2. Anticonformismo e ideologia urbana nell’elegia di Ovidio Gli studiosi di Ovidio hanno spesso mostrato un interesse vivace a definire – dagli Amores alle ex Ponto – la sostanza etica e ideologica della sua poesia. Il quadro non è privo di fascino: un poeta anticonformista, ribelle alle ragioni comuni dell’impegno civile, demistificatore giocoso dell’etica tradizionale; ci si sente tentati dall’immagine di un antagonista al progetto augusteo di restaurazione morale, di un intellettuale d’opposizione. Un quadro per di più, al di là di esagerazioni evidenti, non privo di verità. Difficilmente infatti si potrebbe negare l’importanza, nell’erotica ovidiana, di fatti come l’antimilitarismo, come la provocazione che rovescia il senso di valori tradizionali (virtus, strenuitas, ma anche ignavia, desidia, inertia ecc.), come l’aggressione scherzosa ai cardini etico-politici della società romana (fides, pietas). Né, com’è ovvio, l’attacco risparmia aspetti più specifici della propaganda (il ritorno dell’età di Saturno, la divinizzazione «eroica» del principe, la legislazione moralizzatrice, la figura di Romolo ecc.) o della politica culturale augustea (il poema epico nazionale, la Gigantomachia). Il problema, in realtà, coinvolge tutta la carriera poetica di Ovidio, se è vero che venature polemiche e ispirazione «antiaugustea» si è voluto rintracciarle perfino nelle opere dall’esilio – estrema rivolta contro il tiranno nascosta sotto l’ossequio cortigiano. Eminentemente cittadino era il centro attorno al quale ruotava la vita degli amori: la cortigiana raffinata, elegante, che sapeva di musica, danza, letteratura. Cittadine le occasioni di incontro fra gli amanti: il banchetto, il teatro, gli spettacoli, le passeggiate. Tutti urbani i capricci, le inclinazioni, i desideri della donna: anzitutto l’amore per le merci, gli oggetti di lusso (tessuti, cosmetici, gioielli, profumi, carrozze, cavalli, schiavi); e poi gli svaghi, i passatempi (i dadi, gli scacchi); e soprattutto il rifiuto dell’ideologia della mater familias: fedeltà, lavoro domestico, semplicità, dedizione disinteressata. Il fascino di questa vita «greca», brillante e mondana, è evidente nei versi dei poeti elegiaci: soprattutto in Properzio ciò diventa talvolta occasione di un canto spiegato, di un’adesione gioiosa. Eppure né Tibullo né Properzio avevano dato all’elegia d’amore una organizzazione tematica, una forma espressiva coerente, organica all’ideologia urbana cui era vincolato il loro fare poesia. La città che li abbagliava con gli splendori della vita galante, la donna che aveva scacciato dal loro cuore le caste fanciulle e un’esistenza ordinata, erano, a un tempo, amate e rifiutate, esaltate e maledette. Questa natura «complessa» della poesia elegiaca è un terreno di indagine che, soprattutto negli ultimi anni, è stato fecondo di risultati e prospettive. È opportuno richiamarne qui alcuni temi emergenti. Anzitutto il ritorno, nella relazione «libertina», dell’eros coniugale; la rivendicazione della fides, della pudicitia. E ancora, in concorrenza col fascino della cortigiana raffinata, il rifiuto della luxuria, del cultus; la tensione verso una semplicità naturale; gli spunti di idealizzazione della puella; l’evasione dalla propria realtà di contrasti verso un mondo fantastico, felice e pacificato (soprattutto in Properzio); oppure (soprattutto in Tibullo) verso il mondo del Lazio rurale, ove il poeta sogna di ritrovare il ritmo di una esistenza che non ha smarrito i suoi dei, le sue gioie quotidiane. La Roma dei consumi, dello splendore urbano, esercita un’attrazione irresistibile, ma anche un impulso di rigetto, un rimpianto per le origini, per quella Roma pastorale, evandrea, tante volte rievocata dalla poesia contemporanea. Solo la tensione verso un mondo ri-creato dalla letteratura, che opponga alla disgregazione della crisi gli argini di una autarkeia (= indipendenza) erotica, può rimotivare nel poeta la sua scelta esistenziale e letteraria. Vediamo così consumarsi il paradosso dell’elegia preovidiana: una poesia che si vuole generata dal reale, condizionata da Amore, dalla donna, dalle vicende della relazione; e che finisce per praticare, per strade diverse, un rifiuto quasi sistematico del reale medesimo, una fuga verso il mito o la creatività fantastica. Con Ovidio, il paradosso può dirsi rovesciato: la poetica si è fatta anti-realistica, contesta la tirannia della vita sulla letteratura; ma in ciò il poeta elegiaco trova lo strumento per costruire una poesia capace di mantenere un rapporto più coerente con il reale, di farsi interprete «fedele» della varietà di zone sociali, culturali, ideologiche in cui esso si articola. Ecco dunque che l’esperienza ovidiana può presentarsi come il «perfezionamento» del genere elegiaco. Sulla base di una riflessione critica sui fondamenti tematici, compositivi, espressivi di quella poesia, Ovidio procede alla eliminazione di scorie, incrostazioni, elementi estranei che egli trovava nei suoi auctores (= modelli elegiaci), continuamente ripresi e continuamente svuotati in un raffinato gioco letterario. Il fine è la costruzione di una retorica della città, che coinvolga tutti i livelli del testo: anche gli sviluppi compositivi – la sistematica elaborazione del tema, l’architettura proporzionata e conclusa del componimento –, anche la forma dell’espressione, levigata e brillante. Lo strutturarsi dell’elegia d’amore in forma letteraria coerente al mondo della città sembra collidere violentemente con il progetto culturale della restaurazione augustea. Il pezzo forte dell’intera sezione è senza dubbio quello che istruisce sull’opportunità amatoria delle cerimonie pubbliche e in particolare del trionfo. Nel prospettare i vantaggi dell’occasione festosa, il poeta approfitta per annunciarne una prossima celebrazione, ch’egli prevede onorerà l’esito vittorioso della spedizione che Gaio Cesare si accinge a guidare in Oriente. Il pezzo ovidiano, squillante annuncio di vittorie in gloria di Roma e del principe, riflette probabilmente l’atmosfera eccitata della capitale e «asseconda» un reale progetto di Augusto e il conseguente sforzo propagandistico. Abbiamo di fronte un vero brano di poesia cortigiana, in cui il poeta innalza ripetutamente il tono, cerca qui e là il formulario ufficiale, dà voce ai motivi più attuali dell’ideologia imperiale. I toni marcati dell’esaltazione hanno insospettito più del giusto qualche lettore, tentato di riconoscere negli «eccessi» una intenzione ironica, demistificante, e magari di cercare nel testo sottintesi, secondi fini, allusioni polemiche. Più sensato il discorso di chi richiama l’attenzione sulla particolare natura del contesto: il trionfo del giovane principe, l’elogio del suo augusto genitore, i motivi nazionali e patriottici, in mezzo ai consigli che un poeta galante destina al suo frivolo pubblico di innamorati. Qui sarebbe, nell’accostamento audace, poco riguardoso di tanta solennità, il sorriso, la spregiudicatezza del poeta anticonformista. È un’analisi che ha molte buone ragioni, ma anche qualche serio pericolo di forzare le sfumature. Il sorriso c’è, c’è il divertimento e perfino il gusto dell’impertinenza: ma niente che sia dirompente, che aggredisca l’ideologia imperiale. In un rinnovato contatto con la poesia cortigiana fiorita in lode dei dinasti ellenistici, a Ovidio piace riprendere anche gli elementi di frivolezza cittadina, di ilarità spiritosa, che quei poeti sapevano fondere armoniosamente nell’encomio della casa regnante e delle sue imprese. Quando si parla, per brani come questo ovidiano, di formulario ufficiale, di solennità da poeta civile, non si pensi a uno stile inturgidito, a un seguito di tirate oratorie: l’impasto è complesso e originale, tutto giocato su un equilibrio instabile, ma sempre garantito dalla maestria del poeta. L’ossequio cortigiano sa stemprarsi quasi insensibilmente nella brillantezza, nell’urbanitas spiritosa dell’uomo di mondo; la solennità sa convivere e cedere il passo di continuo a uno stile vivace e conversevole, che può offrire le risorse delle sue trovate inesauribili anche ai temi più importanti e impegnativi. (da M. Labate, L’arte di farsi amare. Modelli culturali e progetto didascalico nell’elegia ovidiana, Giardini, Pisa, 1984, pp. 14-50)