I giusti agli occhi di Dio

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I giusti agli occhi di Dio
mons. Antonio Riboldi
XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (28 ottobre 2007)
Dal Vangelo di oggi emerge una caratteristica degli uomini di tutti i tempi e di ogni categoria: il
grave difetto di credersi 'migliori' e, quindi, 'giudicare negativamente gli altri'.
"In quel tempo Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e
disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo, l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri
uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana
e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a di distanza, non osava
nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta, sarà
umiliato e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 18,9-14).
Ci vuole una bella 'faccia tosta' a mettersi ben in vista, ai primi posti nel tempio e tra gli uomini,
proclamando la propria giustizia, proprio a Dio, IL GIUSTO, che conosce fino in fondo chi siamo
e di quante ombre, oltre che luci, siamo ripieni.
Possiamo recitare la 'commedia delle bugie' davanti agli uomini, che si nutrono tante volte di
inganni, pur di affermarsi ed apparire quello che di fatto non sono!
Quanta gente abbiamo conosciuto che amava i primi posti nella stima nostra e poi, con tristezza,
si è scoperto che erano ben altra cosa.
Il Vangelo ci invita ad essere umili. Così ne parla Paolo VI: "L'uomo, nella concezione e nella
realtà del cattolicesimo, è grande e tale deve sentirsi nella sua coscienza, nel valore del suo operare,
nella speranza del suo finale destino. Se non che un'ingiunzione, la quale investe la personalità
dell'uomo, i suoi pensieri, il suo stile di vita, il suo rapporto con i suoi simili, gli impone nello
stesso tempo di essere umile. Che l'umiltà sia una esigenza della moralità del cristiano, nessuno
può negarlo. Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi stessi termini. Se vogliamo
rinnovare la vita cristiana non possiamo tacere la lezione e la pratica dell'umiltà. Come risolvere
innanzitutto il contrasto fra la vocazione alla grandezza e il precetto dell'umiltà? Noi abbiamo ogni
giorno sulle labbra il 'Magnificat', l'inno sublime della Madonna, la quale proclama davanti a Dio,
e a quanti ne ascoltano la dolcissima voce, la sua umiltà di serva, e nello stesso tempo celebra le
grandezze operate da Dio in lei e profetizza l'esaltazione che di lei faranno tutte le generazioni... Il
confronto con gli altri ci fa spesso pietosi verso noi stessi e orgogliosi verso il prossimo: ricordiamo
la parabola -del fariseo e del pubblicano, -quando il primo dice di se stesso: "io non sono come gli
altri", mentre il pubblicano non osava neppure alzare gli al cielo e si batteva il petto" (Omelia, 9
febbraio 1967).
A essere sinceri, cosa abbiamo di 'nostro'? La vita? È un dono. La felicità o i carismi? Sempre doni
di Dio. La salute e la bellezza del corpo?- Doni di Dio!
Se da una parte Dio chiede che i Suoi doni vengano bene amministrati, dall'altra la giustizia vuole
che si dia gloria a Chi ci ha fatto tali doni: non appropriarsene, che è superbia!
Dovremmo, in altre parole, essere capaci di imitare la Madonna che, mentre celebra le grandi opere
che Dio ha compiuto in Lei, dall'altra si riconosce 'serva del Signore'.
Ma quanto è facile 'appropriarsi' dei doni di Dio, come fossero 'cosa nostra'! Da qui la superbia, in
cui satana è maestro, suggeritore.
Quanto disgusta vedere, anche ai nostri giorni, troppi che recitano la parte del fariseo, per fare
bella figura agli occhi degli uomini, senza darsi il pensiero che tale 'gloria' è un furto a Dio! Sono
come una sposa che si fa bella con l'abito sfarzoso del matrimonio, un abito che però...non è suo,
ma semplicemente preso in affitto!
"Cosa abbiamo noi - mi diceva il mio padre spirituale, un vero uomo di Dio - se non le nostre
debolezze, la nostra miseria, il nostro nulla? Tutto è di Dio: di nostro il peccato".
Oggi, dice il Siracide: "Il Signore è giudice e non vi è presso lui preferenza di persone. Non è
parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso. Non trascura
la supplica dell'orfano, né della vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi venera Dio sarà accolto
con benevolenza e la sua preghiera giungerà fino alle nubi. Finché non sia arrivata non si contenta,
non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo
l'equità" (Sir 35, 15-22).
Mi torna sempre alla mente la testimonianza del mio Padre spirituale, il grande don Clemente
Rebora, famoso poeta del '900, che poteva certamente 'raccontare' quello che aveva vissuto. Stando
insieme nei periodi di vacanza alla Sacra di S. Michele, facendo lunghe camminate con lui, io
tentavo di fare sfoggio di ciò che avevo letto, soprattutto sui romanzi russi. Lui ascoltava e taceva.
Avevo addirittura l'impressione che non li avesse mai letti. Non sapevo che, tra i tanti suoi 'titoli',
da tutti riconosciuto, vi era quello di raffinato e grande conoscitore della letteratura russa.
Ma aveva deciso, dopo la sua conversione, di 'oscurare tutto il passato', come non fosse esistito.
L'unica cosa che bramava era 'guadagnare con una vita ascetica e santa il tempo che aveva perso
nel mondo' - così amava dire.
Quando seppi chi veramente era stato, mi vergognai della mia stupida voglia di recitare la parte
del fariseo.
Forse tanti dei miei amici, che mi seguono, in questa grazia di farsi come 'plasmare dalla Parola di
Dio', conoscono o hanno sentito parlare del mio Fondatore, Antonio Rosmini: un vero gigante
della filosofia e della teologia, ma più ancora della santità. Nel suo libretto 'Massime di perfezione',
da molti conosciuto e che sono le regole della santità, nella quinta massima, intitolata: 'Riconoscere
intimamente il proprio nulla', così afferma: "Il cristiano dunque deve imitare l'umiltà di Mosè.
Quanto stentò a credere di essere lui l'eletto a liberare il popolo di Dio! Con affettuosa soavità e
confidenza, rispose a Dio di dispensarlo da quell'incarico, perché era balbuziente. Lo pregò invece
di mandare Colui che doveva essere mandato, il Messia promesso. E tutto questo sebbene Mosè
traboccasse di zelo per la salvezza del suo popolo. Il Cristiano deve meditare ed imitare
continuamente la profondissima umiltà della Vergine Maria. Nelle divine Scritture la vediamo
sempre in quiete, in pace, in continuo riposo interiore. Di sua scelta la troviamo sempre in una vita
umile, ritirata e silenziosa, dalla quale non venne tolta se non dalla voce stessa di Dio o dai
sentimenti di carità verso la sua parente Elisabetta.
A giudizio umano, chi potrebbe credere che della più perfetta delle creature umane ci fosse
raccontato così poco nelle divine Scritture? Nessuna opera da Lei intrapresa; una vita che il mondo
cieco direbbe di continua inazione, e che Dio dimostrò di essere la più sublime, la più virtuosa, la
più generosa di tutte le vite. Per essa, quest'umile e sconosciuta giovinetta fu innalzata
dall'Onnipotente alla più alta dignità, a un seggio di gloria più elevato di quello dato a qualunque
altro, non solo tra gli uomini, ma anche tra gli angeli" (V Massima n. 7).
Parole che vengono dal cuore di un uomo, Rosmini, che nella vita conobbe, per un tempo,
l'amicizia e la stima incondizionata dei Papi e, improvvisamente, per 'presunti errori teologici',
sconfessati dalla Congregazione della Dottrina della fede, di cui era Prefetto proprio il nostro
amato Pontefice, Benedetto XVI - fu come esiliato, emarginato, considerato quasi pericoloso per
la teologia.
Nel silenzio assoluto impostogli, da lui accolto come volontà di Dio e a sua volta imposto alla
Congregazione, a chi gli chiedeva come si sentisse, rispose: 'Adorare, tacere, godere'.
Aveva la certezza che 'se il grano caduto in terra non muore, non porta frutto', come è nel Vangelo.
Ora la Chiesa riconosce le sue virtù eroiche ed è con grande gioia di tutti che il 18 novembre, a
Novara, verrà proclamato 'beato'. Una grande festa dell'umiltà. Quell'umiltà che è la sola via alla
fede e alla carità.
Madre Teresa di Calcutta, altra grande santa del nostro tempo, amava dire: "Anche se commetti
qualche errore, approfittiamo di questo per avvicinarci a Dio. DiciamoGli con umiltà: Non sono
stata capace di essere migliore. Ti offro i miei fallimenti. L'umiltà consiste anche in questo: avere
il coraggio di accettare l'umiliazione".
E pregava: "Signore, aiutaci a vedere nella tua crocifissione e resurrezione un esempio di come
sopportare e idealmente morire nella lotta e nel conflitto quotidiano, in modo che possiamo vivere
più pienamente.
Tu hai accettato pazientemente le umiliazioni della vita umana, come pure tutte le torture della tua
passione.
Aiutaci ad accettare le pene e i conflitti che ci aspettano ogni giorno, come opportunità di crescere
e somigliarti sempre più".
Tratto da Qumran2.net | www.qumran2.net
http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=10848
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