MATERIALE DIDATTICO PER L’ESAME DI SCIENZA POLITICA INTRODUZIONE ALLA SCIENZA POLITICA «Nessun sapere scientifico è mai nato senza aver ordinato e precisato il proprio vocabolario: ché la terminologia fornisce le gambe sulle quali una scienza poi cammina» (Giovanni Sartori) 1. Verso una definizione di scienza politica L’espressione “scienza politica” può essere usata in senso ampio e non tecnico per denotare qualsiasi studio dei fenomeni e delle strutture politiche condotto con sistematicità e con rigore, appoggiato su un ampio e accurato esame di fatti ed esposto con argomenti razionali. In questa accezione il termine “scienza” viene adoperato come opposto di “opinione”, onde occuparsi scientificamente di politica significa non abbandonarsi alle credenze del volgo, non trinciare giudizi in base a dati non accertati, rimettersi alla prova dei fatti. In senso più ristretto e diventato più tecnico, l’espressione “scienza politica” sta per “scienza empirica della politica”, ossia indica un orientamento di studi che si propone di applicare all’analisi del fenomeno politico, nei limiti del possibile, cioè nella misura in cui la materia lo permette, ma con sempre maggior rigore, la metodologia delle scienze empiriche più sviluppate (come la fisica, la biologia, ecc.), soprattutto nella elaborazione e nella codificazione fattane dalla filosofia neopositivistica. Altrimenti dicendo, la scienza politica può essere definita come lo studio empirico e generalizzante dei fenomeni politici. In questo senso più specifico di “scienza”, la scienza politica si viene sempre più distinguendo da ogni ricerca rivolta non già a descrivere e a comprendere quello che è ma a delineare 1 e quindi a prescrivere quello che deve essere, ricerca cui conviene più propriamente e cui si suole dare ormai comunemente il nome di “filosofia politica”. Se si accoglie questa distinzione, le opere dei classici del pensiero politico sono per la maggior parte opere in cui mal si distingue ciò che appartiene alla scienza e ciò che appartiene alla filosofia, mentre i politologi contemporanei tendono a caratterizzare le proprie opere come scientifiche per mettere l’accento su ciò che le distingue dalla filosofia (N. Bobbio, Scienza politica, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio e N. Matteucci, redattore G. Pasquino, Utet, Torino 1976, pp. 894-95). 2. Scienza politica e filosofia politica Secondo Giovanni Sartori, la principale differenza tra filosofia politica e scienza politica può essere individuata nella mancanza di operatività o di applicabilità della prima, onde «la filosofia non è [...] un pensare per applicare, un pensare in funzione della traducibilità dell’idea nel fatto», mentre «la scienza è teoria che rinvia alla ricerca, [...] applicazione, traduzione della teoria in pratica», insomma «un progettare per intervenire, una prasseologia» (G. Sartori, La politica. Logica e metodo in scienze sociali, SugarCo, Milano 1979, p. 224). Ma, come rileva giustamente Norberto Bobbio, «si potrebbe obiettare che, quanto a operatività, non è detto che gli ideali siano stati nella storia dei mutamenti politici meno “operativi” che i consigli degli “ingegneri” sociali» (N. Bobbio, Scienza politica, in Dizionario di politica, op. cit., p. 895). In realtà, è allo stesso Bobbio che si deve la più accurata individuazione delle differenze tra filosofia politica e scienza politica. Scrive Bobbio: «Credo che nessuno oggi sia disposto a chiamare scientifica nel significato pregnante di questo termine una ricerca che non soddisfi o almeno non tenda con ogni sforzo consapevole a soddisfare a queste tre condizioni: a) sottoporre le proprie conclusioni a verifica empirica, o almeno a quel tanto di verifica empirica che è possibile coi dati a disposizione, e comunque, qualora i dati non siano sufficienti, 2 ritiri o affermi come problematiche le conclusioni raggiunte, oppure metta in opera tutte le tecniche più accreditate e applicabili al caso per aumentare la disponibilità dei dati, cioè per accrescere la sua verificabilità; b) valersi di tutte quelle operazioni mentali, come formulazioni d’ipotesi, costruzioni di teorie, enunciazioni di leggi tendenziali, che permettano di perseguire l’obiettivo specifico di ogni ricerca scientifica, che è quello di dare una spiegazione del fenomeno che si vuole indagare; c) non pretendere di dare alcun giudizio di valore sulle cose di cui ci si occupa e quindi di trarre prescrizioni immediatamente utili alla prassi». Continua Bobbio: «Queste tre condizioni fanno capo a tre requisiti fondamentali di ogni ricerca che voglia ambire a farsi chiamare scienza secondo il modello delle scienze per eccellenza, le scienze naturali, e nel senso forte e nobile per cui l’età moderna viene fatta coincidere con l’inizio, con lo sviluppo e col trionfo della rivoluzione scientifica: a) il principio di verificazione come criterio di validità; b) la spiegazione come scopo; c) l’avalutatività come presupposto etico». Considerando le tre principali forme di filosofia politica — esemplarmente rappresentate all’inizio dell’età moderna da tre opere che lasciarono una traccia indelebile nella storia delle idee politiche: l’Utopia di Tommaso Moro (simbolo della filosofia politica come ricerca della miglior forma di governo), il Leviatano di Thomas Hobbes (simbolo della filosofia politica come ricerca del fondamento dello Stato) e il Principe di Niccolò Machiavelli (simbolo della filosofia politica come ricerca della natura della politica) —, «si può osservare che a ciascuna fa difetto almeno una delle caratteristiche della scienza politica, o, con altre parole, nessuna delle tre adempie a tutte le condizioni di una ricerca che possa dirsi a buon diritto scientifica. La filosofia politica come teoria della miglior forma di governo è orientata secondo valori ed ha carattere nettamente e consapevolmente prescrittivo: non è avalutativa e non pretende di esserlo. […] Nella filosofia politica come teoria del fondamento dello stato e 3 quindi dell’obbligo politico l’operazione principale e caratterizzante non è la spiegazione ma la giustificazione, intendendosi per “giustificazione” l’operazione mediante la quale si qualifica un comportamento come (moralmente) lecito o illecito, il che non si può fare se non richiamandosi a valori, o a regole date che alla loro volta sono espressioni di valori. […] Infine il problema della filosofia politica come ricerca della natura della politica si sottrae ad ogni possibile verifica empirica nella misura in cui pretende di determinare l’essenza della politica, in quanto appunto l’essenza è per definizione ciò che sta al di sotto o al di là dei fenomeni, delle apparenze, e che i fenomeni stessi presuppongono per poter essere analizzati e interpretati» (N. Bobbio, Considerazioni sulla filosofia politica, «Rivista italiana di scienza politica», aprile 1971, pp. 370-71). Secondo l’impostazione di Bobbio, il trattamento filosofico è caratterizzato da almeno uno dei seguenti elementi: 1) un criterio di verità che non è la verificazione ma semmai la coerenza deduttiva; 2) un intento che non è la spiegazione ma piuttosto la giustificazione; 3) la valutazione come presupposto e come scopo. Per il primo rispetto il trattamento filosofico non è empirico; per il secondo si caratterizza come normativo o prescrittivo; e per il terzo si precisa come un trattamento valutativo e assiologico. I criteri costitutivi del metodo scientifico, che sono il rovescio di quelli del trattamento filosofico, consistono invece: 1) nel principio di verificazione; 2) nella spiegazione; 3) nella avalutatività (G. Sartori, La politica. Logica e metodo in scienze sociali, SugarCo, Milano 1979, pp. 218-19). 3. Considerazioni sul concetto di “scienza” Come si è detto, l’accezione più comune e meno controversa di scienza politica è quella che permette di identificare come scienza politica distinta dalla filosofia ogni analisi del fenomeno politico che si valga, nei limiti in cui ciò è possibile, delle tecniche di ricerca proprie delle scienze empiriche, soprattutto nella elaborazione fattane dalla filosofia neopositivistica. 4 Movimento filosofico-scientifico articolato e complesso, il neopositivismo riflette la “crisi di verità” che ha colpito la scienza tra il XIX e il XX secolo, quando si consuma il definitivo passaggio dal paradigma scientifico empiristico-meccanicistico — basato sull’idea che a partire dall’esperienza sia possibile raggiungere la conoscenza della realtà oggettiva, delle leggi naturali che regolano i fenomeni, intese come leggi deterministiche in cui la causa determina con certezza l’effetto — ad un nuovo paradigma scientifico, che alla ricerca di leggi causali “certe” e “vere” sostituisce la spiegazione condizionale del tipo “se….allora”, caratterizzandosi per l’accoglimento dei principi del pluralismo scientifico e della connaturata parzialità di ogni spiegazione di tipo teorico. Il fatto è che vedere non è conoscere; cioè, noi non possiamo attestarci sulla presunzione che ciò che può essere osservato sia oggetto di conoscenza certa e unanime (o consensuale): se così fosse non avremmo alcun bisogno di teorie (intese come ipotesi di spiegazione della realtà), ma avremmo soltanto problemi di accumulazione di dati osservativi, di sempre maggiori informazioni. La scienza cresce anche per accumulazione, ma non esiste conoscenza che non sia allo stesso tempo anche interpretazione, e i fatti non si prestano a interpretazioni univoche (poiché altrimenti non ci sarebbe alcuna differenza tra teoria e realtà), ma autorizzano interpretazioni pluralistiche e concorrenziali: ognuno di noi, in altri termini, guardando alla stessa realtà, ne coglie aspetti diversi; di qui l’insufficienza delle prospettive meramente incrementalistiche (quelle che credono, positivisticamente, in una crescita continua della conoscenza attraverso la semplice accumulazione di dati) e la necessità di prendere atto della connaturata parzialità che inerisce a qualsiasi spiegazione di tipo teorico, nel senso che ciò che possiamo chiedere a una teoria non è la “verità”, quanto piuttosto il maggior grado possibile di corrispondenza alla realtà (anche perché ogni teoria è storicamente determinata dal livello di conoscenze raggiunto nell’epoca in cui sorge). 5 4. Considerazioni sul concetto di “politica” Oggi più di ieri la risposta al quesito canonico “che cos’è la politica?” appare problematica e incerta, dal momento che nessun ambito della vita associata sembra sottrarsi alla politicizzazione e questa tendenza appare come uno dei caratteri della contemporaneità. La percezione dell’ubiquità della politica accentua l’imbarazzo della teoria nel definirne e delimitarne il significato. Se tutto è politica e la politica è ovunque diventa problematico fissarne l’ambito e i confini, e l’oggetto “politica” sfuma nella genericità e nell’indeterminatezza. In particolare, merita rilevare, insieme con Pier Paolo Portinaro, che «la pretesa di una fondazione “scientifica” della politica ha trovato il più largo riconoscimento nel momento in cui il concetto di politica perdeva la sua univocità e si apprestava a divenire una nozione imprecisa e controversa» (P.P. Portinaro, La teoria politica contemporanea e il problema dello Stato, in A. Panebianco, a cura di, L’analisi della politica, Il Mulino, Bologna 1989, p. 324). Il risultato, come ha osservato David Easton, uno dei maestri della politologia contemporanea, è che «se c’è un elemento distintivo della scienza politica occidentale esso ancora consiste nella mancanza di un accordo su come descrivere nel modo più esauriente il suo oggetto» (D. Easton, Passato e presente della scienza politica negli Stati Uniti, «Teoria politica», n. 1, 1985, p. 95). Come è noto, sotto il profilo lessicale le ascendenze del termine “politica” appaiono inequivocabilmente legate al titolo dell’omonima opera aristotelica del IV secolo a.C. (Tà Politiká) e alla famiglia di termini derivati da pólis. Come mette bene in evidenza G. Sartori, «oggi siamo soliti distinguere tra politico e sociale, tra Stato e società. Ma queste sono distinzioni e contrapposizioni che si consolidano, nel loro significato attuale, soltanto nel XIX secolo. […] Se per Aristotele l’uomo era un “animale politico” (zoon politikón), la sottigliezza che spesso ci sfugge è che a questo modo Aristotele […] esprimeva la concezione greca della vita. Una concezione che faceva della polis l’unità costitutiva (inscomponibile) e la dimensione 6 compiuta (suprema) dell’esistenza. Nel vivere “politico”, e nella “politicità”, i greci non vedevano una parte, o un aspetto, della vita: ne vedevano il tutto e l’essenza. […] Pertanto non è esatto dire che Aristotele ricomprendeva la socialità nella politicità. In verità i due termini erano per lui un termine solo: e nessuno dei due si risolveva nell’altro per la semplice ragione che “politico” sta per dire, insieme, tutte e due le cose. Non a caso Tommaso d’Aquino ha autorevolmente tradotto zoon politikón con “animale politico e sociale”, osservando che “è proprio della natura dell’uomo che egli viva in una società di molti”». Quanto più ci si allontana dal formato della polis e della piccola città-comunità, tanto più gli agglomerati umani acquistano una strutturazione verticale, gerarchica. Questa verticalità era a tal punto estranea all’idea greca di politica che, per renderne il senso, si è fatto ricorso per secoli a termini latini, come principatus, regnum, dominium, gubernaculum. Il fatto che tutta questa terminologia sia rifluita nella moderna nozione di politica costituisce pertanto una sconvolgente inversione di prospettiva. Noi trasfondiamo, oggi, la percezione della verticalità (dell’elemento di strutturazione gerarchica) della vita associata in una nozione che designava, in origine, la dimensione orizzontale del vivere collettivo (G. Sartori, Politica, in Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 241-45, passim). Chi per primo intuisce che le nuove realtà dei moderni non possono essere comprese con il vocabolario degli antichi è Niccolò Machiavelli. Non a caso, la parola “politica” non compare mai nel Principe, mentre egli usa frequentemente il termine “Stato” e parla di un principe che esercita un “dominio”; e il dominio è l’opposto della politica intesa, alla maniera dei greci, come dimensione orizzontale del vivere collettivo. Quel che più conta, però, è che Machiavelli è il primo a sostenere la netta separazione e differenziazione della politica dalla morale e dalla religione e ad affermare con forza, per tale via, l’autonomia della politica. Per lui, come ben sottolinea Sartori, «moralità e religione sono sì ingredienti essenziali della politica: ma a titolo di strumenti. “Volendo un principe mantenere lo stato, è spesso 7 forzato a non essere buono”, ad operare “contro alla fede, contro alla carità, contro all’umanità, contro alla religione”. La politica è politica; tale per via di un imperativo che è proprio della politica. Machiavelli non dichiara soltanto la diversità della politica dalla morale; approda anche ad una vigorosa affermazione di autonomia: la politica ha le sue leggi, leggi che il politico “deve” applicare. Nel senso sopra precisato è dunque esatto che Machiavelli, non Aristotele, “scopre la politica”» (G. Sartori, Politica, in Elementi di teoria politica, cit., pp. 246-47). Ciò che si chiama autonomia della politica non è altro che il riconoscimento che mentre il criterio in base al quale si giudica un’azione come moralmente buona o cattiva è il rispetto di una norma il cui comando è considerato come categorico, indipendentemente dal risultato dell’azione (“fai quel che devi e avvenga quel che può”), il criterio in base al quale si giudica un’azione come politicamente buona o cattiva è puramente e semplicemente il risultato (“fai quel che devi perché avvenga quel che vuoi”). I due criteri sono incommensurabili: questa incommensurabilità viene espressa mediante l’affermazione che in politica vale la massima “il fine giustifica i mezzi” (una delle più convincenti interpretazioni di questa contrapposizione è quella fornita da Max Weber, che ha operato una distinzione fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità) (N. Bobbio, Politica, in Dizionario di politica, cit., p. 735). A partire dal XVI secolo cominciò, dunque, a delinearsi un nuovo paradigma, incentrato su una nuova costellazione di concetti, in primis quelli di “sovranità” e di “stato”. Non solo, ma «tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo […] il concetto di politica assunse un nuovo significato e con esso cambiarono la concezione e il ruolo della scienza o arte [della politica]. Dopo essere stata considerata per tre secoli la più nobile tra le scienze umane, la politica emerse dalla rivoluzione come un’attività ignobile, depravata e sordida: non più l’arma per combattere la corruzione, ma l’arte di adattarsi a essa» (M. Viroli, Dalla politica alla ragion di stato, Donzelli, Roma 1994, p. VII). Dunque, possiamo dire che varia la competenza della 8 politica a seconda dei tempi e dei luoghi: aspetti della vita che un giorno erano ritenuti politici non lo sono più oggi, e viceversa. Il risultato è che, nel nostro tempo, il termine “politica” ha assunto un’eccedenza di significati tra loro non conformi e talora assai divaricati. «Oggi la parola è sulla bocca di tutti — commenta ancora Sartori — ma non sappiamo più pensare la cosa. Nel mondo contemporaneo la parola si spreca, ma la politica soffre di crisi di identità» (G. Sartori, Elementi di teoria politica, cit., p. 252). A questo punto, ci si potrebbe domandare, insieme con Silvano Belligni: a che cosa si devono la crisi di identità e l’ambiguità crescente della categoria di politica? Secondo la posizione che potremmo definire storicista o contestualista, il termine “politica” «assume significati diversi perché rappresenta “cose” diverse, allude a realtà inconfrontabili, che cambiano a seconda dei contesti storici e dei milieux culturali». Agli antipodi di questa posizione si colloca il punto di vista di quanti sostengono che «il concetto di “politica” è generalizzabile e valido sub specie aeternitatis […] che, quale che sia l’epoca e il luogo a cui ci riferiamo e quali che siano le forme imperanti di esercizio del potere e di relazioni sociali, se ne può sempre estrarre e isolare via comparazione un nucleo di elementi invarianti, un insieme di proprietà che si ritrovano in tutte le comunità umane organizzate, […] la polis e l’impero, il sistema feudale e comunale e lo stato-nazione, le società tradizionali e quella industriale e postindustriale, le piccole comunità dell’antichità e i grandi aggregati moderni». Secondo questa prospettiva, insomma, «si deve ritenere che vi sia al fondo [del concetto di “politica”] un nucleo generalizzabile che accomuna, al di là di peculiarità contingenti, tutte le epoche storiche e tutte le esperienze umane, e che sia possibile identificarlo: come un serpente, la politica cambia nel tempo la propria pelle, ma mantiene inalterata la propria sostanza interiore, la propria logica strutturale» (S. Belligni, Cinque idee di politica. Concetti, modelli, programmi di ricerca in scienza politica, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 19-22, passim). 9 In generale si può dire, insieme con Angelo Panebianco, che «esiste una tendenza prevalente, nella scienza politica, consistente nell’enfatizzazione di due aspetti della politica: 1) il fatto che la politica ha a che fare con decisioni “collettive” o “collettivizzate”, ossia con decisioni i cui effetti ricadono, sia pure in modi e con intensità differenziate, sull’intera collettività e che sono vincolanti per tutti coloro che ne fanno parte; 2) il fatto che la politica rinvia comunque a un contesto in cui è sempre presente, almeno sullo sfondo, almeno potenzialmente, la possibilità del ricorso alla coercizione fisica, all’uso della forza». «Quest’ultimo punto — continua Panebianco — è cruciale, perché rivela il debito contratto dalla scienza politica nei confronti di una specifica tradizione intellettuale: quella del “realismo politico”. […] La politica ha a che fare, per questa tradizione, con quella particolare forma di potere (in quanto distinta da altre forme di potere sociale) cui è associato il monopolio tendenziale dell’uso della forza. Ciò dà ai detentori del potere politico una collocazione normalmente sovraordinata rispetto ai detentori di altre forme di potere, mentre conferisce ai conflitti che si accendono nella sfera politica una valenza particolare: dai loro esiti dipendono decisioni che si impongono con forza vincolante sulla collettività. È questa visione della politica che la scienza politica recepisce, per lo più, dalla tradizione del realismo politico» (A. Panebianco, Scienza della politica, cit., pp. 617-18). 5. Le diverse accezioni del termine “politica” Nella tradizione del pensiero politico che da Aristotele giunge fino ai nostri giorni, il sostantivo “politica” significa spesso riflessione sul governo della città o dello Stato e indica le opere a tali questioni dedicate: non designa dunque direttamente un agire, ma l’attività teoretica che lo interpreta e/o lo orienta. È in questo senso, oggi invero un po’ desueto, di riflessione scientifica o filosofica sulla cosa pubblica che, per esempio, va inteso il termine nell’uso che ancora ne propongono gli Elementi di politica di Benedetto Croce, la Introduzione alla politica di 10 Maurice Duverger o il Dizionario di politica di Bobbio e Matteucci. Ciò premesso, nel linguaggio odierno, il termine “politica” viene declinato in almeno altre tre diverse accezioni. Per un verso, esso designa una classe molto generale ed astratta di pratiche e di rapporti sociali, una specie del comportamento umano, una prassi, “una particolare maniera d’agire” (Max Weber): il fare politica (come per esempio quando si afferma che la politica è una cosa sporca, o si ammonisce: qui non si fa politica, si lavora). Altre volte, il termine “politica” allude ad uno spazio, una sfera, una sede, un campo, un ambito, un dominio particolare (seppure dagli incerti e mutevoli contorni) in cui quella precedente classe di azioni ha tipicamente corso: è in questo senso, ad esempio, che si dichiara di volersi impegnare in politica, o si contrappone la politica alla società, il politico al sociale. In altri casi, infine, il termine si riferisce a più specifiche e osservabili attività di formulazione e di esecuzione di programmi e di decisioni pubbliche, come nelle espressioni politica estera, politica economica, politiche sociali e simili. Così stando le cose, è comprensibile e opportuno che per indicare questi possibili livelli del discorso si ricorra a termini differenziati. È quanto è avvenuto ad esempio nella lingua inglese, che ha visto differenziarsi il suo lessico attraverso la separazione tra politics, che corrisponde tendenzialmente (anche se non completamente) alla prima e più estesa accezione del termine italiano (quella prasseologica, che vede la politica come una modalità dell’agire sociale), polity (o the political, anche se si tratta di un’espressione non molto diffusa), che coincide grosso modo con la seconda accezione (cioè con l’idea di politica come sfera territorialmente e costituzionalmente definita e come comunità organizzata al suo interno), e policy, che corrisponde al terzo significato. Nel nostro lessico invece (ma lo stesso può dirsi per il francese politique e il tedesco Politik) ha continuato a dominare fino a tempi recenti un unico termine, alimentando imprecisione e malintesi. Un modo per ridurre l’ambiguità può essere allora 11 quello di mantenere il termine politica per designare una modalità dell’agire sociale, il fare politica (la politics); di far ricorso all’aggettivo sostantivato (il) politico (polity, the political) per designare il campo di svolgimento, l’arena, il teatro dell’azione (con speciale riguardo agli aspetti istituzionali), riservando infine la locuzione politica pubblica, o il sostantivo plurale le politiche, per indicare specifici corsi d’azione governativa di natura settoriale (policy-policies). Va da sé che sarebbe inutile ricercare una linea di demarcazione troppo netta (e una uniformità d’uso) tra questi codici linguistici, tra i quali intercorrono reciproci rimandi e sovrapposizioni. Nondimeno, la distinzione lessicale è opportuna perché consente di ridurre la polisemia dei termini con cui lavora il politologo e di conferire maggiore precisione all’argomentazione. Si vedrà così che la maggior parte degli studiosi intende per politica una prassi intenzionata (ossia dotata di scopi) che struttura campi di svolgimento particolari. In altri termini, la politica viene intesa come una modalità di (inter)azione che si differenzia per certe caratteristiche (da identificare) da altri tipi di agire sociale, a fronte della quale il politico si pone come l’ambito derivato, lo spazio di esecuzione, il campo che dall’azione politica viene variabilmente conformato e in cui si muovono diversi tipi di attori e di istituzioni (S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., pp. 23-26, passim). 6. La nascita della scienza politica La scienza politica contemporanea deve la sua nascita all’incontro fra un processo storico e un’innovazione culturale. Il processo storico è rappresentato dalla democratizzazione delle società occidentali. Si può dire che così come la sociologia nasce per fronteggiare cognitivamente l’avvento della società industriale, allo stesso modo la scienza politica si afferma, a cavallo fra Ottocento e Novecento, per rispondere alla sfida intellettuale rappresentata dalla democrazia. La democratizzazione delle società europee, nel corso dell’Ottocento, rende progressivamente obsolete le vecchie 12 “scienze dello stato”. Con la democratizzazione la politica “deborda” dai confini dello stato: l’identificazione fra “stato” e “politica”, propria dell’età pre-democratica, perde progressivamente di credibilità. Il problema della democrazia diventa così il problema centrale per gli studiosi di politica. Decifrare (e, nel loro caso, anche “demistificare”) la democrazia è, ad esempio, il compito principale affrontato dalle teorie degli elitisti italiani (Gaetano Mosca in primo luogo, ma anche Roberto Michels e Vilfredo Pareto) cui, correttamente, si fa per lo più risalire l’atto di nascita della scienza politica contemporanea (la data di nascita convenzionale è il 1896, anno della prima edizione degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca). L’innovazione culturale è rappresentata invece dall’impulso che il positivismo, nell’Ottocento, e il neopositivismo, nel Novecento, danno alle scienze sociali empiriche, sulla base dell’idea che sia possibile applicare al campo delle azioni e delle istituzioni sociali metodi di studio, se non identici, quanto meno analoghi a quelli sperimentati con successo nello studio dei fenomeni naturali. È nel corso di questo sommovimento che l’analisi della politica dà segni inequivocabili di volersi emancipare dai suoi intensi legami con la riflessione filosofica e giuridica per riorientarsi verso un modo di procedere più sistematico e circoscritto nei temi da indagare, empirico nei metodi di analisi e rigoroso nelle tecniche di controllo, meno vincolato dalle ipoteche giuridiche e normative dell’allora imperante “dottrina dello Stato” (A. Panebianco, Scienza della politica, cit., p. 617; S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., pp. 7-8). 7. I paradigmi del politico In un secolo di scienza politica non si intravede, se non contingentemente e illusoriamente, una prospettiva interpretativa in grado di egemonizzare la disciplina e di definirne l’ortodossia; non emerge un programma di ricerca capace di orientare univocamente e stabilmente la formazione di teorie scientifiche cumu- 13 lative e di indicare alla comunità dei politologi in cosa credere, come lavorare, cosa includere e cosa escludere dal campo dei problemi e delle ipotesi di lavoro. Sembra lecito affermare che, nel corso di tutto il Novecento, la scienza politica, diversamente da altre scienze sociali, resta priva di un punto di vista dominante condiviso dal collegio invisibile dei suoi cultori. D’altro canto, dire che non si è affermato un paradigma politologico dominante non equivale a sostenere che la scienza politica sia rimasta una disciplina non-paradigmatica e prescientifica, ma semplicemente prendere atto del fatto che essa si è strutturata e istituzionalizzata nel corso dei decenni come una disciplina multi paradigmatica (S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., pp. 8-13). 8. Il paradigma statocentrico Contrariamente alla tradizione classica, per la quale il “politico” coincide col “sociale”, nell’età moderna la sfera della politica si sopraeleva e si restringe, nel senso che viene ricondotta all’idea di potere, di comando e, in ultima analisi, viene fatta coincidere con «l’attività e l’insieme delle attività che hanno in qualche modo come termine di riferimento la polis, cioè lo stato» (N. Bobbio, Politica, cit., p. 728). La riduzione del problema della politica a quello dello stato sovrano, ossia l’idea che lo stato territoriale sia il parametro esclusivo, o comunque essenziale e irrinunciabile, dell’agire politico, risale agli sviluppi cinque-seicenteschi della teoria politica moderna, è ricorrente nella tradizione del pensiero politico e caratterizza quello che potremmo definire (non senza una qualche forzatura) il paradigma statocentrico (o statalista). 9. Il power approach Distaccandosi, in misura significativa, dalla linea interpretativa tesa a porre l’entità statale come chiave di volta della politica, alcuni studiosi hanno stemperato l’enfasi sull’autonomia e sull’unitarietà dello stato a vantaggio di una più attenta considerazione sociologica delle dinamiche dei conflitti tra gruppi 14 sociali ed élites contrapposte. L’essenza della politica e la sua finalità ultima vengono individuate, in questa prospettiva, nella lotta incessante per il potere. Il rimando d’obbligo è qui alla celebre definizione weberiana, secondo la quale per politica si deve intendere, per l’appunto, «la direzione, oppure l’attività che influisce sulla direzione di un’associazione politica, cioè, oggi, di uno stato», o più perspicuamente «l’aspirazione a partecipare al potere o a influire sulla ripartizione del potere, sia tra gli stati sia, nell’ambito di uno stato, tra i gruppi di uomini compresi entro i suoi limiti». E per stato, scrive ancora Weber, «si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale, e nella misura in cui, l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti» (M. Weber, Economia e società, Milano, Comunità 1971, pp. 47-48). Quello del potere, insomma, costituisce in questa chiave se non il solo, comunque il principale perno concettuale su cui ruota l’analisi di tutti i fenomeni e i comportamenti politici. «Nell’intero lessico della scienza politica — annotano due tra i più illustri fautori del power approach, H.D. Lasswell e A. Kaplan — quello di potere è forse il concetto più fondamentale: il processo politico è la formazione, la distribuzione e l’esercizio del potere». Non diversamente, Bobbio afferma perentoriamente: «Non c’è teoria politica che non parta in qualche modo direttamente o indirettamente da una definizione di “potere” o da un’analisi del fenomeno del potere». E ancora: «Lo stato può essere definito come detentore del potere politico, e quindi come mezzo e fine dell’azione politica degli individui e dei gruppi in conflitto fra loro, in quanto è l’insieme delle istituzioni che in un determinato territorio dispongono, e sono in grado di valersi al momento opportuno, del monopolio della forza fisica per risolvere i conflitti fra gli individui e fra i gruppi...in quanto ne possiede il monopolio» (N. Bobbio, Stato, governo, società, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-67). Anche chi consenta sulla stretta interdipendenza, o addirtitura sull’interscambiabilità, tra la nozione di politica e quella di 15 potere non può tuttavia ignorare che quest’ultima è stata impiegata nella letteratura politologica e filosofica con diversi significati e accentuazioni, anche notevolmente difformi, a cui mette conto di accennare almeno di passata. Si possono distinguere tre concezioni fondamentali del potere: 1) la concezione sostanzialistica: il potere viene concepito come una cosa che si possiede e si usa alla stregua di un qualsiasi altro bene, come «l’insieme dei mezzi che permettono di conseguire gli effetti voluti» (B. Russell) (mezzi che possono essere doti naturali, come la forza e l’intelligenza, oppure acquisite, come la ricchezza); 2) la concezione soggettivistica: per “potere” si intende non la cosa che serve a raggiungere lo scopo, ma la capacità del soggetto di ottenere certi effetti, per cui si dice che «il fuoco ha il potere di fondere i metalli» allo stesso modo che il sovrano ha il potere di fare le leggi (J. Locke); 3) la concezione relazionale: per “potere” si deve intendere una relazione tra due soggetti di cui uno impone all’altro la propria volontà inducendolo ad agire in un modo in cui questi altrimenti non agirebbe (R. Dahl) (S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., pp. 73-78, passim). La concezione più accreditata è senz’altro quella relazionale. Come fenomeno sociale, il potere è generalmente inteso come una relazione tra azioni (potere attuale) o tra disposizioni ad agire (potere potenziale). Nella seconda accezione è la capacità di un attore di determinare la condotta di un altro attore; nella prima è la determinazione da parte di un attore della condotta di un altro attore. Si tratta evidentemente della stessa nozione, coniugata come facoltà ovvero come esercizio. Dire che il potere è una relazione di determinazione (attuale o potenziale) tra azioni equivale a dire che tra quelle azioni corre un rapporto di “causa”. Difatti, è generalmente riconosciuto che il potere sia una specie di causazione sociale. La nozione di causa, in questo caso, va interpretata non in senso stretto (o deterministico), ma in senso probabilistico: affermare che A esercita potere su B è affermare che l’azione x di A rende molto proba- 16 bile l’azione y di B. Secondo alcuni autori, poi, qualsiasi rapporto di causazione tra azioni può definirsi potere, indipendentemente dal “senso” che gli attori implicati nella relazione, e in particolare l’attore che esercita potere, attribuiscono al loro agire. Questa concezione è però in netto contrasto con gli usi tecnici dominanti del concetto di potere, a cominciare dalla definizione classica di Weber. Secondo tali usi la nozione di potere si àncora a uno specifico orientamento di senso, che accompagna l’azione dell’attore che esercita potere: l’intenzione, ossia la finalizzazione, da parte di A, della propria azione x, per il conseguimento dell’azione y di B. Conviene dunque definire il potere non già come causazione sociale tout court, bensì come causazione sociale intenzionale. Tuttavia, la suddetta conclusione non è ancora pienamente soddisfacente, perché esclude dall’ambito del potere rapporti tra azioni che, pur essendo privi del requisito dell’intenzione, sono ciò nonostante molto simili alla causazione sociale intenzionale: si pensi a quelle fattispecie di imitazione sociale non intenzionata che sono tuttavia nell’interesse degli attori imitati o, ancor più importante, si pensi alla cosiddetta regola delle reazioni previste, su cui ha brillantemente richiamato l’attenzione C.J. Friedrich (Man and His Government, 1963). Questa regola allude al fatto che i soggetti operanti in un campo sociale (=una pluralità più o meno numerosa di attori compresenti e interagenti) scontano anticipatamente il potere degli altri attori, anche in mancanza di un suo concreto esercizio; intesa nel suo significato originario (anticipazione delle reazioni altrui alla propria azione), o nella accezione più ampia che di essa ha dato H. Simon (non si anticipano solo le reazioni alle proprie azioni, ma anche le azioni altrui, per cui la propria azione è in realtà presa avendo riguardo non solo alle sue dirette conseguenze, ma anche alle previste iniziative altrui), essa dà nuovo significato alla distinzione tra potere coercitivo e potere consensuale e permette di superare la distinzione tra potere attuale e potere potenziale. Sembra dunque opportuno allargare il campo del potere anche alle relazioni nelle quali l’azione conseguente y di B, 17 benché causata in modo non intenzionale dall’azione x di A, corrisponda tuttavia a un interesse di A. Il potere può dunque essere definito come causazione sociale intenzionale e/o interessata (M. Stoppino, Potere e teoria politica, Giuffrè, Milano 2001, passim). A questo punto è necessario fare un passo ulteriore e interrogarsi più direttamente sulla natura del potere politico. Infatti, anche se si ritiene che la politica sia essenzialmente potere e lotta per il potere, non ne discende necessariamente che ogni specie di potere sia politico. Anche se molto spesso con il termine “potere” si intende in effetti alludere tout court al potere politico, quest’ultimo va piuttosto considerato come una species del genus potere, diversa da altre, con le quali è bensì in rapporto spesso simbiotico, ma da cui va tenuto analiticamente distinto. Ciò richiede di mettere a fuoco la differenza specifica del potere politico da quelle forme di potere che politiche non sono. Allo scopo di rinvenire l’elemento specifico del potere politico conviene adottare il criterio di classificazione delle varie forme di potere che si fonda sui mezzi di cui si serve il soggetto attivo del rapporto per condizionare il comportamento del soggetto passivo. In base a questo criterio si possono distinguere tre tipi principali di potere: 1) il potere economico: è quello che si vale del possesso di certi beni, necessari o ritenuti tali, in una situazione di scarsità, per indurre coloro che non li posseggono a tenere una certa condotta, consistente principalmente nell’esecuzione di un certo tipo di lavoro; 2) il potere ideologico: è quello che si vale del possesso di certe forme di sapere, dottrine, conoscenze e/o informazioni per esercitare un’influenza sul comportamento altrui; 3) il potere politico: è quello che si vale del possesso degli strumenti attraverso i quali si esercita la forza fisica (le armi d’ogni specie e grado); è il potere coattivo per eccellenza, quello cui tutti gli altri sono in qualche modo subordinati. Che la possibilità di ricorrere alla forza sia ciò che distingue il potere politico dalle altre forme di potere non vuol dire che 18 il potere politico si risolva nell’uso della forza: l’uso della forza è la condizione necessaria per la definizione del potere politico, non ancora la condizione sufficiente. Non qualunque gruppo sociale in grado di usare anche con una certa continuità la forza fisica (un’associazione a delinquere, un gruppo sovversivo, ecc.) esercita un potere politico. Ciò che caratterizza il potere politico è l’esclusività dell'uso della forza rispetto a tutti i gruppi che agiscono in un determinato contesto sociale, esclusività che è il risultato di un processo svolgentesi in ogni società organizzata verso la monopolizzazione del possesso e dell’uso dei mezzi con cui è possibile esercitare la coazione fisica. Questo processo di monopolizzazione va di pari passo con il processo di criminalizzazione e di penalizzazione di tutti gli atti di violenza che non siano compiuti da persone autorizzate dai detentori e beneficiari di questo monopolio. Chi ha il diritto esclusivo di usare la forza su un determinato territorio è il sovrano. Siccome la forza è il mezzo più risolutivo per esercitare il dominio dell’uomo sull’uomo, chi detiene l’uso di questo mezzo ad esclusione di tutti gli altri entro certi confini è colui che entro quei confini ha la sovranità intesa come summa potestas, come potere supremo. Se l’uso della forza è la condizione necessaria del potere politico, solo l’uso esclusivo di questo potere ne è anche la condizione sufficiente. Nell’ipotesi hobbesiana che sta a fondamento della teoria moderna dello stato, il passaggio dallo stato di natura alla società civile, ovvero dallo stato apolitico allo stato politico, avviene quando gli individui rinunciano al diritto di usare ciascuno la propria forza (diritto che li rende uguali nello stato di natura) per rimetterlo nelle mani di un’unica persona o di un unico corpo (il Leviatano, cioè il sovrano) che d’ora in poi sarà il solo autorizzato a usare la forza nei loro riguardi. La supremazia della forza fisica come strumento di potere rispetto a tutte le altre forme di potere appare evidente ove si consideri che mentre vi sono gruppi politici organizzati che hanno potuto consentire la demonopolizzazione del potere ideologico e di quello economico (nello stato liberal-democratico, ad 19 esempio, v’è libertà del dissenso e pluralità dei centri di potere economico), nessun gruppo sociale organizzato ha sinora potuto consentire la demonopolizzazione del potere coattivo, perché tale potere è quello di cui ogni gruppo sociale ha bisogno per difendersi da attacchi esterni o per impedire la propria disgregazione interna (S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., pp. 78-90). Bobbio riassume nel modo seguente i tre attributi differenziali del potere politico, che a suo avviso servono a distinguerlo dai tipi di potere non politico e che ne fanno «il potere supremo in un determinato gruppo sociale», il potere dei poteri, sovraordinato rispetto a tutti gli altri: 1) l’esclusività: chi lo detiene non consente che nel suo ambito di dominio si formino gruppi che possano contrastarne il monopolio sanzionatorio; 2) l’universalità: il detentore è il solo che può prendere decisioni legittime di qualsiasi natura suscettibili di valere erga omnes, per tutta la collettività; 3) l’inclusività: il detentore è legittimato ad intervenire in ogni sfera di attività comunitaria attraverso l’ordinamento giuridico. Nonostante possibili autolimitazioni, quello politico è perciò in via di principio, anche se non sempre di fatto, un potere totale o totalitario (N. Bobbio, Stato, governo, società, cit., p. 68). Tocca, infine, ricordare Weber, il quale, dopo aver definito il potere (Herrschaft), distinto dalla mera forza (Macht), come il potere che riesce a condizionare il comportamento dei membri di un gruppo sociale emettendo comandi che vengono abitualmente obbediti in quanto il loro contenuto è assunto come massima dell’agire, distingue tre tipi puri o ideali di potere legittimo: 1) il potere tradizionale: il motivo dell’obbedienza è la credenza nella sacertà della persona del sovrano, sacertà che deriva dalla forza di ciò che dura da tempo, di ciò che è sempre stato e, poiché è sempre stato, non c’è ragione di cambiarlo; 2) il potere legale-razionale: il motivo dell’obbedienza è la credenza nella razionalità del comportamento conforme alla legge, cioè a norme generali ed astratte che istituiscono un rapporto impersonale fra governante e governato; 20 3) il potere carismatico: il motivo dell’obbedienza è la credenza nelle doti straordinarie del leader, del capo (S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., p. 88). 10. L’analisi sistemica della politica Tra i diversi modi di studiare i fenomeni politici, a partire dagli anni Cinquanta ha preso quota, nell’ambito del comportamentismo, l’approccio cosiddetto sistemico. Sulla scorta degli insegnamenti provenienti dalla biologia e dalla cibernetica, il system approach propone una strategia concettuale unificata per tutte le scienze, sia dell’uomo che della natura, imperniata sul concetto di “sistema”. Trattare un oggetto come un sistema significa formulare due ipotesi semplici quanto realistiche: 1) che le condizioni dell’oggetto a un momento dato sono il prodotto di un continuo scambio di materia ed energia con il suo ambiente; e 2) che una modifica delle condizioni di una parte dell’oggetto avrà conseguenze prevedibili sulle condizioni di altre parti del medesimo oggetto. La prima condizione mette in rilievo le relazioni tra il sistema e l’ambiente (environment) in cui esso è immerso, dal quale è diviso da confini (boundaries), ma con il quale effettua continue transazioni da cui esce trasformato. Lo scambio sistema-ambiente è rappresentabile come un circuito cibernetico, ossia come un flusso continuo di immissioni (inputs) che vengono elaborate dal sistema e convertite in emissioni (outputs): queste, ricadendo nell’ambiente, lo modificano e consentono al processo di ripartire ad un nuovo livello (feed-back). La seconda parte della definizione sopra richiamata mette in evidenza le proprietà interne di un sistema, che, in estrema sintesi, possono essere ridotte a tre: l’interdipendenza, l’unità, l’autoregolazione. In base al primo di questi attributi, un sistema (si pensi al sistema solare, o al linguaggio, o senz’altro al sistema politico) si distingue da un aggregato, ossia da una semplice sommatoria, da una giustapposizione o vicinanza di parti (ad esempio, da una catasta di legname, o da un mucchio di pietre), in quanto costitui- 21 sce «un ordine le cui differenti parti si sostengono mutuamente tutte» (Condillac). Nessuna parte del sistema può cambiare significativamente senza costringere tutte le altre, e l’intero sistema, a modificarsi. Vedere nell’interdipendenza il criterio di individuazione di un sistema significa porre al centro della definizione non già i singoli enti e i loro attributi, ma i rapporti che li legano, la loro sintassi. Un sistema non è pertanto riducibile alla somma delle sue parti e non può essere analizzato e compreso nei suoi comportamenti a partire dalle proprietà delle sue componenti, ma solo in quanto unità-totalità. In terzo luogo, ogni sistema è caratterizzato al suo interno da attività di base (funzioni) che tendono a garantirne la stabilità e la permanenza di fronte alle sollecitazioni e ai disturbi che provengono dall’ambiente. Definiamo autoregolazione il processo omeostatico in base al quale un sistema tende a ricostituire incessantemente il suo equilibrio e a mantenere nel tempo la sua identità (ossia le sue funzioni fondamentali) pur in presenza di stimoli che lo trasformano. Lo strumento fondamentale di cui un sistema aperto (o vivente) dispone a tal fine è costituito dal meccanismo di retroazione (feed-back), in virtù del quale esso reagisce agli effetti prodotti nell’ambiente dalla sua azione precedente e si adatta al nuovo stato (S. Belligni, Cinque idee di politica, cit., pp. 117-24, passim). In virtù della sua apparente capacità di semplificare e al contempo di trattare unitariamente la vita politica, l’approccio sistemico ha assunto e mantenuto a lungo una posizione privilegiata nelle discipline politologiche. Tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, la system analysis è divenuta se non il paradigma dominante nella scienza politica di orientamento empirico, certamente uno strumento analitico di largo impiego, capace di detronizzare per un lungo periodo le più blasonate categorie di stato e di potere. Al punto che si è arrivati a sostenere che «chiunque intenda studiare scientificamente la politica deve pensare, almeno implicitamente, che essa funziona come una specie di sistema» (D. Easton). 22 Formulata per la prima volta da David Easton nel 1953, la teoria sistemica della politica propone di analizzare la vita politica in chiave, per l’appunto, sistemica: la politica, secondo la definizione datane da Easton, è «l’assegnazione imperativa di valori per una società»; e il sistema politico è «l’insieme dei modelli di interazione attraverso cui vengono assegnati i valori in una società e le assegnazioni vengono accettate come autoritative dalla maggior parte delle persone della società il più delle volte». Tracciate queste coordinate generali, esaminiamo più da presso il sistema politico nel suo funzionamento tipico. In prima approssimazione, il processo sistemico è schematizzabile come un flusso stimoli-risposte, ossia come un processo di conversione di immissioni (inputs) provenienti da un ambiente in emissioni (outputs). La specificità del sistema politico rispetto ad altri (sotto)sistemi risiede essenzialmente nel carattere delle sue emissioni, vale a dire nella loro natura imperativa generalizzabile all’intero contesto territoriale entro cui hanno corso: «Quando parliamo di sistema politico vi includiamo tutte quelle interazioni che riguardano l’uso di coercizione fisica legittima» (Almond e Powell). Un sistema formula decisioni che sono qualitativamente diverse da quelle degli altri sottosistemi, per il fatto che esse hanno validità erga omnes, sono cioè vincolanti per la generalità dei membri della società su cui il sistema politico ha giurisdizione. Tali ordini hanno inoltre un’elevata (per quanto variabile) probabilità di essere accettati ed eseguiti, senza dover essere imposti con la forza, del cui monopolio legittimo pure il sistema dispone (per inciso, si noterà che il sistema politico condivide le proprietà che abbiamo in precedenza attribuito alle categorie di stato e di potere politico, con le quali tale concetto è per questi profili, ma solo per questi, interscambiabile). Le decisioni autoritative (e le azioni che le realizzano) sono però il prodotto della fase terminale (di “uscita”) del processo politico. Le fasi logicamente precedenti sono costituite dai momenti di immissione e di conversione. Il punto di avvio è dato dagli input, che collegano “in entrata” il sistema politico al suo ambiente e che costituiscono delle sfide a cui occorre rispondere. 23 Tali immissioni sono riducibili per astrazione a due classi di attività fondamentali: inputs di domanda e inputs di sostegno. Il processo politico è messo in moto quando gruppi o individui formulano una domanda politica. Le domande politiche sono richieste più o meno generali ed esplicite di allocazioni autoritative di valori rivolte alle autorità pubbliche, che nascono nell’ambiente di un sistema politico o al suo stesso interno (in questo caso si dovrà parlare di withinputs, ossia di immissioni endogene, che si formano entro le strutture del sistema politico). Perché le domande vengano accolte e trattate dal sistema politico è necessario che siano accompagnate da sostegno. «Diciamo che A sostiene B quando A agisce a favore di B o quando si atteggia favorevolmente nei confronti di B, sia ques’ultimo una persona o un gruppo, un obiettivo, un’idea, un’istituzione» (D. Easton). Nel primo caso si tratterà di azioni di sostegno aperto e attivo; nel secondo caso, di atteggiamenti o sentimenti di sostegno sommerso e passivo, che nel loro complesso costituiscono la cultura politica (civic culture) di un sistema. Più precisamente, il concetto di cultura politica riguarda l’insieme degli atteggiamenti, delle credenze, dei valori politici, delle inclinazioni psicologiche manifeste e latenti, che sul piano cognitivo, affettivo e valutativo prevalgono in una popolazione o in qualcuno dei suoi sottosistemi (si parlerà in tal caso di subculture), secondo modelli di distribuzione persistenti nel tempo. Il conferimento o il ritiro del sostegno può riguardare livelli e aspetti diversi del sistema politico, gerarchicamente ordinabili, come la comunità politica, il regime, le autorità. Per comunità politica si intende un gruppo di persone tenute insieme dalla divisione politica del lavoro, dal fatto cioè di condividere una comune dimensione politica di riferimento, al di là delle specifiche tradizioni e culture che possono dividerle: qualcosa che richiama la civitas dei Romani, o l’identità nazionale dei moderni. Il regime invece è l’ordine costituzionale formale e materiale su cui una comunità si basa, l’insieme dei principi e delle regole del gioco, scritte o non scritte (valori, norme e codici di 24 autorità e di comportamento) che presiedono alle interazioni politiche in un dato spazio territoriale; per Easton, «la matrice generale delle aspettative generalizzate entro i cui limiti le azioni politiche sono normalmente considerate imperative». Le autorità, infine, sono coloro che occupano i ruoli e le strutture decisionali ai diversi livelli, in particolare (ma non esclusivamente) quelle formali di governo: presidente, ministri, parlamentari, alti burocrati, autorità locali. In generale, la persistenza di un sistema politico dipende essenzialmente dal mantenimento di un livello adeguato di sostegno, o, più precisamente, dalla capacità di amministrare e modulare i due differenti tipi di sostegno che un sistema politico ha a disposizione: il sostegno diffuso e il sostegno specifico. Per sostegno specifico si intende comunemente il consenso alle autorità governanti che deriva dalla soddisfazione (effettuale o virtuale) delle domande, o dalla realistica aspettativa che esse saranno soddisfatte in tempi ragionevoli. Si tratta, in altri termini, del risultato di un do ut des tra autorità politiche e destinatari o beneficiari di provvedimenti o prestazioni pubbliche. Questa transazione viene di regola concettualizzata (anche se non dai teorici dei sistemi) mediante la nozione di scambio politico. Tuttavia, l’evidenza dimostra che, a dispetto di prolungate frustrazioni delle aspettative di soddisfacimento delle richieste sociali molti sistemi politici hanno mantenuto un livello sufficiente di stabilità e di integrazione, senza dover ricorrere a una repressione generalizzata e soprattutto senza crollare. La tolleranza nei confronti di esiti politici immediati non desiderati può essere messa in relazione a un attaccamento di fondo alla comunità politica e al regime che fa premio sulla valutazione puntuale dei benefici ricevuti e che è concettualizzabile nei termini di sostegno diffuso. Esso consiste nel credito, nel capitale di legittimità che il sistema ha accumulato, nella benevolenza e lealtà accordategli dai cittadini sul medio-lungo periodo, indipendentemente dall’efficacia delle sue prestazioni quotidiane. La categoria di sostegno diffuso chiama evidentemente in causa la già evocata dimensione culturale della politica, che nell’ambito della 25 teoria sistemica ha ricevuto una particolare attenzione soprattutto ad opera di Gabriel Almond (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 137-45, passim). Tocca comunque osservare che, dopo il successo iniziale, l’approccio sistemico ha progressivamente perso la sua centralità nell’ambito degli studi politici, in ragione della difficoltà di utilizzare il sofisticato schema eastoniano nelle ricerche empiriche, ma soprattutto a causa della crisi del comportamentismo. Quando il comportamentismo si è esaurito, quando l’azione politica ha ricominciato a essere concepita come azione intenzionale, guidata da motivi e scopi, invece che come “comportamento”, meramente reattivo a stimoli esterni, l’approccio sistemico ha perso appeal. La scienza politica si è allora indirizzata alla ricerca di strumenti più adeguati allo studio dell’“azione dotata di senso”. 11. L’approccio della scelta razionale Il tentativo più ambizioso di superare l’indeterminatezza e la frammentazione delle scienze politiche e di fornire una visione unitaria e integrata dell’agire politico nel quadro di una più generale teoria dell’azione è quello basato sull’applicazione degli strumenti e dei metodi dell’economista al processo decisionale collettivo (o non di mercato). Secondo questo indirizzo metodologico, economia e politica rimandano a una medesima teoria generale dell’azione sociale ed è pertanto non solo legittimo, ma necessario applicare alla seconda i postulati e i concetti propri della prima, nella sua formulazione classica e/o neoclassica. Al pari della scienza economica, cioè, anche la scienza politica può e deve basarsi sulle nozioni di equilibrio, di domanda e offerta, di scambio, di concorrenza, ricorrendo nell’analisi delle scelte collettive (politiche) alle tecniche sperimentate nell’analisi dei processi di accordo volontario tra gli individui (di mercato). Questo approccio viene comunemente considerato come una specificazione della teoria della scelta razionale. Entrata nella scienza politica grazie ai lavori pionieristici di autori come 26 A. Downs, M. Olson e W.H. Riker, la teoria della scelta razionale ha guadagnato nell’ultimo trentennio una posizione di primo piano, se non addirittura egemone, nella politologia contemporanea (oltre che in altre discipline sociali), grazie al rigore formale e all’elegante parsimonia del metodo razionale-deduttivo. I presupposti assiomatici che caratterizzano l’approccio della scelta razionale sono stati precocemente presentati e discussi con rigore sistematico da Anthony Downs, in un lavoro “seminale” risalente alla metà degli anni Cinquanta (Teoria economica della democrazia), e successivamente ripresi, sviluppati e precisati da più autori. A fondamento di tutta la costruzione sta l’assunto pre-teorico della scomponibilità del processo politico fino al livello della scelta individuale, per cui l’individuo va considerato come l’unità analitica di base, in politica come in economia. L’opzione per l’individualismo metodologico si contrappone agli approcci olistici che caratterizzano parte della teoria politica tradizionale, secondo i quali gli “atomi” e le “molecole” della politica sono costituiti non da individui singoli o aggregati in gruppi, ma da entità primarie superiori, come stati-nazione, classi sociali, comunità naturali o storiche di vario genere. In secondo luogo, i moventi degli attori politici vanno riferiti alla stessa struttura assiomatica utilitaristica del self-interest che serve a interpretare l’azione economica privata, secondo cui l’individuo è riducibile ad un insieme di preferenze, egoistiche ed edonistiche, a una funzione di utilità. Homo oeconomicus e homo politicus condividono la stessa logica di scelta: economia privata (mercato) e politica pubblica (mercato politico) sono solo sistemi diversi di vincoli e incentivi. Sotto questo profilo, appaiono destituite di fondamento tutte quelle teorie, positive e normative, che considerano chi fa politica (operatore o dilettante) come benefattore disinteressato e la politica come individual-mente rivolta a realizzare il benessere sociale, il bene comune. La politica è, invece, il trionfo dell’egoismo edonistico, riscattato socialmente dall’intervento della mano invisibile o, in alternativa, di regole istituzionali esogene. 27 In terzo luogo, dalla teoria economica viene altresì mutuato e trasposto al comportamento politico l’assunto della scelta razionale. Anche l’homo politicus, come quello oeconomicus, impronta il suo agire alla razionalità rispetto allo scopo: il “cittadino razionale” (politico o elettore) «affronta ogni situazione con un occhio ai vantaggi e l’altro ai costi, con l’abilità di confrontarli, e con una spiccata tendenza a seguire la direzione in cui lo conduce la razionalità». Egli tende cioè a perseguire, nell’ambito delle sue specifiche prerogative e sfere d’azione, i propri obiettivi in modo efficiente, con il minimo impiego di risorse, assegnando un costo ad ogni evento e scegliendo opportunamente fra le alternative che si presentano» (A. Downs, Teoria economica della politica, Il Mulino, Bologna 1988, p. 38). Beninteso, assumendo a suo fondamento la razionalità dell’attore politico, l’approccio della scelta razionale è del tutto consapevole della presenza e dell’essenzialità delle componenti non razionali nell’agire umano. Ma ritiene che gli uomini dispongano, in quanto razionali, della capacità di pianificare i rimedi atti a scongiurare i rischi determinati dalle loro propensioni passionaliirrazionali: come Ulisse, che, sapendosi suggestionabile dal canto delle sirene, si fa legare all’albero maestro, essi progettano vincoli istituzionali autoritativi (collettivi) per impedirsi di cedere alle proprie inclinazioni auto ed etero-distruttive; assumono cioè impegni preliminari a cui, anche volendolo, non potrebbero sottrarsi, per resistere alla probabile debolezza del loro volere. Per esempio, secondo il modello hobbesiano, lo stato di natura è una situazione di conflitto permanente e di anarchia, dove vigono «il dominio delle passioni, la guerra, la paura». In siffatto scenario, la stessa conservazione della vita, che è per l’uomo il fine preminente, è in sommo pericolo, nella misura in cui ciascuno cerca di prevalere sugli altri, e la ricerca della pace non paga, non essendo reciprocamente garantita. L’unica via per rendere efficaci le leggi naturali, cioè per fare in modo che gli uomini agiscano secondo ragione e non secondo passione, è l’istituzione di un potere tanto forte da rendere svantaggiosa ogni azione contraria. Questo potere irresistibile è lo stato. Dunque, 28 per impedire che la libertà individuale si risolva in un danno collettivo (la “guerra di tutti contro tutti”), non bastando a scongiurare questa evenienza la presenza di istituzioni sociali spontanee (mercato, famiglia, consuetudini, buone maniere), gli individui progettano e costituiscono, attraverso un patto che è insieme un pactum societatis e un pactum subiectionis, istituti artificiali di tipo politico, il cui compito è di consentire la cooperazione e la riproduzione sociale. Va tuttavia rilevato che, controintuitivamente, la necessità di regole e istituzioni politiche sembra nascere, più che dalle anomalie individuali dovute a deficit di razionalità dei singoli, soprattutto dai paradossi della stessa “razionalità strumentale”, la quale, se non governata, in contesti interattivi governati da incertezza, conduce spontaneamente a risultati socialmente (e, di riflesso, anche individualmente) non voluti, perversi, insoddisfacenti, come dimostrano assai bene il cosiddetto “dilemma del prigioniero” e la teoria olsoniana del free rider (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 95-99, passim). Il “dilemma del prigioniero” è un gioco non cooperativo, in cui cioè non sono consentiti la comunicazione e il coordinamento fra gli attori. In una versione ipersemplificata, ma sufficiente ai nostri fini, tale modello può essere riassunto nei termini seguenti. Vi sono due prigionieri in attesa di processo impossibilitati a comunicare tra loro, ai quali sono offerte come opzioni alternative la collaborazione col giudice inquirente o l’omertà. Nel caso che essi si accusino reciprocamente del reato di cui sono imputati, la pena sarà di cinque anni. Se manterranno il silenzio entrambi verranno scarcerati dopo un anno, decorsi i termini di carcerazione preventiva. Se solo uno dei due accuserà l’altro, l’accusatore sarà libero subito, ma l’accusato dovrà scontare dieci anni di carcere. L’esito del gioco, data la razionalità degli attori e la mancanza di comunicazione tra loro, sarà di necessità collettivamente insoddisfacente in forza dello stesso orientamento razionale-egoistico dei giocatori. Infatti, ciascuno dei due prigionieri, per un verso, spera di sfruttare il silenzio dell’altro, uscendo subito di galera; per altro verso, teme che il complice 29 parli, e di dover perciò scontare, col proprio silenzio, dieci anni (il massimo) di pena. Entrambi adotteranno perciò un comportamento strategico teso a massimizzare l’utilità attesa: la strategia dominante sarà quella della reciproca delazione. Questa scelta, in sé razionale, condurrà però al risultato sub-ottimale di una condanna a cinque anni ciascuno, a fronte di un esito ottimale (in senso paretiano) di un anno ciascuno che sarebbe stato ottenuto col comune silenzio. Il “dilemma del prigioniero” descrive tipicamente l’esito non voluto di interazioni sociali non controllate, soggette all’incertezza, dove l’intervento di un terzo super partes, nella veste di coordinatore, o la presenza di un sistema di regole istituzionali, potrebbero evitare gli effetti perversi dell’aggregazione spontanea delle preferenze individuali. Dal modello emerge insomma con evidenza un possibile (per quanto a sua volta problematico) ruolo regolatore della politica a fronte del “fallimento sociale” delle interazioni volontarie o “negoziali” (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 106-7, passim). Il secondo dei contributi di matrice economica capace di dar conto, teleologicamente, della funzione dell’autorità politica è il modello del free rider (espressione traducibile in italiano con “portoghese”, o “parassita”, o “profittatore”), proposto nel 1965 da Mancur Olson nell’ambito della sua teoria dei gruppi (ma per più rispetti anticipato, da Hume fino a Downs) e divenuto molto popolare anche tra gli scienziati politici. Partendo anch’egli da un’idea di politica incentrata sul pa-radigma della scelta razionale individuale, Olson mette a fuoco in forma semplice ed elegante il nesso perverso che tende a istituirsi tra micromotivazioni degli individui e macroconseguenze che ne derivano sulle grandi organizzazioni (e in particolare sul sistema politico). Il nucleo del paradosso olsoniano è che il ricorso a strategie individuali massimizzanti dia luogo paradossalmente, all’interno dei “grandi gruppi”, a risultati non ottimali per quanto riguarda la disponibilità di beni pubblici. Ma vediamo meglio il ragionamento di Olson. Gli individui si raggruppano in organizzazioni politiche cooperative per 30 ottenere, attraverso varie modalità di partecipazione, vantaggi comuni, sotto forma di beni collettivi o pubblici, caratterizzati cioè dalla non rivalità nel consumo e dalla non escludibilità dal beneficio. Non rivalità nel consumo significa che, nella loro forma pura, i beni pubblici, una volta forniti ad un individuo, possono essere forniti a tutti gli altri senza costo aggiuntivo, in quanto il consumo di un individuo non è alternativo a quello di altri. Non escludibilità dal beneficio significa indivisibilità di tali beni e impossibilità di impedirne il godimento (ma anche l’autoesclusione) a chiunque si trovi sotto la giurisdizione dell’agenzia che li produce. L’esempio tipico è quello di un faro che illumina indifferentemente chi passa nel suo raggio di luce. Esempi di beni collettivi forniti da organizzazioni private (come un sindacato o un partito), oppure da agenzie pubbliche, sono i contratti collettivi di lavoro, la difesa nazionale, l’igiene pubblica, ecc.. Date tali caratteristiche di un bene pubblico, nessun individuo ha convenienza a offrire spontaneamente il proprio contributo alla sua produzione. C’è, in altri termini, un contrasto strutturale tra l’interesse di una collettività (o di un gruppo) a fruire di un certo bene pubblico in quantità ottimale e l’interesse individuale a non pagarne (sub specie di contribuzione monetaria, o comunque di azione partecipativa) i costi di produzione, in misura tale per cui i benefici marginali di ciascuno eguagliano i costi marginali. Ne discende che nei grandi gruppi, ove ciascun individuo ritiene fondatamente che il suo apporto alla produzione del bene collettivo desiderato sia pressoché ininfluente per determinare l’esito finale, la tendenza sarà a non partecipare (o a sottocontribuire), nascondendo le proprie preferenze. La produzione dei beni pubblici richiede pertanto — questa la conclusione di Olson — l’adozione di incentivi selettivi positivi o negativi; in particolare, in quel “grande gruppo” che è la comunità statale tali incentivi tendono ad assumere la forma negativa della coercizione (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 107-9, passim). 31 12. Il neoistituzionalismo L’offensiva comportamentista contro il concetto di stato ottiene per un quindicennio una vittoria schiacciante nella comunità scientifica, come testimonia il fatto che, dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, il termine è pressoché scomparso dai lavori di scienza politica di matrice o di orientamento anglosassone. Molti autori, legati soprattutto alla tradizione del pensiero politico europeo-continentale, si sono tuttavia mostrati scettici riguardo alla possibilità di sbarazzarsi con troppa disinvoltura di un concetto così blasonato e radicato nella mentalità collettiva, sicché negli ultimi anni la reciproca implicazione tra stato e politica è stata a più riprese riaffermata, soprattutto da una prospettiva epistemologica e teorica collocata al crocevia tra scienza politica, sociologia dell’organizzazione ed economia: quella del neoistituzionalismo (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 57-63, passim). Il neoistituzionalismo è un approccio (cioè un insieme di principi metodologici, di concetti, di modelli teorici e di criteri di rilevanza) sviluppatosi nella seconda metà degli anni Ottanta (per opera di studiosi quali Zucker, Scott, Powell, Di Maggio, Olsen e March) sulla base di tre tratti distintivi. Il primo è un marcato interesse verso gli aspetti formalizzati e stabilizzati delle relazioni sociali: regole, norme, routine, procedure, strutture d’autorità, costituzioni, stati, regimi internazionali, ecc.. In secondo luogo, proprio in quanto focalizza la sua attenzione sugli aspetti stabili e persistenti della vita sociale, il neoistituzionalismo sottolinea l’importanza dei processi di lungo periodo all’interno dei quali si svolge l’attività umana: il passato conta, gli attori strutturano i loro piani più in base ai vincoli contratti in passato che ai loro obiettivi futuri, il cambiamento avviene all’interno di un tempo storico irreversibile e il presente è path dependent, cioè si spiega solo alla luce degli eventi trascorsi. Infine, il neoistituzionalismo si caratterizza per l’importanza attribuita all’analisi del contesto normativo e cognitivo all’interno del quale l’azione si svolge: gli individui agiscono in base alla percezione che hanno della realtà, al modo in cui 32 definiscono i problemi, alle soluzioni che hanno a disposizione, a quanto viene percepito come giusto, legittimo e appropriato. Detto altrimenti: l’homo politicus non esiste al di fuori di un contesto istituzionale di qualche natura, che ne definisca ruolo, obiettivi, strategie, interlocutori. L’analisi politica, pertanto, non può prescindere dalla dimensione istituzionale: l’ordine sociale non è mera interazione di individui, ma il prodotto di regolarità istituzionalmente strutturate (L. Lanzalaco, Istituzioni, organizzazioni, potere. Introduzione all’analisi istituzionale della politica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995). 13. Il paradigma dell’identità Il paradigma dell’identità ritiene, in primo luogo, che l’azione politica dell’individuo richiami necessariamente, come suo termine ineliminabile di riferimento, una qualche sorta di appartenenza, naturale o costruita socialmente, che lo subordina moralmente, conferendo senso e valore ai suoi comportamenti. Per conseguenza, fonti primarie di azione politica sono attori collettivi e non attori individuali: al centro della politica vi sono gli interessi a lunga scadenza (i destini) e i contrasti dei popoli, delle razze, delle classi, delle masse, o dell’umanità tout court, quali vengono interpretati dai movimenti e dalle forme associative e organizzative che li “costruiscono” e/o li rappresentano. Tutto ciò comporta una netta presa di distanza quanto meno dagli esiti più estremizzati dell’individualismo metodologico, che considera gli individui uti singuli come le unità elementari del politico, e della rational o collective choi-ce theory, che dalla teoria economica mutua e traspone al com-portamento politico l’assunto della scelta razionale, affermando che anche l’homo politicus, come quello oeconomicus, impronta il suo agire alla razionalità rispetto allo scopo (cioè tende a perseguire i propri obiettivi in modo efficiente, con il minimo impiego di risorse, assegnando un costo ad ogni evento e scegliendo opportunamente fra le alternative che gli si presentano). Secondo l’approccio delle identità collettive la partecipazione degli individui all’azione politica, in quanto mediata da appartenenze sociali, 33 non è intelligibile soltanto, né principalmente, attraverso i moduli della razionalità strategica, ma chiama in causa moventi di natura solidaristica, ritualistica, affettiva, sacrale, elementi culturali e simbolici irriducibili all’utilità. In secondo luogo, l’approccio delle identità collettive enfatizza la natura e la vocazione conflittuale, armata, comunque mai irenica della politica, il suo richiamare divisioni, turbamenti, lacerazioni, disordine, violenza, o comunque forti passioni di gruppo. Nelle versioni estreme di questo approccio, la sottolineatura dell’insopprimibile ostilità esistente tra gli uomini fa della lotta (o della guerra tout court) la relazione politica fondamentale (come è testimoniato dall’abituale ricorso a categorie e a metafore desunte dal linguaggio e dall’esperienza militare e bellica). Discende da tali premesse il terzo elemento caratterizzante l’approccio delle identità collettive: la dimensione temporale in cui l’agire politico si rende comprensibile non è la contingenza e il breve periodo, ma la lunga durata, interpretata dalla tradizione e dalla memoria storica (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 67-70, passim). Un modo classico di definire la politica, situabile nell’ambito della prospettiva sopra delineata, consiste nel ricondurla all’antitesi amico-nemico. Dal nesso tra politica, amicizia e inimicizia (topos assai frequentato della storia del pensiero politico, da Platone ad Aristotele, da Machiavelli a Hobbes, da Rousseau a Hegel) emerge, per l’individuazione della categoria del politico, la centralità della riflessione sul concetto di conflitto, con la sua manifestazione estrema che è la guerra. E qui si danno due orientamenti fondamentali: il primo assume il conflitto come un fattore di segno radicalmente negativo, come una patologia col-lettiva da espungere dal territorio del politico (il conflitto è un male, quando non è il male); il secondo, viceversa, assume il conflitto come l’essenza autentica, esclusiva e ineliminabile della categoria del politico. Si tratta, come si vede, di due orientamenti antitetici, anche se tocca osservare che, implicitamente o esplicitamente, almeno alcune delle dottrine riferibili al primo orientamento (si pensi a Saint-Simon), connettendo la realizzazione 34 dell’armonia definitiva nella storia con la fine della politica, finiscono per riconoscere che la politica in realtà coincide con il conflitto. Del resto, come nota Gianfranco Miglio (Guerra, pace e diritto), sembra esservi uno stretto nesso semantico fra i più antichi vocaboli usati dai Greci per indicare l’aggregazione politica e il conflitto armato: polis e polemos — nella forma arcaica ptolis e ptolemos — deriverebbero infatti da una comune radice pt, non (e quindi pre) indoeuropea. La paternità inequivocabile del filone delle concezioni conflittualistiche della politica spetta in questo secolo all’opera di Carl Schmitt, il quale, nel saggio Der Begriff des Politischen (1927), dopo aver rilevato che «la contrapposizione politica è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti amico/nemico», conclude giudicando la distinzione amico-nemico «immanente ad ogni comportamento politico». Ora, è fuor di dubbio che la concezione che esaurisce la politicità nella conflittualità trascura il carattere di essenziale ambivalenza del rapporto di tipo politico. Se per un verso, infatti, la politica esclude e si fa, potenzialmente o in atto, inimicizia, per un altro verso essa integra e aggrega. Certo, il rapporto politico è un rapporto “chiuso”, che esclude chi non fa parte di quella certa comunità, il quale perciò è straniero, fuori dai confini fisici e affettivi del gruppo, e per ciò stesso nemico, effettivo o virtuale. (Non a caso hostis — nemico pubblico, colui contro il quale combattiamo pubblicamente una guerra, nella sua differenza dall’inimicus, che è colui con il quale abbiamo rancori e odi privati — sta anche per straniero: in Cicerone, per esempio). Ma non c’è soltanto l’interazione (antinomia) tra amico e nemico, c’è anche l’interazione (aggregazione) tra amico e amico. Nel momento stesso in cui si assume la presenza dell’escluso, del nemico (e quindi del conflitto), va logicamente compresa nel politico la presenza dell’incluso, di colui che insieme ad altri forma e dà luogo alla sintesi politica, cioè l’amico. Anzi, è l’idea di solidarietà che (sempre logicamente) precede l’evento 35 dell’esclusione e la possibilità del conflitto: se prima non si formano i raggruppamenti sulla base delle rispettive solidarietà non è possibile alcuna lotta tra di essi. Il concetto di conflitto non esaurisce, dunque, il concetto di politica. Merita comunque osservare che la definizione di politica come rapporto amico-nemico, inerendo costitutivamente a tale rapporto l’uso della forza, non è affatto incompatibile con quella che fa riferimento al monopolio della coercizione fisica legittima: proprio in quanto il potere politico si caratterizza per l’esclusività dell’uso della forza rispetto a tutti i soggetti che agiscono in un determinato contesto sociale, esso è quel potere cui si fa appello per risolvere quei conflitti la cui non soluzione, affrontandosi i contendenti come “nemici”, avrebbe per effetto la disintegrazione della sintesi politica. Ciò conferma come il vero problema della politica non sia quello dell’eliminazione definitiva della conflittualità, ma quello dell’individuazione dei modi istituzionali più efficaci per affrontare e risolvere i conflitti (S. Belligni, Paradigmi del politico, cit., pp. 70-73; D. Fisichella, Lineamenti di scienza politica, La Nuova Italia, Roma 1988, passim). 36 EVOLUZIONE DEL SISTEMA ELETTORALE ITALIANO 1. La rappresentanza proporzionale della Prima Repubblica Dal 1946 al 1992 il sistema elettorale italiano è stato di tipo proporzionale, applicato in circoscrizioni piuttosto grandi, con scrutinio di lista, recupero dei resti e voto di preferenza. Più precisamente, nelle diverse circoscrizioni per la Camera venivano eletti all’incirca 20-22 deputati, ma nelle due circoscrizioni più grandi, Roma e Milano, venivano eletti più di cinquanta deputati. L’elettore votava per un partito e poteva attribuire da tre a quattro preferenze, a seconda del numero di deputati da eleggere in quella circoscrizione, esclusivamente per i candidati del partito prescelto, scrivendone il cognome oppure il numero di lista. In ciascuna circoscrizione i seggi venivano assegnati ai partiti che avessero ottenuto un quoziente pieno in almeno una circoscrizione, vale a dire all’incirca 60-65.000 voti, e raccolto almeno 300.000 voti su scala nazionale. Questa doppia soglia, tutt’altro che particolarmente elevata e drastica, servì però, ad esempio, a tagliare fuori dal parlamento nel 1972 il Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Pur avendo ottenuto su scala nazionale ben 648 mila voti, lo Psiup non riuscì ad ottenere nessun quoziente pieno, vale a dire ad eleggere direttamente un deputato in una circoscrizione. Naturalmente, molti altri piccoli partiti rimasero fuori dal parlamento italiano nel corso del tempo, e nelle stesse elezioni del 1972 sia il Manifesto (224 mila voti) che il Movimento politico dei lavoratori (120 mila voti) e il Partito comunista marxista-leninista (98 mila voti), ma il caso dello Psiup è rimasto di gran lunga il più significativo; tanto più che, al confronto, nel 1976 i liberali, con 478 mila voti, ebbero cinque seggi e Democrazia proletaria, con 556 mila voti, ne ebbe sei. 37 All’incirca un decimo complessivo dei seggi, grosso modo 63, venivano attribuiti, con il cosiddetto recupero dei resti nel Collegio unico nazionale, ai partiti che avevano ottenuto i migliori resti, vale a dire voti non utilizzati per l’elezione di deputati nelle varie circoscrizioni, purché avessero superato le due soglie di cui sopra. Cosicché, l’esito complessivo del sistema elettorale italiano era sostanzialmente proporzionale, con una adeguata corrispondenza fra percentuale di voti e percentuale di seggi, con limitata sovrarappresentanza dei partiti grandi, quelli al disopra del 15% dei voti, e limitata sottorappresentanza dei partiti più piccoli non geograficamente concentrati. Le preferenze espresse dagli elettori servivano a stabilire la graduatoria dei candidati di ciascuna lista di partito e quindi il loro ordine di elezione (e, in caso di decesso e di dimissioni, l’ordine di subentro). Adottata dopo una lunga, intensa e appassionata discussione in sede di Assemblea costituente, la rappresentanza proporzionale venne subito criticata, e ben presto se ne propose una riforma incisiva, se non truffaldina. Poco prima delle elezioni del 1953, la maggioranza centrista (Pli, DC, Pri, Psdi) guidata da Alcide De Gasperi fece approvare una riforma elettorale che le sinistre immediatamente e sarcasticamente definirono “legge truffa”. Il nuovo meccanismo, che mirava a rafforzare e stabilizzare la coalizione di governo, era tecnicamente piuttosto semplice. Alla lista o alla coalizione di liste che avessero dichiarato preventivamente il loro apparentamento e che avessero ottenuto il 50% più uno dei voti venivano attribuiti il 65% dei seggi. Insomma, era un premio di maggioranza, per quanto decisamente consistente, attribuito ad una maggioranza, per quanto non cementata e non obbligata a governare insieme. La legge truffa non scattò per mancanza di circa 57 mila voti, anche grazie alle defezioni dai partiti minori di alcune importanti personalità politiche; tra queste Gaetano Salvemini, che ebbe a dichiarare: «Un partito che è al governo non può, alla vigilia di ogni elezione, prendendo a norma i risultati delle elezioni precedenti, proporre una nuova legge elettorale che gli assicuri 38 una maggioranza di mandati che altrimenti gli scapperebbe dalle mani. Se così facesse, non offrirebbe una nuova regola di gioco, ma vorrebbe barare al gioco. E chi lo aiutasse in quella manovra si renderebbe complice di una truffa». La legge truffa fu in seguito abrogata. Ebbe, comunque, una conseguenza politico-istituzionale di rilievo. Dopo di allora, risultò decisamente difficile proporre riforme nella e della rappresentanza proporzionale. Anzi, la rappresentanza proporzionale divenne sostanzialmente il codice operativo del sistema politico e del sistema partitico italiani. Creò, mantenne e riprodusse cospicue rendite di posizione e di opposizione, per partiti e candidati, e notevoli aspettative per tutti coloro che aspiravano ad accedere al parlamento. Dal punto di vista operativo, la variante italiana di sistema elettorale proporzionale pagava il prezzo di un’ampia rappresentanza delle varie opinioni politiche con una notevole difficoltà nella formazione di coalizioni di governo e con la crescente impraticabilità di un’alternanza fra coalizioni. Inoltre, lungi dall’essere uno strumento grazie al quale gli elettori sceglievano i candidati preferiti all’interno della lista del partito votato, e quindi temperavano il potere degli apparati di partito, il voto di preferenza produsse una serie di inconvenienti vieppiù gravi. Sul versante del rapporto fra candidati ed elettori, il voto di preferenza incoraggiava il cosiddetto voto di scambio. Con questo voto, l’elettore dava la sua preferenza al candidato in cambio della promessa di risorse pregiate: un lavoro, una licenza commerciale, una pensione di invalidità, l’intermediazione con una burocrazia inefficiente e corrotta, politicamente sollecitabile. Sul versante del rapporto fra candidati, il voto di preferenza incoraggiava sia la competizione fra di loro all’interno della stessa lista di partito che le intese fra alcuni di loro nella modalità definita “cordata”. Più candidati si accordavano per fare convergere le preferenze del loro specifico elettorato su candidati amici che disponessero di voti di preferenza ugualmente controllabili e attivabili che potevano essere riversati vicendevolmente. Sul versante del partito, la conseguenza era che 39 le cordate di candidati, una volta entrate in parlamento, davano vita a correnti organizzate, sotto la guida di un capocorrente riconosciuto, alla ricerca di cariche di governo che riproducessero le risorse politico-economi-che e il consenso elettorale, con il conseguente inquinamento di tutto il processo decisionale parlamentare e governativo. Comprensibilmente, i partiti di governo, in primis la Democrazia cristiana e ben presto il Partito socialista, erano quelli maggiormente interessati al voto di preferenza e maggiormente colpiti dalle sue conseguenze politicamente negative, ma anche elettoralmente positive. Dal canto suo, il Partito comunista faceva un uso sapiente del voto di preferenza per eleggere candidati predeterminati grazie al controllo delle preferenze esprimibili dai suoi iscritti. Per ragioni legate ad un maggior ricorso al voto di scambio e ad una maggiore personalizzazione della politica, era l’elettorato meridionale ad esprimere la più elevata percentuale di preferenze. La carica di corruzione insita nel voto di preferenza lo sottopose a numerose e severe critiche, controbilanciate soltanto dal timore che l’abolizione del voto di preferenza e il conseguente passaggio alla lista bloccata consegnassero sia la selezione dei candidati che, in special modo, l’elezione dei parlamentari completamente nelle mani degli apparati dei partiti, dei loro segretari, dei capicorrente. Ci sarebbe voluto un referendum popolare abrogativo nel 1991 per ridurre il numero di preferenze ad una sola, con l’obbligo di scrivere per esteso il cognome del candidato prescelto al fine di evitare i molti brogli che avevano contraddistinto il sistema (G. Pasquino, Il sistema e il comportamento elettorale, in Id., a cura di, La politica italiana. Dizionario critico 1945-95, Laterza, Bari 1995, pp. 135-38). 2. Il Mattarellum Il termine Mattarellum, coniato e in seguito abitualmente utilizzato da Sartori, si riferisce, con evidenti connotazioni 40 critiche e beffarde, alla legge elettorale elaborata dal deputato del Partito popolare Mattarella nell’estate del 1993, a recepimento dell’esito del referendum del 18 aprile 1993, giorno in cui 37 milioni di elettori (pari al 77,1%) si recarono alle urne e si espressero quasi plebiscitariamente (82,7%) in favore del quesito che mirava a rendere per tre quarti maggioritario (in collegi uninominali) e per un quarto proporzionale il sistema elettorale del Senato. Il nuovo sistema elettorale per il Senato e per la Camera si configurava come un sistema misto. I seggi spettanti a ciascuna delle regioni, per l’elezione del Senato, e a ciascuna delle circoscrizioni, per l’elezione della Camera, erano infatti assegnati per tre quarti (75%) con il sistema maggioritario in un unico turno di votazione e per un quarto (25%) con il sistema proporzionale. Complessivamente, 232 senatori (su 315) e 475 deputati (su 630) erano eletti con il sistema maggioritario in altrettanti collegi uninominali. I restanti seggi, 83 per il Senato e 155 per la Camera, costituivano la quota destinata al recupero proporzionale. Questo si effettuava sul piano regionale per il Senato e su base nazionale (con successiva restituzione alle circoscrizioni) per la Camera. Il voto per il Senato Per l’elezione del Senato l’elettore riceveva un’unica scheda nella quale erano riportati i nomi dei candidati in competizione nel collegio. Accanto a ciascun nome appariva il simbolo del partito o gruppo politico a cui apparteneva il candidato. L’elezione del 75% dei senatori avveniva, come si è detto, con il sistema maggioritario: era eletto il candidato che risultava più votato in ciascun collegio, qualunque fosse il numero dei voti ottenuti. Tra i candidati non eletti nei collegi era ripartito, nell’ambito di ciascuna regione, il restante 25% dei seggi. A tale scopo si teneva conto, per ciascun gruppo politico, del totale dei voti validi ottenuti nella regione dai candidati non eletti contraddistinti dallo stesso simbolo. I seggi erano assegnati 41 proporzionalmente ai voti ottenuti da ciascun gruppo. All’interno di ciascun gruppo erano proclamati eletti nell’ordine i candidati che avevano riportato le più alte percentuali di voto nei rispettivi collegi. Il voto per la Camera Per l’elezione della Camera l’elettore riceveva due diverse schede. Con la prima scheda l’elettore votava per scegliere il deputato del proprio collegio; in ciascuno dei 475 collegi risultava eletto il candidato che aveva ottenuto più voti. Con la seconda scheda l’elettore votava per una delle liste di partito presenti nella circoscrizione e che concorrevano per l’attribuzione con metodo proporzionale dei restanti 155 seggi. La ripartizione proporzionale avveniva tra le sole liste che avessero ottenuto almeno il 4% del totale dei voti validi sull’intero territorio nazionale. Ciascun candidato per l’elezione nel collegio uninominale doveva obbligatoriamente collegarsi con una o più liste che partecipavano al riparto dei seggi proporzionali della circoscrizione. Non erano ammesse perciò candidature non collegate ad alcuna lista. Né era possibile alla stessa persona candidarsi in più di un collegio uninominale, mentre era possibile candidarsi, oltre che nel collegio, anche nella parte proporzionale. Se ogni candidato doveva collegarsi ad una lista non era, invece, obbligatorio l’inverso: potevano esservi, cioè, liste che partecipavano soltanto alla ripartizione dei seggi della parte proporzionale e che non presentavano propri candidati nei collegi uninominali. Dal punto di vista dell’elettore la doppia scheda consentiva un’ampia libertà di scelta: l’elettore, infatti, poteva scegliere il candidato che riteneva più adatto a rappresentare il proprio collegio e, nello stesso tempo, poteva votare, sulla seconda scheda, la lista (cioè il partito) che considerava più vicino alle proprie idee. La scheda per l’elezione dei candidati nei collegi uninominali della Camera era simile a quella utilizzata per l’elezione del Senato. Con una differenza: accanto al nome di 42 ciascun candidato poteva comparire più di un simbolo (fino a un massimo di cinque). Qualora un candidato fosse collegato a più di cinque liste doveva scegliere con quali simboli corrispondenti essere contraddistinto sulla scheda. Il candidato collegato a più di una lista poteva, invece, se lo riteneva, avvalersi di un simbolo differente da quelli delle liste a lui collegate, per sottolineare il valore unitario della candidatura. La scheda per l’attribuzione dei seggi con il sistema proporzionale riportava, accanto a ciascun simbolo, i nomi dei candidati della lista circoscrizionale. Ciascuna lista non poteva presentare candidati in misura superiore a un terzo dei seggi spettanti alla circoscrizione (a seconda dei casi, dunque, le liste erano formate da un minimo di uno a un massimo di quattro candidati) ed era bloccata: se ad essa spettavano degli eletti, questi venivano proclamati secondo l’ordine in cui i nomi comparivano sulla scheda. Come si è detto, potevano partecipare alla ripartizione proporzionale solo quelle liste che avessero ottenuto almeno il 4% del totale nazionale dei voti espressi con la seconda scheda. Una volta stabilito quali liste erano ammesse alla ripartizione proporzionale, si trattava di distribuire tra di esse i 155 seggi. Il meccanismo dello scorporo È a questo punto che veniva introdotto il cosiddetto scorporo, un meccanismo finalizzato ad accrescere le possibilità di conquista dei seggi proporzionali per le liste che avessero riportato poche vittorie (o nessuna) nei collegi uninominali. Per far ciò si scorporava, cioè si sottraeva a ciascuna delle liste una parte dei voti ottenuti nei collegi uninominali dagli eletti collegati alle liste stesse: la sottrazione non riguardava, infatti, tutti i voti ottenuti dai candidati vincitori nei collegi uninominali, ma soltanto il numero minimo necessario per la vittoria, che corrispondeva al numero dei voti ottenuto dal candidato arrivato secondo, aumentato di un voto. Se il candidato eletto nel collegio uninominale era collegato a più di una lista nella parte proporzionale, la sottrazione (sempre ai soli fini dell’attribuzione dei seggi proporzionali) veniva suddivisa tra le diverse liste 43 collegate in rapporto ai voti ottenuti da ciascuna di esse (con la seconda scheda). Determinato nei modi appena descritti il totale nazionale dei voti che ciascuna lista poteva utilizzare, si procedeva alla ripartizione complessiva dei 155 seggi, stabilendo quanti di essi spettassero a ciascuna lista. I seggi assegnati a ciascuna lista sul piano nazionale venivano poi ripartiti fra le circoscrizioni, tenendo conto dei risultati relativi conseguiti in ciascuna di esse. Infine, una volta determinato il numero degli eletti che in ogni circoscrizione spettava a ciascuna lista, venivano proclamati deputati i candidati presenti sulla scheda secondo il loro ordine nella lista stessa. Nel caso in cui il numero dei seggi cui una lista aveva diritto fosse superiore, nella circoscrizione, al numero dei candidati inseriti (da uno a quattro), venivano proclamati deputati i candidati non eletti nei collegi uninominali, fra quelli collegati alla lista considerata, che avevano riportato la più alta percentuale. 3. La riforma elettorale del centro-destra Vediamo gli elementi caratteristici dei nuovi sistemi elettorali approvati dalla Casa delle libertà (Cdl). Il plurale è d’obbligo perché anche in questo caso, come già con la legge Mattarella, siamo davanti a due sistemi elettorali con alcuni elementi simili ma con altri molto diversi. Il sistema elettorale della Camera Sia alla Camera che al Senato due sono gli elementi caratterizzanti del nuovo sistema elettorale: il premio di maggioranza e l’assegnazione del 100% dei seggi con formula proporzionale. Alla Camera il premio va alla coalizione di liste, o lista singola, che abbia ottenuto il maggior numero di voti a livello nazionale. Ad essa spettano almeno 340 seggi (pari al 54% dei seggi totali). Dopo un’iniziale ripartizione solo proporzionale dei seggi, che ha luogo in sede nazionale con applicazione del metodo del quoziente naturale e dei più alti resti, 44 si verifica se tale quota sia stata rispettata. Nel caso lo sia, il premio di maggioranza non scatta. Qualora invece non lo sia, alla coalizione (o lista) vincente sono attribuiti ulteriori seggi fino a raggiungere la cifra di 340 seggi; seggi che sono contestualmente sottratti alle coalizioni e/o liste singole perdenti, le quali si dividono proporzionalmente 277 seggi. Dei 13 sedici rimanenti, uno è assegnato al candidato vincente nel collegio uninominale della Valle d’Aosta e 12 sono riservati ai rappresentanti degli italiani residenti all’estero, questi ultimi eletti con metodo proporzionale tra liste concorrenti e con voto di preferenza. Alla Camera il premio è majority-assuring, tale cioè da assicurare alla compagine vincente una maggioranza assoluta (anzi, almeno il 54%) dei seggi; è inoltre eventuale, poiché scatta solo se la compagine vincente non è riuscita a conseguire per via proporzionale la quota prevista di seggi; è infine variabile nella sua entità, poiché assegna solo il numero di seggi strettamente necessario a far sì che la maggioranza raggiunga la cifra di 340. Le coalizioni di cui parla la legge elettorale sono il prodotto di dichiarazioni di collegamento reciproco tra le liste presentate da partiti o gruppi politici organizzati. Questi ultimi depositano un unico programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come unico capo della coalizione. Sulla scheda di votazione, però, le coalizioni non hanno una loro autonoma visibilità, separata da quella delle liste che le compongono, se non per il fatto che i contrassegni delle liste collegate ad esse appartenenti sono riprodotti di seguito, in linea verticale, uno sotto l’altro, su un’unica colonna. In altri termini, le coalizioni non sono contraddistinte da un loro simbolo, a meno che le rispettive liste lo inseriscano all’interno del proprio. Questo perché gli elettori hanno a disposizione un solo voto, con il quale scelgono solo una lista: i voti alla coalizione altro non sono che la somma dei voti di tutte le liste che ne fanno parte. Alla ripartizione dei seggi accedono: a) le coalizioni che abbiano conseguito almeno il 10% dei voti validi, purché contengano una lista con il 2% o più dei voti; b) le liste singole 45 (ossia non collegate in coalizione) che abbiano conseguito almeno il 4% dei voti validi; c) le liste collegate (ossia facenti parte delle coalizioni di cui al punto a) che abbiano conseguito almeno il 2% dei voti validi; d) per ciascuna coalizione, la lista collegata con il maggior numero di voti tra quelle con meno del 2%. Queste sono le quattro soglie di sbarramento previste dal sistema elettorale della Camera e valgono sia nel caso in cui il premio di maggioranza scatti sia nel caso in cui non scatti. Se superano la prima soglia ora menzionata, le coalizioni concorrono all’assegnazione dei seggi, ed eventualmente del premio, con i voti di tutte le liste che le compongono, quindi anche con i voti di quelle che non sono in grado di superare lo sbarramento e di ottenere dei seggi. Dopo aver distribuito (o redistribuito, qualora sia scattato il premio di maggioranza) i seggi tra le coalizioni (con almeno il 10% dei voti e contenti una lista con almeno il 2%) e le liste singole (con almeno il 4% dei voti), i seggi assegnati a ciascuna coalizione sono ripartiti, ancora a livello nazionale e con il metodo del quoziente naturale e dei più alti resti, tra le liste che ne fanno parte purché con il 2% dei voti. A questa ripartizione viene ammessa anche la lista con più voti tra quelle che sono rimaste sotto il 2%. Infine, si provvede alla distribuzione dei seggi così attribuiti alle 26 circoscrizioni in cui è diviso il territorio nazionale, con un meccanismo tale da garantire che ad ognuna di esse spetti il numero di seggi previsto ai sensi dell’art. 56 della Costituzione. Altra caratteristica molto importante della riforma è l’assenza del voto di preferenza. Infatti le liste circoscrizionali sono “bloccate”, quindi per ciascuna di esse sono eletti, nel rispettivo ordine di presentazione, candidati in numero pari ai seggi assegnati alle liste medesime. Il sistema elettorale del Senato Come alla Camera, anche al Senato la competizione avviene (con alcune eccezioni) tra liste bloccate di candidati, unite o no in coalizione, e il voto è unico. Tuttavia, come prima anticipato, vi sono importanti differenze inerenti al livello in cui ha luogo la ripartizione dei seggi, alle modalità di assegnazione del premio di 46 maggioranza e all’entità delle soglie di sbarramento. Il primo aspetto è decisivo: la ripartizione dei seggi avviene separatamente in ciascuna regione. Non esiste cioè un livello nazionale di riferimento. Ne deriva che anche il premio (o, meglio, i premi) di maggioranza e le soglie sono applicati in sede regionale. In pratica, non vi è alcuna garanzia che la coalizione o lista col maggior numero di voti sul piano nazionale ottenga la maggioranza assoluta dei seggi. In 17 regioni (tutte tranne Molise, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige) il sistema è analogo. L’attribuzione dei seggi avviene in primo luogo in ragione proporzionale (anche qui con il metodo del quoziente naturale e dei più alti resti) tra le coalizioni di liste e/o le liste singole che hanno superato le soglie di sbarramento, rispettivamente il 20% (purché all’interno della coalizione vi sia almeno una lista che abbia raggiunto il 3%) e l’8% dei voti. Si verifica quindi se la coalizione o singola lista con il maggior numero di voti nella regione ha ottenuto almeno il 55% dei seggi spettanti alla regione medesima. Se è così, allora il premio di maggioranza non scatta. Se non è così, il premio scatta (sempre regione per regione) e alla coalizione o lista vincente sono assegnati tanti seggi aggiuntivi quanti ne servono per raggiungere la quota del 55%, mentre un pari numero di seggi è sottratto alle altre coalizioni o liste. Che sia stato necessario o meno assegnare il premio, una volta determinati i seggi spettanti a ciascuna coalizione questi sono ripartiti internamente tra le liste collegate che abbiano ricevuto almeno il 3% dei voti su scala regionale. Anche in questo caso si utilizza il metodo del quoziente naturale e dei più alti resti. E anche in questo caso le liste sono bloccate. Per ogni lista sono eletti i candidati, secondo il loro ordine di presentazione, in numero corrispondente ai seggi attribuiti. Circa i sistemi delle altre tre regioni, quello applicato in Molise diverge dal modello appena descritto in quanto non è prevista l’attribuzione di un premio di maggioranza; i due seggi in palio sono dunque distribuiti proporzionalmente. La Valle d’Ao-sta è costituita in un unico collegio uninominale in cui 47 vince il candidato che ottiene più voti, così come accade alla Camera. Il Trentino-Alto Adige è costituito in sei collegi uninominali, mentre la restante quota di seggi spettanti alla regione (attualmente uno) è attribuita con metodo del recupero proporzionale, ossia tra i gruppi di candidati non risultati eletti nei rispettivi collegi uninominali. Vi è, infine, la circoscrizione “estero”, dove si applica un sistema proporzionale di lista e i sei senatori sono eletti con voto di preferenza. 4. Le critiche alla riforma elettorale del centrodestra Il diritto della maggioranza a cambiare le regole di voto, rivendicato dal centrodestra, esiste di fatto, tant’è vero che il sistema elettorale non è materia costituzionale: se i costituenti avessero voluto proteggere questa regola del gioco dalle insidie del principio di maggioranza l’avrebbero costituzionalizzata, invece non l’hanno fatto. Ma non v’è dubbio che, se si accetta la legittimità dell’uso del principio di maggioranza in materia elettorale, la conseguenza logica e politica è quella di inserire nel sistema delle regole un elemento di permanente instabilità. Ogni vincitore, infatti, sarà tentato di usare la posizione di vantaggio che si trova ad avere pro tempore per acquisire benefici di parte che gli consentano di non perdere le elezioni o di perdere meglio. Non è difficile immaginare con quali conseguenze nefaste sulla stabilità e sulla legittimità del sistema politico. Oltretutto, se si afferma la percezione che il sistema elettorale possa essere cambiato con relativa facilità, ne risulteranno vanificati gli effetti di lungo periodo. Gli incentivi posti da un sistema elettorale sono infatti una funzione della previsione di durata del sistema stesso: cambiare di continuo le regole elettorali vuol dire impedire che gli incentivi in esse contenuti sviluppino i loro effetti. Riforme elettorali frequenti sarebbero prive di effetti sul sistema partitico, se non quelle effimere connesse al conseguimento di benefici immediati, perché i partiti, invece di adattarsi alle regole vigenti, punterebbero a cambiarle. Per tutti questi motivi le regole del gioco, anche se non protette da una norma costituzionale, 48 dovrebbero far parte di una convenzione non scritta che le sottragga alla politica delle convenienze partigiane. Purtroppo così non è stato. Nel caso di questa riforma gli interessi di parte hanno chiaramente prevalso sugli interessi generali, i soli che avrebbero potuto legittimare l’uso del principio di maggioranza in una materia tanto delicata. Il nuovo sistema elettorale nasce dalla convergenza di due precisi interessi: da una parte quello di Berlusconi e di tutta la Casa delle libertà a limitare le perdite in caso di sconfitta alle prossime elezioni, dall’altra l’interesse in particolare dell’Udc di riconquistare autonomia e spazio di manovra. Questi obiettivi sono stati conseguiti eliminando i collegi uninominali, che nelle due ultime elezioni politiche avevano fortemente penalizzato il centrodestra (che ha ottenuto qui molti meno voti rispetto all’arena proporzionale), cancellando (in nome del voto unico alla lista di partito) il voto di coalizione, che premiava la coesione delle componenti partitiche e la “sommabilità” degli elettorati (versanti sui quali il centrodestra si è mostrato, ceteris paribus, più debole del centrosinistra), e introducendo un sistema sostanzialmente proporzionale. Questa riforma elettorale consolida o indebolisce il bipolarismo? Per certi aspetti il premio di maggioranza può essere considerato l’equivalente funzionale del collegio uninominale. Nel vecchio sistema era il collegio a tener insieme le coalizioni, con il nuovo sistema sarà il premio. Con il premio si vince ma per vincere i partiti devono coalizzarsi prima delle elezioni così come bisognava fare per conquistare i seggi nei collegi. Il premio quindi favorisce la formazione di coalizioni pre-elettorali e rappresenta dunque un incentivo alla conservazione di un assetto bipolare. Ma il premio contiene anche un paradosso che è impossibile eliminare. Nel nuovo sistema esso viene assegnato alla coalizione con più voti, indipendentemente dal loro ammontare. Potrebbero essere anche meno del 30%. Questo può incoraggiare alcuni partiti a tentare la strada del terzo polo. Ma il problema non è risolvibile semplicemente fissando una soglia (diciamo il 40%) per ottenere 49 il premio. Una soglia così alta diventa un incentivo a non entrare in coalizione per non fare scattare il premio, così da trasformare il sistema in un proporzionale senza correttivo. Non esiste via d’uscita sicura da questo paradosso, il che spiega perché nessuna democrazia oggi utilizza sistemi del genere. Certo, oggi è difficile immaginare che alla Camera possa nascere un terzo polo competitivo, in grado di conseguire sul piano nazionale oltre il 30% dei voti. Ma domani non è detto, soprattutto in presenza di un’ampia ristrutturazione degli allineamenti partitici. E in ogni caso c’è il Senato, dove la situazione è più favorevole a tentazioni “terzopoliste”. Qui il premio è regionale e non nazionale. Per scardinare il bipolarismo basta che ci siano uno o più partiti con un consistente radicamento territoriale in una o poche regioni. Vincendo in queste regioni avrebbero un numero di seggi sufficiente ad impedire il conseguimento della maggioranza parlamentare a una delle due coalizioni maggiori. Quindi il premio, pur avendo una funzione simile a quella del collegio uninominale, non rappresenta una garanzia che il bipolarismo sopravviva. Ma anche se così fosse il bipolarismo fondato sul premio di maggioranza sarà certamente un bipolarismo più debole di quello fondato sul collegio. Che alla fine si vinca o si perda, per avere seggi uninominali bisogna comunque fare parte di una coalizione; con il premio di maggioranza non è così. In questo caso la prospettiva di perdere indebolisce ancor di più il vincolo di coalizione e aumenta ulteriormente il potere di ricatto dei partiti “ribelli”. Infatti, visto che perdendo non si incassa il premio e non si va al governo, tanto vale star fuori e fare una campagna elettorale per conto proprio tenendosi le mani libere per il dopo. Da questo punto di vista un sistema proporzionale a premio di maggioranza funziona, per i presunti perdenti, né più né meno come un sistema proporzionale puro. Quindi, il bipolarismo fondato sul premio di maggioranza funziona per la coalizione vincente ma molto meno per quella perdente. 50 Ma anche se il bipolarismo sopravvivesse che bipolarismo sarebbe? Migliore o peggiore dell’attuale? Su un punto concordano quasi tutti: per migliorare le prospettive di governabilità del paese occorrono coalizioni meno frammentate e più coese, capaci quindi di dar vita a governi stabili e decidenti. Al di là di ogni altra considerazione, coalizioni più coese vuol dire coalizioni con meno partiti. Ma nemmeno su questo terreno, quello della riduzione della frammentazione del sistema partitico, è stato fatto un passo avanti decisivo. La soglia di sbarramento del 2% alla Camera è troppo bassa. Per di più è stato previsto il ripescaggio per il miglior partito di ogni coalizione che non arrivi al 2%. E comunque questa soglia non scoraggerà le coalizioni a presentare molte liste, poiché anche i pochi voti ottenuti da quelle ben al di sotto del 2% saranno utili per aggiudicarsi il premio. Dunque, avremo ancora a che fare con coalizioni molto ampie. Con una differenza negativa rispetto al passato: le coalizioni saranno altrettanto larghe, ma meno coese. Per cominciare non ci saranno più candidati e simboli comuni. Senza collegio uninominale spariscono i candidati di coalizione e restano solo le liste di partito, e per di più senza voto di preferenza. Con il 100% dei seggi assegnati proporzionalmente aumenterà la competizione tra i partiti dentro le coalizioni e quindi il tasso di litigiosità. La tendenza a sottolineare gli elementi di diversità, anziché quelli di unità, sarà maggiore per motivi di visibilità e di marketing elettorale. In aggiunta, il potere di ricatto dei piccoli partiti aumenterà, non diminuirà. Con il nuovo sistema qualunque partito sopra la soglia di sbarramento potrà permettersi di stare fuori di una coalizione, o solo minacciare di farlo, perché in ogni caso la sua sopravvivenza parlamentare sarà garantita. Prima la minaccia di non far parte di una coalizione era un’arma a doppio taglio: se fossero rimasti fuori avrebbero fatto danni agli altri, ma sarebbero spariti. Ora non è più così. L’assegnazione di tutti i seggi con formula proporzionale garantisce che ogni partito sopra-soglia abbia comunque una rappresentanza parlamentare quasi pari al suo peso elettorale anche correndo da solo. In 51 sintesi, avremo coalizioni più deboli e partiti più forti: non propriamente un viatico al rafforzamento della governabilità del sistema. Ma il vero pasticcio è il Senato, dove il problema di fondo è l’assegnazione del premio di maggioranza a livello regionale e non a livello nazionale. Ne potrebbero derivare quattro esiti negativi: il primo è che si produca a livello nazionale una maggioranza inferiore al 55%, anzi poco sopra al 50%, dei seggi totali, e quindi talmente risicata da compromettere stabilità ed efficienza del governo; il secondo è che l’esistenza stessa di una maggioranza finisca per dipendere dal voto dei sei senatori eletti dagli italiani eletti all’estero; il terzo è che il Senato esprima una maggioranza diversa da quella della Camera; il quarto è che a una maggioranza di voti non corrisponda una maggioranza di seggi (R. D’Alimonte, A. Chiaramente, Proporzionale ma non solo, «Il Mulino», LV, n. 423, n. 1, 2006, pp. 35-42, passim). 52