EMANUELE PANDOLFINI (1929 – vivente) pittore scultore “Pandolfini ha un suo mondo da evocare con questo linguaggio di tensione cromatica: una paura ancestrale per cui popola i quadri di mostri favolosi che galoppano sotto cieli di fiamma” Emanuele Pandolfini costituisce con Renato Guttuso e Giuseppe Migneco la triade dell’iconismo siciliano del dopoguerra. Nasce a Palermo nel 1929, la sua infanzia fu pesantemente condizionata da una caduta, di cui restò vittima, che lo costrinse in ospedale fino a dodici anni. Ma fu proprio grazie a quella condanna all’inerzia fisica che si rivelò la sua attitudine al disegno, al lavoro manuale, o comunque ad un’attività che non richiedesse piena libertà di movimento. Uscito a dodici anni dall’ospedale, nel 1941, il giovane Pandolfini si ritrova, nella nativa Palermo, in piena guerra, nel caos. Alle difficoltà comuni si aggiungono, per lui, i postumi della caduta, che lo condizionano fortemente, unitamente alle avverse vicende familiari. A tre anni perde il padre; sarà la madre che ne seguirà le sorti. Sfruttando la sua attitudine al disegno, entra, come intagliatore di casse funebri, in una delle molte botteghe artigianali che sorgono nella sua città. Passa poi ad intagliare mobili, compiendo un piccolo salto di qualità. Poi apre una propria bottega, conquistando una relativa autonomia. Ma, più che l’artigianato, il suo obiettivo è l’arte. Segue un corso di scultura all’Istituto d’Arte e si avvia nello stesso tempo alla pittura, quindi entra a diciotto anni all’Accademia di Belle Arti di Palermo, dove studia sia scultura che pittura: la scultura con Filippo Sgarlata, lo scultore e medaglista di Termini Imerese, la pittura con Pippo Rizzo, il pittore futurista siciliano che dirige l’Accademia ed ha favorito l’iniziazione all’arte di altri giovani dell’isola, come Renato Guttuso e Nino Franchina. Combattuto fra la scultura e la pittura, coltiverà l’una e l’altra, alternativamente, finché non si dedicherà con continuità alla pittura. A diciassette anni aveva perso anche la madre, da solo non potrà fare affidamento che sulle sue proprie forze. Un lavoro fisso presso l’Ente della Riforma Agraria, nel quale dovrebbe collaborare alla realizzazione di un grande plastico per la diga del Belice, lo sottrae alle difficoltà immediate, consentendogli di continuare a seguire, nello stesso tempo, i corsi all’Accademia. Apre un proprio studio, come scultore, e, forse per sfuggire alla solitudine, si sposa. Ha diciannove anni: dietro di sé non ha che vicende tristi, ma il futuro è aperto ad ogni evenienza. Sarà la scultura a dargli le prime soddisfazioni, nel giro di qualche anno Emanuele Pandolfini diventa un nome noto negli ambienti artistici ed intellettuali di Palermo. Nella mostra che viene allestita nel 1957 a Monreale ottiene il primo premio con una delle sue opere plastiche; successivamente ne conquista un altro alla quinta mostra di Arti Plastiche e Figurative di S. Flavia. Il ventottenne artista siciliano mostra con sempre maggiore determinazione il suo notevole talento come scultore, che si traduce in forza espressiva ed eleganza formale. Il ritratto in bronzo del Cardinale Ernesto Ruffini e del suo amico scrittore Vitaliano Brancati, dimostrano le sue eccezionali doti di ritrattista acuto e lungimirante. Il suo studio in via Principe Belmonte diventa ritrovo di artisti, critici, intellettuali e giornalisti della città. Nel 1959 allestisce la sua prima personale alla galleria Flaccovio, riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica. Qualche altra delusione la vita gliela riserverà quando il suo matrimonio, contratto dieci anni prima, naufragherà. Nel 1961 si trasferisce a Roma dove tuttora lavora, Palermo, per quanto ricca di fermenti, non può essere il suo traguardo ultimo, come non lo era stato per gli artisti isolani della generazione precedente alla sua, come Pippo Rizzo, Renato Guttuso, Nino Franchina, che avevano puntato, con vario successo, su Milano e su Roma. Non tarda ad imporsi nel dibattito culturale della capitale dove si fa conoscere ed apprezzare subito con una personale di dipinti alla galleria “La Bottega” in piazza Belli, il cui catalogo era stato curato da Giacomo Etna che scriverà di lui: «Si sente che deriva da un filone della pittura mitteleuropea, che con l'espressionismo ha dato un'impronta a gran parte dell'arte contemporanea, contrapponendosi all'astrattismo per una esaltazione dei valori umani e dei contenuti”. Qualche mese dopo, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, l’ambasciata rumena gli commissiona il busto di Giuseppe Garibaldi da innalzare in una piazza di Bucarest. Sull’importante avvenimento un documentario a colori della INCOM viene proiettato su tutti gli schermi nazionali. Apre uno studio-galleria in via di Gesù e Maria, nel cuore del quartiere artistico della città; tiene mostre nel proprio studio e in altre sedi, nella capitale e in altre città italiane, Napoli, Verona, l'Aquila; viene recensito con favore dai critici e trova spazio in quotidiani e riviste importanti; ottiene l’onore di ampie monografie. Nello stesso anno, viene premiato alla mostra “Città di Segni”, che gli vale l’invito alla III Rassegna di Arti Figurative di Roma e del Lazio. L’anno dopo. Nel 1962, l’editore De Luca pubblica una sua monografia di Giacomo Etna e tiene una personale alla galleria “Artisti d’Oggi” presentata da Vito Apuleo. Così il maestro diventa nell’ambiente artistico della capitale uno dei massimi esponenti della pittura figurativa italiana sicché s’interessano alla sua ricerca insigni scrittori e critici come il poeta e collega Rafael Alberti, Marcello Venturoli, Franco Miele, Renato Civello, Carlo Giacomozzi, Luigi Tallarico e altri ancora. Nel 1963, in occasione di una personale di disegni, presentata da Virgilio Guzzi ancora alla galleria “Artisti d’Oggi”, conosce Renato Guttuso, con il quale si legherà in sincera amicizia. E’ invitato alla mostra “Pittori d’oggi a Roma” organizzata dai Lyons Clubs ed a quella “Colore Romano” ordinata nella galleria Gussoni di Milano. Espone alla mostra “Artisti del nostro tempo”, alla galleria “Laurina”, e successivamente alla galleria “Anthea” nella mostra Internazionale “Sette Scultori”, con Pericle Fazzini, Emilio Greco, Amerigo Tot e Marcello Mascherini, nella quale il toro è il maggiore e insistito motivo, e mette in evidenza il risultato di una indagine scrupolosa ed appassionata dell’animale. Nel 1965 la RAI nella rubrica “Ultimo quarto”, gli dedica un servizio curato dallo scrittore Renato Giani. Divenne così in pochi anni uno dei massimi esponenti di quella “Nuova Figurazione” romana affermatasi negli anni Sessanta. La sua affermazione nella capitale prosegue per tutto il decennio anche se in quel periodo irrompono in campo artisti di ogni tendenza, a cominciare dai pittori della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo” di Mario Schifano. Nel 1970 il nome di Pandolfini figura sulla copertina di una voluminosa monografia nella quale se ne ripercorre l’attività dal 1950 al 1970, come pittore, grafico e scultore. Curato da Elio Mercuri, il libro reca contributi critici di Giancarlo Fusco, Mario Lunetta, Mario Maiorino e Vito Riviello, nonché una testimonianza di Renato Guttuso. Anche gli anni Settanta segnano per Emanuele Pandolfini un periodo felice. L’arte e la vita si nutrono reciprocamente, in un connubio creativo. Il pittore-scultore lavora con alacrità, e il suo lavoro trova sempre un riscontro oggettivo, un’accoglienza positiva da parte della critica e del pubblico. E’ sempre un gran disegnatore, nonché un pittore con connotati personali sempre più marcati, pur se la tendenza all’analisi di ciò che fa ne intralcia talvolta l’estro inventivo: “Sono sempre scontento, analizzo troppo” confesserà l’artistaA partire dagli anni Ottanta la vita riprende il sopravvento sull'arte, imprimendo all’attività del pittore-scultore un andamento quanto mai problematico ma continua a lavorare, a disegnare e dipingere, a fare mostre, ad essere recensito da critici di nome, come Enzo Bilardello che scrive di lui nel 1986: “La natura si esprime liberamente, le forme sono tutte fascinose e come viste in sogno. Di questa temperatura si nutre Emanuele Pandolfini, pittore e disegnatore non collocabile in nessuna sigla, libero di riecheggiamenti, sempre pronto a seguire il suo istinto”. Oggi Emanuele Pandolfini si ripropone con una serie di quadri nuovi e sorprendenti da “L’uccello di fuoco” a “Stefania e il gatto”, da “L’amour fou” a “La Pensatrice”, da “Tensione esplosiva” al “Ratto d’Europa”, che rivelano forza, immaginazione, vivo senso del colore, nonché una vena umoristica rara. Bernardo Berenson diceva che lo scopo della pittura era quello di accrescere la vitalità di colui che li guarda. I dipinti di Pandolfini non solo accrescono l’energia di colui che li osserva, ma sono anche spesso motivo di un sottile divertissement (Costanzo Costantini). Le sue opere sono presenti nei maggiori musei d’arte moderna sia europei, che americani. Oltre che in numerose collezioni private d’importanza nazionale. Carlo Maria d’Este (Centro reg.le Beni Culturali) FONTE www.emanuelepandolfini.com