PARMENIDE E LA SCUOLA ELEATICA
Sempre nell'Italia meridionale, ad Elea (Velia), città della Magna Grecia, nasce e si sviluppa
alla fine del VI secolo a. C. una importante scuola di pensiero che, stando alle testimonianze di
Platone e di Aristotele, conta come suoi più significativi rappresentanti Senofane, Parmenide,
Zenone e Melisso. Ed anche se la tradizione riconosce in Senofane il fondatore della scuola (la
storiografia più recente ha sollevato dubbi in proposito), è in realtà Parmenide con la sua
dottrina dell'essere che svolge il ruolo di protagonista, e da Parmenide prenderanno le mosse i
suoi due discepoli, Zenone e Melisso.
Parmenide e il sentiero del giorno
Tra i primi pensatori greci, Parmenide occupa una posizione centrale che divide quanti lo
precedono da quanti lo seguono, non solo nella storia della filosofia antica, ma lungo l'intera
storia del pensiero filosofico. Egli porta alla luce un problema che impegnerà tutta la filosofia
antica, per cui con ragione Platone lo nomina «venerando e terribile» (Teeteto, 183 e).
Vissuto ad Elea, Parmenide scrisse un poema Sulla natura (perì physeos) di cui
possediamo 154 versi, dove sono descritte tre possibili vie della ricerca di cui una sola è la
vera, l'altra è fallace, mentre la terza, che tenta di congiungere l'una con l'altra, non approda a
verità. Vediamo di percorrere queste vie insieme a Parmenide, o meglio insieme alla dea di cui
Parmenide si considera portavoce.
La via della verità è tracciata dal principio che dice: l'essere è ed è impossibile che non sia.
Il contrario di questo principio è l'impercorribile assurdo che la verità proibisce di affermare.
Se l'essere è, prosegue Parmenide, non può venir generato né andar distrutto, perché
altrimenti prima di esser generato e dopo esser distrutto, non sarebbe, e affermare che
l'essere non è è proibito dalla verità. Quindi l'essere è immutabile ed eterno, e la Giustizia
proibisce che in qualsiasi modo divenga.
Fin dall'inizio la filosofia pensa che l'ambito di ciò che nasce e che muore non nasce e non
muore, è cioè eterno. A questo ambito la filosofia ha dato il nome di physis che i latini hanno
tradotto con natura. E perì physeos (Intorno alla natura) si intitolano le opere dei primi
filosofi fra cui Parmenide. Physis è costruita sulla radice indoeuropea bhu che significa
«essere», una radice strettamente legata alla radice bha che significa «luce». La parola physis
appartiene al linguaggio prefilosofico, ma con l'avvento della filosofia acquista quel nuovo
significato che è l'essere nel suo illuminarsi. Forse anche per questo Parmenide chiama la via
della verità, ove si dice che l'essere è, sentiero del giorno. Lungo questo sentiero ciò che si fa
luminoso è che l'essere si oppone al niente e che questa opposizione è eterna.
Già Anassimandro aveva inteso la physis come àpeiron, ossia come quell'illimitato al cui
interno ogni cosa limitata nasce e muore, per cui dell'àpeiron, dell'illimitato, si deve dire che è
eterno. Anassimene aveva cercato di dire che cosa fosse l'àpeiron che, come Anassimandro
aveva visto, non poteva essere una determinazione particolare, ma quell'identico da cui le
determinazioni scaturiscono. Eraclito individuò tale identità nello stesso opporsi delle cose,
mentre Pitagora l'aveva individuata nell'Uno; infatti ogni cosa, solo in quanto si oppone alle
altre, è una.
Ma sia l'opposizione sia l'unità sono solo delle proprietà, sia pure essenziali, dell'elemento
unificatore del molteplice che Parmenide nomina essere. L'essere, infatti, è ciò che è identico
in ogni cosa che è, è ciò che, opponendosi al nulla, esprime il significato supremo
dell'opposizione e, per effetto dell'opposizione, si costituisce come unità. Si tratta di un'unità
che non ospita né il divenire delle cose, né la loro molteplicità.
Dire, infatti, che una cosa diviene significa dire che passa dall'essere al non-essere, e quindi
significa affermare che il non-essere è; dire infine che ci sono molte cose diverse: albero,
stella, animale, terra, acqua, aria, fuoco significa dire che ciascuna di esse non è essere, e
quindi di nuovo che il non-essere è. La convinzione che il divenire e il molteplice esistono è
l'opinione illusoria (dóxa) dei mortali da cui la dea, che invita a percorrere il sentiero del
giorno, tiene lontani. Recita infatti il frammento 2 di Parmenide:
«Orbene, io ti dirò - e tu ascolta la mia parola -quali vie di ricerche soltanto si possono
pensare:
una che l'essere è e che non è possibile che non sia
- è il sentiero della persuasione, perché tien dietro a verità l'altra che l'essere non è e che è necessario che non sia;
e io ti dico che questa è una via preclusa ad ogni ricerca:
infatti non potresti conoscere ciò che non è, giacché non è cosa possibile, né potresti
esprimerlo». E il frammento 6:
«È necessario dire e pensare che l'essere sia: infatti l'essere è,
il nulla non è; queste cose ti esorto a considerare.
Perciò da questa prima via di ricerca ti tengo lontano,
ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno
vanno errando, gente a due teste; infatti è l'incertezza
che nei loro petti dirige la mente errante. Costoro sono trascinati,
sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi: gente senza giudizio,
secondo la quale essere e non-essere sono identici
e non identici, e di ogni cosa vi è un cammino che è reversibile». Infine il frammento 8:
«Una sola via resta al discorso:
che l'essere è».
Dal testo emerge chiaramente che Parmenide, portando alla luce la physis come essere, e
riflettendo sul senso dell'essere (che non può non-essere) è costretto a negare che la physis sia
l'elemento unificatore (stoichéion) del molteplice e il principio (arché) del divenire cosmico.
L'essere è assolutamente indifferenziato, indeterminato, l'assolutamente semplice e puro,
mentre il mondo che ci sta dinnanzi nella sua incessante mutazione e varietà è dóxa, ossia
apparenza illusoria in cui i mortali pongono fiducia.
Con Parmenide la filosofia si presenta come sfida al comune modo di pensare degli uomini
e, contrapponendo la via della verità (alétheia) alla via dell'opinione (dóxa), apre quell'antitesi
tra ragione ed esperienza che Empedocle, Anassagora e Democrito tenteranno, in modi
diversi, di risolvere.
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Senofane e Zenone: l'avvio e il seguito
Secondo le testimonianze di Platone (Sofista, 242 d) e di Aristotele (Metafisica, A, 5, 986 b,
21) l'indirizzo della scuola eleatica avviata da Parmenide era stato iniziato da Senofane di
Colofone che per primo afferrò l'unità dell'essere partendo da una critica risoluta
all'antropomorfismo religioso. «Gli etiopi dicono che i loro dei hanno il naso camuso e sono
neri — scrive Senofane — mentre i traci dicono che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi (...)
e se i buoi, i cavalli e i leoni avessero le mani e potessero disegnare, il cavallo raffigurerebbe gli
dei simili ai cavalli, e il bue simile ai buoi» (fr. B 15-16). Se dunque è l'uomo a costruirsi gli dei
a propria immagine e somiglianza, non si può credere negli dei come Omero ed Esiodo li
hanno descritti, ma bisognerà pensare a una divinità «che non assomigli agli uomini né per il
corpo, né per il pensiero» (fr. B 13). Come Anassimandro aveva formulato il suo principio
originario oltrepassando le determinazioni sensibili, così Senofane dissolve i molteplici dei in
un principio originario libero da determinazioni. Questo principio è una divinità che si
identifica con l'universo a cui Senofane attribuisce le caratteristiche che Parmenide
riconoscerà all'essere: «Sempre nel medesimo luogo rimane senza muoversi affatto, né a Lui
si addice aggirarsi ora in un luogo ora in un altro» (fr. B 26). In forma teologica Senofane
anticipa quell'uno-tutto che Parmenide chiamerà «essere».
Tra i discepoli di Parmenide un posto di rilievo merita Zenone di Elea di cui Plafone nel
Parmenide (128 b e sgg) ci espone il carattere e l'intento di uno scritto contro quanti
cercavano di confutare il principio di Parmenide che, come abbiamo visto, non concedeva di
affermare la molteplicità e il divenire delle cose. Per quanto riguarda la molteplicità Zenone
argomenta che ciascuno dei molti esseri, per essere veramente uno, dovrebbe non avere né
grandezza, né spessore, né massa (perché altrimenti sarebbe divisibile in parti e, dunque, non
sarebbe più uno); ma un uno siffatto, piccolo all'infinito fino ad essere del tutto privo di
grandezza, non è nulla, tanto è vero che se si aggiunge un siffatto uno a qualcos'altro non lo fa
crescere e se lo si sottrae ad altro non lo fa diminuire, e solo il nulla da simili risultati. D'altra
parte non si può nemmeno pensare l'uno dotato di grandezza, perché, per quanto piccola, ogni
grandezza non solo è divisibile in parti, ma è divisibile in infinite parti, e ciò che ha infinite
parti dovrebbe essere infinito in grandezza. Per quanto riguarda il divenire lo schema
argomentativo di Zenone consiste nel rilevare che se un corpo si muove dal punto A al punto
B, prima di giungere in B, dovrà giungere nel punto M intermedio tra A e B; e prima di
giungere in M dovrà giungere in M', intermedio tra A e M, e così all'infinito; per cui lo
spostamento oltre il punto A è impossibile, per quanto piccolo esso sia. Per questo Achille, il
pie veloce, non raggiungerà mai la tartaruga, posto che la tartaruga abbia un passo di
vantaggio. Difatti, prima di raggiungerla. Achille dovrà raggiungere il punto da cui è partita la
tartaruga, sicché la tartaruga sarà sempre in vantaggio. Le argomentazioni di Zenone hanno
stimolato la riflessione matematica intorno ai problemi relativi alla grandezza e alla continuità
spaziali, ma non hanno risolto l'antitesi tra ragione ed esperienza che Parmenide aveva aperto
e intorno a cui si applicherà la speculazione successiva.
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