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La qualità di vetrina degli oggetti
Alcune riflessioni sull’esperienza degli oggetti nella modernità a partire dalla sociologia di Georg
Simmel
di Vincenzo Mele
1. Prologo
Con il declino del modello di città centrata sull’industria fordista, caratterizzata dalla produzione
razionalizzata di massa, si sono affermati stili di vita e configurazioni sociali che non sono
facilmente riconducibili alla sfera della produzione.
Questo tipo di assetto sociale, in uno studio teorico ed empirico centrato sulla Germania, è stato
descritto dal sociologo Gerhard Schulze come Erlebnisgesellschaft (Schultze, 1997).
Schulze riprendeva coscientemente una vecchia diatriba della filosofia e della sociologia tedesca,
centrata attorno al termine Erlebnis, generalmente tradotto in italiano con «esperienza» o
«esperienza vissuta». L'Erlebnis non è l'esperienza comune, ma il vissuto eccezionale, l'avventura
dove la vita si concentra nella sua massima intensità. Il contrario della condotta di vita quotidiana,
quella Lebensf_ührung metodica e razionale che Max Weber aveva messo alla base del lavoro
industriale e, dunque, fondamento della modernità occidentale. Schulze sulla base di un accurato
lavoro di ricerca empirica voleva dimostrare – ben prima che la locomotiva economica europea
impartisse lezioni di austerità ai propri partners! – che non è il "lavoro" il centro della personalità
moderna ma l'Erlebnis, "l'esperienza vissuta". Solo che questa non è più il frutto tormentato delle
personalità artistiche ed aristocratiche della Jarhundertwende, gli "uomini postumi" di cui parlava
Nietzsche. Da lungo tempo la ricerca dell'Erlebnis è stata organizzata e commercializzata. Le
agenzie di viaggio promettono ai loro clienti «viaggi-Erlebnis»; le scuole di ballo offrono un
«mondo di Erlebnis»; persino la pubblicità dello yogurt invita i suoi consumatori a nutrirsi più
consapevolmente per erleben attivamente. Queste ed altre offerte di Erlebnisse confezionate
sollevano chi sia in cerca di Erlebnis dall'onere di dare forma da solo al proprio Erlebnis: ciò che
gli resta è il tormento della scelta tra innumerevoli offerte di Erlebnis.
Non vogliamo qui discutere in toto questa tesi. Si potrebbe tagliar corto come fece Max Weber
nella sua celebre conferenza del 1919 su La scienza come professione, in cui rivolgendosi in modo
ironico all'uditorio studentesco, stigmatizzò in questa caccia all'Erlebnis la debolezza di chi non
riesce ad affrontare la tragicità della vita quotidiana: «giacché è una debolezza non poter levato lo
sguardo al volto severo del tempo» (Weber 1966, p. 63). Tuttavia anche non condividendo le
conclusioni "epocali" della ricerca di Schulze (la fine dell'Homo Oeconomicus calcolatore e
razionale e la nascita dell'Homo Aestheticus esperenziale), è possibile prendere spunto dall’esigenza
condivisibile che essa pone di esaminare più da vicino lo stile di vita in relazione al consumo.
Lo scopo di questo articolo è cercare di analizzare come il denaro influenzi il nostro rapporto con
gli oggetti di uso quotidiano in un contesto – come quello della cultura monetaria urbana – di
intensificazione della circolazione di merci con l’ausilio del punto di vista sociologico di Georg
Simmel.
2. Metropoli ed Erleben
La riflessione che Georg Simmel (1858-1918) ha svolto oltre un secolo fa è particolarmente attuale.
Non solo Simmel è stato il primo sociologo e filosofo della cultura a porre la metropoli al centro
della sua riflessione, ma parte fondamentale del suo pensiero è proprio l’analisi della sfera della
circolazione e dello scambio. La sua opera principale, La filosofia del denaro (1900) è dedicata ad
un’analisi filosofica e sociologica del denaro come la forma simbolica più tipica del moderno.
Economia monetaria e cultura urbana per Simmel si identificano. La metropoli infatti è il luogo
dove gli effetti dell’economia monetaria sulla cultura e sulla personalità individuale si dispiegano al
massimo grado.
Il famoso saggio di Simmel esplicitamente dedicato alla cultura urbana, Le metropoli e la vita dello
spirito (1903), riassume i temi elaborati nella opera maggiore.
Simmel utilizza un approccio originale e particolarmente interessante. Egli vuole interrogare la
metropoli secondo “i movimenti con cui la personalità si adegua alle forze ad essa esterne”
(Simmel 1903, p.227). Ciò che è al centro dell’analisi non è solamente una particolare formazione
sociale, ma come essa viene vissuta dal soggetto. La grande città è dunque una forma fondamentale
dell’esperienza moderna.
È questo un elemento caratteristico della sociologia di Simmel rispetto agli altri autori classici: egli
pone al centro della sua analisi non solo l’azione del soggetto sociale ma anche il suo Erleben,
ovvero il modo in cui egli interiorizza gli influssi della società. Tale orientamento filosofico e
sociologico è ben evidente nell’analisi dell’esperienza metropolitana, che – come è noto – per
Simmel è assimilabile all’esperienza moderna tout court. Nella celebre conferenza Le metropoli e
la vita dello spirito (1903) Simmel si propone di interrogare «i prodotti della vita specificatamente
moderna a proposito della loro interiorità», indagando «i movimenti con cui la personalità si adegua
alle forze ad essa esterne» (Simmel 1995, p. 35). Le “forze” che minacciano la personalità
dell’uomo moderno e a cui egli deve adattarsi sono quelle della «società, dell’eredità storica, della
cultura esteriore e della tecnica». Tutte queste forze trovano nel denaro e nei meccanismi di
funzionamento dell’economia monetaria sulla società e sulla psiche individuale una straordinaria
sintesi, dato che il denaro è il Symbolon estetico della modernità, la metafora fondamentale che ne
compendia e riassume tutte le caratteristiche essenziali. Tuttavia l’analisi di Simmel non coglie
unicamente l’aspetto omologante del denaro nei confronti degli oggetti così come dei prodotti dello
spirito: grazie alla sua sensibilità “tragica” nei confronti delle antinomie e delle ambivalenze dei
processi sociali, egli è in grado di evidenziare i paradossi che caratterizzano la “cultura monetaria”
e le oggettivazioni culturali in generale.
3. Differenziazione degli oggetti nella vita quotidiana
L’economia monetaria ha un’effetto importante anche sull’esperienza (Erleben) del nostro rapporto
con gli oggetti della vita quotidiana.
La diagnosi generale di Simmel è che il denaro conduce ad una generale separazione fra noi e le
cose. Simmel parla di un’“ipertrofia della cultura oggettiva” a scapito della “cultura individuale”.
Gli oggetti d’uso, la struttura delle abitazioni, gli oggetti domestici con cui siamo cresciuti, non
aderiscono più alla personalità di chi si circonda di essi. Si crea una sempre maggiore distanza fra noi e
loro.
Questa identificazione degli oggetti è stata disturbata secondo Simmel dalla differenziazione degli oggetti
medesimi soprattutto secondo tre dimensioni (Simmel 1989, p. 637-638).
Esse possono essere sintetizzate come segue:
a. Differenzierung im Nebeneinander (differenziazione nella coesistenza spaziale)
b. Differenzierung im Nacheinander (differenziazione nella successione temporale)
c. Vielheit der Stile (differenziazione come pluralità di stili)
Queste dimensioni possono essere analizzate separatamente solo da un punto di vista astratto. In
realtà esse costituiscono l’esperienza comune di ogni individuo moderno, che è quella di essere
circondato da una massa di oggetti sempre più numerosa, di complessa fattura e soggetta a sempre
più rapido invecchiamento dovuto al ritmo della moda.
Per ragioni di spazio ci dedicheremo ad analizzare nel dettaglio solo una di queste di
specializzazione e differenziazione degli oggetti, quella che avviene “sotto l’aspetto formale della
coesistenza nello spazio” (Simmel 1989, p. 641).
L’economia monetaria comporta secondo Simmel un numero sempre maggiore ed eterogeneo di
oggetti presenti nel nostro spazio sociale. Nel contesto moderno l’individuo si trova di fronte ad una
“massa di oggetti specializzati”, di contro ai “pochi oggetti non differenziati”, presenti in un
contesto di minore o assente scambio monetario.
Questa differenziazione assume per Simmel una rilevanza inedita, che si manifesta soprattutto per il
suo valore estetico e simbolico.
Questo fenomeno assume una particolare rilevanza nella vita pubblica degli oggetti, che avviene
negli spazi espositivi che nascono nelle metropoli moderne ottocentesche. I più importanti sono i
grandi magazzini, le esposizioni universali di merci e i passeges, le celebri gallerie commerciali
nate a Parigi, cui Walter Benjamin ha dedicato la sua opera incompiuta (Benjamin 1991).
In questi spazi nasce quella che Simmel ha definito “qualità di vetrina degli oggetti”, ovvero la
tendenza degli oggetti nel contesto dell’economia monetaria matura “ad assumere un aspetto
seducente a discapito della loro utilità” (Simmel 1896).
Questo aumento della eterogeneità e varietà delle cose si manifesta soprattutto come
“superadditum” estetico di cui vengono dotati gli oggetti nel contesto dell’economia monetaria,
finalizzato ad attirare l’attenzione dei compratori.
Con questa definizione Simmel ha colto un elemento fondamentale della differenziazione nello
spazio degli oggetti. Questo aumento della eterogeneità e varietà delle cose si manifesta soprattutto
come “superadditum” estetico di cui vengono dotati gli oggetti nel contesto dell’economia
monetaria, finalizzato ad attirare l’attenzione dei compratori.
Simmel ha avuto davvero una intuizione precorritrice, intuendo che l’economia capitalistica matura
necessitava di aggiungere oltre al beneficio del prodotto anche un plusvalore simbolico e
comunicativo che mirasse a garantire l’adesione indiscriminata dei consumatori.
Questa proprietà degli oggetti ci risulta maggiormente evidente se esaminiamo le caratteristiche di
questa “qualità di vetrina degli oggetti”, le cui qualità sono proprie di tutti gli spazi espositivi (dai
grandi magazzini agli schermi dei computer collegati ad Internet. La vetrina quindi può essere
considerata una forma simbolica tipica della cultura monetaria matura. Essa costituisce in un certo
senso un “prototipo”, le cui caratteristiche di esposizione estetizzante di merce, una volta
trasformati gli spazi pubblici fisici della metropoli ottocentesca, si trasferiranno sui teleschermi e su
internet.
4. La qualità di vetrina degli oggetti
Può essere interessante quindi ricostruire per grandi linee una fenomenologia della qualità di
vetrina degli oggetti dalle sue origini, che risalgono agli albori della rivoluzione industriale. Essa si
svolge nelle maggiori capitali europee: Vienna, Londra, Berlino, ma soprattutto Parigi, la “capitale
del XIX secolo” (Benjamin 1991).
Cercheremo di mettere in evidenza il punto di vista dell’erleben, accennato in precedenza. Ovvero
ci chiederemo: come muta la esperienza (erleben) delle cose a causa della loro differenziazione
causata dall’economia monetaria?
Come si vedrà, ciò che muta non è solamente il rapporto con l’oggetto, ma anche un aumento dei
significati simbolici e culturali che ad esso sono legati. In altri termini: l’estetizzazione della merce
diviene anche un aumento della potenza della merce di trasfigurare la realtà. Si impone una capacità
di domino simbolico delle cose, quindi di far passare insieme al loro spettacolo estetizzante
messaggi ideologici, modelli sociali pre-definititi.
4.1. Il negozio con vetrina
La nascita e la diffusione della vetrina risale circa agli inizi del settecento (su questo cfr.
Schievelbusch 1983 e Codeluppi 2000). In questo periodo si diffuse nei centri urbani europei
l’abitudine di chiudere con dei vetri le aperture della bottega verso la strada, consentendo di esporre
verso la strada le merci in vendita presso l’interno.
Nacque dunque in questo modo il negozio moderno, che punta sulla capacità di attirare i clienti sul
piano visivo.
Questo provocò una modificazione del rapporto con gli oggetti. Le merci vengono esposte per
catturare lo sguardo e il desiderio dei clienti. Ne consegue che i beni non traggono più la maggior
parte del loro significato dal rapporto sociale diretto e personale all’interno della bottega nel quale
sono venduti, ma si offrono “nudi” rispetto al cliente, prossimo a divenire consumatore di massa, e
affidano a strutture esterne (l’arte dei posters, la pubblicità) il loro “appeal” nei suoi confronti. Dal
canto suo il consumatore si emancipa dal rapporto individuale di affidamento e fiducia nel
venditore, e sviluppa una sua autonoma competenza di acquisto. Lasciato solo di fronte al prodotto,
costruisce una propria conoscenza che gli permette di selezionare i prodotti “migliori”.
Ma il trionfo vero e proprio delle vetrine si ebbe a partire circa dal 1850, quando fu possibile
produrre lastre di vetro di grandi dimensioni e quindi vetrine in grado di occupare tutta la superficie
esterna dei negozi. Le nuove vetrine fecero diventare i colori delle merci decisamente più brillanti e
pertanto, come afferma lo storico Schievelbusch, “l’impressione fatta dalle merci esposte dietro di
esse mutò in termini decisivi. La superficie continua di vetro trasparente della lastra esercitò sulla
merce un effetto simile a quello del vetro della cornice sui quadri” (Schivelbusch 1983, p.150).
Tale processo di estetizzazione della merce viene descritto anche dalle parole di Fauconnet, Fitoussi
e Leopold 1997, (Codeluppi 2000, p. 44): “un’aura luminosa che li trasfigura, li allontana mentre
nello stesso tempo li offre illusoriamente: se la vetrina impedisce di prendere o di toccare, essa
autorizza contemporaneamente un’orgia dello sguardo. Essa traccia i contorni di uno spazio magico
– quello del lusso, magnificato dal prestigio dell’inaccessibilità”.
Quindi: nudità dell’oggetto rispetto al cliente; aumento della brillantezza delle merci; aura di
intoccabilità che sottolinea il loro carattere di lusso. Queste vengono ad essere le novità introdotte
dal moderno negozio con vetrina. Importante è anche sottolineare il mutamento della percezione
dello spazio pubblico che la vetrina comporta. Lo spazio privato della bottega si “apre”
virtualmente alla strada, e quest’ultima acquisisce sempre più le caratteristiche di un prolungamento
della vetrina stessa, puro scorrimento con lo scopo dell’osservazione e (eventualmente)
dell’acquisto di merci.
4.2. I passages
Con l’inizio dell’ottocento, la produzione in grandi quantità di merci resa possibile dalla Seconda
Rivoluzione industriale, ebbe l’effetto di moltiplicare i consumi e i luoghi di acquisto. Nacque
l’esigenza di creare nel centro della città degli spazi che gli architetti dell’epoca concepivano come
democratici, perché potenzialmente accessibili a tutti, sebbene lussuosi e confortevoli come gli
spazi privati. Nacque così la nuova tipologia della galleria commerciale coperta, o passage.
I primi passages vennero costruiti a Parigi fra gli ultimi anni dell’ancien regime e i primi della
Rivoluzione. Il nuovo secolo portò con sé il compimento del Passage des Panoramas (1800), ma
l’apogeo di questa forma architettonica si ebbe nel periodo 1818-1845 in cui vennero alla luce il
Passage de l’Opéra, la Galerie Vivienne e la galerie Véro-Dodat (rispettivamente 1823, 1825 e
1826) a Parigi e la sua proliferazione si estese ad altre metropoli come Londra, Bruxelles, Lione,
Milano e Philadelphia (Geist 1979). Il fenomeno dei passages è legato in maniera indissolubile ai
bisogni e ai desideri della società in un momento particolare del suo sviluppo culturale e industriale,
quel momento che in Francia vede l’espansione della civiltà borghese nata dalla rivoluzione fino
alla prima resa dei conti con le sue contraddizioni interne, avvenuta con i moti operai del 1848.
Essi erano corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti intarsiate di marmo, costruiti grazie alle nuove
tecniche di costruzione in ferro, che attraversavano interi caseggiati. Sui due lati dei corridoi, che
ricevevano luce dall’alto, si succedevano i negozi più eleganti. È qui che la qualità di vetrina degli
oggetti poteva esercitare una potenza ancora maggiore rispetto al singolo negozio isolato.
Prima degli sventramenti della città operati dal prefetto Haussmann sotto Nepoleone III i
marciapiedi ampi erano rari, e quelli che c’erano offrivano una scarsa protezione dai veicoli. Nei
passages quindi si poteva entrare per trovare sollievo dal traffico urbano, dalla folla o dalla pioggia
incipiente. Essi pian piano si formarono un loro pubblico specifico, di flâneure, borghesi, letterati e
prostitute, che si sentiva a suo agio tra le luci artificiali (allora fece la comparsa la prima
illuminazione a gas) dei teatri, dei Caffè con terrazza e dei giardini d’inverno.
L’ultimo passage che fu costruito a Parigi fu il Passage de Princes nel 1860, ma in realtà i giorni di
popolarità erano già tramontati. La proibizione della prostituzione, la nascita dell’illuminazione
elettrica e lo sventramento della vecchia pianta di Parigi diedero loro il colpo di grazia. Quelle che
un tempo furono le costruzioni più innovative e il luogo delle merci più ricercate, divennero ben
presto rovine eccentriche e patetiche, oggetto di culto dei letterati surrealisti nel secolo successivo,
che vi riconosceranno uno dei luoghi per eccellenza della mitologia moderna (L. Aragon 1926).
La “qualità di vetrina degli oggetti” aveva bisogno di spazi più ampi e di ritmi più veloci di quelli
delle celebri passeggiate dei flâneur, i quali si racconta amassero passeggiare nelle gallerie con una
tartaruga al guinzaglio.
I Passages vennero dunque ben presto soppiantati dai grandi magazzini, o magasins de nouveautés,
come venivano chiamati in onore al culto della novità di cui si facevano sacerdoti.
4.3. Grandi magazzini
Il primo di essi, il Bon Marché, venne aperto dal geniale ed eccentrico commerciante Aristide
Boucicat nel 1852 su progetto dell’ingegnere Eiffel, a cui si dovrà anche l’omonima torre (Miller
1981). Anch’esso sorge in connessione con la trasformazione della pianta di Parigi che diede alla
luce i boulevards. Il grande magazzino come nuova forma di commercio presuppone un sistema
avanzato di traffico urbano che solo queste grandi arterie nate dagli sventramenti gli potevano
assicurare (Schivelsusch, 1979). La circolazione degli Omnibus, dei primi tram a cavalli, permise
un afflusso di merci e di clienti prima impensabile, tant’è che i Grand Magasins si concentrarono
tutti sui boulevards.
Con la nascita di questi templi del consumo si ha tanto una rivoluzione del commercio al dettaglio
quanto un vero e proprio nuovo tenore del rapporto dell’uomo con gli oggetti. Il grande magazzino
imprime all’oggetto-merce un regime diverso rispetto a quello della negozio tradizionale con
vetrina, perlomeno per due motivi fondamentali.
In primo luogo, gli oggetti vengono presentati in grandi masse e non più singolarmente o in piccole
quantità. Laddove nel negozio la merce ammiccava al singolo compratore trascinandolo in un
mondo onirico sostanzialmente individuale, nel grande magazzino, la capacità seduttiva
dell’oggetto deriva dal “discorso” espositivo allestito secondo spazi tematici omogenei per stili di
vita grazie ai quali il consumatore può immaginare se stesso protagonista di scene di vita quotidiana
in abiti coerenti con la scena sociale di volta in volta simulata (abbigliamento, vasellame, cibi, ecc.).
In secondo luogo, chi vi entra non è obbligato a comprare. Il dialogo tradizionale fra commerciante
e cliente, che aveva tanto la funzione di stimolare all’acquisto che quella della contrattazione viene
sostituito dai cartellini dei prezzi che comunicano i “prezzi fissi”. Questo cambiamento è la
conseguenza dell’economia di tempo necessaria al più elevato giro d’affari. L’individualità
dell’oggetto, la merce di fregio ancora artigianale che era possibile acquistare nel negozio
tradizionale, cede il posto all’articolo di serie a prezzo fisso.
Il pubblico cui si rivolgono i grandi magazzini sono i nuovi ceti medi urbani che intendono
acquisire uno stile di vita adeguato non solo al proprio potere di acquisto quanto, soprattutto, a
quella che ritengono sia la loro propria collocazione sociale.
4.4. Esposizioni universali di merci
Ma i luoghi dove “il superadditum estetico” (Simmel 1896) della merce raggiungeva realmente il
suo apogeo erano i padiglioni delle esposizioni universali, fiere mondiali di merci e prodotti
tecnologici, veri e propri monumenti alla fede ottocentesca nel progresso che il dominio tecnologico
della natura e l’espansione mondiale del capitalismo avrebbero dovuto necessariamente portare con
sé.
La prima e più colossale esposizione fu inaugurata a Londra, Hyde Park, nel 1851. Non è
improbabile che lo stesso Marx trovandosi a Londra in quel periodo, sia stato ispirato nelle sue
considerazioni sui “capricci teologici e i cavilli metafisici” della merce dalle impressioni che
l’occasione gli suscitò. La “fantasmagoria” era in ogni caso nelle intenzioni stesse degli
organizzatori che scelsero fra i vari progetti presentati quello del giardiniere paesaggista Josef
Paxton, che prevedeva un palazzo costruito interamente di cristallo di proporzioni inaudite. Persino
un intero viale di alberi fu ospitato nella costruzione e coperto da una navata trasversale con una
volta alta cento dodici piedi. Accanto a questi, nel transetto centrale, vennero disposte piante
esotiche, sculture, grandi bronzi e trofei di altre opere d’arte; al centro troneggiava una imponente
fontana di cristalli di vetro. I prodotti industriali, i telai, le macchine e i filatoi, ovvero la “nuova
natura” artificiale della tecnica si intrecciava con le meraviglie della “natura organica” in un mondo
fantastico che non poteva non entrare nell’immaginario di una intera generazione di europei. Jiulius
Lessing nel 1900 scriveva: “Io stesso ricordo come la notizia del palazzo di cristallo giunse fin da
noi in Germania, negli anni della mia infanzia, e come le sue immagini fossero affisse alle pareti
delle case borghesi di provincia. Davanti ai nostri occhi aleggiavano figure di antiche fiabe, la
principessa nella bara di cristallo, le regine e gli elfi… tutto ciò sembrava diventato realtà… Queste
sensazioni durarono ancora per decenni” (Benjamin 1991, p. 248-249).
Le esposizioni di Parigi nel 1889 e nel 1890 consolidano ed espandono questo mito e diventano
parte integrante del nuovo panorama urbano, sul quale lasciarono tracce assai consistenti, che vanno
anche al di là dei singoli monumenti come il Grand Palais, il Trocadero e la Torre Eiffel, simbolo
tanto della Fiera mondiale che del centenario della Rivoluzione francese. Ogni esposizione aveva
l’obbligo di essere più grandiosa e monumentale della precedente, per offrire la prova tangibile del
progresso tecnologico.
Una delle caratteristiche fondamentali di questi veri e propri luoghi di pellegrinaggio al feticcio
merce, è stata ben formulata da Walter Benjamin: “Le esposizioni universali trasfigurano il valore
di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano;
inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre” (Benjamin 1991, pp. 5051). L’aspetto prettamente economico dell’oggetto merce, nonché il suo essere mezzo la
soddisfazione di determinati bisogni passano nettamente in secondo piano: a partire dall’epoca delle
esposizioni universali la merce si situa stabilmente nel regno dell’immaginario. Si inaugura dunque
un ambito che verrà sfruttato con enorme successo dalla pubblicità (la parola réclame fa la sua
comparsa in questo periodo). Le barriere fra estetica ed economia, fra opera d’arte e merce
divengono quanto mai labili. Questa vittoria del principio espositivo del resto va ben al di là delle
merci concrete e si estende alla politica, alla tecnica, ad ogni ambito della vita quotidiana. Nasce
quella che oggi chiamiamo società dello spettacolo (o Erlebnisgesellschaft: Schultze 1997).
Fra gli osservatori dell’epoca c’era stato chi aveva visto con estremo ottimismo il fatto alle
esposizioni universali fossero invitate delegazioni di lavoratori. Sembrava, infatti, che ciò avrebbe
potuto facilitare il compito politico dell’associazione internazionale dei lavoratori nata proprio in
questo periodo (1864). Fu un ottimismo di breve durata. In realtà tanto gli imprenditori che gli
operai condividevano la medesima fantasmagoria, secondo la quale l’industria e la tecnologia
avrebbe automaticamente prodotto un futuro di pace, armonia e abbondanza.
Nell’esposizione del 1889 a Parigi apparve il primo cannone d’acciaio di Krupp, un modello di cui
il ministro della guerra prussiano ordinò immediatamente più di duecento esemplari. Il sogno
liberoscambista di un progresso lineare ed inarrestabile, in cui anche le masse erano state coinvolte,
verrà destato bruscamente dai lampi delle granate nelle trincee della prima guerra mondiale.
Considerazioni conclusive
Dopo questa carrellata nel mondo della qualità di vetrina degli oggetti ottocentesca resta davvero da
chiedersi: cosa è cambiato oggi nella cultura cosiddetta postindustriale (che sarebbe più corretto
chiamare postfordista)?
Lo scopo di questa indagine era quello di richiamare alla memoria le forme originarie (Urformen,
Benjamin) della nostra esperienza con gli oggetti industriali. In esse possono essere indagati (quasi)
tutti i principi che animano gli Erlebniswelten (Schultze 1997) attuali: shopping malls,
entertainment centers, concept stores ecc. Più che una conclusione, si tratta di un invito verso un
nuovo campo di indagine (cfr. Codeluppi 2007). È possibile infatti affermare che l’esperienza della
"vetrinizzazione" descritta da Simmel e da Benjamin, localizzata spazialmente e temporalmente
nella città storica europea ottocentesca e novecentesca, sia letteralmente esplosa, divenendo propria
della società (globale) nel suo complesso.
In questo senso diventa un compito interessante indagare i “frammenti” di questa esperienza nei
nuovi non luoghi (Augé 1992) della società contemporanea, ovvero nei teleschermi televisivi e dei
computer, negli “abitacoli mobili detti “mezzi di trasporto” (aerei, treni, auto)”, negli aeroporti,
nelle “grandi catene alberghiere” e nei “grandi centri commerciali”(Augé 1992, p. 74). Con l’aiuto
di Simmel abbiamo illustrato alcuni aspetti di quello che è il rapporto simbolico, estetico, culturale,
con gli oggetti della vita quotidiana nel contesto dell’economia monetaria matura. Il rapporto
uomo-cosa si configura come una variabile culturale fondamentale della società, che deve essere
compresa con categorie concettuali adeguate, al di là di ogni interpretazione meramente
naturalistica di questa relazione. Il pensiero di Simmel orientato ad un’analisi estetica
dell’economia monetaria e attento all’«esperienza vissuta» (Erlebnis) che di essa compie il
soggetto, ci fornisce più di uno spunto per affrontare il difficile compito di una “sociologia degli
oggetti” nella cultura del consumo contemporanea.
In generale, si può affermare con Simmel che il denaro aumenta la distanza del rapporto tra uomo e
cosa: «come il denaro si pone tra uomo e uomo, si pone tra l’uomo e la merce»: sempre più ci
rendiamo conto di come «il denaro, data la sua sempre maggiore importanza, ci ponga ad una
distanza psichica sempre maggiore dagli oggetti, spesso ad una distanza tale che la loro essenza
qualitativa si allontana completamente dalla nostra portata visiva e il contatto interno col loro
pieno, autentico essere, risulta completamente interrotto» (Simmel 1984, p. 667, 673). Il fatto poi
che l’economia monetaria moderna necessiti di una sempre maggiore stilizzazione degli oggetti non
fa che aumentare questo processo: lo stile come «formazione generale dell’individuale» rappresenta
per gli oggetti una specie di involucro e costituisce una ulteriore barriera tra noi e loro. Tuttavia se
il ragionamento di Simmel si fermasse qui, egli sarebbe a buon diritto ascrivibile nella schiera
nutrita dei Kulturpessimisten, ovvero di coloro che denunciano in maniera unilaterale le minacce
che la civiltà della tecnica rappresenta per lo sviluppo dell’umanità. Infatti Simmel sostiene che
proprio in base alla distanza che il denaro stabilisce tra noi e le cose, è possibile un recupero che
possiamo definire “romantico” del rapporto con gli oggetti. Solo perché la nostra distanza tra noi e
loro è aumentata in maniera progressiva, grazie alla loro differenziazione che fa si che ci appaiano
nella loro «compattezza autonoma», noi possiamo scegliere di instaurare con loro un rapporto
sentimentalmente, culturalmente o esteticamente più intenso. Il modo in cui i soggetti gestiscono
questa distanza con gli oggetti è una componente fondamentale dello stile di vita, mediante il quale
gli individui lottano per affermare la propria particolarità di fronte alle “forze preponderanti” della
società. Si tratta di processi aperti, dall’esito indefinito. Il fatto che l’Io possa arricchirsi o
impoverirsi nel confronto/scontro con la cultura delle cose, dipende in fondo dalle sue stesse
capacità di essere all’altezza della sfida che si trova ad affrontare. Quello che è certo è che il
processo di differenziazione non rappresenta una filosofia della storia, ma solo un processo di
continuo divenire verso forme più elevate di complessità sociale e quindi anche di rapporto con gli
oggetti culturali che ci circondano.
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