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Nicola Squicciarino
SIGNIFICATI DELL’ABBIGLIARSI
L’apparire non esclude l’essere
ARMANDO
EDITORE
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Sommario
Prefazione
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IL LINGUAGGIO DELL’ABBIGLIAMENTO 11
Psicologia sociale 13
Semiotica
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LA CURA DELL’IMMAGINE
29
Origine dell’abbigliamento 32
Interventi sul corpo 41
Altre modalità di abbellimento
55
Comunicazione non verbale – Implicazioni psi­cosociali dell’abbigliarsi – “Effetto alone”
– Simmel: “unità vitale” di corpo e anima – Coscienza di sé dal rapporto con gli altri
Cassirer: l’essere umano “animal symbolicum” – Significato e significante – Abbigliamento
e diversità di messaggi – Criteri di decodificazione – Pasolini sui capelli lunghi
Coscienza umana di essere “incompiuto” – Bisogno di segnalare la propria individualità
e appartenenza – Influenze climatiche – Motivazione magica – estetica – ludica –
sessuale – La “foglia di fico” secondo Kant
Pitture e tatuaggi: la pelle umana primo campo di sperimentazione estetica – Valore
stilistico dei motivi ornamentali – Fun­zione magico-religiosa e comunicativa – Oggi,
accessori di moda e forme di body art – Alcune modifiche corporee: l’esempio del piede
L’arte della cosmesi – Pratiche igieniche rituali e repressive – Capelli: re­lazione con gli
stati emotivi – associazione al potenziale energetico – Barba e baffi – Azione stimolante
degli odori – Odierna “poligamia” olfattiva – Profumi e preziosi: il per-sé e il per-altri
– Il concetto di eleganza
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Vestiti e accessori 68
Colori 83
Identità sessuale e sex-appeal 94
Passaggio dall’originario valore magico o dalla semplice finalità d’uso a una funzione
più ornamentale – Varie forme di estensione dell’io corporeo – Percezione tattile come
appagamento fisico e psichico – Cenni storici su gonne e pantaloni – Accessori: dettagli
estetici civettuoli e sensuali – Risvolti interdisciplinari dei copricapi – Contraffazioni e
diffusione del buon gusto
Es­perienza diretta della natura – Kan­dinsky: differenti risonanze dei colori – Applicazioni
nella cromoterapia, nel marketing, nell’abbigliamento – Codificazioni e decodificazioni:
l’esempio degli indumenti religiosi – Il nero, oggi un colore di moda, positivo, sensuale
– Football e “venerazione” dei colori
Pudore e sue variazioni – Transessualità e travestimento – Identità sessuale fluida:
l’androgino – Il corpo mannequin – L’abbigliarsi: sublimazione delle pulsioni sessuali
e feticismo – compromesso fra esibizione e pudore – Sex-appeal e tocco di mistero –
Femminilità divenuta simbolo di consumo – Ipersessualizzazione e anestesia del desiderio
Le forme rivestite
109
L’incontro con se stessi nello specchio 122
MODA E/È CULTURA
135
Moda e modernità
137
I processi di maturazione e apprendimento a fondamento dell’identità fisica, psichica
e culturale – L’abito definisce l’essere umano – Dalla pinguedine alla linea snella –
Ritorno delle donne “curvy” – “Politeismo” della bellezza fisica – Terza età incalzata
dall’illusorio forever young – Sentirsi a proprio agio nonostante i segni degli anni –
Gerontoeconomy
Immagine riflessa e superstizioni – “Stadio dello specchio” e incontro con l’io corporeo
– Il narcisismo come pericolosa chiusura in se stessi – La superficie riflettente: tutrice e
complice – Controllo mai pienamente rassicurante – Saper guardare oltre la “vernice”
dell’apparenza
Inizi con il Rinascimento: emancipazione dell’indi­vidualità dall’ordine immuta­bile
della tradizione – Economia monetaria e ascesa della borghesia – Worth creatore della
haute couture – Dignità culturale del fenomeno abbigliamentare – I filosofi e la moda
– Celebrazione del bello storico, relativo, fugace – Estetica della permissività – Nuove
tendenze: per lo più dal basso
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Abbigliamento e “spirito del tempo” 152
Moda e cultura dell’effimero 170
La vita quotidiana come spettacolo
184
Bibliografia
198
Indice dei nomi
205
Indicatore di processi culturali – La cura dell’apparire contrappeso femminile alla
irrilevanza sociale – Abbigliamento infantile – Movimenti giovanili e sportivizzazione
della società – Consapevolezza ecologica e moderne tecnologie – Comune matrice
culturale delle forme artistiche – La rivoluzione futurista – Magia dell’etichetta – Capi
d’abbigliamento come oggetti museali
Diffusione della moda dall’alto in basso – Dinamica di imitazione e distinzione –
Consumismo come democratizzazione apparente – Ricomposizione delle differenze –
Feticcio delle merci – Il lavoratore si trasforma in consuma­tore – Cultura di massa e
“colonizzazione mentale” – Spettacolo dell’effimero e magia della pubblicità – Usura
comu­nicativa
Natura essenzialmente ambivalente, conflittuale della moda: legame e libertà – Individuo
e massa – Cultura di svago e pensiero magico – Iperattenzione verso se stessi: il selfie
– Abbigliamento e packaging, stessa logica del marketing – Significanti svincolati dai
significati – La persona rischia di consistere solo in un “essere percepito”
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A mia madre
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Prefazione
«Ancora nessuna Filosofia degli Abiti, malgrado tutta la nostra scienza. Strano oblio sul
fatto che l’Essere umano è per sua natura un
animale nudo».
Thomas Carlyle1
Il gradimento riscosso dal saggio Il vestito parla2 mi ha motivato a una sua nuova edizione cui
è stato dato un titolo diverso perché modifica e amplia significativamente il contenuto originario.
L’intento resta quello di offrire al lettore alcuni stimoli per afferrare risvolti impensabili in un fenomeno di superficie che “riveste” la vita individuale e sociale di tutti i giorni. Andando oltre la
“vernice” dell’apparenza, in un approccio interdisciplinare, è infatti possibile cogliere nelle varie
modalità d’abbigliarsi dinamiche profonde che disvelano la sua complessità, la necessità quindi di
considerarlo da più punti di vista, ciascuno dei quali ne arricchisce la comprensione: antropologia,
storia, religione, arte, filosofia, psicologia, sociologia, economia e persino etica.
Il presente scritto mira perciò a evidenziare la dignità scientifica di tale tema, a rivalutare un settore della cultura materiale, divenuto anche economicamente rilevante, che nel mondo accademico
suscita ancora sospetto e a volte arrogante avversione. A un percorso formativo in tale ambito l’istituzione universitaria potrebbe invece offrire un fondamento culturale e storicoartistico, e questo le
consentirebbe di interagire con il mondo artigianale e imprenditoriale, con l’odierna società dello
spettacolo e le nuove tendenze artistiche. Di recente il Ministro dei Beni culturali ha lanciato un
invito che lascia ben sperare: «I luoghi della cultura devono aprire anche alla moda», ci vuole – ha
affermato – «un patto tra il mondo della moda e il mondo della cultura»3.
Il riconoscimento della legittimazione culturale del fenomeno della moda abbigliamentare favorirebbe anche una sua comprensione più profonda. L’amore per la superficie, la componente ludica, erotica ed estetica proprie della cura dell’aspetto esteriore dovrebbero infatti poter convivere
con la dimensione più sotterranea dell’esistenza: l’apparire e l’essere sono lati della vita differenti
ma non l’un l’altro estranei, sono antropologicamente complementari4.
1 Th. Carlyle, Sartor Resartus (1836), tr. it di C. Maggiori, nota prelimiare di J.L. Borges, Macerata, Liberilibri, 2008, p. 25.
Qui, come in più casi del presente lavoro, al termine “uomo” viene preferito quello concettualmente più esatto di “essere umano”.
2 Di tale scritto sono state stampate quattro edizioni dall’Armando e cinque edizioni in lingua spagnola da Catedra. Ringrazio
Paul Mellini per la collaborazione tecnica offerta nella preparazione delle illustrazioni. Queste fanno riferimento all’ambito
etnologico, artistico e al quotidiano modo di abbigliarsi.
3 Intervento del Ministro D. Franceschini per l’inaugurazione a Firenze, in Palazzo Vecchio, delle manifestazioni della moda
di “Pitti Immagine”, in “la Repubblica” del 13 gennaio 2016, p. 51.
4 Nel testo ricorrono tre neologismi abbigliamentare, indumentare, vestimentare utilizzati per non ripetere più volte il termine
“abbigliamento”.
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IL LINGUAGGIO DELL’ABBIGLIAMENTO
«Gli esseri umani… parlano non solo con
le parole, ma anche con i gesti, con la mimica e con il linguaggio enigmatico dei
vestiti, nel modo più seducente… con le
creazioni del­la moda».
Eugen Fink1
1
E. Fink, Mode … ein verfü­hrerisches Spiel, Basel-Stuttgart, Birkhäuser, 1969, p. 86.
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Psicologia sociale
La presentazione di sé mediante i segnali non ver­bali, mediante ciò che Erving Goffman chiama «idioma del corpo» (body gloss)1, è generalmente più immediata e incisiva di quella verbale.
Il corpo è un veicolo attra­verso il quale viene traslato anche ciò che è inibito alla parola e al pensiero cosciente, “parla”, rivela una infinità di informa­zioni anche se il soggetto tace. Il corpo è una
strut­tura linguistica la cui capacità espressiva è correlata a un contenuto articolato «Noi parliamo
con gli or­gani vocali», scrive David Abercrombie, «ma conversiamo con tutto il nostro corpo»2.
La stessa interazione fra due o più persone viene stabilita, sostenuta o interrotta attra­verso la
produzione di una vasta gamma di segnali non verbali, a cui in genere non si presta attenzione e
di cui per lo più si è assai poco consapevoli. Ciò non impedisce tut­tavia che essi vengano usati
con grande abilità, come nel caso dei primi approcci realizzati
tramite piccole mosse strategiche iniziali, ambigue, di assaggio.
In ogni intera­zione umana intervengono flussi di segnali non
verbali che, in un processo di codificazione e decodificazione,
si muovono in entrambe le direzioni e con cui gli intera­genti
cercano reciprocamente di catalogarsi. All’inizio di qualsiasi incontro è infatti importante discernere rapidamente al­cune delle
caratteristiche più salienti dell’altro al fine di sapere come comportarsi. La comunicazione non verbale fornisce il feedback –
cioè la comprensione da parte dell’emittente di come gli altri
decodificano il messaggio – e viene adoperata come sostegno del
linguaggio verbale o come sosti­tuto di questo.
Si pensi al volto, il segnale non verbale che meglio esprime
le emozioni e gli atteggiamenti interpersonali, che consente la
comprensione dell’altro a prima vista, an­cor prima del suo ­agire.
Georg Simmel lo definisce «il simbolismo intuitivamente più
completo dell’interiorità permanente e di tutto ciò che le nostre
es­perienze vissute hanno fatto depositare nel fondamento duraVolto istoriato.
turo del nostro essere». Contemporaneamente però il volto offre
1 E. Goffman, Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione (1963), tr. it. e postfazione di Franca
e Franco Basaglia, pref. di P.P. Giglioli, Torino, Comunità, 2002, p. 35.
2 D. Abercrombie, Paralan­guage, in «British Journal of Disorders of Communl­cation», London, 3, 1968, p. 55.
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allo sguardo la «colorazione particolare» di uno stato
d’animo, «cede» ai suoi momentanei cambiamenti3. Il
fatto che soltanto nel viso «i
processi psichici… si coagulano in forme solide, capaci
di rivelare l’anima», spiega
la ragione del valore espressivo ineguagliabile che ad esso
viene assegnato nell’ambito
delle arti figurative4. Ci fa
comprendere l’origine della consuetudine delle donne orientali, forse ormai del
tutto scomparsa, di coprire
prima di tutto il viso quando
venivano sorprese in situaA. Turok, Sguardo di ragazza madre del Chiapas.
zioni imbarazzanti di completa nudità. Preferivano infatti lasciare visibili allo sguardo altrui le parti anatomiche impersonali, comuni a tutto il genere femminile, nella intima consapevolezza che il volto, come afferma Simmel, sia «la manifestazione e l’espressione dell’individualità; rendendolo irriconoscibile scompare l’Io e con esso il punto da cui scaturisce il senso del pudore»5. Lo stesso atto di­
sfregiare il viso della donna con l’acido è un voler sfigurare, cancellare in modo irreparabile non
solo il volto, ossia la sua identità fisica, ma pure la sua individualità e interiorità – un danno estetico
e soprattutto psicologico, un crimine contro la dignità della persona.
Una importante esperienza di comunicazione non verbale è offerta anche dal bacio, un gesto
fondamentale dell’interazione af­fet­tiva, denso di implicazioni psicofisiche. La sensibilissima cute delle
labbra umane e le terminazioni nervose della lingua e della bocca­mandano al cervello messaggi che
stimolano il piacere, l’euforia, l’eccitamento sessuale. La forte emozione del bacio coinvolge la
respirazione, la saliva, l’alito, il gusto, e soprattutto i sentimenti, il desiderio, lo slancio amoroso
verbalmente non esprimibili. Baciarsi con tenerezza e trasporto è un mezzo con cui gli esseri umani comunicano l’intensità del loro amore e l’intimità della reciproca attrazione. La conseguente
eccitazione sessuale di questo gesto passionale – per Sigmund Freud un sostituto dell’amplesso
– determina una maggiore irrorazione di sangue e quindi le labbra, quelle femminili in particolare
a motivo della loro maggiore carnosità, “si infiammano”, diventano più rosse e gonfie – effetti
ottenuti artificialmente con l’abituale uso del rossetto e con la chirurgia estetica. Il sensuale, dolce
e impetuoso atto del bacio è un’esperienza comunicativa piacevole e salutare. La congiunzione
3
G. Simmel, Sociologia (1908), tr. di G. Giordano, intr. di A. Cavalli, Milano, Comunità, 1989, p. 552.
G. Simmel, Il significato estetico del volto (1901), in Id., Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, a cura di L. Perucchi, Bologna,
il Mulino, 1985, (pp. 43-49), p. 46.
5 G. Simmel, Sulla psicologia del pudore (1901), in Id., Sull’intimità, tr. it. di M. Sordini, intr. di V. Cotesta, Roma, Armando,
1996, (pp. 63-78) p. 72, fa esplicito riferimento a tale consuetudine.
4
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delle labbra e l’intreccio delle lingue – ancor più se avviene nella percezione della reciprocità del
sentimento amoroso – riduce i livelli di cortisolo ed è quindi un potente antistress. Inoltre rende la
pelle più tonica perché attiva ben 29 muscoli facciali, brucia le calorie, fa aumentare la frequenza
del battito cardiaco e la pressione sanguigna, agisce positivamente sul cuore, rinforza le difese
immunitarie e accresce il sentimento dell’autostima: comporta dunque notevoli vantaggi a livello
psicofisico e sociale. La constatazione che tale esperienza di intensa passione non renda possibile
articolare alcuna parola dimostra che la comunicazione delle emozioni attraverso il bacio, così
come quella tramite il sorriso e le lacrime, è un vero e proprio linguaggio non verbale, sostitutivo,
più immediato e incisivo di tante parole.
In un contesto interattivo non esiste la possibilità di non comu­nicare: ogni comportamento umano, pure il silenzio e l’immobilità, è sempre veicolo di conoscenza dell’altro, anche se frammentaria. In tal senso si può definire “comunicazione” qual­siasi passaggio di informazioni che si verifichi
all’interno di un sistema relazionale, indipendentemente dal mezzo usato per comunicare e dal fatto che gli inter­locutori ne abbiano o meno coscienza. Il segnale che più influisce sulla percezione e
sul­le reazioni degli altri, oltre che di se stessi, è sen­za dubbio la cura dell’aspetto esteriore mediante
i vari elementi dell’abbigliamento. Questi tuttavia non pos­sono prescindere o essere disgiunti dalla
vitalità comunicativa propria dell’architettura anato­mica del corpo, dalla sua struttura lingui­stica,
e quindi dall’espressione del volto, dello sguardo, dei ge­sti, dei movimenti, della postura. I vari
indumenti, dissociati da tale espressività non verbale che in maniera significativa li completa ed
en­fatizza, li “anima”, li rende parte di un tutto di­namico, si ridurrebbero alla banale funzione di
rivestimento di un oggetto inanimato, di un attaccapanni.
Solo interagendo con la capacità comunicativa del corpo umano l’abbigliamento di­viene
un compiuto linguaggio visivo articolato, rivelatore di molteplici implicazioni psi­cosociali e
culturali. Si pensi, ad esempio, alla consuetudine – una volta diffusa presso gli ebrei, come
presso altri popoli orientali e non solo – dello strapparsi le vesti in segno di profondo sdegno
e in particolare di dolore, di lutto per la perdita di una persona cara o molto importante per la
comunità. Metaforicamente si esprimeva, in modo visivamente eloquente, la distruzione della
propria dignità, della propria identità, della propria esistenza. Nei romanzi, nel teatro, nei film,
e oggi sempre più nello “spettacolo” della vita quotidiana incentivato dai mass media, i vari
capi d’abbigliamento integrano e accentuano il linguaggio corporeo, hanno una funzione fondamentale nella creazione dei personaggi, ne descrivono in maniera immediata ed efficace i tratti
psicofisici, la personalità, la cultura.
Le varie componenti della cura dell’apparire individuale acquistano importanza prima di
tutto per la loro valenza sociale, cioè per i segnali relativi all’io manipolati o meno, consapevoli o no, che riescono a trasmettere e che sta agli al­tri decodificare. Non necessariamente tali
informazioni sono veritiere, ma è sufficiente che esse esprimano ciò che l’individuo desidera
che gli altri pensino di lui e suscitino reazioni corrispondenti in grado di confermarle. L’aspetto
esteriore ha così un ruolo considerevole nel fissare e mantenere un’immagine del sé fisico che
garantisce l’autostima, il personale senso di sicurezza. Tuttavia alcuni ele­menti dell’apparire, ad
esempio i vestiti e le forme ornamentali, sono sotto il completo controllo di chi li indossa, mentre
altri come la struttura fisica, la pelle, il viso, i capelli, lo sono solo in parte. Conseguentemente
in una persona matura che, attra­verso l’abbigliamento e il portamento, cerchi di sembrare molto
più gio­vane è assai probabile che le ca­ratteristiche non controllabili della sua presenza fisica e lo
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stile globale di comportamento non confermino ciò che avrebbe voluto comunicare. In tal caso
il messaggio può risultare del tutto incongruente se non proprio controproducente, può segnalare
un fenomeno di regressione, di fuga dalla realtà.
Per lo più sono maggiormente motivati nella cura del proprio aspetto gli adolescenti, caratterizzati da una personalità ancora instabile, e le persone la cui immagine del sé risulta narcisisticamente
condizionata in misura determinante dal modo in cui gli altri reagiscono nei loro confronti. L’interesse per l’approvazione sociale ottenuta attraverso il modo d’abbigliarsi è comunque diffuso fra
tutti i ceti, in particolare fra gli individui con alta mobilità so­ciale, fra coloro che hanno responsabilità politiche, dirigenziali, che cercano il consenso, vogliono farsi accettare. È invece generalmente
carente nelle persone molto avanti negli anni e nei portatori di handicap fisici e psichici: questi
individui sono tanto più trasandati e demotivati nel modo di vestire quanto più si percepiscono emarginati, quanto più si sentono esclusi dalla vita sociale. Un palese disinteresse è di solito ugualmente
os­servabile in persone temporaneamente troppo immerse nei propri pensieri o preoccupazioni per
poter concedere una qualche at­tenzione al proprio apparire e alle reazioni altrui.
Il fatto che nell’abbellimento della propria figura si impie­ghino grandi quantità di tempo, di denaro e di energie dimostra che obiettivo principale della propria ma­nipolazione è di raggiungere
una presentazione ottimale e gratificante dell’immagine che si ha di se stessi e che di sé si intende
comunicare agli altri. Mark L. Knapp così descrive il comportamento di persone anziane preoccupate
di curare e controllare il proprio aspetto esteriore: «Il signore e la signora Rossi si svegliano e si preparano ad iniziare la giornata. La signora Rossi si to­glie il reggiseno “da notte” e lo sostituisce con
un reggi­seno “leggero-imbottito-sostenuto”. Poi, levatasi la cin­ghia per il doppio-mento, fa ulteriori
sforzi per mettersi la cintura. Quindi comincia a “farsi il viso”. Questo im­plica l’uso della matita per
le sopracciglia, del mascara, della matita per le labbra, del rossetto, della matita per gli occhi e delle
ciglia finte. Quindi si depila sotto le ascelle e sulle gambe e si mette una parrucca in testa. Unghie
finte, smalto per laccarle e lenti a contatto colo­rate precedono il deodorante, il profumo e le intermina­
bili decisioni concernenti gli abiti. Il signor Rossi si fa la barba, si mette un parrucchino sulla testa
e accurata­mente attacca le sue basette recentemente acquistate. Toglie i denti finti da una soluzione
usata per sbiancar­li, fa i gargarismi con una sostanza che addolcisce l’ali­to, sceglie la lozione dopobarba, mette le scarpe con il tacco alto e comincia a prendere le decisioni per la scel­ta del vestito»6.
Nel rapporto di coppia tuttavia i valori erotici e sociali dell’abbi­gliamento generalmente si
conciliano male. L’uomo è spesso combattuto tra il sentimento di gelosia, se la mo­glie è troppo
attraente, e il desiderio di averla elegante, graziosa e piena di fascino in modo da esserne orgoglio­
so. «La donna che sottolinea la sua attrattiva sessuale», nota in proposito Simone de Beauvoir, «si
comporta male agli occhi del marito; egli biasima le stesse audacie che lo sedurrebbero in un’estranea e questo biasimo spe­gne in lui ogni desiderio; se la moglie si veste pudica­mente, la approva
ma con freddezza: non la trova at­traente e glielo rimprovera vagamente. A causa di ciò la guarda
raramente per proprio conto: la considera attra­verso gli occhi degli altri. “Che diranno di lei?”…
Non c’è niente di più irritante per una donna che vedere ap­prezzare in un’altra vestiti e atteggiamenti che il marito critica in lei»7.
6 M.L. Knapp, Nonverbal Communication in Human Interaction, New York, Holt, Rinehart­ Winston, 1972, pp. 63-64,
citazione conte­nuta nel testo di M. Argyle, Il corpo e il suo linguaggio (1975), tr. it. di G. Pieretti e L. Sertori, pref. di P.E. Ricci
Bitti, Bologna, Zani­chelli, 1982, p. 247.
7 S. de Beauvoir, Il secondo sesso (1949), tr. it. di R. Cantini e M. Andreose, Milano, Il Saggiatore, 1961, pp. 319-320.
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L’esperienza comune dimostra che le persone attraenti, di qualsiasi età, piacciono e gli esperti
di mass media con­fermano che nella nostra società il fascino costituisce un fattore chiave del comportamento e della comunicazio­ne. È stato rilevato che l’attrattiva fisica è per lo più l’elemento
decisivo nel corteggiamento, nelle scelte di convivenza e matrimoniali. Il bell’aspetto suscita in
genere «una risposta automatica e non ragionata» che la psicologia sociale descrive come «effetto
alone»8. Alle persone piacenti vengono attribuite, senza averne la prova, anche altre caratteristiche
positive, esse sono percepite tendenzialmente a un livello più alto di credibilità e provocano perciò
un ampio raggio di reazioni favorevoli. Ecco perché le belle donne hanno maggiori possibilità di
influenza­re l’atteggiamento maschile e una bella presenza è in grado di ottenere più consensi in
ambito politico. Nelle persone che piacciono e sanno di piacere il linguaggio del loro corpo, il power look, è un fattore di appeal più determinante dello status socioeconomico. Agisce come potere
sugli altri, offre più opportunità di carriera, di successo e in vari casi, con troppa leggerezza, viene
scisso da altre qualità non appariscenti ma più importanti.
Capita anche che, con freddo cinismo, ragazze dall’aspetto gradevole giungono persino a cercare la compagnia di “amiche” non di bella presenza per poter porre meglio in risalto le proprie
grazie, il proprio fascino. Un aspetto fisico non piacente sta diventando in realtà un motivo di
discriminazione non solo nell’interazione adolescenziale e giovanile, nelle scelte matrimoniali,
nella possibilità di intraprendere una carriera politica, ma anche nella stessa ricerca del lavoro.
A tal fine l’imperativo dell’apparenza imposto dagli attuali canoni di bellezza ha fatto sorgere
la necessità di corsi per migliorare la propria immagine, il proprio look. Investire nel proprio
aspetto non ha solo a che fare con la vanità personale e di gruppo, con il corteggiamento, viene
sempre più inteso come una questione di sopravvivenza economica, di garanzia del proprio futuro. Siegfried Kracauer, riferendosi alla «funzione decisiva» assegnata oggi all’apparire, parla
di «selezione fisica», di «selezione naturale»9. Il colloquio di lavoro non raramente si trasforma
in un provino, in un casting per il quale non sono più sufficienti gli studi compiuti, la cultura, le
competenze professionali acquisite e una affidabilità personale. Il fattore sempre più determinante sta diventando la bella presenza, la sua seduttività. Nelle giovani generazioni cresce così
la consapevolezza che chi cura la propria immagine venga generalmente favorito e abbia più
opportunità di successo, che il “sapersi vendere” sia la carta vincente per ottenere tutto. Perfino
diverse mamme, anche ex femministe, ritengono che curare la bellezza fisica sia per la figlia più
utile che impegnarsi nell’apprendimento scolastico.
Lo studio del compor­tamento dell’essere umano, anche quello relativo all’abbigliamento,
è in realtà prevalentemente studio del suo comportamento sociale, dei suoi rapporti cioè con i
propri simili condotti per lo più senza la media­zione verbale. Fino a circa sessanta anni fa, l’attenzione degli stu­diosi di psicologia sociale è stata però ri­volta soprattutto alla comunicazione
verbale, limitando­spesso l’analisi dei processi d’interazione ad aspetti non molto significativi.
Una delle principali ragioni per cui il linguaggio verbale è stato per così lungo tempo considerato il canale privi­legiato, determinando in tal modo il ritardo nelle ricerche sulla comunicazione
non verba­le, è da far risalire alle origini stesse del pensiero occi­dentale. Nella filosofia platonica
8 R.B. Cialdini, Le armi della persuasione. Come e perché si finisce col dire sì (1984), tr. it. di G. Noferi, Firenze, Giunti,
1989, pp. 132-133.
9 S. Kracauer, Gli impiegati. Un’analisi profetica della società contemporanea (1971), tr. it. di A. Solmi, intr. di L. Gallino,
Torino, Einaudi, 1980, pp. 20-21.
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è individuabile un sofistica­to gioco di equivalenze tra psiche (anima) e logos (paro­la) in base al
quale il logos, portatore di anima, viene contrapposto al soma (corpo). L’inconsistenza del corpo, la sua irrilevanza sono state la conseguenza inevitabile di quella socratica «cura dell’anima»
che secondo Platone consiste «nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a
raccogliersi e a restare sola con se stessa­sciolta dai vincoli del corpo come da catene»10. Nono­
stante la critica di Aristotele a questa concezione del corpo, il successivo assorbi­mento dell’antropologia biblica nel modello concettuale platonico consoliderà quella divisione tra anima e
corpo che ha segnato, fino ai nostri tempi, tutto il pensiero oc­cidentale. Si pensi, ad esempio, a
papa Gregorio Magno che, agli albori del Medioevo, definì il corpo «abominevole rivestimento dell’anima»11, e poi a Cartesio che, con la distinzione tra res cogitans e res extensa, intese
sottrarre l’anima, fonte di ogni possibile senso, a qualsiasi influenza del cor­po ridotto a pura
estensione e movimento12.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo gli scritti di G. Simmel, oltre che rappresentare
un importante contributo alla precisazione del concetto di psicologia sociale, hanno anticipato
anche l’analisi di alcuni temi rilevanti per questo ambito disciplinare, come quello relativo alla
comunicazione non verbale. Tale aspetto dell’interazione umana gli consente di cogliere, con
una maggiore profondità e completezza di significato, pure fenomeni apparentemente banali e
irrilevanti del vivere quotidiano, quali appunto le modalità espressive del volto, l’abbellimento
del corpo mediante ornamenti e vestiti, il comportamento civettuolo13. Egli evidenzia non solo la
natura sociale dell’essere umano, ma ne sottolinea l’«inscindibilità psicofisica», l’«unità vitale»
di corpo e anima, la valenza linguistica del corpo umano quale veicolo di messaggi interiori: «il
corpo dell’individuo, il suo aspetto, i suoi movimenti, le sue espressioni sono soltanto un tipo di
scrittura alfabetica che trae il senso che ci interessa dai suoi modi di pensare e dai suoi stati d’animo, dalle sue intenzioni e dalle sue energie spirituali. Sulla mera corporeità umana ci concentriamo per motivi estetici o sensuali, ma nella prassi veramente decisiva della vita ci affrettiamo
a superarla, per giungere alle caratteristiche e ai moti della sua anima, dei quali, rispetto a noi, la
dimensione corporea è soltanto il ponte, il simbolo, l’interprete»14.
È tuttavia solo agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso che si afferma tale nuovo livello di
analisi della comunica­zione non verbale. Grazie allo stimolo delle ricerche com­piute nel campo
10 Platone, Fedone (IV secolo a.C.), in Opere complete, I-IX, tr. it. di M. Gigante e M. Valgimigli, a cura di G. Giannantoni,
Bari, Laterza, 1971, I, p. 118. Tale visione si richiamava all’antico mito orfico dell’anima di origine divina esiliata nel corpo.
11 J. Le Goff, Il corpo nel Medioevo (2003), tr. it. di F. Cataldi Villari, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. XI.
12 M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento (1942), tr. it. di G.D. Neri, pref. di A. De Waelhens, Milano,
Bompiani, 1963, è uno dei filosofi del XX secolo che critica radicalmente tale concezione dualistica corpo-anima di Cartesio.
Egli considera invece queste due dimensioni solo “livelli percettivi” differenti che però interagiscono nel comportamento. « La
distinzione tanto frequente di psichico e somatico trova luogo in patologia, ma non può servire alla conoscenza dell’essere umano
normale, cioè dell’uomo integrato, perché per esso i processi somatici non si svolgono isolatamente ma sono inseriti in un raggio
di azione più ampio» (p. 293).
13 Riferendosi alla capacità di osservazione del comportamento umano che emerge dallo scritto De civilitate morum
puerilium (1530) di Erasmo di Rotterdam, N. Elias, Il processo di civilizzazione (1969), tr. it. di G. Panzieri, Bologna, il Mulino,
1982, accenna agli esempi ivi riportati di «corrispondenza» tra modo di vestirsi e atteggiamento dell’anima. «Sono questi», egli
commenta, «gli inizi di quel criterio di osservazione che, in uno stadio successivo, verrà definito “psicologico”» (p. 196).
14 G. Simmel, Il problema del ritratto, cit., pp. 54-55. (il corsivo è mio). Al pensiero simmeliano, che ha esercitato un grande
influsso sulla Scuola di Chicago, si richiamano studiosi statunitensi di sociologia, microsociologia e psicologia sociale quali R. E. Park,
R.K. Merton, L. Coser, E. Goffman, B. Glaser, A. Strauss. Sul tema, cfr. N. Squicciarino, Il profondo della superficie. Abbigliamento e
civetteria come forme di comunicazione in Georg Simmel, Roma, Armando, 20001, pp. 53-82, in particolare la nota 2 di p. 67.
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della linguistica e dell’etologia, alla luce anche della psicanalisi e dell’antropologia filosofi­ca,
della sociologia e della semiotica, in un clima di fe­conda collaborazione interdisciplinare, si è
venuto con­solidando l’interesse nei confronti del corpo e del suo linguaggio. Il riconoscimento
dell’importanza della comunica­zione corporea nell’ambito delle nuove tendenze della psicologia sociale ha profondamente inciso sullo studio del comportamento umano. Ha influi­to in maniera determinante in fondamentali settori della ricerca psicologica classica, quali la comunicazione interperso­nale, la percezione delle persone, l’espressione delle emozioni. Ha contribuito
in modo significativo allo svi­luppo di settori della psicologia applicata come la psico­terapia,
le relazioni nei gruppi, e ha favorito una più profonda comprensione del complesso fenomeno
dell’abbigliamento e delle sue mode. L’approccio a tale tema – che richiama la quotidiana, e
non sempre del tutto consapevole, attenzione e preoccupazione degli individui – ne sta oggi
evidenziando le illumi­nanti implicazioni comportamentali che, a pieno titolo, lo legittimano
come oggetto di indagine psicosociale. Tra i vari fenome­ni collettivi, scrive a riguardo Jean
Stoetzel, «la moda … ci porta più immediatamente … la rivelazione che vi è del sociale nei
nostri comportamenti»15.
Anche nella cura dell’aspetto esteriore, che è senza dubbio il segnale più importante per la
propria e altrui percezione, risulta indispensabile la capacità di “assunzione di ruolo”, di uscire
cioè dal proprio io per entrare mentalmente nei panni dell’altro e prevedere così le sue reazioni
nei nostri confronti. Tale attitudine consente all’individuo non solo di migliorare il livello di interazione, ma anche di percepire se stesso come oggetto, di giungere cioè al concetto di sé. L’immagine che egli in tal modo si fa di sé è il risultato dell’interazione sociale, ma questo è anche ciò
che determina la qualità della sua successiva interazione. Il nuovo modo di comportarsi suscita
una nuova risposta e il processo ricomincia. John W. Kinch, ad illustrazione di questo modello
che egli definisce “circolare”,
Percezione
Risposte degli altri
Concetto di sé
Comportamento
porta un esempio che ben evidenzia i risvolti interattivi impliciti nella cura del proprio apparire.
«Un gruppo di studenti durante un seminario di psicologia sociale si interessò alle nozioni implicate nell’approccio interazionista. Una sera cinque dei membri maschi del gruppo, discutendo
delle implicazioni della teoria, giunsero alla conclusione che poteva essere possibile creare una
situazione nella quale “l’altro” sistematicamente potesse manipolare le loro reazioni nei confronti
di un’altra persona con lo scopo di cambiare il concetto di sé che quella persona aveva e quindi
cambiare il suo comportamento. Pensarono, insomma, di mettere in pratica le idee di cui avevano
15
J. Stoetzel, Psicologia so­ciale (1964), a cura di F. Ferrarotti, tr. it. di A. Catemario, Roma, Armando, 19735, p. 277.
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discusso e scelsero come soggetto di studio (vittima) l’unica ragazza che partecipava al loro seminario. Questo soggetto può essere descritto, al massimo, come una ragazza insignificante e bruttina
che sembrava adattarsi allo stereotipo (di solito errato) che molti hanno di una donna studiosa. Il
piano dei giovani era quello di incominciare di comune accordo a reagire alla ragazza come se fosse la più bella della città universitaria e di farlo in modo così naturale da non renderla consapevole
di quello che stavano “tramando”. I giovani tirarono a sorte per stabilire chi dovesse per primo
fissare alla ragazza un appuntamento. Il sorteggiato, sebbene trovasse la cosa non molto piacevole, le chiese di uscire la sera con lui ripetendo a se stesso che quella era una ragazza bellissima e
recitò la parte magnificamente. Secondo l’accordo, anche il secondo giovane uscì con la ragazza.
Vi è da ricordare che durante ogni appuntamento (galante) i contatti che i giovani avevano con la
ragazza rappresentavano, attraverso reazioni similari, un rinforzo al suo comportamento. Nel giro
di poche settimane i risultati cominciarono ad essere evidenti: dapprima fu solo una questione di
una maggiore cura del suo aspetto come la frequente pettinatura dei suoi capelli e stiratura dei suoi
vestiti; poi, spendendo i suoi soldi guadagnati con fatica, la ragazza frequentò l’istituto di bellezza
per avere capelli pettinati alla moda e comprò vestititi ultimo modello. Cosicché, quando arrivò il
turno del quarto giovane per dare l’appuntamento alla ragazza, la cosa cominciò ad essere piacevole, e quando il quinto del complotto la invitò ad uscire con lui si sentì rispondere che per un po’
di tempo sarebbe stata impegnata con giovani molto più desiderabili di quelli “brutti” della cerchia universitaria»16. La percezione delle reazioni dei giovani colleghi nei confronti della ragazza
comportò in quest’ultima un cambiamento del concetto di sé e quindi della propria immagine: per
conformarsi alle reazioni suscitate lei mutò il proprio modo di comportarsi. Questo a sua volta agì
nel modificare ulteriormente le reazioni dei giovani nei confronti della ragazza.
In realtà la coscienza di sé è data dal rapporto con gli altri. L’essere umano ha una natura prevalentemente sociale: il suo comportamento, la sua personalità, il suo modo di pensare, di sentire,
i suoi bisogni, anche quello di abbigliarsi, sono in gran parte influenzati dall’esistenza reale e immaginaria degli altri. Questi sono per lui stimoli e occasioni di risposta, determinano largamente
le sue azioni e i suoi sentimenti. Lo stesso comportamento del narcisista, l’ossessione con cui cura
il suo aspetto e addobba il proprio corpo, implica necessariamente lo sguardo altrui sebbene non
in funzione della reciprocità, ma esclusivamente quale rinforzo all’autocompiacimento.
16
J.W. Kinch, Psicologia sociale (1973), a cura di M. Melone, Milano, Angeli, 1978, pp. 71-72.
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Semiotica
Anche la vita sociale degli animali è mediata dalla co­municazione non verbale. I loro segni tutta­via,
pur attestando l’esistenza di una comune base biolo­gica innata, non raggiungono mai il grado di complessità e di elaborazione del linguaggio umano. Rispetto al mondo animale, l’essere umano – descritto
come “homo faber” perché in grado di modificare l’ambiente in cui vive – da Ernst Cassirer non viene
definito “animal rationale”, come fanno i gran­di pensatori. Egli lo caratterizza invece come «animal
symbolicum»1 a motivo delle sue attività crea­trici più spirituali, del fatto che «non può vi­vere la sua
vita senza esprimere la sua vita»2. Ciò che qualifica e differenzia la socialità umana da quella animale
è proprio tale capacità di comunicazione simbolica. Questa è a fondamento di tutto il progresso della
cultura e ad essa sono da ripor­tare pure le varie modalità di espressione artistica, dalle forme di decorazione del corpo umano fino alle realizzazioni architettoniche, dalle più primitive fino alle odierne.
Le forme simboliche sono modalità di mediazione fra l’essere umano e il mondo circostante. Rappresentano tentativi d’interpretazione attraverso cui, nel corso della storia, egli esprime a sé e agli altri la
propria comprensione del mondo, i propri bisogni, e risponde ai propri interrogativi. In quanto “traduzioni” di significati in significanti – si pensi al simbolismo religioso presso tutti i popoli – le forme simboliche sono riconducibili al linguaggio, hanno un’analoga funzione, e come tali sono oggetto di studio
della semiotica. Charles Morris interpreta in tal senso i fatti visivi: «la civiltà umana riposa su segni e
su sistemi di segni, e non si può parlare della mente umana senza riferirsi al funzionamento dei segni,
ove non si debba addirittura ammettere che essa consista in tale funzionamento»3. Per Ferdinand de
Sausurre la lingua è un sistema di segni e i segni sono costituiti dall’unione del significato (un concetto)
e del significante (il mezzo che lo esprime). A lui si deve il termine “semiologia”, definita la «scienza
che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale» e di cui la linguistica è solo una parte4.
Nella discussione sulla defini­zione dell’oggetto proprio della semiologia o semiotica, i linguisti
postsausurriani ritengono che tale disciplina si limiti a ciò che l’essere umano carica intenzionalmente­
1 E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura umana (1944), tr. it. di C. D’Altavilla, Roma,
Armando, 1968, p. 81.
2 Ivi, p. 368.
3 Ch. W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni (1938), tr. it. e intr. di F. Rossi-Landi, Torino, Para­via, 1954, p. 4.
4 F. de Sausurre, Corso di linguistica generale (1962), tr. it. e intr. di T. De Mauro, Bari, Laterza, 1967, p. 26. P.M. Vitruvio,
L’architettura di Vitruvio, (De Architectura Libri decem, intorno al 27 a. C.) – ristampa della versione di C. Amati (1829-30) a cura
di G. Morolli, I-II, Firenze, Alinea, 1988 – rifererendosi al linguaggio simbolico dell’architettura, adopera già i concetti propri della
semiotica, parla di «cosa significata» (quod significatur) e di «significante» (quod significat) (Libro I, Prefazione, capo I, p. 7). I
termini “semiologia” e “semiotica” derivano dalla stessa radice greca (semèion) e possono essere considerati sinonimi di “scienza dei
se­gni”. “Semiologia” segue l’uso francese introdotto da F. de Saussure, “semiotica” quello anglosassone coniato in campo filosoficomedico fin dal tempo dei greci e adoperato da Ch. S. Peirce e Ch. Morris. U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani,
1985, afferma: «La semiosi è quel fenomeno tipico degli esseri umani per cui, come dice Peirce, entrano in gioco un segno, il suo
oggetto (o contenuto) e la sua interpretazione. La semiotica è la riflessione teorica su che cosa sia la semiosi» (p. 37).
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di significato al fine di in­staurare un rapporto di comunicazione con un altro sog­getto umano. Roland Barthes estende invece il suo campo a tutti i fatti significanti, includendovi quindi fenomeni che
invece altri escludono, come la moda abbigliamentare. Questa è «interamente sistema di segni»5, e
in modo sistematico lui ne esamina il linguaggio ricavato dalle riviste di moda. Per Umberto Eco
la semiotica è una scienza interdisciplinare «che studia tutti i fenomeni culturali come se fossero
sistemi di segni», anche l’abbigliamento6. Egli propone di superare l’apparente antino­mia tra “significazione” e “comunicazione” affermando che «ogni sistema di comunicazione tra esseri umani
presuppone un sistema di significazione come propria condizione necessaria»7. La semiotica deve
interessarsi a tutto ciò che rimanda a un significato e non limitarsi ai fatti di comunicazione intenzionale. Essa «ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunta come segno. È segno ogni cosa
che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d’altro»8.
Tale disciplina considera dunque i fenomeni della vita di ogni giorno come fenomeni di comunicazione, come passaggio di segnali da un emittente a un ricevente, come processi di significazione. Constata il fatto che oggi, in misura sempre crescente, a una relativa stabilità di significati
corrisponda una moltiplicazione, uno spostamento e una usura di significanti creati dalla moda.
A differenza degli astratti segni della lingua i cui mutamenti, determinati dalla massa anonima
dei parlanti, sono molto lenti, quasi impercettibili, nella comunicazione abbigliamentare i significanti sono invece soggetti a rapidi cambiamenti decisi da pochi. Massimo Baldini in proposito
scrive: «La lingua verbale è il proprio passato, il linguaggio della moda vestimentaria è solo il suo
presente»9. Questa, grazie al potente strumento di socializzazione al nuovo o di persuasione occulta rappresentato dalla pubblicità, si rinnova continuamente e in modo sempre più celere. Per poter
divenire oggetto di consumo i beni prodotti, tra cui appunto i capi d’abbigliamento, devono tuttavia
diventare latori di messaggi, assumere una valenza segnica. Vengono infatti acquistati non tanto a
motivo del loro valore tecnico-pratico, ma piuttosto per il loro valore simbolico, per la loro capacità – osserva Roland Barthes – di «far significare l’insignificante»10. Pure Jean Baudrillard analizza
il consumo in termini di semantica, lo studia «come sistema di co­municazione e di scambio, come
codice di segni continuamente emessi, rice­vuti e reinventati, come linguaggio»11. In tale ambito,
un caso particolare è rappresentato dai jeans, il capo d’abbigliamento più globalizzato mai esistito,
divenuto, afferma Ugo Volli, «il “significante puro” del guardaroba contemporaneo, disponibile ad
assumersi i più diversi significati»12. Possono conferire un aspetto trasandato, sexy, elegante, possono essere portati in fabbrica, in ufficio, per andare ai concerti, agli spettacoli teatrali, allo stadio,
in vacanza, in discoteca. Sono indossati da una molteplicità di persone di ambo i sessi, di tutte le
fasce d’età e di condizione sociale anche molto dissimili, in modi e luoghi del tutto differenti e con
significati completamente diversi, come nel caso dei contestatori e dei conformisti.
5
R. Barthes, Sistema della Moda (1967), tr. it. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1970, p. 246; cfr. p. XV.
U. Eco, La struttura as­sente, Milano, Bompiani, 1968, p. 15. A fine del XVIII secolo Ch. Garve, Über die Moden (1792), a cura
di Th. Pittrof, Frankfurt a.M., Insel, 1987, accenna all’affinità strutturale tra gestualità, abbigliamento e linguaggio (cfr. pp. 47-50).
7 U. Eco, Trattato di se­miotica generale, Milano, Bompiani, 1975, p. 20.
8 Ivi, p. 17.
9 M. Baldini (a cura di), Semiotica della moda, Roma, Armando, 2005, p. 25.
10 R. Barthes, Sistema della Moda, cit., p. 290.
11J. Baudrillard, La so­cietà dei consumi (1976), tr. it. di G. Gozzi e P. Stefani, Bologna, il Mulino, 1976, p. 123. Anche R.
Bar­thes, Siste­ma della Moda, cit., si era espresso in termi­ni molto simili: «gli innume­revoli oggetti che popolano e costituiscono
l’immaginario del nostro tempo dipende­ranno sempre più da una se­mantica» (p. XVI).
12 U. Volli, Jeans, Milano, Lupetti, 1991, p. 11.
6
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Alla luce degli studi di semiotica il fenomeno dell’abbigliamento
ha suscitato una crescente attenzione come forma di linguaggio,
i suoi capi vengono con­siderati
significanti di un signifi­cato, persino veicoli dell’inconscio. Anche
questo, definito da S. Freud «un
segno distintivo, in man­canza di
una conoscenza migliore»13, è
strutturato come un linguaggio
cifrato, da decodificare. La teoria psicanalitica interpreta come
segni tutte le formazioni dell’inconscio quali la parola, i sintomi,
i lapsus, i sogni e via dicendo,
ma è solo con lo scritto di John
C. Flügel che questa indagine per
la prima volta viene applicata in
modo sistematico al feno­meno del vestire. A proposito dell’uso degli indumenti egli fa riferimento alla perversione del feticismo e parla dell’«esistenza di un continuo passaggio dal vero e
proprio esibizionismo dei genitali fino alla loro simbolizzazione, totalmente inconscia»14.
I capi d’abbigliamento storicamente sono stati sempre latori di una molteplicità di informazioni sull’individuo e sulla sua realtà socioculturale. «Bisognerebbe apprendere a decifrare le
accumu­lazioni di significanti: nella gran parte degli abiti», scri­ve R. Barthes, «vi è una ridondanza di messaggi»15. In situazioni relazionali tras­mettono impor­tanti indicazioni relative all’età,
al sesso, al gruppo etnico, religioso e politico di apparte­nenza, alla classe sociale, all’attività
professionale e anche ai tratti di personalità, ad esempio al grado di indipen­denza, origina­lità,
eccentri­cità dell’individuo, alla sua con­cezione della corporalità e della sessua­lità. Tali informazioni possono essere usate per segnalare gli at­teggiamenti verso gli altri, in particolare la disponibilità sessuale, l’aggressività, la ribel­lione, la sot­tomissione, la formalità nel compor­tamento;
per evidenziare il proprio status so­ciale ed econo­mico, ma anche per compensare sentimenti di
in­feriorità fisica, psichica e so­ciale. Questi flussi di segnali non verbali, in un processo di codificazione e decodificazione non sempre del tutto consapevole, si muovono in entrambe le direzioni
e tramite essi gli interagenti cercano reciprocamente di catalogarsi. Alcune attività richiedono
poi l’uso di un particolare tipo di vestito come l’uniforme della polizia, la toga del giudice o la
tonaca degli ecclesiastici. A volte comunicare informazioni sul ruolo può essere indispen­sabile
al fine di stabilire un corretto modello d’interazione, come all’interno di un ospedale ove medici, infermieri, pazienti e visitatori, principalmente attraver­so il modo di vestire rivelano la loro
posizione. Ma c’è anche chi intende far capire di non identificarsi del tutto in un ruolo, come
13
S. Freud, Carteggio Freud-Groddeck (1970), tr. it. di L. Schwarz, Milano, Adelphi, 19793, p. 47.
J.C. Flügel, Psicolo­gia dell’abbigliamento (1930), tr. it. di G. Tibaldi, Milano, An­geli, 1982, pp. 39-40.
15 R. Barthes, Langage et vétement, in «Critique», 142, 1959, p. 251.
14
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nel caso della giovane recluta che indossa mal volentieri la divisa militare ed esprime la propria
“distanza” assumendo un aspetto esteriore in parte o del tutto difforme da quanto prescritto.
I criteri di decodifi­cazione relativi ai vari elementi dell’abbigliamento sono ricavabili dal particolare contesto comportamentale e dalle tradizioni proprie di un determinato paese, sebbene l’attuale fenomeno della globalizzazione stia gradualmente uniformando i gusti e i relativi significati.
Un capo potrebbe infatti significare una cosa ben diversa in realtà socioculturali differenti, fra
persone appartenenti a generazioni distanti per età e cultura, in determinati luoghi pubblici. Ad
esempio, sulla spiaggia e in un locale notturno il bikini assume significati ben distinti, del tutto
discordante è poi il valore simbolico assegnatogli nel mondo occidentale e in quello di tradizione
islamica. In proposito Eco, all’inizio degli anni ’70, così esemplificava: «Ha la minigonna: è una
ragazza leggera. A Catania. Ha la minigonna: è una ra­gazza moderna. A Milano. Ha la minigonna,
a Parigi: è una ragazza. Ha la minigonna, ad Amburgo, all’Eros: forse è un ragazzo»16.
Tale capacità di decodificare è oggi ancor più richiesta a motivo della crescente presenza di
immigrate da paesi con tradizioni abbigliamentari molto diverse dalla nostra cultura. Queste
costituiscono un tipo di linguaggio che sta a noi tentare di interpretare nella loro specificità simbolica, prima ancora di darne un giudizio soltanto sulla base dei nostri canoni estetici. Il processo
d’integrazione favorisce la conoscenza e la graduale appropriazione dei segni linguistici di una
cultura “altra”, quella del paese in cui tali persone vengono accolte i cui abitanti, essendo definiti
da una sola identità culturale, risultano di fatto semiologicamente più poveri. Il grado d’inserimento in una realtà culturale differente – che non implica affatto la completa rimozione dell’identità etnica, culturale e religiosa di provenienza – generalmente si esprime nel modo più immediato attraverso quegli indicatori
culturali rappresentati appunto dalle modalità di cura del
proprio aspetto esteriore.
Sin dall’antichità, si pensi
ai poemi omerici, la presenza di elementi ornamentali e
vestimentari sul corpo, oltre
che stimolare l’attrazione sessuale, conferiva all’in­dividuo
personalità, sicurezza in se
stesso e dignità. Questa era la
ra­gione per cui privare qualcuno delle proprie vesti, vale a
dire di ciò che differenzia l’essere umano dal mondo animale, significava umiliarlo,
sottometterlo, ridurlo in condizione di schiavitù. Simbolicamente si veniva spogliati­
M.C. Manca, Tre giovani “Grazie” del Gibuti, 2015.
16
U. Eco, L abito parla il monaco, in AA.VV., Psicologia del vestire, Milano, Bompiani, 1972, p. 9.
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della propria identità, della propria esistenza individuale e sociale, e si era ricacciati in una livellante condizione naturale, extraculturale, animale. Gli atti di emargina­zione, di discrimi­nazione
e d’iniziazione attraverso l’imposizione di segni connessi all’abbigliamento contraddistinguono
pure la storia dei popoli detti “civili”. All’inizio del XXI secolo, nelle carceri irachene, i militari
statunitensi hanno praticato un trattamento degradante, disumanizzante: denudare i corpi dei prigionieri, uniformarli nell’aspetto esteriore, privarli cioè della loro individualità e dignità di esseri
umani, ridurli allo stato animale, portarli persino al guinzaglio, fanno parte delle brutali tecniche
di umiliazione e annullamento della personalità,­di intimidazione psicologica con cui estorcere le
confessioni. Ai depor­tati nei campi di concentramento nazi­sta, identificati mediante un numero
indelebilmente marchiato sul braccio, veniva imposta un’uniforme a strisce e, non solo per motivi igienici ma con palese signifi­cato castratorio, la rasatura dei capelli. Tali provvedimenti sono
stati in vigore per i prigionieri, per i tradi­tori, per i malati di mente, e in genere sono tipici di tutte
le “isti­tuzioni totali”17. Anche il colore di un partico­lare capo di vestiario, ad esempio il cappuccio nero dei leb­brosi o il velo giallo che portavano le corti­giane nella Firenze del XVI secolo, è
Bambini di una classe elementare negli anni ’50 del secolo scorso.
17 Cfr. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961), tr. it. e postfazione di
Franca e Franco Basaglia, pref. di A. Dal Lago, Torino, Einaudi, 2003, pp. 43-101.
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stato adoperato per discriminare, isolare persone ritenute socialmente pericolose o devianti18. Un
evidente segno di segregazione e umiliazione sono stati, in Italia fino agli inizi degli anni ’60 del
secolo scorso, l’uniforme grigia e il comune taglio, molto corto, dei capelli imposti agli orfanelli.
Sebbene frequentassero la scuola pubblica, all’interno della stessa classe il loro aspetto esteriore
segnalava contemporaneamente l’appartenenza e la distinzione, evidenziava la presenza di due
differenti gruppi: i fortunati senza loro merito e gli sfortunati senza alcuna colpa. In un contesto
differente, il va­lore sim­bolico dell’aspetto esteriore è ancora oggi testimoniato dalle cerimo­nie
di consacrazione religiosa in cui le novizie e i no­vizi, quale segno di iniziazione, di mutamento
radicale di vita, assumono una nuova identità tagliando i capelli, indos­sando altre ve­sti – le suore
“prendono il velo” – e cambiando il nome.
Fanno ormai parte integrante delle nostre moderne società le forme di tribalismo giovanile i
cui membri, attraverso la performance dissacrante di corpi innovativamente abbigliati – dai più
considerati esteticamente ripugnanti – esprimono la loro coesione di gruppo e il comune rifiuto,
disprezzo dei modelli comportamentali e dei valori dominanti. Nella loro messa in scena realizzata per lo più in modo “rituale”, seguendo un insieme di regole non scritte, un preciso codice
abbigliamentare, questi giovani segnalano in forma ludica, creativa e sensuale una nuova identità
in divenire, il loro essere in una fase di passaggio, la loro volontà e il loro diritto di essere diversi
dalla generazione che li precede. Ad esempio negli anni ’70, per indicare l’appartenenza al gruppo,
il dress code dei punk prevedeva indumenti sciatti e, nonostante il loro “no fashion”, prescriveva
particolari simboli anarchici, borchie e catene, chiodi in pelle, zip, anfibi e jeans skinny, piercing e
alte creste colorate piene di gel. Con l’aspetto esteriore i punk, e alcuni anni prima gli skin, misero
a nudo il loro universo mentale oltre che il loro gusto estetico: la testa rapata in particolare rappresentò una metafora urlata della loro attitudine ribelle.
Capigliatura
di giovani
primitivi (da G.
Klemm, cit.) e
di odierni punk.
18
Sul tema, cfr. anche p. 90 del presente lavoro.
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