Monachesimo cristiano

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Vito Fumagalli
Monachesimo cristiano
1. Lo spirito del monachesimo
Il fenomeno monastico appartiene, sotto forme diverse, all'intera storia della civiltà,
costituendo un atteggiamento mentale mai tramontato e una corrispondente attitudine
pratica volti alla scelta del vivere appartati, al rifiuto delle regole comuni della vita sociale
ponendosi al di sopra delle medesime, e in generale alla lotta contro gli istinti e gli impulsi
della carne, le sue debolezze e prevaricazioni. Non vi è religione positiva che non ne sia
stata segnata, e spesso in profondità, così come lo sono stati i contenuti e la prassi dei culti
cosiddetti popolari o folklorici. Nessun'altra storia, tuttavia, ne è stata altrettanto marcata
quanto quella del Tibet, che arriva a configurarsi come un mondo quasi interamente
monastico nella cultura, nella società, nelle istituzioni. Tuttavia, le differenti attuazioni del
monachesimo (dalla parola greca μόνοϚ, solo), esplicatesi in molteplici regioni e in
numerosi periodi storici, non hanno mai ignorato la sostanziale identità del contenuto
cardine: la vita solitaria, di élite, potremmo anche aggiungere, che lo ha sempre
contrassegnato.
2. Il monachesimo orientale cristiano
Alle origini, nel territorio dell'Asia dove nacque il monachesimo occidentale, in quel
Medio Oriente in cui vissero i suoi Padri, esso si caratterizzò come eremitismo largamente
solitario, esprimentesi nel completo isolamento, nell'abbandono totale di qualsiasi forma
associativa. L'uomo eremita (da ἔϱημοϚ, deserto) della Tebaide, la regione fra Tebe e il
delta del Nilo, affrontava, nei lontani III e IV secolo dopo Cristo, la lotta con le proprie
passioni e con il demonio, in un'eroica solitudine aggravata da un rigore penitenziale assai
duro.
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Dopo quegli inizi – di Paolo, Malco, Antonio – certo l'eremitismo non venne meno, pur
traducendosi in forme aggregative magari limitate nel numero dei partecipanti, spesso
costituite da piccoli nuclei di persone che non vivevano lontane le une dalle altre, anche se
separate. Il lavoro non fu certo il loro scopo e nemmeno, quasi sempre, una pratica di vita,
restando la penitenza e la preghiera le quasi uniche componenti di una condotta di vita
rigorosamente osservata, che aveva influssi solo o quasi indiretti nei confronti della società
e del mondo più vicino. Ma con il trascorrere del tempo nel territorio dell'Asia Minore
emersero, ad opera di uomini come Pacomio, Basilio e Atanasio, altre modalità di
concretizzazione della spiritualità monastica, e si ebbe l'ingresso, attraverso l'ultimo di
essi, di tali nuovi orientamenti nell'Europa occidentale. Il mutamento più incisivo fu
l'imporsi della vita comunitaria (cenobiti, da coenobium, comunità, appunto) nel senso
pieno della parola, oltre che di una regola a cui tutti i monaci dovevano attenersi: il
principio saldo della sedentarietà (l'obbligo di risiedere insieme e di non derogarne se non
per motivi speciali), l'obbedienza all'abate, la partecipazione corale agli obblighi liturgici e
alla mensa, il lavoro manuale e quello, privilegiato, della mente. Tutto questo è il frutto
dell'impostazione che alla vita monastica conferì Basilio, venuto alla luce intorno al 330 in
Cappadocia, a Cesarea. Atanasio di Alessandria, che passò alcuni anni in Occidente, a
Treviri, nella prima metà di quel secolo, vi diffuse tali esperienze e ideali. Al di là,
comunque, della volontà di osservare una regola, questa non fu certo unica, e perdurarono
forme di vita monastica disancorate da saldi comportamenti, quando non addirittura
devianti da principî e attitudini chiaramente monacali. È questa la caratteristica della
lunghissima vicenda del monachesimo che ancor oggi dura e dà vita a continue
sperimentazioni, novità o recuperi della tradizione.
La prassi che meglio concretizzò lo spirito del monachesimo cristiano orientale fu
indubbiamente quella degli stiliti, anacoreti che trascorrevano l'intera vita su di una
colonna. In condizioni fisiche e psicologiche di grave disagio, essi davano la forma più alta
all'ideale di esistenza eroica che costituiva la sostanza più caratteristica di quel
monachesimo. Uno stile, un modo, un'esperienza monastici che però davano talvolta adito
a fenomeni di esibizionismo e, più spesso, di clamorosa, disumana superbia. Nei primi
secoli di vita monastica tale pratica ebbe particolare vigore e diffusione, e i suoi adepti
furono circondati da profondo rispetto e da sentimenti di timore. Il cenobitismo, che
andava affermandosi sempre più con il passare del tempo, iniziò naturalmente a
considerare con un senso di diffidenza, se non di estraneità, l'esperienza degli stiliti, come
in genere le esperienze penitenziali più rigide. Le Vite dei Padri del deserto
rappresentarono, però, per tutto il Medioevo una delle letture preferite dei monaci, e non
solo di questi, proprio per lo spirito eroico che le contraddistingueva: Malco, Paolo,
Antonio lottano da soli contro le grandi difficoltà di un ambiente ai limiti della vivibilità e
nello stesso tempo contro il demonio. Famose le tentazioni di sant'Antonio, quell'Antonio
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abate che la cultura popolare occidentale ha trasformato in protettore degli animali,
mentre in realtà le bestie che lo circondavano erano nella sua biografia le diverse forme
che il demonio assumeva per spaventarlo e indurlo ai suoi voleri. Sibili di serpenti, ruggiti
e grugniti di leoni e porci agitarono le sue notti insonni, superate solo grazie alla forza
spirituale dell'uomo di Dio. In Oriente tentazioni e penitenze rappresentarono sempre, per
il giovane monaco, i futuri strumenti di prova della sua capacità di vivere
monasticamente, e tutto sommato colorirono, seppur non marcatamente, anche il
monachesimo non orientale.
Lo spirito eroico portò anche a un altro modo di intendere la condotta degli eletti, cioè alla
scelta di vagare solitari, affrontando pericoli di ogni genere e affidandosi unicamente alle
proprie forze e all'aiuto divino. I sarabaiti, i famosi monaci vaganti, furono un grave
problema sia per la salvaguardia di un certo modo d'intendere correttamente la vita
monastica evitando esibizioni individualistiche e anarchiche, sia per i riflessi negativi che
queste ingeneravano nei laici. La stabilità nel monastero, uno dei punti che maggiormente
caratterizzarono le regole di Pacomio, Basilio e Atanasio, era diretta proprio contro i
monaci girovaghi, restii a precetti e a regole, e nemici per eccellenza del cenobitismo.
Eppure l'attrazione per il viaggio e la vita errabonda, lo sradicamento, restò nel profondo a
sollecitare, di tanto in tanto, gli animi dei fratelli, soprattutto quando la vita comunitaria
entrava in crisi perché contaminata con la vita del mondo, intrecciata con il potere o
troppo presa dalle ambizioni della cultura. Insomma le grandi riforme, in Occidente e in
Oriente, ebbero come precedenti fenomeni di ritorno sia dello stile di vita monastico
individuale ed eroico, sia di quello, spesso legato al primo, che portava a scegliere
un'esperienza fuori dalle mura del chiostro, alla ricerca di se stessi e di altri compagni,
lontano da ogni comunità, religiosa o civile che fosse.
3. Il monachesimo occidentale
Dopo inizi ancora timidi nella loro configurazione, l'obbligo del lavoro fisico andò
enucleandosi progressivamente come specifico impegno e severa, scientifica competenza,
dovuta alla preparazione scolastica dei monaci, molti dei quali erano persone colte. Di qui
nacque un intreccio profondo tra l'attività e la sapienza monacali: i grandi orti alimentari e
farmaceutici ebbero origine dalla fusione tra detta attività e la conoscenza dei principî
teorici dell'agricoltura. Non è, dunque, un caso se per tutto il Medioevo (ed entro certi
limiti anche dopo) molti dei maggiori agronomi furono monaci. Il viridarium (verziere)
divenne laboratorio di un'agricoltura sempre più sofisticata, come ci testimoniano in
numero progressivamente crescente fonti scritte e iconografiche. Il legame con la società si
poneva quindi, ormai quasi d'obbligo, nella proposizione di modelli agronomici monastici
che non tardarono molto a entrare nella vita dei laici attraverso, o meno, il mondo dei
chierici secolari. All'impulso al lavoro della terra, non dei soli orti, che veniva
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dall'ingiunzione della regola monastica s'univa la necessità di provvedere a se stessi con le
proprie mani in ambienti dove l'agricoltura non esisteva o era praticata in modo sparso e
contenuto. I codici manoscritti vennero via via arricchendosi di miniature legate a scene di
vita agreste, e affreschi e mosaici subirono lo stesso destino sotto lo stimolo, anche, di una
forte simbologia che contrassegnava il mondo vegetale. Certe erbe e piante furono
privilegiate, e quando il simbolo già non esisteva, veniva cercato e individuato per
conferire sacralità alla pianta. L'agricoltura deve molto a quei remoti monaci-contadini, e
ancor più sarà loro debitrice quando, tra il IV e il VI secolo, le invasioni barbariche, con il
loro corredo di guerre, carestie e pestilenze, ridussero a deserto vastissimi territori
dell'Occidente. Qui soprattutto la città decadde e assunse nuove forme, nelle quali una
rozza agricoltura si affermava all'interno e attorno alle cinte murarie, che spesso
ospitavano alberi selvatici, prati naturali, stagni. Di più, l'economia prediletta dei Germani
e degli Asiatici delle steppe, giunti nel cuore dell'Impero romano d'Occidente e rimastivi
dopo la sua fine, era quella che noi chiamiamo silvopastorale, legata cioè all'uso del bosco
con la caccia, il pascolo brado, la raccolta dei frutti selvatici. I monaci, molti dei quali erano
d'origine non mediterranea o comunque non 'romana', condividevano tale predilezione e
ne applicarono concretamente i contenuti, anche perché tale economia si andava ormai
imponendo ovunque, superando quella agricola o bilanciandola validamente a seconda
delle zone e dei tempi. Tuttavia i monaci restarono agricoltori; anzi, riportarono queste
pratiche, insieme alla sedentarietà a esse necessariamente legata, là dove erano venute
meno. I Dialoghi di papa Gregorio Magno, scritti a cavallo dell'anno 600, ci fanno
comparire dinnanzi una folla di religiosi, monaci in larghissima misura, che coltivano la
terra, non di rado in condizioni proibitive, spesso in lande abbandonate. L'abate Equizio si
fa incontro al messo del pontefice con una falce in spalla e ai piedi scarpe chiodate per
affrontare meglio la ripidità dei fondi che coltivava. Un secolo prima il vescovo di Nola,
san Paolino, datosi come ostaggio in Africa al re dei Vandali per riscattare un prigioniero,
aveva dichiarato che a corte non avrebbe potuto essere di alcuna utilità, a meno che non
gli affidassero un orto. Vescovi, preti, diaconi e, soprattutto, monaci coltivatori ci sfilano
davanti componendo una folla variopinta di uomini di Dio e nello stesso tempo contadini,
ostinati riconquistatori di terre altrimenti votate all'abbandono. Dopo l'interminabile
guerra tra Goti e Bizantini (532-553), le carestie, la peste detta di Paolo Diacono – che la
descrisse verso la fine dell'VIII secolo, e della quale ci ha illustrato, tra gli altri, le
devastanti conseguenze il contemporaneo Gregorio di Tours –, la calata dei Longobardi in
Italia nel 568 o 569 e un'altra lunga guerra con i Bizantini, quando il re longobardo
Agilulfo giunse alle porte stesse di Roma e Gregorio Magno lo convinse ad arretrare,
toccarono il fondo, in Italia più che altrove, una società, un'economia, un paese provati
fino al limite della sopravvivenza. Fu allora che il pontefice sentì il bisogno di guardarsi
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attorno per raccogliere segnali di speranza, e questi gli vennero in particolare da quei
monaci laboriosi.
4. L'evangelizzazione e la colonizzazione ad opera dei monaci
Rievangelizzare, ricolonizzare o colonizzare per la prima volta vasti territori dell'Europa
furono esiti di incisivo rilievo nella storia monastica dei primi secoli del Medioevo e già
del periodo tardo-antico. Tuttavia anche dopo, pur senza lo slancio e le dimensioni di
allora, il monachesimo non dimenticò tale sua funzione. Soprattutto nell'Europa
centrosettentrionale e orientale molte diocesi e archidiocesi nacquero o rinacquero da
insediamenti monastici, si trattasse di abbazie, priorati o semplici, piccole dipendenze
(cellae). Nella Francia settentrionale e nell'attiguo territorio germanico oltre trecento
monaci ed eremiti, uomini e donne, diedero vita a un centinaio di monasteri e città solo
nell'area compresa tra la Senna e il Reno. Da quelle sedi, che generarono centri urbani
dotati di notevole vitalità, lungo le strade e il corso dei fiumi, essi sollecitarono in pieno IX
secolo un'attività commerciale di ragguardevole portata, identificata attraverso reperti
archeologici oltre che testimoniata nei documenti scritti. Ne ebbero vita centri urbani e
preurbani (non tutti destinati a evolversi ulteriormente) di natura fortemente artigianale e
commerciale: piccoli insediamenti, agli inizi, destinati poi a divenire grandi piazze di
mercato. Le fiere della Champagne, famose nel Medioevo inoltrato e dopo, hanno le loro
origini in quei secoli, anche se c'è da dire che non poche località avevano conservato
qualcosa del loro carattere urbano anche dopo le ripetute scorrerie dei popoli orientali,
particolarmente devastatrici nel territorio franco-tedesco del nord. Se tutto questo fu reso
possibile, lo si deve, oltre che all'impulso spirituale del monachesimo, anche a una
organizzazione sapiente nel campo amministrativo e nello stesso campo edilizio. La
famosa pianta dell'abbazia di San Gallo, d'età carolingia, forse mai realizzata in pieno, ci fa
conoscere le intenzioni di un grande progetto organizzativo, l'edificazione di una vera e
propria città monastica, grandiosa anche nelle sue dimensioni. Lo spazio è occupato da
edifici dotati ognuno della propria funzione e collegati strettamente tra loro. Il monastero,
ormai, aveva raggiunto il culmine della fisionomia legata alla sua vocazione, con organi di
governo, luoghi di preghiera e di culto, case per i monaci, i contadini e i numerosi
artigiani, stalle e magazzini, in una cornice di autosufficienza. I due grandi inventari
dell'abbazia di San Colombano di Bobbio, dell'862 e dell'883, dimostrano come si tendesse
ad avere sul posto, lì prodotti, anche quei generi di prima necessità, come il sale, che
un'epoca di difficili e disagiati commerci non poteva sempre assicurare: accanto alla sede
principale, a Bobbio, nelle vicinanze immediate, erano le saline, acque ricche di sale dalle
quali veniva ottenuto con l'evaporazione questo prodotto, che poteva integrare o
sostituire, quando ve ne fosse bisogno, il sale marino che i mercanti di Comacchio erano
tenuti a corrispondere al monastero risalendo il corso del Po.
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Ogni monaco aveva la sua funzione nell'espletamento di tutti i compiti che una cittadella
autosufficiente o quasi richiedeva: la stabilitas monastica aveva avuto la sua sanzione
anche economica, definitiva nella volontà degli organizzatori. Al vertice della comunità
l'abate, non solo nel grande ordine benedettino, sovrintendeva all'intero complesso delle
esigenze dei suoi confratelli, anche se per molte di queste non agiva direttamente ma
attraverso l'operato dei monaci a lui soggetti. Tra questi i compiti erano rigorosamente
distribuiti, dal bibliotecario all'ortolano, dotato di una funzione primaria perché i monaci
dovevano attenersi a una dieta che imponeva loro un alto consumo di erbaggi, e al
cellerario, sovrintendente ai magazzini e custode del vino e dell'olio, ingredienti ambedue
preziosissimi per l'alimentazione e il culto. L'olio era destinato, oltre che al condimento
delle vivande (si pensi all'alto consumo dei prodotti dell'orto), a illuminare la chiesa e il
resto degli edifici e dimore. Sarebbe troppo lungo elencare compiti e responsabili nella
complessa organizzazione di un monastero: basti ribadire che questo assomigliò sempre di
più, con il passar del tempo, a una cittadella, dove la popolazione subí un aumento per noi
oggi quasi incredibile, dall'VIII secolo in poi, quando in una sola sede potevano esservi
alcune centinaia di monaci e altrettanti o più servi domestici (o praebendari) con le loro
famiglie. Gli atti pubblici (rapporti con altre sedi monastiche, dipendenti o meno, grandi e
piccole; con chiese, capellae o plebes; con le autorità civili ed ecclesiastiche) erano stipulati
dall'abate in persona. Anche quelli di natura privata (acquisti e affitti di immobili, terre e
case, permute, donazioni e altro) erano contratti dallo stesso abate, a dimostrare
l'organicità e l'unità di conduzione della grande, non di rado sterminata, azienda
monastica. Sino al XII secolo i più grandi monasteri avevano proprietà su scala regionale e
spesso interregionale, quando non addirittura internazionale, come l'abbazia di Tours che
a cavallo dell'anno 800 aveva possedimenti sul lago di Garda. Anche questo esigeva
l'unitarietà amministrativa, che crediamo sia stata la norma. L'intervento dei priori o
preposti, in essa, si verificava solo in assenza o morte dell'abate o riguardava problemi e
impegni di ordine inferiore. Nei confronti della nobiltà, spesso invadente, del re e
dell'imperatore, di altri monasteri, di chiese, episcopali e minori, l'abate si tutelava, a
iniziare soprattutto dal X secolo, servendosi di un advocatus che svolgeva funzioni
giudiziarie. Con il tempo si formavano vere e proprie dinastie di avvocati, come del resto
accadeva anche agli episcopi, soprattutto quando iniziarono i conflitti di proprietà e di
giurisdizione con i centri cittadini, particolarmente vivaci e intraprendenti nell'Italia dei
Comuni.
Ma già prima era necessario disporre di un personaggio potente ed esperto, che tutelasse
una proprietà molto vasta e dislocata in regioni anche molto lontane. San Colombano di
Bobbio nella seconda metà del IX secolo possedeva celle, luoghi di accoglienza
(ξενοδοχεῖα, hospitalia), terre coltivate, boschi, foreste e paludi in molti luoghi dell'Italia
settentrionale, dal Piemonte alla Liguria, alla Lombardia, all'Emilia, al Veneto, e altrove.
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San Silvestro di Nonantola ne aveva ovunque, da Torino a Firenze, all'Umbria, oltre che,
naturalmente, nel cuore della pianura padana e sull'Appennino a essa prospiciente. Il
monastero femminile di Santa Giulia di Brescia era proprietario di un insieme di terre e
chiese e ospizi dalle Alpi allo spartiacque montano tra l'Emilia e la Toscana. Santa Maria di
Farfa, nella Sabina, San Vincenzo al Volturno, Cava dei Tirreni e molti altri monasteri si
trovavano in analoghe condizioni. Ancora più potenti non pochi monasteri d'Oltralpe, se
non per la vastità dei possessi (che pure non raramente era eccezionale), per l'assenza
totale o quasi, in molte zone, di potenti città che potessero contrastarli. Nessun monastero
ha raggiunto in Europa la somma delle proprietà, delle giurisdizioni e del prestigio
dell'abbazia borgognona di Cluny, fondata da Bernone attorno all'anno 910 e potenziata
soprattutto dal primo vero grande abate, il suo successore Oddone, al punto che a cavallo
del Mille Odilone venne detto rex Cluniacensis, a indicarne il potere e la fama. Le
dipendenze di Cluny, dopo tale data, crebbero al punto da essere disseminate
dall'Inghilterra alla Francia, alla Germania, all'Italia, alla Spagna, alla Polonia: un vero
regno, al cui vertice stava l'abate della casa madre, che controllava, con vincoli di diversa
natura, altri abati, priori, prevosti. Quasi un sogno monastico, Cluny, contrapposto
all'ordine laicale, a qualsiasi altro regno, nella sua aspirazione a trasformare un numero
sempre maggiore di uomini in monaci, sino a toccare punte di conversione monastica
clamorose. Ciò avvenne quando, nella seconda metà del XII secolo, l'abate Ugo accolse il
potente duca di Borgogna nel suo monastero come monaco e ne fu severamente
rampognato dal papa, Gregorio VII, che pure era stato monaco a Cluny. Il papa gli
rimproverò di aver privato la cristianità di un principe buono, uno dei pochi – mentre
molti erano i buoni monaci – in un momento difficile per la Chiesa, quando era in corso la
lotta per le investiture. Pochi anni prima, a Canossa, all'incontro tra il papa, sempre
Gregorio VII, con l'imperatore Enrico IV, presente Matilde di Canossa, aveva partecipato
come mediatore fra il pontefice e il sovrano quello stesso abate Ugo che poi avrebbe
accettato in monastero il duca borgognone. La potenza di Cluny e del suo abate è ben
riscontrabile in questo episodio, allorché il re e imperatore Enrico stentò a ottenere
l'assoluzione papale, che ebbe soprattutto per la presenza mediatrice di Matilde e di Ugo.
5. L'apogeo del monachesimo
Al di là delle Alpi, particolarmente in Francia e nei territori germanici (si pensi a Fulda,
Reichenau, San Gallo, Paderborn, e altri), i monasteri, come si è già osservato, furono di
norma più potenti che in Italia e nel Mezzogiorno d'Europa. Ma lo furono anche in quei
territori in cui l'assenza di vescovi e di città all'altezza dei grandi metropoliti italiani e
delle città nostrane e una nobiltà meno legata dall'intreccio di numerose famiglie
permisero loro di affermarsi, se non nella grandissima proprietà, nell'influenza religiosa,
ecclesiastica e politica. Questo avvenne anche nel Mezzogiorno d'Italia, dove l'abbazia di
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San Vincenzo al Volturno, nel Molise, ai limiti tra il Regno franco e il ducato-principato
beneventano, non ebbe di fronte come vicini rivali né città né grandi famiglie nobiliari
comparabili a quelle del nord. Così accadde anche all'abbazia di Santa Maria di Farfa, nella
Sabina, per la quale si scrisse, a cavallo del XII secolo, che era difficile stabilire se fosse o
no più ricca di quella di Nonantola. Ma la terra dei monasteri, in Occidente, fu quella al di
là delle Alpi, quasi dovunque, anche se furono più potenti e prestigiosi i monasteri del
centro e del nord. Un'abbazia come Cluny non ebbe eguali in tutta Europa e costituì la
punta più alta nell'affermazione del monachesimo. Tuttavia molti altri centri (di alcuni
abbiamo già detto) concorsero a formare un assetto ecclesiastico dilatato su spazi assai
ampi, in forte competizione con gli episcopi, di cui frequentemente bilanciavano e più
spesso superavano il significato. Lérins, fondata dall'orientale Cassiano nel V secolo,
divenne la capitale aquitana di un numero considerevole di sedi dal sud al nord della
Francia, sino ai suoi margini normanni. Non fu da meno Luxeuil, in Borgogna, edificata da
san Colombano, centro del monachesimo celtico nel continente. Ambedue non tardarono
ad accogliere – agli inizi solo parzialmente – la regola benedettina, che da Subiaco a
Montecassino, eretti da San Benedetto e dai suoi discepoli, diffuse in ogni angolo d'Europa
lo spirito realistico, umano ed elastico della propria cultura. Il lavoro è parte notevole della
regola e dell'attività dei benedettini, ed essi ne dispiegarono la forza soprattutto nell'epoca
della maggiore colonizzazione agricola, tra VIII e XII secolo, e anche in seguito, se pur con
interventi di più limitata estensione (i tempi e le esigenze erano mutati). Nel Kent e in
numerose altre parti dell'Inghilterra i benedettini, oltre alla fede cristiana, riportarono o
introdussero l'agricoltura, superando in questo, nel primo Medioevo, l'incisività di altre
istituzioni monastiche locali o vicine, come quella irlandese: Canterbury fu edificata dal
monaco Agostino, inviato da Gregorio Magno, ma anche Westminster e Londra
risentirono dell'operato suo e dei confratelli, spesso in conflitto con un potere ostile e una
presenza ecclesiastica locale non amica; altre volte, invece, le culture si incrociarono non
ostilmente e ne vennero risultati di particolare rilevanza, appunto per l'incontrarsi nel
vivere cristiano di idee e forme diverse. Sostanziale differenza tra il monachesimo
occidentale e quello del Medio Oriente (e dell'Oriente cristiano tutto) è ancor oggi una
forma di vita ancorata, nel secondo, alla caratterizzazione originaria data dalla
separazione dal mondo (basti pensare ai famosi monaci del monte Athos), oltre che dalla
intensa preghiera e dalla penitenza. L'iconografia stessa ci rivela per i due mondi, ché tali
sono anche nel nostro caso, nei volti dei confratelli, nella foggia dei vestiti, nelle attività cui
sono dediti, forme di vita sostanzialmente diverse (anche se, nel fondo, l'appartarsi e il
riflettere pregando costituiscono gli elementi forti comuni ad ambedue, pur variati e
complicati, e non di rado mutati, a seconda dei tempi e dei luoghi). Le miniature
medievali, in particolare dall'XI secolo in poi, e soprattutto in territorio francese, fanno
sfilare davanti ai nostri occhi le figure dei monaci intenti al lavoro dei campi, arrampicati
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sugli alberi a sfrondarli e potarli, vestiti come i contadini del tempo; quando invece le
icone contemporanee dell'Oriente esprimono negli occhi fissi e assorti la vocazione alla
preghiera e alla contemplazione, più forte di qualsiasi altra attitudine. Miniature, affreschi,
mosaici ci mostrano uomini diversi, in due società che si sono via via distinte, spesso
radicalmente, con il trascorrere del tempo. La chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli
venne imitata dall'omonima basilica beneventana, in quell'area del sud dove l'Oriente si
faceva sentire, nell'VIII secolo, anche in zone di dominio longobardo. Così ci avviene di
scorgere apertamente lo spirito monastico orientale a San Nilo di Grottaferrata, nella
struttura degli edifici e nella ornamentazione della famosa abbazia. Per non dire delle
chiese e dei monasteri di Roma. Ma sono stati gli scavi degli ultimi quindici anni, condotti
sulle rovine del monastero di San Vincenzo al Volturno, nel Molise, a rivelarci – oltre alla
presenza (e ben più che la presenza) dell'Oriente – un confluire estremamente variegato di
culture nelle varie forme espressive artistiche. Grande abbazia del ducato beneventano,
esso apparteneva, insieme al territorio in cui fu edificato, all'Impero dei Franchi dalla notte
dell'anno 800. Porta fulgida di fronte all'Oriente greco e musulmano, San Vincenzo toccò
l'apice della sua fioritura negli anni venti e trenta del IX secolo, in pieno periodo
carolingio, seconda – pare – per la grandiosità della sua chiesa solo a quella del cenobio di
Fulda in Germania, che a quel tempo era la maggior chiesa abbaziale d'Occidente. La
lunghezza delle navate parzialmente riportate alla luce è eloquente. Ebbene, a San
Vincenzo – nel cuore di quel Mezzogiorno interno che ancora poco conosciamo – i
Carolingi vollero trasferire i loro migliori maestri, il massimo, forse, della loro cultura,
come a mostrare al mondo orientale la propria faccia più splendida. Di più, la posizione
del monastero, tra Arabi, Greci, Romani e Longobardi, portò quasi naturalmente alla
ricchezza artistica composita e raffinata dell'abbazia, frutto dell'incrocio e della
sovrapposizione di così vari e alti livelli culturali.
Se a San Vincenzo possiamo ammirare l'incontro delle diverse esperienze artistiche (e
anche, ovviamente, sociali e istituzionali), è a Ravenna, e poi a Venezia, che l'Oriente e il
suo
monachesimo
rifulgono
nel
massimo
splendore;
e,
nell'estremo
sudovest
dell'Occidente, è nella Spagna musulmana, soprattutto nell'Andalusia, che ancora l'Oriente
si ripropone, pur con altre forme e culture, in tanti notissimi edifici sacri: li possiamo
ammirare ancor oggi tutti, da Venezia a Siviglia, a riprova che la sublimità dell'arte tende a
travalicare il tempo e il suo potere. L'influenza che ebbe sulla società il monachesimo di
ispirazione orientale fu diversa, ma non meno incisiva, di quella del monachesimo sorto e
maturato in Occidente. Indubbiamente si trattò (e si tratta), come abbiamo visto, di una
forma di vita sotto certi aspetti ispirata ad altre regole comportamentali. Però, pur essendo
meno proiettata all'esterno, non si esauriva in una quotidianità solitaria già per il fatto
stesso di proporsi come modello e, quindi, come punto di riferimento. La trasmissione
della cultura antica, inoltre, ebbe nel monachesimo d'Oriente uno strumento non di rado
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superiore a quello che aveva trovato nel monachesimo occidentale, se non altro perché il
primo si collocava come continuatore più diretto della tradizione greco-romana.
Meno conflittuale rispetto alla gerarchia ecclesiastica e al potere civile, il monachesimo
orientale ebbe anche modo di svilupparsi in un'autonomia superiore e di realizzare
all'interno del chiostro una maggiore perfezione, un maggiore distacco dal mondo. Ciò
non significa affatto che questo distacco fosse totale, ma soltanto che i monaci orientali, o
comunque i monaci ispirati alle loro esperienze religiose, svilupparono nei confronti della
società una riflessione critica innegabilmente più forte, non di rado più efficace, di sicuro
molto meno contaminata. Un'interiorità più profonda volle dire la difesa salda dei principî
del monachesimo – quando non dell'eremitismo, più diffuso e sentito che nell'Occidente –
ed ebbe come contropartita una presenza sociale e materiale meno incisiva, non dandosi
esempi di cenobi dotati delle sterminate proprietà fondiarie di quelli d'Occidente. Nel
contempo il monachesimo di stampo orientale subì un coinvolgimento politico e sociale
più morbido, si mantenne più puro, nei limiti concessi dalle vicende, spesso turbinose, del
Medioevo e delle epoche successive. Esso tuttavia spesso non esitò a contrastare anche
clamorosamente il potere, sia laico che ecclesiastico: basti l'esempio di Cassiodoro e dei
suoi rapporti con la monarchia gota.
6. L'agricoltura monastica
Una cultura tradizionale più scaltrita ebbe per il monachesimo orientale ripercussioni
notevoli sull'economia, in particolare quella agricola: sono famosi gli orti del monastero
calabro di Vivarium, dove appunto visse Cassiodoro. L'orticoltura, questo tipo di
coltivazione della terra intensivo, più ricco di interventi e sperimentazioni, fu prerogativa
agricola per eccellenza dell'economia monastica, ma lo fu soprattutto di quella dei fratelli
orientali. Nel Mezzogiorno d'Italia orti e giardini (spesso fusi in un'unica realtà) debbono
molto ai monaci per la loro splendida fioritura e diffusione in un territorio, per di più,
dove l'esperienza del cristianesimo monastico fu arricchita dalla vicinanza e dalla
sovrapposizione della scienza agraria musulmana. Grandi creatori di oasi, gli Arabi (e i
musulmani in genere) trasferirono e arricchirono tale esperienza nell'impianto di orti e
giardini, in tutto il bacino mediterraneo e altrove. La Sicilia ne fu particolarmente
beneficiata ed esemplarmente dotata di un'orticoltura tra le più famose. L'introduzione
degli agrumi dal Medio Oriente diede il via a una realtà di lunghissima durata grazie
soprattutto al secolare dominio degli Arabi nell'isola: di qui e dalle frange meridionali
della Spagna, pure araba, tale coltura salì verso nord, giungendo in Italia sino al Lazio e
toccando anche zone costiere, dove però ebbe carattere esclusivamente ornamentale. Gli
agrumi, e altre specie importate dall'Oriente, uscirono dagli orti e riempirono le
campagne, passando dal settore orticolo a quello dell'agricoltura vera e propria. Se
ricordiamo che altre specie ancora furono introdotte in Italia dai monaci (una lunga
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tradizione culturale legava i cenobi dell'Oriente a quelli del sud europeo) ci avviciniamo a
comprendere, tenendo conto della fusione di questi vari apporti, la peculiare fisionomia
che la coltivazione della terra assunse nei paesi meridionali dell'Occidente a iniziare
dall'VIII secolo, l'epoca della conquista araba della Spagna.
L'orticoltura e l'agricoltura, nata dalla prima, sono un fenomeno tipicamente urbano e
appunto da ciò deriva l'impulso maggiore che esse ebbero agli inizi in aree dove la
presenza della città si mantenne, tra tardo-antico e primo Medioevo, sostanzialmente
vitale, ma anche in seguito, nelle zone dove l'afflusso di popoli dell'Europa settentrionale e
delle steppe asiatiche incoraggiò l'insorgenza di pascoli, boschi e villaggi, che facevano
parte del costume di vita di quei popoli. Piante alimentari, erbe medicinali e alberi
ornamentali (molto più numerosi quelli provenienti dall'Oriente) si unirono alle nostre
colture, dando vita a un'agricoltura ricchissima nella concentrazione delle specie vegetali
degli orti, che in Occidente è venuta meno solo da alcuni decenni e non dovunque. La
tendenza a privilegiare la coltura di maggior rendimento e minor costo è una politica
economica che inizia con la nascita della grande proprietà fondiaria, già nel primo
Medioevo. Gli stessi grandi monasteri non ne andarono esenti: basti pensare all'estensione
delle colture cerealicole su spazi sempre più ampi, che assicurava un prodotto di primaria
necessità e dalla commercializzazione anche allora tutto sommato agevole. Tuttavia una
tecnologia agraria molto meno agguerrita imponeva la varietà delle coltivazioni, che
poteva assicurare la riuscita di qualcuna di esse anche nel caso di avversità climatiche.
7. Le riforme monastiche
Il monachesimo fu attraversato, per tutto il Medioevo e oltre, da scosse riformatrici che, se
da un lato erano volte a ristabilire lo spirito della sua genesi originaria, dall'altro si
proponevano l'adeguamento ai tempi nuovi. Queste due componenti non concorsero
sempre in eguale misura alle cosiddette riforme monastiche, che videro prevalere l'una o
l'altra, a seconda dei luoghi e dei tempi. Esse furono, comunque, costantemente unite e il
richiamo alle origini e al Vangelo non venne meno in alcuna circostanza. Nella prima metà
del IX secolo l'aristocratizzazione del clero secolare e regolare sollecitò Benedetto d'Aniane
a instaurare una regola in cui prevalse l'aspetto rigoristico e penitenziale; solo con il tempo
la sua riforma smussò l'asprezza degli inizi, costituendo la premessa storica di ogni altro
movimento riformatore, sia pure con modalità diverse. Un secolo più tardi l'esperienza
individuale ed eremitica di Oddone, secondo abate di Cluny, era volta sia a sottrarre i
monasteri al controllo del laicato, sia al ripristino della spiritualità e dell'austerità delle
origini. Spesso si giunse a forme di contestazione della decadenza monastica che
sfociarono non solo in vere e proprie ribellioni con le altre comunità religiose, ma anche in
ribellioni alla gerarchia ecclesiastica e all'ordine costituito. Un fenomeno, questo, che
affiancò l'eresia o addirittura vi sfociò apertamente ed ebbe la sua massima affermazione
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nel vivace e spesso convulso mondo della civiltà comunale italiana, pur non escludendosi
altri focolai al di fuori della nostra penisola e soprattutto il suo debordare in ampie zone
d'Europa. Ciò accadde, in particolare, nella travagliata storia del movimento francescano,
a iniziare già dalla metà del XIII secolo, quando il fondatore dell'ordine era morto da poco.
Fu, però, dal Trecento che la variegatura estrema delle iniziative monastiche, ortodosse o
meno, toccò il punto più alto della sua diffusione, anche in rapporto alle conseguenze
della crisi dei Comuni italiani, al formarsi sempre più deciso delle potenti monarchie
europee, alle crisi sociali ed economiche che scossero tutto quel secolo e, pur a livelli
diversi, il successivo.
La sollecitazione al ritorno alle origini, con un'accentuazione singolare della solitudine,
dell'appartarsi, segnò le riforme dei camaldolesi e dei vallombrosani, insieme alla
reazione, principalmente dei primi, a una società che, a cavallo del Mille, andava
'mondanizzandosi', e allo stesso monachesimo che ne subiva, con il clero secolare,
l'influenza. Da ciò la scelta di luoghi solitari sui versanti montani tra l'Emilia e la Toscana.
Non vi fu estraneo, certamente, il risorto anelito all'eremitismo, che tuttora caratterizza
fortemente l'esperienza spirituale dei monaci camaldolesi. Tutto questo in un clima sia di
rigorismo (si pensi a papa Silvestro II e all'imperatore Ottone III), sia di incipiente conflitto
tra potere civile e potere ecclesiastico, alle soglie della lotta per le investiture. Ma, al di là
di tutto ciò, nel dar vita a questi e ad altri movimenti riformatori contò anzitutto il
cambiamento che investì, anche se in diverse misure e forme, la società dopo il Mille, nel
passaggio dall'alto al pieno Medioevo. Un clima di fermenti cominciò a incrinare il mondo
feudale, pur giunto a quell'epoca (XI e XII secolo) alla sua massima affermazione: rinascita
vigorosa delle città, deciso enuclearsi delle autonomie nelle comunità rurali, rafforzarsi e
dilatarsi dei traffici, vigoreggiare dell'artigianato, primo saldo imporsi delle monarchie
feudali, e lo stesso radicarsi nel territorio della nobiltà, soprattutto al nord delle Alpi, dove
essa si andava cristallizzando nelle forme della signoria bannale, contrassegnata da
rapporti sempre più rigidi con i propri soggetti. Non ultimo, certamente, il riaccostarsi,
ben più influente che nel passato, alla civiltà araba e bizantina. Le stesse crociate
favorirono questi contatti e concorsero, per il tramite soprattutto del mondo islamico,
all'ingresso incisivo nell'Occidente delle culture orientali e delle specifiche discipline
coltivate dagli Arabi. È innegabile che una forte componente di razionalismo prese allora
la via dell'Occidente: la Spagna musulmana, tra XI e XII secolo, ne fu l'espressione
primaria, in cui si incrociarono le culture araba, cristiana ed ebraica. Ciò avveniva in un
periodo in cui si sentiva un bisogno notevole di arricchimento scientifico, nella temperie
nuova in cui le mentalità e le culture dotte si evolvevano verso l'approfondimento della
conoscenza non solo filosofica, ma anche matematica e fisica. Il monachesimo prese
posizione nei confronti di queste e altre novità e, nonostante chiusure forse più formali che
sentite, in molti casi ne fu certo influenzato. I cistercensi, con la loro esigenza di ordine
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geometrico sia nell'apprestare i propri insediamenti che nell'organizzare il loro sapere e le
stesse aziende fondiarie, dovettero molto, fra XII e XIII secolo, al sapere trasmesso,
rielaborato o creato dalla cultura islamica. (V. anche Cristianesimo e Chiese cristiane;
Religione).
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