Non sono venuto per essere servito …..1
“Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per
chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Dì che questi miei
figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù:
«Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli
dicono: «Lo possiamo». Ed egli soggiunse: «Il mio calice lo berrete; però non sta a
me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i
quali è stato preparato dal Padre mio».
Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; 25ma Gesù,
chiamatili a sé, disse: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i
grandi esercitano su di esse il potere. 26Non così dovrà essere tra voi; ma colui
che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, 27e colui che vorrà
essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; 28appunto come il Figlio
dell`uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita
in riscatto per molti». (Matt. 20,20-28)
Che cos’è l’umiltà
In ebraico ad esprimere il concetto di umiltà prevale la radice 'anah [essere piegato,
abbassato]; shaphal [essere nel profondo, essere in basso]; kana [essere piegato,
umiliato]; dakah [colpire, calpestare], dal, dalal [essere piccolo, insignificante,
sprovveduto, senza voce]; jigah [colpire, affliggere]. Il sostantivo è 'anawah (da
'anah), umiltà [l'atteggiamento di colui che si piega]. In greco tapeinòs, di umile
condizione, inferiore, umile; tapeinòo, umiliare; tapeinòsis, umiliazione; tapeinòphron,
umile; tapeinophrosùne, umiltà.
Vi è una sostanziale differenza fra il concetto greco e quello ebraico d'umiltà. Nel
mondo greco, caratterizzato da un'immagine antropocentrica dell'uomo, la condizione
di inferiorità è una vergogna da evitare, qualcosa che va superato sia nel pensiero che
nell'azione. La concezione greca riflette l'indesiderabilità che l'uomo naturale sente per
l'umiltà: è qualcosa che va contro la sua natura, dominata dal peccato, il quale è
essenzialmente hybris, cioè arroganza. Nella Bibbia, caratterizzata da un'immagine
dell'uomo teocentrica, questa famiglia di vocaboli serve prevalentemente a designare
il fatto per il quale l'uomo è indotto ad un adeguato rapporto con Dio e con ciò anche
ad un adeguato rapporto con i suoi simili.
L'essere umano riconosce la sua creaturalità e il diritto di Dio ad essere Dio ed a
governare sulla sua vita. “Il timore del SIGNORE è scuola di saggezza; e l'umiltà
precede la gloria … Prima della rovina, il cuore dell'uomo s'innalza, ma l'umiltà
1
A cura di Don Giovanni Celi per incontro dirigenti 26/30 Agosto 2009 a Fai della Paganella (TN)
precede la gloria … Il frutto dell'umiltà e del timore del SIGNORE è ricchezza, gloria e
vita” (Pr. 15:33; 18:12; 22:4). “Cercate il SIGNORE, voi tutti umili della terra, che
mettete in pratica i suoi precetti! Cercate la giustizia, cercate l'umiltà!” (So. 2:3).
“…servendo il Signore con ogni umiltà, e con lacrime" (At. 20:19). Quest'umiltà sorge
dalla convinzione dei profeti che l'essere umano, fatto di polvere, totalmente
dipendente e peccatore, non ha nulla di cui vantarsi se non nel fatto che Dio si
rammenta di lui, gli dà la Sua grazia e lo redime: "Che cos'è l'uomo perché tu lo
ricordi? Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l'hai fatto solo di poco
inferiore a Dio, e l'hai coronato di gloria e d'onore" (Sl. 8:4,5). Il cristiano sa che non
possiede nulla che non abbia ricevuto, non è nulla se non per la grazia di Dio e, senza
Cristo non può fare nulla: " (Gv. 15:5).
Di fronte all'alterigia umana Dio non sta inattivo ed in silenzio, ma interviene con il
Suo giudizio. Dio, così, è Colui che nel Suo agire storico abbatte i superbi, mentre
elegge e redime coloro che sono stati umiliati.
Per il riformatore Calvino, solo l'umiltà esalta Dio come Sovrano. E' una componente
dell'abnegazione o del rinnegare sé stessi, dell'abbandono del confidare in noi stessi
(questa è la fede) e del "voler fare di testa nostra" [Calvino volle essere sepolto in una
tomba senza segni di riconoscimento].
Nell'Antico Testamento
- L'AT proclama che Dio sta vicino a chi è umile: "Infatti così parla Colui che è
l'Alto, l'eccelso, che abita l'eternità, e che si chiama il Santo. «Io dimoro nel luogo
eccelso e santo, ma sto vicino a chi è oppresso e umile di spirito per ravvivare lo
spirito degli umili, per ravvivare il cuore degli oppressi" (Is. 57:15), ed esige che
l'uomo "cammini umilmente" con Lui: "O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è
bene; che altro richiede da te il SIGNORE, se non che tu pratichi la giustizia, che tu
ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?" (Mi. 6:8).
- Condanna profetica dell'alterigia, esaltazione dell'umiltà. I profeti portano la
parola di condanna e di giudizio contro chi indebitamente si innalza ed ogni arroganza,
come annunciano ciò che Dio fa per liberare ed innalzare gli oppressi, gli umili e gli
afflitti. "Perciò l'uomo sarà umiliato; ognuno sarà abbassato. Tu non li perdonare. (...)
Lo sguardo altero dell'uomo sarà umiliato, e l'orgoglio di ognuno sarà abbassato; il
SIGNORE solo sarà esaltato in quel giorno. (...) L'alterigia dell'uomo sarà umiliata, e
l'orgoglio di ognuno sarà abbassato; il SIGNORE solo sarà esaltato in quel giorno" (Is.
2:9,11,17).
- L'atteggiamento del Servo del Signore. “Io ho presentato il mio dorso a chi mi
percoteva, e le mie guance a chi mi strappava la barba; io non ho nascosto il mio
vòlto agli insulti e agli sputi” (Is. 50:6). "Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la
bocca. Come l'agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la
tosa, egli non aprì la bocca" (Is. 53:7).
- I salmi ripropongono l'idea del Dio che abbatte e risolleva sullo sfondo di una
sicurezza che proviene da uno spirito di preghiera. La legge di Dio consola gli umili
perché garantisce i loro diritti. "O SIGNORE, tu esaudisci il desiderio degli umili; tu
fortifichi il cuor loro, porgi il tuo orecchio" (Sl. 10:17); "Chi è simile al SIGNORE, al
nostro Dio, che siede sul trono in alto, che si abbassa a guardare nei cieli e sulla
terra? Egli rialza il misero dalla polvere e solleva il povero dal letame, per farlo sedere
con i prìncipi, con i prìncipi del suo popolo" (Sl. 113:5-8).
- L'idea ritorna nella letteratura sapienziale come esperienza e regola di vita. Dio
"innalza quelli che erano abbassati e pone in salvo gli afflitti, in luogo elevato" (Gb.
5:11); "Se schernisce gli schernitori, fa grazia agli umili" (Pr. 3:34); "Il timore del
SIGNORE è scuola di saggezza; e l'umiltà precede la gloria" (Pr. 15:33); "Prima della
rovina, il cuore dell'uomo s'innalza, ma l'umiltà precede la gloria" (Pr. 18:12); "Il
frutto dell'umiltà e del timore del SIGNORE è ricchezza, gloria e vita" (Pr. 22:4).
Nei vangeli
La venuta di Gesù realizza le profezie dell'AT: condanna chi si esalta, prevarica ed
opprime ed eleva tutti coloro che sono umili e "non contano". Il Cantico di Maria,
madre di Gesù, lo mette in evidenza: "L'anima mia magnifica il Signore, e lo spirito
mio esulta in Dio, mio Salvatore, perché egli ha guardato alla bassezza della sua
serva. Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata (...) ha detronizzato i
potenti, e ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, e ha rimandato a
mani vuote i ricchi" (Luca 1:46-48,52,53). La predicazione di Giovanni Battista
prepara l'avvento di Gesù: "Ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle sarà
spianato; le vie tortuose saranno fatte diritte e quelle accidentate saranno appianate"
(Lu. 3:5).
Gesù percorre la via dell'umiltà. “Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me,
perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime
vostre” (Mt. 11:29; cfr. 21:5). Per questo può promettere a chi si abbassa l'elevazione
finale da parte di Dio. Questo avviene:
1. Nell'ammonizione a non ricercare i posti migliori "chiunque si innalza sarà
abbassato e chi si abbassa sarà innalzato" (Lu. 14:11; cfr. Pr. 25:7).
2. Nella disputa con i Farisei dopo la parabola del fariseo e del pubblicano: "Io vi
dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché
chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato" (Lu.
18:14).
3. Nella polemica contro gli scribi e i farisei "Chiunque si innalzerà sarà abbassato
e chiunque si abbasserà sarà innalzato" (Mt. 23:12). Allo stesso modo Gesù
minaccia il giudizio definitivo per i superbi.
La ragione di fondo di tali promesse, ammonizioni ed esortazioni sta nel cammino
percorso da Gesù: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò
riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e
umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e
il mio carico è leggero»" (Mt. 11:28-30). Gesù lo esemplifica una volta lavando i piedi
dei Suoi discepoli. "Quando dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe ripreso le sue
vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: «Capite quello che vi ho fatto? Voi mi
chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il
Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli
altri" (Gv. 7:12-14).
Le esortazioni di Gesù sono lontane da un'etica di opere. "In quel momento, i discepoli
si avvicinarono a Gesù, dicendo: «Chi è dunque il più grande nel regno dei cieli?» Ed
egli, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se
non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi
pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei
cieli. E chiunque riceve un bambino come questo nel nome mio, riceve me" (Mt. 18:15). Gesù valuta la "pura ricettività", la disponibilità ad accettare d'essere dipendenti
senza sentirsi "feriti nel proprio orgoglio". Non significa farsi più piccoli di quel che si
è, ma sapere quanto effettivamente si sia piccoli di fronte a Dio.
"Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur
essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui
aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo
simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi
ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente
innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di
Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi
che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre" (Fl. 2:5-11). Gesù diventa
ubbidiente fino alla morte di croce senza avere altro che l'incredibile promessa della
fedeltà di Dio.
Il discepolo di Cristo serve il Suo Signore, ma non lo ritiene un merito, ma un dovere:
"Così, anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: "Noi siamo
servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare" (Lu. 17:10).
Nelle lettere apostoliche
Dopo essere stato "abbassato" nella sua conversione (letteralmente gettato a terra,
At. 9:4) Paolo comprende il suo ministero come imitazione del Signore. Per questo ha
imparato a vivere in umili condizioni (a patire fame, povertà, privazioni, ecc.), ad
"abbassare sé stesso" con il lavoro fisico per innalzare le comunità con l'annuncio
dell'Evangelo: " Ho forse commesso peccato quando, abbassando me stesso perché
voi foste innalzati, vi ho annunziato il vangelo di Dio gratuitamente?" (2 Co. 11:7).
Paolo così descrive la sua vita: "...servendo il Signore con ogni umiltà, e con lacrime,
tra le prove..." (At. 20:19). Dio interviene costantemente nella sua vita risollevandolo
anche in mezzo alle notevoli difficoltà del suo ministero. Egli nutre la speranza che
Dio, un giorno: "trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al
corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa"
(Fl. 3:21).
Paolo si contrappone all'umiltà ostentata degli gnostici: "Quelle cose hanno, è vero,
una parvenza di sapienza per quel tanto che è in esse di culto volontario, di umiltà e
di austerità nel trattare il corpo, ma non hanno alcun valore; servono solo a soddisfare
la carne" (Cl. 2:23). Egli sa essere umile ma anche deciso: “Io, Paolo, vi esorto per
la mansuetudine e la mitezza di Cristo, io, che quando sono presente tra di voi
sono umile, ma quando sono assente sono ardito nei vostri confronti” (2 Co. 10:1).
E' quanto rileva Tommaso D'Acquino quando vede la possibilità di essere ...orgogliosi
della propria umiltà [S.T. II-II.38.2], oppure Lutero che condanna "chi cerca di
eccellere nell'umiltà".
Le esortazioni di Paolo all'umiltà affondano pure le loro radici nella fondamentale
realtà di Cristo. "Abbiate tra di voi un medesimo sentimento. Non aspirate alle cose
alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili. Non vi stimate saggi da voi stessi" (Ro. 12:16).
“La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini” (Fl. 4:5). “Ma tu, uomo di Dio,
fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l'amore, la costanza e la
mansuetudine” (2 Ti. 6:1). Il cristiano deve poter dedicarsi, con disponibilità a
servire, a "servizi più umili" verso "i membri umili" delle comunità. "...con ogni umiltà
e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore" (Ef. 4:2);
"Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di
benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza" (Cl. 3:12). L'atteggiamento
di servizio deve essere indossato come un vestito.
Paolo si sente assolutamente libero, ma volontariamente si rende servitore: "...pur
essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior
numero" (1 Co. 9:19).
Umiltà è onorare gli altri: “Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma
ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a sé stesso” (Fl. 2:3).
L'umiltà, però, è frutto dello Spirito Santo: “Il frutto dello Spirito invece è amore,
gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo”
(Ga. 5:22).
In Giacomo "umile" corrisponde a socialmente povero: "Il fratello di umile condizione
sia fiero della sua elevazione; e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il
fiore dell'erba" (Gm. 1:9,10). Anche Giacomo (poi con Pietro) continuano a citare il
principio dell'AT "Umiliatevi davanti al Signore, ed egli v'innalzerà" (Gm. 4:10). Per
Giacomo la mansuetudine è saggezza ed intelligenza. “Chi fra voi è saggio e
intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine
e saggezza” (Gm. 3:13).
Pietro sottolinea: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli vi
innalzi a suo tempo" (1 Pi. 5:6), sottomettetevi, cioè, a Dio. La persona umile rispetta
la legittima autorità: “Così anche voi, giovani, siate sottomessi agli anziani. E tutti
rivestitevi di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi ma dà grazia
agli umili” (1 Pi. 5:5).
I "cinque sensi" dell'umiltà cristiana
Si possono distinguere nell'umiltà cristiana "cinque sensi" o aspetti:
1. L'umilta non dovrebbe mai avere a che fare con una (falsa) bassa opinione di sé
stessi. E' una questione di grazia, quindi anche di verità. Non riconoscere le
virtù che Dio ci ha dato è un'umiltà sbagliata.
2. Anche quando una bassa opinione di sé stessi è giustificata, l'umiltà non implica
mai aborrire sé stessi, assumere una diversa identità perché si ha vergogna di
quello che si è, non accettare sé stessi, farsi del male, cercare di
autodistruggersi.
3. Le proprie modeste o basse condizioni, quell'essere non-importante che
paradossalmente è importante per Dio.
4. L'onore che la creatura dà a Dio quando Gli dà gloria, cioè riconosce una gloria
che non gli appartiene. Quello che sono, quello che ho, quello che conseguo
dipende da Dio. "Infatti, chi ti distingue dagli altri? E che cosa possiedi che tu
non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l'avessi
ricevuto?" (1 Co. 4:7). [ fare il biglietto di passaggio … è merito Tuo!]
5. L'umiltà che non è estranea nemmeno a Dio, l'umiltà che è un'aspetto
dell'agape, che giunge a svuotare sé stesso per gli altri (Fl. 2:5-11), che
è opposto all'orgoglio dell'egocentrismo.
Umiltà in azione
Umiltà non vuole dire passività, remissività. La persona umile è anche audace quando
si tratta di denunciare ed affrontare il male ed il peccato. Se mansuetudine ed umiltà
sorgono dalla paura e dall’incapacità a dare voce a ciò che legittimamente ci riguarda,
non si tratta di umiltà e mansuetudine. Queste virtù sono espressione di forza. Sono
scelte che possiamo fare per la gloria di Dio, a seconda delle circostanze, e non per le
ristrette opzioni di chi è incapace di esprimere quel che pensa.
Come cristiani possiamo talvolta rinunciare ai nostri diritti per meglio servire il
Signore e per manifestare agli altri l’amore di Cristo. Questa azioni umili sono un
grande dono. Talvolta, però, dobbiamo pure essere arditi, coraggiosi, ma mai con
crudeltà o spirito di vendetta. "Se altri hanno questo diritto su di voi, non lo abbiamo
noi molto di più? Ma non abbiamo fatto uso di questo diritto; anzi sopportiamo ogni
cosa, per non creare alcun ostacolo al vangelo di Cristo ... Qual è dunque la mia
ricompensa? Questa: che annunziando il vangelo, io offra il vangelo gratuitamente,
senza valermi del diritto che il vangelo mi dà" (1 Co. 9:12,18). "...né abbiamo
mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma con fatica e con pena abbiamo
lavorato notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi. Non che non ne
avessimo il diritto, ma abbiamo voluto darvi noi stessi come esempio, perché ci
imitaste" (2 Ts. 3:8,9).
Il cristiano deve avere un concetto sobrio di sé stesso. Egli non pensa di essere
quello che oggettivamente non è, ma nemmeno ha "complessi di inferiorità". Valuta sé
stesso secondo la dignità ed i doni che Dio gli ha conferito. "Per la grazia che mi è
stata concessa, dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto
di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura di
fede che Dio ha assegnata a ciascuno" (Ro. 12:3).
“Io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia
destra, porgigli anche l'altra; e a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica,
lasciagli anche il mantello. Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due” (Mt.
5:39-41). "Non contrastate il malvagio" oppure "Non contrastate al male" (Diod.) non
vuole dire non opporre alcuna resistenza al male, non opporvisi, non contrastare il
male del peccato, le cattive azioni, le false dottrine, il principe del male, Satana,
perché, secondo la Bibbia, bisogna farlo, bisogna resistervi. Significa che, a chi ci ha
fatto del male, non dobbiamo rendere male per male, vendicarci. L'idea la esprime
Giacomo in questo modo: "Avete condannato, avete ucciso il giusto. Egli non vi
oppone resistenza" (Gm. 5:6). Si tratta della proibizione della "giustizia privata", ma
non il legittimo eventuale ricorso alla magistratura ordinaria oppure, a seconda del
caso, alla procedura che Gesù stesso prevede quando insorgono problemi fra le
persone all'interno della comunità cristiana: "Se tuo fratello ha peccato contro di te,
va' e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se
non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia
confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d'ascoltarli, dillo alla chiesa; e,
se rifiuta d'ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano" (Mt.
18:15-18). Gesù rifiuta l'idea dell'occhio per occhio, dente per dente. Il cristiano deve
pazientemente sopportare l'affronto o cercare soddisfazione in altro modo. "Non fate
le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all'ira di Dio; poiché sta scritto: «A
me la vendetta; io darò la retribuzione», dice il Signore" (Ro. 12:19). Difatti:
L'umile non si fa valere con la vendetta: “Non dire: «Renderò il male»; spera nel
SIGNORE, ed egli ti salverà” (Pr. 20:22). “Non rendete a nessuno male per male.
Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini” (Ro. 12:17).
“Fratelli, se uno viene sorpreso in colpa, voi, che siete spirituali, rialzatelo con spirito
di mansuetudine” (Ga. 6:1).
Il cristiano manifesta umiltà quando afferma chiaramente la verità con amore,
secondo il principio: "...seguendo la verità nell'amore, cresciamo in ogni cosa verso
colui che è il capo, cioè Cristo. (...) Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca;
ma se ne avete qualcuna buona, che edifichi secondo il bisogno, ditela affinché
conferisca grazia a chi l'ascolta" (Ef. 4:15,29).
“Il servo del Signore non deve litigare, ma deve essere mite con tutti, capace di
insegnare, paziente. Deve istruire con mansuetudine gli oppositori nella
speranza che Dio conceda loro di ravvedersi per riconoscere la verità” (2 Ti. 2:24, 25).
“La saggezza che viene dall'alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante,
piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia” (Gm. 3:17).
“Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi
chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto, e avendo la
coscienza pulita; affinché quando sparlano di voi, rimangano svergognati quelli che
calunniano la vostra buona condotta in Cristo” (1 Pi. 3:16).
L'autocontrollo, infine, è pure espressione di umiltà e mansuetudine. “Il frutto dello
Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà,
mansuetudine, autocontrollo”.
……. Ma per servire
“Per la loro appartenenza a Cristo Signore e Re dell'universo i fedeli laici partecipano
al suo ufficio regale e sono da Lui chiamati al servizio del Regno di Dio e alla sua
diffusione nella storia. Essi vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il
combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato (cf.
Rom 6, 12), e poi mediante il dono di sé per servire, nella carità e nella
giustizia, Gesù stesso presente in tutti i suoi fratelli, soprattutto nei più piccoli (cf. Mt
25, 40).(Christfideles Laici n. 14)
Così, intimamente congiunta alla responsabilità di servire la persona, si pone
la responsabilità di servire la società, quale compito generale di quella
animazione cristiana dell'ordine temporale alla quale i fedeli laici sono
chiamati secondo loro proprie e specifiche modalità. (idem n. 39)
L’opera politica, soprattutto in associazione
Per animare cristianamente l'ordine temporale, nel senso detto di servire la persona e
la società, i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla
«politica», ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale,
legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere
organicamente e istituzionalmente il bene comune. Come ripetutamente hanno
affermato i Padri sinodali, tutti e ciascuno hanno diritto e dovere di partecipare
alla politica, sia pure con diversità e complementarietà di forme, livelli,
compiti e responsabilità. Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo
e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del governo, del
parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l'opinione non
poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano
minimamente né lo scetticismo né l'assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica.
E', invece, quanto mai significativa la parola del Concilio Vaticano II: «La Chiesa
stima degna di lode e di considerazione l'opera di coloro che per servire gli
uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle
relative responsabilità»(150). (idem n. 42)
18. Si rivela così possibile l'amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da
Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la
persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a
partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà
arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra persona
non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di
Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là dell'apparenza esteriore dell'altro
scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio
arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari
come necessità politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro ben più
che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui
egli ha bisogno. Qui si mostra l'interazione necessaria tra amore di Dio e amore del
prossimo, di cui la Prima Lettera di Giovanni parla con tanta insistenza. Se il contatto
con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell'altro sempre soltanto l'altro
e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina. Se però nella mia vita tralascio
completamente l'attenzione per l'altro, volendo essere solamente « pio » e
compiere i miei « doveri religiosi », allora s'inaridisce anche il rapporto con
Dio. Allora questo rapporto è soltanto « corretto », ma senza amore. Solo la
mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi
rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei
occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama. I santi — pensiamo ad
esempio alla beata Teresa di Calcutta — hanno attinto la loro capacità di amare il
prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro incontro col Signore eucaristico e,
reciprocamente questo incontro ha acquisito il suo realismo e la sua profondità proprio
nel loro servizio agli altri. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono
un unico comandamento. Entrambi però vivono dell'amore preveniente di Dio che ci
ha amati per primo. Così non si tratta più di un « comandamento » dall'esterno che ci
impone l'impossibile, bensì di un'esperienza dell'amore donata dall'interno, un amore
che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L'amore cresce
attraverso l'amore. L'amore è « divino » perché viene da Dio e ci unisce a Dio e,
mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre
divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia « tutto in tutti »
(1 Cor 15, 28). (Benedetto XVI: Deus Caritas est)
21. Un passo decisivo nella difficile ricerca di soluzioni per realizzare questo
fondamentale principio ecclesiale diventa visibile in quella scelta di sette uomini che fu
l'inizio dell'ufficio diaconale (cfr At 6, 5-6). Nella Chiesa delle origini, infatti, si era
creata, nella distribuzione quotidiana alle vedove, una disparità tra la parte di lingua
ebraica e quella di lingua greca. Gli Apostoli, ai quali erano affidati innanzitutto la «
preghiera » (Eucaristia e Liturgia) e il « servizio della Parola », si sentirono
eccessivamente appesantiti dal « servizio delle mense »; decisero pertanto di
riservare a sé il ministero principale e di creare per l'altro compito, pur necessario
nella Chiesa, un consesso di sette persone. Anche questo gruppo però non doveva
svolgere un servizio semplicemente tecnico di distribuzione: dovevano essere
uomini « pieni di Spirito e di saggezza » (cfr At 6, 1-6). Ciò significa che il
servizio sociale che dovevano effettuare era assolutamente concreto, ma al
contempo era senz'altro anche un servizio spirituale; il loro perciò era un vero
ufficio spirituale, che realizzava un compito essenziale della Chiesa, quello dell'amore
ben ordinato del prossimo. Con la formazione di questo consesso dei Sette, la «
diaconia » — il servizio dell'amore del prossimo esercitato comunitariamente e in
modo ordinato — era ormai instaurata nella struttura fondamentale della Chiesa
stessa. (Idem n. 21)
Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre
innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere
formati in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi
l'impegno del proseguimento della cura. La competenza professionale è una
prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di
esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una
cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno
dell'attenzione del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa
devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa
conveniente al momento, ma si dedicano all'altro con le attenzioni suggerite dal cuore,
in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla
preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la «
formazione del cuore »: occorre condurli a quell'incontro con Dio in Cristo che susciti
in loro l'amore e apra il loro animo all'altro, così che per loro l'amore del prossimo non
sia più un comandamento imposto per così dire dall'esterno, ma una conseguenza
derivante dalla loro fede che diventa operante nell'amore (cfr Gal 5, 6). (Idem n.
31/a)
34. L'apertura interiore alla dimensione cattolica della Chiesa non potrà non disporre il
collaboratore a sintonizzarsi con le altre Organizzazioni nel servizio alle varie
forme di bisogno; [ è necessaria la ricerca della collaborazione con altre istituzioni …
con i giornali ecc. ]ciò tuttavia dovrà avvenire nel rispetto del profilo specifico del
servizio richiesto da Cristo ai suoi discepoli. San Paolo nel suo inno alla carità (cfr 1
Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: « Se anche
distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non
avessi la carità, niente mi giova » (v. 3). Questo inno deve essere la Magna Carta
dell'intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che, nel corso
di questa Lettera enciclica, ho svolto sull'amore.
L'azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l'amore
per l'uomo, un amore che si nutre dell'incontro con Cristo. L'intima
partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell'altro diventa così
un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l'altro, devo dargli non
soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come
persona. (Benedetto XVI: Deus caritas est n. 34)
41. Tra i santi eccelle Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Nel Vangelo
di Luca la troviamo impegnata in un servizio di carità alla cugina Elisabetta, presso la
quale resta « circa tre mesi » (1, 56) per assisterla nella fase terminale della
gravidanza. « Magnificat anima mea Dominum », dice in occasione di questa visita —
« L'anima mia rende grande il Signore » — (Lc 1, 46), ed esprime con ciò tutto il
programma della sua vita: non mettere se stessa al centro, ma fare spazio a Dio
incontrato sia nella preghiera che nel servizio al prossimo — solo allora il mondo
diventa buono. Maria è grande proprio perché non vuole rendere grande se stessa, ma
Dio. Ella è umile: non vuole essere nient'altro che l'ancella del Signore (cfr Lc 1, 38.
48). Ella sa di contribuire alla salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma
solo mettendosi a piena disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di speranza:
solo perché crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di Israele, l'angelo può
venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di queste promesse. Essa è una donna di
fede: « Beata sei tu che hai creduto », le dice Elisabetta (cfr Lc 1, 45). Il Magnificat —
un ritratto, per così dire, della sua anima — è interamente tessuto di fili della Sacra
Scrittura, di fili tratti dalla Parola di Dio. Così si rivela che lei nella Parola di Dio è
veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. (Benedetto XVI: deus
Caritas est n. 41)