Sommario Middle management nelle scuole, di

associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola
ADERENTE ALLA CIDA CONFEDERAZIONE ITALIANA DIRIGENTI D'AZIENDA
ADERENTE ALL’ESHA EUROPEAN SCHOOL HEADS ASSOCIATION
NOTIZIARIO DELLA STRUTTURA REGIONALE DEL PIEMONTE
Anno IX, n. 2 (10 Gennaio 2011)
Sommario
Middle management nelle scuole, di Giorgio Rembado
Nota operativa INPDAP per l'applicazione ai dirigenti pensionati del CCNL 2010 Area V
Certificato di prevenzione incendi: dirigenti scolastici sollevati da responsabilità penali
Consulenza previdenziale per i soci ANP
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MIDDLE MANAGEMENT NELLE SCUOLE
ovvero
L’evoluzione della professione docente in Italia e lo sviluppo di “funzioni intermedie”
collegate all’insegnamento e al sistema di istruzione
di Giorgio Rembado
Una riflessione sul middle management applicato al sistema d’istruzione non può prescindere da
una messa a punto di un’idea di scuola come struttura organizzata e, conseguentemente, da una
visione aggiornata della professionalità docente.
Ciò comporta la messa in discussione dell’impostazione classica del processo di insegnamentoapprendimento, inteso come rapporto diretto ed esclusivo dell’insegnante con l’allievo, alla quale è
rimasto ancorato il modo di fare scuola nel corso di una tradizione plurisecolare. La scuola come
luogo d’incontro tra persone con la vocazione della trasmissione del sapere e altre caratterizzate dal
desiderio di apprendere è legata ad un mondo in cui pochi avevano l’accesso alla cultura e in cui
maestro e allievo erano accomunati da una visione identitaria del mondo e da omogeneità valoriale
e spesso sociale. Ma ora quel mondo non esiste più, se non nei nostri sogni segreti e in qualche caso
nei nostri ricordi. La scuola è un servizio pubblico reso al cittadino che ha il compito di offrirgli le
opportunità per realizzare i propri interessi e il proprio personale progetto di vita, ciascuno il suo, ed
è rivolta a destinatari con punti di partenza diversissimi fra loro per quanto riguarda sia le basi
culturali, che le appartenenze socio-economiche e il background etnico-linguistico.
La globalizzazione con l’inevitabile corollario della presenza nella stessa classe di alunni di svariate
nazionalità, l’allargamento dell’istruzione a tutti e, ancor più, l’incessante velocità nella crescita
della conoscenza in tutti i rami del sapere in continua accelerazione hanno radicalmente trasformato
il contesto entro il quale la scuola era abituata a svolgere il proprio compito.
Se cambiano le finalità non possono non cambiare radicalmente i modelli organizzativi.
Il modello di scuola costruito su un’offerta formativa unica ed eguale per tutti è del tutto
anacronistico e inadeguato rispetto alla pluralità e varietà della domanda e perciò l’istituzione
scolastica, se vuole essere al passo coi tempi, ha la necessità di trasformarsi in una struttura
organizzativa complessa, sede di un incrocio di competenze fra di loro differenti e complementari.
E’ il confronto con la complessità organizzativa che ha imposto, fra gli altri, il tema del middle
management, nato in ambito aziendale nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta e poi
allargatosi alle pubbliche amministrazioni e, fra queste, alle scuole. In ambito scolastico, in
particolare, l’organizzazione di tipo piramidale classica, fondata su di un preside, anello di
congiunzione tra l’Amministrazione ministeriale e la scuola, da un lato e su di una platea indistinta
di insegnanti tutti parimenti fungibili – fatta eccezione per la differenza delle competenze
disciplinari nelle materie di insegnamento - dall’altro, poteva essere compatibile solo con una
società caratterizzata da scarsa mobilità sociale e con una realtà semplificata. La scuola di massa
invece non può adattarsi alla rigidità di programmi d’insegnamento stabiliti dal centro del sistema e
ad un’organizzazione del lavoro uniformemente precostituita. Oggi infatti i contenuti e i metodi
vanno adeguati alle situazioni, sono il frutto di un concorso di volontà all’interno del quale
intervengono come attori, oltre agli addetti ai lavori, anche i fruitori del servizio (studenti, famiglie)
e gli stakeholder istituzionali e sociali (enti locali, imprese, etc.).
Mentre la singola scuola come organizzazione sta percorrendo il tragitto dall’uniformità alla
diversificazione, dalla rigidità alla flessibilità (parallelo con maggiore o minore coerenza alle
trasformazioni istituzionali in atto che all’interno di ciascun paese hanno scelto la strada
dell’autonomia in modo più o meno accentuato), i sistemi scolastici dei paesi europei, in passato
molto diversi fra loro, tendono invece oggi a dialogare fra loro e a mettere in atto una sostanziale
convergenza di metodi e di modelli organizzativi. Non che non ci siano anche adesso, se si guarda
agli ordinamenti giuridici, differenze importanti. Quel che è cambiato è il modo in cui oggi si
guarda a queste differenze. Mentre prima ogni paese era geloso custode delle proprie particolarità –
che erano considerate come parte dell’identità nazionale – oggi si cerca di ridurle e di studiare
soluzioni simili a problemi sempre più complicati e diffusi.
Ne è prova il moltiplicarsi di indagini internazionali (elaborati da agenzie specializzate quali
l’OECD) in cui si analizzano e si mettono a confronto dati e situazioni nazionali, per ricavarne
indicazioni utili ai decisori politici dei singoli paesi. Ed è anche vero, poi, che la globalizzazione
delle culture, delle organizzazioni sociali, delle modalità produttive, del tempo libero pone le scuole
di fronte a sfide più ardue, ma sempre più simili fra di loro. Anche questo è un fattore che da un lato
sospinge verso la convergenza fra le nazioni, ma al tempo stesso impone la ricerca di risposte
diverse alla varietà della domanda di formazione. Le diversità che un tempo erano contenute dentro
i confini nazionali e difese come patrimonio della nazione oggi li superano e li abbattono per
trovarsi parimenti distribuite scuola per scuola in tutto il mondo.
Bisogna tener conto però che, nonostante questo processo sia avviato ormai da almeno un paio di
decenni, rimane ancora forte l’eredità culturale e organizzativa del secolo scorso, durante il quale si
sono costruiti in tutta Europa i sistemi scolastici di massa. E di conseguenza i docenti, senza il cui
cambiamento è preclusa qualsiasi possibilità di trasformazione della scuola, stentano a trovare un
nuovo punto di equilibrio relativamente al loro ruolo e alla loro professione.
Nel mio scritto prenderò le mosse dall’esperienza italiana, cui farò seguire qualche ipotesi di
soluzione organizzativa ai problemi comuni alla generalità dei sistemi. Proprio per le considerazioni
fin qui sviluppate, nella prima parte porrò l’accento su quel che rende particolare il caso del mio
paese, mentre nella seconda mi propongo di offrire un contributo alla discussione anche al di là dei
confini del mio paese.
Cominciamo dal caso Italia: la scuola vi fu progettata e venne saldamente costruita nella prima metà
del secolo scorso come un sistema governato dal centro. Unico soggetto decisionale era il
Ministero, che (almeno nelle intenzioni) disciplinava tutti gli aspetti del sistema: indirizzi di studio,
piani orario, programmi di insegnamento, modalità di verifica, titoli di studio. Parte cospicua
dell’accentramento normativo e decisionale riguardava anche l’organizzazione interna delle scuole,
che era costantemente indirizzata attraverso lo strumento delle circolari ministeriali, numerose e
dettagliate. Era consuetudine che per ogni anno scolastico ne venissero diramate parecchie
centinaia.
In quel contesto, agli insegnanti spettava un dovere ben preciso: quello di trasmettere i contenuti
della propria materia secondo le istruzioni ricevute (programmi), senza preoccuparsi delle
caratteristiche personali degli studenti e del progetto generale della scuola, che era deciso dal
Ministro. Si presumeva che gli obiettivi didattici astrattamente determinati dal centro fossero
adeguati alle finalità educative generalizzate e che pertanto solo il loro perseguimento fosse
condizione necessaria e sufficiente per la riuscita del processo di apprendimento. Lo svolgimento
del programma nel modo più fedele possibile alle indicazioni ministeriali avrebbe dovuto essere di
per sé una garanzia dell’efficacia del servizio. Insomma: centralità del programma come strumento
di controllo a priori, anziché centralità dell’allievo e della ricerca di un grado il più elevato possibile
di consapevolezza e d’interesse da parte sua. Anche il controllo ispettivo – fin quando è stato
esercitato – era pensato per garantire la corretta esecuzione delle istruzioni ministeriali e per
misurare lo scarto tra i programmi svolti e quelli ufficiali, con l’obiettivo di ridurre al minimo le
differenze fra una scuola e l’altra.
Il concetto stesso di “funzioni intermedie”, cioè di figure collocate fra chi svolgeva l’attività
dell’insegnare e chi quella del progettare ed organizzare, non aveva diritto di cittadinanza. Tutta la
funzione organizzativa era affidata ai presidi, che dal canto loro dovevano preoccuparsi solo di
attuare al meglio le disposizioni ricevute.
Naturalmente un modello siffatto è facilmente ricostruibile nella teoria e meno agevolmente
riconducibile all’esperienza realizzata, in quanto la realtà concreta ha sperimentalmente fatto
conoscere una casistica molto più ricca ed articolata. I buoni insegnanti hanno saputo piegare nei
limiti del possibile lo svolgimento dei programmi alle attese e alle curiosità intellettuali degli
allievi, nei casi migliori sono diventati maestri nel senso più ampio ed impegnativo del termine. Ma
lo hanno fatto spesso disattendendo la norma, con uno spirito efficacemente trasgressivo che ha
consentito loro di essere grandi professionisti della formazione nonostante il sistema.
E qui sta il primo corno del problema: il complesso delle regole che presiedono all’organizzazione
della formazione dovrebbero favorire e non essere di ostacolo alla realizzazione di una buona
scuola. Ma poi c’è dell’altro: la necessità per molti docenti di aggirare le norme ha favorito la
diffusione nella categoria di uno spirito fortemente individualistico che è diventato uno dei
connotati distintivi della professione, tradizionalmente portata a coltivare un rapporto diretto fra
l’insegnante e la propria classe, e ha sviluppato resistenze nei confronti del lavoro in team e di una
programmazione dell’attività didattica.
Negli ultimi decenni del Novecento si sono poste le basi per grandi trasformazioni politiche e
istituzionali che hanno progressivamente indebolito la fiducia nel centralismo ministeriale. Ma, per
quanto riguarda la scuola, questo processo ha avuto ricadute quasi solo sull’aspetto didattico: gli
insegnanti sono diventati più liberi di prima relativamente ai contenuti e alle modalità del loro
insegnamento. Mentre programmi, orari e modalità gestionali in generale continuavano ad essere
decisi dal centro: e quindi stentavano a crearsi le condizioni per lo sviluppo delle cosiddette
“funzioni intermedie”.
L’unica figura professionale che si collocasse fra quella del preside e quella degli insegnanti è stato
a lungo il vice-preside. Così si chiamava in Italia quell’insegnante che, in caso di malattia o di altro
impedimento del capo di istituto, lo sostituiva nell’espletamento delle sue funzioni. Di fatto,
sviluppava sul campo competenze di natura gestionale ed organizzativa, senza che a questo
corrispondesse alcuno sviluppo permanente di carriera. L’incarico aveva durata annuale, anche se in
pratica, proprio perché si trattava di un lavoro impegnativo e che richiedeva esperienza, veniva
confermato. Ma quella del vice-preside restava comunque una funzione precaria – che per molto
tempo non dava diritto a nessun compenso aggiuntivo – e che non si consolidava in un
riconoscimento permanente di carriera.
Questo stato di cose ha cominciato ad evolversi in modo graduale solo negli ultimi venti anni,
grazie al lento affermarsi dell’autonomia delle scuole. In un primo tempo, l’autonomia altro non è
stata se non una pulsione ad adeguare il sistema alle esigenze emergenti ed ha cominciato ad
affacciarsi nella realtà scolastica come sperimentazione dei modelli organizzativi al di fuori della
disciplina legislativa. A partire dal 1997, l’autonomia è entrata nell’ordinamento giuridico, con il
trasferimento alle scuole di un numero crescente di poteri decisionali.
Un siffatto trasferimento ha riguardato soprattutto questioni di natura amministrativa e gestionale,
per esempio quelle relative alla gestione del personale e del bilancio. Ma ha modificato anche il
progetto educativo nel suo insieme e il modo per costruirlo: accanto ai programmi di insegnamento
decisi dal Ministero, diventati meno cogenti, le scuole sono state chiamate ad elaborare un “piano
dell’offerta formativa”, ciascuna il proprio, contenente una serie di progetti ed iniziative di
arricchimento e miglioramento della propria proposta.
E’ cresciuta parallelamente l’importanza degli enti locali in materia d’istruzione. In passato, essi si
occupavano solo di fornire gli edifici ed i servizi generali (riscaldamento, elettricità, acqua,
telefono). Oggi decidono della collocazione delle scuole e dei diversi indirizzi di studio sul
territorio e possono offrire un contributo su numerose questioni, anche relative ai contenuti dei
curricula. Si tratta di un processo ancora in corso, ma che richiede un collegamento molto più
stretto che in passato fra la scuola, i comuni, le province e le regioni. Questo è vero in modo
particolare in alcune parti del nostro territorio, che, per ragioni storiche e culturali, godono di statuti
di autonomia locale più sviluppati. Uno di questi contesti è per esempio quello di Bolzano dove la
Provincia autonoma ha il governo del sistema scolastico in tutti i suoi aspetti, anche se nel rispetto
di una compatibilità generale con il sistema nazionale.
Si sono quindi molto ampliate le attività – diverse dall’insegnamento – che le scuole sono chiamate
a svolgere al proprio interno o in cooperazione con enti e soggetti esterni. Tali attività sono
coordinate dal dirigente della scuola ma svolte di fatto da un certo numero di docenti. Si tratta di
insegnanti che – senza abbandonare la propria attività originaria – svolgono anche altri compiti
all’interno della scuola o ne favoriscono la collaborazione esterna con altri soggetti.
Queste “figure di sistema”, come vengono a volte chiamate, non sono però ancora formalmente
riconosciute. Esse esistono di fatto – quasi sempre su base volontaria – e ricevono un incarico dal
preside: in alcuni casi per una sua autonoma decisione, in altri su designazione espressa dal collegio
docenti (un organismo che riunisce tutti gli insegnanti della scuola). Il loro incarico dura un solo
anno scolastico e dà diritto, per il solo tempo in cui viene svolto, ad una retribuzione accessoria di
modesta entità, decisa in sede di contrattazione sindacale di istituto fra il dirigente ed i
rappresentanti sindacali. Data la cultura sindacale tuttora prevalente, si verifica abbastanza spesso
un livellamento nei compensi: con la conseguenza che chi fa di più e meglio viene in realtà
premiato di meno. A ciò contribuisce anche la mancanza di ogni valutazione della prestazione
individuale, cui si è opposto fino ad ora tenacemente il sindacato tradizionale, sostenendo che la
libertà didattica della professione di insegnante fosse garantita dall’assenza di qualsiasi meccanismo
di valutazione professionale. In realtà, invece, un tale stato di cose finisce con il tradursi nella tutela
dei soggetti meno capaci e impegnati, che non sono chiamati a rispondere dei propri limiti ed errori
né aiutati a superarli, e con il demotivare gli insegnanti più impegnati, che non ricevono alcun
riconoscimento permanente della propria funzione e che, anche dal punto di vista economico, non
riescono a differenziarsi dalla maggioranza degli altri.
Va segnalato infine un ulteriore problema. La mancanza di riconoscimenti formali di carriera e di
status, insieme con l’assenza di valutazione e con l’appiattimento retributivo, ha eroso nel tempo il
prestigio sociale della figura del docente. Questo ha per effetto che i giovani migliori si allontanano
dalla professione, che in parecchi casi tende a diventare una seconda scelta per chi non ha trovato
migliori o più prestigiose opportunità lavorative.
Fin qui l’esperienza italiana: tutti riconoscono che si tratta di una situazione critica, che rischia di
compromettere il futuro della nostra scuola; ma non vi è accordo sulle soluzioni. La maggior parte
del mondo sindacale persiste in un approccio puramente “quantitativo” al problema: servono più
soldi, più personale, più anni d’istruzione. Ma rifiuta nei fatti ogni valutazione ed ogni
differenziazione, in nome di quel che viene convenzionalmente chiamata “l’unicità della funzione
docente”, che assorbirebbe in sé ogni altra specifica declinazione professionale.
A parere dello scrivente, si tratta di un errore grave. Distribuire risorse in modo indifferenziato sul
sistema scolastico, senza una precisa individuazione di priorità, sarebbe sbagliato, anche se le
risorse fossero disponibili senza limiti. Sarebbe sbagliato perché non incoraggerebbe
comportamenti virtuosi e non mobiliterebbe le energie là dove sono più necessarie e utili. Si
manterrebbero pressoché inalterate le attuali criticità, ad un costo più alto per la collettività.
Ma il problema vero è che le risorse scarseggiano. Questo della scarsità delle risorse non è un caso
solo italiano, ma ciò non alleggerisce la questione, anzi la aggrava e produce ulteriore criticità
quando si tratta di risalire la china. Tuttavia, molti ritengono che le situazioni difficili costituiscano
anche il momento giusto per fare scelte coraggiose. Proprio perché mancano i mezzi per investire a
360°, occorre individuare le leve strategiche per il cambiamento ed agire su di esse.
Nel caso della scuola, le leve su cui puntare prioritariamente sono costituite dagli insegnanti e in
particolar modo, nella contingenza attuale, da quelli fra loro che svolgono funzioni intermedie.
Insegnare è senza dubbio la missione centrale della scuola: ma corrisponde anche al “minimo” della
prestazione professionale dovuta. Sarebbe paradossale che si dovesse incentivare in modo
generalizzato quella che è la base stessa della professione.
Quel che invece può – e deve – fare la differenza è il progetto della singola scuola: quell’insieme di
priorità, di scelte, di azioni di monitoraggio che costituisce nel suo insieme la ragion d’essere del
suo funzionamento. In tempi di cambiamento veloce, quel che conta non è la quantità della “materia
prima”, ma la qualità, cioè l’intelligenza incorporata nel funzionamento.
Sicuramente, è essenziale la qualità del dirigente, come guida e riferimento unitario. Ma il preside
incarna l’istituzione e ne garantisce la direzione strategica. Oltre a ciò c’è bisogno di chi abbia la
responsabilità su singole unità organizzative e di chi presidii gli snodi della struttura. E poi vi sono
competenze specifiche – come per esempio quella di coordinare dipartimenti disciplinari – che
possono essere assicurate solo dagli esperti di un particolare ambito.
C’è la necessità di chiedere quindi ad un certo numero di insegnanti di sviluppare – in aggiunta alle
competenze essenziali dell’insegnare – altre aggiuntive specializzate nei vari contesti indispensabili
alla scuola dell’autonomia. Non tutti vi sono interessati, non tutti sono in grado di farlo. Ma chi lo
fa, investendo tempo ed intelligenza oltre il minimo richiesto dalla posizione contrattuale, deve
ricevere un riconoscimento consistente sul piano della carriera e della retribuzione.
A chi scrive pare indispensabile e non più rinviabile una ridefinizione della funzione docente nel
suo complesso, per passare da un ruolo ad un’unica dimensione ad un altro più sfaccettato e
complesso. Non esiste in nessun sistema organizzato una professionalità che non preveda la
differenziazione e il riconoscimento dei meriti individuali. Il profilo che mi pare doveroso sostenere
e che reputo coerente con i fabbisogni della scuola di oggi poggia su alcuni capisaldi fondamentali:
- valutazione per tutti gli insegnanti. Naturalmente si fa riferimento ad una valutazione che non
abbia la finalità di sanzionare, ma soprattutto quella di promuovere il riconoscimento del valore
individuale. Oggetto della valutazione dovrebbe essere la qualità della prestazione didattica, ma
anche la formazione certificata. Si pensi prevalentemente ad una valutazione che intervenga a
domanda degli interessati. Una valutazione il cui giudizio dipenda da una serie di apporti
professionali differenti: dalla competenza del dirigente per gli aspetti amministrativi e
relazionali e da quella dei docenti senior per gli aspetti didattici e professionali;
- riconoscimento del merito. Naturalmente da collegarsi alla valutazione e tradursi in benefici sia
economici che di status. A misura che l’insegnante assuma nuovi o maggiori compiti, la
valutazione dovrebbe necessariamente estendersi anche a questi;
- una carriera strutturata. Il presupposto è quello di prevedere un percorso professionale
articolato in una progressione che non dipenda solo più dall’anzianità di servizio ma che sia
sottoposta a verifiche. Una proposta ragionevole potrebbe contemplare la costituzione di tre
livelli: quello d’ingresso, uno intermedio e uno di eccellenza (senior). Ai due livelli superiori si
dovrebbe accedere solo per merito comparativo, previa valutazione e a numero chiuso. La
differenza economica fra i livelli dovrebbe essere rilevante, al fine anche di rendere appetibile la
progressione di carriera;
- uno status professionale adeguato. Le funzioni intermedie di organizzazione della didattica a
garanzia del migliore funzionamento della scuola dovrebbero essere riservate ai docenti dei due
livelli superiori, cioè a persone che abbiano volontariamente scelto di mettersi in gioco e di farsi
valutare, oltre ad aver dimostrato di possedere le competenze necessarie. Una volta acquisito, lo
status e i relativi benefici economici dovrebbero essere permanenti;
- Un caso a sé riguarda i docenti che aspirano a diventare i primi collaboratori del dirigente,
quelli incaricati di sostituirlo in caso di assenza. Dovrebbero poter aspirare a questo incarico
solo gli insegnanti del livello superiore, che si candidino specificamente e superino un apposito
esame di idoneità all’esercizio della funzione. Il dirigente dovrebbe poter scegliere il suo vicario
solo fra coloro che fossero in possesso di un giudizio di idoneità.
Gli insegnanti che – a seguito di valutazione e di certificazione delle loro competenze – avessero
ottenuto di passare ai livelli superiori rispetto a quello d’ingresso potrebbero svolgere nella scuola
tutte le varie funzioni “di sistema” richieste dalla complessità dell’organizzazione. Per esempio:
- la progettazione della didattica generale, di quella disciplinare, delle prove di valutazione per
gli alunni; l’elaborazione di progetti generali di attività; la partecipazione a progetti regionali ed
europei;
- l’organizzazione di settori di attività: la predisposizione dell’orario delle lezioni, le modalità di
utilizzo delle aule speciali e dei laboratori; la preparazione di visite e viaggi di istruzione; la
programmazione di stage e tirocini; l’impostazione dell’alternanza scuola-lavoro; il lavoro nei
dipartimenti disciplinari;
- il monitoraggio in itinere; autovalutazione di istituto; documentazione delle attività;
- l’orientamento; rapporti con il territorio
- in genere: tutte le funzioni relative alla vita della scuola autonoma diverse da quelle dell’insegnare
la propria materia nel rapporto con gli alunni e con le classi.
E’ bene chiarire però che la proposta di carriera che ho sopra richiamato non dovrebbe riguardare
solo le funzioni organizzative e gestionali. Essa si dovrebbe rivolgere anche a quei docenti che
intendono continuare a dedicare tutte le proprie energie all’insegnamento ed alle funzioni
strettamente connesse. Perché tutti debbono trovare motivazioni per la loro valorizzazione e crescita
professionale, compatibilmente con i loro interessi. E perché un’organizzazione complessa ha
bisogno di numerose altre funzioni quali ad esempio:
- docenti senior: responsabili del coordinamento didattico dei dipartimenti; impegnati in attività di
ricerca e sviluppo;
- docenti formatori per i propri colleghi, dentro la scuola o anche sul territorio;
- docenti tutor per i futuri insegnanti nello stadio della formazione iniziale o durante il periodo di
avvio alla professione;
- valutatori dei propri colleghi ai fini dell’avanzamento di carriera. A questa funzione dovrebbero
accedere solo gli insegnanti consolidati nel livello più alto della professione.
E’ doveroso, anche se forse superfluo, aggiungere che molte di queste funzioni sono già oggi
presenti ed attive nelle nostre scuole. La differenza, almeno per il caso italiano, che si ritiene
necessario sottolineare sta nel fatto che tali funzioni non sono entrate a far parte ancora del
patrimonio comune a tutte le istituzioni scolastiche e che, non essendo istituzionalizzate, sono
spesso affidate a persone di buona volontà, mentre per ricoprirle efficacemente ci sarebbe bisogno
di docenti che fossero in possesso dei requisiti culturali e professionali necessari.
Una trasformazione e un arricchimento di tali proporzioni del mestiere d’insegnante consentirebbe
di organizzare una scuola davvero costruita sui bisogni di istruzione degli studenti e del territorio.
D’altro canto, senza risorse professionali adeguate e specializzate, l’ipotesi di un cambiamento
nell’organizzazione della scuola al passo coi tempi resta confinata alla sfera dell’utopia.
Ma di quali settori si dovrebbe comporre la struttura organizzativa della scuola per renderla capace
di corrispondere alla domanda di formazione differenziata e per perseguire l’obiettivo della qualità
dell’istruzione?
Proverò ad individuarne alcuni tra i principali, fatta salva una pregiudiziale di metodo
indispensabile per la corretta impostazione del problema che mi corre l’obbligo di esplicitare.
L’organizzazione è la risposta ai bisogni intrinseci al perseguimento delle finalità specifiche di
ciascun servizio pubblico, ente o azienda e perciò va costruita in stretto rapporto con l’istituzione
alla quale si riferisce. Non può esistere pertanto un funzionigramma valido per tutti gli usi, ma lo
stesso va costruito all’interno della singola organizzazione e calibrato sulle esigenze specifiche in
precedenza riscontrate e sui piani di sviluppo appositamente elaborati.
Ciò detto, cercherò di richiamare alcune aree che possono comporre la trama organizzativa di una
scuola tipo.
Un’area sicuramente indispensabile e fondamentale nel funzionigramma di un istituto scolastico è
quella dedicata all’organizzazione della didattica, che può articolarsi al suo interno in un Comitato
tecnico scientifico e nelle strutture dipartimentali per discipline.
Il primo potrebbe essere composto dai coordinatori dei dipartimenti disciplinari, da quelli di
progetto e da rappresentanti di categorie professionali o di esponenti della realtà economica di
riferimento a seconda dell’indirizzo della scuola.
Ai secondi, quali articolazioni del corpo docente, dovrebbe essere demandata la funzione di
definire:
- Gli obiettivi generali delle singole discipline e/o degli assi culturali
- Gli standard (in termini competenze) comuni a tutte le classi parallele
- Criteri uniformi di valutazione
- Prove di ingresso per la valutazione della situazione iniziale degli allievi
- Prove di valutazione da somministrare per classi parallele
- Proposte di acquisti di sussidi didattici
- Proposte per attività di formazione/aggiornamento
- Proposte per attività didattiche non curricolari attinenti l’area disciplinare propria
- Attività e strumenti di documentazione
- Proposte per le adozioni dei libri di testo
Al docente coordinatore dovrebbe spettare il compito di raccogliere e coordinare le varie proposte
provenienti dai colleghi del suo dipartimento e di inoltrarle agli organi deliberativi competenti,
divenendo l’anello di congiunzione tra l’unità organizzativa di cui ha la responsabilità e la direzione
della scuola.
Una funzione altrettanto importante dovrebbe continuare a svolgere il Consiglio di classe nel campo
delle valutazioni periodiche e finali degli allievi, oltre a quella attinente alla programmazione
dell’attività della classe e alla definizione degli obiettivi trasversali (comportamentali e cognitivi) da
organizzare in termini di competenze e delle strategie da mettere in atto per il loro conseguimento.
Un’altra area del funzionigramma tipo può essere quella della comunicazione istituzionale interna
ed esterna, cui demandare, per il tramite di altrettanti responsabili, rispettivamente la
comunicazione (rapporto con organi di stampa, media, giornale studenti, rassegna della scuola….),
il sito web, la didattica a distanza.
In un mondo sempre più aperto ai rapporti internazionali potrebbe essere consigliabile l’istituzione
di un’area destinata allo sviluppo delle attività interculturali, all’interno della quale chiamare ad
operare un Coordinatore degli scambi e un Referente per l’inserimento degli alunni stranieri.
In determinate situazioni, specie nella scuola primaria, potrebbe essere utile creare un’apposita area
per le didattiche speciali, affidata ad un Referente dei disturbi specifici di apprendimento.
Basilare in una logica di attivazione di un processo di miglioramento continuo è il riferimento ad
un’area della valutazione, cui affidare, attraverso la nomina di appositi responsabili, il Progetto
Qualità e l’autoanalisi di istituto.
Infine, pur restando all’interno di una rapida e certamente non esaustiva classificazione, appare
necessario richiamare l’attenzione sull’opportunità di presidiare l’area dei rapporti col territorio o
con le reti di scuole, che non può non essere assunta sotto la responsabilità diretta del preside con
l’ausilio di eventuali suoi collaboratori.
La nostra riflessione complessiva sui temi dell’organizzazione e della ricostruzione di un profilo più
avanzato per la professione di docente si ispira – è corretto riconoscerlo - in parte a modelli già
esistenti in altri paesi. Vuole essere al tempo stesso una sollecitazione per la politica scolastica del
nostro paese ad andare avanti sulla strada dell’autonomia e l’apertura di una prospettiva nuova e –
ci auguriamo - stimolante per la progettazione di una figura più attuale e gratificante di docente
professionista. Per professionista intendiamo naturalmente un soggetto che abbia sviluppato
competenze e che non abbia timore di assumere responsabilità più ampie e di essere valutato per i
risultati che ottiene.
Sarebbe davvero grave che studiosi di scuola e addetti ai lavori, vissuti in uno di quei momenti dove
tutto cambia, rimanessero intrappolati nell’esperienza del passato.
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APPLICAZIONE AI DIRIGENTI PENSIONATI DEL CCNL 2010 AREA V
Nota operativa INPDAP
L'INPDAP ha dato finalmente corso all'applicazione del CCNL dell'Area V ai dirigenti collocati in
pensione a partire dal 1 gennaio 2006 con la nota operativa n. 59 del 30 dicembre 2010, visibile sul
sito dell'Anp.
Il 26 novembre 2010 avevamo dato notizia che il MIUR aveva già messo a disposizione delle
Articolazioni Territoriali degli USR le procedure informatiche per la comunicazione all'INPDAP
della situazione individuale dei dirigenti cessati dal servizio nel frattempo.
Ora non esistono più ostacoli per l'adeguamento in tempi rapidi della pensione e della buonuscita e
per la corresponsione dei relativi arretrati.
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CERTIFICATO DI PREVENZIONE INCENDI
DIRIGENTI SCOLASTICI SOLLEVATI DA RESPONSABILITA’ PENALI
Parere dell’Avvocatura Generale dello Stato n. 384467 del 14 Dicembre 2010
In merito all’annosa questione riguardante le attribuzioni di responsabilità di titolarità delle
procedure delle pratiche finalizzate all’acquisizione del Certificato di Prevenzione Incendi (CPI)
degli edifici scolastici, si è espressa in termini molto netti l’Avvocatura Generale dello Stato nel
parere n. 384467, emesso il 14 Dicembre 2010.
L’ Avvocatura Generale si è espressa in relazione a sei quesiti posti dall’Ufficio Scolastico
Regionale del Piemonte all’Avvocatura dello Stato di Torino, la quale, a sua volta, ha chiesto
appunto una pronunzia da parte dell’Avvocatura Generale dello Stato.
Sulle questioni di maggiore interesse si riporta, di seguito, una sintesi e un breve commento.
1. Relativamente al primo quesito, che chiede delucidazioni sia su chi ricade la responsabilità
penale in caso di mancata attivazione delle pratiche per il rilascio del CPI, sia se sussiste
ancora l’obbligo del CPI per le scuole, il parere emesso dall’Avvocatura Generale rappresenta un
importante chiarimento in materia di responsabilità penale, in quanto esclude, nei confronti dei
Dirigenti scolastici, qualsiasi forma di responsabilità penale per la mancata attivazione del
procedimento finalizzato al rilascio del CPI.
L’Organo consultivo ha sottolineato, infatti, che l’omessa acquisizione del CPI non assume rilievo
penale in quanto la Corte Costituzionale, con Sentenza 11 Giugno 1990, n. 282, ha dichiarato
incostituzionale la legge n. 818/1984, che rinviava al D.M. 16 Febbraio 1982 per l’individuazione
dei soggetti del reato. Da ciò discende che l’illecito penale si configura solo per le attività elencate
nel DPR 689/1959 e non pure per quelle riportate nel D.M.16 febbraio 1982 (tra le quali al N. 85:
Scuole di ogni ordine, grado e tipo - con più di 100 persone presenti).
Conseguentemente, non essendo più in vigore la legge, i soggetti elencati nel suddetto D.M. se non
ottemperano agli obblighi di acquisizione del CPI non commettono reato.
Viene, però, anche chiarito che, sussistendo ancora l’obbligo del CPI per le scuole, in quanto è stata
dichiarata illegittima la norma di rinvio (la L. 818/1984) e non il rinvio stesso (il D.M. 16/2/1982),
se i Dirigenti scolastici non adempiono agli obblighi di legge restano assoggettabili alle
responsabilità civili e amministrative che l’inadempimento comporta.
Il Dirigente scolastico, in altri termini, ha l’obbligo di acquisire il CPI e per questo motivo è tenuto
ad attivarsi sia nei confronti dell’Ente Locale proprietario dell’edificio scolastico che nei confronti
dei Vigili del Fuoco.
2. Per quanto concerne il secondo quesito: “Se vi siano, nell’ambito dell’applicazione della
normativa antincendio, strumenti giuridico/normativi per distinguere la titolarità dell’attività
scolastica, che attiene alla gestione delle condizioni di esercizio, dalla titolarità del procedimento
per l’ottenimento del certificato di prevenzione incendi e quali siano le conseguenti attribuzioni di
responsabilità”, l’Avvocatura Generale si è espressa nel senso che, nonostante possa essere
l’effettivo “gestore” dell’attività (Dirigente scolastico) a dover richiedere il CPI, nel caso particolare
delle scuole, “la specificità della situazione vuole che sussista un riparto di competenze operato a
livello legislativo, il quale individua a monte le attribuzioni del Dirigente scolastico, con riferimento
al concreto esercizio dell’attività scolastica, ovvero degli Enti Locali, gravati della manutenzione
ordinaria, straordinaria e impiantistica degli edifici adibiti a scuola (art. 3, c. 1, legge 11 gennaio
1996, n. 23).
Ne discende che la disciplina generale – la quale vede in chi esercita l’attività il soggetto legittimato
a chiedere il CPI – risulterebbe essere derogata dalla suddivisione normativa di competenze tra
Amministrazioni territoriali e scuole, donde la necessità che le prime debbano provvedere al
conseguimento del CPI.”
Pertanto, come affermato più volte dalla Corte di Cassazione, anche se le “Spese generali”
necessarie PER RENDERE EFFETTIVA la destinazione di determinati locali a sede di scuole sono
attribuite agli Enti Locali, non risulta che il CPI rappresenti una certificazione attinente al
CONCRETO ESERCIZIO DELL’ATTIVITA’ SCOLASTICA.
“Piuttosto, esso pare strettamente connesso all’idoneità dell’immobile rispetto all’usoscuola”.
Ne deriva che il CPI non può non rientrare nella “qualità dell’immobile” rispetto alla vigente
normativa antincendio, in virtù del fatto che per il rilascio dello stesso ogni informativa relativa agli
impianti e alle strutture deve essere predisposta dall’Ente Locale, mentre spetta al Dirigente
scolastico la redazione dei Piani di prevenzione antincendio come previsto dall’art. 18, c. 1, lett. t),
del D.Lgs. 81/08.
Alla luce di quanto sopra, e in base agli indirizzi sorti nella giurisprudenza di legittimità in tema di
riparto di competenze tra Ente Locale e Istituti scolastici, “spetterebbe al primo, in via esclusiva,
fare istanza di rilascio del CPI, mentre sui Dirigenti graverebbe il mero obbligo di
predisporre e poi trasferire la documentazione ex D.Lgs. 81/08”.
Per quanto riguarda, invece, i locali di proprietà di un privato ed adibiti a scuola, gli Enti Locali
sono tenuti a prendere in locazione solo gli edifici che risultano idonei rispetto all’uso cui sono
destinati, nella fattispecie a scuola/ufficio (quindi edifici nei confronti dei quali è già stato rilasciato,
tra gli altri documenti previsti in materia salute e sicurezza, il CPI).
3. In merito al terzo quesito: “Quali strumenti giuridici di tutela della propria posizione giuridica
di responsabilità, il Dirigente scolastico può adottare in caso di inerzia dell’Ente Locale a fronte di
messa a norma dell’edificio per l’ottenimento del CPI, tenendo presente che il Dirigente scolastico
deve garantire la continuità del servizio scolastico”, l’Avvocatura Generale condivide quanto
riportato dall’art. 5, D.M. 29 Settembre 1998, n. 382, ovvero che, laddove il Dirigente scolastico
riscontri una deficienza nelle strutture adibite a scuola, ivi compresa la mancanza della
certificazione antincendio, è esonerato da qualsiasi responsabilità a seguito della segnalazione
tempestiva all’Ente Locale proprietario dell’edificio.
Anche questo, come si rileva, è un punto di estrema importanza che chiarisce ulteriormente le
competenze dell’Ente Locale e del Dirigente scolastico.
4. Per quanto riguarda il quarto quesito: “Se in assenza di un certificato di prevenzione incendi in
corso di validità, i Vigili del Fuoco possano far ricadere l’esercizio dell’attività nell’ambito della
responsabilità esclusiva e diretta del Dirigente scolastico, senza formalmente definire e distinguere
gli obblighi di competenza di quest’ultimo, responsabile della gestione dell’attività, dagli obblighi
dei soggetti responsabili delle strutture e della documentazione tecnica degli edifici”, l’Avvocatura
si è espressa sostanzialmente nei seguenti termini.
Se il CPI non è stato rilasciato dai Vigili del Fuoco, “i Dirigenti scolastici non possono ritenersi
responsabili, vuoi sotto il profilo penale, vuoi sotto quello amministrativo e civile”.
Non sussiste, altresì, alcuna responsabilità penale per la mancanza del CPI in seguito alla Sentenza
della Corte Costituzionale n. 282/1990 (Cassazione Pen. Sez III, 27 Aprile 1992).
Se si considera, inoltre, l’esenzione di cui all’art. 5, D.M. 29 settembre 1998, n. 382, nonché della
disponibilità della chiusura degli edifici scolastici in capo al solo Sindaco (art. 54, D.Lgs. 18 Agosto
2000, n. 267), “sembra svanire qualsivoglia ipotesi di responsabilità amministrativa ovvero civile
dei Dirigenti scolastici”.
Pertanto, se il CPI manca del tutto, i Dirigente scolastici sono comunque esonerati da
qualsiasi responsabilità civile e amministrativa.
5. Il quinto quesito chiede i seguenti chiarimenti: “Se nei casi in cui in un edificio vengano allocate
diverse scuole con a capo differenti dirigenti e quindi nell’edificio si trovino più gestori, ogni
Dirigente scolastico risulti responsabile della gestione dei soli locali e dell’area di pertinenza della
sua scuola, mentre la responsabilità della rispondenza dell’intero edificio alla normativa vigente in
materia di agibilità e sicurezza sia dell’Ente locale individuato dalla normativa Ente obbligato alla
manutenzione e messa a norma dell’edificio”.
L’Organo consultivo ribadisce che, se anche nello stesso edificio sono presenti più istituti, la
competenza a richiedere il CPI è in capo unicamente all’Ente Locale o ai diversi Enti Locali
competenti. Per es., se nel medesimo edificio sono presenti una scuola primaria e una secondaria di
2° grado saranno rispettivamente il Comune e la Provincia ad avere l’obbligo di chiedere il rilascio
del CPI.
Per quanto riguarda gli immobili di proprietà di privati adibiti a scuola, spetta al titolare
dell’immobile, dovendo garantire la destinazione d’uso, chiedere il rilascio del CPI.
6. Infine, il sesto ed ultimo quesito : “ Se, in assenza di CPI valido, una dichiarazione congiunta,
preso atto dei disposti di cui all’art.5 del DPR 37/98, che distingua obblighi e responsabilità
sottoscritta dall’Ente Locale e dal Dirigente scolastico, possa essere sufficiente per garantire il
regolare esercizio dell’attività scolastica, esonerando il Dirigente scolastico da ogni responsabilità
diretta”.
A questo proposito, in considerazione del fatto che la presenza del CPI è in effetti “perentoria”,
l’Avvocatura Generale conferma che nessun accordo può modificare le aree di rispettiva
responsabilità individuate dalla legge tra Ente Locale ed Istituzione scolastica.
Quindi, non hanno nessuna validità esimente “eventuali dichiarazioni congiunte tra Enti
Locali e Istituzioni scolastiche volte a definire gli ambiti di rispettiva attribuzione in assenza
di un CPI valido”.
Oltre ai pareri espressi nei confronti dei suddetti quesiti, l’Avvocatura Generale dello Stato si è
opportunamente soffermata per precisare come debba adoperarsi il Dirigente scolastico nel caso
in cui riscontri la mancanza del CPI nella scuola in cui opera.
Nello specifico, l’Avvocatura ravvisa la necessità (ovvero, raccomanda) che i Dirigenti scolastici
chiedano e, se del caso, “diffidino l’Ente Locale ad attivarsi per ottenere il rilascio del CPI da
parte dei Vigili del Fuoco”.
Non solo, ma rileva anche l’opportunità che i Vigili del Fuoco “provvedano, su segnalazione
dei Dirigenti scolastici, a verificare l’esistenza di pericoli imminenti, ai fini antincendio con
riferimento all’edificio adibito a scuola”.
L’Avvocatura precisa, inoltre, che gli Enti Locali, quando i progetti antincendio da essi stessi
presentati ai Vigili del Fuoco siano stati approvati ai sensi dell’art. 2, DPR 37/1998, possono
presentare una dichiarazione di idoneità delle strutture rispetto alla normativa antincendio: “in tal
modo, nelle more che i Vigili del Fuoco procedano al previsto sopralluogo, l’attività scolastica potrà
regolarmente svolgersi”.
Qualora sussistano ritardi nel rilascio del CPI, l’Avvocatura ribadisce che “è opportuno che i
Dirigenti scolastici DIFFIDINO tutte le Amministrazioni coinvolte nella relativa procedura – dai
Vigili del Fuoco all’Ente Locale competente - ed in particolare il SINDACO, il quale, come
specificato in precedenza, è l’unico soggetto legittimato a chiudere gli istituti scolastici (art. 54,
D.Lgs. 18 Agosto 2000, n. 267).
Si rammenta, comunque, che in presenza di una situazione di pericolo, l’attività scolastica non
può che essere sospesa anche a prescindere dal provvedimento del Sindaco riguardante la
chiusura o meno dell’edificio scolastico.
Da quanto sopra espresso dal parere dell’Avvocatura Generale dello Stato emerge in forma
piuttosto rafforzata quanto sia necessaria un’attività di collaborazione fra l’Ente Locale e
l’Istituzione scolastica nel corso della procedura per il rilascio del CPI, anche al fine di evitare che
l’Istituzione scolastica, nell’eventuale inerzia dell’Ente Locale, si trovi costretta a porre in essere
azioni formali (supportate dal presente parere) atte a distinguere la propria responsabilità da quella
dell’Ente Locale.
Il testo integrale del provvedimento è pubblicato sulla Banca Dati Normativa e giurisprudenziale
per il mondo della scuola presente sul sito dell'ANSAS (ex Indire).
Dal Sito Italiascuola.it, Sezione “Approfondimenti” del 10/01/2011
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CONSULENZA LEGALE E AMMINISTRATIVA
Prendi nota dei prossimi appuntamenti per la consueta consulenza gratuita ai soci da parte del
legale dell’ANP Avv. Giuseppe PENNISI: 17 gennaio, 7 febbraio 2011. Gli incontri avverranno
nella sede del Liceo Classico M. D’Azeglio, Via Parini 8 - TORINO. Prenota un appuntamento
con lui tramite il collega Carlo COLOMBANO (tel. 389.27.22.366; e-mail:
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In sede congressuale regionale è stato deciso di offrire a tutti gli associati della Regione una
consulenza di carattere amministrativo e sindacale da parte di alcuni colleghi, ai quali tutti
(dirigenti scolastici e alte professionalità) potranno rivolgersi per sottoporre i rispettivi problemi e
ottenerne pareri e suggerimenti sati sulla conoscenza delle norme e sulla propria esperienza.
Riteniamo di fornire così a tutti gli associati un supporto tecnico al loro operare quotidiano. Qui di
seguito l’elenco dei colleghi, membri del rinnovato Direttivo regionale, cui far riferimento:
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