Intervento di Mariano Gabriele a Quercianella

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RISORGIMENTO E UNITA’ D’ITALIA
Il concetto della nazione fondamento dello Stato si afferma in Italia dopo la
Rivoluzione francese, quando le illusioni verso Parigi e Londra finiscono di
consumarsi e gli italiani capiscono che nessuno regalerà loro l’indipendenza. Così,
quando il ministro degli Esteri inglese Castlereagh - uno dei padroni del mondo al
Congresso di Vienna - preferisce la militarmente più solida alleanza austriaca a
quella dei patrioti italiani ed esorta Federico Confalonieri, nel maggio 1814, ad avere
fiducia nell’Austria, riceve questa risposta: ”Il nostro Paese, se non ha gustato mai il
bene di una esistenza politica e nazionale, è da vent’anni che corre dietro a
quest’idolo dei suoi voti; la sola speranza ed il solo nome di questa esistenza gli
hanno fatto fare sacrifici d’ogni genere; ma questi sacrifici stessi, questo impiego, o
piuttosto abuso dei suoi mezzi e delle sue forze, l’hanno portata ad un grado di
energia, di vigore, di consistenza che non aveva mai toccato…Non siamo più quelli
che godevano in allora contenti e tranquilli del paterno governo austriaco”. (1) Il
nemico degli anni a venire, il nemico delle guerre nazionali è stato indicato.
Passano più di 30 anni di moti, di tentativi, di fallimenti, ma il 12 gennaio 1848,
per la festa del re, Palermo insorge, caccia le forze del Borbone, inaugurando, prima
in Europa, una stagione di insurrezioni e di libertà. Sia pure con molte riserve
mentali, i sovrani concedono costituzioni liberali a Napoli, Roma, Firenze, Torino;
solo questa – lo Statuto albertino – resisterà alla ventata di ritorno dei regimi
reazionari. Intanto però le rivoluzioni del 1848 incendiano Italia ed Europa: Franco
Della Peruta vi riconosce “il punto culminante di un’evoluzione di lungo periodo
della società europea”, che non accetta più il quadro istituzionale e territoriale del
Congresso di Vienna; vuole la libertà, l’indipendenza, l’identità nazionale, e rifiuta
una geografia politica guidata dal principio dell’equilibrio, in nome del quale
collettività nazionali sono state smembrate e divise o sacrificate al predominio di
un’etnia sulle altre. (2)
In Francia, Belgio, Olanda le forze borghesi hanno preso il sopravvento su quelle
feudali, ma hanno un atteggiamento difensivo verso quelle proletarie che pagano
sulla loro pelle lo sviluppo industriale; questo è successo anche in Inghilterra, dove
pure sopravvivono antichi privilegi sopravvivono, malgrado i sussulti proletari dei
“cartisti” che agitano la “carta del popolo” lanciata dal Place nel 1838. Nell’Europa
centrale invece, dove il processo è più arretrato e il potere è ancora nelle mani della
nobiltà che lo esercita attraverso la burocrazia e l’esercito, la borghesia è all’attacco e
il proletariato è ancora suo alleato. (3) Nel 1848 un nutrito calendario di moti scuote
l’Europa: il 22 febbraio la rivolta di Parigi segna la fine del regno di Luigi Filippo;
seguono Monaco, Lipsia e le manifestazioni dei cartisti in Inghilterra, il 13 marzo
tocca a Vienna, da dove Metternich è costretto a fuggire, e la notizia, giunta a Milano
nel pomeriggio del 17, fungerà da segnale per la rivolta armata.
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Del resto, è dal febbraio ‘47 che vi sono disordini in Lombardia, e Radetzky si
illude quando crede che il malcontento sia limitato alle città, perché anche se le idee
liberali e nazionali non entrassero nell’orizzonte dei contadini, vi entrerebbe
l’avversione alla coscrizione, alle imposte, al monopolio del sale, alle carte bollate. Il
contrasto con gli occupanti e il desiderio di ribellione crescono; il 6 febbraio, in
Duomo, si celebra un Te Deum di ringraziamento per il successo della rivoluzione
siciliana, e sui muri compaiono scritte: “Viva Palermo! Imitate i palermitani! Il pomo
è maturo!”. Quanto di frazionistico esiste nella rivolta siciliana – il separatismo da
Napoli - è già superato a Milano in chiave unitaria. Certamente i movimenti
risorgimentali sono diversi fra loro, però è “fuor di dubbio che lo Stato nazionale
italiano non può essere concepito come uno Stato accidentale, senza radici nazionali”.
(4)
Alla guerra di Carlo Alberto hanno aderito tutti sulle ali dell’entusiasmo; oltre ai
volontari, da Roma e da Napoli partono truppe regolari: bongré malgré, i sovrani
locali non osano opporsi e non sanno che quando le richiameranno non saranno
obbediti. Dilaga un’atmosfera spinta di esaltazione romantica, la stessa di cui
grondano le memorie di Garibaldi: “Sessantatre lasciammo le sponde del Plata per
recarci sulla terra italiana a combattere la guerra di redenzione”. Si chiama Speranza
il brigantino che li trasporta, e giunti in Ispagna apprendono “notizie tali da far
impazzire uomini assai meno esaltati di noi…l’Italia tutta rispondeva all’appello
dell’armi come un sol uomo e mandava i suoi contingenti di prodi alla guerra santa”.
E non è lui solo, ché il 17 aprile, durante la reggenza di Ruggero Settimo, il
Parlamento di Palermo ha deliberato di far partire “cento individui da scegliere nella
classe degli ufficiali dell’Esercito nazionale…per soccorrere i nostri fratelli di
Lombardia nella Santa guerra dell’Italiana Indipendenza”. (5) I termini “redenzione”
e “santa” applicati all’esplosione italiana colgono il senso vero, quasi religioso, del
passaggio storico: e infatti l’Espérance di Ginevra, organo di tutte le rivoluzioni
europee, nel 1860 assimilerà la follia della patria alla follia della croce. A questo
punto nessuna delusione può produrre il tramonto del sogno, la cui concretezza
diventa irreversibile come il movimento risorgimentale. Lo Stato sardo non abolisce
lo Statuto e da tutte le terre d’Italia vi affluiscono patrioti in attesa di ricominciare. A
Torino si trovano a Villa delle Rose, della baronessa Olimpia Savio che perderà due
figli nella campagna sabauda del 1860-61; a Genova dalla libreria dell’esule trentino
Antonio Bettolo ogni giorno s’irraggia un messaggio inequivocabile, quello che viene
“dagli uomini di buona volontà, di fede, d’amore, dai liberali che s’adunavano in sul
vespero nella bottega dei libri a rammentare i morti per la patria, a sperare negli eroi
viventi…e macerarsi nell’ansia dell’impresa non compiuta”. (6) Non ancora
compiuta, perché sarà soltanto questione di tempi e di modi.
Ma torniamo alla Milano del marzo 1848, dove Cesare Correnti ha lanciato un
proclama al popolo: “Il destino d’Italia è nelle nostre mani. Un giorno può decidere la
sorte di un secolo”. La città ha 160.000 abitanti e strade contorte e strette che non
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facilitano l’impiego dei cannoni; dovunque sorgono barricate con mobili, masserizie,
mezzi del trasporto pubblico, qualsiasi materiale e cosa. Gli insorti controllano il
centro, Radetzky i bastioni per isolare la città dal contado ed affamarla. La
partecipazione popolare cresce e i combattimenti si estendono, ma nel disordine;
Cattaneo scrive che “si pugnò…senza commune disegno, sforzandosi ciascuno presso
le sue case d’acquistar terreno, di abbarrarsi, di scoprire armi e munizioni e toglierne
al nemico”. Si cerca una direzione unitaria, mentre la rivolta guadagna nuove
adesioni e nella notte sul 20 gli austriaci sono costretti a ripiegare verso il Castello. Il
giorno successivo e il seguente sono decisivi: gli austriaci versano in una situazione
sempre più critica per la caduta di molte posizioni e l’attacco dall’interno alle porte,
riuscito infine a Porta Tosa. Radetzky parla di migliaia di barricate, di fanatismo, di
un misto di “cautela” e “ardimento” dei milanesi, che gli fa supporre l’esistenza di
una guida militare estera: nulla di vero, naturalmente; respinte due volte le sue
offerte di tregua, il maresciallo si rassegna, la sera del 22: “Devo evacuare Milano,
questa è la più triste ora della mia vita! Tutto il paese è in rivolta, sono minacciato
alle spalle dal Piemonte, tutti i ponti sono tagliati…”. (7)
La guerra - dichiarata il 23 e seguita da giorni di indugio prima di attraversare il
Ticino - va avanti a strappi, con lunghe e dannose soste. Lo S.M. sardo è modesto; e
poiché manca un coordinamento efficiente tra piemontesi, toscani, pontifici,
napoletani e altri volontari, lo straordinario concorso degli italiani di tutte le regioni è
utilizzato male ai fini bellici. Alla fine di aprile una serie di successi piemontesi non
decisivi culminano nella resa di Peschiera; una puntata verso Verona durante la prima
settimana di maggio non approda a nulla ed è la premessa di una nuova sosta sino alla
fine del mese. Radetzky invece, mentre fronteggia l’avversario, può riorganizzare
l’esercito e attendere con serenità i rinforzi. Quando si muove, il 29 maggio, a
Curtatone e Montanara, la piccola divisione toscana e due battaglioni napoletani lo
trattengono più del previsto, favorendo così l’ultima vittoria sarda, quella di Goito del
30. Intanto però la divisione toscana è stata distrutta e il maresciallo austriaco attacca
in superiorità di Vicenza, eliminandovi il corpo di spedizione pontificio del generale
Durando (10 giugno) che non ha obbedito ai richiami di ritorno del papa. Col
miraggio di Verona, Carlo Alberto e i suoi generali sprecano il resto del mese e gran
parte di luglio, finché tra il 22 e il 26, nei combattimenti che vanno sotto il nome di
Custoza, frazioni dell’esercito sardo si trovano a combattere contro la massa
dell’esercito austriaco, sempre ben riunita, con esiti ovvi. Anche l’ultimo
combattimento davanti a Milano è caratterizzato in campo sardo da contrasti e dalla
dispersione delle forze schierate male su una linea troppo estesa. E’ l’armistizio di
Salasco. La ripresa delle ostilità, nel marzo 1849, si conclude rapidamente a Novara
la sera del 23, quando alla Bicocca 22.000 piemontesi si troveranno di fronte 34.000
austriaci e sarà inevitabile la sconfitta. Di positivo resta però la trasformazione di una
possibile guerra dinastica in una vetrina di episodi eroici che hanno coinvolto in armi
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i figli di tutte le terre d’Italia, non solamente il prode e coraggioso esercito
piemontese e il suo sfortunato sovrano.
E’ l’ora di Roma e di Venezia. Reduce dal fronte, in febbraio Garibaldi assiste alla
nascita della Repubblica; si tratta, per lui “del gigante delle Repubbliche, la
romana!...Non eran dunque sogni quella folla d’idee, di vaticini…quelle speranze di
risorgimento patrio” (8) che fin dall’infanzia lo avevano turbato. Ma il 25 aprile il
corpo del generale Oudinot sbarca a Civitavecchia e marcia su Roma; il 30 attacca la
città dall’Aurelia, avanzando in colonna come se dovesse soltanto occuparla, e
incappa in una grave sconfitta che lo ricaccia indietro. Tornerà solo il 3 giugno, in
condizioni di schiacciante superiorità e avrà partita vinta, ma da Porta San Pancrazio
ai Quattro Venti e dovunque lungo le mura la resistenza dei difensori attinge toni
epici: muore Mameli, muoiono tanti, dopo un altro mese di assedio cadrà anche la
Repubblica. Ma Roma trasmette due fondamentali messaggi; il primo certifica
l’inutilità di Custoza e Novara poiché di nuovo italiani di tutte le regioni combattono
insieme; il secondo anticipa i lineamenti etici e politici della nazione che non c’è, ed
è la Costituzione repubblicana, moderna, civile, democratica: il primo dei suoi
“principi fondamentali” afferma che “la sovranità è per diritto eterno del popolo”, il
secondo che “il regime democratico ha per regola l’uguaglianza, la libertà, la
fraternità”, il terzo che “la Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il
miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini”, il quarto che “la
Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna
l’italiana”. (9)
Resiste ancora Venezia. Proclamata il 22 marzo 1848 la Repubblica di San Marco,
arrivano a maggio Guglielmo Pepe e le truppe napoletane che lo hanno seguito,
disobbedendo al Re. Decisa la resistenza a oltranza, la difesa di Venezia si organizza
sul tamburo; anche qui i volontari, che non si ha tempo né mezzi per addestrare,
vengono da tutta l’Italia, anche se sono soprattutto veneti, romani, napoletani e
lombardi: lo Stato Maggiore vede insieme il napoletano Ulloa, il veneziano Paolucci,
il trapanese Mezzacapo, il milanese Sirtori. Tra attacchi e sortite, la resistenza va per
le lunghe, finché il 4 maggio gli austriaci attaccano il forte di Marghera con 60
cannoni che dopo 20 giorni diventano più del doppio; Marghera sarà abbandonata, e
il 13 giugno il nemico riprende più da vicino alla città il suo fuoco d’assedio. Tutto
peggiora, da Parigi e Londra giungono consigli di resa; le sortite sono inutili e
sanguinose: il 28 giugno cade da eroe il TC napoletano Rossarol, il 7 luglio il
capitano di marina Kolossek. Certo, dopo 17 mesi, “il morbo infuria/ il pan ci manca/
sul ponte sventola/ bandiera bianca”. (10) Ma quello che conta è che il soldato
meridionale catturato dal nemico risponda: “perché è la mia patria” a chi gli chiede
come mai rischi la vita a Venezia. E’ la stessa risposta che è venuta da Roma e dai
campi di battaglia del nord ed è definitiva: ormai tutti sanno che questa è soltanto la
prima guerra dell’Indipendenza italiana.
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Con Cavour, l’approccio cambia: non più soltanto la partecipazione nazionale,
entusiasta e disordinata, ma un’attenzione diretta al quadro europeo per impostarvi
l’avvenire e ricercarvi le alleanze necessarie per il successo delle speranze italiane. E
sarà Cavour, abile navigatore tra gli scogli della politica estera di un piccolo Paese
con grandi ambizioni, il tessitore perfetto della difficile trama dell’Unità italiana. Lo
sorregge, come vuole Treitschke, la coscienza degli interessi fondamentali della
nazione assunti nella forma più alta di moralità politica: una costante che informa le
azioni meditate di lungo periodo come quelle improvvisate dinanzi agli eventi.
L’estrema capacità del conte di adattare fini e mezzi alle circostanze condurrà
produrrà dagli avvenimenti imprevisti del 1859-60 un successo che era difficile
sperare in anticipo e la proclamazione del Regno d’Italia realizza un miracolo della
storia, così suggestivo che anche il Risorgimento tedesco vi si ispirerà. (11)
L’esperienza del 1848-49 suggerisce che il problema italiano e la prossima
guerra vanno affrontati con qualche alleato importante, così che si possa contare
anche – anzi, in primis - su un esercito forte e meglio condotto di quello piemontese.
Conosciamo tutti la vicenda della Crimea, l’attesa fremente di Cavour di “una bella
notizia” che finalmente arriva dal ponte di Tikrit sul fiume Cernaia. Per avviare
rapporti nuovi con i grandi Paesi occidentali saranno utili al conte i pochi caduti sardi
in combattimento (in realtà quasi nulla rispetto ai 1.300 uccisi dal colera) e qualsiasi
altro elemento possa essere messo sul tappeto: i principi liberali e nazionali,
l’abominio dell’oppressione e del dominio straniero. Dal Congresso di Parigi si arriva
a Plombières, e ancora, con l’assenso del Re, per allettare l’Imperatore dei Francesi e
ottenere gli accordi per la guerra del gennaio 1859, non si lesina nulla: matrimonio di
Clotilde di Savoia con Gerolamo Napoleone, cessione della Savoia e di Nizza,
assenso alle pretese di Parigi per un napoleonide re dell’Italia centrale e forse un altro
di Napoli.
Le ultime esitazioni di Parigi vengono superate quando Cavour riesce a far sparare
dall’Austria il primo colpo con l’ultimatum del 23 aprile: finalmente è la guerra, gli
opposti eserciti regolari cominciano a manovrare.
Ma subito, il 27 aprile, Firenze si solleva e in Italia cambia tutto radicalmente: non
tanto perché la rivolta si propaga ad Emilia e Romagne, che potrebbero far parte di
quel Regno d’Italia del nord riconosciuto ai Savoia, quanto perché la rivolta in
Toscana trascina il movimento unitario italiano oltre gli Appennini e non si fermerà
più. Gli insorti sono sulla linea di Ricasoli: “andare avanti, spingersi così lontano che
non si possa tornare indietro”. L’assetto che Napoleone III ha immaginato per l’Italia
è già saltato completamente.
Si susseguono la vittoria di Magenta, l’entrata a Milano dell’Imperatore e del Re,
l’avanzata verso est, Solferino e San Martino; mentre all’ala sinistra, come in tutte le
guerre del Risorgimento, combatte con successo Garibaldi. Sopravviene Villafranca e
la crisi, con Cavour che sbatte la porta, viene gestita con equilibrio da Vittorio
Emanuele. Ma Napoleone ha il problema di ottenere la Savoia e Nizza per far
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accettare in patria i costi umani e finanziari della guerra, che al momento per la
Francia è un fallimento perché ha ottenuto solo il matrimonio di plon plon e le regioni
insorte rifiutano l’assetto dell’armistizio di Villafranca.
Quando Cavour ritorna al governo, nel gennaio ’60, a Napoli si teme già un attacco
di truppe toscane e garibaldine e si manda per mesi la flotta in Adriatico, a
fronteggiare uno sbarco che non avviene. A marzo la Savoia e Nizza sono cedute alla
Francia, ma questa volta in cambio di Emilia e Toscana, la cui volontà di annessione
al Piemonte si manifesta attraverso plebisciti dall’esito scontato. Non è finita, ché a
maggio Garibaldi è in Sicilia, l’11 sbarca, il 27 è a Palermo, e il popolo è con lui:
“Anche le donne – scriverà - furono sublimi di patriottico slancio…Precipitavano
dalle finestre sedie, materassi, suppellettili d’ogni genere per il servizio delle
barricate, e molte si vedevano scendere nelle strade per aiutare a innalzarle”. (12)
Come 11 anni prima a Milano, ancora barricate, ancora italiani di regioni lontane tra
loro combattono fianco insieme a Napoli, fino al Volturno. Quando rammenta i suoi
compagni, studenti e operai, il Generale si commuove: “Com’erano belli i tuoi
Mille,…belli, i tuoi figli, Italia!” (13) La vicenda suscita emozioni nel mondo, e
Victor Hugo raggiunge il diapason nel discorso di Jersey: la rivoluzione si muove
con Garibaldi, “e di tanto in tanto, nel caos della battaglia, tra i fumi e i lampi, come
se fosse un eroe di Omero, dietro di lui si vede la Dea…L’Italia si leva, l’Italia
cammina, Patuit Dea”. (14) Non c’è da stupirsi che Paul Verlaine a un certo punto
non ne possa più di tanta retorica: “Garibaldi m’annuie/ comme la pluie…”.
All’avventura nel Mezzogiorno, che Cavour ha fatto seguire passo passo, segue
l’Italia unita. L’esercito di Vittorio Emanuele arriva in Campania dopo la battaglia
del Volturno, ma ancora in tempo per raccogliere la resa delle ultime piazze
borboniche: il 13 febbraio 1861 Gaeta, il 12 marzo Messina, il 17 Civitella del
Tronto.
Nasce lo Stato unitario, che avrà Venezia nel 1866 e Roma nel 1870. Per la
capitale è stata vissuta la passione più tormentata degli italiani, e quando – Roma!
Roma! – il giorno fatale arriva, Carlo Cattaneo lo saluta con queste parole: “La madre
della nazione, la madre dell’Italia una fu Roma. E ciò che da Lei venne, ora
manifestamente ritorna a Lei”.
Lo storico tedesco Golo Mann, scrive: “Il regno d’Italia era qualcosa di inaudito
nella politica europea. Non era la restaurazione di qualche cosa di preesistente,
perché mai, da quando il mondo esisteva, si era avuto uno stato d’Italia. Vittorio
Emanuele lo riconosceva pure lui: l’Italia non è più, diceva, il paese degli antichi
Romani, non è più l’Italia del Medioevo, ma ’l’Italia degli italiani’…una fusione
originalissima di ragion di stato e di movimento popolare, di diplomazia militare
pianificata e d’improvvisazione entusiasta non preordinata…Il risultato fu il regno
liberale unito, che non sarebbe purtroppo stato così felice, come prometteva la sua
fondazione”. Confrontando l’unificazione italiana e quella tedesca, questo autore nota
le analogie: “la ‘Società Nazionale’ tedesca fondata nell’autunno 1859 era
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un’imitazione dell’organizzazione italiana omonima”, ma soprattutto comune era una
forte aspirazione all’unificazione, trainata dagli stati-guida Piemonte e Prussia contro
l’Austria asburgica. I contrasti interni italiani però “erano molto più profondi di quelli
tedeschi. La Sicilia e la Lombardia erano due mondi: il Baden e la Sassonia non lo
erano”. In Italia l’Austria era per tutti il nemico, in Germania “una potenza
venerabile” che contava molti amici; a Torino v’erano migliaia di rifugiati napoletani,
a Berlino non c’erano migliaia di rifugiati bavaresi. (15)
Altre differenze non giocano a favore del nuovo Regno. Nel 1861 ha confini
indifendibili per terra e per mare, ma se non vuole sparire nella piccionaia dei
comprimari non può condurre una quieta politica di raccoglimento. Di qui l’esigenza
per l’Italia di essere subito, senza il tempo di esistere veramente. Così nel settembre
1861 Mamiani chiederà da Atene una maggiore presenza perché si capisca che nel
Mediterraneo è sorta una nuova potenza maggiore di Grecia e di Spagna (andrà una
flottiglia a Corfù e indirettamente sosterrà le invadenze dei pescatori italiani e la
fregata Italia ostenterà al Pireo i suoi 54 cannoni), e nel 1864, col pretesto di
proteggere i connazionali da disordini e non senza arrière pensées, l’intera flotta
italiana sarà in Tunisia, finché l’opposizione congiunta di Londra e Parigi non
convincerà Torino ad una partenza comune. Nei mari lontani, la già esistente stazione
navale sarda del Rio de la Plata assumerà importanza crescente, mentre il comandante
della Magenta, durante il primo viaggio di circumnavigazione del mondo di una nave
della Regia Marina, firmerà i primi trattati col Giappone e la Cina. (16) E’ un
presenzialismo che non dipende solo da motivi commerciali e che entro certi limiti
compensa l’inevitabile perdita di prestigio per altre vicende, finché nel maggio 1867,
quando Londra convocherà una conferenza delle potenze per evitare la guerra tra
Francia e Prussia, inviterà l’Italia sarà invitata, per la prima volta, a partecipare al
concerto europeo.
Il quadro interno non è entusiasmante: malgrado l’impresa dei Mille e le
disordinate iniziative del Partito d’Azione, sono stati i moderati a realizzare l’Unità:
hanno maggiore omogeneità sociale e clientele più forti. Sensibili dapprima alle
autonomie, diventano centralisti non appena si convincono che prefetti e carabinieri
sono i rimedi migliori per fronteggiare l’agitazione contadina; per decenni sono loro
la classe dirigente e, secondo una felice espressione di Montanelli, “confiscano lo
Stato”: (17) è una “oligarchia chiusa”, che all’inizio della vita unitaria detiene il
potere su una base elettorale dell’1,92% della popolazione ed estrania le masse fino al
XX secolo, aprendosi al resto della borghesia con la stessa cautela e gradualità con
cui estende il diritto di voto. Con tassazioni feroci la Destra storica risana il bilancio,
ma quando la Sinistra le succede, prima della democrazia compiuta si afferma il
trasformismo – dirà di avere ascendenti nel “connubio” di Cavour - che inaugura un
costume diverso e sempre attuale, dai primi “ascari” fino ai giorni nostri.
L’Italia neonata è un Paese povero e arretrato e tale resterà a lungo, non solo nel
Sud: ancora durante la prima guerra mondiale, nella provincia di Belluno i poveri
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usano il cucchiaio bucato, che consente di far durare di più la minestra; e nella stessa
regione i soldati francesi venuti dopo Caporetto, si stupiscono molto dell’antiquato
rapporto tra i sessi, dell’estrema sottomissione delle donne, del ruolo primario del
clero nel mondo contadino. (18) Peggiore è il ritratto dell’Italia che viaggiatori
inglesi, tedeschi, francesi – sensibili ai casi limite – disegnano al loro ritorno: è quasi
comprensivo il Times, che la chiama “paese del carnevale”. Si afferma così un ritratto
convenzionale dei ritardi e delle carenze italiane, fondato in gran parte su luoghi
comuni e stereotipi che non saranno mai aggiornati e corretti.
La situazione peggiore è quella del Mezzogiorno, per l’estensione generale della
miseria, per l’arretratezza dell’economia e dei processi di produzione, per la
mancanza di infrastrutture: le comunicazioni stradali, abbastanza buone nelle pianure
settentrionali, sono sempre meno efficienti andando al Sud, fino ad essere
praticamente inesistenti in vaste plaghe accidentate, condannate all’isolamento nella
cattiva stagione. Vi sono scelte incaute che danneggiano in particolare le regioni
meridionali, come l’estensione a tutto il territorio del Regno della normativa sarda
che provoca la caduta repentina delle alte barriere doganali dei vecchi Stati (80%
nelle Due Sicilie!), con effetti talora sconvolgenti; un altro esempio di come possa
peggiorare lo squilibrio verrà in seguito da una leggina che prevede l’intervento dello
Stato per 2/3 del costo di una strada quando localmente i privati contribuiscano per
1/3: lo scarso spirito associativo, l’assenteismo dei latifondisti, la povertà dei piccoli
proprietari e gli alti costi dei lavori in terreni accidentati faranno sì che il Meridione
non profitti del provvedimento, mentre nel Nord l’armamento del territorio si
perfeziona perfino a livello di strade interpoderali.
A un Paese che produce uno dei redditi più modesti d’Europa arriva il conto salato
delle guerre, per cui l’Italia unita raggiunge la pressione fiscale più elevata del mondo
dopo la Spagna; la contribuzione è distribuita ingiustamente perché le imposte
indirette prevalgono su quelle dirette, inducendo Pasquale Villari a commentare che
la tassazione risulta “alla rovescia, meno ha un individuo e più paga”.
Prevalentemente agricola, l’Italia ha la sua industria – privata - concentrata in
Piemonte e Lombardia dove la filosofia economica è liberista, mentre nel
Mezzogiorno di industria non si può parlare, salvo le poche iniziative pubbliche cui
ha dato vita il governo di Napoli nella latitanza di altri investimenti, una latitanza che
contribuirà, per carenza di domanda, a rendere vana la disponibilità del risparmio
meridionale ai fini dello sviluppo locale.
Nella rivolta del Meridione continentale giocano speranze deluse, in gran parte
infondate o eccessive in partenza, ma il cui fallimento viene vissuto come conferma
di diffidenze antiche e di nuovi tradimenti. Le condizioni di vita non migliorano, anzi
spesso peggiorano, e dove i consumi erano già all’osso non è illogico serpeggi la
rivolta; a rinforzarla contribuisce l’incauta condotta del governo, che persegue
l’unificazione ad immagine e somiglianza del Piemonte senza rendersi conto che i
suoi decreti sono recepiti talvolta come ostili imposizioni dello straniero usurpatore.
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Vi danno mano le sollecitazioni legittimiste – accade ancora oggi che per ignoranza o
malafede il regime borbonico sia falsamente spacciato come meno oppressivo di
quello unitario - e si comprende allora anche la collaborazione con criminali,
considerati compagni di lotta perché vendicatori di ingiustizie e violenze subite. Nei
primi anni di unità si commette un errore di portata storica affrontando la complessa
questione del brigantaggio solo come un problema di polizia. Ne consegue la “guerra
cafona” (19) con tutti i suoi brutti episodi che è giusto non negare e non dimenticare.
E’ però altrettanto importante non perdere di vista la dimensione reale dei fenomeni
perché la ferocia, le guerre civili, le “colonne infernali” e le repressioni violente non
sono un’esclusiva dell’Italia: i boulevards di Parigi sono stati costruiti così larghi e
dritti per potervi usare i cannoni contro le rivolte popolari e la guerra civile americana
ha causato agli Stati Uniti più morti che le due guerre mondiali sommate assieme; in
Italia non è stato così, a dispetto delle sciocchezze e delle menzogne che si scrivono.
E’ vero piuttosto che le leggi eversive dei beni della Chiesa del primo decennio
segnano un’occasione perduta per andare incontro alle speranze dei contadini:
produrranno solo “una gigantesca operazione d’ingresso del capitalismo nelle
campagne”, peggiorata nel Mezzogiorno dalla liquidazione di una parte
considerevole del demanio comunale a beneficio soprattutto dei grandi proprietari in
aste dominate dalla mafia. (20) Sono soltanto esempi, come sono esempi certe
disavventure coloniali e i conti sbagliati - due volte in 25 anni - sulla durata delle
guerre mondiali e la convenienza a intervenirvi.
Tuttavia, pur scontando senza falsi pudori tutto ciò che è passivo, a distanza di 150
anni il bilancio dell’Unità nazionale appare è senza dubbio largamente positivo.
L’Italia ha compiuto passi da gigante, si è trasformata in meglio, e ha guadagnato
terreno rispetto ad altri Stati più maturi e consolidati, più ricchi e più forti. Ha potuto
farlo solo perché e da quando le sue membra hanno cessato di essere sparse e divise,
grazie al Risorgimento. Quanto ai momenti oscuri, ha ragione Vivarelli: “Gli uomini
che nel 1861 fecero l’Unità d’Italia aprirono effettivamente la strada ad un progresso
che ha prodotto comunque enormi benefici per tutti. A loro dobbiamo soltanto
gratitudine. Se dopo centocinquanta anni alcune delle speranze di allora rimangono
ancora deluse, guardiamo alle responsabilità delle generazioni successive, guardiamo
alle responsabilità e alle insufficienze nostre. Se le condizioni di oggi ci sembrano
inferiori a quelle speranze e a quelle promesse, la colpa è tutta e soltanto nostra”. (21)
Ed è vero, Garibaldi non c’entra col Patto d’acciaio, Cavour è innocente di Adua.
Non ci sono alibi in quel passato per gli errori che sono seguiti; ogni generazione
risponda alla storia di quello che ha fatto.
Punto d’arrivo di una grande stagione storica, il 17 marzo 1861 è anche il punto di
partenza del cammino dello Stato unitario italiano, che taluno lamenta non essere
stato in linea con le speranze risorgimentali. Ma l’esperienza di nessun popolo è
esente da delusioni, sì che il panorama più frequente è composto da chiaroscuri.
Se vogliamo parlare di ombre, già Machiavelli rilevava che gli italiani, “per non aver
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avuto i prìncipi savi, non hanno preso alcun ordine buono, tale che rimangono il
vituperio del mondo”: non è difficile riconoscere nei prìncipi italiani del Cinquecento
una parte della classe politica nazionale. Spesso ha avuto troppo potere, lo ha usato
male ed è la prima responsabile dei traguardi mancati e dei momenti di declino,
inevitabili – ammonisce Polibio - quando l’interesse privato prevale sul bene comune.
Si allenta allora quel “senso del dovere” che Benedetto Croce nel settembre 1914
stimava carente in Italia, “debole militarmente perché lo è civilmente”; e gli pareva
impossibile supplirvi con l’improvvisazione, poiché oportet studuisse, non studere.
Ma se parliamo di luci, proprio gli handicap di partenza danno la misura del
progresso compiuto. In un Paese di analfabeti la scuola pubblica, coadiuvata per i
giovani di leva dalle FF. AA., ha svolto un ruolo decisivo nel processo di costruzione
della comunità nazionale. A buon diritto Sabatucci riconosce agli insegnanti il merito
di aver “cercato di fornire a tutti i ragazzi in età scolare, quali che fossero la loro
provenienza geografica e la loro condizione sociale, una base comune di letture e di
immagini, di conoscenze e di memorie…(Ciò è stato) fatto tra mille difficoltà e in
presenza di una cronica scarsità di risorse…soprattutto per merito di un corpo
insegnante tutt’altro che omogeneo, portatore di esperienze e di inclinazioni politiche
diverse, ma complessivamente capace di trasmettere quel patrimonio comune e di
supplire con una forte motivazione ideale alla povertà degli incentivi economici”. Si è
costruita così quella patria per la quale i contadini del Sud hanno potuto combattere e
morire sul Grappa e sul Piave, e i loro figli lavorare a Milano e a Torino. La cultura e
l’arte italiane sono riconosciute nel mondo al di là dei Nobel e degli Oscar
conquistati. L’economia, fondata all’inizio su un’agricoltura spesso misera, attinge un
primo sviluppo industriale con la guerra 1915-18, ma esplode nel secondo
dopoguerra portando l’Italia alla fine degli anni ’60 tra le prime economie del globo.
In campo internazionale, sebbene il Paese sia più fragile del ruolo che assume,
costretto a “correre col branco” – secondo l’espressione di Kipling - un branco di
potenze più consolidate e più forti, esso riesce tuttavia recitare una parte decorosa nel
continente e nel mondo. Né è lecito dimenticare che, superate le terribili prove del
secolo XX°, Roma acquisisce, con altre 5 capitali europee, la non piccola gloria di
fondatrice dell’Europa unita, solo modello politico utile a sostituire la nazione.
In conclusione, può dirsi che è giusto l’avvertimento di Montale: “La storia non si
snoda/ come una catena/ d’anelli ininterrotta”. La vita dei popoli è caratterizzata da
un’alternanza di fasi di crescita e di declino – anche l’Italia le ha vissute e le vive –
ma nel tempo lungo l’indicatore generale della nostra marcia ha guadagnato quote
verso l’alto in misura eccezionale, specie considerando il livello di partenza.
Sappiamo che sulla via s’incontrano problemi ed ostacoli anche gravi, ma i problemi
esistono per essere risolti, gli ostacoli per essere superati, nel cammino perenne verso
la frontiera senza fine della storia futura.
Mariano Gabriele
Gruppo Roma 6
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NOTE
(1) Carteggio del Conte F. Confalonieri, a cura di G. Gallavresi, Milano, Ripalta,
1910, I, pp. 135-37.
(2) F. Della Peruta, Il 1848 in Italia, in “150° Anniversario della rivoluzione del 1848
in Sicilia”, Palermo, Società Siciliana di Storia Patria, Serie IV, vol. XXV, 1999, p.
181.
(3) Cfr F. Curato, Il 1848 italiano ed europeo, in “Questioni di storia del
Risorgimento e dell’Unità d’Italia”, Milano, Marzorati, 1961, I, pp. 675 sgg.
(4) T. Kroll, Nobiltà e nazione nel Risorgimento: il caso toscano, Atti del Convegno
“La ricerca tedesca sul Risorgimento italiano. Temi e prospettive” (1-3 marzo 2001),
in “Rassegna storica del Risorgimento”, supplemento al fasc. IV, 2001, LXXXVIII,
p. 42.
(5) G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze, Giunti, 1982, pp. 185-87; F.
Cevasco, Il Risorgimento cominciò al Sud, in “Corriere della Sera”, 3 aprile 2011, p.
40.
(6) F. Salvatori, Profilo, in G.V. Baccini, Giovanni Bettolo, Roma, Poligrafica
Italiana, 1924, p. 6.
(7) G. Viezzoli, Le cinque giornate di Milano nel rapporto del maresciallo Radetzky,
in “Rassegna storica del Risorgimento”, XXVI, 1939, agosto, p. 994.
(8) Garibaldi, cit., p. 223.
(9) E via di seguito; sono otto i “principi fondamentali”, a monte dei titoli e degli
articoli della carta.
(10) Sono i versi famosi di Arnaldo Fusinato, che dopo aver combattuto alla difesa di
Vicenza prese parte a quella di Venezia.
(11) E’ interessante che della relazione tra l’opera di Cavour, scomparso nel 1861, e
quella di Bismarck, salito al potere nel 1862 si siano occupati non solo storici, ma
anche diplomatici, come von Hassell (“Nuova Antologia”, 71, 1936, pp. 377-85) e
von Schulenburg.
(12) Garibaldi, cit., p. 359.
(13) Ibidem, p. 333.
(14) Una copia, su un foglio stampato a Firenze il 25 giugno 1860 e diffuso anche in
territorio pontificio, è nell’Archivio di Stato di Roma, Miscellanea di carte politiche
riservate, busta 133, fascicolo 4796.
(15) G. Mann, Storia della Germania moderna, Milano, Garzanti, “2° ediz. 1981, p.
194. Non è privo d’interesse il confronto che questo autore fa tra l’Italia e la Prussia
del tempo, e quindi tra i due Risorgimenti: “la ‘Società Nazionale’ tedesca fondata
nell’autunno 1859 era un’imitazione dell’organizzazione italiana omonima” e in
entrambi i Paesi esisteva “una forte aspirazione all’unificazione”, ostacolata da
Vienna
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(16) Cfr M. Gabriele, La politica navale italiana dall’Unità alla vigilia di
Lissa,Milano, Giuffrè, 1958, passim.
(17) I.Montanelli, L’Italia del Risorgimento.1831-1861, Milano, RCS-Rizzoli, 2011,
p. 523.
(18) Cfr P. Facon, I soldati francesi in Italia, in AA. VV., “Al di qua e al di là del
Piave”, a cura di G. Berti e P. Del Negro, Milano, Franco Angeli, 2001,pp. 52-54.
(19) Questa terminologia è ripresa nel il titolo del libro di S. Scarpino, Milano,
Boroli, 2005; vedi anche A. Papa, Guerra cafona. Il contributo dell’Arma dei
Carabinieri nella lotta al brigantaggio.Anni 1861-63, Roma, Litos, 2010.
(20) Cfr R. Luraghi, Problemi economici dell’Italia unita (1861-1918), in “Nuove
Questioni del Risorgimento e dell’Unità d’Italia”, Milano, Marzorati, 1961, II, pp.
389-427.
(21) R. Vivarelli, Nel 150°anniversario dell’Unità d’Italia, in “Nuova Storia
Contemporanea”, XV, 1, gennaio-febbraio 2011, p. 15.
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