Lezione C10 Il Contratto 1 Il sindacato sull`autonomia negoziale e

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Lezione C10
Lezione C10
Il Contratto 1
Il sindacato sull’autonomia negoziale e gli elementi
del contratto
Sommario: 1. L’evoluzione del pensiero giuridico in materia di sindacato giudiziale sul contratto – 1.1. Gli
impulsi provenienti dagli ordinamenti sovranazionali. Il sindacato sul testo contrattuale nel settore consumeristico, anche alla luce delle ultime sentenze della Corte di Giustizia.– 1.2. Verso un più ampio utilizzo
del controllo giudiziale sul contratto. L’istituto dell’abuso del diritto nella recente giurisprudenza della
Cassazione 1.3. Il controllo giurisprudenziale sul contratto “sostanzialmente” iniquo: usura e clausola
penale. 2. Il principio della causalità negoziale: cenni di diritto comparato e ambito di applicazione nel
nostro ordinamento – 2.1. Deroghe e temperamenti al principio della causalità necessaria: astrattezza sostanziale, processuale e relativa – 2.2. Dalla teoria bettiana della funzione economico-sociale, alla teoria
ferriana della funzione economico-individuale: la svolta della Cassazione con la sentenza n. 10490/2006
– 3. La sistematica del contratto nella nuova era causale. – 3.1. Il controllo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti. Rapporti tra la nuova nozione di causa concreta e la questione del sindacato giudiziale sul
contratto – 3.2. Gli altri corollari: a) il negozio in frode alla legge. – 3.3. b) collegamento negoziale. - 3.4.
(segue): c) causa e presupposizione. – 4. La condizione: questioni giurisprudenziali. – 4.1. La c.d. condizione di inadempimento. – 4.2. La Cassazione si pronuncia nuovamente sulla disciplina applicabile alla condizione potestativa mista.
In questa prima lezione dedicata al contratto in generale, svilupperemo, innanzitutto, alcune considerazioni sulla progressiva crisi del dogma
dell’intangibilità dell’autonomia negoziale, che, come vedremo, ha condotto all’ammissibilità del sindacato sullo squilibrio contrattuale, non solo
nell’ambito dei rapporti tra consumatore e professionista, ma, più in generale, nei rapporti sperequati, caratterizzati da un abuso dell’altrui posizione di debolezza.
Successivamente, ci soffermeremo in modo dettagliato sulle più recenti problematiche in tema di causa del contratto, traendo spunto dall’inaspettata apertura della Suprema Corte alla teoria della causa in concreto,
avvenuta con la pronuncia n. 10490/2006.
Infine, con riferimento agli elementi accidentali del contratto, affronteremo, brevemente, due questioni inerenti alla condizione, che hanno di recente interessato la giurisprudenza di legittimità.
1. L’evoluzione del pensiero giuridico in materia di sindacato giudiziale sul
contratto
Iniziamo lo studio del diritto privato dei contratti svolgendo alcune riflessioni sul tema della giustizia contrattuale.
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Negli ultimi anni si è sempre più frequentemente imposta all’attenzione della dottrina la questione se i privati siano liberi, in fase di formazione
del contratto, di pervenire alla determinazione di assetti di interessi squilibrati o, se, all’opposto, sia immanente al nostro ordinamento giuridico
un principio generale di congruità dello scambio, che si pone come limite
all’esplicazione dell’autonomia negoziale.
In materia di sindacabilità giurisdizionale del contratto, si è assistito
ad una lenta evoluzione del pensiero giuridico.
Sotto il vigore del Codice civile del 1865, il principio (di matrice liberale) della signoria della volontà impediva di riconoscere al giudice un potere di controllo sull’equivalenza delle prestazioni, essendo ogni determinazione sulla congruità dello scambio, rimessa all’autonomia delle parti.
Il legislatore del 1942, rispolverando l’imperativo tomistico e l’etica
cristiana dell’equità pattizia, dà invece qualche limitato rilievo allo squilibrio contrattuale, dando la stura ad alcuni strumenti di tutela azionabili in
presenza di determinate situazioni. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla
rescissione del contratto concluso in stato di pericolo (art. 1447, c.c.) ed
alla rescissione per lesione ultra dimidium del contratto concluso con approfittamento dell’altrui stato di bisogno (art. 1448, c.c.).
In presenza dei presupposti legislativi previsti per l’operatività delle succitate norme, al giudice viene riconosciuto il potere di sindacare la
congruità dello scambio contrattuale, ed eventualmente di intervenire
sull’assetto negoziale, evitando la rescissione del contratto, attraverso la
riconduzione ad equità dello stesso.
Tradizionalmente, si riteneva che l’introduzione nell’impianto codicistico di simili prescrizioni muovesse dall’assunto dell’inesistenza nel nostro ordinamento di un generale principio di sindacabilità dell’autonomia
negoziale in presenza di iniquità delle condizioni o di sproporzione tra le
prestazioni.
Di conseguenza, l’ammissibilità dell’intervento giudiziale veniva circoscritta alle ipotesi di carattere eccezionale, tassativamente previste dal
legislatore.
Più di recente, tuttavia, si stanno verificando nel nostro ordinamento sempre maggiori aperture verso il superamento del dogma dell’insindacabilità dell’autonomia negoziale. Alcune di tali aperture sono state determinante da impulsi provenienti in tal senso a livello sovranazionale e,
in particolare, dalla necessità di adeguamento alle direttive comunitarie
(si pensi al settore consumeristico). Al riguardo, vi è chi sottolinea come
tali aperture siano ancora per molti aspetti limitate e condizionate. In effetti, come a breve si vedrà, esse si fondano comunque sul presupposto
che solo laddove il procedimento di formazione del contratto sia inficiato da anomalie connesse alla posizione di debolezza di una delle parti, il
sindacato giudiziale, sotto l’influsso comunitario, può essere ammesso in
via generalizzata, essendo riconosciuto al giudice un potere di controllo sulla procedural justice. In altri termini, la deroga al fonda-
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mentale principio della libertà contrattuale troverebbe la propria ragione giustificatrice in materia consumeristica, così come in altre materie
caratterizzate da rapporti di forza fondati sul diverso status soggettivo
dei paciscenti, nell’interesse pubblicistico di tutelare chi non è in grado di
adeguatamente difendersi nel momento genetico della formazione della
disciplina dell’assetto contrattuale Al contrario, laddove il regolamento
pattizio sia il frutto della libera esplicazione dell’autonomia negoziale, esso resta comunque intangibile da parte dell’autorità giudiziaria. Non sarebbe cioè sindacabile – salve eccezionali ipotesi - l’iniquità in sé
del contratto, ossia la c.d. substantive justice. L’assunto di partenza, infatti, è che soltanto le parti, in assenza di condizionamenti della volontà, sono competenti a valutare la convenienza dell’assetto di interessi
delineato dal contratto. Dunque, è stato affermato che non vi sarebbe
ancora spazio, nel nostro ordinamento, per alcun controllo eteronomo
sull’autonomia negoziale laddove il contratto sia stato effettivamente voluto e cioè sia frutto di un consenso prestato liberamente e consapevolmente.
Va tuttavia notato come, oltre agli influssi derivanti dal diritto comunitario, nel nostro ordinamento si stanno registrando ulteriori aperture verso il superamento del dogma dell’intangibilità dell’autonomia negoziale. Esse sembrano essere frutto di una progressiva e
più consapevole evoluzione del nostro sistema giuridico, ove sempre più
spesso gli istituti civilistici in materia di contratto vengono riletti e rivisitati alla luce di alcuni fondamentali principi costituzionali, quali quelli di
uguaglianza in senso sostanziale e di solidarietà sociale (artt. 3 comma
2 e 2 Cost.), in base ai quali i giudici tendono a compiere un più incisivo
controllo sull’equilibrio del testo contrattuale. È quanto ad esempio accade attraverso un sempre maggiore utilizzo, da parte della giurisprudenza, dell’istituto del c.d. abuso del diritto.
1.1. Gli impulsi provenienti dagli ordinamenti sovranazionali. Il sindacato sul
testo contrattuale nel settore consumeristico, anche alla luce delle ultime sentenze della Corte di Giustizia.
Come si accennava, una prima importante apertura verso un controllo
giudiziale sul contratto è derivata proprio dagli ordinamenti sovranazionali.
Anzitutto, una chiara scelta a favore della generalizzata ammissibilità del sindacato sul contratto si ricava dai Principi della Commissione
Lando sul diritto europeo dei contratti e dai Principi della Convenzione Unidroit. Ovviamente, non avendo carattere vincolante, essi trovano applicazione solo ove richiamati dalle parti come legge regolatrice
del contratto. Ciononostante, dal punto di vista teorico offrono spunti significativi, in quanto rispecchiano usi e prassi ricorrenti nel commercio
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comunitario ed internazionale. È, dunque, interessante segnalare che tali principi ammettono il sindacato giudiziale sullo squilibrio tra le
prestazioni solo in quanto frutto di alterazioni del procedimento
di formazione del contratto, dando rilievo all’approfittamento di un’altrui debolezza economica, oppure dell’altrui imperizia, ignoranza, inesperienza o inabilità a trattare.
Inoltre, pure il Progetto preliminare di Codice europeo dei contratti, elaborato dall’Accademia dei giusprivatisti europei di Pavia, coordinato da Giuseppe Gandolfi, richiama il dovere di buona fede in vari articoli e, in particolare, all’art. 157 prevede che il giudice possa modificare o
risolvere il contratto qualora una parte si sia sottratta alla rinegoziazione
in presenza di avvenimenti straordinari e imprevedibili. A tanto deve aggiungersi che nei codici algerino, egiziano e russo è da tempo presente
la disciplina dell’hardship (i.e.: la clausola con la quale le parti possono
richiedere la ristrutturazione del contratto nel caso in cui sia intervenuto
un cambiamento dei dati iniziali – sulla base dei quali si erano obbligate
– che modifica l’equilibrio del contratto stesso, al punto da far subire, ad
una di esse, un ingiusto rigore) e che negli ordinamenti cinese e giapponese si dà particolare risalto alle clausole generali come quella di buona
fede.
Si consideri, poi, che nella Carta di Nizza – il cui carattere vincolante
per gli Stati membri è stato di recente consacrato dal Trattato di Lisbona
- vi è una specifica norma espressamente dedicata al divieto di abuso del
diritto, norma che ricalca quanto previsto dalla CEDU.
In ogni caso, molto più significativo per il nostro ordinamento è senza
dubbio stato l’influsso del diritto comunitario, che, nel campo consumeristico, ha comportato l’obbligo per gli Stati membri di conformarsi a
nuove prescrizioni volte a garantire un maggiore controllo sull’equilibrio
del contratto, in ragione della diversa forza economica e contrattuale
delle parti e, quindi, del loro differente status soggettivo.
In tale contesto, l’esigenza di tutelare il consumatore, considerato
contraente debole tout court, ha fatto sì che nel nostro ordinamento si
iniziasse ad ammettere un controllo del legislatore (a monte) e conseguentemente del giudice (a valle) sul contenuto stesso del contratto, con
una evidente forte deroga al principio della libertà contrattuale e dell’insindacabilità dell’autonomia negoziale. Sul punto, basti ricordare i più recenti interventi legislativi nel settore consumeristico, i quali hanno inevitabilmente ampliato il sindacato del giudice, chiamato di volta in volta
a verificare se il testo contrattuale – di solito non frutto di negoziazione,
ma imposto dal professionista - rispetti le nuove stringenti disposizioni
legislative al riguardo.
In particolare, l’art. 33, co. 1, del Codice del Consumo, stabilendo
che nei contratti stipulati tra consumatore e professionista, “si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a
carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi
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derivanti dal contratto”, contiene un chiaro riferimento al sindacato sullo
squilibrio normativo. Una qualche rilevanza – seppur residua - viene addirittura attribuita anche all’equilibrio economico del contratto. Dall’art.
34, co. 2, si desume, infatti, che ai fini del giudizio di vessatorietà può assumere rilevanza la convenienza economica dell’affare, laddove il corrispettivo sia stato individuato in modo non chiaro o non comprensibile.
Un’altra norma che merita di essere richiamata è l’art. 2, co. 2, lett.
e) del Codice del consumo (che riproduce il precedente art. 1, co. 2,
lett. e, legge n. 281/1998), il quale statuisce che ai consumatori è riconosciuto il diritto fondamentale “alla correttezza, alla trasparenza ed
all’equità nei rapporti contrattuali”.
Si consideri, inoltre, la l. n. 192/1998 (art. 9) e il d.lgs. n. 231/2002
(art. 7), in cui la situazione di debolezza viene riferita ad un soggetto
qualificabile come professionista e dove viene prevista la sanzione della nullità per i patti che integrino abuso di dipendenza economica ovvero
per le clausole inique nelle transazioni commerciali. Peraltro, merita di
essere segnalato che proprio con riferimento ai contratti stipulati dal
professionista debole, la dottrina ha, di recente, proposto la formulazione di “terzo contratto”, per indicare una tipologia di contratti ulteriore rispetto al contratto di diritto comune ed ai contratti del consumatore.
È immaginabile, dunque, che anche tale ambito conferirà nuovi spazi –
nei termini suddetti – al controllo giudiziale del testo contrattuale.
Tanto premesso sotto il profilo normativo, va segnalato che anche la
recente giurisprudenza comunitaria si è espressamente pronunciata
su un particolare aspetto del sindacato giudiziale sul contratto. Anzitutto,
con tre sentenze del 2009, emesse a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, la Corte di Giustizia è intervenuta in merito alla fondamentale questione della sussistenza in capo ai giudici nazionali di un poteredovere di rilevazione d’ufficio in ipotesi di nullità di protezione,
nonché in relazione alle particolari modalità di esercizio di tale potere.
Infine, con un recente intervento del 2010, la Corte di Giustizia si è specificamente pronunciata sulla tematica del controllo giudiziale sulle
clausole vessatorie che definiscono l’oggetto principale del contratto. Esaminiamo brevemente il contenuto di tali pronunce ed il principio di diritto elaborato dai giudici comunitari.
A) La prima decisione (sentenza 4 giugno 2009, causa C-243/08, Pannon GSM Zrt, in il diritto per i concorsi n.2/2010 con nota di V.VITI) fa
seguito alle questioni pregiudiziali avanzate dal giudice ungherese con
riguardo all’interpretazione dell’art. 6, n. 1, della direttiva 93/13, in materia di clausole abusive nei contratti con i consumatori. Le problematiche che il giudice del rinvio ha posto all’attenzione della Corte
possono essere così sintetizzate: se la “non vincolatività” della clausola
abusiva consegua ad una necessaria impugnativa da parte del consumatore ovvero se la stessa possa essere rilevata d’ufficio dall’autorità giudicante; in secondo luogo, laddove si opti per l’ultima soluzione, se tali
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poteri di rilevazione debbano essere considerati come una semplice “facoltà” o come un vero e proprio “obbligo”. Il Giudice comunitario, rispetto al quesito sottoposto ha affermato il seguente principio di diritto: «Il
giudice nazionale deve esaminare d’ufficio la natura abusiva di una
clausola contrattuale a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine. Se esso considera abusiva una
siffatta clausola, non la applica, tranne nel caso in cui il consumatore vi si
opponga. Tale obbligo incombe al giudice nazionale anche in sede di verifica della propria competenza territoriale».
B) Con un secondo intervento (sentenza 6 ottobre 2009, causa
C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones SL c. Rodriguez Nogueira), il
Giudice comunitario si è occupato del caso di un consumatore spagnolo
che aveva stipulato un contratto di abbonamento telefonico, impegnandosi a pagare un canone mensile che successivamente non era stato
corrisposto, tanto da indurre la società telefonica a reclamare il pagamento del relativo importo avvalendosi della clausola che demandava
la soluzione della controversia ad un collegio arbitrale. Il lodo emesso
dagli arbitri nominati sull’accordo delle parti, che aveva accolto la richiesta della società, non era stato impugnato nei termini previsti nell’ordinamento processuale civile spagnolo ed era stato azionato innanzi al
giudice dell’esecuzione dalla parte vittoriosa. In quel contesto il giudice
dell’esecuzione si era interrogato sulla validità della clausola compromissoria mai impugnata dalla parte consumatrice e sulla possibilità di rilevare ex officio l’eventuale contrasto di detta clausola con quelle
contemplate dalla legge di trasposizione della direttiva 93/13/CEE. Da qui
il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. La Corte di Giusitizia, sul punto, ha affermato il principio di diritto in virtù del quale: «la direttiva del
Consiglio 5 aprile 1993, 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei
contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretata nel senso
che un giudice nazionale investito di una domanda per l’esecuzione forzata di un lodo arbitrale che ha acquisito autorità di cosa giudicata, emesso
in assenza del consumatore, è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, a valutare
d’ufficio il carattere abusivo della clausola compromissoria contenuta in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore,
qualora, secondo le norme procedurali nazionali, egli possa procedere a
tale valutazione nell’ambito di ricorsi analoghi di natura interna. In tal caso, incombe a detto giudice di trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale affinché il consumatore di cui trattasi non
sia vincolato da detta clausola».
C) Una terza sentenza, poi, interviene a conclusione di un procedimento instaurato a seguito della proposizione da parte della Corte d’Appello di Salamanca di una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente
sull’interpretazione dell’art. 4 della direttiva 85/577, in materia di contratti con i consumatori negoziati fuori dai locali commerciali
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(sentenza 17 dicembre 2009, causa C-227/08, Eva Martìn Martìn, in il diritto per i concorsi n.2/2010 con nota di V.VITI). Tale disposizione, dopo
aver statuito l’obbligo per il commerciante di informare per iscritto il consumatore del suo diritto di “sciogliersi” dal contratto entro un
termine di almeno sette giorni dal ricevimento dell’informativa, impone
ai singoli Stati membri la previsione di misure appropriate a tutela
della parte debole per il caso in cui ad essa non venga fornita la
suddetta informazione. La normativa spagnola di recepimento ha, in
merito, optato per il rimedio della nullità relativa del contratto, invocabile dal solo consumatore (si evidenzia come la scelta del legislatore italiano sia stata diversa: l’art. 65, 3° comma del Codice del consumo statuisce, infatti, che, qualora il consumatore non sia stato informato del suo
diritto di recesso, il termine per l’esercizio di quest’ultimo è prolungato
a 60 giorni e decorre, per i contratti di vendita di beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore e, per i contratti di prestazione di servizi, dal giorno della conclusione del contratto). Nell’ordinanza
di rinvio la Corte d’Appello di Salamanca, sottolineando come la vicenda
ad essa sottoposta attenesse ad un contratto potenzialmente nullo per
mancanza di informativa sul diritto di recesso spettante al consumatore
e come, tuttavia, quest’ultimo non avesse mai fatto valere tale invalidità, ha interrogato la Corte sulla possibilità che il citato art. 4, della direttiva 85/577/CEE, consenta un rilievo d’ufficio ad opera del giudice
della descritta ipotesi di nullità relativa di protezione. La Corte di
giustizia ha stabilito, al riguardo, che: «l’art. 4 della direttiva del Consiglio 20 dicembre 1985, 85/577/CEE, per la tutela dei consumatori in caso
di contratti negoziati fuori dei locali commerciali non osta a che un giudice nazionale dichiari d’ufficio la nullità di un contratto rientrante
nell’ambito di applicazione di tale direttiva a causa della circostanza che
il consumatore non era stato informato del suo diritto di recesso, anche
qualora detta nullità non sia mai stata fatta valere dal consumatore dinanzi ai giudici nazionali competenti».
D) Un’ultima ancora più recente pronuncia, infine, è stata emessa
dalla Corte di Giustizia (sentenza 3 giugno 2010, causa C-484/08, Caja
de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid c. Asociacio´n de Usuarios de
Servicios Bancarios), che si è espressa sull’interpretazione dell’art. 4, n.
2, della direttiva 93/13/CEE. Come noto, tale disposizione esclude, dal
controllo giudiziale di vessatorietà, le clausole concernenti «l’oggetto principale del contratto» o «la perequazione tra il prezzo e la remunerazione da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in
cambio, dall’altro», ove formulate in modo chiaro e comprensibile. Ci si è
chiesti, tuttavia, se uno Stato membro che non abbia recepito tale previsione, possa estendere il sindacato del giudice anche alle suddette
clausole, innalzando così il livello di tutela a favore del consumatore.
Nella specie, l’Ausbanc, associazione spagnola degli utenti dei servizi
bancari, presentava un ricorso nei confronti della Caja di Madrid, diretto
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a ottenere l’eliminazione dai contratti di mutuo destinati all’acquisto di alloggi della clausola scritta c.d. di arrotondamento, a norma della quale il
tasso di interesse nominale previsto dal contratto, variabile periodicamente a seconda dell’indice di riferimento pattuito, deve essere arrotondato, a
partire dalla prima revisione, al quarto di punto superiore. Il Tribunal Supremo, innanzi al quale giunge il caso a seguito dell’impugnazione della
pronuncia d’appello, osservava che la clausola in questione doveva essere
considerata elemento essenziale del contratto di mutuo bancario e, pertanto, non soggetta al sindacato sul carattere abusivo della stessa, ai sensi
dell’art. 4, n. 2, Dir. 93/13/CEE, tale norma pacificamente escludendo una valutazione siffatta per le clausole concernenti segnatamente l’oggetto del contratto. Tuttavia, i giudici spagnoli rilevavano,
altresì, che, stante la mancata trasposizione nell’ordinamento spagnolo dell’art. 4, n. 2, in forza della legislazione nazionale, il contratto de
quo era, invece, soggetto ad un controllo circa il carattere abusivo della
clausola. In tale contesto i giudici decidevano di sospendere il giudizio e di
sottoporre la questione alla Corte europea, al fine di stabilire se fosse da
considerarsi ammissibile per una legislazione nazionale prevedere, a tutela dei consumatori, un controllo giurisdizionale del carattere abusivo delle
clausole contrattuali escluse dall’art. 4, n. 2, sebbene formulate in modo
chiaro e comprensibile, ovvero se lo stesso fosse in contrasto con la normativa comunitaria in materia e/o con i principi generali del Trattato.
La Corte di Giustizia ha evidenziato anzitutto che la direttiva 93/13/
CEE ha imposto un’armonizzazione solo parziale delle legislazioni nazionali, prevedendo, pertanto, all’art. 8, la possibilità per gli Stati membri di «adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il Trattato,
per garantire un livello più elevato di protezione per il consumatore». Tanto premesso, a parere della Corte occorre stabilire se la portata dell’art.
8 si estenda all’intero settore disciplinato dalla direttiva e, dunque, anche
al suo art. 4, n. 2 — che esclude la «valutazione del carattere abusivo
delle clausole» ivi previste, ove formulate in modo chiaro e comprensibile
— o se tale ultima disposizione esuli dall’ambito di applicazione del suddetto art. 8. La Corte di Giustizia, seguendo la giurisprudenza precedente, conclude nel senso che la deroga in melius, vigente o adottata dalla
legislazione interna di uno Stato membro, copre anche l’art. 4, n. 2, norma che, lungi dal fissare l’ambito di applicazione ratione materiae della
stessa normativa, si limita unicamente a stabilire la portata e le modalità
del controllo sostanziale delle clausole contrattuali, che non siano state
oggetto di trattativa individuale, le quali descrivano le prestazioni essenziali dei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore.
La Corte ha quindi elaborato il seguente principio di diritto: non può
essere impedito ai singoli Stati di mantenere o adottare, nel settore disciplinato dalla direttiva 93/13/CEE, regole più severe di quelle ivi previste,
al fine di garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore.
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Ne deriva che in un ordinamento, quale quello spagnolo, che non ha trasposto l’art. 4, n. 2, della citata direttiva, è ammissibile un controllo
giurisdizionale sul carattere abusivo anche di quelle delle clausole contrattuali il cui sindacato è escluso del menzionato art. 4, n.
2 (clausole vertenti sulla definizione dell’oggetto principale del contratto
o sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione da un lato, e i beni e
servizi che devono essere forniti in cambio dall’altro), pur se tali clausole
siano formulate in modo chiaro e comprensibile.
1.2. Verso un più ampio utilizzo del controllo giudiziale sul contratto. L’istituto
dell’“abuso del diritto” nella recente giurisprudenza
L’impostazione, tendente a valorizzare il controllo giudiziale sull’equilibrio
del rapporto contrattuale, non ha tratto impulso esclusivamente dalla
necessità di adeguamento al diritto comunitario e sta progressivamente
valicando i confini del settore consumeristico. Più in generale, infatti, si
assiste ad un nuovo modo di concepire il principio della libertà negoziale
nel nostro ordinamento giuridico, non più da intendersi come il frutto di
un insindacabile potere delle parti, ma da rileggere anche alla luce della
nostra Costituzione. Sembra essersi infatti acquisita la consapevolezza
che in un ordinamento solidaristico (si pensi al valore forte della solidarietà ex art. 2 Cost.), l’autonomia negoziale, non potendo essere illimitata, deve essere regolata e conformata ai valori di fondo cui l’ordinamento
si ispira. La giurisprudenza sempre più frequentemente evidenzia quindi
la necessità di operare la lettura delle norme sui contratti alla luce dei valori espressi dalla Costituzione.
In tale direzione, ad esempio, viene valorizzato il ruolo dei così detti doveri di protezione, che è quello di stabilire un principio generale
in tema di diritti spettanti al contraente debole che costituisce il fondamento ispiratore della normativa consumeristica. Con la locuzione, di
ispirazione germanica, «doveri di protezione» si fa riferimento all’obbligo
dei contraenti di comportarsi secondo buona fede. Tale obbligo implica il
compimento sia da parte del debitore che del creditore di tutti quegli atti
volti a far fronte ai pericoli derivanti dal cosiddetto contatto sociale che,
benché non esplicitamente dedotti in obligatione, abbiano ad oggetto immediato la conservazione della persona o della cosa della controparte o
siano fondati su un’esigenza di avviso o di informazione reciproca.
In quest’ottica, inoltre, la buona fede in senso oggettivo viene
elevato dalle più recenti pronunce della Cassazione ad un principio di giustizia superiore, e cioè a principio della solidarietà contrattuale che trascende il regolamento negoziale imponendo a ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra a prescindere da determinati
obblighi contrattuali o extracontrattuali. L’equità delimita diritti e doveri
delle parti. La buona fede, invece, non si ferma a questa delimitazione,
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ma richiede un impegno di solidarietà che va oltre, e che obbliga ciascuna
parte a tener conto dell’interesse dell’altra parte pur se si tratta di un interesse che non trova specifica tutela nella pretesa contrattuale o in altri
diritti. L’impegno di buona fede prevale dunque su quanto le parti hanno
stabilito, e ciò si spiega in quanto essa esprime un fondamentale principio etico dell’ordinamento.
Ai fini che qui rilevano, giova segnalare che, secondo la più recente
impostazione della Cassazione, la regola della buona fede non si rivolge
solo alle parti del rapporto (art. 1175 c.c.), ma anche al giudice stesso.
Alle parti, poiché impone a ciascuna di esse di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, al giudice, poiché nel caso in cui si giunga
ad una situazione di crisi, e le parti richiedano il suo intervento, egli deve
procedere ad interpretare il contratto, e nell’interpretazione del contratto
(oltre agli strumenti rappresentati dal senso letterale delle parole e delle
espressioni utilizzate), dovrà utilizzare il criterio della buona fede di cui
all’art. 1366 c.c. In concreto, se per le parti adeguare il proprio comportamento all’obbligo di buona fede significa cercare di predisporre un regolamento contrattuale, e poi darvi esecuzione, in maniera da realizzare
un costante bilanciamento degli interessi di ognuno, per il giudice interpretare il contratto secondo buona fede significa controllare lo statuto
negoziale, anche in senso modificativo o integrativo al fine di garantire il giusto equilibrio degli interessi. In tal senso si è espressa
la S.C. (Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in dispensa civile
10) che, nell’esaminare l’istituto dell’abuso del diritto (su cui a breve ci si
soffermerà), compie anzitutto una fondamentale ed interessante analisi
in ordine all’ammissibilità del sindacato giudiziale sul regolamento contrattuale. In particolare, la S.C. riconosce al giudice il potere di controllare il regolamento contrattuale nella sua interezza, “al fine di valutare se
l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della
buona fede, della lealtà e della correttezza”.
La giurisprudenza più recente ha dunque il merito da un lato di aver
chiarito che il controllo del giudice non è limitato a singole clausole
del contratto, ma può estendersi all’intero regolamento contrattuale e, dall’altro, specialmente, di aver precisato quali sono i limiti che
incontra l’autonomia privata, vale a dire non quelli, volta a volta indicati dalla legge a tutela di un interesse specifico, ma in generale, i canoni
della buona fede, della lealtà e della correttezza, espressioni dei doveri
di solidarietà sociali rinvenibili nella Costituzione. Infatti, se l’autonomia
privata non si pone più come schermo al controllo del giudice in merito ai
poteri e alle facoltà che hanno titolo nel regolamento contrattuale, indipendentemente dalle modalità di esercizio degli stessi previste dalle parti, il giudice potrà sempre verificare se essi corrispondano alla funzione
sociale dei diritti soggettivi (art. 42 Cost.) e siano contenuti nei limiti posti dai principi di buona fede e correttezza (art. 2 Cost.).
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È per l’appunto in questo contesto che si colloca l’istituto dell’abuso
del diritto, il quale sta ricevendo una sempre maggiore applicazione pratica e sta divenendo un importante strumento attraverso cui operare il
sindacato giudiziale alla luce dei canoni suddetti. Anzi, si può dire che la
Cassazione tende a creare un indissolubile legame tra la nozione di
buona fede in senso oggettivo e la figura dell’abuso del diritto, nel
senso che il recupero di quest’ultima fattispecie nell’ambito dei rapporti
obbligatori è avvenuto proprio attraverso la valorizzazione della clausola di buona fede. Poiché, infatti, l’obbligo di buona fede oggettiva costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione del generale principio
di solidarietà sociale, la buona fede è divenuta strumento di controllo
dell’esercizio di un diritto, nel senso che le parti, tenendo i comportamenti consentiti dal regolamento contrattuale, sono tenute a salvaguardare reciprocamente l’interesse altrui; naturalmente nel limite del c.d.
sacrificio apprezzabile.
Per completezza, va segnalato come tale impostazione sia stata criticata da parte della dottrina, la quale evidenzia invece la necessità di
evitare un’inaccettabile equiparazione della figura dell’abuso del diritto
con la clausola generale della buona fede e correttezza, rischiando così di
svuotare di significato il divieto di abuso del diritto e di renderla una categoria, di fatto, inutile e destinata ad essere espunta dal ragionamento del
giurista. È stato affermato, infatti, che proprio se si vuole costruire una
teoria dell’abuso del diritto (come sembra nelle intenzioni della Cassazione) è necessario rivendicare ad esso un autonomo spazio dogmatico.
Tanto precisato, appare utile richiamare il concetto stesso di “abuso
del diritto” di cui già si è detto nella Lezione C1 (par.2)
Orbene, con tale locuzione deve intendersi l’esercizio di un diritto che,
pur essendo apparentemente conforme al suo contenuto, è in realtà funzionale al conseguimento di un’utilità inaccettabile secondo la
comune coscienza sociale. Più precisamente, nella nozione di abuso del
diritto convivono sia l’idea del comportamento contrastante con gli scopi
propri di ogni istituto giuridico, sia l’idea del comportamento mosso da
motivi abietti o comunque non meritevoli di tutela e dunque da sanzionare (per una compiuta ed approfondita analisi della fattispecie dell’abuso del diritto si veda anche CARINGELLA – BUFFONI, Manuale di diritto civile,
2010, pagg. 131-136).
Come noto, il codice civile del 1942 non prevede una disposizione generale relativamente all’abuso: probabilmente, nell’allora
contesto storico-giuridico, i timori di un eccessivo spazio che la figura
dell’abuso avrebbe garantito alla discrezionalità del magistrato pesarono
a favore della radicale scelta in senso negativo da parte del legislatore.
Va tuttavia evidenziato che non mancano disposizioni codicistiche
evocanti l’idea di abuso del diritto: si pensi alle ipotesi più evidenti,
come quella di cui all’art. 833 c.c. in materia di divieto di atti emulativi
e come la fattispecie della clausola generale di buona fede di cui all’art.
549
LEZIONI E SENTENZE DI DIRITTO CIVILE
1175 c.c.; si considerino inoltre altre fattispecie, anch’esse comunque riconducibili a detto istituto (si rinvia, in particolare, alla lettura degli artt.
1059, 2° co., c.c.; 330 c.c.; 2793 c.c.).
Come visto, quindi, già nel codice civile vi sono numerose norme che
richiamano il principio dell’abuso del diritto; tuttavia, per lungo tempo la
tendenza generale ha sempre privilegiato un’interpretazione volta a sottolineare la specialità di queste norme. Più di recente, invece, si sta affermando l’idea secondo cui le suddette disposizioni siano espressione di un
principio generale che vieta l’esercizio di un diritto in contrasto con lo
scopo per il quale è riconosciuto e si evidenzia invece come l’esercizio di
un diritto non sia sistematicamente prefigurato dal legislatore quale attribuzione di un potere privo di controlli. Al contrario, il potere attribuito
al titolare del diritto è caratterizzato da limiti interni ed esterni, che
lo condizionano e lo circoscrivono, imponendone l’esercizio in vista della
realizzazione dell’interesse in funzione del quale è stato attribuito.
Ebbene, in tal senso sembra ormai orientata anche la giurisprudenza,
che ha fatto ricorso in diverse occasioni e con riferimento a fattispecie disparate alla categoria dell’abuso del diritto. Con specifico riferimento alla
materia contrattuale, si pensi al caso della doppia alienazione immobiliare, configurando quale abuso del diritto il comportamento del secondo acquirente in mala fede, il quale ha fatto un uso distorto dell’istituto della trascrizione. L’abuso del diritto, poi, è stato altresì applicato con
riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), ai contratti bancari (sul contratto di apertura di credito, v. ad es. Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805;
Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n.
8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass.
1.10.1999 n. 10864; Cass. 28.7.2004, n. 14239;Cass. 7.3.2007 n. 5273).
Del principio dell’abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente utilizzo in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn.
30055, 30056, 30057).
In ogni caso, ciò che va posto in evidenza è che – come si diceva - di
recente si sta assistendo ad una selezione e rivisitazione dei i principi della buona fede oggettiva e dell’abuso del diritto, che vengono riletti alla luce dei principi costituzionali, quali quello di solidarietà ex
art. 2 Cost. e della funzione sociale ex art. 42 Cost. È proprio in questa
prospettiva, quindi, che i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti,
anche di un rapporto privatistico, e l’interpretazione dell’atto giuridico di
autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Ciò è particolarmente evidente proprio nella sopra richiamata sentenza Cassazione n. 20106/2009 (in dispensa civile 10; sull’argomento, cfr.
550
Lezione C10
amplius lezione C1), che configura come abuso del diritto il recesso ad
nutum posto in essere dal contratto di concessione di vendita stipulato
tra una nota casa automobilistica e una serie di concessionari-rivenditori.
La pronuncia si segnala altresì in quanto, oltre ad aver chiaramente individuato gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto, ha precisato che il
controllo sul regolamento contrattuale, operato attraverso tale fattispecie, non incide certamente sulla libertà di scelta economica dell’imprenditore, la quale,, in sé e per sé, non è minimamente scalfita;. Infatti, ciò
che è censurato è l’abuso, ma non di tale scelta, bensì dell’atto di autonomia contrattuale che, in virtù della scelta economica, è stato posto in
essere. In quest’ottica, l’irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a
monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude – ma anzi prevede – un controllo da parte del giudice,
al fine di valutare se l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principi
espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e
della correttezza. In altri termini, non è compito del giudice valutare
le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale.
Diversamente, quando, nell’ambito dell’attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono – ad es. nei
contratti d’impresa – gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti
contrattuali. In questo caso, nell’ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave
patologica e sia richiesto l’intervento del giudice, a quest’ultimo spetta
di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione
dei contraenti. Ciò vuol significare che l’atto di autonomia privata è, pur
sempre, soggetto al controllo giurisdizionale.
Da ultimo, si segnalano tre più recenti pronunce della Cassazione, che ha utilizzato la fattispecie dell’abuso del diritto in ambito processuale e in materia di contratti tipici (comodato e locazione).
A) In particolare, Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634, ha applicato per la prima volta il principio dell’abuso dello strumento processuale in tema di spese giudiziali. Il caso di specie riguarda il comportamento processuale di dieci persone che avevano proposto una
procedura davanti al TAR del Lazio per chiedere l’adeguamento triennale
dell’indennità giudiziaria. Dopo la definizione di quel processo, ciascuna
di quelle parti propose con il patrocinio dello stesso difensore distinti ricorsi alla Corte di appello per ottenere la liquidazione dell’equo indennizzo. Quei ricorsi furono, poi, riuniti dalla Corte di appello che li decise con
un unico decreto.
La questione affrontata dalla Cassazione è consistita nell’individuare
quale dovesse essere il criterio di liquidazione delle spese di giudizio del
grado che si era svolto davanti alla Corte di appello. I ricorrenti sostenevano che ai fini della liquidazione delle spese avrebbe dovuto essere seguito il criterio “secondo il quale, essendo stati proposti distinti ricorsi ex
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LEZIONI E SENTENZE DI DIRITTO CIVILE
lege n. 89/2001, riuniti dalla Corte di appello solo in esito alla discussione
in camera di consiglio, spetterebbero gli onorari e i diritti distintamente
per ogni procedimento fino al momento della riunione”. La S.C., viceversa, ha ritenuto che quel criterio, nella particolare fattispecie oggetto di
giudizio, non potesse essere seguito in quanto tale condotta configura un
abuso del processo, avendo le parti utilizzato lo strumento processuale
con modalità tali da arrecare non solo un danno al debitore senza necessità o anche solo apprezzabile vantaggio per il creditore, ma anche da interferire con il funzionamento dell’apparato giudiziario.
B) Con la sentenza Cass., sez. Trib., 19 maggio 2010, n. 12249
(massima in dispensa civile 10), la S.C. ha stabilito che l’esistenza
di un contratto tipico - nella specie, il comodato - tra due parti non
esclude l’abuso di diritto qualora si possa presumere che l’operazione sia finalizzata esclusivamente ad ottenere vantaggi fiscali. La Corte ha anzitutto confermato l’abbandono del risalente orientamento (da ultimo, Cass. 5282/02), che precludeva all’Amministrazione
finanziaria di rideterminare la natura di un contratto, prescindendo dalla
volontà realmente manifestata dalle parti, ed ha confermato, invece, il
nuovo corso interpretativo che permette al Fisco, assumendone l’onere
della prova, di esercitare il potere di riqualificare i contratti stipulati dalle parti o di farne rilevare la nullità o invalidità, in modo da dare ingresso
ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello che consegue agli
effetti dello schema contrattuale adottato dalle parti. Tanto premesso,
la Cassazione ha inoltre ribadito – secondo una più recente impostazione
- che nel nostro ordinamento sussiste una clausola generale antielusione. L’esistenza di tale clausola è stata più volte affermata dalla giurisprudenza comunitaria (Causa C-255/02 Halifax), che ha individuato una
nozione generale di abuso del diritto, applicabile anche all’imposizione
diretta (sentenze Halifax e Part Service). In particolare, secondo i principi sull’abuse of right, elaborati dalla Corte di giustizia UE, si ha abuso
solamente se lo scopo della legge viene del tutto annullato, nonostante la
sua formale osservanza, con il fine di ottenere un vantaggio, mediante la
creazione artificiosa delle condizioni necessarie a conseguirlo. La S.C. è
andata però oltre, sostenendo che la matrice di una generale clausola antielusione nel nostro ordinamento trova fondamento non tanto nel diritto comunitario, ma proprio nel sistema costituzionale (così la Sezioni
Unite n. 30055 e 30057/08) ed in tal modo ha conferito una copertura
giuridica ampia all’estensione dell’abuso del diritto a tutte le manifestazioni della fiscalità.
Ebbene, seguendo questa impostazione, sono contestabili dal Fisco,
e comunque ad esso non opponibili, non solo i comportamenti fraudolenti derivanti dagli schemi negoziali che li configurino, ma anche quelli che
comportano un abuso del diritto autonomo rispetto all’ipotesi di frode,
aventi carattere meramente elusivo e quindi diretti a conseguire vantaggi di ordine fiscale in assenza di concrete e valide ragioni di natura eco-
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Lezione C10
nomica. Connotazioni che possono rinvenirsi in qualsiasi atto negoziale,
tipizzato o meno. Ed infatti, la Suprema Corte non ha avuto difficoltà a riconoscere che il divieto dell’abuso del diritto ricorre anche se il contratto
è tipico ed è privo di concrete finalità illecite, oltre che voluto realmente
dalle parti, assumendo rilevanza ed essendo solo richiesto che ricorrano
oggettivi elementi che inducano a ritenere che si è fatto ricorso
ad esso essenzialmente allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale. La sentenza chiarisce quindi che eventuali marginali e non determinanti ragioni economiche concorrenti non scalfiscono questa ricostruzione che fa ritenere l’utilizzo del contratto, tipico o atipico poco importa,
come strumento per realizzare un abuso dello schema legale per conseguire finalità di elusione fiscale, essendo intento determinante delle parti
quello di ottenere un abbattimento dell’onere fiscale.
Da segnalare, è proprio l’estensione dell’applicazione dei principi
sull’abuso del diritto, come elaborato sulla base della giurisprudenza
comunitaria, anche ai contratti tipizzati dal codice civile, che, secondo un’opinione diffusa, dovrebbero essere immuni dalle manipolazioni
che possono invece riguardare i contratti atipici (tra tutti ad es. il leasing frazionato o il lease-back). Nella specie, l’uso del contratto tipico del
comodato, con riferimento alla natura abusiva dell’operazione, è stato
considerato inconsueto ed anomalo rispetto alla normale funzione di tale negozio giuridico e non è servito al contribuente invocare la tipicità del
contratto e generici motivi di convenienza organizzativa per fornire la
prova, rimessa a suo carico, che l’impiego dello strumento contrattuale
in contestazione non aveva il fine essenziale di conseguire un risparmio
di imposta.
C) La soluzione relativa all’applicabilità anche ai contratti tipici
dell’abuso del diritto, prospettata dalla sezione Tributaria, è stata fatta propria anche dalla sezione III della Cassazione (Cass., sez. III, 31
maggio 2010, n. 13208, massima in dispensa civile 10), che ha ritenuto contrario a buona fede il comportamento di un locatore che aveva
chiesto la risoluzione del contratto di locazione per mancata corresponsione dei canoni, nonostante fosse debitore nei confronti della società
conduttrice (per una serie di lavori sull’immobile preso in affitto) di una
somma anche maggiore dell’ammontare dei canoni di locazione richiesti.
La Cassazione, in tale pronuncia, porta alle estreme conseguenze,
con un salto logico in realtà poco condivisibile, il legame tra buona fede
ed abuso del diritto, giungendo ad identificare pienamente quest’ultimo con tale clausola generale. Viene infatti affermato che il principio
della buona fede deve presiedere alla formazione, all’esecuzione e all’ interpretazione del contratto, comportando, quale ineludibile corollario, il
divieto, per ciascun contraente, di esercitare verso l’altro i diritti che gli
derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da
quello cui questi diritti sono preordinati, nonché il dovere di agire, anche nella fase della patologia del rapporto, in modo da preservare, per
553
LEZIONI E SENTENZE DI DIRITTO CIVILE
quanto possibile, gli interessi della controparte, e quindi, primo tra tutti,
l’interesse alla conservazione del vincolo. Costituisce abuso del diritto,
la circostanza che, in un contratto di locazione, il locatore, pur potendo
realizzare il proprio interesse attraverso altri strumenti, agisca per la risoluzione del contratto.
Inoltre, con specifico riferimento al rimedio della risoluzione, il
Collegio di legittimità ha statuito che l’apprezzamento della slealtà del
comportamento della parte che invochi la risoluzione del contratto per
inadempimento pur avendo altre vie per tutelare i propri interessi, non
possa non ripercuotersi sulla valutazione della gravità dell’inadempimento stesso, che dell’abuso del creditore della prestazione costituisce l’interfaccia. Non par dubbio infatti che il giudizio di pretestuosità
della condotta dell’attore in risoluzione si risolve nel riconoscimento della scarsa importanza dell’inadempimento, avuto riguardo all’interesse
dell’altra, a un interesse, cioè, che poteva essere preservato senza ricorrere al mezzo estremo dell’ablazione del vincolo.
1.3. Il controllo giurisprudenziale sul contratto “sostanzialmente” iniquo: usura e clausola penale
Ferma restando l’ammissibilità in via generale del sindacato giudiziale
sulla procedural justice, in alcuni casi il nostro ordinamento consente anche un controllo eteronomo sull’equità in sé del programma
negoziale, ovvero sulla substantive justice.
La fattispecie più significativa è rappresentata dalla pattuizione di
interessi usurari, sanzionata civilisticamente con la nullità e la conversione del mutuo oneroso in mutuo a titolo gratuito.
Si osservi, preliminarmente, che l’usurarietà è un concetto unitario in
sede civile e penale, e che essendo le norme civilistiche silenti sul punto, occorre fare riferimento all’art. 644 c.p. anche ai fini dell’applicazione dell’art. 1815, co. 2, c.c. (vedi sul tema la lezione civile 4). Ora, l’art.
644 c.p., (dopo le innovazioni introdotte dalla l. n. 108/1996) prevede con
riferimento all’usura pecuniaria ad interessi, che è la legge a stabilire il
limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. È, quindi, evidente che in tal caso il giudice, avvalendosi del parametro richiamato dalla
norma, valuta l’equità in sé del contratto, a prescindere dalle condizioni
soggettive delle parti.
Secondo un condivisibile orientamento, un’altra ipotesi eccezionale di
sindacato sulla substantive justice è costituita dall’intervento del giudice sulla clausola penale ex art. 1384, c.c. Tale norma si riferisce ai
rapporti contrattuali di pari forza, a differenza dell’art. 33, co. 2, lett. f)
del Codice del consumo, il quale statuisce una presunzione di vessatorietà della penale manifestamente eccessiva inserita nei contratti tra consumatore e professionista.
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Schema di svolgimento C10
TRACCIA C10
Premessi brevi cenni sulla clausola generale della buona fede in ambito contrattuale, illustri il candidato la fattispecie dell’abuso del diritto, individuandone i
possibili referenti normativi e l’applicazione in concreto compiuta dalla giurisprudenza, soffermandosi in particolare sulla problematica del sindacato giudiziale
sull’autonomia negoziale.
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
Nozione di buona fede in senso oggettivo: (cfr. CARINGELLA - BUFFONI, Manuale
di diritto civile, 2010, pagg. 417 ss.)
– Fondamento normativo: analisi dell’art. 1175 c.c. e applicazioni in materia contrattuale
– Rapporti tra clausola generale della buona fede e principio di correttezza
– Differenze con la buona fede in senso soggettivo
Abuso del diritto: (cfr.CARINGELLA - BUFFONI, Manuale di diritto civile, 2010, pagg.
131 ss).
– Elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sviluppatasi in ordine a tale istituto
e, anche in chiave critica, le possibili correlazioni con la clausola generale della
buona fede di cui all’art. 1175 c.c.
– Referenti normativi rintracciabili nel codice civile (ad es., artt. 833 c.c.; 1059, 2°
co., c.c.; 330 c.c.; 2793 c.c.).
– Applicazione pratica che l’istituto dell’abuso del diritto sta ricevendo nella recente giurisprudenza di legittimità: esaminare in particolare le conclusioni cui
è giunta la Cassazione con le sopra esaminate sentenze: Cassazione civile,
Sez. III, 18 giugno 2009, n. 20106; Cassazione civile, Sez. I, 3 maggio 2010, n.
10634; Cassazione civile, Sez. Trib., 19 maggio 2010, n. 12249; Cassazione civile, Sez. III, 31 maggio 2010, n. 13208.
Sindacato giudiziale sul contratto
– Evoluzione del pensiero giuridico: dal dogma dell’intangibilità dell’autonomia negoziale al controllo sulla procedural justice
– Esame del settore consumeristico sotto il profilo del sindacato giudiziale
– La fattispecie dell’abuso del diritto quale strumento sempre più frequentemente
utilizzato dai giudici per operare un controllo sul testo del contratto
– Le ipotesi di controllo sulla substantive justice
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