiniti di piani94. La critica come strega metapsicologica è essenzialmente linguaggio dell’incertezza, Unsicherheit, precarietà e caducità, Vergänchlickeit. Ma non caducità e incertezza come insufficienza e mancanza, come interferenza perturbatrice e lutto per la sua fine ma, precisamente come 92 S. Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), in Opere 11 (1930-1938), trad. it., edizione diretta da C. L. Musatti, Torino 1979, p.508. 93 Interessanti considerazioni sono contenute nel saggio di Rella, Il discredito della ragione, in AA. VV., Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino 1979. 94 M. Bachtin, Il problema del testo, in AA.VV., Michail Bachtin , trad. it., Bari 1977. 100 correttivo, forse meglio sterminio, dell’esigenza di eternità. Ecco perché la critica come strega metapsicologica ritiene oramai insufficienti (e inadeguate) le stesse proposte che si limitano a mettere in questione l’oggettività, l’impassibilità, la coerenza del metodo. Proposte che ci giungono per altro dai territori della psicostoria, da Alain Besançon che, più di altri, si è sforzato di ridefinire il ruolo e il compito dello storico postfreudiano95. Certo l’irruzione del soggettivo corrode lo schermo sempre più opaco che distanzia il critico e lo storico dal documento e dal testo. Senz’altro il ricorso alle nozioni di transfert e di controtransfert scuote il distacco e la professionalità del critico e soprattutto dello storico. Ora, i fantasmi dello storico s’intrecciano e si sovrappongono, attraversano il testo: ripercorrendo il testo, il critico non sfugge alla domanda sul proprio isolamento, sul suo sguardo silenzioso e giudicante. Non c’è dubbio che l’uso di questi strumenti freudiani abbia scomposto la compattezza dei testi, abbia insinuato il veleno della discontinuità, aprendo uno spazio più duttile e mobile all’ascolto. Perché di ascolto si tratta, proprio come avviene nell’incontro tra analizzato e analista. Un ascolto fluttuante, oscillante pur se vigile, pronto a cogliere le sfumature e i margini più che il senso, disposto a inseguire il labirinto dei testi in infiniti spostamenti, come in una deriva. E questa deriva, questo slittare sregolato tra i testi, non è che un analogo delle libere associazioni, un concetto sostitutivo che conclude il circolo dell’analogia tra storico e psicoanalista o, ancora meglio, che stringe la relazione testo-storico/ analizzato-analista. Soltanto a queste condizioni è possibile far parlare i testi, leggerli («La psicoanalisi è un modo di ascoltare? La storia deve essere un modo di leggere»), rendere conto della ramificazione progressiva del reticolo di significati, interpretarla. Ma cos’è che bisognerà leggere? Di certo non l’orizzontalità del testo, la trama che si offre allo sguardo e lo ferisce, ma quel secondo discorso, il non detto originario, che si annida al di sotto degli enunciati e della superficie dei documenti e delle scritture. L’apertura sullo scenario immaginario dello storico e sulle distese fantasmatiche del critico, l’ascolto fluttuante, come l’unico metodo capace di intricarsi nella progressiva ramificazione della rete dei significati, la 95 A. Besançon, Storia e psicoanalisi, trad. it., pref. di S. Moravia, Napoli 1975. 101 sovradeterminazione della parola, del documento e dei testi, il rinvio a una profondità del discorso, la relatività dell’interpretazione («Se si potesse comprendere a fondo un solo sogno, diceva Freud, la psicoanalisi sarebbe terminata. Se si potesse ottenere l’interpretazione completa di un evento, la storia intera vi sarebbe contenuta»), sono nodi importanti e, tuttavia, insufficienti (si è detto). Insufficienti (e inadeguati) perché tagliano ancora nettamente il testo in superficie e profondità, in una trama visibile e in un non detto invisibile, legalizzando così quel «resto enigmatico e silenzioso che gli (al linguaggio) sta dietro e che esso non produce», nell’illusione, avverte Faucault, che esiste «al di là delle analisi strutturali, formali o interpretative del linguaggio, un campo finalmente affrancato da ogni positività in cui si possono liberamente esprimere la libertà del soggetto, la fatica dell’essere umano o di un destinazione trascendentale»96. 3. La relatività dell’interpretazione, la ricchezza sovradeterminata del testo, la messa in gioco della pienezza del significato vengono, comunque, come limitate dal discorso ad una realtà altra, a quel secondo e più profondo discorso, il discorso dell’inconscio: una profondità che l’ascolto fluttuante del critico o dello storico tende a disvelare in una progressione infinita. È evidente, in questo movimento, la vicinanza di Freud alla tradizione dell’ermeneutica e alla concezione dell’inconscio come creatività: un rischio che, però, non può essere eluso, con una manovra opposta, dalla mossa di Ernst Gombrich (decisamente riduttiva). Evidentemente non ci sono rapporti filologicamente accertabili tra la psicostoria di Besançon e Gombrich97: comune è solo il punto di partenza, Freud. Differenti il metodo, le intenzioni, la prospettiva. Gombrich può diventare, così, l’altro polo del discorso: il versante in cui le nozioni di interpretazione e di significato vengono calibrate in maniera radicalmente diversa. La strategia gomberichiana lavora, infatti, il campo dell’interpretazione come un sapere definito, scartando la congettura a favore della comprensione esauriente dell’opera e 96 M. Foucault, L’archeologia del sapere, trad. it., Milano 1971, p.130. 97 Il testo di Gombrich al quale ci si riferisce in particolare è Aspirazione e limiti della psicoanalisi, in Immagini simboliche. Studi sull’arte nel Rinascimento, trad. it., Torino 1978. Per un riscontro più puntuale rinviamo ai nostri Itinerari freudiani. Sulla critica e la storiografia, Roma 1979. 102 l’incompletezza dell’ipotesi per la completezza della dimostrazione. Siamo, dunque, distanti dalla besançoniana relatività dell’interpretazione completa dell’evento: per Gombrich l’interpretazione è la «ricostruzione di una prova perduta», attraverso la quale l’iconologo non soltanto deve individuare la storia raccontata dall’opera, ma soprattutto «deve arrivare al significato di quella storia in quel particolare contesto». Il campo dell’interpretazione diviene, allora, il luogo del significato dominante, quel «significato che ci propone di esprimere o intento principale del quadro». È evidente che la stessa rilettura di Freud (alla quale Gombrich non manca di riferirsi) risulti alla fine estremamente impoverita e riduttiva. Il punto della discordia è, senz’altro, la nozione di iperdeterminazione: «… Le scoperte della psicoanalisi hanno certamente contribuito all’abitudine di trovare, in una data opera, tanti livelli di significato». Ma l’essenziale è altrove: non consiste tanto nell’individuare «le catene di causazioni… le leggi di natura sottese al gioco degli eventi» quanto nel distinguere tra queste serie infinite di cause e il significato dell’opera e delle cose. Ed è proprio questa essenzialità che distingue lo storico dall’iconologo, che ne delimita i compiti («L’iconologo si occupa di questo – del significato – nella misura in cui può essere definito. Lo storico deve essere consapevole della complessità ed elusività di quelle»). Non c’è dubbio che la pratica goberchiana dell’iconologia, centrata sul significato dominante, sull’analisi univoca della relazione simbolo/ contesto, sulla precedenza (logica) delle istituzioni linguistiche e del codice, dei generi e dei programmi, sia un modo forte di sottolineare la comunicabilità dell’opera e la sua storicità. E insieme di affrancare l’iconologia dalle tentazioni mistiche e dalle fughe archetipologiche, di porre al riparo il simbolo dalla suggestione delle costanti inconscie collettive. Tuttavia l’attacco portato alla nozione di sovradeterminazione, il suo ridimensionamento, è, come si è accennato, funzionale all’idea dell’interpretazione come strategia del significato dominante e della completezza, della meta raggiunta. È una maniera di interrompere quel rapporto tra sovradeterminazione e sovrainterpretazione indicato da Freud nella Traumdeutung: «Nello stesso modo in cui ogni sintomo nevrotico, e il sogno stesso, sono passibili di sovrainterpretazione, anzi la esigono per essere totalmente compresi, così anche ogni autentica creazione poetica, 103 sorge da più di un motivo, da più di un impulso nell’anima del poeta e ammette più di un’interpretazione»98. 4. Il gioco dell’interpretazione oscilla, così, tra profondità e superficie, tra una radicalità mai raggiungibile e una possibilità di cogliere un significato dominante, tra l’ascolto e il lavoro paziente sui materiali, sul programma e sul codice: freudianamente, fra interminabilità e terminabilità. La domanda adesso è su Lacan, precisamente su una dimenticanza: «Era Lacan che scopriva l’opera di Freud oppure l’opera di Freud mutilata almeno dalla metà della sua sostanza che serviva da passaporto a Lacan? Partito alla ricerca della metà mancante, non mi fu difficile scoprire che la teoria lacaniana era basata su un’esclusione, una dimenticanza dell’affetto»99. A questa mutilazione, all’esclusione dell’affettività, indicata per tempo da André Green come la parte mancante di Freud in Lacan, al suo risarcimento, è dedicato il lavoro di Franco Fornari, che, tra l’altro, si pone come una «nuova proposta per la psicoanalisi dell’arte»100. L’avvio è, naturalmente, centrato sull’interpretazione: «Sarebbe… un grave equivoco ritenere di poter costruire una interpretazione sulla mera supremazia della catena significante, distaccata dalla verticalità semantica del significato»101. Per sfuggire a questo equivoco, per eludere l’arbitrarietà dell’interprete e delle sue scelte non resta, suggerisce Fornari, che limitarne le possibilità. Una limitazione possibile, però, soltanto se si ristabilisce l’ordine del discorso freudiano, mettendo a posto giusto il significante e il significato. «Si deve a Jacques Lacan se la psicoanalisi della seconda metà di questo secolo ha preso la strada del linguaggio. Riconosciuto questo merito di base, ritengo di dover precisare che, mentre il fallo (cioè uno dei coinemi) è per Lacan significante di significanti, nella mia costruzione teorica è uno dei diversi significati»: ed è questa, insiste Fornari, una profonda diversità102. L’opposizione tra le culture del testo sacro e le culture grammaticalizzate è la mossa decisiva, 98 S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), in Opere 3, trad. it., cit., Torino 1966, p. 247. 99 A. Green, Il discorso vivente, trad. it., Roma 1974, p. 8. 100 F. Fornari, Coinema e icona. Nuova proposta per la psicoanalisi dell’arte, introd. di F. Menna, Milano 1979 e I fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio, Torino 1979. 101 F. Fornari, Coinema e icona, cit., p. 1. 102 F. Fornari, I fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio, cit., pp. 14-15. 104 dunque, per aprirsi all’affetto, per poterlo costruire come semiosi, per parlare di una semiosi affettiva («È… innegabile che, dopo Freud, gli affetti sono diventati linguaggi»). Alla supremazia del significante Fornari oppone la verticalità semantica del significato, dunque. Ma questa è la croce: come si costruisce il significato, qual è lo statuto della semiosi affettiva, quali i meccanismi e la grammatica? E ancora. Qual è il rapporto tra la semiosi affettiva, e le altre pratiche discorsive, gli altri enunciati? Perché è proprio il significato e la sua verticalità, questa sconfinata latitudine notturna, a limitare l’arbitrarietà dell’interprete, a recintare lo stesso campo dell’interpretare, a sospingerlo verso la sua terminabilità? La scena costruita da Fornari è precisa ed articolata. Prende l’avvio dalla scoperta freudiana del sogno come linguaggio: «Partendo dalle invarianti affettive che presiedono al simbolismo onirico si arriva a postulare unità elementari del significato affettivo paragonabili alle unità elementari sonore (fonemi) e commensali alla costituzione dei significati lessemici, rispetto ai quali vanno intesi come metasemantemi»103. Tuttavia Fornari si affretta a marcare la differenza tra i fonemi e le unità elementari del significato affettivo, i coinemi appunto: mentre i fonemi sono unità distintive e non significative, i coinemi, invece, «sono unità minimali originariamente portatrici di senso affettivo (per questo sono “donatori di senso”) a degli strati del mondo, intesi come entità brute prive di senso». I coinemi sono perciò significativi ma non distintivi, sono conflusivi, sono «qualcosa di extralinguistico, che tuttavia è essenziale per la costituzione del linguaggio, allo stesso modo in cui l’inconscio è extracosciente ma decide dei contenuti della coscienza»104. I coinemi, parentemi ed erotemi, sono invarianti precostituite, sono «immagini-parole, che ci pre-esistono e che ci giungonodall’aldilà della storia», sono «pre-immagini–pre-parole che fanno capo ad una esteriorità genetica, caratterizzata dai modi strutturali esterni al tempo, alla storia e alla razionalità dell’uomo occidentale», sono i «binari entro i quali, e solo entro i quali, può esercitarsi l’arbitrarietà dell’interprete»105.Continuando. i coinemi sono idee affettive innate, 103 F. Fornari, op. cit., p. 13. 104 F. Fornari, op. cit., pp. 352-356. 105 F. Fornari, Coinema e icona, cit., pp. 4, 2. 105 relativamente trascendenti; col fatto che questa trascendenza, prossima alle idee platoniche, si coglie, però solamente attraverso i suoi derivati nella produzione infinita dei segni e dei significanti. Infatti «i coinemi e le strutture elementari coi nemiche devono intendersi come preconfezioni linguistiche o anche come ipotesi affettive linguistiche, che sono iscritte nel codice genetico sotto forma di mondo interno originario destinato a integrarsi, attraverso processi di esternalizzazione, su stati del mondo dei quali costituiscono la simbolizzazione affettiva primaria»106. Il disegno di Fornari è, chiaramente, quello di allargare, oltre il sintomo nevrotico e il lapsus, i denotati simbolici del sogno, l’intervento della psicoanalisi. Ecco cosa propone, esattamente, la coinoanalisi: «… Avviarla (la psicoanalisi) a diventare teoria linguistica e ermeneutica, che studia la regolarità di tutte le pratiche di discorso umano»107. In definitiva, ogni simbolo verbale ha una duplice referenza, ogni segno e quindi ogni icona hanno una doppia semantica («La teoria della semiosi affettiva postula che ogni simbolo verbale è preceduto da un simbolo coinemico»). L’affettività e la sua organizzazione grammaticale sono, così, centro di ogni produzione di parola: un centro situato fuori/dentro la parola, accanto e lontano dal corso delle pratiche discorsive, dei linguaggi (compreso il linguaggio corporeo). Un nucleo, questo costituito dalle unità elementari notturne, che decentra la parola e l’icona ma che, tuttavia, ha bisogno della loro materialità diurna per venire alla luce e inverarsi. Non ci sono dubbi, Fornari ripropone, contro l’insegnamento di Lacan, una doppia semiosi (con regole e grammatiche specifiche), insiste sulla discontinuità della regione notturna e di quella diurna, ripensa la loro complessità secondo una marcia a delfino. Ma è proprio discontinuo questo tragitto del notturno alla luce del giorno, dalla selva al campo? Lasciamo, per un altro momento, in sospeso questo problema per capire meglio (prima) in che modo l’analisi coinemica rivive l’esperienza dell’arte. «Così interrogare l’arte in rapporto alle sue origini coi nemiche significa interrogarla ai confini della significazione, dove la significazione stessa 106 F. Fornari, I fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio, cit., pp. 355.353. Più di recente, in Il codice vivente (Torino 1981), si legge addirittura che i «coinemi costituiscono una specie di riserva naturale selvatica» (p. 42) 107 F. Fornari, Coinema e icona, cit., p. 2. 106 mostra il suo esistere attraverso la lacerazione tragica di un indistinto nel quale si scopre la commensalità ubiquitaria e silenziosa della nascita e della morte», avverte Funari, sottolineando, subito dopo, come «l’analisi coinemica porta dunque fatalmente ad una lettura tragica dell’arte, perché l’Altro non appare più solo come decentrato rispetto al soggetto, e promotore di segni da un luogo non visto e non sospetto: l’Altro è in realtà un análogon, commensale alla parola e all’immagine, come parola dentro ogni parola, immagine dentro ogni immagine». Interrogare l’arte, la poesia o la pittura non importa, significa, allora, per l’analisi coinemica andare oltre i suoi valori formali, l’immanenza e la sua struttura, per cogliere i procedimenti delle movenze affettive, la radice e il centro, le unità notturne, significa, appunto, far scattare, accanto agli specifici dispositivi semiotici, la semiosi affettiva: infine, significa parlare il doppio statuto dell’immagine e della parola, questa duplice referenza, la doppia semantica. Per esempio, significa aggiungere a tutto quello che si sa (e si potrà sapere) sulla riduzione cézanniana della pittura al cilindro, alla sfera e al cono anche il fatto che, a livello onirico, «il cilindro e la sfera sono simbolizzanti dell’elemento maschile (cilindro) e dell’elemento femminile (sfera). Il cono, quale mescolanza di sfericità e verticalità, può essere visto coi nemicamente come accoppiamento dell’elemento maschile con l’elemento femminile»108. 5. Adesso ritorniamo a quella domanda lasciata in sospeso: alla questione della discontinuità. Certo, esistono regole e grammatiche differenti che presiedono all’organizzazione di questa doppia semiosi affettiva e della semiotica diurna. Tuttavia la relazione tra le distese dell’affettività e le diverse pratiche linguistiche, questa commensalità, è compromessa proprio dall’avere postulato alcuni significati, poche invarianti, quegli a priori che Fornari chiama appunti coinemi. D’accordo per il doppio statuto dell’immagine o della parola. Solo che (e a questo punto le perplessità crescono) il piano semiotico è ricondotto a dei significati pre-costituiti, a immagini pre-esistenti, ai denotati simbolici del sogno. Insomma, alla madre, al padre, al fratello, al bambino, agli organi sessuali maschili e femminili, alla castrazione, al rapporto sessuale, alla nascita e alla morte, 108 F. Fornari, op. cit., pp. 3, 197. 107 al corpo umano. Col risultato di stabilire nuovamente un rapporto lineare, di continuità tra il linguaggio della notte e quello del giorno, fra la semiosi affettiva e gli enunciati. La discontinuità è,dunque, soltanto apparente, certo è invece il tracciato univoco che dal regno delle Madri conduce all’universo dei discorsi: una linearità che ripara dai margini dell’arbitrio dell’interprete e fa dello stesso atto interpretativo un’operazione saldamente picchettata. È vero, la marcia a delfino di Fornari si pone in mezzo a un guado: nel mezzo di chi consegna l’interpretazione allo scenario immaginario dell’interprete, di chi, lacanianamente, la dissolve nelle catene del linguaggio dell’altro, o di chi, accanitamente, la riduce all’analisi del significato dominante, visibile, solo che gli strumenti di indagine sono calibrati ed efficaci. Ma di questa medietà la fornariana marcia a delfino sconta tutte le ambiguità e i disagi: l’idea tenace che i coinemi sono donatori di senso, binari che, raffreddando l’ascolto dell’interprete, regolano il cammino accidentato dell’interpretazione, assegnandole una meta e un termine. Riducendola, direbbe Freud, ad archeologia109. (1980) 109 «… Mentre per l’archeologia la ricostruzione coincide con la meta e il termine di tutti gli sforzi, per l’analisi la costruzione è soltanto un lavoro preliminare» (S. FREUD, Costruzioni nell’analisi (1937), in Opere 11, cit., p. 544). 108 Il motto di spirito, il poetico 1. I rischi sono una frequentazione destoricizzata di Lacan, la sua suggestione di una di una scittura eccentrica impossibile, la tentazione di ripeterne il fascino. In questo modo ha funzionato Lacan per la teoria e la critica dell’arte. E non solamente per la critica d’arte, in verità. Così, fuori contesto, le analisi su il risveglio di primavera, sul Sosia o sul barocco, la stessa domanda Qu’est-ce qu’un tableau? sono diventate occasioni di meccanica applicazione ad altre situazioni e ad altri territori. Si tratta, invece, di non considerare le analisi su Plauto e Molière, sul barocco e la pittura, come specifiche di un discorso sulla teoria delle arti, ma di collegarle piuttosto dentro la rete che Lacan lavora per il suo ritorno a Freud. È con questa rete, allora, e non con i singoli nodi, tagliati e recisi, che la critica delle arti dovrà misurarsi: è, appunto, di questo ritorno a Freud, al senso di Freud, che dovrà calcolare gli spostamenti e le ombre. Il problema è di cogliere l’oggetto. «La prima parola che Lacan vuole dire: innanzitutto Freud ha fondato una scienza. Una scienza nuova, che è la scienza di un oggetto nuovo: l’inconscio», a ricordato subito Althusser110. È, dunque, a questo oggetto nuovo che la teoria delle arti e la critica dell’arte (in particolare) dovranno guardare quando vorranno riflettere sulle strutture profonde che traversano il testo, sulla costituzione stessa della testualità, sull’inconscio dell’opera. Facendo fuori, così, non solamente l’antico mestiere del biografo, l’inconscio dell’autore o dei personaggi, ma anche i più sofisticati intrecci delle metafore ossessive e delle maglie mitologiche personali o collettive. Per la critica dell’arte uno dei cammini più sicuri per costeggiare questo oggetto inedito è certamente il Witz, il motto di spirito. È proprio la sua diversità, infatti, che, del resto, Freud non ha mancato di sottolineare («La diversità più importante è nel loro atteggiamento sociale. Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale… il motto invece è la più sociale di tutte le funzioni psichiche che mirano al profitto di piacere»), che, come vedremo, lo rende prossimo all’esperienza del linguaggio 110 L. Althusser, Freud e Lacan, trad. it., in «aut-aut», maggio-giugno 1974, p.75. 109 poetico. Se si aggiunge, poi, la riflessione sulla struttura formale del Witz, una riflessione che da Freud a Lacan a subito oscillazioni e variazioni sensibili, questa prossimità diventa sempre più pensabile. «Per trascurata che sia dal nostro interesse…, Il motto di spirito e l’inconscio rimane l’opera più incontestabile perché la più trasparente, in cui l’effetto dell’inconscio ci sia dimostrato fino ai confini della sua finezza; e il volto che ci rivela è quello stesso dello spirito nell’ambiguità che il linguaggio gli conferisce, in cui l’altra faccia del suo potere regale è la “punta” per cui l’intero suo ordine si annienta in un solo stante, punta in cui la sua attività creatrice svela la sua assoluta gratuità, in cui la sua dominazione sul reale sia esprime nella sfida del nonsenso, in cui lo humor, nella grazia malvagia dello spirito libero, simboleggia una verità che non dice la sua ultima parola»111. Questa indicazione (che è del ’53) viene ripresa e più puntualmente calibrata nelle lezioni 6, 13, 20 dicembre del 1957 dedicate alle formazioni dell’inconscio («Ciò che chiamiamo inconscio è il significante in azione», dirà ora esplicitamente Lacan). Il motto di spirito è una scansione decisiva dell’altalena incessante della produzione dell’inconscio, per via del lavoro inesauribile sul significante e sulla metafora, per la capacità di debordare dall’ordine del significato e dal rigore del codice. «Il fatto è che Freud afferra le relazioni strutturali tra il motto di spirito e l’inconscio. Su che piano? Unicamente sul piano formale. Freud si affida alla tecnica del motto di spirito, la tecnica del significante». Tanto da chiedere se quel celebre esempio freudiano, familionari (familiari/milionari), è soltanto un atto mancato o creazione poetica, un lapsus o un sottile intricato esercizio metaforico. Certo è che la condensazione offre un esito, quel familionari appunto, che è incongruo e sfugge al codice, un resto che, proprio per questo, assume valore di messaggio e appare sul significante come qualcosa di nuovo, come un caso particolare della funzione di sostituzione. Lacan, riprendendo la suggestione di Freud, si chiede qual è la fonte di piacere che procura la battuta di spirito, il Witz. La risposta è che non è adeguato privilegiare soltanto la stagione dell’infanzia, quando “giocare” con le parole è senz’altro piacevole e gratificante. L’invito è a cogliere, piuttosto, il nesso che l’esercizio formale del motto stabilisce con le 111 J. Lacan, Scritti, trad. it., a cura di G. Contri, vol. I, Torino 1974, p. 263. 110 leggi che strutturano l’inconscio: la libertà creatrice, il suo carattere di arbitrarietà: «Si potrebbe dire che il motto di spirito vi fa nascere un essere di poesia». Creazione, lievitazione di senso, accanimento sul significante e sulla dimensione della metafora sono, certamente, le valenze del Witz: quella specificità che, si è detto, lo rende prossimo al linguaggio poetico e, più in generale, delle arti. E che insieme lo distanzia dal comico centrato in prevalenza sull’imitazione e sulla ripetizione, sul doppiaggio e sul fenomeno del sosia112. 2. L’importanza del motto di spirito nell’accostare le produzioni dell’inconscio («… Per cogliere l’ordine dell’inconscio freudiano è necessario attraversare una via che non sia la presa concettuale; ed è proprio del motto di spirito l’introdurre… uno spirito irriducibile, sia alla funzione del giudicare che i rigori concettuali»), la sottolineatura della sua poeticità, insistenza sull’infinito esercizio metaforico, sono momenti che sollecitano la teoria e la storiografia dell’arte a una riflessione ulteriore, riannodando (del resto) fili mai spezzati. Il Witz, infatti, è uno spazio che la teoria dell’arte pratica già dagli anni Venti, con Vygotskij e Bachtin (Vološinov e non è poi Bachitn?) per smontare il progetto della psicoanalisi dell’arte come trama biografica e recinto di contenuti definitivi e universali e per aprire, al tempo stesso, alla testualità e alla storia. «Quello che noi tentiamo, è di pervenire a una pura e impersonale psicologia dell’arte indipendentemente dall’autore e dal lettore, prendendo in esame soltanto la forma e il materiale dell’arte»113. La rilettura lacaniana del motto di spirito credo che coinvolga, direttamente, quel nodo centrale per la critica dell’arte, la relazione iconologia/psicoanalisi lungo l’argine segnato dalle ricerche di Kris e di Gombrich, ricerche rubricabili, almeno per quel che ci riguarda, alla voce, appunto, motto di spirito. All’idea (per essere più precisi) di riutilizzare il dispositivo freudiano dentro il sistema dell’arte figurativa, delle immagini visive: di provare dunque le tecniche del Witz all’interno di un genere specifico, la caricatura («… La caricatura è in fondo una forma grafica di motto di spirito»). Il punto dal quale muove Kris è senz’altro freudiano: l’Herabsetzung della caricatura, 112 (1956-1959) Seminari di Jacques Lacan, raccolti e redatti da J. B. Pontalis, trad. it., Parma 1979, pp. 64, 54, 56, 58, 62, 65. 113 L. S. Vygotskij, Psicologia dell’arte, trad. it., Roma 1972, p. 23. 111 la degradazione di ciò che è elevato, lo smascheramento, la sua forza di ribellarsi contro l’autorità («In questo fattore sta anche il fascino della caricatura, della quale ridiamo anche quando non è ben riuscita, solo perché le attribuiamo il merito di ribellarsi contro l’autorità») inscrivo questo processo in un’economia psichica che tende al risparmio di energia e al raggiungimento del piacere che come nel Witz, deriva da una liberazione di aggressività e dal gioco sapiente della forma. Ma il rapporto con il motto di spirito è sorpreso da Kris anzitutto nella rete che la retorica del Witz stabilisce con il linguaggio del sogno e il sistema dell’inconscio e, ad un altro livello, con l’infanzia. Legami, questi, fra caricatura, motto, sogno, infanzia, garantiti dalla fragile logica del processo primario e dei suoi intricati, difficili, itinerari. Tuttavia, «nel motto di spirito e nella caricatura il processo primario rimane al servizio dell’Io»: un avviso che misura la distanza di Kris da Freud e pone il motto di spirito e la caricatura in lontananza dal linguaggio onirico, immerso nel fluire perverso del processo primario. Comunque, se l’impiego controllato del processo primario e la regressione controllata limitano il processo di Kris, l’intenzione di ricollegare Witz, caricatura, processo primario resta una acquisizione fondamentale: «Il processo primario (aggiunge Kris) deve avere uno strumento su cui esercitarsi. Non può produrre un giuoco di parole che non sia celato nel linguaggio. E allo stesso modo neppure il caricaturista può seguire totalmente la propria fantasia. Egli è legato alla grammatica del suo linguaggio che è la forma; una grammatica, aggiungiamo, che differisce ampiamente dalla grammatica della lingua parlata e di cui manca sinora un’analisi adeguata»114. Un’analisi che lo stesso Kris ha solamente sfiorato. Mentre Gombrich, che alla grammatica del linguaggio visuale ha offerto contributi decisivi, ha però di recente, come si è ricordato, proposto una lettura assai riduttiva della teoria freudiana dell’interpretazione. 3. L’attacco lacaniano al Witz marca, si è detto, l’affinità con il poetico («Col motto di spirito cerco di risvegliare nell’altro il linguaggio con tutto ciò che comporta, allo stato latente, di creazione di senso»): un’affinità che ci aiuta a discutere le conclusioni di Kris e di Gombrich soprattutto, 114 E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte, trad. it., pref. di E. H. Gombrich, Torino 1967, pp. 172, 173, 193. 112 la loro prudenza, stando al riparo dell’irruzione del processo primario e delle sue leggi, in attesa della verità che ci dica l’ultima parola. Ma, al tempo stesso, questa affinità ci fa ripensare anche le risoluzioni di chi, sottolineando la differenza radicale tra il poetico e il Witz, rilancia il poetico come modello di destrutturazione totale, si s-terminio dell’economia politica come di quella libidica. «In questa prospettiva, altri venti storici assumono un’importanza capitale: gli anagrammi di Saussure, lo scambio/dono di Mauss: ipotesi più radicali, a lungo termine, di quelle di Freud e di Marx, prospettive censurate proprio dall’imperialismo delle interpretazioni freudiana e marxista», dice Baudrillard. Così, il poetico, scivolando fra testualità senza resto e senza bordi e s-terminio di ogni regola e legge («… Nel poetico esso – Baudrillard intende il significato – si diffrange e irradia nel processo anagrammatico, non cade più sotto il colpo della legge che lo erige, né sotto il colpo del rimosso che lo lega, non ha più nulla da designare, nemmeno l’ambivalenza d’un significato rimosso»), riconferma, drammaticamente, la sua inscrizione positivistica o la sua infinita nostalgia d’assoluto, l’assoluto della morte e delle operazioni senza equivalenza e senza accumulazione: «… Il poetico… non tace nulla, e nulla ritorna ad assillarlo. Perché ciò che è sempre rimosso e taciuto è la morte»115. Per sfuggire a questa svista non resta alla critica dell’arte che soffermarsi proprio su questa affinità, indicata da Freud e lavorata da Lacan, tra il motto di spirito e il poetico, evitando assimilazioni indebite nel nome del primato dell’economia dell’inconscio come cancellazioni e terminazioni nel segno dell’irriducibilità della morte. Pensare la distanza tra opera e fantasma è diventato, probabilmente, per la critica la domanda più assillante. (1979) 115 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., pp. 11, 243. Un passo dopo: «… Il nulla, la morte, l’assenza, è apertamente detta e risolta: finalmente la morte si manifesta, finalmente è simbolizzata, mentre in tutte le altre formazioni discorsive non è che sintomatica». 113 La storia con Freud 1. L’attenzione di Peter Szondi alla ricostruzione della storia dell’ermeneutica proposta da Dilthey pone una serie di questioni decisive, non c’è dubbio. Il testo di Dilthey esaminato da Szondi, nel tentativo di valutare gli apporti alla fondazione di un’ermeneutica critica e materiale della letteratura, è Die Entstehung der Hermeneutik, apparso nel 1900, in apertura di secolo, e, fatto singolare per il destino delle polemiche che attraverseranno il Novecento, quando Freud portava a termine la prima stesura della Traumdeutung. Il giudizio dello studioso ungherese sul senso dell’esposizione diltheyana si può così riassumere: la ricostruzione che la Die Entstehung propone della storia dell’ermeneutica segue un modello continuista, adatto a risolvere le tensioni positive, talvolta divergenti, che hanno occupato i metodi interpretativi, ma soprattutto conveniente a una nozione astorica dell’intendere. L’arte dell’interpretazione si è, infatti, sviluppata per Dilthey «in maniera affatto progressiva, regolare e lenta» e, come per ogni arte, la sua storia ha concorso innanzitutto alla «esposizione delle sue regole. La scienza ermeneutica è sorta dal conflitto di queste regole, dall’opposizione tra i diversi modi di interpretare delle opere fondamentali e dalla conseguente necessità di fondare quelle regole»116. La tesi diltheyana del «decorso regolare» appare, invece, commenta Szondi, «non poco problematica»: il mutamento storico, infatti, «non si lascerà certo ridurre al fatto che grazie al progressivo approfondimento dell’indagine ermeneutica ora è stato trovato nell’analisi dell’intendimento “un sicuro fondamento” per la formulazione di regole: nella storia, piuttosto, lo stesso concetto di intendimento si modifica, così come si modifica la concezione dell’opera»117. La storia dell’ermeneutica testimonia, perciò, un conflitto non placato tra due intenti, presenti alternativamente nei metodi elaborati dall’interpretazione dei testi obsoleti, il grammaticale e l’allegorico. Questi tentano procedimenti oppositivi, pur nella comune «messa da 116 W. Dilthey, Die Entstehung der Hermeneutik, trad. It., in Ermeneutica e Religione, a cura di G. Morra, Bologna 1970, p.54. 117 P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, trad. it., Parma 1979, pp. 14-15. 115 parte» della distanza storica fra testo e lettore. Infatti, «l’interpretazione grammaticale mira a quel che un tempo s’è inteso dire, e vuol conservarlo o sostituendo all’espressione verbale – in termini linguistici: al segno – divenuto storicamente ostico un segno nuovo, oppure affiancando questo a quello in una glossa. L’interpretazione allegorica, invece, s’accende a contatto col segno ormai ostico, al quale assegna un nuovo significato derivante non dalla sfera di idee del testo ma da quella del suo esegeta». Lo scontro tra i due metodi esegetici e il loro alterno prevalere inducono a una più approfondita coscienza della storicità dell’intendere, a una «risalita, al di là delle regole, verso un’analisi dell’intendimento», merito che lo stesso Dilthey riconosceva a Schleiermacher nel cammino verso una fondazione filosofica dell’ermeneutica118. Il «decorso regolare» diltheyano, nella lettura di Szondi, omologa astrattamente i poli di una «dialettica interna» per la quale «il campo dell’ermeneutica si apre alla storia stessa», nel nome di una virtuosità filologica che, in qualche modo, bloccherà la fondazione della scienza dell’interpretazione al continuiamo storico in ogni senso. I due punti chiave della Die Entstehung restano, sul piano di una riconsiderazione della genesi e dello sviluppo dell’ermeneutica il convergere delle differenze dei metodi nel corso della storia verso «la formazione e l’ordinamento delle regole» come «sicuro fondamenta» della comprensione e, sul piano delle intenzioni epistemologiche, il progetto di un sapere storico che sia prima di tutto «un’interpretazione valida in senso universale», che risponda al «bisogno di una comprensione profonda e universalmente valida», quel bisogno, appunto, da cui è nata la virtuosità filologica119. Un’ermeneutica scientifica è adeguatamente fondata dalla sintesi della virtuosità filologica e della «geniale facoltà filosofica», capace di affiancare alla consapevolezza e all’uso delle regole la «relazione vivente» con il processo stesso della creazione: «Nell’intuizione vivente del processo creativo» Schleiermacher per primo «riconobbe la condizione per la conoscenza dell’altro processo, che comprende in un insieme di segni scritti la totalità di un’opera e da questa l’intenzione e la mentalità dell’autore». Il fine ultimo dell’ermeneutica è, difatti, di «comprendere l’autore meglio 118 P. Szondi, op cit., pp. 21,15. Sul prevalere del modello della continuità che «vanifica l’ermeneutica» in Dilthey, cfr. G. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1980, p.182. 119 W. Dilthey, op cit., p.55. 116 di quanto egli stesso si è compreso. Questa affermazione è la necessaria conseguenza della teoria della creazione incosciente»120. La divaricazione tra ermeneutica letteraria e ermeneutica filologica, che Szondi fa valere contro il persistente filologismo diltheyano (persistente, a suo avviso malgrado l’adesione a Schleiermacher) privilegia l’elasticità dei testi sull’interpretazione, le regole e i criteri della ricostruzione filologica, tanto da fondare la storicità dell’intendimento121. Divaricazione del resto condivisa, ma sostanzialmente tradita da Dilthey, nell’ipotesi di Szondi. «Secondo il principio della indissolubilità di apprensione e valutazione – precisa la Die Entstehung - la critica letteraria accompagna necessariamente il processo ermeneutico, al quale è immanente. Non v’è comprensione senza percepire un valore – ma il valore viene verificato oggettivo e universalmente valido solo mediante un confronto. E ciò suppone anche la determinazione delle norme valide per il genere (ad es. per il dramma). La critica filologica da qui procede. La finalità generale dell’opera viene stabilita e vengono escluse le parti che con quella sono in contraddizione… La critica (letteraria) è dunque la condizione preliminare della critica filologica: essa infatti è volta contro l’incomprensibile e l’insignificante, e la critica (letteraria) trova un ausilio nella critica filologica, della quale è l’aspetto estetico»122. Il lavoro filologico è, allora, una pratica ermeneutica di inclusione e di esclusione, un intervento ausiliare che verifica e rende visibile, evidente e accertabile una forma, un valore, l’unità propriamente estetica percepita, dice Dilthey, dal momento letterario del processo ermeneutico. Il lato letterario/estetico e il lato filologico si dispongono, così, in perfetta specularità e concorrono a restituire un modello di conoscenza attraverso il comprendere, che poggia sul presupposto della certezza del senso. La unitarietà del senso, la definitività della forma, rimane il nocciolo teorico della simmetria e dell’equivalenza dell’estetico e del filologico o, in altri termini, dello scarto filologico e della ricostruzione filologica dentro l’atto interpretativo. «Ogni storiografia veramente vivente e non soltanto 120 W. Dilthey, op cit., pp. 69,76. 121 P. Szondi, op. cit., p.17. 122 W. Dilthey, op cit., p. 86. 117 colorante la vita, è critica… Nella storia succede che ciò che fa spettacolo e balza agli occhi non è il più importante. Le nervature sono invisibili», si legge nel Briefwechsel di Yorck, ripreso nelle note pagine heideggeriane di Sein und Zeit. Ciò che è veramente storico, ciò che si espone «a partire dall’apertura (“Verità”) autentica dell’esistenza storica», non ammette la riduzione all’ontico o, come suggerisce Yorck, all’oculare, in cui si fanno perfettamente visibili la forma e la pienezza computa del senso. Ricondurre il sapere storico alla palpabilità, al tessuto delle pure presenze, non aprirsi al silenzio della storia autentica, significa fare ancora filologia pura e dimentica l’essenziale differenza tra l’ontico e lo storico: laddove, dice Heidegger, «l’ontico è solo una regione dell’ente. L’idea dell’essere abbraccia “ontico” e “storico”. Essa è ciò che si deve lasciar genericamente differenziare». In questo senso le ricerche di Dilthey, per Yorck, «accentuano troppo poco la differenza specifica fra ontico istorico (Historisch)»: infatti, ancora il Briefwechsel, «il procedimento comparativo viene fatto valere come metodo delle scienze dello spirito. Qui dissento da lei… La comparazione è sempre stata estetica, inerisce sempre alla forma». Specificare che l’insieme è una connessione di forze non impedisce, allora, di applicare al concetto di storia la categoria della forma, sia pure «in maniera traslata», in continuità con la tradizione dell’indagine storica che ha sempre difeso la grande ocularità del corpo e della forma, costruendosi su basi «antiquarie ed estetiche nel corso del grande movimento dominante, quello della costruzione meccanica»123. In questa prospettiva, che rimane quella di una ricostruzione storica del significato unitario e compiuto e della restituzione scientifica dell’unità del senso, il momento estetico del processo ermeneutico continua ad essere una variante apparente del filologismo puro, secondo l’avvertimento di Yorck. Nell’individuare il valore, l’ermeneutica letteraria offre al comprendere una presenza piena di cui l’ermeneutica filologica si assume il compito di rendere oculari i percorsi e le connessioni, gli elementi, i monumenti scritti, che la costituiscono. Se il compito di una scienza ermeneutica come appare universalmente valido è quello di rivivere il processo di una creazione inconscia, se il conoscere storico si compie nell’atto dell’intendere, nel 123 M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it., a cura di P. Chiodi, Milano-Roma 1953, pp. 412, 408, 414, 411. 118 disvelamento totale di un senso nascosto, nel rendere, cioè, completamente visibile alla coscienza ciò che è inconsciamente prodotto, la letteratura rappresenta un luogo privilegiato di questo comprendere. Le ragioni sono due e impongono in modo forte all’intendere la ricerca della certezza del senso, nel testo diltheyano. In primo luogo perché soltanto «nel linguaggio l’interiorità dell’uomo trova la sua espressione completa, esauriente e oggettivamente comprensibile». Poi perché in una società «piena di menzogna» l’opera di uno scrittore, come di un grande inventore, religioso o filosofo, «non può in ogni caso che essere l’espressione vera della propria vita interiore»124. La trasparenza e la ricchezza con le quali il senso interno si offre linearmente in senso esterno, il nesso fitto e diretto tra le intenzioni e le espressioni, la buona volontà di verità, potremmo dire con una parola di Nietzsche, aiutano in modo decisivo il corretto comprendere, l’uso e la funzione adeguati dell’ermeneutica scientifica, nel progetto della Die Entstehung. Il processo interpretativo esige una ricchezza di segni e l’esclusione, nella costituzione del senso che gli si offre, del suo mascheramento e della sua deformazione. Il continuiamo storico, invocato polemicamente da Szondi nei confronti di Dilthey, che avrebbe ricondotto la storia dei metodi interpretativi al progressivo affinarsi di tecniche capaci di fondare una scienza universalmente valida, un sapere storico i cui contenuti rispondono a un ideale di oggettività, e che perciò, nella critica di Szondi, sottintende una concezione astorica dell’intendimento e un legame riconoscibile con la tradizione filologica, è allora solo il completamento o l’esito di una logica identificativa del senso, di una fiducia nella pienezza significativa, di un progetto di dissoluzione dei procedimenti e delle tecniche per cui il senso stesso non può che darsi incerto, fluttuante e deformato, di un’esclusione radicale della filosofia per la quale, come diceva Nietzsche, «tutto ciò che è profondo ama la maschera». 2. Nello stesso anno di stampa della Die Entstehung, nel 1900, la Traumdeutung di Freud elaborava un modello del conoscere per l’analisi del lavoro del sogno, della Traumarbeit, che assume, proprio al contrario, come imprescindibili artefici della «configurazione del sogno» la povertà 124 W. Dilthey, op cit., pp. 53-54. 119 dei segni, dei contenuti del sogno e la deformazione (Entstellung) del senso, dei pensieri del sogno. L’interpretazione del profondo, di ciò che non è riconducibile, si direbbe con Yorck, alla unicità oculare, è ricostruzione del processo di mascheramento, di travestimento che appare nel gioco di segni limitati, di un numero esiguo di contenuti onirici. Habermas comprende, nella critica al nesso Dilthey/Freud, che indubbiamente Freud ha orientato l’interpretazione dei sogni (o l’atto dell’interpretare in generale) «al modello ermeneutico del lavoro filologico», e che, tuttavia, va chiarito come anche la filologia, rivolta a ricostruire le «connessioni di simboli», come nell’esempio diltheyano, «rimane limitata ad un linguaggio in cui si esprime ciò che è inteso consapevolmente», al significato modellato sul lavoro unificante della coscienza. «Ma il lavoro di interpretazione dell’analista si distingue da quello del filologo non solo attraverso l’articolazione di un particolare ambito oggettuale; esso esige un’ermeneutica specificamente allargata, che di contro all’usuale interpretazione delle scienze dello spirito tenga conto di una nuova dimensione». Al modello filologico diltheyano Freud oppone, sicché, un’ermeneutica del profondo, capace di «cogliere non solo il senso di un testo eventualmente deformato ma il senso della deformazione stessa del testo, la trasformazione di un pensiero latente del sogno in quello manifesto; deve allora ricostruire ciò che Freud ha chiamato il lavoro del sogno»125. L’ermeneutica del profondo è, dunque, adatta a comprendere la deformazione del testo ma anche il senso di questa deformazione. Così, è evidente come l’indicazione di Habermas aiuti a capire che l’interpretazione del deformato, la tematizzazione dell’Entstellung, non aspiri nel progetto della Traumteutung a ricomporre la forma del testo, il pensiero autentico del sogno, il senso vero ma nascosto, latente travestito e immediatamente irriconoscibile, deformato appunto, nei contenuti del sogno e nei segni manifesti. Anzi il fatto che l’ermeneutica freudiana ponga il problema della deformazione e, al tempo stesso, del senso di questa deformazione, indica che intende la deformazione, l’Entstellung, come un tipo di produzione, di lavoro, quello del sogno nel testo di Freud, che non la eccede né aspira a superarla, ma che, al contrario, la mantiene 125 J. Habermas, Conoscenza e interesse, trad. it., Bari 1970, pp. 211, 210, 216. 120 come un modo specifico di produzione. Il senso della deformazione, per la Traumdeutung, è così la sua conservazione: l’interpretazione non compie, infatti, un movimento che va dal deformato al formato, ma allude a un modello del conoscere capace di cogliere e di costituire la deformazione, appunto. Leggiamo nella Traumdeutung, agli inizi del capitolo sesto sul lavoro onirico: «La prima cosa che appare chiara a chi confronti contenuto e pensieri del sogno è che è stato fatto un enorme lavoro di condensazione. Il sogno è scarno, misero, laconico, in confronto alla mole e alla ricchezza dei pensieri del sogno». La sproporzione tra contenuto e pensieri del sogno si dà anzitutto nella condensazione (Verdichtung), in quanto un contenuto, elemento o segno del sogno, condensa, manifesta più pensieri, più significati. Ma, aggiunge Freud, la quota di condensazione nel lavoro onirico è indeterminabile: il senso del sogno rimane incerto. Perciò «siamo stati costretti a indicare che non si è veramente mai certi di aver interpretato fino in fondo un sogno; persino quando la soluzione appare soddisfacente e priva di lacune, rimane pur sempre possibile che nello stesso sogno si manifesti qualche altro significato». La interminabilità dell’analisi sarà ripresa da Freud, come si sa, nei testi del ’37, in Analisi terminabile e interminabile e in Costruzioni dell’analisi, dove, radicalmente, l’interpretazione è lo stesso linguaggio dell’Unischerheit. Ogni contenuto del sogno si presenta, dunque, come sovradeterminato. Ma il percorso analitico conduce, aggiunge la Traumdeutung, «da un elemento del sogno a più pensieri del medesimo»e, all’inverso, «da un pensiero a più elementi»: se la determinazione multipla inscrive in un elemento più pensieri provoca anche «uno spostamento dell’attenzione da ciò che si intende dire veramente, verso qualche cosa che è contiguo dal punto di vista associativo». Si istituisce, così, tra i contenuti del sogno, i segni, un movimento di contiguità, che Lacan chiamerà l’asse metonimico, uno scorrimento di significati sempre in posizione obliqua rispetto a un significato, a un pensiero del sogno che dovrebbe pienamente apparire nei contenuti del sogno: la certezza del senso dilegua dietro il lavoro di decentramento dei contenuti del sogno. Freud, infatti, nella sezione dedicata alla Verschiebung avverte che «gli elementi, i quali si impongono nel contenuto del sogno come componenti essenziali, non svolgono affatto la stessa parte nei pensieri del sogno. 121 Come correlato, possiamo annunciare la proposizione anche in senso inverso: ciò che nei pensieri del sogno è palesemente contenuto essenziale, non viene necessariamente rappresentato nel sogno. Il sogno è per così dire diversamente centrato»126. La sproporzione, che condensazione e spostamento, «i due artefici alla cui attività possiamo principalmente attribuire la configurazione del sogno», segnano tra contenuti e pensieri il sogno, è dunque la stessa produzione deformante del profondo: il risultato è che il contenuto onirico non rimanda a un nucleo di pensiero, che, infine, tra segno e senso non si dà mai un rapporto di somiglianza e univocità, nel lavoro dell’inconscio e nell’atto di interpretarlo. Dunque, il profondo ama la maschera. L’indicazione di Nietzsche così ritrovata nella freudiana Traumdeutung si amplifica nel rinnovamento di uno spazio nuovo per il lavoro interpretativo, il luogo del linguaggio, dove superficie e profondità si dissolvono, al più indicano, in linea puramente logica, l’asse del segno (metonimico) e l’asse del senso (metaforico)127. Soltanto per questo l’ermeneutica del profondo, di cui parlava Habermas a proposito del lavoro analitico della Traumarbeit, segna una rottura franca con l’ermeneutica filologica e l’ideale di un sapere in grado di restituire, in contenuti universalmente validi, la certezza del senso. 3. Paul Ricoeur ha toccato, a nostro avviso questo punto per il conoscere storico in generale, assegnando alle produzioni storiche il movimento deformativo tipico dell’inconscio freudiano. L’interpretazione della cultura deve rivelare, dice Ricoeur, «nella sua universale significazione il modello del sogno». Se il sogno possiede un senso, e di tipo peculiare, l’interpretazione del sogno assolve alla funzione di modello per «analoghi culturali» e «il valore della psicoanalisi sta nella misura in cui l’arte, la morale, la religione sono figure analoghe varianti della maschera onirica». Le produzioni culturali che specificamente rappresentano le «maschere del desiderio» esigono il metodo della Traumdeutung: se questo «non è 126 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 259, 273, 282. 127 Ci si riferisce, naturalmente, alla lettura lacaniana di Freud. Si cfr. in particolare Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), La cosa freudiana (1955), L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud (trad. it., in Scritti, cit., vol. I). Sull’inconscio e la condizione del linguaggio si veda, all’interno del team lacaniano, J. Laplancge - S. Leclaire, L’inconscio. Un saggio psicoanalitico, trad. it., Parma 1980, pp. 36-46 (con la relativa replica di Lacan alle pp. 93-113). 122 mai stato tradito, ma solo esteso e approfondito, il motivo è che il tema stesso del travestimento, centrale nella Traumdeutung, è venuto a trovarsi esteso e approfondito in tutti i registri in cui gli istinti spingono ciò che li rappresenta e li costituisce»128. E tuttavia, se la deformazione si produce per la connessione profonda delle due direttrici che il lavoro dell’inconscio ha indicato, la metafora e la metonimia, tutti i livelli dell’esistenza storica (non solo quelli dell’arte e dei miti dove sovrabbonda una pulsione creativa) vanno adeguatamente decifrati richiamandosi all’intreccio costante dei due luoghi logici, quello del rapporto dei segni e quello della metafora che in questi s’inscrive. La struttura linguistica del senso storico esige che si tengano insieme, nel lavoro interpretativo, l’esame metonimico o dei nessi sintattici e l’esame metaforico o del valore simbolico. Non è estraneo, allora, l’intenso lavoro di Ricoeur sul freudismo e sul legame tra la Traumdeutung e l’ermeneutica della cultura, quando Le conflit des interprétations suggerisce un incontro un complemento reciproco tra indagini strutturali e indagini ermeneutiche, a proposito del conoscere storico. In che senso, si chiede Ricoeur le considerazioni strutturali«sono la tappa necessaria, oggi, di qualsiasi intelligenza ermeneutica? Più in generale, come si articolano ermeneutica e strutturalismo?», pur avvertendo che «l’articolazione di questi due modi di comprendere pone più problemi di quanto non ne ponga la distinzione tra di essi. Il problema è troppo nuovo perché noi possiamo andare oltre dei discorsi esplorativi». Ricoeur riconosce la possibilità o la persistenza di una gerarchia nell’ordine del linguaggio, ma individua nella parola il luogo di una produzione reale, dove appunto si compie continuamente lo scambio tra «la struttura e l’avvenimento». Fuori del grado della parola la storia è in crisi, si potrebbe dire. La convergenza dei metodi è adatta, perciò,a conoscere il movimento attivo. Non c’è analisi strutturale, continua Ricoeur, «senza intelligenza ermeneutica del trasferimento di senso (senza “metafora”, senza translatio), senza questa donazione indiretta di senso che istituisce il campo semantico, a partire dal quale possono essere identificate delle omologie strutturali... All’inverso, però, non c’è neppure l’intelligenza ermeneutica senza riferirsi ad una economia, ad 128 P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, trad. it., Milano 1966, pp. 185-186. 123 un ordine, in cui la simbolica significhi. Presi per se stessi, i simboli sono minacciati dalla loro oscillazione tra l’ispessimento immaginario o l’evaporazione nell’allegorismo; la loro ricchezza, la loro esuberanza, la loro polisemia, espongono i simbolisti ingenui all’intemperanza e alla compiacenza129. Il problema della deformazione del senso, in verità, era già stato, in qualche modo, al centro del saggio su Freud, quando Ricoeur esponeva il progetto di un procedimento riflessivo spinto dalle scoperte psicoanalitiche: «Il luogo filosofico del discorso analitico», suggeriva allora, «è definito dal concetto di archeologia del soggetto»130. È necessario dopo Freud tornare all’ossessione dell’arcaico, non come punto del tempo, ma come ciò che, allontanato o rimosso, ci costituisce autenticamente. L’idea è quella di una ferita del cogito, dell’evidenza immediata dell’Io penso, io sono, del suo definitivo spossamento. Dopo Freud è, perciò, necessaria una «epoché rovesciata»: «Non si tratta in effetti di una riduzione alla coscienza, quanto piuttosto di una riduzione della coscienza; la coscienza cessa di essere ciò che è meglio conosciuto per diventare essa stessa problematica; vi è d’ora innanzi una questione della coscienza, del divenir cosciente (Bewusstwerden), al posto della cosiddetta evidenza della coscienza (Bewusstsein)». Allo spossamento della coscienza consegue, dunque, l’abbandono della nozione dell’oggetto come evidenza intenzionata, come «falsa evidenza di correlato della coscienza»: questo deve «a sua volta cessare di guidare l’analisi» ma rinviare a un quadro profondo e complesso di costituzione che ne ripropone in termini difficili il problema della genesi. L’ipotesi di un’archeologia del soggetto, valida a fondare un’archeologia concreta, non va oltre l’approfondimento delle forme dell’intendere riferito al dinamismo della coscienza nel modo dell’individualità, del singolo. Né accetta, del resto, una radice messa in questione della costituzione soggettiva del senso, della costituzione dell’oggettività sulla base di un principio unitario e sintetico, quale risulterà comunque la coscienza riconquistata nel suo spessore vitale dalle fasi della riflessione. Riflettere, avverte Ricoeur, è abbandonare e riprendere. La diagnosi archeologica del soggettivo porterà alla conquista 129 P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, pref. di A. Rigobello, trad. it., Milano 1977, pp. 69-70, 94, 75. 130 P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, cit. p. 461. 124 di una coscienza, prima ferita poi risanata, carica infine degli umori della vita e del desiderio. «Che cosa è un esistente che ha un’archeologia?», è la domanda fondamentale. Lo statuto della rappresentazione, dopo il processo archeologico, cade, suggerisce Ricoeur, «sotto le leggi della doppia espressività; la rappresentazione non obbedisce solo a una legge di intenzionalità per cui è l’espressione di qualcosa, ma a un’altra legge per cui è manifestazione della vita, di uno sforzo o di un desiderio... La rappresentazione è allora suscettibile di una duplice indagine, da un lato di una gnoseologia (o di una criteriologia), se la rappresentazione è considerata come rapporto intenzionale regolato da quel qualcosa che in esso si manifesta, dall’altro di una esegesi del desiderio che in esso si nasconde». L’archeologia del soggetto riconosce, così, la dipendenza del cogito dalla posizione del desiderio, che non è colta mai direttamente nell’esperienza immediata («... Non è affatto una dipendenza sentita, è una dipendenza decifrata, interpretata attraverso i sogni, le fantasie, i miti, che costituiscono in qualche modo il discorso indiretto di questa tenebra muta»). Quando, poi, la proposta archeologica da ristretta diventerà generalizzata e Ricoeur elaborerà, per l’analogia tra sogni, ideali e illusioni, una archeologia della cultura, questa non potrà che ripetere le premesse teoriche dell’archeologia del soggetto: il ritrovamento in una «riemergenza dell’antico», in «una strategia del principio del piacere, forma arcaica dell’umano», al di sotto delle sue razionalizzazioni, idealizzazioni, sublimazioni, di nuclei sintetici che danno conto della storia, sia pure di una storia di travestimenti e di negazioni. Questa strategia consente a Ricoeur, non c’è dubbio, di ripetere sostanzialmente le impostazioni, per tanti versi ingenue, della psicoanalisi freudiana (e non solo freudiana) della storia: «Sotto il titolo di “ritorno del rimosso”, Freud ha visto ciò che si potrebbe chiamare un’arcaicità di cultura, prolungando l’arcaicità onirica nelle regioni sublimi dello spirito. Le ultime opere, L’avvenire di un’illusione, Disagio nella civiltà, Mosè e il monoteismo, denunciano con cresciuta insistenza la tendenza regressiva della storia dell’umanità. Si tratta dunque di un aspetto che, anziché affievolirsi, non ha smesso di 125 rafforzarsi»131. La storia di Freud, poi di Ricoeur, finisce col tradire l’idea di un processo come spazio reale di costituzione di sensi irrimediabilmente deformati, che pure la Traumdeutung aveva molto prima annunciato. L’incontro dell’ermeneutica di Ricoeur con Freud intravede, certamente, ipotesi mature per i problemi della considerazione storica, come quelle appunto sottolineate da Le conflit des interprétations, ma si arresta, nell’atteggiamento archeologico, a un’ossessione dell’arcaico come spossessamento della coscienza e del senso soggettivo. Il senso oggettivo, invece, dato ancora nella rappresentazione, resta ciò che è costituito a partire da un cogito, seppure attraversato dai ritrovati cammini della vita e del desiderio. La psicoanalisi della storia insegue, così, più il tracciato della psicoanalisi freudiana della cultura che la via di deformazione del senso, indicata dalla Traumdeutung nella connessione metafora/metotimia. Freud è, dunque, convertito nelle semplici analisi dei dinamismi psicologici del soggetto individuale e collettivo. Il territorio archeologico, infatti, non è solo l’antico e il dimenticato, la radice atemporale dell’inconscio che restituisce alla prima fase dell’itinerario ascetico e riflessivo, come ha detto Ricoeur, un cogito fallito, ma è innanzitutto lo spazio del frammento, del segno obliquo, del monumento muto, del puro contiguo, di quel che è immediatamente svuotato di un’unità significativa, della scheggia, infine del contenuto povero del sogno che non rappresenta mai il pensiero del sogno ma ne mantiene una sproporzione incolmabile. Il territorio archeologico è il luogo di un irreversibile mascheramento, quel profondo che trama all’infinito il senso deformato. Così che le forme non sono che provvisori e secondari effetti di superficie, sviste momentanee che l’arresto della storia impone come regimi di verità. 4. Senz’altro le riflessioni più recenti sui problemi del sapere storico, che, in qualche modo, affrontano la categoria dell’inconscio e i risultati della psicoanalisi, rifiutano la prospettiva, che ha vissuto a lungo dopo Freud, di trasferire gli esiti dell’analitica del soggetto nell’esame delle formazioni storiche, secondo il modello della psicoanalisi applicata. L’attenzione va progressivamente spostandosi alle componenti logiche ed 131 P. Ricoeur, op. cit., pp. 466-467, 498-499, 499-500, 487-488. Per una diversa lettura del Mosè si rinvia a P. C. Bori, Una pagina inedita di Freud. La premessa al romanzo storico su Mosè, in «Rivista di storia contemporanea», I, 1979, pp. 1-17. 126 epistemologiche che le ricerche di Freud ancora oggi possono suggerire per una nuova forma del comprendere. Si dibatte, perciò, il grosso problema della quota personale, della scena fantasmatica del soggetto del comprendere, si insiste sulla possibilità d’uso delle categorie del lavoro psicoanalitico, prima fra tutte quella del transfert/controtransfert, nella ricerca sui metodi. Si dice che il lavoro storico, come quello scientifico in generale, si costruisce, comunque, tra due dimensioni inconsce, quella dello storico e quella delle fonti. La discussione è animata e complessa, ma dagli esiti difficili e ambigui. Un più corretto e ravvicinato bilancio della psicoanalisi come scienza non evita, del resto, un’aspirazione neutralistica, tra gli storiografi, e non sfugge agli ideali di oggettività attivi nell’ermeneutica condivisa da Dilthey. È, certamente, il risultato delle indagini di Friedländer, che aspirano a una storia totale: in questo esempio la psicostoria critica gli schemi consumati del modello biografico ma riassume nel concetto di coerenza strutturale propria il legame verticale che attraversa opera, personalità dell’autore, gruppo sociale132. Più critica, senz’altro, la posizione di Besançon, che oscilla tra l’irruzione del soggettivo (l’inconscio dello storico) e le prospettive, mai raggiunte, di una simmetria tra fantasma e fantasma, una corrispondenza tra il campo fantasmatico dello storico e quello della realtà storica interrogata. La scommessa della psicostoria, secondo Besançon, è che le risposte ai due problemi, quello dell’inconscio del testo e dell’inconscio dello storico, devono essere ricercate insieme. Così come il silenzio del testo, l’analizzato, s’impone allo storico come oggetto d’ascolto e lo impegna a un’attenzione fluttuante, adatta a inseguirne la deriva, lo scorrimento incessante. La deviazione scientista come l’idea di una storia totale sono, dunque, travestimenti dell’atteggiamento conoscitivo che tradiscono la resistenza che lo storico oppone inconsciamente alla storia. Il problema rimane, tuttavia, il controllo del controtransfert, evidente nell’atto dell’intendere, l’utilizzazione cosciente del gioco fantasmatico. L’analisi dell’inconscio 132 Si cfr. S. Friedländer, Storia e psicoanalisi, trad. it., Roma 1977. a proposito si legge: «L’opera dunque porta in se stessa la propria coerenza strutturale, l’impronta decisiva della società ambiente, come quella della personalità dell’autore, e, talvolta, vi si può ritrovare perfino l’eco di archetipi fondamentali che risorgono dal più profondo dell’inconscio. È in seno all’opera che si realizza l’integrazione che mostra la via di una vera storia totale» (p. 103). 127 dello storico, del quoziente soggettivo evita distorsioni, ma ha, per l’interminabilità dell’interpretazione, dei limiti. L’ipotesi è che il lavoro storico è «un’adguazione laboriosa, e alla fine convincete, fra ciò che è reperito all’interno e ciò che è reperito all’esterno... Ogni uomo contiene tutti gli uomini, può reagire a tutti i testi che hanno lasciato e comprenderli. Questa vastità dell’essere umano, possessore virtuale di tutte le configurazioni mentali di cui un altro essere umano è capace; questa unità e fissità del genere umano che permette, per principio, di comprendere gli uomini separati da noi dai secoli e dai mari, sono postulati più vecchi della psicoanalisi, ma legati in essa, alla scoperta dell’inconscio»133. Dire, dopo Freud, che la storia è surdeterminata non significa solo respingere, per un sapere storico affinato, il totalitarismo dei metodi. Esiste una storia psicoanalitica, direbbe la psicostoria, perché necessariamente esistono altre storie, altri modi di comprenderla. La scommessa della determinazione plurale della storia riguarda la misura del senso e della propria logica interna, alla quale è chiamato a rispondere ciascuno dei modelli dell’interpretare. Anche la psicoanalisi. (1980) 133 A. Besançon, Storia e psicoanalisi, cit., pp. 84-85. 128 Storia dell’arte, storia delle cose 1. Civiltà materiale, vita quotidiana, cultura materiale sono nozioni ricorrenti nella storia e nelle altre scienze umane da diversi anni, ormai lo sappiamo. Così come si è consapevoli dell’incertezza semantica che accompagna questi dispositivi. «Insomma , si può dire subito che, nonostante il suo significato globale appaia evidente..., la nozione di cultura materiale continua ad essere, di fatto, imprecisa e insieme contraddistinta dall’illusione della trasparenza; essa è comunque carica d’un insieme di connotazioni abbastanza diverse, di cui sembra non siano stati ancora fatti né recensione particolareggiata né il bilancio»134. Bilancio che, appunto, tentano i nostri autori: recensione per certi versi puntuale perché coglie la storia semantica della cultura materiale dalla preistoria ai suoi arrangiamenti nell’area dell’archeologia, della storia economica e sociale, della storia delle tecniche, ma per un altro lato (che è quello che ora c’ interessa) assai deludente. Deludente perché in questa sfilata la storia dell’arte viene nuovamente rimossa. Il destino della storia dell’arte nei confronti della cultura materiale o della storia delle cose, se si preferisce, è davvero singolare: ora si dice, con risibile boutade, che la Cappella Sistina vale quanto un cassettone (poco più poco meno) ora, per via di un altro delirio, si afferma la poesia della Pittura o dell’Architettura contro la prosa dell’oggetto. Non si esce, cioè, dalla svista di un materialismo ingenuo o dalla grandeur dell’idealismo. 2. «Supponiamo che il nostro concetto dell’arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo 134 Questo testo, scritto in collaborazione con Arcangela Cascavilla, Antonio d’Avossa, Maria Rosaria De Rosa, si riferisce ad una più ampia ricerca che si sta svolgendo nell’ambito dell’insegnamento di Storia della critica d’arte dell’Università di Salerno. I primi risultati sono stati letti al Congresso nazionale di Storia dell’Arte del C.N.R. (Roma, 11-14 settembre 1978) e di recente pubblicati negli Atti, a cura di Corrado Maltese (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 1980). R. Bucaille, J. M. Pesez, Cultura materiale, Enciclopedia Einaudi, vol. IV, Torino 1978, p.271. Si cfr. anche D. Moreno, M. Quaini, Per una storia della cultura materiale, in «Quaderni storici», 31, genn. - apr. 1976, la voce Oggetto di Cesare De Seta, Enciclopedia Einaudi, vol. 9, Torino 1980, il contributo di Tomás Maldonado, La ricollocazione storica dell’oggetto d’uso, negli Atti del Congresso nazionale di Storia dell’Arte, citati, La Storia della cultura materiale di Pesez, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, trad. it., Milano 1980. 129 mondo, tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture»135. Non c’è dubbio che lo sfondamento dei confini teorici della storia dell’arte, proposto da Kubler negli anni ‘70, si avvale di strumenti e di tecniche, di concetti e di analisi dell’universo antropologico: un esercizio che non comporta solamente la consueta verifica interdisciplinare ma implica, radicalmente, la possibilità di ribaltare il punto di vista, di passare dalla storia dell’arte come storia dei prodotti altri ad una più generale storia delle cose. Nel 1975 Kubler, sfidando i colleghi americani critica quella che sembrava ormai la parola d’ordine, la massima teorizzata negli anni ‘50 da Phillips e Willey e definitivamente consacrata nel ‘70: «L’archeologia americano o è antropologia o non è niente»136. In realtà, questa formula, asserita con tanta certezza, riesce solo a testimoniare l’assenza di un metodo specifico al quale l’archeologia possa riferirsi nell’urgenza di individuare una teoria alla quale possa ricollegarsi. Comunque, viene indicata come teoria altra antropologia generale. E tuttavia è inevitabile che il credo americanista ponga subito degli interrogativi relativi all’analisi e alla differenziazione dei prodotti di scavo e alla classificazione dei reperti archeologici. Questi problemi, secondo Kubler, possono essere risolti solo se si accetta di trasformare tale formula in un’ipotesi meno dogmatica e più aperta: «L’archeologia del Nuovo Mondo è tanto antropologia quanto tutto quello che non è incluso nell’antropologia»137. Si tratta, in tal caso, di far reagire la storia dell’arte e l’antropologia in un’ipotesi di etnostoria, dove i modelli dell’antropologia (la differenziazione nello spazio è individuazione delle culture altre) si accompagnino ai modelli storici di differenziazione nel tempo tra culture diverse, ma anche tra i momenti diversi della stessa cultura. Evidentemente Kubler sospetta che l’antropologia sia sprovvista di strumenti di analisi storica – la sua critica investe soprattutto il funzionario malinowskiano degli anni ‘40 e le sue basi antistoriche – è in questa direzione l’esempio dell’analogia etnologica, un modello poco attento 135 G. Kubler, La forma del tempo, trad. it., introd. di G. Previtali, Torino 1976, p.7. 136 G. Kubler, «Storia» o «Antropologia» dell’arte?, trad. it., introd. di G. Previtali, in «Prospettive», 6, 1976, p. 9. 137 G. Kubler, op. cit., p. 10. 130 alle questioni di lunghe durate e ai problemi relativi ai meccanismi di mutamento culturale, viene indicato come un caso esemplare delle procedure antropologiche. Così, l’urgenza di riguadagnare i momenti della storia conduce l’autore all’interno delle discipline da sempre preoccupare di elaborare teorie relative al tempo storico (quelle umanistiche), mentre, su un altro versante, l’antropologia stessa viene riattraversata per individuare le tappe di una riflessione sui problemi della cultura (e Kroeber diventerà un riferimento essenziale). Senza dubbio è l’antropologia, attenta alle differenze nello spazio tra culture diverse e dunque non omogenee, aprendosi ai problemi del tempo storico, non può non rilevare l’insufficienza dei modelli tradizionali della storia dell’arte quasi sempre giocati sulla continuità dei temi e delle forme, sull’ipotesi evoluzionistica di un processo per accrescimento e non per cambiamento, sulla rimozione del discontinuo, degli intervalli e delle cesure. L’elemento di rottura e di messa in discussione di tali procedure, nel percorso kubleriano, diventa la panofskyana nozione di disgiunzione138 che, usata originariamente per caratterizzare il rapporto tra l’arte classica e il medioevo, viene ora indicata come il modello dello sviluppo storico in generale, riletto (quest’ultimo) come svolgimento nel tempo di periodi di differente lunghezza, non sovrapponibili né omogenei e, dunque, tra loro discontinui. Inoltre in una tappa di ricognizione nei territori della storia dell’arte (criticando la tendenza iconologica), Kubler ricerca altre definizioni dell’arte, e indica il modello/ Focillon come il punto di partenza per un’ urgente revisione teorica. Così, le informazioni che intorno agli anni ‘40 questo autore, attraverso la mediazione di Bergson, fornisce sul tempo artistico nei suoi rapporti con il più generale tempo storico, le ipotesi sulla natura della storia (come durata differenziata e sovrapposizione di realtà non omogenee), la definizione di forme del tempo come modi di coesistenza di serie 138 «Ogni volta che nel maturo e tardo Medio Evo un’opera d’arte prende in prestito uno schema da un significato classico, a questo schema si attribuisce quasi sempre un significato non classico, solitamente cristiano; ogni volta che nel maturo e tardo Medio Evo un’opera d’arte prende in prestito un tema dalla poesia, dalla lagenda, dalla storia o dalla mitologia del mondo classico, questo tema è senza eccezioni rappresentato secondo uno schema formale non classico, solitamente contemporaneo.» (E. Panofsky, Rinascimento e rinascenze, trad. it., Milano 1971, p. 105). Questo «principio di distacco» aveva costituito per Kubler un momento di riflessione già nel 1961, in una recensione alla I edizione del testo panofskyano (G. Kubler, Disjunction and Mutational Energy, in «Art News», LIX, n. 10, 1961, pp. 34-35). 131 non identiche ma dotate di durate non omologabili tra di loro (il tempo dell’economia, della politica, dell’arte), infine l’individuazione non di una ma di più storie diventano altrettanti percorsi obbligatori delle proposta kubleriana139. I momenti dell’itinerario di Kubler, teso ad individuare i confini dell’etnostoria e a definirne i caratteri, sono già tracciati nel 1972 con La forma del tempo,dove viene esplicitamente richiesto un allargamento di campo fino al punto da «far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose»140. Tuttavia i metodi dell’interpretazione costituiscono proprio l’elemento più debole dell’intera dimostrazione, mentre centrale diventa l’individuazione dei modelli per la suddivisione/differenziazione delle cose. Si tratta del concetto di sequenza che dovrebbe caratterizzare sia le differenze tra gli oggetti sia il processo del loro sviluppo temporale. Nel tentativo, poi, di approntare tecniche di misurazione adeguate alla natura della sequenza (discontinua al suo interno e nel rapporto con altre serie), Kubler rivela l’insufficienza dei modelli tradizionali della storia che «non conosce una tavola periodica degli elementi, né classificazioni per tipi e specie: c’è soltanto la misura solare del tempo e qualche vecchio sistema di raggruppamento degli eventi, senza però alcuna teoria di struttura temporale»141. Come modello alternativo viene indicata un’ipotesi relativa ai periodi, alle loro lunghezze e durate: l’indizione, la generazione, il secolo. Adesso il punto di riferimento diventa Kroeber e l’analisi condotta in collaborazione con la Richardson sulle durate e i periodi di trasformazione della moda femminile142. 139 H. Focillon, Vita delle forme,in Scultura e pittura romantica in Francia, trad. it., introd. di E. Castelnuovo, Torino 1972, pp. 223-227. quasi negli stessi anni, le indicazioni di Focillon verranno assunte da Bastide all’interno di un diverso orizzonte teorico: la sociologia dell’arte (R. Bastide, Art et societé, pref. di J. Duvignaud, Paris 1977). C’è da rilevare che Kubler, nel momento in cui salta tale riferiemnto, trascura i problemi relativi al rapporto tra l’arte e le altre istituzioni sociali. Si cfr. A. D’ Avossa, Roger Bastide, un’estetica sociologica come problematica dell’immaginario, in «Misure critiche», dic. 1978. 140 G. Kubler, La forma del tempo, cit., p. 7. 141 G. Kubler, op. cit., pp. 115-116. 142 A. L. Kroeber, L’ordine dei mutamenti della moda, in La natura della cultura, trad. it., introd. di F. Remotti, Bologna 1974, pp. 619-627 e A. L. Kroeber e J. Richardson, Tre secoli di moda femminile, un’analisi quantitativa, in A. L. Kroeber, op. cit., pp. 669-670. 132 Senz’altro Kroeber costituisce una stazione obbligatoria della traversata antropologica operata da Kubler proprio per l’attenzione che questo autore rivolge alla mediazione del punto di vista delle scienze naturali e delle discipline umanistiche .E, poi, perché, nel progetto kroeberiano, è evidente il tentativo di pervenire a una visione estetica della civiltà, nella quale i problemi della storia dell’arte assumo una centralità e una rilevanza innegabili143. Certamente l’indicazione che la civiltà costituisca un ordine che va ricondotto all’interno della natura, dalla quale affiora attraverso una rottura, un’evoluzione emergente (torna ancora la lezione bergsoniana), un salto, una discontinuità, permetterà a Kubler di ricondurre la storia dell’arte nella latitudine della storia delle cose, ma anche di sottolinearne le differenze. Su un altro versante l’ipotesi che il metodo più pertinente per i fenomeni culturali sia l’approccio storico-descrittivo, contrapposto a quello analitico-scentifico, sarà un ulteriore elementi di mediazione. L’informazione, poi, che gli elementi culturali intanto sono riconoscibili in quanto sono riferiti a un modello di base, e l’individuazione oltre che dell’appartenenza anche della posizione all’interno del modello, potrà costituire il punto di partenza per la classificazione degli oggetti in sequenza, attraverso l’analisi delle loro caratteristiche comuni144. Tuttavia è necessario rilevare subito che la sequenza nella prospettiva di Kroeber si configura a partire da un modello di base che viene esplicitamente riconosciuto come modello inconscio. Questo nudo teorico consente, infatti, di cogliere le differenze tra le serie, mentre, in un’altra direzione, analizzando un singolo segmento culturale (la moda), l’uso del modello inconscio permette di determinare le relazioni tra i diversi elementi del costume e di stabilire le leggi di evoluzione della sequenza145. Non c’è dubbio che nel percorso kroeberiano esiste pure uno sforzo teso 143 A. L. Kroeber, Lo «stile» nello studio comparato delle civiltà, trad. it., in L. Bonin e A. Marazzi, Antropologia culturale, Milano 1970, pp. 329-345 e sopratutto A. L. Kroeber, Style and Civilizations, Berkeley and Los Angeles, 1963. 144 Per una prima lettura della teoria kroeberiana si rinvia all’introduzione che Remotti ha scritto per La natura della cultura. 145 Rileggendo tali indicazioni e certamente forzandone l’interpretazione, Lévi-Strauss definirà strutturali queste analisi sulla moda, anche se l’approach di Kroeber è descrittivo e storico e non scientifico (Cfr. F. Remotti, introd. cit., p. XXIX). 133 a definire i compiti della storia e i modelli dell’analisi storica. «La storia è sempre, a modo suo, interpretativa;... perciò si occupa di relazioni funzionali;... è per sua stessa natura ricostruttiva; e non può mai fare a meno, a lungo andare, di interpretazioni». E ancora: «... In realtà tutta la vera storia non è altro che un’interpretazione ottenuta mediante la descrizione dei fenomeni in termini di contesto»146. Distrutto l’ingenuo modello realistico, che postula l’oggettiva realtà del fenomeno da registrare, ordinare, classificare, Kroeber apre una prospettiva di natura strutturale: «La preoccupazione principale, tuttavia, non è quella di rintracciare gli spostamenti spazio-temporali di un’unità invariabile e fissa..., bensì di seguire i mutamenti di questa unità o sistema nelle sue forme e nelle sue funzioni, di individuarne i derivati, le perdite e le aggiunte..., le sistematizzazioni e le semplificazioni, le mancate accettazioni, le associazioni di prestigio, le modificazioni stilistiche, le cristallizzazioni e i mutamenti rivoluzionari»147. Il ruolo di struttura viene qui giocato dalla nozione di modello: «L’attaccamento alle forme e alle successioni dei fenomeni stessi, nella loro reale concatenazione o nelle loro reali contiguità, consente un riconoscimento di modelli che è affine alla formulazione degli stili»148. La nozione sotto accusa diventa il fattore-tempo, che una certa storia ha per troppo tempo privilegiato: «L’elemento temporale non è il fattore più distintivo della storia – come si ritiene e si afferma ancora spesso, ma con superficialità. Nella storia la determinazione spaziale è importante quanto la determinazione temporale... L’elemento temporale tende ad essere spesso una delle incognite che occorre ricercare, anche se l’obbiettivo fondamentale è pur sempre una configurazione qualitativa, uno stile o una fisionomia, rispetto ai quali la collocazione spazio-temporale aderisce come una proprietà. Storie particolari possono sopprimere o considerare costante, ora il tempo ora lo spazio... E come altrimenti si può designare l’etnografia... se non soprattutto come un resoconto di un particolare stile culturale, di un brano di storia senza tempo?»149. 146 A. L. Kroeber, Storia ed evoluzione, in La natura della cultura, cit., p. 170. 147 A. L. Kroeber, op. cit., p. 173. 148 A. L. Kroeber, op. cit., p. 179. 149 A. L. Kroeber, op. cit., pp. 181-182. 134 Non si può non rimarcare che i suggerimenti di Kroeber relativi alla storia e l’urgenza di definire gli elementi per una teoria d’analisi storica diventeranno centrali nell’itinerario di Lévi-Strauss (ancora una volta si insisterà sul carattere interpretativo della storia e il modello assumerà una chiara cifra strutturale). Il disinteresse per le proposte kroeberiana sulla storia e l’irrilevanza del rapporto fenomeno/modello rende estremamente difficile a Kubler il compito di stabilire modi di differenziazione tra gli oggetti, tanto da essere costretto ad usare strumenti sospetti o almeno poco pertinenti. Inoltre, l’attenzione ai fenomeni disposti in sequenza e alle misurazioni delle loro variazioni richiede che la teoria individui una legge di sviluppo della serie indipendentemente da altri tipi di condizionamenti. In Kroeber questa funzione sarà svolta dalla nozione di stile, alla quale si chiede di sottolineare una successione come sequenza e di porsi contemporaneamente come modello di differenziazione e di discriminazione. E sarà proprio il concetto di stile ad essere investito, nell’ipotesi kroeberiana, dai caratteri di discontinuità, sia nella relazione tra fenomeno e modello che nei rapporti con gli altri stili. Ma la nozione di stile rientra nell’insieme di quegli strumenti teorici espulsi dal vocabolario kubleriano: «Tutta l’immensa letteratura artistica esistente è radicata nei labirinti della nozione di stile: le sue ambiguità e le sue inconsistenze riflettono tutta l’attività estetica nel suo insieme. Stile riscrive una figura specifica nello spazio più che tipo di esistenza nel tempo»150. Tale rifiuto viene assunto, direttamente, dal lavoro di Schapiro, un riferimento obbligato per ripensare il concetto di stile151. Kubler, però sottolinea in negativo il significato di questa proposta, avvertendo che Schapiro «passa in rivista le principali teorie correnti sullo stile, per concludere sconsolatamente che “una teoria dello stile adeguata ai problemi psicologici e storici non è stata ancora formulata”»152. Eppure già nel 1968 Uspenskij suggeriva una lettura di Schapiro (che in realtà non liquida la nozione di stile, ma ne sottolinea l’intera problematicità) in una più pertinente direzione semiotica, per verificare se in questa 150 J. Kubler, La forma del tempo, cit., p. 10. 151 M. Schapiro, Style, in Anthropology today, a cura di A. L. Kroeber, Chicago-London, 1953. 152 J. Kubler, La forma del tempo, cit., pp. 10-11, nota 1. 135 prospettiva sia possibile sciogliere certi disagi teorici. A partire dall’indicazione di Schapiro, che tende a privilegiare l’accezione collettiva dello stile, inteso come produzione socio-culturale, rispetto ad altre definizioni che puntano sul lato privato e individuale, Uspenskij concede lo statuto di semiotico soltanto al primo tipo di approccio, in quanto capace di porre e di differenziare i due piani dell’espressione e del contenuto: «La peculiarità della differenziazione stilistica dipende sostanzialmente dal fatto che i differenti stili che si possono considerare come sistemi minimi (microlinguaggi) di comunicazione, sono caratterizzati dalla variabilità, vale a dire costituiscono delle varianti all’atto della realizzazione di un certo sistema d’ordine più genenrale (microlinguaggi) o, in altre parole, come dei sottolinguaggi sostanzialmente equivalenti di una stessa lingua»153. L’apertura alla semiotica consente a Uspenskji di sorprendere nello stile un fenomeno di natura strutturale, analizzabile con strumenti linguistici e di superare al tempo stesso le polemiche sulla definizione dell’ambigua nozione di stile154. Registrando l’assenza di questi decisivi nodi teorici, la proposta di Kubler risulta debole proprio nel punto focale dell’intera dimostrazione: l’individuazione dei criteri di distinzione degli oggetti all’interno della storia delle cose e la definizione dei modelli di differenziazione tra serie diverse. La contrapposizione offerta tra oggetti della scienza (utili) e oggetti dell’arte (inutili), con richiami evidentemente kantiani, rigerarchizza gli oggetti in precedenza scomposti sotto un’unica rubrica e attribuisce connotazioni supplementari e privilegiate ai prodotti artistici, la qualità, l’unicità, l’inutilità. Così che la storia dell’arte, pur dislocata in una storia più generale di cui condivide i modi di esistenza e di sviluppo nel tempo, finisce con l’essere se non un caso particolare almeno un caso speciale. Ma non basta. Il progetto di Kubler si rivela non solo inadatto a 153 B. A. Uspenskij, Problemi semiotici dello stile alla luce della linguistica, in J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Semiotica e cultura, trad. it., introd. di D. Ferrari-Bravo, Milano-Napoli 1975, p. 37. 154 Per i problemi della storia dell’arte, che deve la sua specificità proprio alla utilizzazione del concetto di stile, e soprattutto per il superamento della dicotomia stile individuale/stile epocale attraverso l’ipotesi stile/struttura si cfr. R. De Fusco, Storia e stuttura. Teoria della storiografia architettonica, Napoli 1970. 136 fornire calibrati modelli di differenziazione per l’analisi delle singole sequenze, ma anche poco pertinente a conservare alla storia il carattere di discontinuità che la teoria vuole salvare a ogni costo. Il discontinuo, tematizzato da Kubler, conserva l’omogeneità degli elementi della serie (in cui le posizioni sono determinate in anticipo e soprattutto già registrate), così che la storia della sequenza continua a svolgersi lungo una traiettoria orizzontale a partire da una preistoria quasi mitica fino ai tempi più recenti. In tal modo, assegnando discontinuità soltanto agli intervalli tra le serie e conservando la continuità delle forme , di cui sono sempre previste le possibili variazioni, la teoria kubleriana finisce per riconsegnare al discontinuo gli stessi caratteri della continuità: omogeneità e linearità. Le contraddizioni dell’ipotesi di Kubler sembrano ascriversi al limite teorico dell’intera proposta che registra l’assenza di un incontro corretto con i modelli della linguistica. Infatti la specificità del prodotto artistico, che un’attenzione ai modi di costruzione dell’oggetto avrebbe meglio configurato, è ricalcata su schemi ormai abbandonati anche dalla più consapevole storia dell’arte: le singole serie non hanno carattere di sistema, le differenze di sequenze non si connotano come differenze di strutture. Il cammino di Kubler rientra, perciò, anche nei modi tradizionali delle storia dell’arte, come testimonia, tra l’altro, l’analisi di un testo sull’architettura spagnola, scritto nel ‘59, quando gli interessi antropologici erano già dichiarati155. Qui il discorso si limitava all’attribuzionismo e all’indagine tipologica degli edifici esaminati nella loro insularità di pianta, mentre ritornano consuamti modelli storiografici legati ai concetti di scuola, personalità e stile. 3. Diventa, pertanto, urgente, nel tentativo di dare altri fondamentali alla proposta kubleriana (un atlante della storia delle cose), percorrere sentieri diversi, nei territori dell’antropologia, alla ricerca di più corrette configurazioni dell’oggetto. La culturologia e l’ecologia culturale ci offrono, senz’altro, la possibilità di praticare una nozione di cosa meno compromessa da residui kantiani e ridefinita da connotazioni materialistiche. 155 G. Kubler, M. Soria, Art and Architecture of Spain and Portugal and their American Dominions, Pelican History of Art, 1959. 137 Per White la cultura consiste di «oggetti materiali – arnesi, utensili, ornamenti, amuleti, ecc. – atti, credenze e atteggiamenti che funzionano in contesti caratterizzati dal simboleggiare»156. Quest’intricata rete di rapporti costituisce il sistema attraverso il quale viene controllata l’energia e sfruttata al servizio dell’uomo. La legge dell’evoluzione culturale che White formula pone l’accento sull’importanza determinante degli strumenti tecnologici, rispetto ai quali i sistemi sociali e filosofici sono aggiunte ed espressioni: «Altri fattori rimanendo costanti, la cultura si evolve coll’aumentare della quantità di energia catturata e sfruttata pro capite per anno, o coll’aumentare dell’efficienza dei mezzi strumentali adibiti nell’impiego dell’energia»157. La produzione culturale è così indicata come una variabile dipendente dalla sua base materiale, mentre le leggi di trasformazione culturale sono riferite alle più importanti leggi di trasformazioni tecnologica. La strategia materialistica di White riceve ulteriori precisazioni dalla distinzione operata all’interno della struttura culturale, pensata come una relazione di relazioni: il sottosistema tecnologico, quello sociologico e quello ideologico. «Il sistema tecnologico è composto dagli strumenti materiali, meccanici, fisici e chimici e dalle tecniche relative al loro uso, mediante i quali l’uomo, in quanto specie animale, affronta e domina il suo habitat naturale. Troviamo qui gli arnesi della produzione, i mezzi di sussistenza, i materiali di ricovero, gli strumenti di offesa e difesa. Il sistema sociologico è costituito da relazioni interpersonali espresse in modelli di comportamento, così collettivi come individuali. In questa categoria troviamo i sistemi sociali, di parentela, economici, etici, politici, militari, ecclesiastici, occupazionali e professionali, ricreativi ecc. Il sistema ideologico è composto da idee, credenze, conoscenze, espresse nel linguaggio articolato o in altra forma simbolica. Mitologie e teologie, leggende, letteratura, scienze, saggezza popolare e buon senso comune danno luogo a questa categoria»158. L’interazione delle tre categorie vede la tecnologia assolvere a un ruolo determinante: infatti, «un sistema sociale è una funzione di un sistema tecnologico... C’è un tipo di pensiero per 156 L. A. White, La scienza della cultura, trad. it. , Firenze 1969, p. 329. 157 L. A. White, op. cit., p. 333. 158 L. A. White, op. cit., p. 330. 138 ogni tipo di tecnologia»159. E ancora. «I sistemi sociali sono... determinati dai sistemi tecnologici, e le filosofie e le arti esprimono l’esperienza così come è definita dalla tecnologia e rifratta dai sistemi sociali»160. I tratti culturali reagiscono, così, uni con l’altro immediatamente e direttamente: «Una zappa è prodotto culturale. Esso agisce direttamente su – e influenza altri – prodotti culturali come la divisione del lavoro fra i sessi, le usanze relative alla residenza, le abitudini alimentari, le credenze religiose e le cerimonie, e così via»161. Anche se, nel tentativo di delimitare i confini della culturologia ed indicare i suoi oggetti di analisi, White tende inevitabilmente a identificare la cultura con le visioni del mondo e il prodotto culturale con l’atto di conoscenza, l’oggetto di cultura è riguadagnato alle sue basi materiali e al suo rapporto con le tecnologie, situandosi a un livello differente rispetto agli strumenti di produzione, ma certamente non separato né privilegiato. Che, poi, la dimostrazione tenda a rilevare una scienza della cultura come continuum che ha in sé le sue leggi è provato da enunciazioni di casualità nomotetiche con caratteri di prevedibilità: «Il principio di causa ed effetto opera nel regno dei fenomeni culturali come in ogni altro campo della nostra esperienza. Ogni data situazione culturale è stata determinata da altri eventi culturali. Se certi fattori sono operanti, si realizza un certo risultato. All’inverso, certe realizzazioni culturali non possono essere effettuate, per quanto caldamente possono essere desiderate, se i fattori necessari alla realizzazione non sono presenti operanti»162. Nel rapporto a due termini che White stabilisce tra cultura e tecnologia, Steward163 introduce un terzo elemento, l’habitat, al quale viene assegnato il compito di spiegare le differenze tra culture diverse, come pure di ricercare le cause del cambiamento culturale, con formulazioni alternativamente sincroniche e diacroniche. L’ecologia culturale registra la tendenza delle culture ad evolversi secondo linee sostanzialmente simili quando si trovano in situazioni tecnico-ambientali analoghe. Se 159 L. A. White, op. cit., p. 331. 160 L. A. White, op. cit., p. 351. 161 L. A. White, op. cit., pp. 114-115. 162 L. A. White, op. cit., p. 370. 163 J. H. Steward, Teoria del mutamento culturale, trad. it., Torino 1977. 139 i mutamenti delle culture sono fatti risalire a nuovi adattamenti resi necessari dal cambiamento della tecnologia e delle soluzioni produttive. Steward è pure attento a come le tecniche vengono usate da ambienti diversi comportando assetti sociali differenti. Accanto alle variabili tecnico-economiche, diventano ora determinanti le variabili tecnicoambientali, in grado di modificare culture storicamente determinate. L’analisi, che nella proposta della culturologia tendeva a marcare la lettura diacronica su scala globale164, nell’ipotesi di Steward individua i tagli orizzontali e verticali della storia, puntando non sulle continuità culturali ma piuttosto sui tratti specifici, i buchi e le fratture del tessuto storico. Il percorso dell’ecologia attraversa non blocchi omogenei di culture ma tipi culturali, «costellazioni particolari di tratti tra di loro interconnessi casualmente, che sia dato di ritrovare in due o più culture, ma non necessariamente in tutte»165. Così, l’individuazione dei livelli di integrazione socioculturale,corrodendo una presunta unità delle culture nazionali, salva la specificità e il discontinuo: «… Il concetto di livelli può essere utilizzato come strumento analitico per lo studio del mutamento all’interno di qualsiasi sistema socioculturale particolare, dal momento che ogni sistema si compone di parti che si sono sviluppate a stadi diversi e attraverso processi diversi e che, benché specializzate da un punto di vista funzionale nella loro dipendenza dal tutto, continuano a integrare certe porzioni della cultura»166. Inoltre la cultura, non più identificata con le filosofie/visioni del mondo, in maniera più decisa viene riscritta nel nucleo culturale (insieme degli elementi che sono più strettamente connessi con le attività di sussistenza e con le soluzioni economiche) e assume, posta accanto agli strumenti di produzione e alle tecnologie, lo stesso ruolo di protagonista nel processo di cambiamento socioculturale. La ridefinizione dell’oggetto culturale come oggetto tecnico-materiale e l’apertura su modelli d’indagine storica attenti alla discontinuità 164 «Il funzionamento di ogni particolare cultura sarà naturalmente influenzato dalle condizioni ambientali locali. Ma, considerando la cultura nel suo complesso, possiamo fare la media di tutti gli ambienti per formare un fattore costante che può essere dalla nostra formula dello sviluppo culturale» (L. A. White, op. cit., p. 333 n. 3). 165 J. H. Steward, op. cit., p. 35. 166 J. H. Steward, op. cit., p. 76. 140 costituiscono, certamente, le linee più interessanti del discorso di Steward, anche se bisogna rilevare che l’analisi ecologica, diretta alla ricerca di leggi, recupera i modelli ricorrenti più che le differenze. Harris, dal canto suo, facendo reagire questi due universi teorici (culturologia ed ecologia culturale) mette fine alle sterili polemiche sull’unilinearità o sulla multilinearità dell’evoluzione culturale e legge in questi tentativi il progetto di pervenire a una scienza della cultura capace di rendere conto sia della continuità che delle trasformazioni: «Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che la riabilitazione della strategia del materialismo culturale… dipende… dalla possibilità che l’impostazione dia origine a ipotesi esplicative fondamentali, sottoponibili ai collaudi della ricerca etnografica e archeologica, modificabili se necessario, e incorporabili in un corpus di teoria capace di spiegare i caratteri più generalizzati della storia universale, e le particolarità meno comuni di culture specifiche»167. All’incrocio tra questi due poli, il materialismo culturale apre la strada alla nozione di cultura materiale, dove torna il concetto di cosa, ridefinita, però come oggetto di produzione. Nella lettura di Kula la storia della cultura materiale si occupa, infatti, dei «mezzi e dei metodi praticamente impiegati nella produzione, cioè di questioni relative alla produzione e al consumo nel più ampio significato di questi termini»168. 4. In questa prospettiva diventa, naturalmente, centrale l’attenzione all’archeologia, perché è in grado di fornire ulteriori informazioni sullo sviluppo culturale e sulle civiltà sepolte. «Questa relazione, avverte ancora Harris, ha recato vantaggi in due direzioni; ha svolto cioè una funzione chiare sia nel mettere a disposizione delle questioni nomotetiche i risultati dell’archeologia, sia nel consentire l’utilizzazione dei frutti positivi della strategia cultural-materialistica nello svolgimento e dell’interpretazione 167 H. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico, trad. it., introd. di C. T. Altan, Bologna 1971, p. 924. 168 W. Kula, Problemi e metodi di storia economica, trad. it., Milano 1972, pp. 61-66, cit. in A. Carandini, Archeologia e cultura materiale, Bari 1975, p. 98. Per il dibattito sulla «lunga durata» cfr. inoltre AA. VV., La storia e le altre scienze umane, a cura di F. Braudel, trad. it., Bari 1974. La proposta di analisi della cultura materiale che si ponga esolusivamente come ricognizione sulle tecniche è avanzata da Braudel, nel 1967, in Capitalismo e civiltà materiale, trad. it., Torino 1977. 141 della ricerca archeologia»169. Non c’è dubbio che Carandini, tra i primi, ha colto questo nodo quando sottolineato che «il metodo archeologico non appare più come uno strumento erudito per lo studio di determinate società antiche, bensì un metodo di ricerca per lo studio della storia reale umana dalla preistoria ai giorni nostri, metodo che ci insegna a scoprire ed intendere il linguaggio delle cose, mezzi non soltanto di produzione e di sostentamento ma anche di comunicazione di messaggi»170. La nozione di cosa, ridefinita dal materialismo culturale come oggetto di produzione, riceve ora una calibratura più precisa inscrivendosi nella meraviglia dell’universo segnico. È determinante, come vedremo, la lezione di Lévi-Strauss. Infatti, esplicitamente, Carandini, nell’affermare che le cose sono «significanti di significati», richiama quel celebre passo lévistraussiano dell’Elogio dell’antropologia dove è detto che «le tecniche prese isolatamente possono sembrare un dato grezzo» mentre invece vanno intese «come l’equivalente di altrettante scelte che ogni società sembra fare … nell’ambito di una serie di possibilità»; ad esempio «un certo tipo d’ascia di pietra … (può) essere un segno: in un determinato contesto esso sostituisce … l’utensile diverso che un’altra società utilizzerebbe per gli stessi scopi»171. L’idea che le cose si organizzano in sistemi e che tali sistemi debbono essere decifrati con modelli di analisi semiotici viene, però, ridotta da Carandini ad una questione di semplice «parallelismo linguistico»: si passa, così, dai monemi e fonemi della lingua ai fenomeni e factemi delle cose. Questa risoluzione, semioticamente ingenua, riduce la stessa portata teorica dell’antropologia strutturale. Lévi-Strauss ci ha insegnato che «la lingua è il sistema significante per eccellenza; non può non significare; e il tutto della sua esistenza sta nel significato. Invece il problema va esaminato con un rigore crescente, man mano che ci si allontana dalla lingua per considerare altri sistemi»172. Ed ancora, come ha ribadito di recente nell’introduzione a La linguistica e le scienze dell’uomo di 169 H. Harris, op. cit., p. 909. 170 A. Carandini, op. cit., pp. 100-101. 171 C. Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Trad. it., Torino 1967, p. 58, cit., in A. Carandini, op. cit., p. 105. 172 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. it. Milano, 1966, pp. 62 -63. 142 Jakobson, «il linguaggio, come ogni altra istituzione sociale, presuppone delle funzioni mentali operanti a livello inconscio». Solo riconoscendo questo carattere della lingua e, più in generale, dei sistemi semiotici «ci si mette in grado di raggiungere dietro alla continuità dei fenomeni, la discontinuità dei principi organizzatori che normalmente sfuggono alla coscienza del soggetto parlante o pensante»173. Cosa significa, in sostanza, questo inteso transito se non l’individuazione di livelli di discontinuità radicali al di sotto di «zona di storia, ciascuna delle quali è definita da una frequenza propria, e da una codificazione differenziale del prima e del poi»174. Non c’è dubbio che lungo quest’argine si rivelano inadeguati e mancanti, come si è accennato, il discontinuo kubleriano (che salva l’omogeneità della sequenza) e la multilinearità dell’evoluzione culturale si Steward, che registra più le ricorrenze che le differenze. Si dimostra non meno inadeguata la manovra di Carandini. E, su un registro un po’diverso, risulta difficile la tesi di Barilli, che, da una posizione culturologica, aggredisce il discorso semiotico per la propensione a «considerare la produzione non nel suo darsi in atto, nel suo aggredire – lavorare – trasformare l’ambiente, ma nel momento in cui essa diviene il fatto, cioè un dato informativo, codificabile e trasmissibile … il culturale viene così coartato nel solo aspetto conservativo, nell’accumulo, nella banca o memoria dei dati»175. Tanto che Segre, rileggendo gli stessi autori di Barilli (cioè Uspenskij e Lotman) avverte, dal canto suo, che «questa grande banca semiotica della cultura ha comunque dei testi come imput, ancora dei testi come output. Si vorrebbe allora esaminare il funzionamento di accumulo dei testi (o meglio dei loro contenuti) e di produzione di nuovi testi. Su questo problema Lotman è altrettanto realista che per quello dei rapporti col mondo rappresentato: egli usa testi per descrivere la produzione 173 C. Lévi-Strauss, Introduzione a R. Jakobson, La linguistica e le scienze dell’uomo, trad. it., Milano 1978, p. 14. 174 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, trad. it., Milano 1964, p. 281. Sul problema della discontinuità e della multi linearità storica si cfr. anche la recente discussione tra C. Lévi-Strauss, M. Augé, M. Godelier, Anthropologie, Historie, Idéologie, in «L’Homme», juil – déc. 1975, pp. 177 – 188- così ancora in un articolo del 1968 : «Non c’è una ma delle storie, una polvere di storie» (La grande aventure de l’ethnologie, in «Le Nouvel Observateur», n. 166). 175 R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla cultura, in «Op. Cit.», n. 35, 1976, ora in AA. VV., Estetica e società tecnologica, a cura di R. Barilli, Bologna 1976, pp. 52 -53. 143 culturale»176. Sorprendenti risultano, invece, per l’approfondimento del nostro discorso, che le ricerche di Leroi-Gourhan, che, utilizzando gli esiti delle scienze naturali e della linguistica, dell’antropologia come dell’archeologia per rileggere il sistema degli oggetti come sistema di relazioni e per analizzare la strutture formali che lo costituiscono, evita le tipiche e pericolose gerarchizzazioni tra l’oggetto d’uso e l’oggetto d’arte. La riflessione sull’oggetto, infine, è accompagnata dalla riformulazione di un’estetica del comportamento umano direttamente collegata con le tecniche di fabbricazione177. «Il senso qui dato alla parola estetica è abbastanza vasto… Se si tratta di ricercare effettivamente ciò di cui la filosofia ha fatto la scienza del bello nella natura e nell’arte, bisogna porsi…in una prospettiva paleontologica in senso generale, prospettiva nella quale il rapporto dialettico fra la natura e arte segna segna i due poli dell’aspetto zoologico e di quello sociale. Non si tratta, in tale prospettiva, di limitare all’emotività essenzialmente uditiva e visiva dell’homo sapiens la nozione di bello, ma di ricercare in tutta la profondità delle percezioni il mondo come si costituisce nel tempo e nello spazio un codice delle emozioni che assicura al soggetto etnico l’essenziale dell’inserimento affettivo nella sua società»178. Il procedimento di rilettura attivato da Leroi-Gourhan tiene in primo luogo i due criteri principali che garantiscono la composizione di quel «tessuto di relazione fra l’individuo e il gruppo, vale a dire tutto quello che si riferisce al comportamento estetico»179: la tecnica e il linguaggio 176 C. Segre, Semiotica, storia e cultura, Padova 1977, p. 19. 177 A. Leroi-Gourhan, Évolution et techniques. L’homme et la matière, Paris 1943 e 1971, in particolare I capitoli dedicati alle tecniche di fabbricazione (pp. 162-326); Il gesto e la parola, trad. it., 2 voll., Torino 1977; Ethnologie et esthétique, in «Disque Vert», n.1, Bruxelles 1953; L’homme, «Encyclopédie Clartés», vol.4 bis, Paris 1956 (spcialmente La vie esthétique, fasc.4860 e Le domaine de l’esthétique, fasc. 4870); L’art sans l’écriture, Institut d’Ethnologie, Paris 1968. Sul rapporto storia-etnologia si v. il breve intervento Ethnologie évolutive ou ethno-histoire?, in AA.VV., Ethnologie et Histoire. Paris 1975. Per questa tematica si rinvia a C. Bromberger, Ethnologie, linguistique, esthétique. Note sur le «ethnique» e a L. Perrois, Fondaments d’une approche systematique des arts traditionnels, entrambi in AA.VV., L’homme hier et aujourd’hui. Recueil d’études en homage à André Leroi- Gourhan, pref. di M. Sauter, Paris 1973. 178 A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., vol. II, p. 317. C’è da sottolineare (ma non può essere questo il luogo per affrontare il discorso) che questo codice «è fondato su proprietà biologiche comuni all’insieme degli esseri viventi, quelle dei sensi che permettono una percezione dei valori e dei ritmi» (p. 317). 179 A. Leroi-Gourhan, op. cit., p. 315. 144 considerati nella loro comune origine. E, ancora più precisamente, relazionando la tecnica, linguaggio ed estetica, come «tre manifestazioni fondamentali della qualità di un uomo…strettamente interdipendenti»180, l’etnologo giunge alla determinazione di un codice specifico per lo studio dell’oggetto. Per Leroi-Gourhan l’oggetto è insieme forma e senso. Ora, è dell’organizzazione delle forme, del loro schema coerente che bisogna trovare la formula, ed è alla sintassi propria del linguaggio manuale, i cui le produzioni plastiche sono le forme, che va a raccordarsi lo studio sistematico dell’oggetto che non può iniziare che attraverso un’analisi morfologica dettagliatamente estesa: dove, «evidentemente, il codice plastico non è analogo ad un sistema linguistico, è piuttosto un sistema di correlazioni che solo una analisi minuziosa di tutte le variabili che si rapporto all’oggetto può permettere di definire»181. L’analisi che segue la progressione «materia-forma-stile» – precedute dall’esame, sotto differenti angolazioni, di quella parte che si rapporta alla materia e all’attrezzatura (fabbricazione dell’oggetto) e di quella parte che si relaziona alla forma, alla composizione e alla struttura geometrica dell’opera – sceglie tutti i dati propriamente morfologici per procedere all’inchiesta etno-stilistica che assume, in questa prospettiva, il ruolo di stazione terminale. Ma se la materia, prima stazione della progressione, insieme alle tecniche di fabbricazione, svolge il ruolo di supporto di forma e se è dalle sue leggi che possono essere tratti quei princìpi utili a costruire un’estetica funziona ledi cui Leroi-Gourhan si preoccupa di rendere una definizione che affonda le radici nell’equilibrio che si istituisce tra la funzione e la forma dell’oggetto, resta decisivo, per configurare l’indagine, attraverso la fondamentale nozione di stile 180 A. Leroi-Gourhan, op. cit., p. 322. 181 L. Perrois, Fondements d’une approche systematique des arts traditionnels, cit., p. 283. 145 etnico182. Lo stile etnico, definito come «il modo proprio di una collettività di assumere e di contrassegnare forme, valori e ritmi»183, rappresenta quella invariante strutturale, quel minimum (come ama dire Leroi-Gourhan) che rende conto dell’aspetto più reale del valore dell’etnia: «Questa particolarità etnica che trasforma la banale enumerazione di asce, soffietti e formule matrimoniali nella espressione dello spirito di un popolo, non può rientrare nella classificazione verbale, rappresenta uno stile che ha un suo valore proprio e che investe la totalità culturale del gruppo»184. Infatti se nessun gruppo umano si ripete due volte, ogni etnia è diversa da se stessa in due momenti della propria esistenza. L’assorbimento di uno stile, nella vita quotidiana, nelle sue produzioni e nelle innumerevoli variabili che caratterizzano la continuità o la discontinuità, è un fatto profondo destinato a segnare per sempre le generazioni successive: «Certi atteggiamenti, certi gesti di cortesia o di comunicazione, il ritmo del passo, il modo di mangiare, le pratiche igieniche, hanno toni etnicic che si trasmettono attraverso le generazioni. Nelle pratiche figurative come la musica, la danza, la poesia o l’arte plastica, si produce una netta separazione fra la base comune e le varianti individuali perché la figurazione comporta gli stessi livelli operazionali; si può vedere sopravvivere per lunghi secoli l’ossatura della figurazione in un genere musicale o plastico grazie alla possibilità che esso offre agli individui di organizzare varianti personali senza alterarne l’architettura»185. La complessità di questa nozione e, contemporaneamente, l’estensione 182 «L’analisi degli oggetti di uso pratico come utensili, macchine, motori, case, città, lascia intravvedere proprietà estetiche particolari, direttamente legate alla loro funzione. È certo che un giudizio sull’adattamento in senso positivo o negativo di una forma alla funzione assegnatale equivale in pratica alla formulazione di un giudizio estetico. È anche sorprendente constatare che tranne poche eccezioni, se non sempre, il valore estetico assoluto è direttamente proporzionale all’adeguamento della forma alla funzione… L’analisi estetica funzionale è dunque il più delle volte solo la misura dell’approssimazione funzionale… Il “momento” estetico si colloca sul percorso di ogni forma, nel punto in cui questa si avvicina di più alla formula: l’amigdala molto evoluta, il raschiatoio molto curato, il coltello di bronzo perfettamente adattato al suo uso specifico lasciano trasparire in eguale misura la qualità estetica dell’incontro fra funzione e forma… Ogni fabbricazione è un dialogo fra l’artefice e la materia e apre un altro margine di approssimazione funzionale» (A. Leroi-Gourhan, op.cit., vol. II, pp. 349, 352, 354, 358). 183 A. Leroi-Gourhan, op. cit., vol. II, p. 326. 184 A. Leroi-Gourhan, op. cit., vol. II, p. 323. 185 A. Leroi-Gourhan, op. cit., vol. II, p. 325. 146 del campo che prevede, lasciano concretamente intravedere che la personalità estetica, lo stile etnico, specialmente nelle sue manifestazioni e produzioni materiali «non è per nulla inafferrabile e si può concepire un metodo analitico altrettanto preciso di quello della tecnologia e della sociologia descrittiva». Infatti, continua Leroi-Gourhan, «le gamme dei gusti, degli odori, del tatto, dei suoni, dei colori rivelano una estensione e differenze molto caratteristiche; la distanza che separa in una determinata cultura le posizioni naturali e gli atteggiamenti in una società dà la misura della trascuratezza collettiva; la forma degli utensili si presta a una analisi funzionale e precisa, come l’integrazione spaazio-temporale degli individui nel loro ambiente domestico e più generale. Più in là sono disponibili i metodi di studio delle arti; agli effetti di una ricerca comparata sarebbero d’altronde da organizzare perché lo stile etnico è una espressione complessiva»186. Dunque, Leroi-Gourhan costruendo un quadro morfologico dell’insieme degli aspetti che caratterizzano la linea di costruzione degli oggetti, e ponendo princìpi metodologici, attraversati dalla nozione di stile etnico, costruisce un nucleo di riflessioni sicuramente assumibili come punto di partenza per un rinnovamento dello studio delle arti plastiche, dagli oggetti d’uso agli oggetti d’arte, soprattutto a causa della loro sistematicità e della costante preoccupazione di esplorare in tutte le direzioni di ricerca restando quanto più possibile legati all’oggetto stesso, alla sua specificità187. 5. Storia dell’arte o storia delle cose sono, in conclusione, gli aspetti, simmetricamente rovesciati, della stessa svista teorica: l’idea che si diano blocchi compatti e omogenei di storia e non piuttosto zone di storia scandite da frequenze proprie e da discontinuità radicali, da una codificazione differenziale del prima e del poi. La questione, allora, non è certamente quella di contrapporre la storia dell’arte alla storia delle cose (e viceversa) ma di affrontare, ridefinendo il campo della storia dell’aree 186 A. Leroi-Gourhan, op. cit., vol. II, p. 326. 187 Avvisa Perrois: «C’è da sottolineare che non si fa mai (nelle analisi di Leroi-Gourhan) menzione della funzione delle figure, né del loro significato riconosciuto o supposto. Le considerazioni etnologiche, se sono indispensabili alla conoscenza del fenomeno etnico, vengono dopo le analisi dell’oggetto per partecipare, infine, a una sintesi che finora mancava principalmente di questi elementi di base» (op. cit., p. 285). 147 e della storia delle cose come territorio della comunicazione, un apparato concettuale adatto ad analizzare gli oggetti (opere d’arte, manufatti, arnesi, eccetera) secondo gli specifici gradi di semplicità o complessità semiotica. È semplicemente un’indicazione che potrebbe aiutarci a colmare la tradizionale scissione tra storia alta e storia bassa (e tra i rispettivi metodi d’indagine) evitando, al tempo stesso, la riduzione all’identità indifferenziata della categoria oggetto-di-produzione. (1979) 148 Aloisio L. Altan C. T. Althusser L. Amman J.-C. Artaud A. Atkinson T. Augé M. Ayer A. J. Bachtin M. Balibar E. Barilli R. Barthes R. Bastide R Bataille G. Baudrillard J. Benoist J. M. Bergson H. Besancon A. Bishop J. Bloch E. Bois Y. A. Bonin A. Bonito Oliva A. Bori P.C. Braudel F. Bromberger C. Bucaille R. Buchloh B. H. D. Bühler K. Calvesi M. Caminati A. Cane L. Carandini A. Carnap R. 150 Biografia / Biography Angelo Trimarco ||| Nato nel 1941, è storico e critico d’arte. Ha insegnato a lungo all’Università di Salerno Storia e teoria della critica d’arte. Attualmente è presidente della Fondazione Filiberto Menna – Centro studi d’Arte Contemporanea. È socio ordinario della Società italiana di Storia della critica d’arte. Studioso del sistema dell’arte della modernità, della sua crisi e dei suoi più recenti mutamenti, pratica un pensiero di confine tra arte, architettura e filosofia, tra teoria della critica d’arte ed estetica. Come critico militante ha curato e collaborato con saggi e interventi in catalogo a numerose mostre. Nel 1986 è stato commissario all’Undicesima Quadriennale d’Arte di Roma e, nel 1993, alla Biennale di Venezia. Historian and art critic Angelo Trimarco (b. 1941) has taught History and Theory of Art Critique for many years as the University of Salerno. He is currently chairman of the Filiberto Menna Foundation and Centre for Contemporary Art Studies. He is also a member of the Italian History of Art Critique Association. Trimarco is a Modern Art scholar – of its crisis and recent development and change – and has a vision which could be placed somewhere between art, architecture and philosophy or even as one that embraces both the theory of art and aesthetic critique. As a militant critic, he has curated and contributed to essays and articles for numerous exhibitions. He held the position of Commissioner at both the 11th Rome Quadriennale (1986) and the 1993 Venice Biennale. 151 152 Bibliografia / Bibliography Monografie - L’inconscio dell’opera. Sociologia e psicoanalisi dell’arte, Officina Edizioni, Roma l974. - Itinerari freudiani. Sulla critica e la storiografia dell’arte, Officina Edizioni, Roma l979. - La parabola del teorico. Sull’arte e la critica, Edizioni Kappa, Roma l982. - Surrealismo diviso, Officina Edizioni, Roma l984. - Confluenze. Arte e critica di fine secolo, Guerini, Milano l990; Confluencias. Arte y critica en la postmodernidad, Julio Ollero Editor / Instituto de Estética, Madrid l991. - Il presente dell’arte, pref. di G. Dorfles, Tema Celeste Edizioni, Siracusa l992. - Materiali critici, Loffredo Editore, Napoli l993. - Napoli ad arte l985/ 2000, Editoriale Modo, Milano l999. - Opera d’arte totale, Luca Sossella Editore, Roma 2000; ristampa 2001. - L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 200l. - Napoli. Un racconto d’arte 1954/2000, Editori Riuniti, Roma 2002. - Post-storia. Il sistema dell’arte, Editori Riuniti, Roma 2004. - Galassia. Avanguardia e postmodernità, Editori Riuniti, Roma 2006. - Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia. 1960/1980, La Città del Sole, Napoli 2008. - Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli, Mimesis, Milano-Udine 2009. - Surrealismo. Scritti 1970-2010, a c. di M. R. De Rosa, M. Passaro, A. Trotta, S. Zuliani, Paparo Edizioni, Napoli 2011. - Italia 1960-2000. Teoria e critica d’arte, Paparo Edizioni, Napoli 2012. Presentazioni in catalogo - Uno spazio vitale precario instabile, in G. Celant (a c. di), Arte povera più azioni povere, cat. della mostra, Rumma editore, Salerno 1969. - Senza titolo, in F. Irace (a c. di), Assenza/Presenza: un’ipotesi per la lettura dell’architettura, D’Auria Editore, Ascoli Piceno 1979. - Moderno, Postmoderno, in G. Guercio (a c. di), Rooted rhetoric. Una tradizione dell’arte americana, Guida editori, Napoli 1986; trad. ted., con il titolo Modern/ Postmodern zum Beispiel Joseph Kosuth, in «New art in Europe», Oct/Nov 1986. - È di scena Freud - Some comments on Freud, and language, in Joseph Kosuth. Interviews 1969-1989, Edition Patricia Schwarz, Stuttgart 1989. - Linea d’ombra, in N. Vitale, A. Tecce (a cura di), Plastica, foto di Mimmo Jodice e Francesco Jodice, Napoli Electa, Napoli 1990; trad. ingl., in «Modo», Ott./Nov. 2002. 153 - Due modelli, in XLV Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia. I Punti cardinali dell’arte, a c. di A. Bonito Oliva, Marsilio, Venezia 1993. - Il lato «mancino dell’arte, in Hermann Nitsch, O.M. Theater, Napoli, Casina Vanvitelliana del Fusaro, edizioni Morra, Napoli 1995. - Sub specie lucis, in Artinmosaico, a c. di A. Mendini, Skira editore, Milano 1996. - Matters of the end of the century, in Form/Synthesis. Painting and Sculpture, curator Pattricia Woodlin, Harriet & Charles Luckman Five Arts Complex, Los Angeles, California State University 1997. - L’opera d’arte, in A. Bonito Oliva (a c. di), Minimalia. Da Giacomo Balla a..., Bocca Editori, Roma 1997. - Exsercicis de meditacio, in Fabio Mauri. La meva cosina Marcella i la guerra civil, Fundacio la Caixa 1999. - Elogio della purezza e dell’immortalità in opere senza tempo, in G. Guercio (a c. di), De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, Umberto Allemandi & C, Torino 2003. - New materials, new ideas / Nuovi materiali, idee nuove, in Plastici desire’s subject Plastica soggetto del desiderio, a c. di A. De Angelis, Editoriale Modo, Milano 2003. - Allan Kaprow, in Living Theatre. Labirinti dell’immaginario, a c. di L. Mango, G. Morra, Edizioni Morra, Napoli 2003 (trad. ing). - «Più una cosa è uguale più è americana», in Global Warhol, Electa, Milano 2003. - Il nome di Moholy-Nagy, in Renato Barisani. Materie ad arte, a c. di S. Zuliani, Fabbrica del Lunedì, Napoli 2004. - Università degli Studi di Salerno. Istituto di Storia dell’Arte. Filiberto Menna e i «chierici vaganti, in S. Zuliani (a c. di), La costruzione del nuovo. Salerno 1966/1976. Documenti Immagini Testimonianze, cat., Edizioni 10/17, Salerno 2005. - La fotografia come esperienza dell’abitare/Photography as the experience of habitation, in Obiettivo Napoli. luoghi memorie immagini, a c. di G. Laurino, Electa Napoli, Napoli 2005. - Il cugino Pons, collezionista / Le cousin Pons, collectionneur, in A. Demma (a c. di), La Commedia umana di Balzac. Omaggio al romanziere assoluto, Skira, Milano 2009. - Mostre & dintorni. Considerazioni, in S. Zuliani (a c. di), La mostra è aperta. Artisti in dialogo con Harald Szeemann, Edizioni Fondazione Filiberto Menna, Salerno 2010. - Per una riflessione di gruppo, come premessa, in S. Zuliani e A. Tolve (a c. di), Per Gillo Dorfles, Edizioni Fondazione Filiberto Menna, Salerno 2012. Contributi in volumi e in riviste - Duchamp e le tecniche del corpo, in «Proposta», n. 2-3, 1973. - L’arte dopo la filosofia (una riflessione), in «Proposta», n. 8-9, l973. - Jung. Arte, linguaggio, archetipi, in «NAC. Notiziario Arte Contemporanea», n. l2, l974. - Arte (come linguaggio) e desiderio, in «Quadrangolo», n. 4, ottobre-dicembre l975, pp. 85-88. 154 - Per Mukarovsky, in «Proposta», n. l6-l7, l975. - Gombrich e i limiti dell’iconologia, in «Quadrangolo», n. 8/9, ottobre l976- marzo 1977. - Bataille e la ‘svolta’ di ‘Tel Quel’, in «Op. cit.», n. 40, settembre l977. - L’iconologia oltre la semiotica?, in E. Mucci, P. L. Tazzi (a c. di), Teoria e pratiche della critica d’arte, Feltrinelli, Milano l979. - Dell’arte...ai bordi, in A. Verdiglione (a c. di), L’arte La psicoanalisi, Milano, Feltrinelli l979. - Il motto di spirito, il poetico, in A. d’Agostino (a c. di), Effetto Lacan, Roma, Lerici l979. - Sulla critica interminabile, in A. Bonito Oliva (a c. di), Autonomia e creatività della critica, Roma, Lerici l980. - Dietro l’angolo c’è il Posmodern, in «Percorsi», n. 1, gennaio 1981. - Il pubblico, il museo, la città, in «Figure. Teoria e critica dell’arte», n. 2-3, 1982. - Dall’America. Warhol e Kosuth, in «Op. cit.», n. 56, gennaio 1983. - La festa, l’ornamento, in «Op.cit.», n. 6l, settembre l984. - Il pensiero della somiglianza. A proposito di Magritte e la Pubblicità, in «Grafica», n. 0, febbraio l985. - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive, in «Op. cit.», n. 67, settembre 1986. - La via neoconcettuale/ The way of Neo-conceptualism, in «Metamorfosi», n. 6-7, l987. - senza titolo, in P. Gilardi (a c. di), L’arte e la critica per la costruzione del nuovo, CIPED, Torino 1987. - L’uscita dal postmoderno, in «Figure. Teoria e critica dell’arte», n. 0, aprile l988. - Freud e la scena tragica, in R. Meccia (a c. di), Il teatro come pensiero teatrale, Napoli, ESI 1989. - Elogio della figurazione, in L. Giordano (a c. di), Sanguineti. Ideologia e linguaggio, Napoli, ESI 1991. - La scrittura e la cucina, in S. Sinisi (a c. di), Scritti in onore di Filiberto Menna, Bulzoni, Roma 1991 riedito col titolo I segni della pittura, in M. Di Maio (a c. di), Roland Barthes. Teoria e scrittura, ESI, Napoli 1992. - Documenta lX, in «Op.cit.», n. 85, settembre l992. - La follia. Per esempio Leonora Carrington, in M.T.Chialant e E. Rao (a c. di), Per una topografia dell’altrove, Napoli, Liguori Editore l995. - Il dono della ragione, in U. Todini (a c. di), Pasolini e l’antico, Napoli, ESI l995. - La critica d’arte dopo la fine dei «grandi racconti», in «Op. cit.», n. 96, maggio l996. - Fine secolo, più rassicurazione che follia, in L. Vergine (a c. di), La scena del rischio. Follia e rassicurazione nelle arti di oggi, Umberto Allemandi, Torino l998. - Considérations sur Manet, in Michel Foucault. Trajectoires au coeur du présent, sous la direction de L. D’Alessandro et A. Marino, L’Harmattan, Paris l998. - Piet Mondrian, in «Secondo tempo», libro ottavo (fascicolo monografico dedicato a Filiberto Menna), Marcus Edizioni, Napoli, 2000. - Premonizione, in E. Villa, Critica d’arte 1946-1984, a c. di A. De Luca, con uno scritto di A. T., La Città del Sole, Napoli 2000. - Anish Kapoor, in «Modo», n. 211, maggio 2001. 155 - Era di giugno, a Losanna. Post-Human, in M. T. Chialant, (a c. di), Incontrare i mostri. Variazioni sul tema nella letteratura e cultura inglese e angloamericana, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002. - La critique dans le temps du virtuel, in «Ligeia. Dossiers sur l’Art», n. 45-46-47-48, juillet-dècembre 2003. - L’arte come pratica decostruttiva, in A. Cuomo (a c. di), Architettura Arte Museo, Gangemi, Roma 2004. - Post-histoire. L’«estetica della sparizione» e il privilegio dell’arte, in «Il pensiero. Rivista di filosofia», nuova serie, XLIII, 2004. - «Arte concettuale», «pensiero visivo», in L. Pizzo Russo (a c. di), Rudolf Arnheim Arte e percezione visiva, Centro Internazionale di Estetica, Palermo 2005. - Spazio della vita, teatralizzazione, arte povera, in S. Zuliani (a c. di), Figure dell’Arte 1950-2000, Editoriale Modo, Milano 2005. - Lea Vergine, La Body art. Conversazione con Angelo Trimarco, in S. Zuliani (a c. di), Figure dell’Arte, Editoriale Modo, Milano 2005. - Freud. Sull’arte e la critica, oggi, in R. Conforti (a c. di), La psicoanalisi tra scienze umane e neuroscienze. Storia, alleanze, conflitti, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006. - Le stazioni, il museo, in S. Zuliani (a c. di), Il museo all’opera. Trasformazioni e prospettive del museo d’arte contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2006. - André Breton, Claude Lévi Strauss. Sulla «natura dell’opera d’arte», in M. Mafrici e M. R. Pellizzari (a c. di), Tra res e imago. In memoria di Augusto Placanica, tomo II, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2007. - L’arte pubblica come figura dell’abitare, in E. Cristallini (a c. di), L’arte fuori dal museo. Saggi e interviste, Gangemi Editore, Roma 2008. - La vita come opera d’arte. Per esempio, Salvador Dalì, in S. Zuliani (a c. di), In prima persona. Scritti d’artista e critica d’arte, La Città del Sole, Napoli 2009. - Kitsch e museificazione, in M. Carboni (a c. di), Divenire di Gillo Dorfles, Castelvecchi, Roma 2010. - Le «style nouveau». L’ornement, in A. Laserra (dir.), Album Belgique, P. I. E. Peter Lang, Bruxelles 2010. - Foucault, Manet e la pittura del XX secolo, in P. Balmas, A. Capasso (a c. di), Arte e le teorie di turno. Omaggio ad Achille Bonito Oliva, Electa, Milano 2011. - Amalfi. «Arte povera più azioni povere», in G. Celant (a c. di), Arte Povera 2011, Electa, Milano 2011. - C’era una volta l’atelier (e c’è ancora), in S. Zuliani (a c. di), Atelier d’artista. Gli spazi di creazione dell’arte dall’età moderna al presente, Mimesis, Milano-Udine 2013. - Riconsiderando la cartografia del virtuale, in P. Giannangeli, A. Tolve (a c. di), L’età soffice. Teoria e pratica dell’arte nell’epoca dei new media, Quodlibet, Macerata-Roma 2014. 156 Bibliografia / Bibliography 158 Arshake / Critical Grounds questo libro è stato messo in rete nel Dicembre 2014 this book was released online in December 2014 Prima di stampare questo libro per favore pensate all’ambiente Please consider the environment before printing this book 160