Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU)
rivista europea
teatri
64/65
Dicembre 2013 - € 12,00
Garcia Lorca
Dramma sacro a Bali
Il Butō
XIV Convegno Tdd
Dario Fo, Franca Rame
e la lingua italiana negli USA
-Teatri delle diversità - trimestrale - anno 18 - ISSN 1594-3496
delle diversità
52
29
10
L’ULTIMO SALUTO A UNA
SIGNORA DELLA SCENA
di Loredana Perissinotto
Personaggi
30
83
L’ARTE DELLA DIVERSITA’
TROVA ASILO IN ALTO ADIGE
Vito Minoia intervista Antonio Viganò
34
Teatro in fabbrica
L’OMSA, IL LAVORO, IL MONDO
36
Michele Pascarella intervista Alberto Grilli
EDITORIALE
A Napoli dagli anni Ottanta
ENZO MOSCATO: L’ESPLOSIONE
DELLA LINGUA-CORPO
Il teatro è una tribuna libera
di Fabio Rocco Oliva
38
39
Workcenter
In primo piano 41
4
44
46
8
Teatro in Carcere
(Federico García Lorca)
AL BAR BELLAVISTA COME NELLA VITA
Emanuela Agostini
COMINCIAMO A SCRIVERE
UNA STORIA NUOVA
Buto
Samuel Beckett
Giuseppe Lipani
LA CULTURA RENDE MIGLIORI?
LA BARRACA, IL TEATRO UNIVERSITARIO DI FEDERICO GARCIA LORCA
di David Aguzzi
LE MARCHE: RI- CERCARE
PER UN RINASCIMENTO DELLA MANO
COOPERANDO
di Gianni Tibaldi
77
78
79
TEATRI PARALLELI SETTIMA EDIZIONE
di Pierfranco Brandimarte
UN FESTIVAL DI DANZA
VIRTUOSO E SOSTENIBILE
di Claudio Facchinelli
80
82
19
Direttore responsabile:
Vito Minoia
[email protected]
di Giulia Innocenti Malini
83
85
Buone pratiche
LE SOLITUDINI DI TERRA TEATRO
61
cina
Panorama
internazionale
Dramma Sacro a Bali
GINSBERG E GROTOWSKI
UNITI IN SCENA
di Walter Valeri
13
LA POESIA DEI CLASSICI
di Jiang Ruoyu
19
Bali
55
56
Rubriche 57
CALONARANG:
RICONCILIARE LE TRADIZIONI
di Ron Jenkins
IL BUTO: DIMENSIONE
METAMORFICA IN
CONTINUA RILETTURA
di Eugenia Casini Ropa
SE LA DANZA RI-DONA
TEMPO AL DOLORE
Paolo Randazzo intervista Virgilio Sieni
ABITARE IL MONDO: TRASMISSIONI E PRATICHE
di Gloria De Angeli
MONTE VERITA’:TRA RIVOLUZIONE
Teatro e Carcere ESPRESSIVA E UTOPIA ESISTENZIALE
24
LA MARIONETTA TRA
IL PARLARE E L’ESSERE
di Mariano Dolci
Teatro e Scuola
26
QUALE EDUCAZIONE
ARTISTICA PER DOMANI?
di Loredana Perissinotto
28
di Eugenia Casini Ropa
Segnalazioni Editoriali
di Gabriele Sofia
LA PENA VISIBILE
di Salvatore Ferraro
DIALOGO SULL’ATTORE
di Leo de Berardinis a cura di Giorgio Zorcù
600.000 E ALTRE AZIONI TEATRALI PER GIULIANO SCABIA
di Stefano Casi
86
87
Filo diretto
Spettacoli
Anghiari, Roma, Roma, Cartoceto
XIV Convegno della Rivista
La Critica
A Urbania il 30 novembre e 1 dicembre
A LECCE LE PAROLE DEL TEATRO
di Claudio Facchinelli
LA CRITICA TEATRALE
CONTEMPORANEA IN GRECIA
di Nicoletta Kokosioulis
ALEXIADA, CON MUSICHE
ED ARTI PERFORMATIVE
di Valantis Fokasi
69
Teatro e Cambiamento
MACAO E DIVENTATO?
OCA, MA…PER ORA!A
di Eleonora Firenze
71
73
Con le radici nel vento
Ginevra Sanguigno intervista Marina Spreafico e Kuniaki Ida
65
67
68
Vito Minoia intervista Ottaviano Taddei
INSEGNANDO CON
PASSIONE A MILANO DAL 1978
Danza
52
Cina
di Yosuke Taki
LE ACROBAZIE DELLO SPETTATORE
59
Mostre
ASPETTANDO GODOT OGGI?
Claudio Meldolesi
10
di Gerardo Guccini
IL TEATRO COME RISORSA
PER LA SALUTE MENTALE
Stati Uniti
Incontri
MELDOLESI RIVOLUZIONARIO
Trimestrale fondato da Emilio Pozzi e Vito Minoia nel 1996
di Gloria De Angelis
DRAMMATURGIE ORIGINALI
AL TEATRALNY KOUFAR
di Francesca Marchetti, Ada
Borgiani, Susanna, Cinzia Fumelli,
Elisa Delsignore, Piero Massimo Macchini,
Romina Mascioli, Rosanna Vigliarolo,
Luciano Colavero, Simone Guerro e Vito Minoia
13
Emanuela Agostini, David Aguzzi, Ada
Borgiani, Pierfranco Brandimarte, Eugenia
Casini Ropa, Antonio Cioffi, Luciano Colavero, Gloria De Angeli, Elisa Delsignore,
Art director:
Mariano Dolci, Athena D’Orazio, Claudio
Isacco Locarno
Facchinelli, Eleonora Firenze, Valantis Fokas,
[email protected]
Cinzia Fumelli, Arianna Galuzzi, Gerardo
Guccini, Simone Guerro, Nicoletta Kakosioulis,
Comitato Scientifico:
Kuniaki Ida, Giulia Innocenti Malini, Ron
Chiwoon Ahn - teatro, Seul (Corea del Sud) Jenkins, Peter Kammerer, Giuseppe Lipani,
Andrea Canevaro - pedagogia, Bologna (Italia) Massimo Macchini, Francesca Marchetti,
Elka Fediuk – arti sceniche, Veracruz (Messico) Romina Mascioli, Giuliana Mencarini, Fabio
Alejandro Finzi - letteratura, Neuqén (Argentina) Rocco Oliva, Valeria Ottolenghi, Michele
Raimondo Guarino – teatro, Roma (Italia)
Pascarella, Loredana Perissinotto, Paolo
Gianfranco de Bosio - teatro, Milano (Italia) Randazzo, Jiang Ruoyu, Ginevra Sanguigno,
Piergiorgio Giacché - teatro, Perugia (Italia)
Marina Spreafico, Ottaviano Taddei, Yosuke
Maria S. Horne - teatro -New York (USA) Taki, Gianni Tibaldi, Walter Valeri, Antonio
Laura Mariani - teatro, Bologna (Italia)
Viganò, Rosanna Vigliarolo, Enrica Zampetti.
Piero Ricci - linguistica, Siena (Italia)
Editore:
John Schranz - teatro, Malta (Malta)
“Edizioni Nuove Catarsi”
Daniele Seragnoli - teatro, Ferrara (Italia)
Culturale Aenigma
Gianni Tibaldi - psicologia, Padova/OMS (Italia) Associazione
Sede legale: via G. De Carlo, 5 61029 Urbino
Ouriel Zohar – drammaturgia, Haifa (Israele)
Redazione e amministrazione:
Fino alla loro scomparsa anche:
Via Peschiera 30, 61030 Cartoceto (PU) Sisto Dalla Palma - teatro, Milano (Italia)
Impaginazione:
Claudio Meldolesi - teatro, Bologna (Italia)
Giulio Dal Pozzo
Guido Sala - psicologia, Urbino (Italia)
[email protected]
Luigi Squarzina - teatro, Roma (Italia) Stampa:
Procedure di Referaggio
Gli articoli della rivista sono sottoposti facol- Arti Grafiche Stibu, Urbania (PU) tativamente a referaggio con la procedura del Confezione:
singolo cieco (single blind)
Cooperativa Sociale T41b - Pesaro
Corrispondenti:
Immagine di copertina:
Eleonora Firenze (Milano), Paolo Garofalo Federico García Lorca: foto ceduta dalla
(Trieste), Giuseppe Lipani (Ferrara), Tihana Fondazione Federico García Lorca (Madrid).
Maravic (Bologna), Adela Gjata (Firenze),
Ivana Conte e Valentina Venturini (Roma), La Direzione lascia agli autori dei saggi,
Fabio Rocco Oliva (Napoli), Salvo Pitruzzella degli articoli e delle recensioni la più ampia
(Palermo), Benno Plassmann (Berlino), Marco libertà di opinione, della quale rispondono
Consolini (Parigi), Tania Kitsu (Atene), Monica personalmente
Santoro (Mosca), Kassim Bayatly (Baghdad), Chiuso in redazione il 25 novembre
Turel Eczici (Ankara), Walter Valeri (Boston), 2013 Reg. Tribunale di Pesaro N° 424 del
Djalma Patricio (San Paolo del Brasile), Yosuke 18/10/1996
Taki (Tokio), Jiang Ruoyu (Pechino).
E-mail: [email protected]
Hanno collaborato a questo numero:
Sito internet: www.teatridellediversita.it
80
UN PROTOCOLLO D’INTESA
CHE APRE PROSPETTIVE
di Enrica Zampetti
di Valeria Ottolenghi
Margini & Frontiere
LETTERATURA E TEATRO:
DIALOGHI A DISTANZA
DOCUMENTI
DI CATARSI 64/65
I-VIII DARIO FO E FRANCA RAME NELLE CLASSI DI LINGUA
E CULTURA ITALIANA IN NORD AMERICA
di Walter Valeri
87
di Valeria Ottolenghi
IL BISOGNO DI “CREDERE”
74
di Valeria Ottolenghi
Recensioni
UN DISTILLATO DI
TENEREZZA, RABBIA E POESIA
Festival
IL RICHIAMO DELL’ARTE
di Fabio Rocco Oliva
DAPPRIMA UN CAVALIERE
Segnaliamo con il numero 64/65 della rivista : l’avvio di una nuova
rubrica curata da Ginevra Sanguigno dal suggestivo titolo “Con le radici
nel vento”, sull’importanza di figure poetiche, mimi e clown attraverso
pagine di diari di viaggi, danze, poesie; la sottoscrizione di un Protocollo
d’Intesa tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria tramite
l’Istituto superiore di studi penitenziari e il Coordinamento nazionale
teatro in carcere (organismo che la rivista ha visto nascere nei convegni
2010 e 2011 e che continua a seguire da vicino); la condivisione con
l’Associazione nazionale dei critici di teatro di tre magnifiche giornate
a Lecce ospiti del centro italiano dell’Istituto internazionale del teatro
e del Teatro pubblico pugliese; l’assegnazione della quarta edizione del
“Premio Teatri delle diversità” alla compagnia Néon teatro di Catania
che festeggeremo, insieme a Stalker Teatro di Torino, al quattordicesimo
Convegno della rivista con il lancio di una nuova iniziativa editoriale.
Dulcis in fundo, l’inaugurazione (il primo dicembre 2013 a Urbania) del
“Centro studi Emilio Pozzi” con una prima iniziativa ispirata al poema
Profezia di Pier Paolo Pasolini, in forma di anticipazione sui temi del
XV Convegno (novembre 2014).
Vito Minoia
di Claudio Facchinelli
76
“I
l teatro è il barometro che segna la grandezza o la caduta di una
nazione… Un teatro sensibile può cambiare la sensibilità del popolo,
mentre un teatro rovinato, può in alcuni anni addormentare e
rendere volgare un’intera nazione…”.
Come non riconoscersi in queste parole che Federico García Lorca scrisse
nel 1935.
A distanza di 80 anni circa è molto evidente come il cattivo uso di
nuovi media involgarisca il mondo intero. Eppure un certo tipo di teatro
“sensibile” continua a resistere e a promuovere contenuti, programmi,
obiettivi, riflessioni.
Teatri delle diversità, portando al centro la “periferia del teatro”, come
avrebbe amato dire Claudio Meldolesi che nel 1996 partecipò alla
fondazione di questa rivista, continua a farsi testimone di quelle esperienze
“differenti”, “irregolari”, “resilienti”, molto spesso ‘contro corrente’. Ci
riferiamo a chi, con il suo agire artistico e umano sente arrivare “una vita
nuova che sovrasta il mondo” (ancora García Lorca) ed obietta alle leggi
mercantilistiche di un certo “appeal mediatico”.
Il teatro ci aiuta a comprendere che esiste la possibilità del cambiamento.
“Cosa possiamo fare per cambiare la storia senza aspettare al varco l’evento
universale senza pretendere di cambiare gli altri?” Ha chiesto Judith
Malina in un recente incontro con le detenute della Casa di reclusione
della Giudecca a Venezia. “Non è mai troppo tardi”, convincendo se stessi,
è possibile cominciare a scrivere una storia nuova, senza maiuscole, anche
tra le mura di un carcere.
di Athena D’Orazio
XIV Convegno Tdd
In primo piano
L’ARTISTA E LA SUA SPAGNA
La Barraca,
il teatro universitario
di Federico García Lorca
Alla ricerca di un nuovo pubblico teatrale, quello delle campagne
e dei paesi sperduti che le compagnie professionali non avrebbero potuto raggiungere
di Enrica Zampetti
Gruppo Barraca, foto ceduta dalla
Fondazione Federico García Lorca
(Madrid)
D
i Federico García Lorca in Italia si conoscono soprattutto
poesie, qualche dramma e pochi aforismi sparsi. Quasi
completamente s’ignora la sua attività d’instancabile
uomo di teatro, drammaturgo, regista e attore, s’ignora il
suo fervore di giullaresco conferenziere, di sperimentatore del
linguaggio e della scena, di ricercatore infaticabile di musiche
popolari, di pianista appassionato.
Era un artista immerso nel suo tempo e nella sua Spagna, tanto
curioso e interessato al nuovo e all’esotico quanto radicato
nella tradizione contadino-andalusa in cui era cresciuto.
Nacque a Fuente Vaqueros, provincia di Granada (Andalusia),
il 5 giugno 1898. Federico era il primo di quattro figli di una
famiglia particolarmente ricca della vega granadina. Il padre,
Federico García Rodríguez, era un ricco proprietario terriero,
particolarmente aperto per i suoi tempi a concessioni che
miglioravano le condizioni di vita dei contadini, cosa che gli
inimicava non pochi possidenti della zona. La madre, Vicenta
4
Lorca Romero, era maestra e Federico le fu sempre talmente
legato che quando divenne famoso spesso preferì utilizzare
il cognome materno Lorca, invece di quello paterno García,
anche perché meno diffuso.
Dato che Vicenta era molto devota, il bambino la
accompagnava spesso a messa e rimaneva affascinato per quei
gesti che si ripetevano sempre uguali. Tanto era il fascino
che uno dei suoi giochi preferiti era appunto “dire messa”
improvvisando un altare nel patio e facendo sedere grandi
e piccoli ad ascoltarlo con la condizione fondamentale di
piangere durante il sermone.
Per continuare gli studi il giovane Lorca si trasferì a Granada e
dal ’19 a Madrid; intanto la Spagna si trovava sotto la decadente
monarchia dei Borbone prima e sotto la dittatura di Primo de
Rivera poi. Dall’Andalusia Lorca si portava dietro la tradizione
musicale, l’empatica intuizione della povertà e della condizione
della donna nelle campagne, la poesia cruda e beffardamente
tragica dei suoi colori vividi; l’Andalusia pervade con vigore
l’intera sua opera poetica, drammaturgica e di conferenziere.
Lorca riprendeva i temi e le forme della cultura popolare e
contadina e le rivisitava in chiave contemporanea mantenendo
però un rapporto profondo con la tradizione stessa. Non
raramente fu paragonato a un giullare medioevale, sferzante
e acuto, dotto e popolare, capace di farsi comprendere da
persone di ogni ceto sociale e formazione. L’oralità era per lui
parte integrante della sua opera, che nell’oralità prendeva vita
e senso, comprese le sue poesie, che prima di arrivare alla carta
stampata dava a conoscere attraverso letture e declamazioni
pubbliche. Era, però, il teatro per Lorca lo strumento principe
per arrivare alla gente, al popolo delle campagne arretrate e
ignoranti, che il granadino conosceva bene fin dalla nascita.
Nella capitale Lorca era andato a vivere presso la Residenza
degli Studenti di Madrid, creata da quello che fu il fiore
all’occhiello della formazione in Spagna per quasi 60 anni
fino allo scoppio della guerra civile: l’ILE, l’Istituzione Libera
d’Insegnamento. Si trattava di un’istituzione ostinatamente
indipendente formata da professori, artisti e pedagoghi, dediti
a formare giovani provenienti da tutto il paese a un modo
diverso di stare insieme, di guardare alla politica come a un
servizio alla comunità, di pensare e fare cultura come un modo
per svegliare la coscienza collettiva.
Quando nel ’31 venne dichiarata la Repubblica, una gran
parte degli uomini e delle donne che la animò fin da subito
furono persone provenienti dall’ILE.
All’interno della neorepubblica Lorca aveva amici molto
intimi che si trovarono a ricoprire ruoli politici di spicco,
primo fra tutti Fernando de los Ríos, uomo di cultura raffinata
e profonda, socialista capace di comunicare con le masse,
completamente dedito alla causa repubblicana e alla politica
come servizio sociale. Fu lui a far approvare un importante
finanziamento ministeriale che nel dicembre del 1931 dava
vita al progetto del poeta granadino: La Barraca.
Barraca significa “baracca”, ma in Spagna, e soprattutto in
Andalusia, con questa parola s’indicavano quelle costruzioni
di legno facilmente smontabili dove si rappresentavano
spettacoli, compreso il teatro di burattini, tipici durante le
feste o i mercati popolari.
La Barraca fu il nome che Lorca dette alla compagnia teatrale
degli studenti universitari di Madrid, per la maggior parte
provenienti dall’ILE, il cui compito era portare in giro per terre
di Spagna, a bordo di camioncini, i drammi del siglo de oro
spagnolo, da Calderón a Cervantes, da Lope de Vega a Tirso
de Molina, riprendendo la tradizione dei “carri di Tespi” e dei
corrales spagnoli, ma con una contemporanea forte volontà di
rinnovamento estetico della scena teatrale del tempo.
Lorca ne fu il regista e, insieme al basco Eduardo Ugarte,
anche il direttore artistico. Gli studenti si occupavano di tutto
il resto: oltre a lavorare come attori montavano e smontavano
palco e scena, questi ultimi progettati e costruiti da studenti
di architettura, gestivano la tecnica e l’amministrazione della
compagnia. Nessuno riceveva compenso per il lavoro svolto,
né gli studenti, né i direttori artistici. I soldi governativi erano
destinati alla copertura del materiale per gli allestimenti degli
spettacoli, delle spese di viaggio, vitto e alloggio.
Si voleva creare un nuovo pubblico teatrale, o meglio
recuperare un pubblico messo da parte, quello delle campagne
e dei paesi sperduti e arretrati; le compagnie professionali
del tempo erano inadatte a questo scopo, poiché totalmente
immerse in quegli usi e costumi teatrali che, invece, si cercava
di estirpare proprio con esperienze quali La Barraca.
Lavorare con giovani studenti universitari, appassionati di
teatro ma privi dell’ambizione di vivere con il lavoro teatrale,
consentiva, invece, molta più libertà di sperimentazione.
L’anonimato era fondamentale e sulle locandine degli
spettacoli non comparvero mai nomi propri.
Lo stemma de La Barraca, disegnato da Benjamín Palencia,
era una stilizzazione del tema classico delle maschere della
tragedia e della commedia, sintetizzate in un unico volto per
metà bianco e per metà nero, posto al centro di una ruota di
carro rossa, simbolo del viaggio, su fondo blu.
Una tuta blu da operaio fungeva da divisa per gli uomini,
mentre per le ragazze si trasformava in un semplice vestito
bianco e blu. La tuta era indossata da tutti questi “operai
della cultura”, Lorca compreso, che anzi ne andava fiero,
sottolineando la mancanza di gerarchia all’interno della
compagnia.
Studenti e studentesse, in gran parte appartenenti a classi
sociali decisamente alte, furono scelti attraverso una serie di
provini successivi, in cui, oltre alla capacità o potenzialità
attoriale, il candidato doveva dimostrare di essere in grado di
far parte di un gruppo, non avere manie di protagonismo ed
essere fisicamente adatti a sopportare fatiche e scomodità.
Negli anni si creò un gruppo affiatato ed entusiasta; La Barraca
ebbe anche un divertente inno, che era cantato durante i viaggi
e a volte anche sul palcoscenico per i saluti.
I due direttori artistici, Lorca e Ugarte, formarono una coppia
lavorativa perfettamente funzionante in cui l’uno compensava
l’altro negli interessi e nei progetti. Ogni scelta scenica che
Lorca faceva aveva bisogno dell’approvazione di Ugarte,
sempre presente e sempre in grado di esprimere un parere che
fosse suggestivo per la creazione di Lorca.
Dal ’32 al ’36 il Teatro Universitario portò i suoi spettacoli in
repertorio per sessantaquattro paesi e città spagnole, arrivando
fino ai protettorati marocchini, con più di cento repliche
totali. La maggior parte di queste fu tenuta all’aria aperta,
ma alcune repliche, soprattutto nelle città, furono fatte in
teatro. Vennero messe in scena 13 opere, tutte appartenenti
ai secoli XVI e XVII, con l’eccezione di una, La Tierra de
Alvargonzález di Antonio Machado, in onore al grande poeta
contemporaneo che aveva saputo unire la poesia più alta alla
cultura popolare.
In un periodo così fortemente politicizzato come la Spagna
degli anni ’30, le scelte dei testi furono criticate sia dalle
destre sia dalle sinistre: le prime accusavano la compagnia
di fare propaganda politica manipolando e volgarizzando
Abstract
A
n experimental theatre company traveling across Spain and over during the period of the Second Republic in the ‘30s: this is La Barraca. A
little army of wealthy students coming from Madrid Universities, upon the guide of the poet and playwright Federico García Lorca, put its
enthusiasm in the project to lead down to the most remote countries of Spain the theatrical masterpieces of Spanish Golden Century: Lope de
Vega, Cervantes, Calderón, etc…The govern gave a public funding to finance the company tours: with two vans the students went to acting from
great cities till small villages squares, because culture must be made available to all, according to the principle of neo republic. Even if civil war
soon put an end to Lorca and La Barraca, its seeds were carried overseas by exiles and survivors.
teatridellediversità
5
In primo piano
Calderon Barraca Arturo Saenz de la
Calzada, foto ceduta dalla Fondazione
Federico García Lorca (Madrid)
l’alta tradizione spagnola, mentre le seconde si scagliavano in
particolare su l’autosacramental “La vita è sogno” di Calderón,
perché appartenente a una tradizione cattolica oscurantista e
ipocrita che la neo-repubblica cercava di arginare.
Con i testi scelti, invece, Lorca e Ugarte volevano in definitiva
ribadire che La Barraca non era a servizio di nessun partito
e di nessuna definibile ideologia politica, il suo compito era
avvicinare il pubblico semplice all’arte.
L’attore doveva essere un corpo disciplinato e umile a servizio
della scena e non della propria vanità. Pertanto Lorca curava
minuziosamente non solo le battute e il modo in cui dovevano
cadere, ma si occupava con scrupolo anche della presenza degli
attori, costruendo movimenti scenici complessi che in molti
casi arrivavano ad essere vere e proprie danze, accompagnate
da musiche e canti della tradizione popolare che il granadino
rielaborava personalmente.
Il suggeritore, figura essenziale nelle compagnie teatrali
dell’epoca, fu definitivamente soppresso.
Tra i primi in Spagna, Lorca incarnò poco a poco l’innovativa
figura del regista, in grado di conferire una nuova unità
allo spettacolo, mentre la maggior parte delle compagnie
professionali restava di tipo capocomicale.
Il successo del Teatro Universitario fu enorme sia tra artisti e
intellettuali, sia tra le classi più umili. A non vedere di buon
occhio il lavoro de La Barraca erano le classi per principio
ostili alla Repubblica: ricca borghesia, aristocrazia, Chiesa.
6
Nei suoi numerosi viaggi non sempre, infatti, il Teatro
Universitario fu accolto calorosamente: la Spagna era, e lo è
tuttora, molto diversificata nei costumi e nella ripartizione
geografica delle ricchezze, per cui poteva succedere di fare
spettacolo in un paesino povero e il giorno dopo andare
in un altro poco distante decisamente benestante, in cui
l’accoglienza non era così festosa come nel primo: La Barraca
era associata alla Repubblica e quindi alla sinistra e quindi
ai comunisti. Le manipolazioni delle destre, fin dall’inizio
dell’impresa universitaria, creavano tensioni e incomprensioni
non facili da affrontare. In alcuni casi i barracos (così venivano
chiamati i membri della compagnia) si trovarono in situazioni
minacciose e un paio di volte dovettero fuggire di fretta per
evitare sassaiole o aggressioni.
Generalmente, però, le persone semplici dimostravano un
grande piacere nell’assistere agli spettacoli degli studenti: la
loro partecipazione era viva e la loro comprensione era in
molti casi al di sopra delle aspettative stesse dei barracos,
anche quando si trattava di un’opera nient’affatto facile come
quella di Calderón.
A titolo d’esempio riporto le parole del poeta e giornalista
Dámaso Alonso, presente alla rappresentazione de “La vita è
sogno” ad Almazán nel luglio del’32: «nella piazza del paese,
poco dopo l’inizio dello spettacolo con il cielo pulito, si mette
a piovere implacabilmente, come dio comanda. Gli attori
s’inzuppano sul palcoscenico, le donne del paese si portano
Federico Garcìa Lorca, foto
ceduta dalla Fondazione
Federico Garcia Lorca (Madrid)
le sottogonne sulla testa, gli uomini si stringono e si fanno
compatti: l’acqua scorre, lo spettacolo continua: nessuno si è
mosso».
Racconta Lorca a un giornalista in un’intervista del
’34: «Immaginati! […] Quattro mila, non te lo esagero;
quattromila contadini, quattromila manceghi, lì guardando
tutto, in un silenzio che si sarebbe potuto sentir volare le
mosche. E, immaginati, i personaggi avevano parrucche di
metallo, argentate, di materiali differenti; barbe verdi; signori
che portavano vestiti con enormi spalline. Tutti inverosimili
per il senso comune. E invece – ah che consolazione! – fu
capito tutto fin nei suoi minimi dettagli da quel pubblico che
si scontrava in questo modo per la prima volta con Calderón».
Lo scoppio della guerra civile mise fine all’avventura de La
Barraca come a quella di numerose altre iniziative culturali e
sociali della Repubblica.
Lorca fu fucilato dai falangisti vicino Granada tra il 18 e il
19 agosto del ’36. Nonostante la morte del suo entusiasta
direttore, la compagnia cercò di resistere un anno ancora in
una Spagna già divisa a metà. Gli studenti, quelli che non
furono uccisi, chiamati al fronte o che non fuggirono in esilio,
andavano a fare teatro fin sul fronte di guerra per portare
distrazione ai soldati repubblicani.
Quando Franco prese il potere nel ’39 la figura di Lorca e la
sua opera dovettero subire forti epurazioni, ma l’esperienza del
Teatro Universitario di Madrid, tuttavia, come quella di altre
importanti iniziative repubblicane, fu portata con successo
all’estero dagli esuli spagnoli, soprattutto in America Latina.
A mo’ d’epilogo riporto un breve estratto del famoso discorso
sul teatro che Lorca pronunciò nel febbraio del ’35, quando
in Spagna la tensione politica e sociale stava arrivando al
collasso che avrebbe portato alla guerra civile: «Il teatro è uno
dei mezzi più espressivi ed efficaci per la costruzione di una
nazione, è il barometro che segna la sua grandezza o la sua
caduta. Un teatro sensibile e ben orientato in tutti i rami,
dalla tragedia al vaudeville, può cambiare in pochi anni la
sensibilità del popolo; mentre un teatro rovinato, in cui le
zampe sostituiscono le ali, può addormentare e rendere volgare
un’intera nazione. Il teatro è una scuola di pianto e di riso,
è una tribuna libera da cui gli uomini possono denunciare
morali vecchie e equivoche e spiegare, con esempi vivi, le leggi
eterne del cuore e del sentimento umano.
Un popolo che non aiuta e non potenzia il suo teatro è, se non
morto, moribondo.
[…] Ho riflettuto molto – e con lucidità – su tutto ciò che
penso, e, da buon andaluso, conosco il segreto della lucidità
perché ho sangue antico. Io so che la verità non è appannaggio
di chi dice “Adesso subito, adesso, adesso” con gli occhi fissi
sulle piccole fauci della biglietteria, ma chi dice “Domani,
domani, domani” e sente arrivare la vita nuova che sovrasta
il mondo».
teatridellediversità
7
In primo piano
Segni e identità
Per un Rinascimento
della Mano
Dalla ricerca dei significati più profondi alle prospettive semantiche
e simboliche del nostro organo prensile
di Gianni Tibaldi*
L
’Umanità ha ritenuto di individuare nella Mano un segno
rappresentativo della propria identità specifica. Per
avviare un originale processo di ricerca sui significati
profondi della Mano può essere utile riferirsi alla geniale
intuizione che Imre Hermann, il grande piscoanalista ungherese
fondatore dell’Antropoanalisi, espose nell’opera “L’Istinto
filiale”, pubblicata nel 1943 e tradotta prima in francese e poi
in italiano nel 1974. Secondo Hermann la tappa fondamentale
nell’evoluzione della specie Umana è rappresentata dalla
discesa dall’albero e dall’assunzione della posizione eretta.
Perché ciò potesse avvenire , sempre secondo Hermann, era
indispensabile che la Mano rinunciasse alla “presa del ramo”
che aveva fino ad allora garantito il sistema di sopravvivenza
sostituito dal nuovo sistema basato sulla deambulazione. Pur
avendo persa questa funzione vitale la Mano, tuttavia,
manteneva la attitudine prensile come carattere strutturale
(rappresentato anche a livello cerebrale). Con l’attitudine la
Mano prensile, da un lato, avrebbe conservato la memoria
indelebile di una fase evolutiva ma anche, come sostiene
Hermann, una “nostalgia dell’aggrappamento al ramo” come
8
fonte di sicurezza e benessere. L’attitudine originaria sarebbe
stata adattata utilmente al nuovo processo evolutivo e il
primitivo “istinto all’aggrappamento” (l’Istinto Filiale) avrebbe
alimentato incessantemente la riproduzione di sostituti
simbolici del “ramo perduto” dando così origine alla Tecnica,
all’Arte, alla Civiltà. La Mano, cioè, da “prensile” sarebbe
divenuta “artefice” ed alla sua originaria ed elementare capacità
dell’afferrare si sarebbero aggiunte quelle più complesse del
costruire e dell’ordinare nelle quali, appunto, si identifica il
carattere della Tecnica.Oggi siamo alla ricerca di motivazioni
che giustifichino un “rinascimento dell’artigianato” e potremmo
scoprirle nelle tesi di Hermann che dimostrano il ruolo
culturale della Mano e, soprattutto, la sua “intelligenza”. Ci
viene in aiuto l’espressione greca per il termine “artigianato”,
Cheiros - Techne, cioè “arte della mano”, dove, fra l’altro,
”Techne” non significa soltanto fabbricare e creare ma anche
“meditare”. La Mano dell’Artigiano è intelligente, infatti, non
soltanto perché abile e creatrice ma soprattutto perché le opere
costruite muovono e si muovono in un mondo libero e
disseminato di emozioni e di idee. L ’opera artigianale, in
realtà, non rappresenta soltanto una testimonianza del “fare”
ma anche del “pensare” e del “conoscere”. Taluno parla a
questo proposito di “cultura materiale” ma sarebbe più corretto
parlare esclusivamente e autenticamente di “Cultura”. Appaiono,
evidentemente, all’orizzonte altre prospettive semantiche e
simboliche collegate alla Mano. Da un lato incontriamo la
Mano-azione che rappresenta potenza, forza, dominio, autorità,
protezione, giustizia, grazia, favore, direzione. È la “Mano di
Dio” che ne esprime la totalità dell’onnipotenza. È anche la
Mano strumento di lotta e prepotenza, la Mano che “ghermisce”.
Da un altro lato, scopriamo la Mano-comunicazione. Qui
la Mano è, prima di tutto, protagonista del “gesto” che con
un globale impegno corporeo “porta a compimento” pensieri,
emozioni, volontà. In realtà il “gesto”, pur rappresentando
un autentico elemento linguistico, mantiene integri i naturali
caratteri della Mano che “fa”, “prende”, “dirige” aggiungendovi
espressioni significative così da risultare alla fine “Azione
comunicante”. Taluni esempi di “Mudra “ induisti, per il
vigore espressivo collegato alla ritualità del gesto, ne favoriscono
la comprensione del valore: la Mano chiusa, che indica il
“segreto”, la Mano alzata che esprime “assenza di paura”, la
Mano abbassata che significa “donare”, il “pugno chiuso”
evocazione di “minaccia” , le “mani giunte” espressione di
“preghiera” e “adorazione”. Nel Mudra Vitarka l’indice o il
medio toccano la punta del pollice nel significato di
“argomentazione”, “esposizione” raffinata di concetti.Ad un
livello ancora più complesso nel sistema della comunicazione
umana si colloca evidentemente la “Mano che scrive”. La
“Mano grafica” che incide la pietra fa nascere da questo gesto
duro e forte la Scrittura e , operando come tramite creativo
fra la parola- segno e la parola-suono, alla fine dà alla Parola
scritta il senso di “pietra animata”. Consegna alla scrittura
un destino essenzialmente esoterico: la pietra simbolicamente
incisa di fatto rappresenta la “pietra filosofale” della Al-Kimiya.
Una illuminante affinità fra Mano e Parola viene anche
illustrata dall’essere entrambe non soltanto mezzi di
comunicazione ma vie di conoscenza. La tesi appare chiara
quando incontriamo connessioni simboliche fra Mano e
Occhio come nella espressione “toccare con mano” equivalente
a “vedere” o quando intendiamo ogni espressione verbale,
dalla più elementare alla più complessa, sempre essenzialmente
finalizzate non soltanto a mettere in comune informazioni,
intenzioni ed emozioni ma soprattutto a ricercare la soluzione
di problemi. Una relazione infine fra Mano e Parola può
essere però incontrata anche nel significato profondo e
originario di “Verbum” che non indica la Cosa o il Nome ma
il Modo e l’Opera. Il senso preciso di questa relazione emerge
in particolare dalla radice WERK del termine Verbum e che,
significando “lavoro” ed “energia”, stabilisce una parentela
diretta fra la Parola e la Mano. Il mondo degli Ideogrammi
cinesi apre sui significati della Mano orizzonti profondi e
sapienti. L’Ideogramma, al pari della parola alfabetica, è un
segno astratto al quale corrisponde un significato e un suono.
A differenza, tuttavia, delle lingue alfabetiche i radicali degli
Ideogrammi non sono segni astratti ma “figure”. Così
l’Ideogramma YOU è oggi un segno astratto che significa
Mano ma ad esso corrisponde come radice la figura vera e
propria di una mano, in particolare la mano destra con ben
evidenti il polso e tre dita. Nel cinese, dunque, la Mano
appartiene al mondo del linguaggio in quanto gesto, Mano
che scrive e, infine, Mano che esprime valori e significati
rappresentando la propria immagine isolata o combinata con
altre figure. Così la Mano vicino a una verga è MOU che
significa “pastore”, se agita la verga è KIAO che significa
“maestro”, se regge un bastone è FOU , il “padre autorevole”,
se tocca un uomo diventa KI con il significato di “rispettare”.
E ancora, una Mano accanto ad una bocca è KIUNN, il
“Principe”, le mani che si oppongono rappresentano TCHA
il “disaccordo”, le mani di un povero sotto la paglia indicano
HAN il “freddo”, ma se cingono i fianchi di una donna
(TCHENN) significano “desiderio” e “amore”. E così via
all’infinito. In una miscela affascinante ma rigorosa di fantasmi
e di simboli dai quali esce esaltata l’intelligenza della Mano.
La Mano costituirà il tema di una rappresentazione del “Teatro
delle Ombre”, particolarmente espressiva perché i significati
della Mano e dell’Ombra creativamente si associano e si
integrano. Le Ombre proiettate sullo schermo rappresentano
immagini che evocano il concetto di “fantasma” nel senso
psicoanalitico: sono, cioè, forme elaborate dalla fantasia come
espressione di desideri inconsci. L’opacità e l’ambiguità
dell’Ombra non mortificano, infatti, ma, al contrario,
favoriscono i liberi movimenti della fantasia. Non contraddicono
la realtà ma ne superano i limiti con la prepotenza del desiderio
fino ai confini della perversione. Le Ombre non sono percepite,
infatti, come oggetti ma vissute come stimoli di emozioni ed
evocatrici di valori simbolici. L’essenza simbolica dell’Ombra
nasce in particolare dall’effetto paradossale dell’incontro fra
un corpo e una fonte di luce che annulla corporeità e
luminosità. È dai complessi ed ambivalenti caratteri dell’Ombra
che emerge anche la profonda affinità di significati con la
Mano. In realtà come la Mano l’Ombra copre e nasconde,
circonda e avvolge. Per questo è fonte di riparo, sicurezza e
riposo. L’Ombra come la Mano protegge e intimorisce, afferma
e nega, evoca oblìo e memoria, minaccia e allude a beatitudini
eterne. Non stupisce che nella lingua cinese nell’Ideogramma
YINN convergano i significati di principio femminile, passività,
mistero e Ombra.
by Gianni Tibaldi
*Rappresentante in Italia del Programma dell’ONU sul
“Linguaggio Digitale Universale”
Abstract
t
he Renaissance of the Hand Imre Hermann, the famous Hungry
psychoanalyst, identify the basic stage of present Man evolution
on the Man who “descent from the tree” to assume the erect position and the capacity of walking. The Man Hand changes so its primitive aptitude to grasp the branch in highly developed technical
and artistic skills and creates in this way the Human Culture ad Civilization. Actual cultural value of “arts and crafts” is clearly demonstrated by the Hermann Theory. The meanings of the Hand are reaches and complex :The Hand seizing may be named “Hand-action”
and means strength, power, authority, protection, management.
The “Hand-communication” or the “Hand-language” represents the
Hand communicating through he gesture and first of all the Hand
writing or “graphics” that creates the Word engraving the Stone.
Many examples of ritual gestures of Mudra Hinduist explains clearly the real value and function of the “Hand-language”. Finally the
” Hand-knowledge“ is near deeply to the value of the Word because of not only concerning “to make” but “to transfer” thoughts and
emotions. Chinese language adds exclusive characters to the
“Hand-communication”: in fact the “roots” of the Ideograms don’t
represent abstract signs ( like on alphabetical language) but images
of reality. In these “roots” a plurality of meanings is so expressed by
the pictures of the Hand that symbolize itself combined with other
images.
teatridellediversità
9
Panorama internazionale
stati uniti
GINSBERG E GROTOWSKI
UNITI IN SCENA
Thomas Richards e Mario Biagini, continuatori dell’esperienza del Maestro polacco, ne
sviluppano sia la pedagogia sia l’aspetto produttivo
di Walter Valeri
manifesto, nelle due paginette del Pontedera
Movement, c’è qualcosa di sorprendente e
decisamente nuovo. Un cambiamento di
rotta sostanziale, sia per quanto riguarda i
futuri obbiettivi del Workcenter, sia, in
forma più estesa e riflessa, per i teatranti
in genere. Almeno per quelli dediti
da anni alla ricerca teatrale e sensibili
all’ascolto. Ed è l’invito a rompere ogni
indugio. Abbandonare il proprio orto,
i vecchi schemi mentali, le cordate
produttive delle pure logiche spartitorie
nazionali e internazionali. Deporre cioè
la maschera della corporazione, troppo
spesso bisognosa di consenso politico, o
troppo spesso strangolata dall’obbligo di
conseguire successi immediati; per tornare
a guardarsi attorno. Meglio dire: lontano.
Per esplorare nuovi territori, e “sfidare
le competenze di cui siamo portatori,
desistendo dal custodirle gelosamente, ma
anzi lavorando assieme per farle crescere,
metterle a disposizione, farle circolare in
ambiti a cui non sono necessariamente
destinate”, così sta scritto, testualmente.
Senza autodistruggersi, senza rinunciare
a quella competenza artistica specifica,
maturata faticosamente nel corso degli
anni. Senza abdicare cioè: all’uso del teatro
come strumento e luogo d’incontro, nel
darsi forza per “favorire la circolazione
di nuove idee e spunti creativi, evitare
l’isolamento, l’autoreferenzialità, costruire
qualcosa di nuovo e più grande di ciò
che ciascuno sarebbe in grado di fare
da solo”, sempre citando dal manifesto.
Un messaggio nobile valido per tutti.
Che ricorda un po’ gli anni ‘60, quelli
dell’invito all’impegno. Che fa pensare
in buona parte a quello che scriveva anche
Grotowsky negli anni di Opole, grazie ai
documenti ora resi disponibili dal bel libro
di Zbigniew Osinski; ma certamente in
contrasto, contraddicendo lo spirito del
messaggio pedagogico-profetico espresso
dallo stesso Grotowsky dagli anni ‘70 in
poi, specie negli ultimi anni di residenza
a Pontedera. Per tornare in sostanza e
soldoni a quella straordinaria ‘terra di
cenere e diamanti’ di cui fu testimone,
continuatore e artifice Eugenio Barba.
Che va detto, col suo Odin Teatret da
questo punto di vista per vari aspetti
ha superato il maestro; specie per quel
bisogno troppo mistico, di metafisica
trascendenza, che ha caratterizzato i suoi
ultimi anni di attività. “Uno dei motivi
Electric Party Songs, 2010
(Foto Aram Jibiliam)
L
a Fondazione Pontedera Teatro è
una presenza più che significativa nel
panorama teatrale del nostro paese.
Lo testimoniano le attività decennali,
le intuizioni di Roberto Bacci che ne è
fondatore e instancabile direttore artistico,
e non ultimo il recente manifesto
programmatico: Pontedera Movement, del
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas
Richards, che trova valido sostegno e sede
istituzionale nella stessa fondazione. Lo
spirito del manifesto, in parte presente
nella pratica teatrale dell’Open Program
iniziato e diretto da Mario Biagini nel
2007, mette a fuoco una sostanziale
10
apertura del Workcenter nei confronti
del territorio; lo fa apertamente per
incoraggiare la vita culturale di Pontedera.
Per capire meglio forse occorre ricordare
che il Workcenter da anni ha due anime;
che operano in modo distinto, sia in
Italia che all’estero. Dopo la morte di
Jerzy Grotowski, avvenuta nel 1999,
Thomas Richards ne ha sostanzialmente
ereditato la pedagogia, la continuazione
dell’esperienza soprattutto in ambito
laboratoriale; mentre Mario Biagini,
co-direttore, attore e regista, attraverso
l’Open Program Performances, ne ha curato
l’aspetto produttivo. Cercando a più riprese
di riimmettere sulla scena militante quei
risultati grazie ai quali Grotowski, dalla
fine degli anni ’60 con Acropolis, Dr.
Faustus e Il principe costante ha modificato
visibilmente il training dell’attore, il modo
di fare teatro. E ovviamente ha ridefinito
il concetto di spazio scenico, nonché
il rapporto spettatore-attore. Entrambi
eredi di Grotowski, Thomas Richards
e Mario Biagini, nel corso degli ultimi
dieci anni, sono stati autentici portatori
di sviluppi e divulgatori del pensiero
rivoluzionario del maestro del Teatro
Laboratorio di Opole. Ma, quel che più
conta qui, resta il fatto che in questo
Electric Party Songs 2011 (Foto James Lyons)
teatridellediversità
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Panorama internazionale
Cina
La Poesia dei Classici
Umanità Poesia, e la loro importanza nel Teatro Classico per acquisire un senso profondo
della cultura
di Jiang Ruoyu*
Traduzione dall’inglese di Arianna Galuzzi
I Am America 2010 - Timothy Hopfner, Marina Gregory, Alejandro Tomàs,
Rodriguez, Lloyd Bricken (Foto Stefano Roggero)
The Glass Menagerie
I Am America 2010 - Alejandro Tomàs Rodriguez (Foto Francesco Fadda)
L
I Am America 2011 - (Foto James Lyons)
Abstract
onsidered one of the most important and influential theater practitioners of the 20th century, Jerzy Grotowski revolutionized contemporary
western theater. During his latter pedagogical activity in Italy at the Fondazione Pontedera Teatro, Grotowski - in an intense thirteenth yearlong research explored performative techniques as an instrument in the work on oneself, and created the Workcenter, together with his collaborators Thomas Richards and Mario Biagini. After Grotowski’s death in 1999 the Workcenter evolved into two distinct and complementary teams:
The Focused Research Team in Art as Vehicle directed by Thomas Richards, and the Open Program Performances directed by Mario Biagini. This
article reports their successful American tour and the group’s performances of and productions, and the at Yale University last March. In both
productions, the talented director Mario Biagini and his actors combine the poetry of Allen Ginsberg, traditional folksongs of the American south,
and the Grotowski’s performative actors’ style of work, with excellent results.
(Foto Xupin)
C
12
Panorama internazionale
per cui Grotowski ha smesso di fare teatro è stato il
fatto che la rappresentazione teatrale non riusciva più
a soddisfare la sua necessità di trasgressione. Le sue
attività successive (ndr: agli anni ‘70) continuano a
rifarsi alla tecnica d’attore ma, soprattutto, consentono
di trovare altri sbocchi per la sua tensione verso
il sacrum, e di tenere in vita la provocazione e la
trasgressione nei propri confronti”. Un genere di
provocazioni più che legittime, ma che ovviamente
sono diventate altre; ben altre rispetto alle esigenze
della scena e al reale rapporto col pubblico. Ora,
grazie a Mario Biagini e ai suoi giovani e bravi attori
dell’Open Program, in forma vicaria Grotowski torna
in scena. Grazie all’uso teatrale, alla regia esperta e
appassionata di Biagini, che si è tolto la giacca del
maestro e ha saputo portare in performance i versi
di Allen Ginsberg, adattandoli a musiche e sonorità
tratte dalle canzoni afro-americane del Sud degli
Stati Uniti. Grotowski finalmente è stato tradito,
tornando ad aggirarsi fra il pubblico, in virtù di due
spettacoli decisamente nuovi nella loro concezione e
realizzazione, affascinanti e unici nel loro genere. Che
fanno un po’ pensare al Pirandelo di Vassiliev adattato
e ambientato in caffetteria, ma capaci di affrontare
e tenere la scena autonomamente. Due spettacoli
eccellenti e provocatori, prodotti dal Workcenter:
I Am America e Electric Party Songs. Presentati in
prima a New York nel 2012 e successivamente nel
febbraio/marzo 2013, dopo tre anni di preparazione,
al Witney Theater e Calhoun Cabaret della Yale
Universty, nell’ambito del World Performance
Project fondato da Joseph Roach. Dove certamente
il Workcenter non rinuncia alla faticosa pratica
del laboratorio, alla sua cifra stilistica, ma lascia i
piccoli conversari, gli orti, le micro società aurorali.
Teoria e scena tornano decisamente a confrontarsi
per sconfiggere l’isolamento, per muovere verso
una cultura teatrale viva, in grado di permeare i
bisogni della gente e soprattutto dei giovani. In virtù
dei versi dirompenti di Allen Ginsberg; grazie al
rigoroso lavoro sull’attore degli allievi del Workcenter
of Jerzy Grotowski and Thomas Richards i giochi
sembrano riaprirsi. Ed è un bene, perché così Il
teatro Più che resistere può tornare ad esistere. William
Carlos William di Allen Ginsberg scrisse: “I poeti
sono dannati ma non sono ciechi, vedono gli occhi
degli angeli. Questo poeta vede attraverso tutti gli
orrori ai quali partecipa negli stessi particolari intimi
della sua poesia”. È stato così anche per Grotowski.
Mario Biagini lo conferma durante il symposium
di due ore, gremito di pubblico e addetti ai lavori,
dal titolo Poesia come pratica d’incontro tenuto alla
Yale University dopo le recite più che applaudite.
a ragione per cui una storia può essere considerata un
classico è perché ha attraversato un certo processo che
porta le persone a giudicarla tale. Una volta il noto
scrittore cinese Zhu Ziqing ha detto “Lo studio dei classici
nell’educazione primaria è essenziale. L’importanza di apprendere
i classici non corrisponde solo ad un’applicazione pratica, ma
all’impatto culturale generale che ha su coloro che li studiano.”
Gli studenti di teatro che esplorano le storie classiche possono
acquisire un senso più profondo della cultura in generale.
Inoltre, aspetto ancora più importante, possono imparare
come gli individui affrontavano le sfide della vita reale in certe
circostanze del passato. I cinesi cono orgogliosi del nostro
recente sviluppo economico, ma la velocità di tale cambiamento
ha portato a scorgere nell’intera società una perdita di emozioni
e umanità. Una ragione sempre più evidente di questa perdita
di sentimenti nel contesto del progresso è che noi cinesi non
sentiamo di avere, e non vogliamo, tempo per prestare
attenzione all’ambiente e alle persone che ci circondano.
Siamo proiettati in avanti senza dare importanza ai sentimenti,
ma diamo priorità a quei passi che ci permettono di realizzare
obbiettivi vitali. Ne risulta che i nostri pensieri, le emozioni
quotidiane e le nostre stesse vite vengono vissute in un modo
che sembra brutale e insensibile. Se confrontiamo le nostre
esperienze con quelle di altri insegnanti di educazione secondaria
nel mondo, quando gli studenti si diplomano nelle istituzioni
primarie e accedono ad una nuova fase della loro vita ci sono
differenze importanti che noi insegnanti cinesi dobbiamo
affrontare. Nel corso della loro crescita accademica, i nostri
studenti danno seriamente poca importanza all’emotività
umanistica di base, alla consapevolezza dell’ambiente, alla
considerazione dei loro simili e alla vasta gamma delle tipiche
fibre morali che gli studenti impiegano per tessere l’arazzo
della loro arte di studio. Il nostro sistema si focalizza, in modo
straordinario e orientato ai risultati, sui test per l’iscrizione
al college e minimizza enormemente l’essenza che si cela dietro
al vero tema dei moduli di apprendimento. Mentre la poetica
classica e altre arti vengono insegnate presto, quelle che spesso
presentano alcune delle più rilevanti espressioni pratiche di
umanità in ogni civiltà vengono considerate come testimonianze
scritte che sono un ponte di passaggio verso il livello superiore
di istruzione. Perciò, come gli insegnanti di teatro pratico,
anche noi abbiamo l’opportunità di far crescere i nostri giovani
studenti e guidarli nella comprensione del significato della
loro esistenza, del loro scopo e della loro anima, e anche lungo
il cammino per esprimere se stessi. Le opere classiche non si
limitano al realismo. I poemi epici greci e anche alcune opere
del teatro dell’assurdo possono di certo essere considerati dei
classici. Il teatro realistico tradizionale enfatizza i personaggi
e la trama. Le opere di Brecht enfatizzano il comportamento
umano all’interno di un ambiente normativo specifico. Il
teatro dell’assurdo impiega metafore esagerate per esprimere
i sentimenti interiori che gli individui provano nei confronti
della società. Anche se con metodi diversi, entrambi i generi
si focalizzano sull’espressione individuale. In senso lato, i
Classici rivelano in apparenza le persone in relazione alla
circostanze specifiche dell’opera. Non ha importanza che il
dramma sia realistico o no, è possibile scorgere le persone
rivelate in ogni personaggio nelle opere dei grandi autori. La
ricerca di Amleto della verità assoluta, la Madre Coraggio di
Brecht che scopre la forza interiore dell’uomo, la vivida
dimostrazione data dal noto drammaturgo cinese Cao Yu
della sofferenza delle donne che si prodigano per gli altri,
teatridellediversità
13
Panorama internazionale
14
(Foto Xupin)
rilevante. All’Accademia centrale di arte drammatica della
Cina non ha importanza se è una classe superiore a realizzare
una eccezionale rappresentazione di una delle sue opere, o se
degli studenti di una classe inferiore recitano semplicemente
alcune scene dei suoi lavori, gli studenti e gli insegnanti si
divertono sempre molto. Perchè le opere di Caou Yu ricevono
sempre un’accoglienza entusiasta da parte degli educatori e
degli studenti cinesi? Le opera di Cao Yu si presentano sempre
come monumenti stupefacenti nel teatro cinese del XX secolo.
Anche se non è stato molto prolifico, le poche opere che ha
scritto influenzarono enormemente il progresso storico del
dramma in Cina. I critici spesso dicono “Cao Yu, assieme ad
altri, ha creato la tradizione della poetica realista nel teatro
cinese, che merita di essere studiato su larga scala.” Nelle sue
opere ci sono “le tradizioni artistiche della poetica lirica della
Cina.” Si potrebbe affermare che sia stato il più importante,
influente e illustre drammaturgo del XX secolo. I suoi primi
lavori vennero completati tra il 1933 e il 1949. I temi di tali
opere hanno riguardato i più intimi sentimenti e pensieri
umani che le persone hanno. Al tempo stesso, trattavano di
“persone che vivono in tempi bui e dei loro sentimenti e
atteggiamenti riguardo al mondo così come lo conoscono”,
rappresentando le difficoltose circostanze in cui vivevano i
cinesi durante gli anni di guerra incessante. I personaggi nelle
opera di Cao Yu hanno resistito alla prova del tempo. Coloro
che hanno messo in scena tali opere hanno rivelato una fine
comprensione degli individui e delle sfide che devono affrontare.
I loro pensieri e i loro sentimenti echeggiano in scala universale
e ci permettono di acquisire una più profonda consapevolezza
di noi stessi e delle nostre radici. I personaggi principali delle
sue opere più note offrono ai cinesi uno scorcio della loro
essenza in quanto razza e nazione. Ci permettono di comprendere
la lotta interiore della vita. Sia che questi personaggi conducano
una vita onesta o sleale, sono comunque tutti figli della stessa
terra cinese. Anche se abitano un’ambientazione tradizionale,
dato che la Cina è vista come una società omogenea, vediamo
questi personaggi ereditare le promesse e le colpe dei nostri
antenati. Possiamo spaziare molto nel ricercare le caratteristiche
specifiche delle loro personalità, che includono tutte i
fondamentali dello spirito nazionale cinese. Questi aspetti
(Foto Xupin)
Panorama internazionale
sono tutti esempi utili. Se queste opere non avessero enfatizzato
attentamente le persone nel loro ambiente, non verrebbero
trasmesse di generazione in generazione. Di solito lo scrittore
di un classico è un individuo unico alle prese con le problematiche
del suo tempo. Perciò crea personaggi particolari con sentimenti
interiori e forza di spirito che si imprimono in maniera
profonda e duratura nelle menti di chi legge l’opera al giorno
d’oggi. Ciò permette a chi lavora in teatro di interpretare
costantemente questi personaggi e rivelarli in modi differenti,
unificando ogni età. Questi personaggi riescono a toccare
ogni persona, in accordo con ogni generazione. Una conoscenza
dei classici ha senz’altro notevole importanza nell’educazione
teatrale. Senza inoltrarsi più in profondità in discussioni
generali al riguardo, questo saggio si concentrerà su applicazioni
pratiche e metodi specifici per l’insegnamento agli studenti
attraverso i classici. Per discutere tali applicazioni nella
recitazione e nella regia, prenderemo come esempi l’opera
“La Famiglia” dell’eminente drammaturgo cinese Cao Yu e
“Lo Zoo di Vetro” del rinomato scrittore americano Tennessee
Williams. Come possiamo rivelare un personaggio di un’opera
classica? Chi ci ha preceduto ha fatto un gran buon lavoro
per aiutarci a tale proposito. I classici sono senza tempo, ma
spesso li interpretiamo secondo la prospettiva moderna. I
classici possono avere diverse interpretazioni, anche permettendoci
di usare metodi molto moderni per spiegare tematiche antiche.
Di certo dobbiamo stare attenti alle interpretazioni forzate
che abbandonano completamente i temi originali dei classici.
La presentazione di un Classico in un’ambientazione moderna
deve essere collegata alla realtà, nel contenuto e nello stile,
per renderla vitale. Non importa in che tempo il Classico
viene rappresentato, se riesce a toccare il pubblico e a farlo
riflettere profondamente allora emergerà il valore di quella
particolare interpretazione. Quindi, quando impieghiamo i
classici per insegnare agli studenti occorre valutare due questioni
importanti. La prima è come considerare la recitazione al di
là dei temi, dei personaggi e di azioni specifiche all’interno
delle circostanze descritte nella trama. Poi, oltre a questo ma
altrettanto importante, dobbiamo pensare a come farlo in
modo da rimanere allineati con la prospettiva moderna. Nel
regno dei Classici cinesi, Cao Yu è un drammaturgo davvero
sono tratti dal sistema nazionale tradizionale del Confucianesimo.
Cosa ancora più importante, Cao Yu crea per tali personaggi
un mondo in cui devono affrontare circostanze profonde e
misteriose adatte a diversi pensieri, personalità e atteggiamenti
nei confronti della vita. Molti dei suoi personaggi son inclini
a cercare dei modi per sfuggire alle circostanze e al mondo in
cui vivono. Molti, allo stesso modo, trascorrono le giornate
con un tale peso sul cuore che a volte sembra quasi troppo
difficile respirare. Desiderano costantemente una nuova
esistenza. Da un punto di vista personale, le opera di Cao Yu
possono essere utili per insegnare agli studenti ad esprimere
i pensieri e i sentimenti dei personaggi nelle circostanze date.
Siccome la trama comprende conflitti ingegnosi, i personaggi
agiscono in modo dinamico per raggiungere i proprio obbiettivi.
Nelle storie di Cao Yu ci sono aspetti molto sottili nelle
relazioni tra queste personalità distintive. Le trame creano
ambientazioni uniche e circostanze che ci forniscono un’ampia
tela in cui dipingere i nostri personali ritratti artistici degli
individui. Cao Yu fa compiere ai suoi personaggi azioni ben
precise, permettendo agli studenti di focalizzarsi su queste
azioni quando stanno recitando. Ad ogni modo, le circostanze
date nell’opera sono spesso così uniche e presentano profonde
influenze. Recitando, gli attori dovranno enfatizzare le azioni,
senza considerare molto le circostanze generali, per evitare di
far risultare i personaggi irrealistici. Questo articolo mira a
sottolineare l’importante impatto che le circostanze date in
un’opera classica hanno sugli studenti intenti a crearsi la
visione complessiva del personaggio che interpretano. Quando
affidiamo dei ruoli agli studenti, ci auguriamo che riescano
a riprodurre un ritratto realistico e vivo sul palco scenico.
Anche noi nelle nostre vite ci troviamo ad affrontare specifiche
circostanze. I nostri corpi possono intuire queste circostanze.
I personaggi di Cao Yu si trovano immersi in un insieme di
affascinanti circostanze e, leggendo la trame, i lettori possono
identificarsi e comprendere le problematiche dei personaggi.
L’opera di Cao Yu “La Famiglia”, che è in parte tratta da una
novella di Bajin, è molto amata dagli insegnanti per le
opportunità che offre insegnando recitazione agli studenti.
La storia si incentra sulla giovanile ricerca dell’amore. È
ambientata nel passato, quando i giovani soffrivano per i
vincoli imposti dalla società che non gli permetteva di cercare
l’amore, poiché le relazioni amorose venivano decise dalle
famiglie. Le circostanze della trama comunicano a chi dirige
e recita un grande senso di isolamento. Ad esempio, è possibile
notarlo anche nella stessa regia di Cao Yu in una scena, “i
fiori di prugno nel giardino della famiglia Gao stavano
sbocciando splendidamente, ma vi era solo solitudine senza
entusiasmo e senta nemmeno l’ombra di un passante. …il
calore rassicurante della Primavera si stava diffondendo, il
lago chiaro era bello e placido, con le ombre dei fiori di prugno
che brillavano sulle acque cristalline. C’è una profonda quiete
nell’aria. …Proprio in quel momento, il silenzio viene rotto
da un rumore proveniente dalla casa della famiglia Gao,
contrapponendo la serenità paradisiaca e surreale del giardino
con la realtà terrena della vita a quel tempo…” Le camere da
letto degli sposi erano “completamente tranquille…ma vi era
un’aria di infelicità infusa in quella tranquillità.” Questa è
l’ambientazione iniziale dell’opera. Il figlio maggiore sta per
sposarsi con una cerimonia che si svolge in giardino. Le nozze
sono state organizzate. Secondo la tradizione cinese, la notte
del matrimonio gli invitati fanno un gran frastuono e prendono
in giro per scherzo la nuova coppia. Questo rituale collettivo
va avanti tutta la notte fino a quando anche gli ultimi invitati
lasciano da soli gli sposi per adempiere ai doveri universali
richiesti nell’occasione. “Gli invitati possono gridare insulti
alla sposa vergine a loro piacere, come per liberare dei sentimenti
repressi.” I due giovani si incontrano per la prima volta in
queste circostanze. Lo sposo ha un amore segreto da sempre
nel suo cuore, che si spezza non appena si trova faccia a faccia
con la realtà. Anche la sposa è preoccupata e angosciata dal
timore chiedendosi se il suo nuovo marito la tratterà con la
stessa compassione di cui le ha parlato sua madre, descrivendo
la propria esperienza. Fuori, le risate sfrenate degli uomini in
casa amplificano il palpabile senso di pietà per la giovane
coppia. Circondati da questa atmosfera triste, danno inizio
alla loro vita insieme. Cao Yu utilizza le costruzioni tradizionali
della poetica cinese per realizzare scene che rivelano i sentimenti
dei personaggi. Per esprimere le loro emozioni interiori, Cao
Yu enfatizza costantemente le circostanze in cui sono coinvolti.
L’ambientazione primaverile nella loro stanza di fronte al lago
teatridellediversità
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(Foto Xupin)
grande influenza sulla comunicazione tra gli attori, per come
suona un sospiro, ad esempio, o per come il corpo reagisce
quando ha paura. In una simile notte, un sospiro può avere
un grande peso sulle emozioni e la fresca brezza di primavera
provoca una reazione negli attori, sia nei cuori che nei corpi.
Quando insegno a recitare questa scena, provo spesso a
stimolare l’immaginazione degli studenti in modo da intensificare
la consapevolezza sensoriale e la percezione delle circostanze.
Attraverso esercizi pratici focalizzati sul tatto, la vista e l’udito,
posso spiegare meglio agli studenti come le circostanze date
in una certa situazione riescono ad avere un certo effetto sui
loro corpi e i loro sentimenti interiori. Spengo le luci,
lasciandone solo una molto debole, e nel buio passo accanto
agli studenti con una stoffa di seta fredda per fargli percepire
il contatto sulla pelle. Chiedo loro di guardare le ombre che
si formano nella stanza e di percepire le mutate emozioni
dovute a ciò che sentono e vedono. Poi, richiedo di concentrarsi
attentamente sui suoni dei loro respiri e dell’aria attorno.
Grazie a questi esercizi, gli studenti sono in grado di evocare
sentimenti interiori molto profondi, espressi in modo da
accrescere la loro capacità di rappresentare la vita vera. Così,
quando la scena viene recitata sul palcoscenico, i personaggi
compaiono gradualmente e prendono vita.Vari elementi della
recitazione e della regia moderna sono cambiati con il mutare
del tempo. In passato il realismo era lo stile preferito per le
rappresentazioni, per via dell’enfasi posta sulle ambientazioni
realistiche, i costumi, e gli elementi che riguardavano il
periodo. Lo stile si concentrava sui conflitti e sulle azioni
derivati dalle circostanze date nell’opera. Al giorno d’oggi
abbiamo molti stili diversi in cui gli elementi espressi non
devono essere presentati per forza in modo così realistico.
Questi stili innovativi hanno cambiato lentamente le nostre
visioni della recitazione e della regia. Abbiamo diversi metodi,
forme e prospettive per rappresentare i personaggi e le azioni
nella trama. Quindi, quando mettiamo in scena opere classiche
possiamo superare il realismo del passato e incorporare nuovi
metodi ingegnosi per rappresentare concetti antichi che
possono elevare il pubblico e anche noi stessi. Quando usano
i classici con gli studenti, gli insegnanti dovrebbero cercare
di connettersi all’essenza dei tempi che cambiano, altrimenti
la rappresentazione mancherà di vitalità. Recentemente, ho
assistito a delle opere classiche cinesi rappresentate in modo
simile, o quasi identico, a come venivano rappresentate in
passato. Anche se si tratta di grandi classici del passato, se
vengono messi in scena in modo così realistico e non innovativo
sembrano troppo simili a quelle rappresentazioni teatrali di
molti anni fa, apparendo scialbi e deboli.Siccome il moderno
sistema educativo cinese limita le abilità creative degli studenti,
è facile che si confondano quando mettono in scena dei
classici. A volte pensano che dovrebbero recitare in un modo
a loro familiare ma in accordo con le rappresentazioni del
passato. Altrimenti, secondo loro, un classico non potrebbe
essere considerato un classico. Ad empio, qualche anno fa,
durante le prove di una storia d’amore classica, un regista
chiese agli innamorati di gattonare attraverso il palco l’uno
verso l’altro. Però l’attrice era convinta che in una rappresentazione
realistica la protagonista dell’opera classica avrebbe dovuto
sembrare bellissima in ogni istante sul palcoscenico. Anche
cercare di gattonare in modo “bellissimo”. Perciò, tentando
di rappresentare il personaggio secondo la sua idea, i suoi
movimenti risultarono rigidi, ampollosi e artefatti. Alcuni
credono che l’insegnamento della recitazione dovrebbe seguire
il manierismo trasmesso dalle note rappresentazioni del passato.
Ma ciò fa si che gli attori siano rigidi e smorti, ostacolando
il pensiero e l’espressione creativi. Quindi, ogni volta che
Panorama internazionale
dove i fiori di prugno stanno sbocciando, con braci di carbone
che ardono mentre un cuculo cinguetta, fornisce un immagine
molto “vivida”. È qui, in questa stanza, che la sposa conosce
veramente il futuro marito, con una certa gioia che si accorda
con la notte tranquilla e le fa credere che lo amerà per sempre.
Lo sposo, ancora profondamente innamorato di un’altra, si
rivolge in modo lirico e poetico alla giovane donna che a sua
volta canta le note del suo cuore. Come può un pubblico
dimenticare una scena tale? Per ragioni d’insegnamento, questa
scena fornisce un pascolo perfetto per nutrire i giovani studenti
di recitazione. È ricca di emozioni profonde e pensieri d’amore.
I personaggi cambiano gradualmente le proprie emozioni in
base alle circostanze. È una scena ricca di linguaggi ed
espressioni poetiche. (Le poesie sono un materiale stupendo
per insegnare agli studenti di recitazione e regia a conoscere
concetti artistici presenti in molte delle più importanti opere
letterarie. Insegnare agli studenti attraverso il linguaggio
poetico può essere molto utile al loro sviluppo). Le circostanze
in tale scena sono ben delineate ed estreme e i personaggi si
dedicano a diverse azioni e relazioni. Inoltre, questa scena
insegna agli studenti a potenziare la loro sensibilità corporale
e l’attitudine a relazionarsi con i sentimenti e le emozioni.
Durante l’insegnamento, diversi elementi possono essere
isolati per permettere agli studenti di esprimersi con successo
attraverso i sensi, come l’udito. In Cina, nelle cerimonie di
matrimonio del passato, quando la sposa veniva accompagnata
nella camera nuziale veniva costretta a indossare una sciarpa
di seta rossa che le copriva tutta la testa. Questo significava
che nessuno oltre al marito poteva guardarla in viso e lei
poteva soltanto ascoltare ciò che le succedeva attorno prima
che il marito le togliesse la sciarpa nella stanza nuziale, dove
si rivelavano l’un l’altro. In questa scena, per via della sciarpa
attorno alla testa, l’attrice deve sviluppare l’udito per vivere
appieno l’atmosfera dovuta alle circostanze. Attraverso i
movimenti del corpo il pubblico può intuire chiaramente la
sua preoccupazione e la tensione del momento, senza vederla
in volto. Quando sente un sospiro del marito, la giovane sposa
è colta da timore e nervosismo, pensando che lui sia scontento,
e per un attimo è affranta. Quando sente un sospiro più
intenso e dolce capisce che non c’è da preoccuparsi e che lui
ha un’anima gentile e vuole prendersi cura di lei, diversamente
dagli uomini ubriachi e sconsiderati nella storia. Ciò allevia
temporaneamente le sue paure.Quando si prova questa scena,
gli insegnanti insegnano agli studenti a potenziare la percezione
dovuta ai cinque sensi, soprattutto quando i personaggi
comunicano tra loro. In questo modo, l’opera permette agli
studenti di sviluppare la consapevolezza del corpo e le abilità
che aiutano a trasmettere le emozioni più significative,
trasmettendo in cambio un ritratto dei personaggi sempre
più profondo. Questa scena e le circostanze che presenta
portano gli attori a concentrarsi sulle loro abilità sensoriali,
soprattutto la vista e l’udito. Nella camera nuziale lo sposo è
di fronte alla sposa e le da le spalle, guardando verso il pubblico.
Dato che non la vede, le sue prime impressioni derivano solo
dal’ascolto di deboli suoni e dalla percezione dei movimenti
del suo corpo. Alla fine, quando si volta per guardarla
direttamente, vede che ha il volto coperto dalla sciarpa. In
questo momento, ricordando il suo vero amore, prova un
senso di rabbia di fronte a questa straniera senza volto che
dovrà sposare. Anche la sposa all’inizio ha solo la possibilità
di ascoltare i sospiri e suoni che amplificano la sua tensione
e le comunicano una prima impressione. In seguito, solleva
un po’ il velo per dare un’occhiata al giovane uomo che
diventerà suo marito e alla camera in cui lo servirà devota per
gli anni avvenire. I sospiri e i rumori nella scena hanno una
teatridellediversità
17
18
Tennessee Williams.Le donne hanno un ruolo importante
nelle opera di Tennessee Williams, soprattutto nel caso del
personaggio di Amanda ne “Lo Zoo di Vetro”. La donna
medita costantemente sul passato. Anche se pensa ad avvenimenti
accaduti molto prima, si accorge che, nonostante il filtro del
tempo, la felicità legata a quei ricordi persiste ancora nel suo
cuore e la raggiunge con ondeggianti moti di piacere. La trama
è ricolma dei poetici ricordi di Amanda. Occorre lottare per
rappresentare questi ricordi e i sentimenti interiori e personali.
Dato che diversi studenti interpretano Amanda, mentre
recitano una scena sul proscenio una seconda Amanda giunge
in contemporanea più indietro e inizia ad agitarsi e a ruotare
per enfatizzare la natura lirica della scena mentre il palco
scenico è diviso in due parti. In questo modo, il palco diviene
uno spazio poetico e bellissimo che manifesta lo spirito
dell’opera originale. Le opere classiche possono essere vissute
solo attraverso il cuore. Come tutti i professori che sperano
di influenzare gli studenti sulla visione dei classici durante le
lezioni giornaliere, sento che le nostre idee e i nostri pensieri
possono essere trasmessi solo in modo non letterario, attraverso
i nostri cuori. Noi cinesi veniamo profondamente toccati
dalle opere straniere. Usiamo comunque la nostra prospettiva
culturale e comprendiamo queste storie attraverso il prisma
della nostra sensibilità culturale che ci permette di apprezzare
i pensieri e i sentimenti appartenenti a culture diverse. È
assolutamente importante sottolineare che siamo tutti esseri
umani. Abbiamo tutti due occhi, un corpo e cinque sensi.
Impieghiamo lo stesso cervello per pensare. Non importa da
dove proveniamo, utilizziamo tutti la cultura per insegnare
ai nostri studenti a rappresentare i grandi classici.
NEL DRAMMA SACRO DI BALI
Calonarang: riconciliando
le contraddizioni
L’articolo è un estratto del prossimo libro di Ron Jenkins, SARASWATI IN BALI: Hidden
Knowledge in a Temple, A Mask, and A Museum. Professore di teatro alla Wesleyan
University, Jenkins sta attualmente lavorando con l’artista balinese Made Wianta ad una
rappresentazione che commemora il trattato di Breda del 1667 secondo il quale gli
olandesi cedettero agli inglesi l’ isola di Manhattan in cambio dell’isola di Run, che ora fa
parte dell’Indonesia.
Panorama internazionale
insegno agli studenti a mettere in scena un classico, oltre ad
assimilare il significato intrinseco nella trama e a sviluppare
le abilità teatrali degli studenti, cerco anche di enfatizzare
l’importanza dello stile creativo con cui si recita. A tale
proposito, segue un esempio. Come Cao Yu, anche l’opera
classica “Lo Zoo di Vetro” del drammaturgo americano
Tennessee Williams, è un’opera che studenti e insegnanti
scelgono volentieri. Come ne “La Famiglia” di Cao Yu, anche
i personaggi nell’opera di Williams non sono felici per via
delle loro situazioni e desiderano una nuova vita ed un nuovo
inizio. Attendono di trasformare il proprio destino. Come
Cao Yu, Tennessee Williams desidera soffermarsi sui ritratti
di donne e sulle loro battaglie. Entrambi gli autori impiegano
la loro sensibilità e la loro mente delicata per descriverci queste
donne attraverso un prisma di pietà, empatia e dispiacere per
come la vita le ha trattate. Cao Yu e Tennessee Williams sono
simili anche perché le loro trame presentano uno stile poetico
lirico. Ne “Lo Zoo di Vetro” Williams dice “La scena è un
ricordo e perciò non è realistica. Il ricordo richiede molta
licenza poetica. Omette alcuni dettagli; altri invece vengono
esagerati.” Ne “La Famiglia” Cao Yu scrive direttamente il
copione dell’opera usando la poesia. Qual è il modo migliore
per rappresentare un classico come “Lo Zoo di Vetro”? Occorre
considerare in primo luogo la sua natura poetica. Quindi, per
insegnare agli studenti la lirica presente in questo classico
americano, inizio di solito a far recitare gli studenti in dei
noti poemi classici cinesi. Devono nuovamente apprendere
come accrescere le loro abilità riguardo alla sensibilità del
corpo e a come esprimere i loro sentimenti interiori. Sia che
si tratti di un occidentale o di un orientale, tutti i poeti usano
i loro sensi più sottili per cogliere il mondo che li circonda.
Riescono a percepire e a decifrare l’essenza della natura grazie
al loro occhio mentale. Quindi occorre insegnare agli studenti
a comprendere, sentire e manifestare la poesia. Nell’approcciarsi
all’opera di Williams e ai personaggi, gli studenti impiegano
un intero mese del semestre facendo ricerche e analizzando
l’opera in tutti gli aspetti. Con l’aiuto di internet gli studenti
che non sono mai stati in America possono imparare moltissime
cose su Williams e sull’ambientazione dell’opera. Riescono a
comprendere profondamente la politica americana, l’economia
e lo stile di vita di quel tempo. Nella prima scena dell’atto I
di “Lo Zoo di Vetro” Williams descrive attentamente
l’allestimento scenico e l’ambientazione nel copione. Inoltre,
cosa molto importante, dice che l’opera riguarda i ‘ricordi’,
e i ricordi non hanno né limiti né confini. Quindi, quando
ci concentriamo sull’allestimento del palco scenico, utilizziamo
lo stile tradizionale dell’Opera Cinese, con i suoi principi
estetici, per presentare tali concetti al pubblico e raggiungere
il massimo grado di immaginazione. Il palcoscenico rimane
alquanto spoglio, con una parete semplice come sfondo,
quattro sedie disposte secondo lo stile dell’Opera Cinese e
senza sipari o alti oggetti. Per perfezionare la lezione, spesso
gli insegnanti fanno recitare agli studenti una varietà di scene
tratte da diverse opere. Facendo così, gli studenti non hanno
una visione completa dell’opera o della trama. Ho introdotto
“Lo Zoo di Vetro” agli studenti del secondo anno in modo
da permettergli di prendersi il loro tempo per concentrarsi
su tutti gli aspetti della storia e recitare tutte le scene. Di
solito, un personaggio viene interpretato da quattro o cinque
studenti e ogni scena viene realizzata da due o tre gruppi
distinti. Ogni scena può essere rappresentata in modi molto
diversi e ogni gruppo apprende come passare da una scena
all’altra e lasciare che il gruppo successivo riproduca la stessa
parte con uno stile poetico differente. Credo che rappresentare
l’opera in questo modo ripetitivo di fronte a un pubblico
incarni l’essenza dei ricordi ‘senza limite’, come descritti da
di Ron Jenkins
traduzione dall’inglese di Arianna Galuzzi
Abstract
I
n this article, Jiang Ruoyu underlines the importance of the study
of classics at the primary education level. This importance is strongly related to the lack of feelings and emotions in the new Chinese
social environment. For this reason, training in classics has tremendous value in theatre education and the essay focus on specific
practical applications and methods in using classics to train students, taking as examples the plays “Family” by Cao Yu and “Glass
Menagerie” of Tennessee Williams. The first play aims to reveal the
impact of given circumstances within a classic and it trains students
to heighten their abilities in terms of bodily senses. In addition, the
poetic nature of second play helps to show that classical works only
can be experienced through the heart, allowing to appreciate thoughts and feelings of different cultures according to our own cultural
sensibilities.
Family
Two rangdas hor
teatridellediversità
19
20
emblemi architettonici del ruabineda, l’equilibrio dinamico
tra forze in opposizione che viene messo in scena durante la
rappresentazione. La sera del Calonarang il tempio si riempie
della musica di preghiere, canti, tamburi, gong e campane.
Una dozzina di donne che trasportano piccole offerte ballano
la danza rejang nel cortile di fronte a Ida Bhatara Ratu Gede,
Ratu Sakti e altre maschere Rangda e Barong. Fuori dal tempio,
nello spazio destinato alla rappresentazione, un gruppo di
uomini con indosso le vesti sacre formano un semicerchio di
fronte al candi bentar per ricevere la benedizione dell’acqua
santa. Questi stessi uomini danzeranno durante la rappresentazione
nel momento in cui Rangda viene attaccato poiché sanno che
in tal modo potranno
essere posseduti dagli
spiriti dei loro antenati.
A pochi metri di distanza,
ai piedi della torre di
bambù di Rangda, i sacri
coltelli kris che gli uomini
useranno in seguito
vengono benedetti
anch’essi e sulle lame di
metallo ondulate cadono
gocce di acqua santa. Gli
spettatori si dispongono
lentamente attorno al
perimetro che delimita
lo spazio per la
rappresentazione e nel
frattempo un’orchestra
gamelan ha già
incominciato a suonare
nel lato nord dell’area.
Una processione di donne
con dei bastoncini di
incenso accesi
accompagna le maschere
Rangda e Barong dal
tempio fino al palco
scenico. Le maschere
attraversano il candi
bentar e vengono disposte
in fila di fronte alla torre
di Rangda. Delle offerte
di frutti, fiori e foglie di
palma vengono sistemate
davanti alle maschere. Le
donne con l’incenso
danzano con movimenti
lenti e ondeggianti per
accogliere ed onorare le
maschere. I Barong,
animati ognuno da due
attori, oscillano da un lato all’altro a tempo di musica. Ogni
Rangda è in equilibrio in cima a un cesto trasportato da un
uomo che non indossa il costume del Rangda ma ondeggia a
sua volta a ritmo di musica. Alla fine formano un cerchio in
modo tale che i Barong e i Rangda passino per tre volte intorno
all’area tra il candi bentar e la torre di Rangda. Mentre girano
in cerchio, le donne usano dei fasci di foglie di palma secche
e lunghe per far gocciolare l’acqua santa sulle maschere.
Quando i cerchi sono terminati le maschere Rangda, incluso
Ratu Sakti, vengono condotte alla torre attraverso la rampa.
Una stoffa gialla viene distesa al centro dello spazio per la
rappresentazione e la maschera Barong posseduta da Ida
Bhatara Ratu Gede si prepara a danzare. Molti Barong a Bali
danzano con agilità esuberante e coreografie spettacolari, ma
le performance di Ida Bhatara Ratu Gede hanno uno stile più
smorzato e adatto al suo status di spirito ancestrale. È Wayan
Nama che fa ballare le gambe posteriori del Barong. Cokorda
Bagus, il danzatore che controlla la maschera e le gambe
anteriori del Barong, ha ereditato il compito di far ballare il
Barong dal nonno. Suo zio Rarem si occupa invece della
maschera di Ratu Gede. Entrambi ammettono di perdere se
stessi mentre danzano e non sono più consapevoli di ciò che
succede durante la rappresentazione, la coreografia ben
elaborata non è così importante come rispettare l’obbligo di
riportare in vita gli spiriti protettivi degli antenati. La scena
più apprezzata dal pubblico, in cui una scimmia punzecchia
il Barong con una banana, non è così comica come in altri
villaggi ma rivela chiamante che il Barong appartiene sia al
mondo animale che a quello degli dei. Pur non essendo così
ricca come altre danze di Barong a Bali, i passi semplici ed
eleganti, la coda che si dimena e le fauci in legno che azzannano
di Ida Bhatara Ratu Gede attraggono molto l’attenzione del
pubblico, non solo perché lo divertono ma anche perché
creano una connessione concreta e viscerale con la storia
ancestrale. La rappresentazione si svolge in uno spazio fra il
tempio e la casa appartenuta a Cokorda Tabanan, che ospitò
la famiglia reale nel XVIII secolo, quando il loro antenato
Gusti Jelantik Blahbatuh negoziò la pace tra i fratelli in rivalità
della dinastia Sukawati. Lo spettacolo tratta anche di
riconciliazione tra i rivali, ma all’inizio nel prologo gli opposti
vengono rappresentati da Rangda e Barong nelle loro
manifestazioni come Ida Bhatara Ratu Gede e Ratu Sakti.
Sono, al tempo stesso, eterni antagonisti e compagni inseparabili.
La scena della scimmia è seguita da una serie di danze che
ricordano la storia delle origini di Barong come viene narrata
dai danzatori topeng e dai cantanti lontar all’inizio della
cerimonia. Quando Iswara creò per la prima volta il Barong
nel tentativo di riportare Rudra e Dhurga alla loro vera natura
come Siwa e Uma, venne accompagnato da Brahma e Siva
che assunsero la forma dei danzatori menmen e telek. Un
danzatore menmen (a volte chiamato jauk), con unghie lunghe
e lucenti e una maschera con occhi che sembrano sul punto
di saltar fuori dal volto, segue il Barong sul palcoscenico. Al
suo ballo segue l’arrivo di sei danzatrici telek con maschere
bianche e ventagli che disegnano movimenti incantevoli al
ritmo delle dolci melodie dei gong gamelan. Durante la
performance delle danzatrici telek, un uomo con un costume
a strisce rosse, bianche e nere, ornato con seni finti e enormi
che pendono, raggiunge il fondo della rampa che conduce
alla torre di Rangda. È Rarem, il padre del danzatore Barong.
Rarem si inginocchia ai piedi della rampa e prega, per poi
salire sulla torre dove indosserà la maschera di Rangda in
attesa di essere impossessato dallo spirito della maschera. Il
giorno seguente descrive l’ emozione che ha provato nell’attesa.
“Perdo la sensibilità nelle gambe, mi sento vuoto. E poi non
ricordo più niente fino a che non tolgo la maschera.” Dopo
che Rarem scompare nella torre di bambù di Rangda, appaiono
due danzatori menmen con delle maschere rosse. Sono
rappresentazioni di Brahma che si dice sia apparso durante
la prima cerimonia macaru sotto forma di un personaggio
menmen in rosso. Ma questa non è una ricostruzione esatta
del mito. È una rappresentazione che da vita agli elementi
essenziali della storia per renderla concreta e rilevante agli
occhi dei fedeli al tempio che vengono coinvolti direttamente
nell’atto di un nuovo risveglio e raggiungono una reale
consapevolezza di se stessi, che è poi il tema della storia. I
due menmen con le maschere rosse vengono presto raggiunti
da un altro personaggio in rosso che ha una forma più umana
del menmen stravagante dalle unghie lunghe. È un guerriero
che ha un coltello kris sacro legato con una cinghia sulla
schiena ed è pronto a sfidare Ratu Sakti nella sua torre. Il
menmen e il telek gli danzano attorno per incoraggiarlo ma
alla fine lo lasciano solo sul palcoscenico di fronte alla torre
di Rangda. Lui grida a Ratu Sakti e lei appare in cima alla
torre sostenuta da due sacerdoti che l’accompagnano lungo
la rampa mentre ulula contro l’intruso e agita un tessuto
dipinto con disegni di magia nera. Per la prima volta in undici
giorni di cerimonia la maschera di rangda impossessata da
Ratu Sakti è visibile con il costume completo. Fino a questo
momento la maschera era stata trasportata in cima ad una
cesta, da un rituale a un altro, e avvolta in un tessuto nero
decorato con una foglia oro. Ora le zanne di Ratu Sakti
vengono animate in modo minaccioso. Ciocche di capelli
lunghe e ricce le scendono fino ai piedi. Tutto ciò è visibile
al di sotto della maschera con le zanne e gli occhi sporgenti
si trasformano in braccia con artigli lunghi dieci pollici. Le
ciocche dei capelli di Rangda sono nere e bianche e la fanno
sembrare una tarantola con cento gambe che striscia lungo
la rampa verso la sua vittima. Ratu Sakti e il suo sfidante si
girano attorno a turno gridando e agitandosi fino a che il
guerriero fa la prima mossa e incomincia ad accoltellare il suo
avversario con il kris. Lei è invulnerabile all’attacco e riesce
ad allontanarlo. Quando il guerriero abbandona l’arena Ida
Bhatara Ratu Gede ritorna sotto forma di Barong, forse come
incarnazione divina dell’avversario, che avrebbe potuto essere
una manifestazione terrena di Iswara. Per il pubblico l’identità
dei personaggi precedenti non è così importante come la
battaglia epica che si sta per svolgere tra di loro. Rangda e
Barong, nelle loro manifestazioni come Ratu Sakti e Ida
Bhatara Ratu Gede, rappresentano l’eterna battaglia tra luce
e oscurità, bene e male, creazione e distruzione e tra tutte le
forze in opposizione dell’universo che vengono impersonate
da questi due rappresentanti del ruabineda. Loro sono acerrimi
nemici ma sono anche uniti in modo inseparabile. Si girano
attorno a vicenda, si aggrediscono, si balzano addosso, ma
alla fine nessuno dei due riesce a sconfiggere l’altro. Sono
destinati a coesistere in un equilibrio dinamico che riflette
tutte le contraddizioni e i paradossi del mondo naturale e
della condizione umana. Questo è ciò di cui parlano i balinesi
quando si riferiscono a unità e equilibrio. Nel ruabineda
l’unità non è l’armonia stereotipata nella filosofia new-age,
ma una tregua conquistata con fatica per tenere sotto controllo
forze che altrimenti farebbero a pezzi il mondo. Per un
momento sembra che Ratu Sakti stia avendo la meglio.
Allontana Ida Bhatara Ratu Gede fuori dall’arena della
rappresentazione, ma non resta sola a lungo. Otto uomini
con perizomi bianchi e neri corrono attorno al candi bentar
e circondano Ratu Gede minacciandola con i loro coltelli
kris. Dopo vari grugniti, balzi, giri e finte, gli aggressori si
calmano. Si inginocchiano e Ratu Sakti fa ondeggiare il suo
telo magico sopra di loro. Gli uomini escono in modo ordinato
e passivo, ma quando passano attraverso il candi bentar
riacquistano il loro spirito combattivo. Tuttavia questa volta
aggrediscono se stessi pugnalandosi con violenza, fino a quando
vengono fermati dagli spettatori che li gettano a terra e
allontanano i coltelli. Ida Bhatara Ratu Gede ritorna quando
anche gli uomini in trance vengono riportati nell’area della
rappresentazione. Giacciono stesi a terra mentre i sacerdoti
li bagnano con acqua benedetta. Lentamente, gli uomini si
destano dalla trance mentre Ida Bhatara Ratu Gede e Ratu
Sakti camminano avanti e indietro in mezzo a loro. Sono
necessarie entrambe le loro potenti presenze per far si che gli
teatridellediversità
Panorama internazionale
L
’evento annunciato e atteso con più ansia al festival del
tempio di Pura Madya, a Paliatan, Bali, è stata la danza/
dramma/rituale Calonarang. La rappresentazione si fonda
su di un lontar che narra la storia della strega vedova Calonarang
e include una trance collettiva durante la quale degli uomini
impossessati perdono il controllo, cercando di attaccare la
strega con coltelli kris sacri, tuttavia feriscono se stessi, pur
rimanendo incolumi grazie al potere protettivo della maschera
Barong, in cui risiede lo spirito ancestrale di Ida Bhatara Ratu
Gede. La rappresentazione si svolge pochi giorni dopo i rituali
per onorare Saraswati, la dea della conoscenza, della bellezza
e delle arti e i devoti che sono a Pura Madya hanno la possibilità
di essere testimoni della
saggezza di Saraswati. Il
manoscritto di
Colonarang esplora il
principio balinese di
ruabineda che
presuppone un intrinseca
connessione tra elementi
dialettali opposti come
il giorno e la notte, il
bene e il male, la bellezza
e la bruttezza. L’equilibrio
dinamico che secondo i
balinesi dovrebbe essere
mantenuto tra le forze
antitetiche di ruabineda
viene messo in scena nel
Calonarang in modo tale
da confondere i confini
tra storia, mito e vita
contemporanea del
villaggio. Il dramma
rituale incomincia con
delle benedizioni recitate
dai sacerdoti, descrive
personaggi del passato,
commenta eventi
contemporanei, include
pericolose possessioni in
stato di trance e termina
con un epilogo che si
svolge in un cimitero,
dove solo pochi spettatori
hanno il coraggio di
andare per assistere ad
una cerimonia che mira
a trasformare i demoniaci
seguaci invisibili della
strega in spiriti benevoli.
I preparativi per il
Calonarang sono ben
elaborati. Uno spazio lungo e ristretto destinato alla
rappresentazione viene costruito fuori dai cancelli del tempio.
Da un lato c’è una torre in bambù dove Ratu Sakti e altre
due maschere Rangda vengono sistemate durante la
rappresentazione, permettendo loro di entrare, sole o tutte
insieme, in alcuni momenti più appropriati durante lo
spettacolo, con entrate spettacolari da una rampa ristretta.
Dall’altro lato dell’area adibita alla rappresentazione c’è una
riproduzione in compensato delle porte, scisse in due, del
tempio noto a Bali come Candi Bentar. Il lato destro e quello
sinistro sono separati da uno spazio vuoto attraverso il quale
entrano gli attori. Le porte scisse in due del tempio sono
21
uomini impossessati riprendano i sensi.
Gli uomini che escono dalla trance
provano la stessa esperienza degli dei
nella storia sulla creazione del Barong a
opera di Iswara. Secondo le parole del
lontar, il cantante Nyoman Mongoh Aria,
“stanno ricordando il loro vero essere.”
Hanno dimenticato chi sono e si
addentrano in uno scatenarsi di distruzioni,
descritto come una perdita di controllo
[in inglese “run amok” N.d.T.] . Amok
22
è una parola indonesiana che è stata
adottata dalla lingua inglese per descrivere
un comportamento irrazionale. Per i
balinesi il termine è nato da un esperienza
viscerale. La saggezza di Saraswati non
è più un semplice concetto astratto
descritto dal canto del lontar. Diviene
una realtà concreta che hanno sperimentato
nei loro corpi attraverso l’incontro con
gli spiriti ancestrali che risiedono in
Bhatara Ratu Gede e Ratu Sakti. Questa
è una lezione di conoscenza di sé che
rimarrà impressa nella memoria degli
attori in trance e degli spettatori che li
hanno visti pugnalarsi. Hanno appreso
che gli spiriti buta kala placati durante
i rituali macaru non sono presenti solo
nei cimiteri e negli angoli oscuri. Queste
forze oscure dimorano anche dentro
l’anima di ogni essere umano. Dopo che
gli uomini impossessati hanno ripreso i
sensi, la storia della vedova Calonarang
persone non facessero più il lavoro richiesto per svolgere la
cerimonia con successo. Ad esempio, se si rifiutassero di pagare
per nutrire e dare ospitalità agli attori e ai musicisti, potrebbero
semplicemente mettere su una registrazione. Anche i mantra
del sacerdote potrebbero essere registrati su cassetta, risparmiando
il disturbo e il costo di avere un sacerdote durante la cerimonia.
Potrebbe essere riprodotto un dvd per sostituire la realtà. E,
invece di arrampicarsi lungo la rampa di bambù della torre
di Rangda durante la rappresentazione di Calonarang, il
danzatore potrebbe prendere le scale mobili. Il clown imita
la voce di un noto prete che fa annunci televisivi sul significato
dell’Induismo. Ironizza sulla commercializzazione della vita
spirituale in cui “ogni cosa è in vendita.” “Gli indù devono
essere molto attenti quando ricevono denaro”, dice con la
voce del prete della televisione. “Devono seguire le tre regole
base. Guardare il denaro. Toccarlo per verificare se è finto. E
poi spenderlo. Guardare. Toccare. Spendere. Ma non guardatelo
troppo a lungo o non avrete tempo per spenderlo.” Poi il
clown parla del divertimento come fonte di piacere che è una
parte necessaria nelle cerimonie del tempio poiché impedisce
alla persone di sentirsi affaticate e depresse. Avverte che le
rappresentazioni devono essere sincere e scherza su di un
gruppo di danzatori in trance che uscirono subito dalla trance
quando la polizia arrivò al tempio, dato che non volevano
essere arrestati. Suggerisce che la trance a cui il pubblico ha
appena assistito era sincera a confronto di alcuni cosiddetti
esperti del paranormale che usano la trance per i loro scopi
personali. Alla fine il clown parla dell’intelligenza consapevole
come chiave dell’identità balinese, paragonandola alla flessibilità
dell’albero di bambù. “Gli esseri umani dovrebbero seguire
l’esempio dell’albero di bambù,” dice. “Si erge eretto e cresce
in ogni stagione, piovosa, calda o secca. L’albero di bambù
piega la cima, proprio come le persone ricche dovrebbero
ricordarsi di guardare giù e aiutare chi è più in basso. L’albero
di bambù è forte. Anche se non ha fiori né frutti, è forte. Le
radici sono la chiave della sua forza. È difficile sradicare un
albero di bambù perché questo si aggrappa subito alle sue
radici.” Il clown sostiene che se le radici dell’identità balinese
non vengono preservate, i terroristi distruggeranno facilmente
l’isola. Nomina gli uomini colpevoli del bombardamento del
2002 a Bali. Il pubblico ride e applaude durante il monologo.
Comprendono la logica comica dell’attore. Sta seguendo il
consiglio del sacerdote di ricordare il significato dei rituali e
includere il riso nella cerimonia, per onorare Ida Bhatara Ratu
Gede. Questa figura sacra appare nel Calonarang come
guaritore, unificatore e protettore. Ida Bhatara Gede è la
forza che permette agli uomini in trance di riprendere i sensi
dopo la possessione. La sua presenza li rende consci del loro
vero essere, come rende consapevoli i partecipanti della loro
identità in quanto membri di una comunità. In contatto con
lo spirito di Saraswati che ha pervaso tutti i rituali e le
rappresentazioni, il clown ricorda ai fedeli che la cerimonia
a cui hanno partecipato è una fonte di conoscenza nascosta,
essenziale per la sopravvivenza della loro cultura.
Panorama internazionale
IDA BAGUS MADE NADERA Calonarang Dance Drama
inizia con la danza degli sisya che sono i discepoli della strega
vedova. Gli spettatori conoscono già la storia e sanno che
riguarda lo scontro tra forze in opposizione, come quella che
hanno appena visto. Calonarang è una vedova che è stata
insultata e si vendica mandando i suoi discepoli a diffondere
una pianga in tutto il regno. Ci sono diverse varianti nella
storia, ma termina sempre con una lotta tra Calonarang e un
sant’uomo chiamato Empu Bharadah che usa la magia bianca
per contrastare la magia nera della strega. Durante lo scontro
si trasformano in Rangda e Barong ma nessuno dei due riesce
a sconfiggere completamente l’altro. Nessuno vince. Nessuno
perde. Il punto di stallo dimostra che questi poteri antitetici
continueranno a coesistere con difficoltà fino alla successive
rappresentazione di Calonarang. La storia è sempre la stessa
ma gli attori di Calonarang hanno modi diversi di collegare
la trama con gli eventi del momento. I personaggi comici
sono liberi di improvvisare e nominano spesso i leyak per
aggiornare la storia. I leyak sono individui che impiegano la
magia nera per trasformarsi in animali e ferire i loro nemici.
Un attore comico nel Calonarang di Pura Madya ha scherzato
sul fatto che i leyak del passato spaventavano le persone solo
volando nella notte sotto forma di animali, ma adesso “i leyak
moderni posso assumere ogni forma, anche quella di una
motocicletta.” L’attore, truccato da clown, sostiene di non
temere i leyak perché ha una laurea in sudi soprannaturali.
“Voi gente studiate economia e legge all’università,” si rivolge
scherzoso al pubblico, “ma io ho studiato al dipartimento
della possessione e della trance (facultas kerauhan) e ho ottenuto
la qualifica di S.Ag. Sarjana Alam Gaib” (laureato in Mondo
Mistico). Le sue battute sulla trance come forma di educazione
fanno riferimento agli stati di trance che il pubblico ha visto,
e le sue battute mettono in connessione il mondo invisibile
degli antenati e l’identità contemporanea balinese. Poi trasforma
la parola Bali nell’ anagramma di Banten Adat Langen Idep
(Offerte, Tradizione, Piacere, Consapevolezza). In seguito il
clown spiega come tali elementi si connettono ai rituali svolti
durante le cerimonie. Prima parla delle offerte. “Le offerte
sono il modo in cui i balinesi comunicano con il mondo
invisibile dei nostri antenati,” dice. “Non importa quanto
l’offerta sia grande o piccola. Anche un po’ di riso, di frutta,
una foglia di palma e un po’ di acqua santa sono sufficienti
se l’offerta viene dal cuore.” Quando parla della parola “adapt”
o “consuetudine”, il clown sostiene che Bali scomparirebbe
se le tradizioni non venissero mantenute. Loda il pubblico
per come si è comportato alla cerimonia a Pura Madya e la
paragona al suo villaggio sconosciuto dove le guardie del
tempio indossano abiti occidentali invece degli indumenti
tradizionali del tempio o del “pakaian adat.” “Qui a Peliatan,”
dice, “le persone si siedono rispettose all’arrivo di Ida Bhatara.
Non come nel mio villaggio, dove si alzano in piedi come se
la rappresentazione fosse solo un intrattenimento.” Il clown
afferma che “Adat” o “tradizione” prevede un lavoro collettivo
per raggiungere un obbiettivo comune, la tolleranza per tutte
le persone e il senso di uguaglianza. A questo punto l’attore
si lancia in una fantasia comica su ciò che accadrebbe se le
Abstract
T
he article is excerpted from Ron Jenkins’ forthcoming book, SARASWATI IN BALI: Hidden Knowledge in a Temple, A Mask, and A Museum.
Jenkins, a former Guggenheim Fellow, has been conducting research in Bali for over three decades with the support of the Asian Cultural
Council, the Institute for Intercultural Studies, The Thomas Watson Foundation, and a Fulbright Senior Research Grant. A professor of Theater at
Wesleyan University, Jenkins is currently working with the Balinese artist Made Wianta on a performance installation commemorating the 1667
treaty of Breda in which the Dutch gave the English the island of Manhattan in exchange for the island of Run, now part of Indonesia.
teatridellediversità
23
Rubriche Teatro d’ animazione
A Charleville Mezieres
La Marionetta
tra il parlare e l’essere
L’associazione francese Marionnette et Thérapie ha svolto in settembre il suo
quattordicesimo colloquio a Charleville Mezières, la cittadina delle Ardenne dove ogni
due anni è ospitato il Festival mondiale del teatro d’animazione
di Mariano Dolci
Burattini creati in ambito terapeutico
L
a città fondata da un Gonzaga è sede dell’Institut Supérieur des
Arts de la Marionnette con la sua ricca biblioteca, le sue aule,
i suoi laboratori, la sua foresteria per ospitare gli studiosi o gli
iscritti a stages e corsi (residenziali, triennali). Mi sembra che fino ad
ora l’unica laureata italiana di questi corsi sia Alessandra Amicarelli
della Compagnia Stultifera Navis. Il finanziamento dell’istituto è
assicurato quasi interamente dallo stato. Fin dalla sua creazione la
direzione del Festival e la Municipalità di Charleville hanno avuto
l’intelligenza di favorire quello che chiamano il “Festival off” che
comprende tutti coloro che non invitati ufficialmente e quindi
non retribuiti si presentano di loro iniziativa a rappresentare i
loro spettacoli. Vi è tutta una organizzazione per offrire servizi e
permettere la programmazione degli spazi (si utilizza tutto, dall’aula
del Consiglio Comunale, al tempio protestante, ecc.).
Negli ultimi anni il Festival “in” mi ha permesso di assistere a
nobili tradizioni come il Bunraku giapponese, il Wayang Kulit
indonesiano o grandi compagnie statali dei paesi dell’Est, ma non
di rado gli spettacoli presentati nel programma “off” sono risultati
di maggiore interesse. Nel teatro d’animazione è ancora possibile
che la creazione di un singolo burattinaio o marionettista di strada
risulti più interessante di quella di grandi compagnie di teatri stabili
con decine di operatori.
Le associazioni che in qualche modo e a qualsiasi titolo hanno
a che fare con burattini e marionette, anche se non collegate
direttamente al Festival o alla produzione di spettacoli, approfittano
24
del suo periodo e del suo clima per far coincidere le loro assemblee
o riunioni in modo da permettere agli aderenti di vivere il Festival.
Tra queste, l’associazione “Marionnette et Thérapie”. L’associazione
è nata da una costola dell’UNIMA-Francia che aveva costituito una
commissione “Educazione e Terapia”. Fu nel corso di un colloquio
internazionale nel quadro del Festival Mondiale del 1976, al quale
partecipai, che, fu deciso di trasformare la commissione in una
associazione indipendente. Fu poi istituzionalizzata nel 1978 con
il nome di Marionette et Thérapie (MT) ed è attualmente diretta
dalla psicanalista Christine Debien. L’associazione francese è stata
dunque la prima a concretizzare l’idea della necessità di un terreno
d’incontro tra burattinai (marionettisti, ombristi, ecc.) da una
parte, e terapeuti (psichiatri, psicologi, psicanalisti, riabilitatori,
ecc.) dall’altra, con l’intento di evitare gli scogli in ognuno di questi
due campi molto specifici e tra loro molto diversi per finalità, pur
trovandosi ad utilizzare i medesimi strumenti. Essendo la prima
associazione nazionale funzionante le riunioni ed i colloqui di MT
sono sempre stati molto frequentati da stranieri tra i quali alcuni
italiani. L’associazione da decenni pubblica quattro volte all’anno
un bollettino e organizza corsi, seminari, conferenze, laboratori.
Ricordo il grande interesse delle prime riunioni negli anni ‘70 ma
anche la piacevolezza e l’umorismo delle discussioni tra persone di
formazione ed interessi così diversi come burattinai e terapeuti.
Questo rapporto tra le componenti si è attualmente modificato per
la forte prevalenza di terapeuti.
Considerata l’assenza o l’isolamento e la difficoltà di contatti tra gli
operatori, i teorici e gli studiosi internazionali MT ha promosso
vari incontri ai quali hanno partecipato esponenti di tutto il mondo
in vista di istituire una federazione mondiale la FIMS (Féderation
Internationale Marionnette et Santé).
L’ultima edizione del colloquio settembre 2013 era quello di: La
marionetta, un “parlessere”? (l’unione di due parole “parlare” ed
“essere”) « La marionnette (…) n’est pas un acteur qui parle, c’est
une parole qui agit » (Paul Claudel)
Erano presenti una cinquantina di partecipanti (Francia, Belgio,
Olanda, Germania, Canada, Italia, Catalogna, Libano, Svizzera …)
Di seguito, riprendendo la scaletta degli interventi previsti nell’incontro,
si riporta una sintesi estrema delle riflessioni espresse dai relatori,
di varia formazione:
Madeleine Lions (Psicanalista di indirizzo lacaniana e burattinaia)
ex-presidente di MT ha rievocato, con la passione che le è propria,
la storia dell’associazione.
Raphaèle Fleury (Dottore in letterature e civilizzazioni francesi,
specialista di Paul Claudel, direttore del polo Ricerca e Documentazione
dell’Istituto Internazionale della Marionetta di Charleville) è
intervenuto su “Una parola che agisce. Paul Claudel e la marionetta,
sforzo di riconcettualizzazione”. In una comunicazione densissima,
ha descritto il grande interesse di Paul Claudel per marionette e
burattini esponendo le pertinenti dichiarazioni dello scrittore in
particolare quelle sul teatro di marionette giapponesi Bunraku.
Gilbert Oudot (Psicanalista, formatore presso MT dal 1982; in
particolare anima ogni anno il seminario “Marionetta e Psicanalisi”)
ha tenuto un intervento dal titolo “Dell’utilizzo della marionetta nel
nostro rapporto con la parola.” (Il teatro, tra cui quello di burattini,
partecipa a questa messa in scena del nostro rapporto con il mondo
e con noi stessi e ci è necessario per accedere a una parola giusta,
ossia a una parola che tenga in conto anche la dimensione inconscia
del nostro essere e ci permetta di dire “io”).
Mariano Dolci (Burattinaio nelle scuole dell’Infanzia e nelle
elementari quindi in psichiatria a Reggio Emilia con uno sguardo
educativo o terapeutico) ha relazionato su “Un secondo occhio,
un altro sguardo?” Il contributo dell’animatore burattinaio in un
atelier di marionette in un contesto psichiatrico. Si è evidenziata la
presenza di un “altro sapere” oltre a quello degli psicologi, psicanalisti,
psichiatri di tante correnti diverse; quello dell’animatore. Un sapere
che, al contrario di quello dei curanti, non ha avuto molte possibilità
di sedimentarsi e di trasmettersi; insomma di costituirsi; fino ad
ora, infatti, animatori e burattinai che operano in questi campi
non hanno ricercato occasioni per incontrarsi in modo di parlare
del loro specifico sapere e di definirlo per il necessario confronto
e la collaborazione con quello medico. Per una collaborazione è
necessario che i due termini abbiano la loro autonomia.
Karim Dakroub (Marionettista, psicologo, formatore, presidente di
Khayal- Association for Arts & Education in Libano) ha riferito su
“Quando parlare non è più possibile”. Le esperienze del relatore
con burattini in zone martoriate, grazie alla sua grande sensibilità si
sono dimostrate importanti per la ricostruzione dei rapporti sociali
in individui traumatizzati da guerre e massacri.
Pascal Le Maléfan (Psicologo, psicanalista, professore di psicologia
clinica presso l’Università di Rouen, autore di numerosi articoli
sull’utilizzazione della marionetta in terapia) è stato autore
dellintervento “La marionetta come bordo nell’autismo: animare
per ingaggiare la propria voce.”
Quello che è in gioco per l’autistico con un burattino, è essenzialmente
l’impegno della voce, questo oggetto pulsionale dal quale si difende.
La marionetta diventa allora un confine a partire dal quale una
enunciazione è possibile e può fare legame sociale. Il relatore ha
illustrato alcuni esempi convincenti da casi clinici.
Françoise Arnoldi-Dessiex (Marionettista, arte terapeuta, presidente
di MEET in Svizzera romanda - Marionette, Espressione, Scambi e
Terapia - e marionettista degli Hopiclowns - clowns ospedalieri- a
Ginevra) è intervenuto su “Storie di ‘innesti d’immaginario’, una
esperienza con bambini psicotici.” La relatrice ha illustrato la sua
tecnica in cui il terapeuta “presta” al paziente un “pezzo” del suo
immaginario conducendo il paziente ad assumerlo per mettere in
scena figure del suo mondo interiore, fino allora indicibili.
Nei dibattiti al termine di ogni intervento e nelle discussioni, in
particolare nei momenti liberi, sulle infinite varietà di utilizzazioni
possibili e ipotizzabili dei burattini nei contesti terapeutici tornavano
alcuni temi mai esauriti: giungere ad uno spettacolo è sempre
indispensabile? Dove finisce il teatro e dove comincia la terapia?
Cosa è un burattino? E’ l’assenza di corpo del burattino che gli
permette di avere una vita?
Attendiamo dunque gli atti e l’autorizzazione a pubblicarli in italiano.
Abstract
T
he French association “Marionnette et Thérapie” organized, in
September, its XIV conversation at Charleville Mezières, a town
in the Ardennes where the international animation theatre Festival
takes place every two years. Almost fifty people took part in the
event (form France, Belgium, The Netherlands, Germany, Canada,
Italy, Catalonia, Lebanon, Switzerland….). Considering the absence,
the isolation and the arduous relationship between the operators,
the theorists and the scholars of this sector, “Marionnette et Thérapie” intends to establish a global foundation: the FIMS (Féderation
Internationale Marionnette et Santé).
teatridellediversità
25
Rubriche Teatro e Scuola
“La creanza”, performance per l’atelier sulla
“Didattica della Visione”, con Marina Di Virgilio,
Desy Gialuz, Guido Gentilini (Idea Paris 2013,
Università VII-Diderot)
DA UN MONDO ALL’ALTRO
quale educazione
artistica per domani?
Un ritorno in Europa dell’importante appuntamento dell’associazione internazionale
IDEA (International Drama/Theatre Education Association), a più di vent’anni dalla sua
fondazione a Porto nel1992
di Loredana Perissinotto
A
Parigi, dopo gli appuntamenti di Brisbane (Australia,
1995), Kisumu (Kenia, 1998), Bergen (Norvegia, 2001),
Ottawa (Canada, 2004), Hong Kong (Cina, 2007),
Belèm (Brasile, 2011). Resterà sempre in Europa il prossimo
incontro, avendo l’assemblea dei soci accettato la candidatura
della Turchia (Ankara, 2016), rispetto al Sudafrica.
Una rete di associazioni nazionali, dunque, questa Idea che,
con non poca fatica e tanti problemi, continua ad affermare
l’importanza dell’esperienza artistica nella formazione delle
giovani generazioni e a portare avanti ricerche, confronti,
costruttivi scambi di punti di vista e pratiche. La metafora di
questo ottavo congresso Arti della Scena/Educazione, svoltosi
a Parigi dall’8 al 12 luglio, alla presenza di 850 partecipanti
provenienti da tutto il mondo, con una nutrita presenza
dall’Oriente, potrebbe però essere il labirinto.
Nel dire questo, non mi riferisco alla quantità di conferenze,
tavole rotonde, presentazioni; all’esubero di comunicazioni,
atelier, poster, performance e spettacoli tra cui orientarsi,
seguendo i cinque percorsi individuati dal comitato scientifico
dell’ANRAT (Association National Recherche Action Théâtral,
organizzatrice della manifestazione col Ministero della Cultura
e Comunicazione e il Ministero dell’Educazione francesi), su
altrettante questioni che vale la pena di elencare:
1) L’educazione artistica è un problema mondiale? (in riferimento
alla sua legittimazione nei differenti sistemi nazionali);
2) I processi trasformatori: territori dell’utopia (in riferimento
all’apprendimento e alla trasformazione sociale, tenendo presente
il rispetto delle differenze culturali);
26
3) L’approccio sensibile e corporeo: quale dialogo
tra le neuroscienze e le pratiche artistiche? (in
riferimento alle ricerche più recenti che confermano
le intuizioni degli artisti quanto al sentire/agire
nell’approccio estetico attraverso il teatro e la
danza e il radicamento corporeo ed emozionale
di tutta la conoscenza);
4) Le arti della scena nell’apprendimento delle
lingue e delle culture: quali diversità di approccio
e quali problemi? (in riferimento al meticciato
culturale ed artistico del nuovo millennio e alla
trasformazione che avviene, nella messa in scena,
delle lingue – parole/specchio, come i neuroni
specchio di Rizzolati e Sinigaglia-);
5) La creazione e la scrittura teatrale per il giovane
pubblico: quale posto e quale riconoscimento? (in
riferimento alla fruizione delle opere attraverso il
teatro, la danza, il cinema, le arti plastiche, la musica; nonché
al repertorio di teatro contemporaneo per i bambini e i giovani
e al fatto che nella storia del teatro e della letteratura non vi
sia traccia di questo).
Non evoco il labirinto neanche in riferimento alla difficoltà
di capire in quale sede si sarebbe dovuto svolgere qualcosa
che ti interessava seguire o che tu stesso dovevi presentare,
soprattutto negli spazi dell’Università Paris VII-Diderot dove
si smarrivano anche i giovani volontari del servizio accoglienza.
Questo fa parte del folclore o delle inevitabili pecche di uno
sforzo organizzativo non indifferente.
La delegazione AGITA, partner italiano di Idea, con Ivana Conte,
Peppe Coppola, Marina Di Virgilio, Guido Gentilini, Desy
Gialuz, Patrizia Mazzoni, Salvatore Guadagnuolo e chi scrive,
ha presentato alcune significative linee del lavoro in Italia, come
la Didattica della visione (o scuola dello sguardo) e la Casa dello
Spettatore, il fenomeno delle Rassegne di Teatro della Scuola,
la realtà sociale dei Teatri di Comunità. La presentazione non
è stata disgiunta dalla messa a fuoco dei problemi aperti nel
nostro paese, in ambito educativo e culturale.
Richiamo, allora, il topos/il mito/l’immagine del labirinto quale
metafora dello stato dell’arte, dell’educazione e delle inerenti
prassi formative: arrivare al centro e scoprire che il Minotauro
... è lì e non è lì! Vale a dire, avere la conferma di essere di
fronte a qualcosa di sfuggevole e, al contempo, alla soluzione
stessa del problema. Quale, perché?
Si ha un bel ripetere che il teatro - l’Arte tutta! - è fattore di
democrazia, d’integrazione, di intrecci culturali e dialogo, di
sviluppo e collaborazione, di apertura
verso le meravigliose nuove tecnologie di
comunicazione, e così via.
Si ha un bell’affermare che le più recenti
scoperte delle neuroscienze confermano la
positiva incidenza delle pratiche artistiche,
fin dalla prima infanzia, sullo sviluppo
del cervello umano e della persona - più
creativa, empatica, cooperativa-, e che
questo ha pure un positivo risvolto sul
piano cognitivo e sull’apprendimento verso
tutte le discipline scolastiche, e così via.
Si ha un bel lanciare appelli da parte di
studiosi e di scienziati, oltre che di artisti
teatranti come Mnouchkine, Brook,
Boal, Vitez, Fo, Bond e molti altri, senza dimenticare i tanti
misconosciuti “artisti” della formazione e della pedagogia che,
per esperienza diretta e da decenni, non fanno che confermare
questo indirizzo, e così via.
Si ha un bel ripetere, affermare, firmare appelli... è tutto inutile!
Fioccano le domande. E’ inutile solo apparentemente o realmente?
Non si riesce ad aver la forza di guardare negli occhi il Minotauro
e il centro del labirinto si sposta: dove sta la regola del gioco?
Sta nelle mani di istituzioni cieche e sorde, scusabili per il loro
handicap o ben consapevoli? Non abbiamo il potere di persuasione
e, sentendoci chiamati in causa, ci sentiamo colpevoli per la
nostra incapacità di convincere sulle affascinanti prospettive
dell’inversione di rotta? O forse che la spinta al cambiamento,
dal basso come dall’alto, abbisogna di altra propulsione, del
coordinamento di altre volontà e soggetti?
E solo la mia personale, sconsolata, considerazione che a chi
governa, a chi ha il potere di legiferare e quello economico non
interessa né l’arte, né l’educazione, né la salute psicofisica dei
cittadini, specie giovani? A Parigi, parlando con tante persone
negli intervalli del programma, era palpabile questa sensazione.
La situazione di disagio è trasversale ai paesi europei, anche in
quelli con una storia e politiche più sensibili e stabili di quelle
italiane. Deprimente conclusione di un congresso internazionale,
a fronte di una situazione, se non drammaticamente asfittica,
generalmente afasica?
Eppure si è chiacchierato tanto in questo consesso, forse troppo.
Era certamente necessario mettere in fila i problemi e tutte le
tessere del puzzle. L’opportunità d’incontro di tanti esperti,
studiosi, scienziati, professori universitari, insegnanti, artisti
ed operatori teatrali provenienti da tante parti del mondo, e
di qualche politico (francese), andava colta e sfruttata sia dal
lato teorico-problematico, sia pratico.
A Parigi si è anche percepito la concretezza di una realtà
diffusa, una forza, una potenzialità; ma ti chiedi pure perché
non si sfonda: chi ci ascolta, dal basso come dall’alto, quando
peroriamo la causa dell’arte, dell’educazione, della qualità del
vivere e delle relazioni interpersonali?
Abbiamo soluzioni, esperienze, dati, un pensiero pensante, una
visione sistemica e integrata rispetto ai problemi: a chi interessa,
chi si avvale di questo o ci consulta?
L’impressione di continuare a girare in tondo se non a vuoto, in
un labirinto senza uscita, non è stata solo mia. L’ho condivisa con
quanti hanno alle spalle anni di studio, ricerca, sperimentazione,
di azioni concrete e pubblicazioni; ma non consola.
Si può porre rimedio a questa debolezza del movimento, a questa
invisibilità di chi opera in ambito della Scena/Educazione? (E
questo, ricordo, era il titolo di una pubblicazione ETI/Agita, a
seguito del primo Protocollo d’intesa ministeriale sull’educazione
teatrale del 1995!).
Sappiamo che gli amici di Anrat hanno dovuto affrontare
innumerevoli difficoltà nell’organizzare questo appuntamento
(anche questo è un sintomo, riferito alla civile Francia!) e, ciò
nonostante, possiamo permetterci di dire che, pur a partire da
un’impostazione tradizionale, poteva essere anche altro questo
congresso, segnando un passo avanti? Poteva essere questo il
luogo e l’occasione adatti, considerato il momento storico,
economico, sociale, in cui siamo immersi?
Poteva uscirne una presa di posizione comune, una concertata
– politica - linea di condotta, trasversale alle varie realtà? Si
poteva tentare di far seguire alle parole e alle tante analisi, una
qualche condivisa azione concreta per smussare le “solitudini”
del ritorno a casa propria? A nostro avviso, poteva essere...
Allons enfants !
Insomma, le pompe ci sono, l’acqua pure ma la casa continua
a bruciare, verrebbe da dire con impotente rassegnazione.
Però mi sorge un’altra domanda: forse non sarebbe meglio
accettare, con estrema lucidità, il senso di questo stato delle
cose; azzerare e convincersi dell’opportunità di un rigenerante
fuoco, per ricominciare?
Il desiderio accende l’utopia... riprendere il filo in mano e
continuare il cammino dentro e fuori il labirinto. Con altri
compagni di viaggio e con pazienza si arriverà, prima o poi,
alla luce... L’ombra di Sisifo arriva a tormentare una tensione
di speranza... ma anche questo fa parte della dialettica della
vita, o no?!
Abstract
T
he eighth world congress of Idea, which has recently taken
place in Paris and involved 850 people coming from around the
world, could be termed a maze, speaking in metaphors. This image
does not refer to the difficulty one met to steer the large number of
conferences, round-table discussions, presentations, communications, workshops, posters, performances and plays. A maze is
actually the image which metaphorically describes the present
state of art, education and training practices. Even the most recent
neuroscientifc discoveries have backed up how, experiencing art
from infancy, has a positive effect on the brain development and on
the person as a whole , who is more creative, empathic and cooperative . Therefore the cognitive level is positively implicated and
learning is enhanced in all school subjects. On one hand, however,
it all seems pointless, although artists and drama operators, as well
as experts, scientists, scholars, professors and school teachers from
everywhere have been repeating, confirming and signing appeals
to the establishment for a long time. To a certain extent, they are
under the impression of “running around in circles”, they all feel
“unease” every European countries. The authoress raises several
questions with regard to this issue, and she also wonders if they
should have taken advantage of the meeting as an opportunity to
have speeches, analyses and discussions followed by some actual
“political” internationally shared action.
teatridellediversità
27
Rubriche Teatro e Scuola
VLADIMIRA CANTONI
Dapprima un cavaliere
L’ultimo saluto a una
signora della scena
Come ridurre stereotipi e pregiudizi contro le Comunità Rom in Abruzzo promuovendo
eguali diritti attraverso il linguaggio del corpo
Come professoressa alla scuola media diede vita al Teatro di base con i suoi allievi
quattordicenni appassionatisi con lei alla recitazione
di Athena D’Orazio
di Loredana Perissinotto
P
agine piene di appunti frettolosi, date, luoghi, nomi, punti
interrogativi sfogliando il diario di bordo che ho redatto durante
il tirocinio presso l’Associazione Deposito Dei Segni Onlus,
ideatore del progetto teatrale “Se l’altro fossi io” inserito nel programma
comunitario Roma Source, Sharing of Understanding Rights and
Citizenship in Europe - Condivisione e Comprensione dei Diritti di
Cittadinanza in Europa,” in collaborazione con il Comune di Pescara
partner del progetto con altre sei nazioni. Focus del programma erano la
riduzione di stereotipi e pregiudizi delle comunità locali contro i Rom
e la promozione di eguali diritti. Ritrovo spezzoni dibattiti e spunti di
riflessione registrati nei circle time durante il laboratorio di pedagogia
teatrale e artistica “Il Libro Vivente” condotto da Cam Lecce e Jörg
Grünert del DDSO, da ottobre a dicembre 2012, in continuità con
le attività avviate nella primavera precedente. Rivivo le scoperte, le
emozioni e l’invisibile agli occhi di quelle due ore settimanali trascorse
con i bambini della V/IV della scuola elementare “Don Milani” di
Via Sacco di Pescara, e mi torna in mente la storia Il Cavaliere senza
corpo e la spada che non c’è realizzata dai 21 bambini, di cui 10 di
minoranza linguistica Rom, 3 di nuova immigrazione e 8 gajè. La
scuola si trova a Rancitelli, quartiere Villa del Fuoco, connotato da
grande disagio sociale, devianza e criminalità, abitato da una cospicua
collettività Rom e collettività di nuova emigrazione, collettività gajè
multiproblematiche. Il gruppo classe era molto conflittuale, c’era
sempre qualche assente, incontrato appena poco prima per strada
vicino al bar nei pressi della scuola. Calzini antiscivolo, abbigliamento
comodo, fila indiana e nel chiasso trasferimento nella classe senza
banchi dove il nostro spazio estetico (precedentemente preparato) era
pronto per farci entrare nel “campo magico” delineato dallo scotch di
carta sul pavimento. Si iniziava con la presentazione, si pronunciava
la formula magica, poi i giochi: la lotta degli animali, il labirinto, il
bosco, le mimesis dell’aria, acqua, fuoco, terra, albero, i circle time
per socializzare come ci si era sentiti. Il tutto pensato per far narrare
con spontaneità i vissuti quotidiani dei bambini da riformulare in una
storia della fantasia di cui divenire i protagonisti nella rappresentazione
con il linguaggio del corpo. La gestione dei conflitti è stato quindi
il cuore delle attività. Cam e Jörg in costante comunicazione con le
docenti, hanno ri-modulato le attività adattandole alle necessità del
gruppo classe. Le verbalizzazioni e i giochi sono divenuti i contenuti
della storia/metafora sulla loro condizione socio-affettiva, sulle loro
paure e tristezze a lasciare la scuola elementare, sui pregiudizi verso
il diverso, sul timore di crescere e affrontare nuove responsabilità.
Un cavaliere senza corpo, alla ricerca di una spada magica, viaggi nel
tempo e nella storia affrontando pericoli, diventare gruppo solidale per
riuscire a risolvere problemi, litigi e incomprensioni, per combattere
mostri e vampiri, per scoprire, attraverso domande, dubbi e curiosità
durante la fase di trasposizione dal testo alla drammatizzazione, che
la spada magica non esiste e che, invece, il corpo ritrovato sono loro
nella capacità di relazione, ascolto, condivisione e complicità con
una gran voglia di raccontarsi mentre felici raccolgono gli applausi
28
Vladimira Cantoni
del pubblico presente. La scoperta essenziale vissuta durante questo
tirocinio formativo ha incoraggiato i miei studi di approfondimento
per orientare la mia tesi di laurea in sociologia: “Il Teatro Sociale:
dimensioni e metodologie per l’intervento”.
Aver vissuto, osservato, registrato e monitorato le attività mi ha
reso consapevole di quanto le metodologie di teatro sociale siano
un mezzo di mediazione di gruppo, per promuovere la spontanea
espressione di sé, libera da maschere sociali e stereotipi imposti
attraverso le barriere invisibili dei contesti socio-culturali e le trame
delle abitudini quotidiane.
Abstract
T
he author tells about her experience as participant observer to the activities
of theatrical and artistic pedagogy of the project “If I were the other”, realized by the association Deposito Dei Segni Onlus within the program Community Rome Source for equal rights and support to the Rom communities. It has
been a fundamental experience to editing her thesis of degree in Sociology
“Social Theater: dimensions and methodologies for the intervention.”
E
Rubriche Teatro e Scuola
A PESCARA UNA CITTADINANZA PER TUTTI
Insaziabilità da Witkiewicz, regia di Vladimira Cantoni
ra “la Vladi” per tutti, Vladimira Cantoni uscita di scena a 69
anni accompagnata dalla pioggia di ottobre, dal suono struggente
del violino (come era importante la musica dal vivo nei suoi
spettacoli!), dal commosso saluto degli amici presenti nella piccola
chiesa di S. Antonio a Bologna. La passione di una vita, la sua per il
teatro, nata sui banchi di scuola. Banchi frequentati da studentessa
e banchi visti dall’altra parte, quale Prof di lettere alla scuola media.
E fu proprio con “quel” gruppo di allievi quattordicenni, appena
licenziati, contagiati dalla sua energia teatrale, che diede vita al
Gruppo Teatro di Base nel 1978.
In un intervista di Stefano Casi, una decina di anni dopo (1), Vladi
ribadisce il senso del fare ricerca teatrale e dello stare insieme: “ La
cosa che si nota, al di là delle capacità di ciascuno, è il fatto che si
fa fronte comune, nel bene e nel male. Il nostro gruppo è composto
da persone che amano fare il teatro, che vogliono esistere”.
Questa filosofia l’ha sempre accompagnata anche quando, dopo lo
scioglimento del Gruppo Teatro di Base, diede vita al Gibus Teatro
e al gruppo amatoriale con giovani di Cervia. Lì, a Cervia-Pinarella,
era andata a vivere dopo la morte del marito.
Vicino al mare, i suoi occhi azzurri s’illuminavano d’altra luce.
Fare “il teatro/esistere” significava per lei e per i suoi attori, un lungo
lavoro drammaturgico, di lettura e di impasto di autori teatrali e
letterari: Canetti, Brecht, Valentin, Ionesco, Roversi, E. L. Masters,
Wedekind, Brontë..
Significava anche un’attenzione allo spazio d’azione scenica, spesso di
rottura di schemi tra attore e spettatore, in interno come all’esterno.
Significava l’accendersi di una curiosità per l’oggetto simbolico più
che per la scenografia in senso stretto, ai costumi come trovarobato
per esprimere un’estetica divergente e sensuale. Una cura per la
musica dal vivo, come dicevo, o se registrata, drammaturgicamente
dissonante con la storia e l’azione. Significava “intrusioni” di attori
non professionisti, di ogni taglia ed età (anche bambini e anziani), coi
professionisti; significava generosità civile vuoi verso le celebrazioni
dell’Anpi come verso le ricorrenze della parrocchia.
“ Ma allora cos’è il teatro”, chiede sempre Casi in quell’intervista.
“Per me personalmente, ti potrei dire, che è il mio amante”, risponde.
Delle grandi attrici scomparse si dice che erano “signore della scena”:
anche tu lo sei stata Vladi, come persona e regista, per quell’amore
inseguito con cura e determinazione per tutta la vita, che guardavi
coi tuoi occhi azzurri.
“Un gruppo, una differenza” intervista a Vladimira Cantoni, a cura
di Stefano Casi in “Teatro dell’obbligo”, Editoriale Mongolfiera
Teatro, 1989.
teatridellediversità
29
Rubriche Personaggi
Impronte dell’anima, Accademia Arte della diversità
DA COMO A BOLZANO
Minotaurus, Accademia Arte della diversità
L’arte della diversità
trova asilo in Alto Adige
Il Teatro La Ribalta, una delle compagnie storiche del teatro per l’infanzia e la gioventù,
da otto anni lavora a Bolzano, dove coproduce spettacoli con alcune associazioni e con
Lebenshilfe
Vito Minoia intervista Antonio Viganò
30
mondo, trasfigurazione immaginifica della
realtà, celebrazione della sua complessità,
della sua bellezza e del suo mistero. A
Bolzano, dove lavoro da quasi otto anni,
ho incontrato un nuovo gruppo di attori
e attrici che si è stabilizzato in una forma
di Compagnia teatrale. Questo gruppo di
attori ha avuto la possibilità di misurarsi e
formarsi attraverso l’incontro con grandi
artisti quali sono Julie Stanzak, Michele
Fiocchi, Marta Bevilacqua e Annalisa
Ligato. Abbiamo costruito un progetto
ambizioso: far nascere la prima Compagnia
Professionale in Italia fatta di uomini e
donne, attori e danzatori, che nonostante
la loro condizione “sociale”, nonostante
nessuno ci sia mai riuscito, nonostante le
difficoltà burocratiche e amministrative,
si misurano nel campo del teatro e della
danza attraverso le loro Opere che sono
il loro lavoro quotidiano. Gli attori della
Compagnia sono dei professionisti del
teatro e hanno una coscienza profonda dei
meccanismi della finzione. Ma non solo:
vogliamo gestire in forma completa un
vero e proprio spazio teatrale, un Teatro
Comunale pubblico dove tutte le varie
professioni e mestieri della scena, dal
botteghino alla gestione tecnica, dall’attività
di creazione alla attività di ospitalità, dal
servizio maschere all’ufficio di promozione
artistica, sia gestito completamente e
autonomamente da loro. Credo che ne
abbiano le capacità e, dopo 8 anni di
lavoro, una buona dose di professionalità.
Vogliamo essere un’eccellenza e una
anomalia. Ho sempre diffidato, mi crea una
certa inquietudine la definizione di teatro
& handicap. Come ho sempre diffidato
di analoghe denominazioni, di ciò che sta
dopo la “e” (carcere, tossicodipendenza,
politica, emarginazione, disagio ecc..ecc..)
sopratutto se, come troppo spesso accade,
formulazioni di questo tipo tendono a
fissare i confini di un nuovo genere, di
una tendenza o di una pratica alla moda,
chiudendone le possibilità espressive e
creative anzichè sostenerne e svilupparne
le molteplici problematiche. Già oggi
lavoriamo in collaborazione stretta con le
Istituzioni Culturali del territorio quali il
Festival BolzanoDanza, nostro coproduttore, o il Teatro Stabile di Bolzano,
con i quali interagiamo per progetti creativi
e di ospitalità. Inoltre, con il Comune
di Bolzano e la Provincia Autonoma,
abbiamo realizzato un cartellone teatrale,
oggi al suo quarto anno di attività, che
propone in città e in diversi Comuni un
circuito teatrale denominato ARTE della
DIVERSITA’ - come l’arte racconta la
diversità e come la diversità si fa arte.
Questo ci ha permesso di incontrare ed
ospitare i Condoco dance di Londra,
Emma Dante, Pippo Delbono, Federica
Fracassi, Theater Mezzanin, il Teatro delle
Albe, Saverio La Ruina, Ascanio Celestini,
e tanti altri artisti che si interrogano e ci
interrogano sul tema della “diversità”,
declinandola in tanti modi e in tanti
mondi possibili. Lavoriamo non per
rendere tutti normali, uguali, identici,
ma per moltiplicare tutte le diversità.
(pierotauro)
G
li spettacoli “Excusez-le ou il vestito
più bello” o “Personnages” che
hai relizzato per la Compagnie
de l’Oiseau-Mouche sono memorabili.
A distanza di anni quelle opere e quegli
attori che comunicavano emozioni con
tanta semplicità sono ancora vivi nella
memoria degli spettatori e testimoniano
l’esplorazione della nostra umanità. Oggi
la tua ricerca si rinnova nell’esperienza
della “Accademia Arte della Diversità”.
Ci puoi raccontare il progetto che negli
ultimi anni stai sviluppando a Bolzano?
Il lavoro con gli Oiseau Mouche, otto anni
intensi, hanno lasciato un segno importante
dentro di me ma credo anche nel panorama
teatrale italiano. Per la prima volta una
Compagnia professionale, costituita da
uomini e donne con Handicap Mentale,
rompeva e travolgeva la consuetudine che
negava la possibilità ad una “diversità”
di farsi Arte. Sino ad allora, almeno nel
teatro, quel lavoro era rinchiuso nei recinti
della “socializzazione”, del laboratorio
pedagogico o terapeutico. Quella
Compagnia “diversa” rivendicava la sua
“normalità” di essere solo, davanti a tutto e
tutti, un progetto artistico e si assumeva fino
in fondo questa responsabilità. Chiedeva
un nuovo sguardo, chiedeva che la loro
condizione “sociale” venisse dimenticata per
diventare solo comunicazione. Gli Oiseau
Mouche erano e sono rimasti speciali,
non solo perchè ci hanno emozionato,
ma perchè è teatro di poesia, metafora del
Alla tua più recente ricerca sono
ascrivibili due opere di straordinario
interesse: “Impronte dell’anima” e
“Minotaurus”. Nel primo ti sei occupato
di eugenetica ed eutanasia, parole entrate
in modo irruento nel dibattito scientifico.
Cito testualmente dalla presentazione
dello spettacolo: “Il corpo umano non
appartiene più a chi lo abita e lo vive,
nelle infinite sue possibilità, ma allo
Stato, nel culto della salute collettiva e
nel sacrificio dell’individuo… In pieno
darwinismo e determinismo biologico,
con la complicità della scienza, si
uccide qualsiasi diversità perché sono
vite non degne di essere vissute”. Come
avete affrontato teatralmente queste
argomentazioni?
Avevo voglia e interesse ad affrontare il
tema dell’eugenetica: lo trovo un tema di
strettissima attualità, per le varie
implicazioni scientifiche, per le nuove
scoperte intorno al genoma umano e a
tutte le implicazioni etiche e sociali che
queste comportano. Mi sono chiesto se
tra qualche anno nasceranno ancora uomini
e donne con la sindrome di Down e,
spostando la linea del controllo delle nascite
molto in avanti, se esisteranno ancora
corpi non conformi, ritenuti imperfetti,
costosi, non più corrispondenti a dei
parametri culturali. Su questi temi, difficili
e dolorosi, abbiamo interrogato i nostri
attori e i loro genitori. Inoltre abbiamo
costituito un comitato scientifico con
psicologi, psichiatri e operatori culturali.
Poi c’è stato l’incontro con Giovanni De
Martis che aveva già lavorato con Marco
Paolini sul tema. Da una sua sceneggiatura
è nato questo nuovo spettacolo - racconto
chiamato “Impronte dell’Anima”. Gli
interpreti di questo spettacolo sono
proprio le persone che ne potevano essere
le vittime. Ma grazie a Dio, il progetto
di eugenetica nazista, condiviso da tutta
la psichiatria tedesca dell’epoca, è stato
interrotto dopo aver lasciato sul campo
di morte più di 300.000 vite umane
ritenute “non degne di essere vissute”. E’
un opera teatrale che mi piace molto, che
mi sorprende ed emoziona ogni volta. C’è
uno spazio scenico molto intimo, per soli 80
spettatori, senza protezioni scenotecniche
e scenografiche, e gli attori recitano a
strettissimo contatto con il pubblico. Lo
spazio scenico è elemento drammaturgico.
Il “Minotauro”, invece, prende spunto
dall’opera omonima di Dürrenmatt e si
cimenta con una definizione che illumina
la rappresentazione: “ L’Alterità nasce
ogni volta che l’uomo, incontrando se
stesso, non si riconosce”. Quale “filo di
Arianna” vi ha permesso di compiere
tale esplorazione? Durrenmatt è stato un
pretesto, una suggestione da cui partire.
Il tema del Minotauro è un archetipo
della diversità, dell’alterità. Il Minotauro
immaginato da Dürrenmatt che lo va a
trovare dentro il labirinto nei primi giorni
della sua prigionia è una grande suggestione
narrativa alla quale abbiamo aggiunto le
poesie di Borges sul tema del labirinto.
A questa situazione già drammatica,
Dürrenmatt aggiunge un altro elemento
inquietante; le pareti del labirinto sono
specchi in cui il “mostro” si riflette in
continuazione. E’ specchiandosi ogni
giorno che il “mostro” acquisisce coscienza
personale e sociale. Arriva a pensare a sé
come individuo dotato di autostima e in
grado di avere relazioni di affetto. Dentro
questo “labirinto” di relazioni con l’altro
se stesso, si sprigiona l’impossibilità della
comunicazione con gli altri. Il mitico filo
che finirà per collegare il Minotauro con
Arianna è la danzatrice Alexandra Hofer,
mentre a dare corpo ai due personaggi
mitologici sono Manuela Falser e Mattia
Peretto della Südtiroler Lebenshilfe. Nel
2012 abbiamo vinto il Premio My Dream
e questo ci ha permesso di far conoscere
il lavoro anche in Italia.
Come per il Minotauro la collaborazione
con la coreografa Julie Stanzak è
rinnovata anche per il nuovo spettacolo
“Il suono della caduta”, che ho avuto il
privilegio di osservare in prova generale
al Teatro di Gries, solo pochi giorni
prima del suo esordio nell’ambito del
programma di “Bolzano Danza 2013” il
teatridellediversità
31
25 luglio scorso. Il tema dell’angelo è ricorrente sia nella tua
ricerca che in quella di Julie Stanzak. “Gli angeli superano
la forza di gravità, volano, ma ad un certo punto alcuni di
loro decidono di rinunciare alla loro eternità, cadono a terra,
perdono le ali”. Una esplorazione sul valore della vita e dei
veri sentimenti, al di là di commiserazione e pietismo? La
collaborazione con la danzatrice e coreografa Julie Anne Stanzak
risale oramai al 1993. E’ un sodalizio artistico importante
che ha lasciato un segno evidente in tutte le nostre creazioni,
dagli Oiseau Mouche alle creazioni del Teatro la Ribalta. Julie
ha accettato il mio invito di passare il suo tempo disponibile,
quando non è impegnata con il TanzTheater di Wuppertal, qui
a Bolzano per essere la nostra Docente e la nostra coreografa.
La collaborazione con il Festival BolzanoDanza ci ha aiutato
a costruire una sua residenza artistica quì in città. Abbiamo
iniziato con lo spettacolo “Minotauro” dove Julie Stanzak ci ha
insegnato che il gesto, il movimento, vive e nasce dentro una
necessità interiore, nel racconto personale. Abbiamo imparato
che non è importante come si danza, ma il perchè si danza.
Abbiamo dato forma alla danza di Mattia e di Emanuela,
nostri interpreti “diversi” che mai nessuno avrebbe pensato o
immaginato di vedere così. Abbiamo trovato chi ci ha accolto in
Festival in Italia e all’estero, abbiamo ricevuto dei Premi, visitato
tanti teatri, provato e riprovato le coreografie, cercato sensi
nel processo drammaturgico. Come una qualsiasi Compagnia
teatrale, come tante altre Compagnie teatrali, ma diversi. Una
diversità che non è negli interpreti dello spettacolo ma nella
cultura teatrale che cerchiamo di percorrere, cercando nei
luoghi del disagio, dell’alterità, vite e storie che appartengono
all’umano e non al diverso. Volevamo avere una nuova possibilità:
volevamo mettere a frutto questo percorso e confrontarci con un
nuovo tema: l’incontro con l’Angelo. Se è vero che “gli angeli
intuiscono ciò che gli uomini chiamano i ‘sentimenti’, ma a
rigore non possono viverli. Sono profondamente ‘amorevoli’
i nostri angeli, sono buoni e non è dato loro modo di essere
altrimenti, perché non possono neanche concepire l’alterità: la
paura, ad esempio, o la gelosia, l’invidia, né l’odio. Conoscono
i modi con cui vengono espressi, ma non i sentimenti stessi.”
(Spagnoletti - Töteberg, 1989 ). Questo tema ci appassiona e
ci consente di interrogarci sul valore della “vita”, quella che ha
il peso della gravità, del dolore fisico, della ferita che sanguina,
della caducità e dell’amore. Quella che si può trasformare, quella
che sogni ma non puoi realizzare, quella dell’ingiustizia e della
mano del giudice. Abbiamo lavorato intorno a delle suggestioni
letterarie: da Rilke con le Elegie Duinesi a Peter Handke
e intorno ad un racconto di Marquez dal titolo “un uomo
molto vecchio con due grandi ali”. Gli Angeli , caduti sulla
terra, scoprono la forza di gravità, che li schiaccia a terra. Sono
Handicappati questi Angeli terreni. Scopriranno il sapore della
ferita, del sangue che esce dal taglio. Scopriranno la forza del
desiderio che non da pace, impareranno ad addormentarsi
nel letto d’inverso, a ripararsi dalla pioggia. Cadere è vivere.
(pierotauro)
Minotaurus, Accademia Arte della diversità
32
Leggiamo tra le righe di presentazione del Teatro La Ribalta
che ha operato “per una contaminazione tra generi” e per
lo sviluppo di nuove pratiche, dando impulso e spessore
artistico ai progetti nei cosiddetti “luoghi del disagio”.
In passato hai lavorato in Francia (ricordiamo la lunga
collaborazione con il Theatre Le Grand Bleu di Lille). Oggi
le tue opere sono riallestite a Bolzano, coinvolgendo molti
estimatori anche di lingua tedesca, e in Svizzera. In linea con
alcune tue considerazioni, che condividiamo, quanto pensi
che in Europa sia progredita una cultura scenica che punta
“all’espansione di una diversità – quella dello stesso teatro –
verso altre diversità etniche o sociali o culturali che siano”?
Non mi sono mai posto il problema di contaminare generi:
credo che oggi nelle mie regie ci sia una forma poetica e scenica
riconoscibile, che mi appartiene. Quando incontro l’alterità, la
diversità, il disagio, lo faccio dentro una ricerca artistica, come
necessità di far incontrare al teatro delle vite “vere”, dei mondi
e delle forme possibili. Lontano da qualsiasi forma terapeutica
perchè questa è costretta a fermarsi sulla soglia di un mistero
che appartiene all’inesplicabilità dell’arte. Il teatro, sempre più
spesso, in Italia e in Europa, prova ad interrogare se stesso, la
sua funzione, andando incontro a territori nuovi e inesplorati,
come lo sono quelli delle alterità. Ma è nel lavoro dell’attore,
nella presenza in scena di attori segnati da conflitti - statuti
sociali - drammi corporei e mentali, nello scarto di energia che
solo loro possono produrre sulla scena, che arricchiscono il
teatro, luogo di inclusione sociale per eccellenza. C’è un livello
in più di organicità, di sintesi tra biologia e cultura in scena.
Sono corpi-ambienti, corpi-mondo, che fanno germogliare
nuove pratiche e nuovi territori.
Abstract
V
ito Minoia interviews Antonio Viganò, who founded, together with Daniele
Fiocchi, the Teatro La Ribalta, one of the main Italian historic company of
theatre for childhood and young audience. Viganò moved to Bolzano eight
years ago, where he coproduces shows in collaboration with several associations
as Lebenshilfe. Thanks to the cooperation with a new group of actors and
actresses that formed a theatre Company, an ambitious project was created,
with the aim to give birth to the first Italian Professional Company made up of
men and women, actors and dancers who, in spite of their “social” condition
and the bureaucratic and administrative problems, put themselves to the test
in theater and dance, through the realization of proper Operas, that belong to
their daily work. This diversity is not represented by the performers, but by the
theatre culture that we are trying to go through, looking for lives and stories
about humanity -and not diversity-, inside the places of discomfort and otherness.
teatridellediversità
33
Rubriche Il teatro in fabbrica
A FAENZA
L’OMSA, IL LAVORO, IL MONDO
Spettacoli, anche in strada e nelle case. Video, concerti e laboratori. Ecco le molte azioni
del Teatro Due Mondi di Faenza a sostegno di una lotta
Michele Pascarella intervista il regista Alberto Grilli
È una modalità abbastanza inusuale ai
nostri giorni (anche se non lo è certo
nella storia del teatro!), che mira a dare
la possibilità di comunicare attraverso
l’arte e la valorizzazione delle storie
personali e collettive. In seguito è nato
anche un progetto di “teatro nelle case”,
in collaborazione con Stefano Vercelli, e il
video Licenziata!, che ha avuto una vasta
diffusione nazionale: le Brigate teatrali,
queste donne e uomini vestiti di rosso, sono
diventate oggetto di grande attenzione da
parte dei media (televisione, giornali, …),
il che ha permesso che la lotta avesse più
forza. Il progetto Al lavoro! del settembre
2010 comprendeva, tra le altre cose, un
grande concerto di Giovanna Marini
assieme al Coro e alla Banda della Scuola
Popolare di musica di Testaccio. Questi
artisti hanno generosamente rinunciato
al loro cachet per permetterci, con quei
soldi, di acquistare le divise dei “brigatisti”.
C
ome si inseriscono questi progetti
all’interno della vostra storia?
Da quando esistiamo, cioè da più
di trent’anni, abbiamo cercato di stare
costantemente in relazione con il territorio
in cui abitiamo: la città di Faenza. I nostri
spettacoli sono da sempre politici, nel
senso che manifestano il nostro sguardo
sul mondo, e cercano di stimolare le
persone a riflettere su ciò che accade,
combattendo la passività e l’assuefazione.
Quale vicenda ha dato origine alle
iniziative legate all’OMSA?
Nel 2010 lo stabilimento OMSA di Faenza
è stato chiuso, per motivi “commerciali” di
delocalizzazione in Serbia (e non a causa
della crisi…). Si trattava di un’esperienza
attiva da settant’anni, e la sua fine ha
provocato la forte reazione di un gruppo di
operaie. Ciò ha stimolato la nostra voglia
di partecipare attivamente alla loro lotta:
così è nato il progetto Al lavoro!, nel quale
abbiamo coinvolto il gruppo francese
Théâtre de l’Unité. La loro è una realtà
che sentiamo piuttosto affine alla nostra:
34
sono esperti di lavoro con non-attori (in
questa occasione hanno condotto un
laboratorio teatrale con le ex-operaie) e
di teatro di strada, componente essenziale
anche della nostra vita artistica.
Così sono nate le Brigate teatrali
OMSA…
Sì. È un teatro propriamente “di strada”,
che vuole lavorare con non-attori, abitando
luoghi non teatrali: fuori da qualsiasi
protezione scendere nelle piazze, cercando
forme molto simili alla manifestazione, alla
protesta sindacale. Oltre alle operaie, le
Brigate teatrali hanno raccolto l’adesione
di molti “volontari della cultura” di diversa
età ed estrazione: non direttamente
coinvolti nella vicenda OMSA, hanno
comunque deciso di offrire il loro tempo e
il loro corpo a questo progetto. Abbiamo
tentato, con l’aiuto del Théâtre de
l’Unité, di dare uno strumento nuovo a
un gruppo di persone che non si occupa
professionalmente di teatro, cercando
di far sì che la rivendicazione sindacale
e la lotta trovassero una forma poetica.
Come siete arrivati, in seguito, allo
spettacolo Lavoravo all’OMSA?
Nel 2012 abbiamo deciso di far convergere
alcuni elementi caratterizzanti il progetto
delle Brigate teatrali con un nostro
spettacolo di qualche anno prima:
Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt
Brecht. In Lavoravo all’OMSA una
ex-operaia si è mescolata agli attori del
nostro gruppo. È una produzione che,
seppur di impianto teatrale, vuole essere
rappresentata soprattutto fuori dagli spazi
tradizionalmente dedicati allo spettacolo:
circoli, associazioni, spazi auto-gestiti.
Oltre alla protesta per la chiusura
dello stabilimento faentino, quale
filo conduttore unisce queste diverse
“manifestazioni”?
Certamente la volontà di diminuire la
distanza fra il mondo dell’arte (e più in
generale della cultura) e il mondo reale.
Scendere in strada, andare nelle case, cercare
il pubblico: lavorare coinvolgendo non solo
i non-attori, ma anche il non-pubblico.
All’inizio del secolo scorso, all’epoca dei
grandi riformatori del Novecento e della
rivoluzione in Unione Sovietica, le classi operaie e gli studenti erano integrati attivamente nei processi culturali, mentre oggi
c’è una distanza enorme fra chi lavora in una fabbrica e chi si occupa di cultura o di arte. Questo progetto è dunque un piccolo
(ma concreto) tentativo di riallacciare alcuni fili fra persone che, pur occupandosi di cose diverse, sentono la stessa urgenza di
reagire alle ingiustizie del mondo. Attraverso il teatro trovare un linguaggio che permetta di riavvicinarsi: ciò accomuna queste
diverse forme.
Qual è il senso propriamente politico di progetti come questi?
I veri destinatari del lavoro sono coloro che subiscono le ingiustizie, affinché ne prendano coscienza. Ogni eventuale cambiamento
non può che partire dalla base, anche attraverso la prima azione politica: il voto. Secondo me è importante che questo tipo di
esperienze rimanga una “diversità”, qualcosa di non precisamente catalogabile, inquadrabile o omologabile. In questo senso mi
fa particolarmente piacere l’interesse della vostra rivista.
Brigate teatrali OMSA, Teatro Due Mondi
Abstract
T
eatro Due Mondi was founded in 1979. Since then, the group has
been trying to stay connected to its own territory: the city of Faenza. In 2010, Faenza’s OMSA factory was closed and relocated to
Serbia (for business reasons, not because of the crisis...). This caused
strong reactions from workers groups, which led Teatro Due Mondi to
actively participate in their struggle: thus, workshops were born, along
with shows, videos and concerts. OMSA theatrical Brigades is a sort
of street theater, which works with non-actors in non-theatrical places.
I used to work in OMSA, is a show where a former workers are mixed
with Teatro Due Mondi’s actors. All this serves to decrease the distance between the world of art and the real world by means of theatre.
teatridellediversità
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Rubriche A napoli dagli anni Ottanta
A
NUOVE DRAMMATURGIE
ncora la parola. Soprattutto la parola. Enzo Moscato
è tra i drammaturghi napoletani degli anni ottanta
quello che più scandaglia il linguaggio drammaturgico
nelle sue più remote possibilità, nella sua variabilità, nei
multiformi registri dei codici linguistici. Se la parola,
come abbiamo visto in precedenza, aveva perso la sua
capacità di dire, di raccontare e di costruire logicamente
e canonicamente la storia, Moscato non chiude gli occhi
di fronte a tale mutilazione, anzi ne fissa la malattia. Non
cura la parola ormai cancerosa ma la seziona, la indaga nel
suono per scoprire cos’altro può. Tutta la sua produzione
drammaturgica è un viaggio sonoro dove emerge la
frammentazione del dire, l’impossibilità di concludere, di
afferrare una certezza, una stabilità. Il linguaggio decostruisce
se stesso, la comunicazione cerca altre modalità per esprimersi,
le forme classiche del teatro eduardiano franano, non ci
sono atti, scene, intrecci, personaggi.
Moscato stesso afferma: “Io credo che per me il modo sia
quello di scrivere in frammenti e anche in teatro io non
scrivo storie ma esplosioni di storie. Credo che sia il riflesso
dell’esterno della vita che viviamo e anche della nostra
interiorità odierna. È difficile oggi trovarsi di fronte ad
una storia, è tutto molto frammentario, noi stessi siamo
ridotti a frammenti”.
Enzo Moscato:
l’esplosione della
lingua-corpo
Dopo Annibale Ruccello e Manlio Santanelli ci occupiamo di un’altra primaria figura della
storia della drammaturgia napoletana degli ultimi trent’anni
Enzo Moscato
36
(Foto PPalmieri)
Come arrivare a ciò? Moscato ha vissuto la sua infanzia nei
Quartieri Spagnoli, in quei vicoli che le guide sconsigliano,
in quel dedalo di ciottoli dove la pluralità delle strade in
salita e in discesa non permette alcuna stabilità, dove la
vita è portata all’eccesso, dove la comunicazione è affidata
alla fantasia dell’urlo, al suono più che alla riconoscibilità
di una parola significante. Ed è qui, insieme agli studi e
all’insegnamento della filosofia, che Moscato incontra
Antonin Artaud. È in questi vicoli, prima ancora che nelle
teorie e nelle pratiche del teatro, che Moscato coglie le
potenzialità sonore della parola e la crudeltà come rigore.
Più degli altri drammaturghi degli anni Ottanta, Moscato
riesce pienamente a risolvere una problematica linguistica
che ogni scrittore napoletano si trova a combattere: come
relazionarsi al dialetto e all’italiano?
In Moscato l’uno e il molteplice non sono in conflitto,
l’uno non esclude l’altro anzi, si realizza perfettamente
quello che Artaud scriveva nel suo Eliogabalo, o l’anarchico
incoronato: esiste il molteplice-uno e/o l’uno-molteplice.
Nei testi di Moscato le parole, qualunque esse siano,
italiane, francesi, tedesche, greche, inglesi, napoletane
sono prima ancora che portatrici di significato logico,
esistono nel singolo suono e nel richiamo ad altre lingue.
Lo percepiamo in tutti i suoi testi, da lui stesso declamati,
aspetto non trascurabile perché quelle parole hanno senso
solo se soffiate dall’autore stesso, dall’uomo che le ha patite
prima di tutto nel suo corpo. Soltanto così diventano parole
sonore, gesti sonori che comunicano un universo dove non
può più esistere la storia teatrale canonicamente costruita
con personaggi, con scene, azioni, intrecci. Ancor di più
in Toledo suite dove la voce e il suono diventano musica
rendendo il teatro invisibile, presente in altra forma (Artaud
stesso diceva che il teatro non è quello a cui siamo abituati
da secoli ormai, il teatro ha bisogno di scoprire la sua
lingua), le note e la voce entrano in simbiosi, un’unione
di malinconia e sconfitta, di solitudine disperata e solare
al tempo stesso. I suoni sono mediterranei, le melodie
consegnano all’orecchio un sole opaco, il calore, la folla
dei Quartieri Spagnoli. Un racconto in musica, un quadro
in movimento in cui i personaggi, le storie si fanno carne
nelle note, nelle melodie. A vico Lungo Gelso, Enzo
Moscato scova una puttana e con essa la vita brulicante
di esclusi, di disperati che bruciano nella furia passionale.
Nel caseggiato della puttana la musica invade le stanze,
le orge, le ore d’amore nel calore, distrae, accompagna,
svela segreti, getta via le maschere. Nel teatro-canzone di
Moscato la musica e il racconto si inseguono, si alternano
in una babele di vicende fino a confondersi in una matassa
di frammenti, così come sono i Quartieri Spagnoli: una
matassa di frammenti ottusi, slegati, quasi come se ognuno
fosse una cella all’interno di una cella.
Sono storie di delusioni, di verginità rapite, di innocenze
violate di fronte alle quali la voce non può essere più una
calma e docile mano che accarezza ma un’inafferrabile
disperazione bagnata di sole e sorrisi. La voce e la musica
confondono le lingue: il francese, il tedesco, l’inglese,
lo spagnolo sono declamati come fossero distorsioni del
napoletano perché il suono di una voce roca e fragile è
cieco. Allora prende corpo un lungo flusso sonoro in cui
bisogna afferrare quello che è sotto la scorza della parola
logica e annusarne la consistenza impalpabile: il suono,
che è già crudeltà come voleva Artaud, come vogliono
i vicoli dei Quartieri Spagnoli; strappando al teatro i
suoi soliti riferimenti, togliendo tutto per smarrire, tutto
tranne la voce, il suono che non ha grammatiche stabilite
da seguire, che non ha traduzioni universali ma la sola
illusione individuale.
Ma la parola drammaturgica di Moscato scardina ovviamente
anche l’essenza canonica della struttura di un dramma.
In Pièce Noire non ci sono psicologie ma conseguenze di
un dramma sepolto, il nero napoletano seppellito dalle
innumerevoli immagini da cartolina del Vesuvio, del mare,
della pizza e del mandolino, emerge in tutta la sua forza
dirompente. Colpiscono le urla, il dolore, l’ironia, la volgarità,
la bassezza, la commozione portate in scena non seguendo
una vicenda di intrecci razionali ma vibrando di pulsioni
invisibili. Il realismo si camuffa da incubo, la quotidianità
diventa sogno e rito. Dopo Eduardo la drammaturgia
napoletana si è immersa nell’interiorità profonda di un io
ferito, altro da sé, oscuro e irrappresentabile.
Moscato allora dà corpo attraverso la voce e il suono al
malessere e alla malattia del suo tempo, diversamente da
Ruccello e Santanelli, inserendosi nel filone europeo di
personalità quali il già citato Artaud, Lacan, Genet, Pinter,
confondendoli perfettamente al suo tempo e al suo luogo
fino a creare un soffio estremo, individualmente collettivo,
dove l’uomo è uno specchio in frantumi che non riflette
più alcuna immagine ma solo l’eco di un sogno perduto.
Per concludere con le parole di Moscato: “Insomma, se è
vero che la Lingua può coincidere (essere) talvolta col suo
veicolo principe, la Voce, e avere con essa intime/carnali
adesioni, è altrettanto vero che basta un semplice connubio,
una liaison, una de-enfatizzazione degli accenti, che ci
imbattiamo subito nell’Ombra, nel perfetto Negativo e
allora la stessa Voce, da squillo, allarme, richiamo, può
farsi silenzio, mera materia afasica o assoluto gesto,
assoluta “azione che dice” non parlando. In ogni caso, è
in bocca, come si vede, “in ore”, che il teatro si fa, più
che in ogni altro posto, anche se si è muti o si decide
di non dare alla Lingua, alle labbra, nemmeno il più
piccolo appiglio di darsi ali per voce, di voc’ali’zzarsi”.
teatridellediversità
37
COMINCIAMO A SCRIVERE
UNA STORIA NUOVA
Con Judith Malina alla Giudecca un evento indimenticabile attorno alla tragedia di
Antigone ed alla dignità delle persone con i loro bisogni fondamentali
Tra metafora e farsa, Pedullà, Rotelli e Caccavo si richiamano a Beckett, Pinter, Eduardo,
affidandosi ad un’ampia liberta di improvvisazione degli interpreti
di Giuseppe Lipani
di Emanuela Agostini
I
tempo sembra essersi fermato: le situazioni si ripetono, impossibile
immaginare un oltre. Ma non è ancora detta l’ultima parola.
Il bar verrà forse venduto, Vincenzo finirà forse per sistemarsi
con un suo “non-amore” di gioventù da cui ha scoperto d’aver
avuto un figlioletto non proprio adorabile. Il padre e il figlio si
riconcilieranno. Persino Giuseppe toglierà gli occhiali scuri e si
alzerà in piedi. Valigia alla mano, Vincenzo è pronto ad affrontare
l’avvenire. Al Bar Bellavista, come nella vita, malinconia e risate
si susseguono e si compenetrano. Scandito dalla musica dal vivo
di Marco Magistrali, da citazioni di Samuel Beckett a quelle di
Harold Pinter, da Eduardo de Filippo fino a un’appassionata
interpretazione di Maruzzella (che ha «dint’all’uocchie ‘o mare»),
lo spettacolo avvicenda episodi giocati sul valore metaforico ad
altri che sfiorano la farsa. Bene hanno fatto i registi nell’affidare
agli interpreti ampia libertà di improvvisazione: la scelta di
“cucire” i personaggi attorno alle qualità e alle abilità degli attori
fa sì che tutti risultino convincenti e perfettamente a loro agio.
Niente è concesso da parte degli organizzatori dell’evento e dei
registi all’involontaria spettacolarizzazione della condizione
carceraria: la realizzazione di uno spettacolo alla presenza di un
pubblico esterno, essenziale banco di prova per i suoi artefici, non
è un’esibizione, ma l’occasione di una più profonda condivisione.
Nel corso dello spettacolo si è quasi indotti a dimenticare il
luogo in cui è allestito. Non bisogna essere carcerati per aver
sperimentato l’impasse, per desiderare una novità, per sperare
nel cambiamento. Ma è certo che la consapevolezza della propria
condizione carica l’interpretazione degli attori di un’inconsueta
intensità. Per loro questo spettacolo è occasione di riscatto e di
rinnovamento, ed è per questo che al termine degli applausi
insistono nell’esternare la loro gratitudine nei confronti di chi,
accompagnandoli lungo il percorso, ha avuto fiducia nelle loro
possibilità quando loro per primi non ne avevano. Così come
il mobilio del bar, inesistente e indicato solo dai segni di nastro
adesivo, anche il futuro è, almeno in parte, il frutto di un atto
di fede. Agli attori del Bar Bellavista e a tutti l’augurio di saper
vedere lontano e di poter godere di una “bella vista”.
Bar Bellavista
Spettacolo conclusivo del laboratorio teatrale della Casa circondariale di
Pistoia condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Rotelli e Roberto Caccavo
Musiche dal vivo di Marco Magistrali
Collaborazione di Alice Lou Tanzarella
Il laboratorio, inserito nel Progetto Teatro in Carcere della Regione Toscana,
è stato realizzato dal Teatro Popolare d’Arte con la Direzione della Casa
circondariale di Pistoia.
Hanno collaborato all’iniziativa la Provincia di Pistoia e l’Associazione
teatrale pistoiese (ATP).
Judith Malina
È
(Foto di Andrea Casari)
Rubriche Teatro in carcere
Al Bar Bellavista
come nella vita
l proprietario del Bar Bellavista, Giuseppe, il panorama con
il mare e i gabbiani, non lo può vedere: è cieco. E nemmeno
sembra poter andare lontano: il suo triciclo a rotelle è destinato
a ripercorrere il perimetro del locale senza varcarlo. O forse finge
di non vedere e di non camminare per rimanere nei rassicuranti
confini di una condizione esistenziale che conosce già e nella
quale si è adagiato. Come lui anche Vincenzo, il barista, pur
avendo gambe e occhi buoni non riesce a vedere nessuna ‘bella
vista’. Non sa immaginare per sé né un nuovo orizzonte, né un
futuro diverso. Giuseppe e Vincenzo sono due dei quindici attori
detenuti protagonisti dello spettacolo andato in scena presso
la Casa Circondariale Santa Caterina di Pistoia al termine del
laboratorio tenuto da Gianfranco Pedullà, Francesco Rotelli e
Roberto Caccavo, con la collaborazione di Alice Lou Tanzarella,
per il Progetto Teatro in carcere della Regione Toscana. Lo
spettacolo è allestito, per un pubblico limitato e alla presenza di
numerose autorità, nella rinnovata palestra del carcere. Qui, un
educato cameriere introduce il pubblico in un bar di periferia
animato da un variegato ventaglio di abituali frequentatori: il
proprietario Giuseppe, il barista Vincenzo, un inserviente che
ammazza il tempo pulendo il pavimento, un gruppo d’amici, un
ragazzo che non concede distrazioni alla musica che ascolta in
cuffia, un vigile, un ubriaco. Il Bar Bellavista è il crocevia delle
loro storie: alcune appena accennate e lasciate in sospeso, come
quella del “poeta” silenzioso, altre più approfondite, come quella
di un figlio in fuga dalle sue responsabilità e di un padre che lo
ossessiona con il richiamo ai suoi doveri e al passato. Le vite di
questi e di altri si incrociano per un attimo al Bar Bellavista: si
ordina al bancone, si affidano le proprie confidenze agli altri e poi
si esce gridando “Segna!” per ricordare al barista di tenere i conti
sul suo taccuino. Saranno mai saldati i conti del Bar Bellavista? Il
38
VENEZIA
Rubriche Teatro in carcere
PISTOIA
difficile raccontare un incontro. A volte ci si limita a
riferirne le parole, talora l’ambiente, il contesto, ma ciò
che veramente è passato tra le persone rimane indicibile.
Se poi si incontrano persone come Judith Malina, allora
quello che si può dire è solo il residuo di un’esperienza.
L’11 luglio scorso Judith ha incontrato le allieve-detenute del
laboratorio teatrale organizzato e condotto da Michalis Traitsis di
Balamòs Teatro, nella Casa di reclusione Donna della Giudecca
di Venezia.
È stato un colloquio intenso, di qualche ora, dove, incontrandosi
attorno ad Antigone (su cui le allieve dell’istituto penitenziario
stanno conducendo la loro personale ricerca teatrale), si è discusso
del senso stesso del fare teatro e del farlo in un carcere, e da lì poi
si è giunti a parlare di pena, di giustizia, di mercy and punishment.
Quello che Judith è stata e ha fatto per il teatro è quasi inutile
ripetere. Per questo è sembrato incredibile sentirle dire di essere
venuta per ascoltare dalle ragazze della Giudecca come lavorano,
come creano, cosa pensano del lavoro teatrale. Ed esse hanno
raccontato, liberamente, il loro percorso e i loro punti di vista. Ed
hanno chiesto a loro volta, ponendo talvolta domande semplici
e pesanti: «Cosa vuoi fare tu, facendo teatro?». «Voglio fare la
migliore dichiarazione politica possibile, perché ho urgenza di
dire», ha risposto Judith.
In quel contesto la parola urgenza è svilita. Parlando di carceri,
teatridellediversità
39
Rubriche Teatro in carcere
Rubriche Teatro in carcere
FERRARA
La cultura rende migliori?
Ferrara 5 ottobre 2013
La cultura
rende migliori ?
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Un incontro nell’ambito del programma partecipato del Festival della rivista
Internazionale ha riportato in luce una riflessione mutuata dal New York Times e
approfondita dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere riunitosi nella città estense
di Valeria Ottolenghi
S
(Foto Andrea Casari)
«Non è cambiato niente dagli anni delle tue battaglie ad oggi!»
«No, ti assicuro che è cambiato molto, la stessa idea della
comprensione prima della punizione, oggi è meglio intesa di allora»
«E se si arriva troppo tardi? Se Creonte troppo tardi comprende
di aver sbagliato?»
«Se è troppo tardi per Creonte, non è troppo tardi per me e per
te! Bisogna convincere se stessi della possibilità del cambiamento,
in modo che la storia non sia mai finita. Cosa puoi fare tu, tu
personalmente, per cambiare questa storia?»
Eccola, la rivoluzione! Cambiare la storia, senza aspettare al varco
l’evento universale, il miracolo definitivo, ma cominciando da
qui, da questa nostra storia, senza maiuscole, senza pretese di
cambiare gli altri. Perché convincendo se stessi della possibilità del
cambiamento, si può, anche tra le mura del carcere, cominciare
a scrivere una storia nuova.
Eccolo, il teatro! Una piccola grande rivolta in un luogo di
oppressione, che permette di oltrepassare una linea, un varco,
un muro.
C’è un muro alto nel cortile del carcere, oltre il quale c’è il
mare, sebbene le ragazze non riescano a vederlo, perché il muro
è stupido e immenso. Ma Judith, quel muro, ci ha insegnato ad
abbatterlo col teatro.
È difficile raccontare un incontro: ti sembra che le parole
acquistino una linearità che l’esperienza non ha, ti sembra che
una cosa preziosa, dicendola, diventi normale, che ogni visione
si acquieti in un’unica pacificante prospettiva. E capisci invece
che Judith quel giorno ha ribaltato le prospettive, anche solo
dicendo all’uscita: «Stasera avrò un sacco di cose belle da scrivere
sul mio diario».
(Foto di Marco Valentini)
siamo assuefatti all’idea dell’urgenza. Tutto è urgente. Il
sovraffollamento e la situazione edilizia sono urgenti, la carenza
di personale è urgente, la carenza di fondi è urgente. Si ha quasi
l’impressione che definendo un problema urgente si possa
tranquillamente rinviare la soluzione: è già urgente! In mezzo a
tutte queste urgenze organizzative e burocratiche, va a finire che
ci si scorda delle persone e della loro dignità, delle loro necessità
che non sono definite urgenti da nessun decreto, ma che ci sono.
Quando Judith ha detto che fare teatro è avere urgenza di dire,
ha ribaltato questa vuota parola in un bisogno fondamentale
della persona. E l’ha riempita di senso, non facendo una lezione
dall’alto di uno scranno, che la sua storia personale certamente
merita, ma chiedendo di ascoltare. Perché se hai da dire qualcosa,
è necessario che ci sia qualcuno a cui dirla. Il teatro allora diventa
lo strumento di questa confidenza, perché «il mondo dentro
noi deve essere rilasciato» e il lavoro creativo permette proprio
questo: diventa l’angolo da cui considerare la vita, da cui, oltre
a sentirsi Antigone, si possono considerare anche le ragioni di
Creonte. «Tutti abbiamo un po’ di Creonte dentro, forse non
vogliamo esserlo, ma vogliamo capire».
Sono rimasto stupito dalla capacità di Judith di rilanciare sempre
positivamente ogni momento della discussione, di sapere scovare
motivi di speranza anche laddove qualche allieva ha mostrato
legittimi motivi di sconforto. «Il teatro – ha detto – è un lavoro
di improvement: migliora la situazione personale, migliora l’arte,
migliora chi lavora, migliora chi guarda, migliora la società!».
Se la discussione si è lasciata tentare dal personalistico, lei vi ha
saputo leggere l’universale, quando si è rischiato il generico, lei
vi ha colto il personale. Il dialogo si è fatto serrato:
i apprezza da sempre e moltissimo
il lavoro di Michalis Traitsis, come
artista innanzi tutto, come presenza
registica capace di consegnare competenza
e infondere fiducia in chi lavora con lui,
ma anche per il modo rigoroso, colmo
d’infinite attenzioni, con cui accudisce ogni
cosa, i nodi essenziali, i passaggi principali,
e contemporaneamente tutti i più piccoli
particolari. E l’incontro ideato, promosso
da Michalis a Venezia, presso la casa
circondariale della Giudecca su “Antigone”
con Judith Malina resterà certamente tra i
ricordi più preziosi di questo anno. Tutto
predisposto con intelligenza e amorevole
cura per poi lasciare respiro al dialogo,
perché il contatto potesse avvenire con
tranquillità ed energia. E così era stato.
E anche all’incontro di Ferrara, promosso
nell’ambito del festival “Internazionale”
proprio da Michalis Traitsis, “La cultura
ci rende migliori? - Dialogo sul teatro
in carcere” presso il Centro Teatro
Universitario di Ferrara, è ritornata la
memoria di Judith che si era alzata per
ripetere più volte “It’s not too late, not for
us”, come risposta a una detenuta che, con
tono rassegnato ricordava come l’opera di
Sofocle lasciasse senza respiro: annullata
ogni speranza. Creonte capisce “troppo
tardi”, ormai la tragedia compiuta. Di qui
la reazione - energica, commovente - della
Malina: a questo anche serve il teatro.
Perché possa restare il tempo per cambiare,
scegliere, rendere migliore la convivenza
tra le persone. Sempre e ovunque. Una
tenace, meravigliosa sicurezza.
Non avrebbe avuto dubbi dunque Judith nel
dibattito che si stava aprendo lì a Ferrara,
guidato da Peter Kammerer dell’Università
di Urbino. Ma s’immagina che avrebbe
anche chiesto: “quale cultura?” e “migliori
rispetto a cosa?”. Senza incertezze - It’s not
too late! - sul fatto che la consapevolezza,
l’esperienza di più vite sulla scena, il mettere
in gioco il pensiero e il corpo all’interno di
un gruppo facciano stare maglio, aprano
la mente, rendano più ricca, piena la vita.
Il confronto a più voci, con l’intervento
vivace di più persone, si è dimostrato
denso di questioni vere, sincere, vissute,
assolutamente prive di retorica, rivelando
anche una sorta di continuità problematicodiscorsiva con l’incontro del mattino: perché
in quella stessa sede si era svolta, assai
proficua e in un bel clima collaborativo,
l’ a s s e m b l e a d e l C o o rd i n a m e n t o
teatridellediversità
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42
Carcere. Un passa parola fresco, ricco
di idee, solidale, con la soddisfazione di
vedere crescere, forse anche a seguito della
firma del Protocollo, il numero degli iscritti
(attualmente partecipano al Coordinamento
oltre quaranta realtà teatrali): più chiara la
consapevolezza, in questi tempi davvero
difficili, di potersi sentire un poco più
forti tra tante esperienze parallele, capaci
anche di creare sinergia. E già in quella
sede, durante il Coordinamento, guidato
da Vito Minoia, segretario David Aguzzi,
erano nati interrogativi legati al valore della
cultura, stimoli essenziali che sono tornati
anche negli interventi successivi: tutto il
teatro in carcere “va bene”? Nello spazio
teatrale dell’università - che ospitava anche
la bella mostra fotografica “Scatti sospesi
2012/ 2013” di Andrea Casari, dedicata
al progetto teatrale “Passi Sospesi” di
Michalis Traitsis negli Istituti Penitenziari
di Venezia - dopo i saluti di Daniele
Seragnoli, professore di Storia del Teatro
e dello Spettacolo a Ferrara e direttore del
CTU, e del vicesindaco Massimo Maisto
- si è motivato quel titolo che inizialmente
poteva forse sembrare un po’ retorico.
Sul New York Times era uscito un ampio
articolo che così domandava: “Does Great
Literature Make Us Better?” by Gregory
Currie che, tra dubbi e nuovi interrogativi,
riprendendo anche altri studi, sottolineava
come la letteratura di reale qualità “deals
in complexity....Literature helps us, to be,
or to come closer to being, moral ‘expert’”.
Una maggiore sensibilità verso gli altri,
una più intensa empatia. Non solo: la
letteratura “can make moral expert of us”.
Purtroppo la Storia ci ha insegnato che la
cultura non è argine assoluto al male, e
che sono state spesso persone “per bene”,
con alti titoli di studio, a denunciare nella
Germania nazista vicini di casa, colleghi
ebrei. Tuttavia... Forse davvero bisogna
scegliere quale cultura, quale letteratura,
quale teatro... La domanda del mattino
rimbalzava così anche nel pomeriggio,
nel dibattito più teorico. Come spesso
accade, dopo la lettura di quell’articolo,
sensibilizzati al tema, ci si è accorti che
negli Stati Uniti si sta avvertendo quasi
una sorta di urgenza sulla questione,
anche perché attraversa tutto il percorso
formativo, comprese le università. Altri
(Foto Andrea Casari)
Nazionale Teatro in Carcere. Importanti
le comunicazioni di Giovanni Tamburino
massimo referente del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria e di
Massimo De Pascalis, direttore dell’Istituto
Superiore di Studi Penitenziari. Si è
sottolineato il valore del Protocollo d’Intesa
stipulato il 18 settembre tra il DAP, l’ISSP
e il Coordinamento Nazionale Teatro in
Carcere. Tra le commissioni attive quella
legata alla formazione, anche per il personale
penitenziario.Una speciale emozione
la realizzazione del primo teatro creato
appositamente all’interno di un carcere:
al Marassi di Genova, da parte di Teatro
Necessario Onlus, uno spazio flessibile
dove saranno ospitati spettacoli seguiti
insieme da un pubblico misto di cittadini,
chi abita all’interno, chi viene da fuori.
Un teatro atto a favorire la convivenza
offrendo insieme cultura e divertimento.
E proprio lì potrà svolgersi - questa la
speranza concreta - il festival “Destini
incrociati” del 2015. Per il 2014 invece si sta
pensando ad una iniziativa di Formazione
da organizzare in Toscana, lanciando l’idea
di una Giornata Nazionale del Teatro in
(Foto Andrea Casari)
Peter Kammerer
silenzio di dolore. “Tutto lo spettacolo
è rappresentato in queste tavole”, scrive
l’autrice, che ringrazia i suoi professori,
Stelio Fenzo per il fumetto e Michalis
Traitsis per il teatro e chi ha permesso
l’organizzazione di questi corsi. Urgente
la necessità di immortalare tale vertiginosa
esperienza, non con la macchina da presa
o fotografica, “ma con l’anima attraverso
la punta di una matita direttamente dal
cuore”.
Sono ancora parole di Luminita Gheorghisor
a dare la risposta esatta alla questione che
aveva suscitato quel dibattito così acceso
e denso a Ferrara: “Il teatro che si fa in
carcere è una sorta di porta. Se la varchi
entri dentro di te, ti conosci meglio, fai delle
scoperte, lasci indietro tutto l’oscuro della
vita del carcere e ti immergi in te stesso. Ti
nutri delle cose belle che giacciono dentro
di te e non sai della loro esistenza”
E dello stesso spirito di questo racconto
per disegni - della tragedia, dell’esperienza
teatrale - si è rivelato poi il video, dalle
immagini come sempre limpide, essenziali,
una delicatezza di superficie che arriva
meravigliosamente in profondità, di Marco
Valentini, con Venezia, le sue carceri e il
lavoro di Michalis Traitsis.
Le foto di Andrea Casari
“Forse non è semplice fare foto vive, d’anima.
Sicuramente non lo è in carcere. Ci vuole
attenzione, discrezione, delicatezza, umiltà per
cogliere un processo nel suo snodarsi verso un
risultato di trasformazione, per fermare il
momento esatto in cui nasce un’immagine, per
trattenere l’esitazione dell’emozione, per offrire
agli altrui occhi le rughe di dolore e, insieme, di
impegno, di pienezza durante un’improvvisazione.
Ci vuole pazienza per attendere che lo spazio
si riempia di quell’impalpabile potenza che in
teatro viene definita Presenza. E sottende
l’essere pienamente dentro quello che si fa. Ci
vuole esperienza per trasformare, attraverso
le foto, un luogo e fare apparire altre realtà. In
scatti che testimoniano il porre e porsi sempre
domande” (Michalis Traitsis)
Rubriche Teatro in carcere
articoli erano usciti sul New Yorker. E nel
primo numero dell’Internazionale dopo gli
intensi giorni di festa a Ferrara si legge di
una ricerca svolta da Science che dimostra
come la letteratura possa aiutare a sviluppare
alcune abilità sociali: “limitarne lo studio a
scuola potrebbe quindi avere conseguenze
negative, per lo sviluppo dell’individuo e il
suo inserimento nella società”. Per il teatro
sarebbe ancora più vero coinvolgendo la
persona nella sua totalità, mente e corpo,
e in continue relazioni di accordo con il
gruppo. Limpido, intenso, l’intervento di
Ornella Favero, direttore responsabile di
Ristretti Orizzonti, rivista realizzata da
detenute, detenuti e volontari nella Casa
di Reclusione di Padova e nell’Istituto
Penale Femminile della Giudecca, che ha
ricordato - e così anche altri - come non
ci si debba basare sulle statistiche per avere
la certezza di alcune conquiste, perché
poi è il mondo “fuori” impreparato ad
offrire nuove opportunità. Vito Minoia
ha portato l’esempio del libro “Il fantasma
col passamontagna” di Massimo Balsamo
nell’Istituto di Custodia Attenuata di
Eboli. Una conquista d’identità. Ma dopo?
Quali le prospettive? Tutti comunque in
quella sede ben sapevano dell’ossigeno
che arriva in carcere con il teatro. Come
per la letteratura - e molto di più essendo
attività coinvolgente in forma plurale - aiuta
a meglio comprendere gli altri, a leggere
dentro se stessi, a favorire le “abilità sociali”.
E se si fosse voluto un esempio era sufficiente
leggere, sfogliare la bella pubblicazione “Le
troiane”, sottotitolo “Un fumetto, una
storia”, emozionante racconto per immagini
che Luminita Gheorghisor ha ricavato
dalla realizzazione scenica, dall’opera di
Euripide, guidata da Michalis Traitsis per
il progetto Passi Sospesi di Balamòs Teatro
presso la Giudecca. Elementi simbolici si
alternano ad altri più descrittivi, le parole
dei personaggi a tratti si affollano - oppure
svaniscono, lasciando le figure nel loro
Il video di Marco Valentini
“In teatro occorre entrare totalmente nel
personaggio, fino a respirare all’unisono, e nel
medesimo tempo, trovare la giusta distanza
per osservarsi, crescere, ricreare, ripetersi. Allo
stesso modo Marco Valentini ha la capacità di
fondersi con le immagini che registra e esserne
testimone consapevole e appassionato.....
I video di Marco mostrano all’inizio una Venezia
di tradizionale incanto, che sfuma via via nelle
inquadrature di un dettaglio delle sue carceri.
Non stridono né graffiano immagini così
discordanti perché ci vengono consegnate
entrambe con una loro intima, differente
poeticità. Poeticità che ha a che fare con la
cultura. Una cultura che prova a guardare e
stare nelle cose, nelle relazioni, nel lavoro,
senza giudizi e stereotipi, che ha la forza di
indurre domande sulla condizione di una porzione
di umanità in cerca di un’altra possibilità che
forse ha avuto e polverizzato o, forse, non ha
mai avuto” (Michalis Traitsis)
teatridellediversità
43
Un Protocollo d’Intesa
che apre prospettive
Tra Ministero della giustizia Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria Istituto Superiore di Studi Penitenziari e
Coordinamento nazionale dei teatri in carcere
Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con l’Istituto Superiore di Studi
Penitenziari, sigla un documento significativo con il Coordinamento Nazionale di Teatro
in Carcere per la valorizzazione del fenomeno attraverso studi, ricerche e nuove iniziative
di formazione
Le parti, rispettivamente rappresentate dal Capo del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Presidente del
Coordinamento Nazionale dei Teatri in Carcere:
Premesso che
il Convegno “La Drammaturgia Penitenziaria”, svoltosi presso
l‘Istituto Superiore di Studi Penitenziari il 27 Novembre 2012, ha
illustrato la condizione del teatro in carcere, facendo emergere le
buone prassi diffuse sull’intero territorio nazionale insieme al
carattere disorganico di tali realtà;
in tale occasione da più parti è stata rappresentata la necessità di
avviare un percorso comune per realizzare uno stabile
coordinamento delle diverse esperienze teatrali che, allo stato,
caratterizzano oltre cento Istituti penitenziari;
il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria condivide tale
obiettivo;
l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, nell’ambito delle proprie
competenze, ritiene utile avviare un progetto/azione di studio per
ricondurre a sistema non solo le esperienze teatrali ma, anche, le
altrettanto diffuse buone prassi cinematografiche, culturali ed
artistiche in essere sul territorio nazionale con l’obiettivo prioritario
di ricavare elementi di sostegno per le attività di formazione del
personale volte a rafforzare i processi di conoscenza dei detenuti e le
conseguenti attività trattamentali;
il Coordinamento Nazionale dei Teatri in carcere ha manifestato il
proprio interesse a collaborare, senza alcun onere a carico
dell’Amministrazione Penitenziaria, all’attività di studio e ricerca
dell’Istituto Superiore di Studi penitenziari promuovendo, altresì,
ogni possibile azione di supporto alle attività teatrali in carcere con
l’obiettivo di collaborare e migliorare i processi
di conoscenza delle persone detenute nell’ambito dell’area
trattamentale;
nelle more di nuovi ulteriori partners da inserire nell’ambito del
progetto complessivo, è utile prevedere un protocollo d’intesa al fine
di avviare l’attività di ricerca e di studio come sopra indicato, seppure
limitatamente al Teatro in carcere.
di David Aguzzi
M
ercoledì 18 settembre
presso la sede dell’ISSP
(Istituto Superiore di Studi
Penitenziari), è avvenuta la Cerimonia
per la sottoscrizione del Protocollo
d’intesa tra il Ministero della Giustizia
- Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria (DAP) e il Coordinamento
Nazionale Teatro in Carcere. La
delegazione del CNTiC era rappresentata
dal Presidente Vito Minoia, il Segretario
organizzativo David Aguzzi, Antonio
Turco, Gianfranco Pedullà e Michalis
Traitsis. Per il Ministero della Giustizia
hanno presenziato alla Cerimonia il Capo
Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria Giovanni Tamburino, il
Direttore Generale dell’ISSP Massimo
44
PROTOCOLLO D’INTESA
De Pascalis, il direttore della Casa di
reclusione di Rebibbia Stefano Ricca.
Un risultato importante e storico,
sottolineato nel discorso di apertura
dal Capo di Dipartimento Giovanni
Tamburino, che ha auspicato come questa
sottoscrizione del Protocollo possa aprire
la strada ad altre iniziative simili di tipo
culturale e di tutte quelle attività teatrali
e artistiche nell’ambito delle carceri.
Si è inoltre soffermato sull’esperienza
storica dell’attività di teatro in carcere,
riconoscendo il valore educativo e
riabilitativo dell’espressione attorale.
Esperienza trentennale e presente in
più di cento carceri, come ha appunto
ricordato Tamburino. Il Direttore
dell’ISSP ha tenuto a sottolineare le
possibilità e potenzialità che potrà
avere il Protocollo nella promozione
della formazione e della ricerca e
studio, annunciando ufficialmente che
la Drammaturgia penitenziaria sarà
inserita nella formazione dell’ISSP.
Infine il Presidente del CNTiC Vito
Minoia ha confermato l’urgenza di
una qualificazione del teatro in carcere
in Italia attraverso l’organizzazione di
iniziative di formazione strutturate e
approfondite. Alla luce dei risultati
conseguiti dalle molteplici esperienze
longeve e significative su tutto il territorio
nazionale, oggi è possibile cercare una
pratica più consapevole nei metodi,
nelle funzioni, negli obiettivi del teatro
in carcere.
Concordano quanto segue
Il Coordinamento nazionale dei teatri
in carcere s’impegna:
(Foto di David Aguzzi)
Rubriche Teatro in carcere
ROMA
• a garantire l’attivazione di iniziative sia di carattere prettamente
teatrale, sia di carattere formativo, nell’ambito della formazione
professionale ai mestieri legati alla realizzazione degli spettacoli;
•
a utilizzare le riviste specializzate per la diffusione delle
manifestazioni teatrali che vedranno protagonisti i detenuti e gli
operatori delle singole realtà istituzionali;
•
a collaborare, con le proprie strutture e risorse, all’attività di
studio e ricerca dell’Issp a sostegno di un’attività formativa
finalizzata a realizzare uno stabile coordinamento delle diverse
esperienze teatrali volte a rafforzare i processi di conoscenza dei
detenuti e le conseguenti attività trattamentali;
•
a favorire il coinvolgimento delle realtà associate al proprio
circuito organizzativo, allo scopo di ampliare le opportunità di
realizzazione degli interventi di carattere culturale, anche
prevedendo progetti di reinserimento attraverso gli strumenti
previsti dall’Ordinamento Penitenziario per costruire occasioni di
partecipazione e contributi utili all’affermazione dei valori dello
stesso Ordinamento Penitenziario;
•
a riconoscere che la programmazione e la realizzazione
operativa delle attività previste dalla presente intesa dovranno
essere concertate tra i responsabili delle Compagnie aderenti al
Coordinamento e i Dirigenti Penitenziari preposti ai singoli istituti
penitenziari coinvolti, o loro delegati, in riferimento alle esigenze
strutturali, organizzative e di sicurezza dei rispettivi Istituti di pena.
A tal fine potranno essere costituiti gruppi di lavoro misti con
funzioni di programmazione, coordinamento e verifica dei progetti;
L’Amministrazione Penitenziaria tramite l’Istituto Superiore di
Studi Penitenziari:
• inserirà nel proprio portale, impegnandosi a darne notizia anche
all’Ufficio Stampa del Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria, le diverse iniziative artistiche che le singole
Compagnie aderenti al Coordinamento metteranno in essere nelle
rispettive realtà istituzionali di cui il Coordinamento stesso avrà cura
di dare idonea informazione;
• nell’ambito delle proprie competenze istituzionali s’impegna a
diffondere la consapevolezza dell’importanza dell’attività teatrale
nei processi di conoscenza del detenuto e di recupero sociale;
• si impegna ad inserire la “Drammaturgia penitenziaria” quale
disciplina di studio quando ciò sia coerente con gli obiettivi dei corsi
di formazione e aggiornamento programmati per le diverse
categorie di operatori penitenziari.
Alla presente intesa di carattere generale potranno fare seguito
singoli accordi tra i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione
Penitenziaria e le Sedi periferiche del Coordinamento, anche al fine
dell’elaborazione di specifici programmi da attuare negli Istituti del
distretto di competenza.
Il presente protocollo d’intesa ha durata triennale, salvo rinnovo, e
non comporta oneri a carico dell’Amministrazione Penitenziaria, né
obbliga la medesima Amministrazione e/o il Coordinamento
Nazionale dei Teatri in carcere ad un rapporto di esclusività nelle
materie in esso contenute.
Letto, confermato e sottoscritto.
Roma, 18 Settembre 2013
Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
Pres. Giovanni Tamburino
Il Presidente del Coordinamento Nazionale dei Teatri in Carcere
Prof. Vito Minoia
teatridellediversità
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Rubriche Teatro in carcere
NELLE MARCHE
C.R. FOSSOMBRONE - SEZIONE LEVANTE
La Pioletta
Ri-cercare, cooperando
Grazie ad un’iniziativa del Servizio Politiche Sociali della Regione Marche, nel 2012 e 2013
un Progetto condiviso ha unito tutti gli operatori teatrali impegnati in carcere insieme alle
direzioni degli otto Istituti Penitenziari regionali, agli Ambiti Territoriali Sociali di
riferimento, al Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale.
La Rivista Teatri delle diversità, il 30 novembre nell’ambito del XIV Convegno
Internazionale di Urbania, ospita un seminario tra gli operatori a conclusione della
sperimentazione, che potrebbe preludere ad un nuovo biennio di attività, alla nascita del
Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Marche, al coinvolgimento dei Servizi
Culturali Regionali per il potenziamento delle iniziative di formazione e spettacolo. Di
seguito alcune testimonianze degli operatori teatrali impegnati nei differenti contesti.
C.R. ANCONA BARCAGLIONE
Art’O | teatro
di Francesca Marchetti
L’esperienza del teatro in carcere, nella casa di reclusione Barcaglione
ha visto in questi due anni di lavoro un climax creativo fatto da
numerose produzioni teatrali e culturali, complice la fruttuosa
collaborazione con l’area trattamentale. La costante attività teatrale
di ricerca e di studio ha sviluppato competenze nel gruppo di detenutiattori, tanto da farlo diventare un vero e proprio lavoro artistico,
con la tournèe i quattro attori-detenuti in art.21 OP hanno debuttato
al Macerata Opera Festival 2013 con la regia di Marco Bragaglia e
Francesca Marchetti. E’ così che è nato lo spettacolo prodotto
dall’associazione Art’O, Il muro, storie rock di gente da galera,
spettacolo che narra le vicende carcerarie dei rockers finiti dietro le
sbarre, raccontate da chi il carcere lo vive quotidianamente. Una
drammaturgia legata all’abbattimento dei muri dell’indifferenza,
che mostra il mondo penitenziario da un altro punto di vista, grazie
al potente strumento del teatro, i detenuti diventano attori,
sperimentano nuovi linguaggi ed invenzioni, scoprono una nuova
vita che si allontana da percorsi detentivi della buona condotta fine
a se stessa.
Ecco che il pubblico esterno si emoziona prova empatia e vicinanza
verso quel mondo distante e abbandonato, la magia del teatro
capace di incidere nella realtà sociale, trasformandola.
“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una
grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie
la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”[Leo
De Bernardinis].
E’ proprio qui che abbiamo trovato una civiltà teatrale, all’interno
del carcere, dove ogni giorno si lavora con tante persone che
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provengono da mondi diversi, storie di povertà e di marginalità
sociale, di devianza e di malattia, grazie al testo teatrale, costruiamo
un nuovo linguaggio, un vocabolario comune che parla il linguaggio
di chi vuole vivere una vita nuova.
Recenti studi sulla recidiva, dimostrano che la percentuale di ricaduta
nel reato è maggiore tra le persone che hanno scontato esclusivamente
la pena in carcere (68%), che passano le loro giornate a guardare il
soffitto, costretti all’ozio che la detenzione inevitabilmente crea,
rispetto a quelle che hanno potuto beneficiare di misure di tipo
alternativo, come progetti di lavoro teatrale all’esterno (in questo
caso la percentuale scende al 19%); soprattutto se connotate
dall’obiettivo non di far percepire al reo il male arrecato, ma di
aiutarlo a costruirsi un futuro migliore nel rispetto delle regole e nel
reinserimento nella società.
di Cinzia Fumelli
“Il teatro può iniziare ovunque”. Con questa frase Peter Brook
iniziava, un po’ di anni fa, le sue lezioni aperte di teatro al Théâtre
des Bouffes du Nord. E certamente può essere considerata uno
dei punti di partenza del progetto laboratoriale che l’Associazione
Teatrale “La Pioletta”, con la cura del regista Fabrizio Bartolucci,
sta realizzando, ormai da oltre 10 anni con i detenuti della Sezione
di Ponente della Casa di Reclusione di Fossombrone. Un progetto
che si è nutrito principalmente della convinzione che le esperienze
teatrali favoriscono anche il cambiamento nei linguaggi del
teatro, che trova negli stretti orizzonti carcerari una sua rinnovata
urgenza e necessità. E che il teatro in carcere, quando è guidato
da una corretta metodologia artistica, crea indirettamente un
contesto pedagogico basato sull’autoformazione e sull’autoanalisi
dove la qualità espressiva ed artistica degli spettacoli creati in
carcere e l’utilizzo a fini pedagogici del mezzo teatrale, possono
senza contraddizioni rinviare l’uno all’altro e arricchirsi
vicendevolmente.
Questa è stata l’idea di laboratorio a cui si è voluto dar vita in
questi anni: un vero spazio creativo ed una esperienza artistica.
Il laboratorio è stato pensato come un laboratorio integrato, con
l’interazione tra giovani attrici ed attori e detenuti, nella creazione
di una “compagnia mista”, che con la collaborazione di operatori
ed artisti ha realizzato un percorso teatrale che si è plasmato
sugli stimoli drammaturgici offerti dalle opere di Shakspeare (La
recita del sogno, Shakespeare?!...una commedia degli errori), di
Jarry (Ubu..settete!), di Aristofane (Uccelli in gabbia), di Cervantes
(Mulini a vento), di Goldoni e Fassbinder (O’ Cafè). Drammaturgie
che hanno dato vita ad attraversamenti e libere scritture sceniche
dove l’occasione testuale e le forti sollecitazioni che essa muove
creano un percorso di confronto artistico e umano all’interno del
gruppo di detenuti e attori. Il teatro carcere, si sa, si differenzia
dal “teatro della rappresentazione” per una valenza di risposta
alla necessità di comunicazione sociale dei detenuti-attori. E
poiché il teatro mette sempre in ‘gioco’ la vita e l’attore nel suo
paradosso, attraverso esso, proietta se stesso; ogni spettacolo
è un terreno di incontro, conoscenza, di ricostruzione della propria
storia personale. In questi anni di lavoro e di impegno si può dire
di essere riusciti a realizzare un’attività stabile, a creare una
continuità nel percorso, conquistata non senza difficoltà (logistiche,
economiche, di rapporti con l’istituzione e gli enti) con la nostra
tenacia, la convinzione degli operatori carcerari dell’Area
Trattamentale, il contributo della Polizia Penitenziaria ed il
sostegno dei numerosi detenuti che anno dopo anno si sono
riconosciuti nel nostro progetto. Per il regime di restrizione cui
sono sottoposti i detenuti della Sezione Alta Sicurezza, con cui
l’Associazione opera, non è stato possibile a tutt’oggi rappresentare
all’esterno gli spettacoli prodotti. In questi anni però, pur non
escludendo che l’obiettivo di far uscire le produzioni possa essere
prima o poi raggiunto, è stato intrapreso un percorso di graduale
apertura del teatro dell’Istituto al pubblico esterno.
Partendo dall’ingresso in Istituto di piccoli gruppi (30 persone
circa) si è arrivati ormai da qualche anno alla replica dello
spettacolo esclusivamente per il pubblico esterno (100-110
persone, che rappresentano ad oggi la capienza massima del
teatro interno all’Istituto). La rappresentazione finale rappresenta
infatti un momento fondamentale e, seppure non sia l’obiettivo
primario del percorso intrapreso, ne diventa il momento conclusivo
e di completamento, opportuno al confronto con il pubblico e
necessario a dare compimento all’attività svolta. L’apertura
verso l’esterno ha portato grande soddisfazione all’intero gruppo
che ritiene così di aver aperto la strada ad un percorso che ancora
molto può offrire in termini di dialogo, scambio e interazione tra
l’Istituto, la città ed il territorio.
teatridellediversità
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Rubriche Teatro in carcere
C.C. CAMERINO
Sassi nello Stagno
Passi una vita a lavorare nel teatro fra le molteplici sfaccettature
e possibilità che questa attività ti offre. Poi si aprono le porte del
carcere e con entusiasmo pensi di portare la tua esperienza a
favore delle persone recluse.
Il teatro può essere uno dei sentieri per mantenere aperte le strade
della mente. Ma le parole sono facili da trovare- mi dice Susannaa volte un pensiero ti entra in testa e si fissa, si ferma e si amplifica;
cresce a dismisura portandoti dentro una condizione che ti impedisce
di vedere con chiarezza le cose.
Ecco, se il teatro in carcere contribuisse anche solo in parte a
raggiungere lo scopo di mantenere la fiducia nel proprio essere,
allora avrebbe svolto una parte importante dei suoi poteri.
Allora deve essere normale, sia dentro che fuori dal carcere e con
il necessario contributo di tutti gli operatori degli ambiti specifici,
poter creare le condizioni in cui insieme si riuscirà a tenere aperti
quei sentieri la cui visibilità è necessaria alla vita di ciascuno di
noi. E’ con questo auspicio che offriamo alla pubblicazione “La
gabbia”: un esempio di elaborazione fantastica della realtà ,
scaturita all’interno del progetto teatro svolto nella casa circondariale
di Camerino-MC e che visivamente prende vita con il teatro delle
ombre.
Ada Borgiani- operatrice teatrale
La gabbia
Racconto di Susanna
Sto canticchiando
nervosamente nella mia
cella quando, ad un certo
punto, affacciandomi alla
finestra, attraverso le sbarre
noto un uccellino che si è
posato sul ramo del ciliegio
a pochi metri da me. Lui mi
guarda incuriosito
inclinando il capino, quasi
come se volesse capire
meglio qualcosa e con
questa espressione interrogativa continua a seguirmi con gli occhi.
Io ricambio l’interesse fino a quando mi viene un dubbio: rifletto
sul fatto singolare che per una volta nella gabbia c’è una persona
e non un uccellino e, come è giusto, a completare il paradosso c’è
un uccellino che mi sta guardando mentre sto cinguettando/
cantando.
Forse adesso lui sta pensando che “ la persona chiusa in gabbia
canta per amore oppure per rabbia”!
Poi ripensandoci bene mi rassicuro e mi convinco che un detto
stupido come questo può appartenere solo alla meschinità umana
e non può certo essere propria di una creaturina così dolce che,
oltre tutto, per confermarmelo è già volato via (anche un po’ offeso
secondo me).
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Il Minotauro, Teatroaponente,
Foto di Luigi Angelucci
di Ada Borgiani
FERMO
Associazione LaGrù
di Piero Massimo Macchini
C.R. FOSSOMBRONE - SEZIONE PONENTE
Teatroaponente
di Elisa Delsignore
L’Associazione culturale Teatroaponente, fondata da Elisa
Delsignore, Cristian Della Chiara e Ciro Limone, nasce quale
strumento di lavoro per l’organizzazione dell’attività teatrale nella
sezione di ponente del Carcere di Fossombrone. I componenti
dell’associazione operano all’interno della Casa di Reclusione già
dal 2005, anno in cui è iniziata l’attività. Fino al 2007 il laboratorio
è stato sostenuto da un progetto dell’Università degli Studi di
Urbino “Carlo Bo” volto a stabilire l’efficacia dell’attività teatrale
sul disagio psichico dei detenuti; dal 2008, poi, il progetto è stato
inserito nel programma delle attività promosse dall’area trattamentale
della Casa di Reclusione di Fossombrone. Il laboratorio teatrale
nella sezione di Ponente è iniziato nel gennaio del 2006 e si è
concluso, a giugno, con lo spettacolo “Il marinaio” allestito nel
Teatro Metauro della Casa di Reclusione di Fossombrone ed aperto,
per la prima volta, al pubblico esterno. L’attività è stata ripresa
nell’ottobre del 2006 ed è continuata fino a giugno del 2007, con
cadenza settimanale, quando è stato allestito lo spettacolo “Il
Minotauro” sempre all’interno della Casa di Reclusione. Nel 2008
il laboratorio ha ripreso la sua attività settimanale fino allo
spettacolo allestito questa volta a Pesaro, al Teatro Sperimentale,
nell’ambito della rassegna TeatrOltre08. A settembre del 2008 il
gruppo dei detenuti ha ripreso a seguire l’attività laboratoriale,
sempre con cadenza settimanale, e così per tutto il 2009. A gennaio
del 2010 è stato organizzato un laboratorio teatrale intensivo
condotto dall’attore Eugenio Allegri, all’interno della struttura
penitenziaria. Il 16 maggio 2010, nell’ambito della 50a Stagione
Concertistica di Pesaro, è stato allestito, al Teatro Rossini, lo
spettacolo “Minotaurus”. L’attività laboratoriale è proseguita per
tutto il 2011 durante il quale è stato organizzato un laboratorio
musicale con il M° Marco Mencoboni (il gruppo di attori-detenuti
ha potuto imparare ad utilizzare oggetti di uso comune come
strumenti che producono musica). Per gli anni successivi, 2012 e
quello in corso, l’Associazione Teatroaponente ha aderito al progetto
unitario per le Marche, continuando la propria attività nella sezione
di Ponente della Casa di Reclusione di Fossombrone.
Parlare della mia esperienza
in carcere non è facile perché
è come se dovessi esprimere
un’emozione che è difficile
spiegare in parole, più facile
sarebbe per esempio
attraverso un’immagine.
Ho iniziato il progetto ad
ottobre 2012 ed il primo
gruppo che ho incontrato
era costituito da 6 ragazzi
extracomunitari che
parlavano poco l’italiano.
Mi sono detto, ed ora che
cosa faccio? Di leggere un
testo non ne parliamo, di spiegare troppo la messa in scena lo
stesso; allora improvvisiamo! (Probabilmente in questo ne sapranno
più di me, mi son detto). Da qui ho sviluppato per 15 incontri
fondamentalmente due tematiche: “Magia e Mimo”. Devo dire
che è stato un lavoro estremamente efficace: sono riuscito a
compattare il gruppo, a prendere la leadership e a chiedere loro
di mettersi in gioco in maniera spensierata e felice. Trovare una
via di comunicazione che collegasse il movimento corporeo (studio
del mimo) alla tecnica (magia-missdirection) è stata una risposta
ai loro bisogni. Non volevano pensare ma volevano muoversi e
vivere. Così è stato. Se penso ai singoli momenti, ce ne sono stati
molti in cui chiedi di essere attento e concentrato come un attore
dovrebbe essere su di un palco ma la stanchezza è più forte della
voglia di imparare, o semplicemente erano dei lunedì “storti”…
allora riportavo l’attenzione sulla tematica del gioco con delle
semplici ma efficaci parole che fungevano per me, poi ho capito
anche un po’ per loro, come un mantra da Guru Indiano.
“Giochiamo, se uno impara a giocare riesce ad essere spensierato,
ma ricordate che ogni gioco ha delle regole e più le regole si
rispettano più è divertente giocare!” Per il resto cosa posso dire,
sento di aver fatto un’esperienza personale molto importante.
Vivere il carcere ti dà la possibilità di trovare il tuo baricentro, di
sentirti al centro del mondo e capire perché ci sei. Dopo un momento
iniziale, entrare nel carcere è divenuto per me come entrare al
bar, un luogo dove andare a trovare degli amici/conoscenti con i
quali condividere delle esperienze. Ed è così. Ora sono con un
gruppo nuovo e molto diverso dal precedente per diversi aspetti
quindi sto sviluppando un altro tipo di lavoro con un’idea di una
ASCOLI PICENO
Cooperativa Koinema
di Rosanna Vigliarolo
SETTE MESI DI PROVE PER VINCERE LA SFIDA PIU’ GRANDE .
Il laboratorio teatrale della Casa Circondariale di Marino del Tronto,
nel mese di luglio 2013 ha prodotto uno spettacolo ispirato al testo
“Libero dentro” di Giovanni Arcuri, uno degli interpreti di Cesare
deve morire dei fratelli Taviani.
L’esame delle condizioni carcerarie, ha dato vita all’idea di mettere
in scena uno spettacolo che potesse rappresentare per i detenuti
una possibilità di dare parola a emozioni, confessioni e ricordi che
spesso vengono taciuti per paura di essere fraintesi o giudicati.
La messa in scena dello spettacolo nato dalla scrittura autobiografica
dei partecipanti al laboratorio, ha favorito all’interno del gruppo
la creazione di un clima di solidarietà e fiducia, a punto tale che i
detenuti italiani, di numero inferiore ai partecipanti stranieri, si
sono offerti per tradurre in italiano i testi scritti dai compagni e
dare a questi una stesura più corretta. Sul piano dell’interpretazione,
si è lavorato sulla memoria, sulla relazione parola/gesto, con
l’intento di eliminare le cattive abitudini espressive contratte nella
vita quotidiana. Con tecniche derivanti dal Teatro Sperimentale
sono state realizzate coreografie neutre, utilizzando come elementi
scenografici un tavolino e delle panchine.
Per Armando, Vittorio, Giacomo ed tutti gli altri attori detenuti,
l’esperienza del laboratorio teatrale è stata a dir loro rigenerante.
Alcuni testimonianze: “Ci sono voluti sette mesi, lavorando sodo
due giorni a settimana, per scrivere e mettere in scena i testi
prodotti da noi. Per me che sono straniero – dice Armando - è
stato difficile. All’inizio mi sembrava impossibile riuscire in questa
impresa, ma sentivo di voler andare avanti, e ce l’ho messa tutta.
Non dimenticherò mai le sensazioni provate durante gli incontri
del laboratorio teatrale, le risate, la commozione nel sentire narrare
le storie di vita dei miei compagni di cella, e il sudore per la fatica,
hanno riscaldato le fredde giornate invernali.”
“Nelle settimane di prova precedenti lo spettacolo, l’insegnante
Rosanna, - dice Giacomo - ci trattava come dei veri attori e le sue
parole mi hanno dato coraggio, mi sono detto che quella poteva
essere l’occasione giusta per dimostrare a me stesso e agli altri
quello di cui ero capace, per poter tirare fuori tutto il buono che
c’è in me”.
Il 4 Luglio giorno della messa in scena dello spettacolo, c’è stata
grande commozione da parte del pubblico partecipante, che ha
dichiarato di aver scoperto il dietro le quinte della vita ordinaria
teatridellediversità
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Rubriche Teatro in carcere
C.C. ANCONA MONTACUTO
Fondazione Teatro delle Muse
di Luciano Colavero
C.C. PESARO VILLA FASTIGGI e
CASA MANDAMENTALE DI MACERATA FELTRIA
Compagnia Lo Spacco e Teatro Aenigma
di Romina Mascioli
La Comunicazione Teatrale è il titolo del laboratorio
attivato nel 2002 all’interno della Casa Circondariale di
Villa Fastiggi a Pesaro a cura delTeatro Aenigma (Università
di Urbino). Oltre trecento persone recluse hanno partecipato
finora alle diverse attività promosse, dando vita alla
Compagnia teatrale Lo Spacco. L’obiettivo principale è
quello di stimolare la creatività, permettendo ai singoli
partecipanti di rappresentarsi e prendere coscienza dei
propri mezzi espressivi e comunicativi. Non
secondariamente, a livello più specificatamente teatrale,
attraverso una costante ricerca sul linguaggio scenico
ed un’attenzione anche al risultato artistico dell’esperienza,
sono stati prodotti i seguenti allestimenti/eventi: Antigone da Sofocle- Brecht (maggio 2003); Il Teatro-Forum di Augusto Boal (ottobre
2003 e replica al Teatro Sperimentale di Pesaro a novembre 2003); Le Serve di Jean Genet (Teatro Raffaello Sanzio di Urbino – Giugno
2004); Il Teatro di Jean Genet - “Le Serve” e “I Negri” (dicembre 2004); UBU Roi di Alfred Jarry (dicembre 2005, progetto vincitore del
Premio nazionale Enriquez per l’impegno sociale), Comedia in Comedia (novembre 2006, replicato a maggio 2007 per l’inaugurazione della
nuova sede del Palazzo di Giustizia di Pesaro su invito dell’Associazione Nazionale Magistrati), Teatro Forum (febbraio 2007 e repliche
negli istituti di Ancona e Fossombrone), Dialogo semiserio con la Morte (ottobre 2007, scritto e diretto da Urbano Stenta), Vita nuova
(aprile 2008, da un suggerimento di Dario Fo), Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo (aprile 2009), Lettere dal carcere (maggio 2010,
il testo dello spettacolo vince la X edizione del Premio Letterario nazionale Antonio Gramsci ad Ales), Drammi onirici (dicembre 2011),
Performance poetica (giugno 2012, in collaborazione con il Quartetto italiano di flauti Les Flutes Joyeuses, il laboratorio di scrittura
creativa a cura della Cooperativa L’officina, il fotografo Umberto Dolcini). Sulle attività sono stati sin qui prodotti i documentari di Maria
Celeste Taliani Dentro e oltre: vite parallele (2004), UBU al fresco (2006), Il riscatto di Pulcinella (2007), Natività (2008, regia di Vito
Minoia), Oh, bellissimo sole (2011), Sogni che varcano i muri (2012). Nei volumi Per uscire dall’invisibile (2004, a cura di David Aguzzi
e Vito Minoia e Recito, dunque so(g)no (2009, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia). Del dicembre 2012 – giugno 2013 è lo spettacolo Un
clown alla corte dello Zar, rappresentato quattro volte all’esterno del carcere (Teatri municipali di Caldarola, Corinaldo, Pesaro, Torino/
Officine Caos). Si tratta della traduzione teatrale dei particolari della vita pittoresca ed avventurosa (agli inizi del ‘900) del clown Giacomo
Cireni, in arte Giacomino. Dopo un’infanzia di stenti, in Russia, all’apice del successo, superò per notorietà Anatoli Durov, il clown più
amato a San Pietroburgo. Questo gli valse l’invito della famiglia reale ad esibirsi più volte a corte per rallegrare il piccolo zarevic Aleksej,
malato di emofilia, futuro erede al trono di Nicola II . Negli ultimi anni di vita in povertà fu maggiordomo al Circolo della Stampa a Milano,
dove ancora vive il suo unico figlio Michele, che ci ha aiutato nelle ricerche documentali ed iconografiche. “Una parabola, la storia di
Giacomino, capace di far riflettere sulle difficoltà e le gioie della vita, ma anche su “nomadismi culturali”, vagabondando nel passato e
nel futuro di ognuno, oltrepassando il senso comune e la percezione spazio-temporale, dalla vita alla scena…e di nuovo alla vita”.
Particolare attenzione è stata rivolta, inotre, al collegamento con la città di Pesaro, con la direzione della Casa Circondariale di Pesaro
che, in collaborazione con la Biblioteca San Giovanni, dedicata da dieci anni una giornata alle produzioni artistiche ed artigianali che
collegano carcere e territorio “L’arte sprigionata”.
Dal 2003, il progetto coinvolge ogni anno una classe della Scuola secondaria inferiore di Villa Fastiggi (ICS “Galilei”) con felici elaborazioni
creative intrecciate con quelle attuate in carcere. L’ultimo spettacolo dei ragazzi dal titolo Io non mi salverò è stato dedicato al pedagogista
polacco Janusz Korczak morto nel campo di concentramento di Treblinka insieme ai bambini dell’orfanotrofio che aveva fondato nel Ghetto
di Varsavia. Sono stati gli stessi allievi della “Galilei” nel 2006 a suggerire il nome del gruppo teatrale penitenziario, che da allora, costituito
da uomini e donne, è diventato la Compagnia Lo Spacco.
Attualmente a Pesaro è in corso una ricerca teatrale su Federico Garcia Lorca, mentre nella Casa Mandamentale di Macerata Feltria
(PU), dove nel 2006 era stato attivato un laboratorio su Aspettando Godot di Samuel Beckett, si intende concludere entro il 2013 un
laboratorio su “La vita delle api” di Maurice Maeterlink, ricerca abbinata all’attività di formazione professionale in apicoltura presente
nell’istituto. Nel progetto sono coinvolti anche gli allievi disabili del Centro Socio Educativo Riabilitativo “Margherita” di Casinina di
Auditore.
“A SIVIGLIA OPPURE A NAPOLI? “La mia ultima esperienza di teatro
in carcere è stata la messa in scena de “Il barbere di Siviglia” nella
Casa Circondariale di Montacuto (AN), sezione comuni. Il lavoro,
parte del Progetto Musesociale, guidato dalla Fondazione Teatro
delle Muse e al quale ha collaborato l’associazione culturale Strutture
Primarie, è stato l’ultimo atto di un lavoro triennale incentrato sul
teatro d’Opera e i suoi protagonisti. Perché ho scelto, tra tanti Libretti
d’Opera, proprio “Il barbiere di Siviglia?” Non so se accada lo stesso
ai miei colleghi, ma gli allievi che ho avuto finora mi hanno sempre
chiesto di far recitare loro qualcosa di leggero, per distrarsi. Ma
distrarli non è il mio obiettivo, quello che provo a fare è insegnare
loro i rudimenti di un mestiere. Che fare? Alla fine ho pensato che in
effetti un testo comico avrebbe potuto coinvolgerli maggiormente
di uno drammatico e così ho scelto “Il barbiere” che, oltre tutto, parla
ampiamente di furti e rapimenti, corruzioni e ricatti, tutti argomenti
che ai miei attori sarebbero certo stati familiari (ed effettivamente
devo ammettere che ci siamo fatti un bel po’ di risate il giorno in cui,
durante un’improvvisazione, uno degli attori si è messo a contare
quanti anni di carcere sarebbero toccati a chi davvero avesse fatto
tutto quel che stava facendo il Conte di Almaviva). Insomma, alla
fin fine la scelta si è rivelata buona: ci siamo divertiti, gli allievi sono
stati molto convolti, l’impegno è stato altissimo e il risultato
performativo decisamente apprezzabile. Tuttavia mi sono accorto
di una cosa: a un certo punto quello che spingeva i miei allievi a
C.C. ANCONA MONTACUTO - SEZIONE ALTA SICUREZZA
Simone Guerro e Teatro Aenigma
di Simone Guerro e Vito Minoia
Il Teatro Aenigma, che nella Casa Circondariale di Montacuto aveva
operato dal 2004 al 2009 (Teatro Forum di Augusto Boal, L’arte della
Commedia e Sik Sik l’artefice magico di Eduardo De Filippo, La
Traviata e Rigoletto di Giuseppe Verdi) ha condiviso nel 2012/2013
un progetto con Simone Guerro, autore nel 2011 di un lavoro poetico
sulla “paternità” (progetto in collaborazione con la Fondazione
Pergolesi Spontini di Jesi).
impegnarsi ancora di più ha smesso di essere la risata, il distrarsi, il
divertirsi; nelle immediate vicinanze dell’andata in scena quello che
li muoveva era il cercare di lavorare meglio, sempre meglio. La fiducia
preventiva che avevo accordato loro a ogni incontro, pretendendo
lo stesso impegno che pretendo dai professionisti, li aveva
responsabilizzati artisticamente. Partiti dalla distrazione, partiti dal
coinvolgimento del gioco eravamo alla fine approdati all’impegno
e al rigore dell’arte dell’attore. Forse vale solo per il teatro, ma mi
sono chiesto se anche in altri ambiti del sistema carcerario non si
possa seguire lo stesso percorso: partire dal coinvolgimento per
arrivare al rigore, invece di usare soltanto il rigore come strumento
educativo.
personaggi, che di volta in volta sono stati ideati e valorizzati
teatralmente. L’arte scenica popolare ha risvegliato ancora una volta
il piacere di cimentarsi con una esperienza di creazione collettiva di
carattere empatico e cooperativo che si completa nella condivisione
di un momento conviviale e poetico tra attori e spettatori.
Ciccio Anzermo,
Simone Guerro e Teatro Aenigma”
Figura centrale dello spettacolo,Ciccio Anzermo, è il protagonista di
una saga popolare siciliana arrivata nel nostro laboratorio, con la
quale abbiamo iniziato a giocare per capire ciò che volevamo dire.
Ciccio è un idiota. La società si prende gioco di lui. Ciccio crede ad
ogni cosa gli si dice, non riesce a far del male a nessuno, piuttosto
accetta ogni sofferenza. Per questo è un bersaglio per tutti e la sua
vita, guardandola in superfice, sembra solo un insieme di sofferenze.
Ma come si fa a stabilire chi è un idiota? Quale filo, secondo quale
giudizio, con quale scala di valori si misura la forza e il coraggio, o
addiritura il successo di un essere umano? Spesso nelle vite più
silenziose si nasconde una forza insospettabile. Ancora più spesso
dietro vite scoppiettanti o lustrate si nascondono paure e fragilità
gigantesche.
Ciccio è stato così uno specchio ottimo, divertente e imparziale, per
vedere oggi a che punto siamo con noi stessi.
Il laboratorio, basato sulle modalità del teatro di tradizione italiana
della Commedia dell’arte, ha permesso ai partecipanti di misurarsi
con la non semplice tecnica della recitazione a soggetto attraverso
anche l’utilizzo di maschere tradizionali in cuoio. Ciascuno ha avuto
in questo modo la possibilità di scoprire proprie risorse e repertori
gestuali e verbali inaspettati in un clima di autentica riflessione sui
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teatridellediversità
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Rubriche Danza
Il Butō
una realtà metamorfica
in continua rilettura
La prima manifestazione di danza “moderna” in Giappone oggi è finalmente oggetto di
studio storico, biografico e culturale, nonché filosofico e in una dimensione multiforme
di Eugenia Casini Ropa
T
ra le discipline e le arti del corpo
ormai insite nel DNA della danza
contemporanea nelle sue più varie
manifestazioni, ci sono anche, assimilati
e incorporati, gli elementi di una danza
venuta oltre trent’anni fa dall’Oriente,
portatrice allora di un corpo inquietante
e di una poetica enigmatica e oscura.
Quando infatti il Butō, nato negli
anni Cinquanta e prima manifestazione
autoctona di una danza “moderna” in
Giappone, fu introdotto in Occidente
dalla fine degli anni Settanta, vi suscitò
per prima cosa un acuto choc estetico,
combattuto tra fascinazione e repulsione,
per la conturbante deformazione dei
corpi nudi, imbiancati e coartati, così
prepotentemente “diversi” ed estranei
alla nostra sensibilità. I primi scritti critici
degli anni Ottanta così, ricchi soprattutto
di immagini, si concentrarono sulle forti
impressioni visive ed emozionali, trascurando
ampiamente gli approfondimenti storici,
biografici e culturali, e marcando a
prima vista la “danza delle tenebre” come
intrinsecamente nipponica, esito tormentoso
della lacerazione dei corpi e delle coscienze
provocata dall’atomica, profondamente
aliena e di oscura comprensione. Una
manifestazione esotica dal fascino innegabile
ma imbarazzante e provocatorio, troppo
52
cupa e al fondo disturbante per la cattiva
coscienza eurocentrica.
Negli anni Novanta il Butō si diffuse molto
più ampiamente, soprattutto in Europa.
Alcuni artisti importanti si stabilirono a
Parigi e altri furono frequentemente presenti
in tournée, dando spettacoli e tenendo
laboratori, così da attrarre e iniziare alla
disciplina un numero crescente di giovani
danzatori occidentali. Con l’avvio di un
radicamento attivo del Butō, anche le analisi,
seppure in numero limitato, acquistarono
maggiore profondità, sia storica sia teorica. Si
tentò con reale coinvolgimento di penetrare
un fenomeno artistico sfaccettato, che non
si definiva tanto in una tecnica o in uno stile
condivisi e riconosciuti, ma si presentava in
forme diverse sull’evidente base comune,
però, di un’urgenza eversiva e innovativa
profonda e di un pensiero-guida sulla vita,
il corpo e la danza, le cui fonti erano tutte
da esplorare. Compito non facile, che se
dal punto di vista storiografico richiedeva
un’indagine più accurata sugli eventi e la
cultura d’origine, sulle vicende biografiche
degli artisti, sulle ascendenze artistiche, da
quello teorico imponeva la scoperta e la
comprensione di un ambito di pensiero
dalle radici profonde e ignote, una vera e
propria filosofia generatrice. Così gli studi
sul Butō di quel decennio si divisero tra
quelli che cercavano di coglierne il senso
ricostruendone storicamente la nascita e
le motivazioni all’interno della cultura
giapponese (superamento del teatro
tradizionale No e Kabuki, rifiuto del
colonialismo culturale americano, movimenti
d’avanguardia post-bellici, ecc.) e quelle che
si sforzavano in ogni modo di rintracciare
nelle origini influenze e contaminazioni reali
o ideali con fenomeni artistici e culturali
occidentali (espressionismo, dadaismo,
surrealismo, ma anche post-modernismo).
Qualcuno iniziava tuttavia a sottolinearne
invece i caratteri universali e transculturali.
È nel Duemila che si raggiunge la
maggiore consapevolezza epistemologica
e si sottopongono a critica i metodi di
analisi usati fino ad allora. Vengono così
prevalentemente messi in atto sguardi
multipli e incrociati, che si servono di
strumenti critici tanto nella prospettiva
dei recenti cultural studies quanto in quella
di discipline diverse, come sociologia,
antropologia, psicologia, semiologia,
pedagogia. Il Butō è affrontato come una
realtà multiforme e composita, da indagare
al plurale, contestualizzandola attentamente
nel tempo e nello spazio, nelle diverse
relazioni con la cultura, nelle difformità o
somiglianze delle concezioni di base di ogni
artista oltre che nella tecnica e negli stili.
Kazuo Ohno
(Foto di Enrico di Luigi, Rimini 1997)
Sayoko Onishi in Primavera Siciliana
Nell’ultimo decennio sono stati pubblicati
in occidente alcuni testi importanti, che
fanno luce in particolare sui due grandi
protagonisti all’origine della danza Butō
e che ne portano finalmente a miglior
conoscenza i percorsi di vita, la rete delle
relazioni culturali, il pensiero e le tecniche
artistiche. Se, fra i padri fondatori, Kazuo
Ōno aveva finora ottenuto una più ampia
popolarità e visibilità negli studi, per le
sue ripetute permanenze in Occidente,
per la maggiore affinità della sua arte
intrisa di spiritualità anche cristiana col
sentire occidentale e per la sorprendente
longevità della sua carriera, anche Tatsumi
Hijikata, morto invece prematuramente,
noto soprattutto attraverso gli allievi e
padre di quel versante “oscuro” e sovversivo
del Butō che maggiormente ha turbato gli
animi, ha finalmente ricevuto una seria
attenzione con studi davvero rivelatori
del suo tormentoso percorso biografico
e creativo.
Articoli e saggi di varie dimensioni e in
lingue diverse hanno poi esplorato questioni
disparate che la danza Butō fa sorgere:
dal problematico rapporto tra i generi
maschile e femminile alla destrutturazione
dell’identità individuale, dalla relazione
corpo-spirito al metamorfismo intrinseco
del corpo danzante, fino a tanti possibili
raffronti con le arti e la danza del passato,
della modernità e della contemporaneità.
La centralità acquisita dagli studi sul corpo
nell’ambito delle scienze umane, poi, ha
favorito approcci di particolare penetrazione
alla corporeità ricca di mistero del danzatore
di Butō, alla sua generazione di vita e alla sua
pulsione di morte, alla sua esaltazione e al
suo annullamento, alle sue radici materiali
e trascendenti, al suo farsi portatrice di una
diversa concezione della vita.
Antropologicamente, il Butō viene infine
letto tra i fenomeni sociali “liminoidi”,
ossia tra quei fenomeni che racchiudono
in sé, nelle società moderne di grandi
dimensioni, il potenziale trasformativo
delle regole morali e comportamentali che
i rituali collettivi possedevano nelle società
tradizionali. Questo lo connota come
disciplina dalla vocazione culturalmente
trasformazionale e autorizza i ricercatori
a spingersi verso ipotesi più azzardate
intorno alle sue valenze e ai suoi possibili
effetti in ambito artistico e sociale, tanto
nella sua cultura d’origine quanto in diversi
territori culturali (oltre a giustificare il
conclamato diritto dei danzatori di terza
o quarta generazione di contaminarne le
pratiche e modificarne i modelli originari
sulla base delle stesse premesse poetiche e
filosofiche).
Il corpo del Butō così, quell’oscuro butōtai
di carne e sangue che molto ci turbava,
non più così criptico e respingente,
può essere oggi indagato perfino in una
prospettiva aperta e stimolante di critica
alla corporeità occidentale, come fa, ad
esempio, un attualissimo studio in lingua
portoghese in corso di pubblicazione in
Brasile, O soldato nu di Eden Peretta. In
questa lettura, la corporeità critica del
“soldato nudo” Tatsumi Hijikata propone
un ripensamento della pedagogia del
corpo in Occidente, con la proposta di
un “anti-corpo” che si fa “anticorpo” di
resistenza “di fronte ai meccanismi di
oppressione e dominazione fisica e culturale
che s’impongono quotidianamente nel
contesto globalizzato contemporaneo”. La
danza Butō sembra dunque offrirsi come
“veicolo di azioni trasformative”, stimolo a
una pedagogia di ricerca che non si limiti
a trasmettere modelli precostituiti ma si
dedichi “a un’incessante costruzione di
anticorpi per una società malata”.
Dalla diversità all’assimilazione, dalla
rielaborazione critica alla ricreazione di
forme e contenuti non soltanto artistici,
ma addirittura sociali e politici, il Butō
continua a offrirci materiale per il pensiero
e la sperimentazione, purché sappiamo
rimanere, come lui, in movimento.
teatridellediversità
53
Butoh, Japanese modern dance, is nowadays an integral part of the contemporary
dance in the Western world, too. However,
if the dancers have soon assimilated some
of its principles , the critical interpretation
has been going over the years through
different contrasting phases leading to
new perspectives, which are at present
the subject matter of the research.
Visto a Gibellina
QUANDO SI RI-DONA
tempo al dolore
Intervista a Virgilio Sieni su Sonate Bach di fronte al dolore degli altri, spettacolo ispirato
anche a Susan Sontag ed Adriano Sofri e presentato a luglio alle Orestiadi
Rubriche Danza
Abstract
Kazuo Ohno
di Paolo Randazzo
P
Ko Morobushi
Tatsumi
Hijikata
uò trarre in inganno la danza di Virgilio Sieni: allusiva,
rarefatta, colta, intrecciata di movimenti e intuizioni che
però non si fermano a proporre vuota bellezza, ma si
aprono su panorami mentali assai vasti oppure si retroflettono,
si frantumano, decostruiscono per poi riaggregarsi in equilibri
dinamici e in architetture che lasciano spazio alla vertigine del
pensiero, al dolore, alla consapevolezza della responsabilità. Lo
abbiamo incontrato, il 14 luglio scorso, a Gibellina, nel contesto
delle Orestiadi dove ha proposto “Sonate Bach, di fronte al
dolore degli altri”, uno spettacolo nato da una riflessione che
parte dal famoso saggio di Susan Sontag (Davanti al dolore degli
altri) per arricchirsi dello spessore culturale e della sensibilità di
Bach (le Sonate BWV 1027, 1028, 1029, eseguite in scena da
Mariodavide Leonardi alla viola e da Alessia Zanghì al pianoforte)
e della bellezza struggente di un frammento del documentario
girato nel ’94 da Adriano Sofri “I cani e i bambini di Sarajevo”.
Perché Bach per raccontare il male e il dolore? Perché Bach
è, innanzitutto, un’opportunità straordinaria da cogliere in
quanto la sua musica crea quasi un’urbanistica, un qualcosa
che ha a che fare non solo con la geografia e la topografia di un
territorio indicibile, ma un contesto architettonico e allo stesso
tempo profondo e sacrale. Un’urbanistica e un’architettura già
predisposte per accogliere quel che avevo in mente per questa
“dedica”, per questo tentativo di riportare a memoria con la
danza una serie di tragedie avvenute negli ultimi trent’anni.
Inoltre la musica di Bach è capace di decostruire il corpo stesso,
passando da simmetria ad articolazione, dall’approfondimento
su segmenti e frammenti minimi all’associazione, all’analogia,
alla dimensione complessiva di un corpo che si costruisce e
decostruisce continuamente e che quindi si rinnova.
Come può la danza inventare un corpo “epico”, ovvero
un corpo che possa e sappia “raccontare”? La danza non
racconta: non c’è in partenza l’idea di danzare quei dati
eventi, quelle tragedie, tutt’altro. Nel caso di “Sonate Bach”
ad esempio, attraverso una ricerca fatta con centinaia di fotografie scattate dai reporter di quelle tragedie (Sarajevo, Kigali,
Srebrenica, Tel Aviv, Jenin, Baghdad, Istanbul, Beslan, Gaza,
Andijan, Kabul), abbiamo cercato di ricostruire lo strazio di
quei corpi: l’atteggiamento fondamentale è stato quello di
ri-donare tempo a quei momenti, a quelle momentaneità
puntuali. Una dedica di tempo. Poi è chiaro che il corpo,
riprendendo quelle figure, cercando di metterle in dinamica,
costruendo una mappa, va ad accennare a quegli eventi. Ma
siamo in una forma di completa trasfigurazione: non si tratta
di raffigurare la tragedia, viceversa si tratta di portare bellezza
54
seguendo quello che forse è il compito vero del corpo; come
se la tragedia annunciasse quella bellezza infinita che si annida in ogni attimo. Questo elemento dialogico apre poi il
campo a prospettive molto ampie: non si cerca di alleggerire
quel determinato momento ma di mettere distanza tra noi
ed esso, e ripensarlo, rivederlo sotto un altro punto di vista.
Un elemento fondamentale di questa coreografia è il contatto
profondo con emozioni che provengono dalle arti figurative.
Sicuramente si tratta di un elemento molto presente: il lavoro
delle “sonate Bach” è molto “sottratto” e si realizza attraverso
i corpi e con i corpi, non tanto nella creazione di “unisoni”
o di figure lineari, quanto di corpi che si rivelano articolati,
apparentemente disorganici, irregolari, quasi a cercare una
fessurazione spirituale in ogni istante. Inoltre questi lavori si
possono pensare come tante danze, ciascuna tale da poter essere
rappresentata o vista autonomamente. Ed ancora il fatto che
il tutto avvenga in un luogo che è uno spazio (non recinto,
Abstract
I
n this interview Virgilio Sieni, Tuscan choreographer among the
most popular on the European scene, explains the genesis and
development of the show “ Sonate Bach, in front of other’s sorrows”
The choreographer explains the significance of Bach’s music in the
organization of the show which, inspired by the famous essay by
Susan Sontag “Regarding the pain of others”, unfolds in a run of
eleven stages corresponding to as many places in the world that, in
recent years, have been marked by cruelty and massacres (Sarajevo,
Kigali, Srebrenica, Tel Aviv, Jenin, Baghdad, Istanbul, Beslan, Gaza,
Bentalha, Kabul). The show ends with a fragment of the documentary
by Adriano Sofri “Dogs and children in Sarajevo.”
teatridellediversità
55
Perché parla di artigianalità per spiegare
il suo lavoro?
La danza è un’arte che necessita di
disponibilità di tempo, tempo e durata,
Quasi la conferma di una dimensione
del fare artistico che non dimentica di
avere una responsabilità sul reale.
È così, ma vale anche il discorso inverso.
L’arte fa parte della vita, è la vita stessa
ed anche la devianza della vita. L’artista è
colui che in forma umile riesce a mettere
in luce qualcosa che non appartiene alla
comune percezione dell’essere e della vita:
è un boscaiolo, direbbe Heidegger, che
riesce ad orientarsi in un bosco, a trovare
in esso sentieri che altri non vedono e a
indicarli. Poi, certo, sta a noi e al pubblico,
provare a seguirli, a caderci dentro, a farci
interpellare profondamente.
Sonate Bach di fronte al dolore degli altri
56
MONTE VERITA’
insomma di un contesto d’officina che
sia permanentemente laboratoriale, di
un’attitudine alla trasmissione diretta,
quasi tattile, dei saperi. Un’attitudine che
caratterizzava le antiche officine artigiane e
caratterizza (deve caratterizzare la danza):
il danzatore studia sì delle tecniche, dei
codici, ma ogni codice, come si sa, è
un materiale morto che occorre portare
in relazione dialogica con la vita. Un
lavoro lungo basato sulla cura di migliaia
di movimenti e che non si esaurisce
nell’effervescenza, nella stravaganza, ma
nemmeno nella serietà o nella forza di
un’idea sola. Un lavoro “antiproduttivo”,
che esalta anche cose non eclatanti che
richiedono un’attenzione diversa.
tra rivoluzione espressiva
e utopia esistenziale
Tra il 10 e il 14 ottobre scorso si è celebrato in Canton Ticino il centenario dell’arrivo in
quei luoghi di Rudolf Laban e, simbolicamente, l’inizio della danza moderna europea
di Eugenia Casini Ropa
I
Biennale Danza – Venezia giugno 2013
Abitare il mondo
Trasmissione e
pratiche
L’incarico come nuovo direttore della sezione Danza
della Biennale di Venezia, che ha investito il
coreografo fiorentino Virgilio Sieni, ha portato ad
ideare per il 2013 un ciclo di percorsi di formazione
e creazione che si è concluso in brevi spettacoli
aperti al pubblico. Una tre giorni che ha letteralmente
invaso la città - una dozzina gli spazi utilizzati per
le performance a San Marco e all’Arsenale coinvolgendola non solo come spettatrice ma come
partecipe del fenomeno Danza. Hanno preso
parte alla Biennale College - Danza (progetto volto
alla formazione di giovani artisti offrendo loro
l’opportunità di operare a contatto di maestri per
la messa a punto di nuove opere) 70 danzatori e
50 cittadini (madri e figli, giovani e anziani) che si
sono approcciati alla danza praticandola e vivendola
direttamente. Sieni, che da anni porta avanti un
progetto di trasmissione del gesto con persone di
differenti età , professionisti e non, in varie regioni
d’Italia e all’estero, ha offerto come primo risultato
del suo nuovo incarico 26 coreografie originali
distribuite in diversi capitoli - Prima Danza, Vita
Nova, Atleta Donna, Visitazioni, Agorà, Invenzioni,
in un unico racconto dal titolo Abitare il mondo.
(Gloria De Angeli)
(foto di Maria Rosaria Cherchi)
C’è in questo lavoro un aspetto di
riflessione, se non proprio politica, almeno
sul senso profondo della contemporaneità?
Chi lavora attraverso il corpo in una
forma artigianale lo considera come
espressione politica rivoluzionaria. Lo
spettacolo cessa d’essere intrattenimento:
si tratta di acquisire una consapevolezza
del reale, di portare ad altri, attraverso
questa artigianalità, questa consapevolezza
e di iniziare (insieme) un percorso. Ci
si interroga non tanto sul senso dello
spettacolo stesso, ma sul senso dell’abitare
il corpo e sull’esercizio dello sguardo che
si chiede al pubblico.
Rubriche Danza
ma radura, come direbbe la Zambrano)
di sei metri per sei, che cioè si presenti
quasi come una tavola su cui i danzatori
scrivono dei segni, ecco anche questo può
significare un’adiacenza col concetto di
opera pittorica. In questo senso vanno infine
letti anche altri due elementi: i costumi,
un trovarobato degli anni settanta, ottanta
(un meticciato di colori, di toni proprio
degli anni delle tragedie in questione) e
le didascalie proiettate in alto quasi a mo’
di cornice dell’aspetto visuale e di epigrafe
tombale, insieme elemento di cesura tra
un episodio e l’altro e tra il tempo della
danza e il tempo dell’evento tragico.
n quattro giornate turgide di memorie, emozioni, riflessioni,
ricerche e corpi danzanti, Laban, il suo pensiero e la sua opera
sono stati ricollocati nel luogo e nel periodo delle origini,
entrambi ribollenti di sperimentazioni fondanti, e insieme
si è toccata con mano la vitalità dei suoi principi e delle sue
scoperte ancora oggi.
Monte Verità, collina che sovrasta Ascona nel Canton Ticino
e si affaccia sul Lago Maggiore, è stata, nei primi decenni del
secolo scorso, il luogo emblematico di raccolta scomposta delle
teorie e delle sperimentazioni più radicali di riforma della vita e
di rigenerazione dell’essere umano elaborate in Europa, messe
alla prova da una comunità singolare e variegata di residenti.
Negli anni ha visto passare esuli, dissidenti ed eccentrici di ogni
tipo: artisti, politici, filosofi e scienziati (da Mühsam a Toller,
da Jung alla Duncan, da Krishnamurti a Hesse, da Schlemmer
a H.H. Lawrence, da Fromm a Kérenyi ecc.) insieme a molti
altri visitatori e osservatori più o meno illustri che ne hanno
promosso e spesso mitizzato il ricordo. Sorta inizialmente come
sanatorio, per “bagni di aria e luce”, negli anni Dieci la colonia
individualista, vegetariana e naturista di Monte Verità era
popolata di “stranieri” di ogni provenienza, dissidenti rispetto
alla società dell’epoca ed eterogenei tra loro, ma accomunati
da un’enorme tolleranza etica, politica e religiosa e dalla
condivisione di un’esperienza di vita alternativa. La riforma
della vita (Lebensreform) che qui si perseguiva, con tendenze
anarcoidi, esoteriche e utopistiche, passava sostanzialmente
attraverso la rigenerazione e la liberazione dell’uomo - inteso
nella sua totalità di corpo, anima e intelletto - e delle sue
potenzialità fisiche, psichiche e mentali represse e controllate
dalle varie costrizioni della civilizzazione, attraverso il ritrovato
contatto con la natura e le sue leggi primarie. Modi di vita
semplici, igienici e salutistici (vegetarismo, eliminazione di
alcool e tabacco, vita all’aperto, esercizio fisico, abiti sciolti o
addirittura nudismo, prime manifestazioni di quella cultura del
corpo - Körperkultur - che si sarebbe sviluppata nel decennio
successivo in Germania) si accompagnavano alla coltivazione
di orti e alla produzione autonoma ed essenziale di cibi,
mobili, tessuti, indumenti e calzature. Psichiatri e psicanalisti
d’avanguardia sondavano lì i misteri della mente e della psiche
sperimentando terapie innovative e azzardate; filosofi eccentrici,
teosofi, mistici orientali e utopisti sognatori elaboravano le loro
visioni dell’universo e del destino dell’Uomo Nuovo che avrebbe
modificato l’avvenire, mentre pittori esaltavano e immortalavano
la salute e la bellezza dei corpi nudi, idealizzandoli in un’aura
pagana di divinità.
Il corpo vivente e senziente e il suo rinnovato rapporto con la
propria natura e con quella del mondo d’intorno erano con
evidenza al centro del progetto di riforma per una società nuova,
ed è quindi facilmente comprensibile come la danza, elevazione
poetica e simbolica del corpo, potesse essere bene accolta come
arte rappresentativa dello spirito del luogo.
Nell’estate del 1913 Rudolf von Laban, artista figurativo,
danzatore e coreografo di origine ungherese, con un gruppo di
giovani allievi e collaboratori, insedia a Monte Verità una scuola
estiva d’arte (arti del movimento, del suono, della parola, della
forma), ma soprattutto dà inizio a una intensa sperimentazione
intorno a quella che aveva da poco individuato come arte primaria
dell’uomo: la danza. È il momento per lui, trentenne, in cui
desiderio e volontà sono al massimo livello, la sua mente è un
crogiuolo di idee ed è in atto un suo sforzo di autodefinizione che
va di pari passo con quello di investigazione della danza, tanto
nella sua essenza quanto nella sua valenza sociale e pedagogica.
Già gli è chiaro che il movimento è “l’esperienza fondamentale
della vita”, che la danza appartiene a tutti (“ogni uomo è un
danzatore”) e che in essa si esercita una forza che nasce dal più
profondo livello di coscienza dell’essere. Ma occorre riuscire
ad afferrare il processo intimo del movimento del corpo nello
teatridellediversità
57
Rubriche Danza
cinetografia (Kinetographie), la notazione più completa della
danza di cui siamo in possesso. E ancora il duplice, costante
lavoro sull’artista e sull’uomo comune, così come sull’individuo
con le sue potenzialità personali di espressione corporea e
sul gruppo, quel “coro di movimento” (Bewegungschor) che
avrebbe dovuto dar corpo e vita alla mitica comunità danzante.
Nel 1917, in piena guerra mondiale, Laban dà vita a Monte
Verità a una grande, evocativa “Festa del sole” per l’Ordine del
Tempio d’Oriente, espressione piena del versante più mistico
ed esoterico del suo pensiero. Certo il momento di più piena
fusione utopica con lo spirito della colonia, che attraverso di lui
celebrava l’espressione rituale della propria alterità, traducendovi
le mitologie culturali della propria utopia esistenziale.
Oggi Rudolf Laban è conosciuto come grande maestro europeo
della danza moderna, padre della sua concezione espressiva,
pedagogica e terapeutica sulle basi di una vera e propria
scienza del movimento che continua a fruttificare nell’arte
contemporanea. Il Monte Verità è divenuto museo di se stesso
e cerca di mantenere viva la propria memoria con studi rigorosi
e commemorazioni dell’antica vitalità, anche salvaguardando
il fascino naturale del luogo. L’incontro di oggi con Laban e
la sua eredità vivente ha rinnovato un’unione momentanea e
felice, sotto il segno della libertà e dell’intelligenza creatrice.
Abstract
I
n the summer of 1913, Rudolf Laban, the great theoretical father of European modern dance, settled in Monte Verità in Canton Ticino where a
peculiar community of utopists were testing a radical reform of the way of living, a life close to nature. Consequently, the new and revolutionary
kind of dance brought by Laban and meant to express the individual’s and the community’s feelings, came in contact with the cultural and social
beliefs of the residents, who recognized in this kind of dance the ritualization of their existential utopia.
Monte Verità Edificio centrale della colonia (1904)
58
NELLA PROVINCIA DI TERAMO
Le solitudini
di Terrateatro
Produzione, formazione e l’organizzazione di due festival sono alla base della
significativa esperienza artistica abruzzese che ha il coraggio di esprimere valori collettivi
Vito Minoia intervista Ottaviano Taddei
Teatri Paralleli è una delle due significative
iniziative che Terrateatro organizza in
Abruzzo e che ho avuto finalmente il
piacere di conoscere di persona. Come
è natal’idea di organizzare il Festival
e qual è il segreto di una così calorosa
accoglienza del territorio?
Teatri Paralleli nasce nel 2006. Dopo una
pausa l’anno, continua a proporre spettacoli
e momenti di laboratorio e di studio
ogni mese di luglio. Nasce all’interno del
Centro Diurno Socio-Educativo della Val
Vibrata (TE) dove la Cooperativa Sociale
La Formica è impegnata dal 1994 per lo
sviluppo dell’autonomia e per l’inclusione
sociale di persone diversamente abili. Grazie
al contributo teatrale della compagnia
Terrateatro e al coinvolgimento iniziale
dell’Associazione Culturale L’Istrione, ci
sembrò allora un approdo naturale quello
di una rassegna di teatro sociale e di un
confronto con altre realtà nazionali, da legare
all’attività teatrale dei ragazzi e alla loro
grande motivazione. Col tempo, e grazie
ad un lavoro continuativo sul territorio da
parte della Cooperativa La Formica e di
Terrateatro, che hanno in questo tempo
creato una rete importante, il Festival ha
potuto godere di una sempre maggiore
attenzione da parte del territorio. Questo
aspetto, facilitato nelle ultime edizioni
anche dal supporto del Comune e della
Pro Loco di Sant’Omero, dove ora si svolge
l’Iniziativa, fa di Teatri Paralleli uno dei
momenti più significativi dei cartelloni
estivi nell’intera regione Abruzzo. Riesce a
catalizzare l’attenzione di un pubblico che
sente di poter trovare negli spettacoli del
festival un alto momento di riflessione e di
arte nuova. Credo anzi che nel tempo un
atteggiamento che poteva essere di curiosità
e di compatimento, si sia trasformato in un
interesse vero nei confronti di una proposta
unica sul nostro territorio.
Terrateatro, l’associazione teatrale che
coordini insieme a Cristina Cartone e che
si avvale di diverse altre collaborazioni,
produce anche spettacoli e
cura laboratori in contesti
socio-educativi. Quale
l’attività prevalente e con
quali principali obiettivi?
Terrateatro nasce dal 1999. Fin
dall’inizio opera su tre fronti:
la produzione di spettacoli,
la formazione (soprattutto
attraverso Scuole di Teatro per
adulti e bambini e laboratori
nelle scuole) e l’organizzazione
di due festival (oltre a Teatri
Paralleli organizza a Giulianova
anche il festival di Teatro
Contemporaneo e Teatro
Ragazzi Terre di Teatri). Negli
ultimi tempi ha assunto una
grande importanza il lavoro
nelle scuole e in contesti di
aggregazione giovanile, dove i
suoi operatori hanno la possibilità di mettere
in campo le idee legate al teatro come
momento educativo e di socializzazione. Il
lavoro con i bambini, con i ragazzi e con gli
adulti parte sempre dal principio generale
di una messa in gioco delle possibilità
espressive ed umane dei partecipanti. In
questo senso, il teatro è inteso come uno
strumento attraverso il quale ognuno può
trovare nuove modalità di comunicazione
e di socialità. In un periodo complicato
come quello attuale, nel quale è assai
difficile proporre produzioni di teatro
contemporaneo, il lavoro laboratoriale nei
vari ambiti diventa, per una compagnia
come la nostra, uno straordinario momento
di possibilità rispetto alla ricerca e alla
sperimentazione. E’ ovvio che la produzione
di spettacoli resta per Terrateatro il momento
di studio e confronto più importante, il
momento creativo per eccellenza in cui
troviamo la linfa vitale per tutto il nostro
lavoro. Anche in questo ambito, l’aspetto
sociale è diventato un luogo privilegiato in
cui sperimentare nuovi linguaggi.
“Lo spettacolo deve metterci in crisi,
Rubriche Buone pratiche
spazio e nel tempo, la formazione dei suoi ritmi, le sue modalità
espressive, i suoi flussi energetici. Per raggiungere quella “danza
libera” dai vincoli delle convenzioni culturali che va ricercando
e che recuperi il suo perduto significato antropologico e
rituale, lo seduce il sogno utopico di una comunità danzante,
un “tempio vibrante” fondato su di un’esperienza comune di
vita, che potrà costituire la futura “cattedrale dell’avvenire”.
E Monte Verità appare certo un luogo ideale per mettere alla
prova questa possibilità.
Tra il 1913 e il ‘14, nel lavoro sperimentale di Laban sono già
presenti in potenza tutti gli elementi che verranno in seguito
sviluppati attraverso una ricerca durata una vita. L’interesse per
un’arte teatrale totale (Tanz-Ton-Wort - danza-suono-parola)
in cui le fondamentali forme dell’espressione umana trovino la
perfetta interazione, ma anche l’affermazione della peculiarità
della danza come arte in sé completa (da cui le molte esperienze
di danza senza musica messe principalmente in atto da Mary
Wigman, allora sua preziosa assistente e in seguito artista
massima di quella danza d’espressione -Ausdruckstanz- nata da
loro). La connaturata espressività del movimento che nasce da
un impulso interiore. L’individuazione di energia, spazio e tempo
(Kraft-Raum-Zeit) come elementi fondamentali della danza e
l’avvio di quel metodo di analisi del movimento ancora oggi
fondamentale per artisti e studiosi, insieme ai primi tentativi di
deve stimolarci per giorni, costringerci
a darci dei limiti, intesi come confini
definiti dentro ai quali permetterci
un tempo di riflessione”. Ho trovato
questo riferimento nella vostra scheda
di presentazione. Mi ritorna in mente
Brecht ed un certo teatro d’impegno civile.
Quali i riferimenti culturali e teatrali
che sottendono la vostra ricerca umana
ed artistica?
Pensare a Brecht significa pensare al senso di
responsabilità civile che ogni essere umano
dovrebbe avere. Il teatro è uno dei momenti
più importanti della dimensione umana,
nel quale ognuno può riflettere sugli alti
significati della vita e sul coraggio di sentirsi
collettività. E’ molto più semplice starsene
in disparte, in un angolo di solitudine. Ma
questo non può appartenere a chi fa della
propria esperienza sulla terra un grande
atto di condivisione. Sulla scena questo
atto si ripete e si rinnova ogni volta. Noi
siamo in grado di impegnarci nella società
attraverso una presa di coscienza forte
di fronte alle tematiche che da sempre
appassionano l’umanità. E’ necessario
soltanto convincersi della partecipazione
teatridellediversità
59
Insegnando con passione
a Milano dal 1978
L’importanza di figure poetiche, mimi e clown in una nuova rubrica fatta di diari di viaggi,
danze, poesie. Si parte con una chiesa sconsacrata e due allievi di Jacques Lecoq
Ginevra Sanguigno intervista con Marina Spreafico e Kuniaki Ida
Il cappotto, Terrateatro
attiva. Anche per queste ragioni, crediamo molto nel lavoro
dell’attore come espressione alta dell’individuo che si confronta
con se stesso e con gli altri. E qui la lezione di Grotowski rimane,
per noi, ancora il riferimento più importante.
Beckett (al quale avete dedicato una trilogia), Gogol, ma anche
tematiche impegnative come l’immigrazione clandestina, la
guerra, la storia di Chiara d’Assisi, fino alle storie della vostra
terra d’Abruzzo, come quelle del Gran Sasso o intrecciate
con opere di autori come Pietro di Donato o Fedele Romani
contraddistinguono le vostre creazioni artistiche. Esiste un
filo rosso che attraversa l’intera ricerca?
Uno dei soggetti più riusciti del pittore Salvatore Fiume sono
le Isole di Pietra, dei monoliti solitari inseriti in un’atmosfera
rarefatta. Se esiste un filo rosso nelle tematiche affrontate negli
spettacoli da Terrateatro è proprio questo: le solitudini. Quelle degli
immigrati, quella di Vladimiro ed Estragone, quella dei personaggi
straordinari che hanno popolato la storia dell’umanità, oppure
quella delle montagne parlanti della nostra regione. Partiamo
da queste solitudini, però, per ribadire quanto siamo uniti, gli
uni agli altri, quanto l’essere umano abbia bisogno di sentirsi
collegato con il mondo che lo circonda. E questo è talmente vero
che, paradossalmente, attraverso i nuovi canali di comunicazione,
ognuno voglia sentirsi parte di un tutto, anche se con modalità
solitarie che non comprendo e che ancora mi lasciano perplesso.
Nel teatro abbiamo invece la possibilità di sentirci vicini attorno
ad una storia, un tempo sottratto all’individualismo e vissuto
in collettività.
“Vivo nel vuoto” è invece il titolo del vostro ultimo spettacolo
con gli attori diversamente abili del Teatro delle Formiche,
metafora della passeggiata che il funambolo Philippe Petit
nel 1974 eseguì con la fune tra le Twin Towers. “Un pretesto
- cito ancora un vostro scritto - per parlare di solitudini che
si incontrano”. Quali le modalità di lavoro con gli attori del
Teatro delle Formiche e quali i risultati raggiunti nel lungo
percorso sin qui intrapreso?
“Vivo nel Vuoto” è uno spettacolo straordinariamente importante
per Terrateatro: per quello che rappresenta a livello di poetica,
60
perché è stato riconosciuto dalle Istituzioni teatrali abruzzesi (Teatro
Stabile d’Abruzzo), perché è un punto di incontro tra modalità di
lavoro che sulla scena hanno trovato una sintesi. Ancora una volta,
appunto, le tematiche della solitudine dell’uomo contemporaneo
tornano in gioco, e ancora una volta il racconto dell’attore lancia
una fune “ tra due punti che altrimenti sarebbero rimasti divisi
per sempre”, per citare Petit. Il Teatro delle Formiche è un luogo
di ricerca; qui si parte dal corpo come strumento primario di
espressione e di creazione, il testo ha una importanza relativa, e
torna nel lavoro con prepotenza solo verso la fine del percorso.
Quello che si è raggiunto in questi anni di ricerca con gli attori
diversamente abili è la consapevolezza di se stessi, delle proprie
possibilità, il sapere che sul palcoscenico si può urlare la propria
presenza nella società. Da qui, da questo stato d’animo, parte
la scommessa di immaginare nuovi linguaggi contemporanei
che sfidino l’uomo alla radice, vale a dire dentro alle verità più
ataviche e sensibili. Tutti siamo in grado di reinventare il mondo,
a partire dalla bellezza dell’animo e dalla meraviglia che può
esprimere un corpo offeso.
Abstract
T
he interview to Ottaviano Taddei reveals the enthusiastic welcome that the artistic experience of Terrateatro received in its
own territory, Abruzzi, where it operates. It is a civil theatre with
disabled actors as protagonists and with the tendency to put on
shows by contemporary theater authors such as Beckett and Gogol,
moreover it also focuses on themes as illegal immigration, war, the
story of Chiara from Assisi or stories about Abruzzi, such as the one
of Gran Sasso or other experiences intersected with works of authors
as Pietro di Donato and Fedele Romano. This generated the bet of
imaging new contemporary languages that may challenge men’s
roots or, in other words, the most ancestral and sensitive truths.
“Everybody is able to reinvent the world, starting from the beauty
of the soul and the wonder expressed by a hurt body”.
I
Rubriche Con le radici nel vento
I FONDATORI DEL TEATRO ARSENALE
ncontro Marina Spreafico(*) e Kuniaki
Ida (*), al Teatro Arsenale. Avevo 20 anni
quando ho scoperto questa magnigfica
chiesa sconsacrata a quindici minuti a
piedi da Piazza Duomo a Milano, sede
del Teatro. Senza avere nessuna cultura
teatrale, ma con la voglia di intraprendere
un percorso con bravi maestri, ho scelto
il Teatro Arsenale. Per la simpatia che
mi hanno ispirato gli insegnanti, che
incontro per la prima volta intenti a
dipingere l’ingresso della scuola: era il
1980. Oggi posso dire che il mio istinto
è stato perfetto, non potevo trovare
migliore scuola e migliori maestri!
Marina , Kuniaki come è nata la scuola
del teatro Arsenale e quando ?
M.: La scuola l’abbiamo fondata nel
1978. Avevamo frequentato la scuola di
Lecoq a Parigi , dove siamo arrivati da
percorsi diversi
K.: Io venivo dalla Toho University una
accademia di teatro giapponese e avevo
conosciuto Lecoq tramite un insegnante
della Toho che aveva a suo tempo
frequentato la sua scuola.
M.: Io vivevo a Roma , una sera assisto
a uno spettacolo di Alberto Vidal , uno
scrittore spagnolo, ne rimango molto
colpita e ne parlo con lui , che mi rivela:
“...è tutto merito di Lecoq”, io non sapevo
neanche chi fosse...
La collaborazione con Lecoq è nata dopo
avere fondato la nostra scuola; eravamo
diventati amici e ci intendevamo molto
bene, tra noi c’era una bella sintonia
culturale e umana. Poi (nel 1999 ) Lecoq
è morto e subito dopo la sua morte c’è
stato una specie di terremoto nella scuola
di Parigi; la moglie mi ha chiamato
chiedendomi di andare a insegnare a
Parigi perchè riteneva fossi la persona piu’
adatta, e così ho fatto, per qualche anno
dopo la sua morte.
Marina e Kuniaki, arrivate da tradizioni
culturali diverse, la scuola di Lecoq
ha unito le vostre esperienze? Avete
poi fondato la scuola. C’è stata una
intenzione di fondere diversi linguaggi
teatrali (occidente / oriente), esplorarne
nuovi ?
K.: L’Accademia di teatro che ho
frequentato in Giappone era multiforme,
studiavamo il teatro tradizionale
giapponese, ma anche il teatro moderno;
grazie all’insegnante che era stata allievo di
Lecoq e aveva introdotto nuove forme e
metodi di lavoro per l’attore.
In seguito mi sono orientato a lavorare con
Kobo Abe (3), che è uno scrittore e aveva
una compagnia di teatro. L’indirizzo che
mi indicava Abe è quello che da tempo ho
scelto e che mi interessa di piu’.
Alla fine dell’università, intorno ai 25
anni , sono partito per l’Europa , e sono
entrato nella scuola di Lecoq. Ad oggi è
diificile dire cosa sia rimasto di questi
insegnamenti e o di quelli...
M.: Io credo che tutti gli ingredienti
provenienti dai diversi linguuaggi teatrali
e quindi corporei, gestuali, da diverse
culture, si siano miscelate insieme,
creando una diversa alchimia di linguaggi.
Ci parli della relazione tra sport e teatro?
Ne parla Lecoq nel libro “Il Corpo
Poetico” (Ubu edizioni), e attribuisce
allo sport una valenza importante nella
formazione dell’attore.
Lecoq veniva dallo sport, era stato
fisioterapista anche sportivo, in qualche
teatridellediversità
61
Ci puoi parlare del vostro lavoro con la
maschera ? Ricordo l’uso della maschera
neutra e larvale e poi la maschera della
commedia dell’arte.
Il percorso con la maschera è quello
che noi mutuiamo da Lecoq; è stato
fondamentale nella mia formazione e lo
considero fondamentale nella formazione
degli studenti. Un percorso che ti porta
adagio fuori dal quotidiano, dal rapporto
psicologico con le cose, ed eleva il tuo
modo di recitare a un livello stilistico; ti
aiuta a trovare un linguaggio che non
sia quotidiano, una lingua articolata. La
maschera ti aiuta ad approfondire quello
che è essenziale nel rapporto comunicativo,
e fa cadere il gesto quotidiano, il gesto
rotondo, il gesto che non significa niente,
cioè ti porta dalla gesticolazione al gesto.
Quando hai una maschera sul viso, per
esempio quella larvale, il tuo corpo diventa
la faccia, quel corpo/faccia deve diventare
espressivo, comunicante, altrimenti la
maschera non funziona. E’ un processo
didattico fondamentale. Quando poi
togli la maschera, il linguaggio che hai
creato ti rimane dentro e si esprime
autonomamente.
62
Ci puoi parlare del lavoro sul buffone?
Ricordo il processo proposto da Kuniaki
per la creazione del personaggio: a
occhi chiusi abbiamo modellato una
statuetta di argilla pensando al nostro
buffone personale.
Copiando la
statuetta creato il nostro costume. E poi
lo studio delle opere di Bruegel e Bosh ,
grande fonte di ispirazione.
M.: Il buffone è un essere mascherato
dalla testa ai piedi, il cui corpo prende una
forma che non è la sua originale, è una
specie di maschera globale. Ha anche una
caratteristica caricaturale; per esempio hai
una grande pancia o sei magro come un
chiodo, ti si accorciano braccia e gambe. Ti
inventi un altro corpo ... paradossalmente
questo altro corpo/maschera invece di
essere una costrizione diventa una grande
libertà. Il buffone appartiene al mondo
della grande caricatura alla Bosh, alla
Bruegel, che è una caricatura estrema della
natura umana.
esperienza mi ha fatto riflettere sul tema
della identità. La proponete ancora?
M.: E’ una esperienza che proponiamo
nel primo anno di scuola: il lavoro
sul personaggio; per personaggio si
intende non uno della letteratura, ma
un’altra persona. Invitiamo gli studenti
a trasformarsi in qualche modo, in altra
persona a prenderne gli abiti, copiandolo,
identificandosi. Con qualcuno di molto
diverso da loro, nella forma fisica nel
carattere e nell’età. Quest’anno un ragazzo
del corso si era invecchiato di non so
quanto ed era talmente credibile che gli
hanno chiuso in faccia le porte del tram,
camminava lentamente , ci era rimasto
malissimo . .
Per noi è un esercizio per il giovane attore,
che da notevoli risultati ; è il gusto della
trasformazione, è un esercizio forte perchè
vai fuori dalle mura protettive del teatro,
ci vuole un bel coraggio, e aiuta nel lavoro
teatrale.
Lavorare sul buffone, pensi che
possa avere un effetto scaramantico o
terapeutico sull’attore che finalmente si
libera delle sue paure sui propri difetti
e altro?
M.: Penso di si, è una rivolta contro tutte
le deformazioni, è il regno del deforme che
prende il potere.
Ci puoi parlare del lavoro sul tema della
follia? Ricordo al tempo, ci avevate
aiutato a organizzare una uscita all’ex
ospedale psichiatrico di Mombello;
è stato subito prima che chiudessero
definitivamente i manicomi, negli anni
‘80. Ho due ricordi molto vivi di quella
esperienza:
1) una ragazza, in una stanza imbottita,
nuda, che si buttava contro le pareti e
gridava; ci hanno aperto una piccola
finestra per vederla .
2) un uomo affetto da schizofrenia,
che camminava per il parco, con un
uccellino morto attaccato alla corda
intorno alla vita.
M.: Mi ricordo bene, avete poi presentato
un saggio su questa esperienza; è stato
molto interessante. Avevate scelto voi il
tema all’interno di una inchiesta fatta
sugli istituti psichiatrici. Noi facciamo
sempre scegliere agli allievi, non mettiamo
nel programma l’argomento follia, sono
gli allievi che scelgono alla fine del loro
primo anno.
Gli “argomenti indagine” che noi facciamo
al di fuori della scuola, sono argomenti
scelti dagli allievi; per esempio quest’anno
un gruppo ha fatto un lavoro sui pesci, e
un altro sui luoghi abbandonati, quindi
nulla di più lontano da quello che hai
fatto tu .
Erano anche anni storicamente diversi, le
persone erano interessate a questo aspetto,
adesso c’è meno interesse e c’è anche più
difficoltà a entrare in questi luoghi.
La scuola su di me aveva sortito un
effetto anche liberatorio, oltre a farmi
scoprire l’amore per il teatro; penso che
non tutti i vostri allievi arrivino con
l’intento di diventare attori...
E’ vero, la scuola può facilitare questo
processo liberatorio, ma per noi non è lo
scopo. Questa è una scuola per attori; io
invito le persone che si iscrivono a pensare
questo percorso indipendentemente
dall’uso che poi ne faranno, come un
percorso teatrale. Altrimenti si sconfina in
territori che non conosciamo, per i quali
non siamo attrezzati e non è il nostro
intento.
Durante la scuola ci hai fatto fare
l’esperienza di entrare nei panni di
un altro. Uno dei suggerimenti era di
entrare nel “contrario” di noi stessi, di
scendere in strada e camminare; portare
questa nuova “maschera sociale” in
giro ogni settimana, almeno una volta
per qualche ora. Per esempio io amavo
colori e ho scelto di andare in giro
vestita di grigio, guardando per terra.
Ho provato qualcosa di inaspettato:
mi sono sentita invisibile in mezzo alla
gente, che non esistevo per nessuno,
nessuno mi guardava; quando sei
giovane e non solo, hai voglia di
essere ammirata e di piacere... Questa
Marina Spreafico
Rubriche Con le radici nel vento
modo si è trovato nel teatro partendo
dallo sport. Noi anche, posso dire,
veniamo dal mondo dello sport; l’attività
fisica nella nostra esperienza è sempre
stata importante, judo arti marziali, io ho
sempre fatto agonismo sportivo. Lo sport
e il teatro secondo me si assomigliano, nel
senso che uno si gioca il tutto e per tutto in
quel momento, e nel mio modo di vedere,
tra lo sport e il teatro ci sta di mezzo il
circo. Per due motivi credo: per il circo ci
vuole grande competenza e allenamento
e l’altro motivo è la solidarietà del circo;
quando tu tieni la fune di salvezza di un
tuo compagno che salta se sei distratto lo
ammazzi.
Per me questo giocarsi il tutto e per
tutto in una solidarietà che non annulla
la propria persona, ma valorizza l’altro,
è fondamentale nel rapporto del teatro.
Nello sport poi è molto chiaro: sai fare
o non sai fare. Nel teatro è la stessa cosa;
o sai correre o non sai correre; o studi e ti
alleni o non lo puoi fare.
Mi chiedono se tengo corsi per adolescenti;
per me un adolescente non è pronto a fare
teatro, trovo che un adolescente abbia
un corpo giovane e resistente, più adatto
a imparare una disciplina, a suonare uno
strumento, a danzare, una disciplina dove
applicarsi e avere il piacere di farlo. Il teatro
è a un livello altro, ci vuole una maturità
della vita. Per me un adolescente è adatto
a fare qualcosa dove ci vuole un corpo
giovane; nel teatro non necessariamente
hai bisogno di un corpo giovane, anzi.
Ti ho fatto questa domanda perchè
nella mia esperienza, come clown che
opera nel sociale, in situazioni di disagio
anche forte, sento il confine sottile con
teatridellediversità
63
Ho letto che la scuola di Lecoq aveva
sede in una sorta di chiesa sconsacrata.
L’Arsenale è una chiesa sconsacrata e
un posto speciale, sede del comitato
Vietnam negli anni ‘70, e del Teatro
Verticale.
M.: Noi siamo qui per caso, all’epoca
negli anni ‘70, quando tornai in Italia
dalla scuola di Lecoq a Parigi, con
Kuniaki avevamo uno spettacolo in due,
64
Ricordo che nel tempo è sempre stata
una battaglia mantenere questo luogo
e non farlo diventare un fast food o
un negozio di abbigliamento, siete nel
centro di Milano in un luogo storico...
mi ricordo manifestazioni davanti
a Palazzo Marino contro lo sfratto..
L’Arsenale è un luogo che definirei
speciale e un po’ magico. L’energia e
la storia creano un atmosfera speciale,
nutriente; una ex chiesa dove venivano
celebrati riti, il teatro è rito: quanto è
importante il “luogo” del teatro?
M: Molto! Forse è una mia fissazione ma
credo che qui dentro ci sia una specie di
Genius Loci (ho fatto recentemente uno
spettacolo su questo) che è qualcosa che
aiuta nei momenti difficili, e nei momenti
sereni se ne frega. Lo spettacolo sul Genius
Loci è iniziato durante una visita guidata
e adesso è diventato uno spettacolo di un
ora e 40 minuti, con tantissimo materiale
storico e non solo raccolto...
Clown in ospedale e clown volontari;
per incoraggiare i giovani a intrapredere
percorsi di volontariato. Il naso rosso
incoraggia persone che altrimenti
sarebbero troppo timide, cosa ne pensi?
M.: Penso che non basti un naso rosso
da clown per essere clown, questo è
un equivoco grave; è necessaria una
prepaprazione di qualche tipo, non è il
naso rosso che fa il clown.
Molti volontari fanno servizio negli
ospedali da tanti anni e l’effetto positivo
nei percorsi di cura è verificato ...e non
hanno la pretesa (non tutti) di fare del
teatro
M.: Meno male, perchè non puoi mettere
piede su un palcoscenico se non sei
preparato.
Se funziona nei contesti di ospedali ben
venga … ma ...se per clown si intende
qualcuno che si mette un naso rosso, allora
poi entriamo nell’equivoco delle parole.
Mi sembra un pò riduttivo chiamare
clown una persona solo perché indossa un
naso rosso.
3 giornate per l’ANCT
Il Teatro Arsenale
è dal 1978 un centro di iniziative artistiche teatrali.
La sede è un antico edificio, più volte rimaneggiato,
la cui prima pietra fu posta nel 1272. Nel corso dei
secoli è stato alternativamente chiesa, teatro,
collegio e scuola. Profondamente ricco di storia,
luogo di emblematici avvenimenti della vita spirituale
ed artistica milanese, ha un fascino particolare che
colpisce chiunque vi entri. E’ un luogo accogliente,
dove ci si sente di casa e dove il rapporto tra pubblico,
scena ed attori è più intimo e sentito che negli spazi
tradizionali. Le sue caratteristiche architettoniche,
artistiche e gestionali lo hanno posto spesso in
contrasto con l’andamento generale delle cose, e
l’Arsenale ha passato non pochi guai... ma il potente
Genius loci che vi abita ha finora reso possibile la
sua sopravvivenza e la sua continuità. L’Arsenale
è diretto da Marina Spreafico.
A Lecce
Le parole del teatro
Note
• Marina Spreafico
Diplomata alla “Scuola Internazionale diTeatro Jacques Lecoq”
a Parigi nel 1975. Ha studiato movimento con Monika Pagneux,
Moshe Feldenkrais, Gerda Alexander.Laureata all’Università
degli Studi di Milano. Nel 1978 al Teatro Arsenale di Milano,
ha avuto l’opportunità di fondare una compagnia stanziale,
di aprire una scuola di teatro e di esplorare liberamente. Dal
1976 si dedica all’insegnamento teatrale per il quale nutre
una vera passione. Lo ritiene parte fondamentale del proprio
percorso, complementare e indipendente dalla ideazione e
realizzazione di spettacoli. Ha fondato nel 1978 la Scuola di
Teatro ‘Arsenale’ a Milano, dove insegna continuativamente.
• Kuniaki Ida
Laureato al Toho College del Teatro e delle Arti di Tokio, ha
fatto parte in seguito del prestigioso Kobo Abe Studio. Ha
studiato teatro tradizionale giapponese, No e Kyogen. Si è
diplomato alla “Scuola Internazionale di Teatro Jacques
Lecoq” nel 1975. Dal 1976 risiede prevalentemente in Italia.
Dall’ ‘89 è insegnante presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica
‘Paolo Grassi’. Come regista di spettacoli teatrali e musicali
e insegnante di teatro ha lavorato in Italia, Giappone, Corea,
Portogallo, Germania, Sud Africa, Hong Kong, India, Francia.
E’ direttore artistico del TheatreX di Tokio. E’ stato uno dei
fondatori del Teatro Arsenale di Milano.
• Kōbō Abe
E stato uno scrittore, drammaturgo e inventore giapponese.
Nasce aTokyo, nel 1948 comincia a dedicarsi alla letteratura
ispirandosi al surrealismo kafkiano.Sia nei romanzi che nelle
opere teatrali descrive un’umanità alienata, affetta da
incomunicabilità, chiusa in reticoli di situazioni senza via
d’uscita. Opera paradigmatica è Suna no onna (La donna di
sabbia) che descrive una situazione claustrofobica in cui un
uomo e una donna vivono prigionieri all’interno di una voragine
sabbiosa impegnati in un’eterna opera di svuotamento della
sabbia che continuamente precipita dall’alto rischiando di
soffocarli. Abe scrive varie opere teatrali dirigendo una propria
compagnia a Tokyo. Anche in questi lavori propone i temi
della solitudine e dell’alienazione. Dopo la morte di Mishima
(1970) diventa il principale autore giapponese di opere teatrali.
Muore il 22 gennaio 1993.
Le parole del teatro, Premio ANCT, Lecce
Dal 30 ottobre al 2 novembre l’ANCT (Associazione Nazionale Critici di Teatro) è stata
ospite, nel Salento, di Astragali Teatro, in partenariato col Teatro Pubblico Pugliese,
all’interno del progetto europeo walls – separate worlds
di Claudio Facchinelli
P
(Foto di Pierpaolo Fari)
Con le radici nel vento
Teatri delle diversità esplora e racconta
il teatro non solo nei luoghi celebrati ma
anche e molto nei luoghi “altri”: piazze,
carceri, ospedali, nei paesi in guerra e
molto altro. Come scuola di teatro,
incoraggiate queste altre direzioni ?
M.: Noi ci sentiamo a monte di queste
esperienze che poi lo studente sceglie.
Trovo che siano importanti e sono
commossa da chi fa queste scelte. Se
i nostri insegnamenti possono servire
all’interno di queste scelte per noi è solo
una gioia. Per esempio anni fa gli allievi
hanno presentato diverse performance alle
Colonne di San Lorenzo. Ma non eravamo
noi insegnanti a gestire l’evento, noi
aiutavamo gli allievi a proporre il lavoro
al comune di Milano e poi gli studenti
gestivano. Sono esperienze formative
forti, di attenzione e energia che, per
esempio, la piazza richiede. Se capitano
occasioni del genere diamo la possibilità di
realizzarle; in genere avvengono alla fine
della scuola quando riteniamo le persone
mature e in grado di gestire un progetto.
qui c’era una associazione che tra le
altre cose organizzava rassegne teatrali.
Presentavamo il nostro spettacolo e non
avevamo molto pubblico. Siamo venuti a
sapere che cercavano qualcuno che gestisse
l’Arsenale, non avevamo soldi ma ci siamo
subito buttati , lo spazio era straordinario
...e da allora siamo qui!
Rubriche La Critica
il territorio della follia. Spesso mi sento
come un ponte, che facilita, a volte,
delle intese rare, momenti di serenità.
Per essere quel ponte è importante
conoscere i linguaggi del disagio. Mi
potresti parlare del vostro lavoro sul
clown?
M.: Per noi è il lavoro finale della scuola,
è difficile farlo prima perchè lo studente
non ha sufficienti strumenti. Il clown in
qualche modo recita sé stesso; però deve
anche sapere fare delle cose, altrimenti
cosa può proporre? Il clown esiste nel
momento in cui l’attore ha acquisito un
senso di umorismo e distanza da se stesso
mentre recita; secondo me sotto ogni
grande interpretazione c’è un clown che
sta recitando qualcosa. In questo senso io
conosco questo lavoro. Il clown circense
di tradizione per me è abbastanza lontano.
A me piace il clown che si nasconde sotto
quello che sta raccontando o vivendo.
Faccio usare il naso rosso a fini didattici,
ma poi per me è una cosa che si toglie,
come la maschera neutra. Per me lo studio
sul clown ha senso quando dà all’attore un
senso di umorismo e accettazione rispetto
a quello che fa.
er darne conto dell’evento, intitolato
Le parole del teatro, comincerei da
alcuni dettagli apparentemente
secondari. Il volto accattivante e gioioso
della giovane donna che ci ha guidato
col suo sorriso nei meandri e nel museo
archeologico del castello di Mesagne; la
purea di piselli gialli dal gusto di fave; le
orecchiette con i ceci, annaffiate da un vino
rosso, profumato ed aromatico: immagini
e percezioni sensoriali soggettive, forse
banali, ma che mi sembra evochino con
efficacia l’atmosfera che si è respirata nei
tre giorni di esplorazione – e scoperta – di
quel lembo estremo d’Italia.
In apertura dell’incontro assembleare,
nel palazzo Turrisi di Lecce, il presidente
Giulio Baffi ha esortato a non cedere
alla tentazione di piangersi addosso per
lo spazio sempre più esiguo dedicato alla
critica teatrale, ma a prendere atto, con
realismo, della diffusione sempre più
aggressiva delle riviste web: è importante
perseguire, anche in tale ambito, una
qualità professionale. Baffi ha poi
stimolato i soci a mettere a punto nuove
strategie, a uscire da una dimensione
autoreferenziale, a cercare il rapporto col
territorio, con le istituzioni, gli artisti. Nel
dibattito è emersa l’esigenza di attenzione
a un nuovo pubblico, di una politica
di educazione al teatro delle nuove
generazioni, vittime dell’eclissi culturale
che ha offuscato l’ultimo ventennio,
anche attraverso la creazione di un polo
di formazione e riqualificazione degli
teatridellediversità
65
Rubriche La Critica
PER UNA RIVISTA INTERNAZIONALE PLURILINGUE
alla memoria del critico teatrale Paolo Emilio Poesio,
assegnato a Roberto Herlitzka, quelli dalle riviste Hystrio,
Teatri delle Diversità e InScenaOnline, rispettivamente
a Daria Deflorian, Neon Teatro di Catania, Ludovica
Radif.
La sera, nella sede di Astragali Teatro, Metamorfosi
restituiva in un linguaggio musicale e figurativo alcuni
miti del primo libro del poema di Ovidio; uno studio
ancora in progress, ove la nudità femminile, proposta quasi
con noncuranza, eppure con forte suggestività iconica ed
espressiva, assumeva un valore etico, quasi a risarcimento
dello stupro sistematico che la civiltà dei consumi, specie
negli ultimi vent’anni, ha operato sull’immagine della
donna.
La terza giornata, dopo un trasferimento a Mesagne, è
stata dedicata principalmente al progetto Teatri Abitati,
cui era andato, assieme al Teatro Pubblico Pugliese, uno
dei premi dell’ANCT. Dietro questa formula c’è l’idea,
semplice ma geniale, illustrata con concitata passione
dall’assessore Maria De Guido, di un’interpretazione
originale del concetto di “residenza teatrale”, che coniuga
l’esigenza di compagnie teatrali in cerca di un ubi consistam
con quella di dare continuità di vita a spazi teatrali, a volte
fascinosi, ma poco o nulla utilizzati. Una pratica non
casualmente parallela a quella, promossa dall’associazione
Libera in quegli stessi territori, che impiega in attività
produttive sociali i terreni sequestrati alle organizzazioni
mafiose e, come quella, atta a creare un rapporto virtuoso
col territorio.
Prima della presentazione delle principali residenze
pugliesi (cioè dei Teatri Abitati), il gruppo Thalassia ha
offerto agli ospiti, nel Teatro Comunale (un disadorno
piccolo spazio all’italiana), Aspettando il vento. Nei modi
della narrazione, in una scenografia costruita con legni
spiaggiati, bianchi e contorti, che suggerisce un canneto,
ma richiama anche forme o scheletri di trampolieri,
si sviluppa una favola iniziatica, sospesa fra realismo e
fantasia, materiata di un gusto affettuoso per l’osservazione
della natura, con un finale aperto; scritta e raccontata con
garbo ed efficacia drammaturgica, a misura di bambino.
Per chiudere, riporterei una frase che il presidente
dell’ANCT, Giulio Baffi, interpretando il sentimento di
noi tutti, ha inviato a Ivano, Lino, Fabio, i nostri splendidi
anfitrioni.
“Per tutti i soci che hanno partecipato a questi nostri
incontri è stata una bellissima esperienza di lavoro e
di amicizia, di teatro e di scoperte di luoghi bellissimi.
Saremo attenti alle realtà che ci avete mostrato e che
nascono e crescono sul vostro territorio, ed ora bisognerà
mettere a frutto impegni presi e desideri emersi”.
la critica teatrale
contemporanea in Grecia
Prosegue il confronto per l’attivazione del progetto E-CRITICS (Electronic Collection of
Reviews on International Theatre and Innovative Critical Studies) con uno sguardo a
quello che accade nella penisola ellenica
di Nicoletta Kokosioulis
L
Metamorfosi, Astragali Teatro
Abstract
66
(Foto di Pierpaolo Fari)
A
t the beginning of November, ANCT (National Association of
Theatre Critics) has been hosted in Salento – deep South of Italy
– by Teatro Pubblico Pugliese, a public institution that links theatre
companies and promotes the culture of drama in the region. During
those three days ANCT had different fine opportunities: a profitable
meeting among its members, where new policy lines were discussed;
official awarding of Critic Prizes; happy discovering of an unknown
cultural and social richness of theatre presence in that region. Last
but not least, a friendly, warm atmosphere has marked and supported every moment of the stay.
Rubriche La critica
operatori della critica teatrale.
Dopo un incontro con Assostampa, la discussione,
proseguita la mattina successiva, ha evidenziato l’istanza
di una maggior coesione dell’associazione, che non si
appiattisca sul rituale dei premi ma che, anche attraverso
una cadenza almeno annuale delle assemblee, favorisca lo
scambio e il confronto di informazioni, conoscenze e idee.
E già la modalità dei rapporti umani, scevri di formalismi,
che in quei tre giorni si è stabilita tra l’ANCT, le istituzioni
amministrative e le realtà artistiche sembrava informata
a questa esigenza. A conferma di una rinnovata identità
dell’ANCT, a un tempo coesa ed aperta all’esterno, si è
già delineata l’ipotesi di un rapporto con Assostampa e
con l’università, e la partecipazione, col Teatro Pubblico
Pugliese, ad un gruppo di lavoro per la stesura di un
progetto di formazione per operatori della critica.
Piacevoli sorprese ha riservato, in serata, la “Finestra sullo
spettacolo in Puglia”, una presentazione, sia dal vivo, sia
con l’ausilio di brevi video, della locale realtà teatrale e
della danza.
Il giorno successivo, dopo la conclusione dell’assemblea,
il tedesco Thomas Engel – occhi azzurri, lunghi capelli
grigi – esponente del segretariato generale dell’ITI
(International Theater Institute), ha alzato lo sguardo su
una prospettiva di respiro internazionale. Introdotto da
Fabio Tolledi, di Astragali, presidente della sede italiana
dell’ITI, Thomas ci ha illustrato l’attività dell’istituzione,
nata nel ’48 per iniziativa dell’UNESCO, invidiabile per le
sue molteplici funzioni ed articolazioni operative, diffusa
in tutto il mondo, anche nei cosiddetti paesi emergenti, e
presente pure in Italia.
Più tardi, al Teatro Paisiello, la cerimonia dell’assegnazione
dei premi è stata improntata a quella stessa atmosfera
informale e calda che, fin dall’inizio, aveva caratterizzato i
lavori. Il direttivo dell’ANCT, seduto in palco assieme ai
premiati, con simpatiche, estemporanee inversioni della
scaletta, leggeva le motivazioni, e consegnava i premi: non
fredde targhe di metallo, ma piatti artigianali in ceramica,
modellati e personalizzati da un artista locale. A tratti, in
questa dimensione d’antan, irrompeva la tecnologia, con
gli SMS di saluto e di ringraziamento degli assenti.
Premiati Carlo Formigoni, Circo equestre Squeglia (di
Alfredo Arias), Babilonia Teatri con Gli Amici di Luca,
Serata a Colono (regia di Mario Martone), Pippo Delbono,
Alessandro Averone, La classe (regia di Nanni Garella),
Roberto Zappalà, Imma Villa, i fratelli Mancuso, Le
Nuvole Teatro di Napoli, Michele Santeramo, Daniela
Ardini, Michalis Traitsis.
Premiata anche un’istituzione, il Teatro Pubblico
Pugliese e Teatri Abitati. Il premio alla carriera, intitolato
a critica teatrale può considerarsi una
scienza? Certo è necessaria una grande
cura “scientifica” nell’evidenziare gli
elementi da giudicare, nel comporre
le coordinate storiche, nel motivare
il giudizio. Il teatro è storia antica in
Grecia - e il pubblico era allora in qualche
modo anche giudice. Ora invece il critico
teatrale si assume il compito di essere
tramite tra l’evento artistico e i singoli
lettori di giornali/ dei siti web.
Una delle caratteristiche della critica in
Grecia in questi ultimi decenni è forse
la particolare provenienza delle firme
più importanti, con formazioni molto
differenti, dagli studi di archeologia,
giurisprudenza o economia.
Tra i nomi più importanti da ricordare,
a fondamento dell’esercizio critico più
recente, Politis, Ploritis, Lignadis. Da
citare inoltre: Gianni Varveris, personalità
poliedrica, laureato in Giurisprudenza
all’Universita` di Atene, prosatore,
traduttore, saggista, studioso - molti
i riconoscimenti - oltre che critico
teatrale dal 1976 per riviste e giornali
(kathimerini); Kostas Georgousopoulos,
laureato presso la facoltà di Storia e
Archeologia e alla Scuola di recitazione del
Conservatorio di Atene, ha insegnato per
trentacinque anni, ricercatore associato
al Dipartimento degli Studi Teatrali
dell’Università di Atene, interessandosi
anche di poesia e letteratura. Ha
cominciato a scrivere recensioni nel 1971,
collaborando con riviste e giornali (VIMA,
NEA). Ha vinto numerosi premi, tra cui il
Premio Nazionale della Critica. Importanti
le sue traduzioni - e il suo impegno in
molte associazioni che promuovono la
cultura teatrale. Sempre attento al teatro
contemporaneo, delle nuove generazioni,
promuove volentieri laboratori, seminari.
Ercole D. Logothetis: anche se laureato in
Economia, ha incominciato a interessarsi
presto alla letteratura, alla filosofia, al
cinema e al teatro. Professore della Scuola
di Teatro ‘’Prova’’, saggista e critico teatrale.
Marika Thomadaki: laureata in Storia
e Archeologia e in letteratura francese
all’Università di Atene, dove è ora docente
presso il Dipartimento Studi Teatrali.
Fondamentale il suo contributo al teatro
con lezioni, seminari e, naturalmente, con
Theatrografies, la rivista che dirige. C’è poi
la critica legata al teatro lirico: Kyriakos
Loukakos contribuisce notevolmente alla
conoscenza e alla comprensione del teatro
musicale, vasta la sua competenza su Maria
Callas, essenziale il suo impegno critico
su “Alba’’. E’ presidente dell’Associazione
Nazionale dei critici teatrali e musicali.
George Leotsakos, musicologo e critico
musicale, ha una vasta esperienza che
dura da oltre quarantacinque anni.
Grande ricercatore, ha scoperto, vistando
l’Albania socialista nel 1981 e nel1999,
brani per pianoforte prima sconosciuti
di compositori greci composti tra il 1847
e il 1908; Alexis Spanidis: vasti i suoi
interessi, i suoi studi in antropologia,
sociologia, filosofia, numerosi i titoli di
studio, Bachelor, Master e PhD. Tra i
più giovani in questo campo, ha lavorato
al terzo programma di ERT, all’Opera
Nazionale, al Ministero della Cultura, ecc.
Editorialista per undici anni (2000 - 2011)
alla ‘’Sera’’, ora è fortemente impegnato
nell’associazione dei critici di teatro e
musica e nell’aggiornare costantemente il
suo sito personale.
E’ dunque viva l’attività critica in Grecia.
Sempre grande il rigore “scientifico”: di
alto profilo la preparazione, consegnando
al lettore elementi precisi su cui riflettere,
lasciando, come ricorda Georgousopoulos,
proprio allo spettatore la possibilità di
formarsi un’opinione personale, ma
potendo contare su recensioni serie,
accurate, di giornalisti, di studiosi che
hanno saputo conquistarsi con il tempo la
fiducia del pubblico.
Come è spesso capitato, ancora oggi può
accadere che muti il giudizio critico nel
tempo e iniziali insuccessi ricevano poi
ampi consensi. Una questione di sensibilità
teatridellediversità
67
Macao è diventato?
Oca, ma… per ora!
Prosegue l’indagine di Teatri delle diversità sull’effettivo recente cambiamento nelle
politiche culturali a Milano attraversoun’attenta analisi delle esperienze
di Eleonora Firenze
Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle
Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle Arti
estetica. Così come può svelare vasti divari l’adesione, più o meno
positiva, a uno spettacolo da parte di uno sguardo esperto e da
parte del pubblico. Cresce la preoccupazione per l’influenza della
televisione, di Internet, che facilmente tendono a omologare le
forme di gradimento e “spostano il pensiero critico e comprimono
il gusto del pubblico verso il basso” (Ercole Logothetis). Così come
dispiace l’opinionismo diffuso, “recensioni” (che tali non sono),
scritte per lo più in forma anonima, superficiale: tende a svanire il
riconoscimento della preparazione, dell’esperienza, della scrittura
meditata - e il voto a “stelle” spesso si traduce in giudizio astratto,
veloce, quasi un invito a evitare di leggere l’articolo ragionato.
Che fare? Perché bisogna lottare per ritrovare il senso del proprio
ruolo. Con la crisi economica chiudono riviste e giornali e
spesso la critica teatrale viene affidata a semplici giornalisti, privi
di cultura specifica. Ma vale la pena andare avanti, individuare
percorsi positivi. Migliorando l’educazione teatrale a tutti i
La seconda edizione del Festival di Kastoria
Alexiada, con musiche
e arti performative
La ricerca scenica contemporanea qui si accosta bene alle
celebrazioni storico artistiche tradizionali
di Valantis Fokas
A volte non basta che l’ imperatore sia nudo, occorre che i suoi sudditi aprano gli
occhi per vederlo. Dal nostro arrivo a Kastoria il 21 Agosto abbiamo sentito una
città in lotta contro la crisi e il ristagno estivo. Ma il festival era lì, con il suo
impressionante manifesto e una moltitudine di volontari, a resistere alla crisi e all’
apparente stasi del dopo-vacanze. La citta’ stessa era all’erta, circondata dalla
sua superba bellezza, l’eredità bizantina e l’affascinante lago. L’apertura del
festival è stata affidata ad uno spettacolo del gruppo “Myisis”, alla chiesa di
Madonna Cubelidiki: sotto la luna piena, 40 persone hanno attraversato la storia
con testi, balli, canti, costumi e tradizioni. E’ stata quindi la volta dell’ apparizione
di Anna Komnena, che in questi giorni si stacca dagli affreschi per poi sparire nelle
acque oscure del lago. Il 22 ancora una veglia nel monastero di Madonna Mavriotissa,
accanto al lago, con canti bizantini di toccante teatralita’. Il 23 un concerto di
musica greca del cantante, ormai storico, Chronis Aidonidis. Nei giorni seguenti
la mostra di bozzetti dei monasteri del monte Athos dell’ architetto Vassilopoulos,
presentazioni di libri, letture teatrali al mercato medievale-dove il gusto delle
68
livelli, rafforzando le associazioni che si interessano di spettacolo
e quelle che diffondono e approfondiscono l’esercizio critico,
rinnovando le modalità di assegnazione dei premi, collaborando
con le università, e così via. Fondamentale l’alleanza tra le
generazioni, per consegnare sapere, ma anche per rinnovarlo.
In questi tempi difficilissimi è forse importante anche avere il
coraggio di selezionare, di scegliere chi davvero ha le qualità per
lavorare correttamente nell’ambito della critica teatrale? Riportare
l’attenzione su chi ha seri studi alle spalle, ha visto tanti spettacoli,
sa riflettere in termini di stili, di mutamenti estetici? Come fare
in modo che il pubblico si renda più sensibile a queste forme
di lavoro più “scientifiche”? Secondo Logothetis al critico viene
richiesto, insieme alla conoscenza del passato, della storia, “la
capacità di guardare oltre, vedere, riconoscere i futuri orizzonti,
avendo l’olfatto del cane, l’ottima vista del falco, la velocità del
ghepardo e l’astuzia della volpe”.
mercanzie tradizionali si mescolava con l’ autenticità dei mercanti-fino ad una
gita guidata per la città ed un progetto educativo per bambini, a testimoniare le
eclettiche scelte degli organizzatori. Il 28 “La Vaga Harmonia” del tenore e maestro
pugliese Fabio Anti con musica Rinascimentale: Monteverdi, Frescobaldi, Landi
ed altri, interpretati con profonda conoscenza e sensibilità. Giustificando il titolo
“Alexiada, festival di musica antica ed arti performative”, con lo spettacolo
“Bradamante e Marfisa”Tania Kitsou, direttrice del festival, ha curato un allestimento
traducendo un frammento dal voluminoso poema di Ariosto: prestandosi al teatro
totalitario (parola- azione fisica- gioco e tradizione) ha creato uno spettacolo
magico. Chiari i riferimenti al Kabuki sia nei cambi dei livelli scenici che nell’
immobilità di Bradamante contro Marfisa. Lo spettacolo e’ stato uno dei momenti
forti del festival. Il 31 agosto nei giardini della Diocesi il Coro dell’ Universita’
Musicale Ionica con l’ opera di Dimitris Maragopulos “Elafos”(Cervo), basata su
frammenti rielaborati della liturgia paleo -cristiana di S. Marco. Con saggezza e
intuizione il compositore ha usato le due clavinove, il coro misto, la lira tradizionale
e un cantante. Il concerto, un vero rituale, ha commosso tutti, che già si preparavano
per il gran finale: la rappresentazione della consegna di Kastoria all’ Imperatore
Alexios. Domenica 1 settembre alle 21.00 la processione, guidata da circa 30
cavalieri, con candele e fiaccole, è giunta a Mavriotissa. Costumi bellissimi,
tantissima gente, applausi nel momento in cui Anna Komnena “entra nella barca
azzurra e, spinta dalla brezza notturna, si allontana sulle acque argentee del lago
Orestiade”, nome che ci ha spinto a parafrasare i versi di Eschilo in “Agamennone”.
S
ul sito web di Macao si legge:
“L’esperienza di Macao dimostra che
una comunità di cittadine e cittadini,
lavoratrici e lavoratori, con i propri corpi,
le proprie intelligenze e competenze
può ripensare uno spazio abbandonato
ridefinendolo come bene comune
e legittimandosi attraverso processi
costituenti fondati sulla partecipazione
attiva. Questo processo di riqualificazione,
cura e ridefinizione dello spazio prende
forma intorno ad un nuovo immaginario,
che ridisegna un edificio di grande valenza
storica lasciato fino ad ora nel degrado,
per restituirlo alla cittadinanza come
un luogo da poter vivere, attraversare e
partecipare, dove produrre e fruire arte e
cultura”. Lo scorso febbraio sono andata
a vedere questo luogo a Milano in Viale
Molise 68. Era un giorno di pioggia,
umido e freddo. Uno spazio, che lascia
immaginare la sua bellezza nei primi
anni del Novecento, riproduce nello
stile una corte, chiusa, quadrangolare,
con porticato e lampadari d’epoca agli
angoli; un tetto di vetro, molto liberty
e molto sporco, attraverso cui filtra una
luce invernale. Immediato il pensiero a
come potrebbe essere incantevole questo
spazio in una giornata di sole. Nelle tante
stanze, intorno alla corte, molti oggetti
accatastati, mobilio vecchio e malconcio,
per lo più. Una grande umidità. Un
ragazzo molto assonnato vaga per le
stanze pulendo e mettendo a posto. Uno
sforzo insufficiente. Ovunque bidoni di
rifiuti, differenziati però. Una cucina con
mestoli appesi, che però – detto tra noi non fa venir voglia di mangiare. Al piano
superiore stanze per il pernottamento,
destinate a chi sta “occupando”. Un
caffè letterario, una biblioteca e sale per
riunioni sui vari progetti. Un workshop
in corso: “Io e un altro”. Molti hanno
creduto nella possibilità di “appropriarsi”
di questo spazio per dare voce e risposte
concrete alle esigenze di socializzazione,
di realizzazione di progetti creativi, di
autonomia gestionale rispetto alle esigenze
di un territorio, ma soprattutto di una
generazione, la più nuova, la più bisognosa
di prospettive e di futuro. Macao però
non ha ottenuto dal Comune di Milano
la gestione di questo spazio. Ha invece
indetto un bando per la gestione delle
attività culturali e creative in uno spazio
alternativo, la ex sede dell’Ansaldo in
Via Tortona. Il bando è stato vinto nel
2012 dalla società Barley Arts, fondata
nel 1979, che da 35 anni è attiva nel
mondo dell’intrattenimento musicale
con la direzione di Claudio Trotta. Ed
ecco le Officine Artistiche Ansaldo, OCA.
Sempre in febbraio, ho visitato anche
questo spazio e ho visto un cantiere in
piena attività. Una struttura fatiscente,
ma già tutta fasciata da impalcature e
Rubriche Teatro e cambiamento
ANAGRAMMA DA SVELARE
veli di plastica gialli a protezione dei
passanti. All’interno ruspe, camion, operai
al lavoro. Uno spazio in divenire. Sono
andata all’Università statale di Milano,
sede di Via Noto, dove c’è il corso di
studi in Scienze dei Beni Culturali. Ho
intervistato molti studenti e, mentre
tutti erano a conoscenza della realtà
culturale Macao, per avervi partecipato
direttamente o per averne sentito parlare,
nessuno era al corrente della nuova
sede OCA, Officine Creative Ansaldo.
Per Macao la parola più usata è stata
“entusiasmo”, seguita subito dopo da
“mancanza di continuità”. Alcuni mi
hanno detto che si possono organizzare
cose in tanti posti, non necessariamente
nella sede Macao, visto che hanno fatto
liberare gli spazi occupati. Poi: “Tanta
protesta per che cosa? Anche quando
erano lì che cosa hanno fatto? A parte
la presenza di politici vari?”. E anche:
teatridellediversità
69
Abstract
L
ast year, many young people occupied the Galfa Tower in Milan
with the scope to change the use of a deserted and empty place,
defining it as common owner-ship and obtaining the relative right
for it to exist through constituting processes based on active people participation. They were looking for a place in which it could
be possible to live, participate, produce and use art and culture.
Municipality of Milan considered this action as an attack and and
forced them to live the place: Ex Officine Ansaldo, named OCA:
Officine Creative Ansaldo www.ocamilano.it. Then issued an announcement to identify an organization able to manage it. In 2012
the winner was in 2012 the Company Barley Arts active in this field
for 35 years. Important building reconstruction works started.
Remained excluded, the guys decided that they would occupy
another place, an old, beautiful and empty building of the last
century and named this organization MACAO www.macao.mi.it.
During these last months the activities in both palaces increased a
lot with very important data, regarding organizations, workshops,
events, shows and number of people involved. The last political
action of the Macao organization is to denounce other deserted
public buildings in Milan and write on their walls the quantity of
square metres available and not used, almost 900.000. They are
asking politicians to believe and invest on young generation. The
guys of Macao are demonstrating they are able to manage this kind
of structure. Why do not give them trust, new responsibilities and
regulated freedom?
“Con i problemi che ha l’Italia questo non è stato più seguito,
è passato in secondo, terzo, quarto etc. piano”. Qualcun altro
ritiene che nella sede di Macao vengano fatti ottimi concerti,
ma poco pubblicizzati. Mi raccontano che ci sono persone che
lavorano al suo interno gratuitamente, che se ne occupano
praticamente a tempo pieno. Esclama una ragazza: “Che bello
il Comune sta facendo qualcosa, ma realisticamente…? Non
succede niente, come al solito!”. Un’altra ancora mi fa notare
che l’autogestione ha dei lati positivi, ma anche negativi. Il lato
negativo dell’occupazione è che prima o poi inizia una fase di
decadenza, si lascia che le cose vadano come vadano… Alla fine,
convinta, mi dice che ci vuole qualcosa di strutturato, anche
perché noi viviamo in una città civile e questo è necessario.
Un ragazzo dall’aspetto molto alternativo esplode con: “Se
OCA è governato perché serve a qualcosa, bene, se invece è
per lucrare etc. allora non serve a nulla”. Incontro altre due
ragazze che, una volta sentita la notizia dell’attività OCA
dicono: “Ben venga! Così ci sarà spazio per gli emergenti”.
Pare che ci sia molta confusione, soprattutto disinformazione.
Il tempo è passato. Le attività non si sono fermate. Nelle
Officine Creative Ansaldo, nei tre padiglioni, Agorà, Palco e
Primo Piano, destinate rispettivamente alle attività creative ed
emergenti con ingresso libero, a realtà culturali consolidate,
concerti e spettacoli a pagamento e ad esposizioni e laboratori
artigianali, hanno partecipato da allora oltre 200.000 persone,
con numeri importanti: più di 100 associazioni che hanno
prodotto 20 mostre, 23 laboratori, 60 serate di musica dal
vivo e 8 botteghe artigianali con residenza stabile presso OCA.
www.ocamilano.it. Ma anche nella sede di Macao c’è stata una
notevole evoluzione. I ragazzi hanno continuato con i loro
70
progetti, seminari, workshop, incontri e spettacoli. I temi
toccati raccontano di quanto grande sia il desiderio di essere
attivi su tutti gli aspetti sociali e culturali. Dall’editoria con un
festival ad essa dedicato “Macao in edito” all’architettura con
“Architettura Città bene comune”. Dall’attenzione al problema
della violenza sessista con “Occupare il conflitto” alla necessità
di legittimazione della cittadinanza attiva. Dalla formazione
teatrale con corsi di auto-formazione alla costituzione della Free
University. Dalla necessità di esprimere l’arte con il Festival
Zenobia, con danza, teatro e arti performative, ai workshop
fotografici e alle proiezioni cinematografiche. Ma c’è molto di
più: la costituzione di un centro sociale autogestito, con tanto
di sito web altrettanto ben fatto www.macao.mi.it. Le ultime
attività riguardano la denuncia dei tanti metri quadri vuoti
e disponibili a Milano. E lo hanno scritto sui muri di questi
spazi abbandonati: Torre Galfa, 26.000 mq.; Ex Macello Via
Lombroso, 800.000 mq.; tanti altri ancora nella ex sede del
Provveditorato agli Studi di Via Ripamonti. L’operazione si
chiama: “Non è mica la Luna”. Si sente forte, in questi atti di
denuncia, il desiderio di appropriarsi della gestione di spazi
cittadini abbandonati per organizzare attività di aggregazione
sociale secondo i propri modelli. Altrettanto forte si sente l’esigenza
che da parte della pubblica amministrazione e della politica
sia più vivo l’interesse per il mondo giovanile, più concreta la
convinzione della necessità di investire sul loro presente e sul
loro futuro, impegnando in modo serio e competente fondi
e menti. I ragazzi di Macao stanno dimostrando che sono
capaci e che anche i cosiddetti “centri sociali” sono cresciuti
in maturità e competenza. Perché non investire su di loro?
(5 agosto 2013)
Letteratura e teatro
Dialoghi a distanza
Edmund de Waal, “Un’eredità di avorio e ambra” - I.J. Singer, “La famiglia Karnowski” due
testi alla ricerca dell’identità ebraica
Rubriche Margini & frontiere
COMUNICAZIONI INATTESE
di Valeria Ottolenghi
Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle
“Viktor impara che amare la Germania significa amare
l’illuminismo. Che tedesco significa emancipazione dall’oscurantismo,
significa Bildung/cultura, sapere, il viaggio verso l’esperienza. La
Bildung, è sottinteso, sta nel passaggio dal russo al tedesco, da
Odessa alla Ringstrasse, dal commercio dei cereali alla lettura di
Schiller...” Edmund de Waal, “Un’eredità di avorio e ambra”,
Bollati Boringhieri, 2010, p.149
curatore di collane, direttore artistico di festival, e così via.
Sì: un problema di sovrapposizioni, intrecci di competenze
e ruoli che riguardano certo non solo il teatro.
Ma la differenza è anche nella quantità e nell’omologazione?
Malgrado la moltiplicazione dei siti di teatro ancora pare di
“Quando [David], ragazzino, studiava il tedesco sulla traduzione
della Torah di Mendelssohn si era sentito attratto dal paese al di là
della frontiera, da cui veniva tutto ciò che era buono, illuminato,
razionale....Berlino rappresentava per lui la cultura, sapienza,
nobiltà, bellezza, luce attingibili solo in sogno. Ora vedeva
l’occasione di realizzare il suo desiderio...andare laggiù, oltre
frontiera... Israel Joshua Singer, “La famiglia Karnowski”,
Adelphi, 2013
“La speranza si proietta nel futuro per riconciliare l’uomo con
la storia...Questo spirito dell’utopia è custodito soprattutto nella
civiltà ebraica... Il disincanto è una forma ironica, malinconica
e agguerrita della speranza; ne modera il pathos profetico e
generosamente ottimista, che facilmente sottovaluta le paurose
possibilità di regressione, di discontinuità, di tragica barbarie
latenti nella storia” Claudio Magris, “Utopia e disincanto”,
Garzanti, 1999
B
ellissimo lo scatto di Marisa Zanzotto a Radicondoli
durante l’ “Aperitivo critico” legato alla cerimonia dei
premi dedicati a Nico Garrone: “questo è un problema
che vale per tutti, non solo per il teatro!”. Preziosa lì la sua
presenza: aveva voluto portare a Luca Ricci - uno dei premiati
per la sezione “progetti” - un regalo del tutto speciale, una
formella con un’incisione per mano del marito, Andrea, poeta tra
i più grandi, con pochi versi, proprio alcuni di quelli utilizzati
da Ricci in un suo spettacolo. Una grande emozione. Ma la
presenza della Zanzotto si è fatta poi sentire forte, limpida e
decisa, quando si è affrontato il problema della critica oltre
la scrittura, per l’impegno dell’intellettuale su più fronti,
non solo per l’indagine analitica, la recensione, ma anche
come figura più complessa, promotore di mostre e rassegne,
teatridellediversità
71
72
distanza, con l’utopia e il disincanto che attraversano entrambi
i romanzi, a creare nuove corrispondenze, non importa quanto
siano esistite “realmente” le diverse figure tratteggiate da de
Waal e Singer. Senza bisogno di rimettere in gioco le variabili
del romanzo storico.
Al figlio appena circonciso David Karnowski aveva detto in
ebraico e in tedesco (non in yiddish, lingua ripudiata dello
shtetl di Melnitz, la terra polacca delle origini): “Sii un ebreo
a casa tua e un uomo quando ne esci”. Nella sala da ballo del
superbo palazzo viennese fatto costruire da Ignace Ritter von
Ephrussi (sì: nominato cavaliere l’ebreo arrivato da Odessa,
banchiere dalle sostanze favolose), del 1869 la forma del
contratto con l’architetto Hansen, “all’improvviso Ignace si
lascia sfuggire un segreto. Se in altri Palais della Ringstrasse
questa sala è riservata a qualcosa di paradisiaco, qui la serie di
dipinti raffigura invece episodi biblici tratti dal Libro di Ester”.
Con uno dei passaggi soggettivi di Edmund, che in fondo sta
scrivendo della sua famiglia: “Complimenti, Ignace: un bel
modo, tacito ma indelebile, di rivendicare ciò che sei”. Ma
diversamente da David Karnowski, qui c’è anche una sorta di
orgoglio da svelare, la sala “unico luogo della casa di un ebreo
che i gentili hanno modo di vedere nelle occasioni mondane”.
Un assaggio di affinità, di confronti possibili. Qui ora resta
solo l’invito per molteplici altri riflessi, per il meccanismo
dei tempi e la costruzione del filo narrativo (in de Waal si
segue il percorso di una collezione - oggetti d’arte, i netsuke,
minuscole statuine giapponesi - per raccontare degli uomini),
le persecuzioni che fanno riscoprire un’identità ebraica
forse a volte dimenticata nella dialettica senza fine tra
fedeltà alle origini e assimilazione, fierezza d’appartenenza e
desiderio laico d’emancipazione. Parigi, Vienna, Berlino: il
diverso manifestarsi dell’antisemitismo. La definizione dei
caratteri femminili e il problema dei matrimoni misti. Il
tema dell’intellettuale, diversi i compiti dello studio, della
conoscenza, della ricerca: ai due estremi Charles Ephrussi
che sa riconoscere e valorizzare le nuove indagini pittoriche
nella Parigi proustiana, alla nascita dell’impressionismo, e
l’erudito talmudista chiuso nel suo spazio soffocante di libri
(ma è sua la frase “La vita ama giocarci degli scherzi. Gli ebrei
vogliono essere ebrei nelle loro case e uomini all’esterno,
ma tutto si è complicato, noi siamo gentili nelle nostre case
ed ebrei all’esterno”: anche lui in qualche modo capace di
capire profondamente, di vedere oltre). Facendo attenzione
anche al linguaggio tra sottile ironia e partecipazione, per i
meccanismi della memoria tra documenti e ricordi, per i
diversi gradi d’empatia con i personaggi (e a volte l’oggettività,
più del vivace coinvolgimento dell’autore, si traduce in
travolgenti emozioni con il sentimento della tragedia sempre
incombente). Una mappa d’Europa che si espande, da Odessa
e Melnitz alle grandi capitali - e poi ancora oltre, l’America, il
Giappone... Così lo zio che accoglierà la famiglia Karnowski:
Abstract
“Io mi chiamo Harry. A Melnitz ero Hatskl, qui sono Harry...
Quando sono sbarcato io, la metà di questo non esisteva. E’
stato costruito dopo. Un shtetl mica male New York, eh?”
“Non aveva niente contro gli ebrei...[per gli acquisti, il medico,
la banca]... Ciò nonostante marito e moglie sentivano gli ebrei
estranei, li classificavano tra le persone poco affidabili, come gli
attori, che si possono ammirare ma dai quali è sempre bene stare
lontani”, I.J. Singer, “La famiglia Karnowski”
Nell’ultimo romanzo di Baliani
Il Bisogno di “credere”
Le infinite svolte possibili nelle nostre vite, la memoria
(in particolare legata al tempo delle scelte estreme) tra i
temi principali del racconto
“Sì, una parola, o anche meno, qualcuno fa un gesto, quel gesto apre
uno squarcio, si spalanca un altro mondo, di colpo vedi il tempo in un
altro modo”: Marco Baliani nel romanzo, breve, agile, “L’occasione”,
intreccia temi che gli sono cari, l’idea delle infinite svolte possibili nelle
nostre vite, la memoria (in particolare legata al tempo delle scelte
estreme, fino alla lotta armata), il bisogno di “credere” (darsi una
meta, sentire di avere un senso, di immaginare se stessi dentro un
percorso di miglioramento non solo egoistico).
La stessa narrazione, che vede i percorsi paralleli di Marcella e del
figlio Matteo, ha bisogno di trovare respiro dentro un riferimento
maggiore, l’evocazione della figura di Ginepro, il frate giunto “troppo
tardi” (termini che tornano spesso, e con diversi echi, di pensiero,
d’emozione, nel testo) per salutare Francesco, ormai in fin di vita alla
Porziuncola. Torna in varie forme la presenza della droga, così come
il bisogno di “riscatto” (anche qui: con molte sfumature). Numerosi i
riflessi possibili, i fili che s’intrecciano, con alcune forti immagini dal
segno anche opposto (come per gli uccelli, ricordo di San Francesco e
insieme presenze inquietanti, da imprigionare per guarirli alla libertà).
Le diverse foto tra le mani della madre e del figlio - un allievo svanito,
catturato dalla droga; un gruppo di amici che avevano creduto alla
possibilità di trasformare il mondo, armi in mano - sono come bussole
che li guidano in un percorso di conoscenza fatto di molteplici incontri.
Una professoressa di matematica che probabilmente avvertiva da
tempo il bisogno di una svolta, forse proprio di una motivazione forte
oltre la routine quotidiana; un figlio che, saputo quanto accaduto a
suo padre - non era morto in un incidente d’auto prima che nascesse
- cerca di sapere di più da chi aveva condiviso quelle scelte radicali.
Con il meccanismo dell’interpretazione che, come sempre, complica
la verità, inevitabilmente complessa, ambigua, sfuggente: impossibile?
(Valeria Ottolenghi)
Rubriche Margini & frontiere
avvertire ogni volta, in chi scrive, l’impressione che quello
spettacolo di cui si sta relazionando abbia instaurato un
rapporto diretto, sentito, proprio con la singola persona,
che avverte quindi una sorta di dovere di restituzione per
tale regalo, le parole scelte con sensibilità, massimo rigore, le
immagini definite con correttezza, i simboli scelti con estrema
cura.
La critica teatrale risulta in qualche modo più rara,
accompagnata com’è da un percorso di accesso non semplice:
andare a vedere uno spettacolo, magari in un’altra città, avendo
moltiplicato tali appuntamenti per costruirsi una conoscenza
di base abbastanza solida da poter affrontare il compito di
giudicare, di scrivere. Questo per il teatro e, in generale, per lo
spettacolo “dal vivo”. Una diversa dimensione.
Le opere vivono nelle menti di chi le ospita. E lì costruiscono
dialoghi. Per gli autori/ creatori stimoli che rimbalzano. Così,
per esempio, i ritmi poetici di Andrea Zanzotto per Luca
Ricci. Ma ancora si ricorda, esempio recente, l’emozione per il
frammento del romanzo di Littell “Le Benevole” nel magnifico
spettacolo di Anagoor Lingua Imperii. Influenze più o meno
esplicite, a volte segrete, per suggestioni. Chagall e uno
spettacolo di teatro danza, immagini, ritmi cinematografici e
un dramma shakespeariano... Al critico anche il compito di
nutrire il proprio sapere su più aspetti del contemporaneo,
cercando di tenere aperta la comunicazione tra creazioni
distanti anche nel tempo. Così per Charles nel libro di de
Waal, con il suo catalogo dei disegni di Dürer, di cui “si serve
[anche] come piattaforma emotiva e intellettuale dalla quale
sostenere che le diverse epoche si influenzano a vicenda, che
un disegno di Dürer può interloquire con uno di Degas.
Charles sa che può succedere”.
Non interessa dunque qui recensire i due romanzi delle
citazioni iniziali, quanto, ripensando anche allo stimolo
della Zanzotto a Radicondoli, sperimentare questo gioco di
rispecchiamenti, sapendo che per le opere letterarie è molto
facile trovare in internet una vasta molteplicità di riassunti e di
indagini critiche (molto più che per il teatro). Inutile ricordare
qui le trame, facilmente rintracciabili. Molti elementi
inevitabilmente ripetuti per i personaggi di verità e finzione,
la geografia storica, l’antisemitismo che cresce, si gonfia, si
diffonde, esplode, la necessità dell’esilio, l’illusione tradita
di un ebraismo illuminato che potesse tradursi in naturale
integrazione...caratteri questi già comuni a “Un’eredità di
avorio e ambra” e a “La famiglia Karnowski”, opere di grande
respiro, colte, avvincenti, che attraversano la Storia, scandite
entrambe per generazioni e luoghi, il primo strutturato come
una ricerca nel tempo, delle proprie radici, con tanto di
albero genealogico della famiglia Ephrussi, in fondo il nome
dell’autore, nato nel 1964, seguito dai tre figli, un percorso
solo parzialmente lineare, con il narratore che inserisce
commenti, propri stupori e umori, e una sorta di circolarità
legata al Giappone, con ampie permanenze a Parigi e Vienna;
il secondo, scritto in yiddish, solo da poco tradotto in italiano,
ha il narratore invisibile, i capitoli intitolati ai personaggi
principali, David, Georg, Jegor, nonno, figlio e nipote,
figure complesse ma a tutto tondo, un vero romanzo storico
“all’antica”, capace però di oggettivare meravigliosamente,
fino alla commozione, anche i propri anni, l’autore, Israel
Joshua Singer, morto nel 1944, l’anno dopo la pubblicazione
di quest’opera straordinaria, fratello del più famoso Isaac
Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura 1978.
“La storia dice gli eventi, la sociologia descrive i processi, la
statistica fornisce i numeri, ma è la letteratura che li fa toccare
con mano là dove essi prendono corpo e sangue nell’esistenza
degli uomini”: è Magris, già coinvolto in questo dialogo a
MARCO BALIANI
L’occasione
Rizzoli, 2013
€ 18,00
R
eflections between literature and theatre. The intellectual’s
function. Books and cultural encounters as incentives for the
artists. The critic’s role for live performances and new novels. The
internet reviews. The important participation of Marisa Zanzotto at
Garrone Award in Radicondoli. Affinities among different works:
dialogue and similarity. Edmund de Waal, “The Hare with Amber
Eyes” and Israel Joshua Singer, “Karnowski Family”: very interesting
the charm exerted by Berlin in the shtetl world for the people who
wanted to emancipate and loved Enlightenment. Parallelisms are
many, about diffusion of anti-Semitism, Jewish identity, for a mix
between humour and tragedy...
teatridellediversità
73
Recensioni Spettacoli
Francesco Colella e Francesco Lagi
DA UN CASO LETTERARIO
Francesco Colella in Zigulì
Un distillato di tenerezza,
rabbia e poesia
Lo spettacolo Zigulì, interpretato da Francesco Colella con la regia di Francesco Lagi,
visto al Teatro di Ringhiera di Milano lo scorso marzo, nasce dal testo omonimo di
Massimiliano Verga, e ha per sottotitolo La mia vita dolceamara con un figlio disabile.
di Claudio Facchinelli
L
’autore insegna sociologia
all’università di Milano-Bicocca;
ha superato la quarantina, ma ha
un viso da ragazzino, che contrasta con
la corta, folta barba nera; per ora, è alla
sua prima esperienza letteraria. Non si
tratta di un saggio, né di un diario, ma
di una serie di annotazioni, alcune di
poche righe, al massimo di un paio di
pagine, disposte in ordine casuale, non
cronologico. È un testo singolare, da
cui stillano momenti di tenerezza ed
espressioni di rabbia, afrori scostanti
di liquidi organici e squarci di poesia.
Pubblicato nel 2012 da Mondadori, in
pochi mesi è diventato un caso letterario,
e un anno dopo è stato riedito negli
Oscar. Prima di vedere lo spettacolo,
non avevo letto per intero il libro: la sua
struttura, dichiaratamente rapsodica, mi
aveva indotto a scorrerlo ad apertura
di pagina; e mi ero convinto di averne
capito il senso, almeno per potere scrivere
una recensione non superficiale dello
spettacolo che ne era stato ricavato. A
posteriori, leggendo per intero quella prosa
dalla struttura dimessa, dal linguaggio
quotidiano, basso, ne sono stato catturato.
L’ho letto d’un fiato, in un pomeriggio,
continuando a segnarmi i punti che mi
sembrava necessario citare, fino a rendermi
conto che, come fanno gli studenti che
preparano un esame, stavo annotando
quasi ogni pagina. Da quella successione
74
Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle
di frammenti – che Verga, con quel feroce,
eppur tenerissima ironia che percorre
l’intero libro, chiama epitaffi – prendeva
forma, come per inviluppo, non solo il
ritratto di un tormentato, ma fortissimo
rapporto d’amore fra lui e il figlio, ma
una visione della vita. Colpisce, nel
libro, oltre a una disarmante sincerità,
l’assenza di qualsiasi compiacimento,
o di captatio benevolentiae. Il testo è
strutturato come una frammentata
serie di confidenze, per lo più rivolte
a Moreno, il figlio cieco dal cervello
grande come una , una Zigulì caramella.
Ma non mancano invettive indirizzate a
un mondo che non sa rapportarsi con la
disabilità, all’inefficienza di chi dovrebbe
prendersene cura, all’inadeguatezza delle
strutture logistiche, alle reazioni ipocrite
di chi la incontra; vi si trovano frecciate
nei confronti di inservibili, inconcludenti
manuali che ne dissertano, di pretenziosi
accademici che li scrivono. Ma emergono
anche figure tratteggiate con affetto,
in punta di penna: alcune insegnanti,
o giovani che hanno trovato una via
praticabile e solidale per occuparsi di
Moreno. La madre e i due fratelli, Jacopo
e Cosimo, compaiono solo di passaggio,
pur in pagine di grande intensità, ma
specialmente si parla del rapporto,
totalizzante, fra lui e il figlio. “Avrei
voluto parlare di Moreno”, confessa
l’autore in una delle ultime pagine,
“invece ho parlato soltanto di me stesso”.
“Zigulì l’ho scritto in una notte; il resto
a pezzettini; di solito, sul tram. Nasce
come un diario”, mi dice Verga, “e un
diario lo scrivi per te stesso. È diventato
un diario pubblico perché ho capito che
le mie parole avrebbero potuto essere
d’aiuto anche ad altri. Dopo due anni,
e centinaia di e-mail ricevute, posso
dire di non aver sbagliato”. Da un libro
come questo non era facile trarre uno
spettacolo teatrale. Il regista, Francesco
Lagi, mi spiega cosa l’ha convinto ad
affrontare questa sfida. “Il libro me lo ha
fatto conoscere Colella. La temperatura
emotiva delle parole e delle scene del
libro mi è sembrata subito densa. C’è
qualcosa di urgente nel racconto, di molto
immediato. Questo è stato l’elemento
che, senza troppo pensare, ci ha spinto a
farne uno spettacolo. Da subito ci siamo
resi conto che dovevamo fare delle scelte:
volevamo restituire l’emozione forte che
avevamo avuto leggendo. Mi sembrava
che ci fossero gli elementi emotivi per
farne teatro”. La struttura senza tempo
del libro diviene un non luogo del
palcoscenico, uno spazio indefinito con
palloncini sospesi; un universo chiuso,
abitato solo da Moreno, “così inutile
e così indispensabile”, e da suo padre.
“Quando lo spettacolo inizia,” mi dice
ancora Lagi, “il nostro personaggio è
immerso nel disordine, e a poco a poco la
scena si pulisce ed emerge un pavimento
bianco, in un andamento realistico e
anche emotivo. Quello che fa in scena
ha un rapporto stretto con quello che
dice e che pensa in quel momento. I
palloncini, che rimangono con lui per
tutto il tempo dello spettacolo, sono
all’inizio elementi riconducibili alla festa
appena finita, poi assumono via via un
aspetto simbolico: sono addirittura i
suoi tre figli. Ed è proprio al volo e alla
leggerezza di uno di quei palloncini che
il padre affida la lettera che ha scritto sul
futuro di suo figlio disabile, quella lettera
che lui non potrà mai leggere. Abbiamo
calato il personaggio in una situazione
domestica e notturna, alla fine di una festa
di compleanno, dove rimangono i resti
di una torta e dei giocattoli sparpagliati.
Questa notte è l’occasione per il padre
di fare i conti con suo figlio e con se
stesso”. La colonna sonora spazia da
rumori della natura, come il frinire di
grilli, il cinguettio di uccelli, un carillon,
il rock più duro; ma fa risuonare anche
il quinto Concerto brandeburghese di
Bach, cui Moreno sembra particolarmente
sensibile. Il padre, inizialmente, si pone
delle domande: perché a Moreno è toccato
questo? Poi si sofferma sull’ipocrita
inadeguatezza dell’espressone “portatore
di diverse abilità” e, forzando le regole
del politically correct, preferisce usare il
più diretto termine “handicappato”, o
“disabile”. E, a poco a poco, lo spettacolo
ci fa entrare nel suo mondo, spiazzandoci
con la sua brutale franchezza, ma anche
con la tenerezza, che a volte sembrano
collidere, ma che mostrano – vorrei dire,
finalmente – un approccio all’handicap
tanto lontano dalla retorica quanto dal
pietismo: un approccio fatto di ironia,
di disperazione, di amore, anche e
specialmente di concretezza: “Se morirai
prima di me, soffrirò di meno. Non è
un discordo da padre, lo so. Un padre
non dovrebbe nemmeno pensarle certe
cose. Ma nel tuo caso è così”. Sul finale,
si rivolge ai due fratelli, Jacopo e Cosimo:
“Quando sarò costretto a fermarmi, se
sarà ancora al mio fianco, Moreno dovrà
prendere la mano di qualcun altro, per
proseguire. [...] Quelle quattro noccioline
che avrò messo da parte, dovrò metterle
nelle sue tasche, perché lui non potrà
raccoglierne delle altre. Voi sì”. Ma
il senso profondo del suo sguardo su
Moreno sta in una battuta, una delle più
fulminanti del testo: “Quando ridi, non
me ne frega un cazzo di tutto quello che
succede intorno”. E lo spettacolo si chiude
con un’ultima, luminosa immagine di
poesia, metafora di quel problematico,
amorevole rapporto col figlio: “Perché
con Moreno è come camminare in un
prato pieno di margherite: non sai dove
mettere i piedi, per paura di schiacciarle”.
Abstract
Z
igulì is a book by Massimiliano Verga,
whose subtitle is My Bittersweet Life
with an Handicapped Son. It’s not an essay,
nor a diary, but a set of notes about the
relationship between the father and
Moreno, the handicapped boy: sometimes
tender, sometimes desperate, with spots
of poetry but also of very prosaic images.
To create a play from such a peculiar book
was a challenge, but Francesco Lagi (director) and Francesco Colella (actor)
succeeded in doing it. The main value of
the play relies on an original sight on
handicap, without any false piety, nor
rhetoric, but a great love. The whole work
is outlined by its last sentence: “Because
with Moreno is like to walk on a field full
of daisies: you don’t know where to put
your foot, for the fear of stepping on
them”.
teatridellediversità
75
Recensioni Festival
Il richiamo dell’arte
Teatri Paralleli
Una metamorfosi degli spazi fisici per la terza edizione del festival anima, oltre a Napoli,
anche Caserta e Benevento con la partecipazione di molti artisti internazionali
Ogni anno a luglio, centinaia di persone affollano la piazza centrale del piccolo borgo
abruzzese e condividono collettivamente proposte di impegno sociale e civile. Il
resoconto critico di uno spettatore
di Fabio Rocco Oliva
di Pierfranco Brandimarte
Altofest è un festival internazionale d’arti performative ed interventi trasversali,
ideato e organizzato da TeatrInGestAzione. Otto giorni in cui le case, le cantine,
le terrazze, i negozi, le scale hanno mutato pelle, in cui le performance hanno
dato luogo alla metamorfosi non solo
degli spazi fisici ma soprattutto del guardare lo spazio non come geografia definita ma pagina bianca da colorare. Altofest
non solo porta la cultura e l’arte e il bello
in quei luoghi dove generalmente latita,
c’è qualcosa di altro che rende tremendamente attuale l’energia che irradia.
Perché Alto? Alto è tensione continua
all’oltre, al confine più lontano, verso
l’orizzonte che non si percepisce con la
vista, come volo che non vuole raggiungere alcun nido, come virata improvvisa
e sorprendente. Per scardinare la staticità
affossante dell’oggi è necessario rifiutare
il punto fermo, buttare giù le porte, allontanarsi il più possibile dall’arte come
pacchetto ben confezionato. Gli uomini
primitivi avevano colto l’essenza mutevole del mondo, metamorfica, mai stabile
né completa ma sempre in movimento.
In questa corsa continua il festival di
76
A SANT’OMERO LA SETTIMA EDIZIONE
TeatrInGestAzione costringe gli artisti, i
donatori di spazi, i cittadini, i giornalisti
ad alzare lo sguardo e sfidare quella religio
che soffoca, ad essere in alto sulle terrazze
e in alto nelle cantine della pedamentina,
di Materdei, del centro storico di Napoli
per una riqualificazione che è umana e
urbana. Attraverso l’atto creativo, il gesto
poetico, Altofest non costruisce le fondamenta di un palazzo dorato dove riposare in beatitudine ma apre una voragine dove insiste una sorta di primigenio
interrogativo: cosa vedo? Dove sono? Il
teatro, e l’arte in generale, è occhio, vista
non solo sensibile ma esplorazione nella
totalità delle relazioni presenti in natura,
è lanciarsi nell’incalcolabili reazioni tra
gli elementi fisici del mondo. Infine è
creare le infinite possibilità. In ogni luogo
delle città e delle pulsioni creative, l’uno
e il molteplice si con-fondono senza che
l’uno escluda l’altro. Come per i primitivi un uomo poteva realmente trasformarsi in pianta o in animale, così il principio
che brilla in Altofest: ogni luogo scelto,
vissuto dagli artisti, dai donatori di spazio, dai cittadini, non è mai quello che il
senso visivo coglie, ma attraverso l’opera
poetica, il gesto poetico, quello spazio è
altro: un giardino che abbraccia il panorama di una Napoli da cartolina è una
piazza affollata dove un uomo vomita
la sua ribellione in megafono (Diktat di
Marco Tizianel); in una casa soppalcata
due donne sono oggetti, un ventilatore
è un danzatore che disegna l’ombra dei
suoi pensieri (Gesamtkunstwerk a domicilio di Simona Rossi); in uno scantinato
affossato e umido una coppia precipita
sulla soglia di una porta, eternamente al
suolo nel bilico (Freeze di Pietribiasi- Tedeschi); in una stanza di specchi le pareti
sono alberi di una favola dove antichi
cavalieri e mostri rincorrono la ciclicità
della sconfitta (Cara mamma caro papà
di Stalker Teatro); ancora cortili, terrazze e antichi conventi hanno reso materialmente visibile il pensiero di Pasolini,
luoghi e persone colorate non tanto dei
personaggi pasoliniani quanto della sua
essenza profonda, quella malinconia che
abbraccia la vitalità (Pasoliniana di Elisabetta Di Terlizzi progetto Brockenhaus).
Una domanda si impone inevitabilmente: come è possibile che l’arte sia, quando essa rifiuti consapevolmente la forma
compiuta? La logica di Altofest è altra
dalle canoniche strutture: non domina
il prodotto finito, ma si scatena la potenzialità. La bellezza infatti non risiede
nella compiutezza ma nella tensione ad
abbattere muri, nel porsi in quella frazione di secondo che precede l’atto e succede alla stasi, è quel frammento unico
e irripetibile nel quale è possibile “vedere” non la macchina ma il bullone che si
avvita al motore, il muscolo dell’operaio
mentre si contrae, il sangue che fluisce
nelle vene, una matassa organica di energia, di forze invisibili che dai corpi degli
artisti evadono nel luogo e donano nuove
geografie.Infine, viene alla mente (in dissolvenza) un’immagine che lega Altofest a
Il richiamo della foresta di Jack London:
il cane protagonista del romanzo, in una
tappa del suo viaggiare tra monti deserti,
scopre nel gelo della neve la possibilità di
calore. Ecco in Altofest la visione famelica
che crea la vita.
La settimana di Teatri Paralleli 2013
inizia e finisce con due spettacoliparata sul tema della luna in cui ci
è sembrato di leggere la vocazione
del festival, il tentativo cioè di unire
alla funzione terapeutica del teatro
la ricerca estetica di nuovi linguaggi.
Le due parate, interpretate dalla
Compagnia delle Formiche e dai
bambini del laboratorio di Cristina
Cartone, stabilivano la similitudine
tra l’attore disabile e il lato oscuro
della luna inteso come uno spazio
della stessa sostanza di quello in
luce ma inesplorato e carico di
possibilità: una metafora lirica e allo
stesso tempo concreta. In questa
prospettiva lo spettacolo migliore
è stato senza dubbio Pinocchio dei
Babilonia Teatri (progetto prodotto
in collaborazione con l’associazione
Amici di Luca-Casa dei Risvegli
di Bologna), un’opera rigorosa al
contrario di altre che ci sono sembrate
dimostrazioni di laboratorio ancora
premature come nel caso del primo
spettacolo del festival, Una Piccola
Ape Furibonda dell’Officina d’arte in
movimento, che trattava la malattia
mentale e il manicomio attraverso
la vita intima di Alda Merini. Lo
spettacolo procedeva per quadri: alla
narrazione seguiva un’azione scenica
corale a mo’ di didascalia, ad ogni
quadretto un cambio musicale. La
monotonia veniva interrotta soltanto
dai contributi diretti della poetessa,
video e stralci di poesie.
Nella seconda serata abbiamo assistito
allo spettacolo S’ogni Sogno lasciasse un
segno, scritto e diretto dagli aquilani
Comunità XXIV luglio. Si alternano
sulla scena due video e due momenti
teatrali. I video, realizzati dall’abile
Francesco
Paolucci,
mostrano
gli attori in un viaggio onirico
coinvolgente mentre le parti dal vivo
consistono in un rilassato talk tra la
regia e il palcoscenico - parti queste
che potevano essere di maggior
interesse se messe in relazione ai
contributi video e all’argomento
onirico. La terza sera è la volta del
Teatro del Paradosso di Ancona con i
ragazzi della comunità Ceis di Pescara.
In scena una commedia classica,
Le Nuvole di Aristofane. Notevole
l’attore protagonista che con la sua
vis dialettale restituisce al personaggio
di Lesina l’energia popolana. Nella
quarta serata troviamo Pinocchio dei
Babilonia Teatri e degli Amici di Luca,
di cui abbiamo accennato in apertura.
Lo spettacolo nasce dal laboratorio
tenuto da Valeria Raimondi e Enrico
Castellani presso la Casa dei Risvegli
di Bologna e dalla partecipazione
sulla scena di Paolo Facchini, Luigi
Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca
Scotton. Una scena snudata su cui
gli attori salgono in mutande, snudati
anch’essi – raccontano la loro storia
incentrata sull’esperienza del coma.
Assistiamo a un colloquio intimo,
sostenuto dalle domande della regia
- un interlocutore asciutto e privo di
indulgenza retorica tanto da evocare la
conversazione di un medico specialista.
Pinocchio incombe come un simbolo
vivo, è sul palco, è un attore con un
naso posticcio che siede immobile o
si muove appena. Pinocchio entra a
volte nelle domande della regia come
un’allusione, uno sfondo sul quale si
proiettano le vicende e che, sul finale,
viene in evidenza con l’ascesa di uno
dei tre protagonisti, il più fragile e
segnato dal trauma, che agganciato a
una fune si solleva sul palcoscenico
come un burattino coraggioso che
aspira a un livello ulteriore di umanità.
Nell’ultima serata Il Dirigibile
di Forlì presenta Esperando, una
rielaborazione di Aspettando Godot
che pone l’accento sul conflitto tra i
poveri disgraziati della piece e il ricco
Pozzo, interpretato e berlusconizzato
dal regista della compagnia Michele
Zizzari. Nonostante l’interessante
rielaborazione il testo a tratti rischia
di tenere poco conto delle potenzialità
degli interpreti.
Recensioni Festival
ALTOFEST
Abstract
T
he 2013 edition of Parallel Theaters
opened and closed with a show-parade, which set out the similarity between
the disabled actor and the dark side of the
moon as a space to explore, rich of expressive possibilities. It seemed that the
metaphor enclose the vocation of the
festival, which is to combine the theatrical therapeutic play with aesthetic research of new languages​​. In this sense, the
best show of the edition was Pinocchio
by Bailonia Teatri, a show that lays bare
the fragility of the actors marked by the
experience of coma and at the same time
it expresses a desire to return to life as
fragile wooden uppets wish an additional
level of humanity.
teatridellediversità
77
Recensioni Festival
MINSK / BIELORUSSIA
UN FESTIVAL DI DANZA
VIRTUOSO E SOSTENIBILE
Hangartfest promuove la cultura della danza e sostiene i giovani artisti senza costi per la
collettività
di Gloria De Angeli
L’obiettivo di questo festival, che nasce e
cresce a Pesaro, nelle Marche, per volontà
di Antonio Cioffi, è da sempre quello di
promuovere la danza e favorire lo sviluppo
di una cultura coreutica sul territorio
marchigiano. Attraverso proposte di
carattere professionale, sperimentando
forme e modalità sempre differenti,
Hangartfest è oggi un ricco contenitore di
momenti performativi, mostre, conferenze
e installazioni dedicate alla danza - e non
solo - che si svolge nei locali di una scuola
di danza: l’Atelier Danza Hangart (diretto
da Rosanna Gorgolini). Una scelta che non
è dovuta al caso, o alla necessità, ma che
rispecchia una precisa concezione di “scuola
di danza” quale base per la formazione
culturale, oltre che per la preparazione fisica,
di un danzatore. Fin dalla sua costituzione
nel 1992, Atelier Danza Hangart ha offerto
ai suoi frequentatori una intensa attività
culturale e performativa, sicuramente rara,
per non dire unica, nel circuito delle scuole
di danza del territorio, con artisti-ospiti del
calibro di Giorgio Rossi, solo per citarne uno.
Iniziative che si sono susseguite negli anni
in maniera episodica e casuale e che hanno
trovano finalmente una contestualizzazione
ben precisa in Hangartfest, nato nel 2004,
e da allora diretto da Antonio Cioffi, con
la volontà di organizzare un festival con
cadenza annuale che programmi una
serie di proposte artistiche e diventi un
punto di riferimento per appassionati di
danza, favorendo la fruizione e creando
un contesto dal carattere intimistico con
al centro lo spettatore. Questa vocazione
è stata ribadita dal programma della sua
X edizione (1- 28 settembre). Ancora
una volta lo spettatore è stato in prima
persona, attivo nella scoperta dei vari eventi
proposti, tra i quali la conferenza “Cent’anni
di Monte Verità” condotta da Eugenia
Casini Ropa e dedicata a Rudolf Laban,
i laboratori “Creativity, Space and Laban
Theories” (condotto da Ingvild Isaksen) e
“L’Arte dell’Improvvisazione” (composto dal
percorso danza condotto da Susan Sentler e
dal percorso teatro condotto da Francesco
Gigliotti) e una intera giornata (quella di
sabato 28 settembre) di eventi non-stop con
video proiezioni, installazioni, performance
e musica, dove lo spettatore si è sentito libero
di costruire il suo programma e dove è stato
possibile incontrare momenti performativi
interattivi. Anche se con un carattere definito
“intimistico”, Hangartfest non si preclude
occasioni di apertura verso l’esterno. Un
passo in tale direzione è stato fatto con
la vetrina “Essere Creativo”, iniziativa
nata nel 2011 per offrire la possibilità a
coreografi e performer emergenti di tutta
Italia e Europa di presentare il proprio
lavoro rispondendo ad un invito pubblico.
Continuando sul carattere di apertura
che ha contraddistinto la decima edizione
di Hangartfest è da citare l’intensificarsi
dei rapporti con altre organizzazioni ed
enti del territorio. Hangartfest, infatti, fa
parte di Ortopolis_Arti in rete ed è partner
- insieme a Proartis, Teatro Aenigma e
Associazione Nuovo Cinema - del progetto
“L’arte dell’improvvisazione” nell’ambito del
progetto REFRESH! Lo Spettacolo delle
Marche per le Nuove Generazioni (a cura
di CSM Consorzio Marche Spettacolo).
Come anche sono da segnalare due escursioni
che hanno portato il festival a Venezia e a
Macerata. Nel primo caso Hangartfest è
stato il sostenitore di un gruppo di performer
europei accolti in residenza durante agosto
e che si sono esibiti, che si sono esibiti ai
Docks di San Pietro di Castello a Venezia
il 4 e 5 settembre nel cotesto di ExExEx
Extemporary Experimental Exibition, in
collaborazione con Art Events. Nel secondo
caso, danzatori provenienti da tutte le
Marche, curati da Susan Sentler e prodotti
da Hangartfest, sono stati protagonisti di
una performance di danza urbana tenutasi
il 15 settembre in Piazza Cesare Battisti a
Macerata. Hangartfest è un festival che si
rinnova costantemente pur mantenendo
fermi i suoi obiettivi, che riscopre ogni anno
l’apprezzamento da parte dei suoi spettatori,
di quelli vecchi come di quelli nuovi, e
una forte attenzione da parte della stampa.
Il festival, che si regge esclusivamente sulle
proprie forze grazie al sostegno dei soci e al
coinvolgimento di alcuni sponsor privati,
è un progetto virtuoso che non pesa sulla
collettività e che è al 100% sostenibile
Abstract
H
angartfest, festival of the independent
scene directed by Antonio Cioffi, celebrates its tenth anniversary. Ten years
of Hangartfest mean ten years dedicated
to dance and contemporary performing
arts. The purpose of this festival, which
was born and raised in Pesaro, Marche,
has always been to promote the dance
and encourage to promote the dance and
encourage the young choreographers.
78
Drammaturgie originali
al Teatralny Koufar
Dal 22 al 28 settembre si è tenuto a Minsk il Teatralny Koufar, festival internazionale di
teatro universitario, giunto ormai alla sua decima edizione
Recensioni Festival
A PESARO LA SCENA INDIPENDENTE CONTEMPORANEA
di Claudio Facchinelli
Forse a causa delle restrizioni economiche, con poche
eccezioni (la storica compagnia dell’università di Liegi diretta
da Robert Germay; gli sloveni del liceo di Maribor; i macedoni
di Skopie), i gruppi partecipanti, su un totale di ventitre,
provenivano tutti dall’ex Unione Sovietica: Lituania, Lettonia,
Georgia, Estonia, Russia e, naturalmente, Bielorussia. La
connotazione internazionale della manifestazione è stata
tuttavia garantita dalla composizione della giuria, proveniente
da Francia, Belgio, Polonia, Moldavia, Grecia, persino dal
Bangladesh. La giuria, oltre ai premi ufficiali, ha espresso una
serie di segnalazioni speciali, con l’evidente intenzione di dare
un riconoscimento a tutti i lavori che presentassero elementi
teatrali degni di attenzione. Il Grand Prix, assegnato dal
pubblico, è andato a Mensch/Čelovek, del laboratorio gruppo
giovanile “TeatralnY Kvadrat”: uno spettacolo multimediale
(video, mimo, narrazione) di grande freschezza e di forte
impatto emotivo. La palma del miglior attore protagonista
e del miglior ruolo femminile secondario, rivelando nella
giuria un giusto riconoscimento alla spontaneità e all’energia
giovanile, è andata ai liceali di Maribor che, due anni fa si
era segnalato per una fantasiosa rivisitazione del Midsummer
Night’s Dream, qui impegnati nella gustosa proposta di una
poco frequentata Psyché, da Molière. A L’uomo latente, di Minsk,
una performance beffarda, esilarante nel suo rovesciamento
dei ruoli e degli stereotipi di genere, è andato il premio per la
miglior regia. Da citare ancora: L’aeroplano di Vanja Čonkin,
una sorta di musical del gruppo dell’università di Tomsk,
una favola sulla guerra a lieto fine, sorprendentemente antistalinista; il gruppo vocale georgiano di Arika do Varika, che
rivelava inattese somiglianze musicali con gli stilemi del nostro
storico coro della SAT; le fascinose scenografie dei lituani de
Il circo; l’originale assetto scenico e drammaturgico dei lituani
con Vivi, e potresti non accorgerti che sei già nell’altro mondo.
Per un elenco completo degli spettacoli e dei premi assegnati,
si rimanda al sito www.theatre-fest.bsu.by/eng/kufar.html.
Un’ultima osservazione. Il ventaglio di quanto visto consentiva
di riconoscere, nella realtà del teatro universitario dell’Europa
dell’Est, una forte preminenza delle drammaturgie originali
e delle rielaborazioni rispetto alle riproposte pure e semplici
di classici: una tendenza che mostra una consolante vitalità
culturale di quell’importante angolo di mondo.
Abstract
I
n spite of widespread economical difficulties, the tenth edition of
Teatralny Koufar took happily place in Minsk last September, mostly with East Europe groups. An international jury has chosen to
award, beside the main nominations, several deserving works with
special prizes. The energy and freshness of the youth has been appreciated also by the audience. Most of the works were based on
original texts.
teatridellediversità
79
Meldolesi rivoluzionario
A Claudio Meldolesi la sola immagine di grande intellettuale, fondatore degli studi teatrali
e Accademico dei Lincei, sta forse un po’ stretta. Prosegue lo spazio a lui dedicato da
Teatri delle diversità dopo l’iniziativa a cura di Laura Mariani promossa il 18 marzo scorso a
Bologna
U
n ricordo che ne rievochi, al di
là delle opere, la sensibilità e
l’intelligenza, entrambe indagatrici,
acuminate e, soprattutto, l’una al servizio
dell’altra, dovrebbe comprendere, in
primissimo piano, anche la sua indole di
“uomo contro” e studioso rivoluzionario.
Questo perché, detto in due parole,
lo spirito del ’68 gli apparteneva, e,
appartenendogli, è entrato in maniera
più o meno esplicita nella sue opere,
che – come mi suggerisce l’editore Fausto
Lupetti, compagno di Claudio negli
anni burrascosi di “Servire il popolo” –
“sono in gran parte dedicate a utopisti,
a proletari, ad artisti irregolari, alle
zone inquiete e marginali del teatro”.
Il personale “decentramento” operato
da Meldolesi ha, infatti, coinvolto
comici dimenticati come gli Sticotti,
un iniziatore caduto nell’ombra come
Gustavo Modena, le esperienze nel
sociale e nuove formazioni che hanno
trovato in lui un punto di riferimento al
quale rapportarsi per rilanciare le proprie
possibilità e intuizioni.
Con gli scritti, con la didattica
universitaria, con le collaborazioni
e le azioni di sostegno, Meldolesi ha
compiuto piccole rivoluzioni teatrali,
in parte, adattando ai tempi la grande
spinta pedagogica del Novecento, in
parte, contraddicendo e spiazzando
le nuove tendenze al riordino e alla
normalizzazione da qualunque parte
venissero: dai Maestri della scena, dagli
intellettuali, da centri culturali egemoni.
Era proprio di Claudio Meldolesi
spostare il focus delle ricerca nelle zone
d’ombra che via via si formavano ai
margini dei nuovi modelli. Chi l’ha
conosciuto negli anni del maggior
impegno politico, riconosce in questa
sua pedagogia di intellettuale militante
e formatore, uno strumento di giustizia,
che, almeno nella «micro-società» del
teatro (come egli stesso, con fortunata
80
definizione, aveva chiamato le comiche
compagnie), rimettesse le cose a posto.
E cioè illuminasse gli ultimi, capisse gli
irregolari, trascinasse al centro la periferia
del teatro, e rivalutasse, per contro, il
centro del teatro a misura che questo
si dimostrava marginale e periferico
rispetto ai nuovi centri d’interesse.
Claudio Meldolesi – è ancora Lupetti che
parla – “fa parte di quella generazione
che ha cercato di dare l’assalto al cielo.
Per anni ha scelto di vivere vicino agli
operai di Milano, pur essendo già
padre, professore e noto studioso di
teatro. Organizzava spettacoli di opere
teatrali e cinematografiche nelle piazze,
fra la gente. Ha scritto, sul posto, della
occupazione degli operai francesi della
fabbrica di orologi Lip di Besançon”.
Si dice che il tratto più immediatamente
evidente di Meldolesi fosse una
gentilezza, che stabiliva, con un
accenno, un sottinteso, un riferimento,
ponti tenaci anche con persone appena
incontrate. È indubbiamente vero, ma,
di questo suo modo di essere, il profondo
substrato umano è forse da individuare,
ancor più che in una naturale mitezza,
nella trasformazione intima, continua e
continuamente sofferta delle modalità
ideologiche e dei valori rivoluzionari
del ‘68. Dalla decantazione dei miraggi
epocali riflessi nel vissuto, Meldolesi
aveva ricavato una saggezza intinta di
ironia, che si assottigliava e articolava in
vari modi, agendo simultaneamente su
diversi scenari: pedagogici, intellettuali,
editoriali, istituzionali e relazionali.
E ciò al fine di mettere mano alla
realtà delle cose, dimostrandone
l’essenziale trasformabilità marxiana.
Il ‘68 ha bruciato molte vite, molte
speranze, molte agguerrite intelligenze;
Meldolesi, invece, ha avuto la forza e
il coraggio di bruciare in sé gli aspetti
caduchi di quell’estrema avventura
generazionale, serbandone, per contro,
la peculiare incandescenza, che, non
controllata, consuma e distrugge,
mentre, inquadrata fra relazioni umane
non viziate da presupposti ideologici,
illumina come una lanterna la difficile
strada che si può percorrere insieme,
magari cogliendo mutamenti modesti,
ma comunque indicativi delle possibilità
dell’agire umano.
L’aver mantenuto fermo il fine
di intervenire intellettualmente e
concretamente sul reale, ha, però,
determinato in Meldolesi anche la
necessità di coltivare, pur adattandolo
ai nuovi contesti, il pensiero strategico
della lotta rivoluzionaria. E di questo,
in particolare, la percezione dei rapporti
di forza, la capacità di prevedere e
governare gli effetti delle spinte causali,
l’intima tendenza a tradursi in logiche
di contro-potere che originavano, a loro
volta, ulteriori aree d’influenza.
Molti intellettuali sono stati trasformati
in “baroni” dalla carriera universitaria
– parlo, ovviamente, della vecchia
università italiana, prima della
riforma –, ma nessuno è stato, come
Meldolesi, un “barone” al contempo
segreto ed eticamente limpidissimo. A
frequentarlo, non si sospettava in lui
l’uomo di potere, poiché ad imporsi
attraverso la sua persona erano quella
saggezza ironica, quella trasparenza di
pensiero, che, d’altronde, lo portavano
a individuare nell’esercizio del potere
il necessario strumento di attuazioni
intellettuali e poetiche. Proprio perciò,
Meldolesi era anche un politico
disinibito, astuto e imprevedibile: uno
scacchista nato. Un piccolo aneddoto
potrà meglio descrivere questo aspetto
della sua personalità. Ogni quattro
anni i dipartimenti universitari
eleggono il proprio Direttore. Si tratta
di un’elezione segreta attuata nel più
semplice dei modi. Ogni docente scrive
il nome del candidato su un foglietto,
(Foto di Franco Deriu)
Recensioni Incontri
MAI L’UNANIMITA’!
che depone in una scatola di cartone chiusa e forata nella
parte superiore. Segue lo scrutinio. Durante l’elezione di un
direttore particolarmente benvoluto, di cui si sapevano le
capacità gestionali e sul quale c’era la più ampia convergenza,
improvvisamente uscì dall’ “urna” un nome diverso e
inatteso, quello di Eugenia Casini Ropa. Sconcerto generale.
Cos’era? Uno scherzo? Una provocazione? Un messaggio in
codice? Ho ancora presente il sorriso di Claudio, mentre
risponde alle mie curiosità dicendo: “Sono stato io... mai
l’unanimità!”. E cioè, mai un potere, che pensi allentato il
controllo della collettività votante, che tragga dalla fiducia
accordata l’auspicio d’una delega un po’ troppo spinta. Non
è un dettaglio, ma un modo di pensare. Il potere accademico
è invasivo, si ramifica in discussioni, in proposte, in nuove
articolazioni istituzionali di delicata e difficile attuazione.
Claudio Meldolesi è stato fra i fautori del Dottorato in
Discipline dello spettacolo, ha fortemente voluto la rivista
“Teatro e Storia”, edita dal Mulino, ha ispirato i rapporti fra
gli storici del teatro e questa casa editrice, ha fondato il Centro
di produzione e ricerca teatrale “La Soffitta” e, assieme a me,
il semestrale “Prove di drammaturgia”, trovando poi modo di
difendere e preservare, nonostante la malattia, anche questa
creatura culturale. Ma, soprattutto, non va dimenticato che
a Meldolesi si deve, in grandissima parte, il radicamento di
Leo de Berardinis a Bologna: uno degli episodi più importanti
e artisticamente fecondi dell’ultimo Novecento. Parlando di
Leo – attore-artista che gli è stato vicino e straordinariamente
affine –, Meldolesi ha tracciato una specie di autoritratto
per trasposta persona, che vorrei ora includere, e quasi
sovrapporre, a queste osservazioni, che, trattando aspetti
solitamente trascurati nella personalità del grande studioso,
corrono forse il rischio di lasciare in ombra proprio i suoi
valori essenziali, per cui le scelte politiche s’innestavano in
una totalità antropologica continuamente rigenerata e rivelata
dalle manifestazioni del teatrale. Scrive, dunque, Meldolesi:
«Chi può misurare gli impulsi primari di Leo? Si pensi a
quanti artisti ha aiutato prospettando maggiori possibilità; e
si pensi alla serenità delle sue prove. Nessun altro regista ho
visto orientare gli attori manifestando loro fiducia e distanza
maieutica. Nessun altro, ho visto, dotato della sua capacità di
rivalorizzare magicamente il vissuto […]. La stessa ultima e
schiva ricerca dei gruppi si è a lui rifatta, specie per la maestria
nell’essenzializzare la forma guida degli spettacoli; e sia sul
versante degli scavi ulteriori nel tragico e nel meraviglioso sia
su quello delle sintonie mentali. Le quali sono state preziose
anche per le perlustrazioni dell’antico di vari storici del
teatro stessi. La sapienza raggiunta da Leo colpisce perché
conquistata di persona». (Maestro di teatri fra loro lontani,
2002, al link http://www.arcoscenico.it/n_perleo.htm).
Similmente, di Claudio Meldolesi, potrei dire: nessun altro
studioso ho visto orientare gli studenti manifestando loro
fiducia e distanza maieutica. Nessun altro, ho visto, dotato
della sua capacità di rivalorizzare magicamente il vissuto… La
sapienza raggiunta da Claudio colpisce perché conquistata di
persona… Proprio a causa di questo senso etico, che ne guidava
il lavoro intellettuale, possiamo chiederci come Meldolesi
vivesse la propria accortezza politica, la sua predisposizione ad
essere uomo di potere. Credo che gli studi sul “dramaturg”,
forniscano una risposta oggettiva a questo interrogativo
altrimenti irrisolvibile e indiscreto. Di tutti i ruoli teatrali –
l’autore, il regista, l’attore – il “dramaturg” è il più indifeso,
l’unico che non abbia una mansione estetica assolutamente
propria, alla quale potersi appellare nella paziente opera di
tessitura e mediazione fra testo, interpretazione e messinscena.
Proprio a questo ruolo, Meldolesi ha dedicato una ricerca
originale e profonda, che possiamo definire di fondazione.
Assieme al libro sul teatro delle Laminarie (2008) e a quello
su Leo de Berardinis (edito postumo 2010), il volume sul
“dramaturg” (2007), scritto a quattro mani con Renata
Molinari, costituisce un ultimo prolungarsi di Meldolesi
attraverso la scrittura. Non credo si tratti di scelte casuali.
Specchiandosi nell’esistenza del teatro delle Laminarie fra
idealità e problemi concreti, nel rigenerarsi artistico di Leo,
nella figura del “dramaturg”, Meldolesi, chiuso nel suo
piccolo studio affollato all’inverosimile di carte, si allontanava
dall’esercizio del potere attraverso il rito del pensiero che si
fa discorso, consegnando alla memoria del lettore il fuoco
depurato e vivo della speranza rivoluzionaria.
Abstract
T
he essay relates the early adhesion of Claudio Meldolesi to the
revolutionary ideology of the 1968 with his later work as scholar
and intellectual, revealing the transformations that characterized
him form the original political imprinting. On one hand, Meldolesi’s
studies prefer marginal characters and phenomena or that are diminished by new models of values, but, on the other hand, his
studies set these choices in a total anthropological context continuously regenerated and revealed by theatre’s performances. The
fixed aim to intervene on the reality caused also Mendonlesi’s necessity to cultivate the strategic ideology of revolution, adapting it
to new contexts.
teatridellediversità
81
Recensioni Incontri
SAMUEL BECKETT E IL MONDO CONTEMPORANEO
Il teatro come risorsa
per la salute mentale
Aspettando Godot oggi?
Tra le diverse attività del CIT – Centro di Cultura e d’Iniziativa teatrale “Mario Apollonio”
una sezione dedicata al teatro sociale
Inaugurata il 6 novembre (e aperta fino al 26 gennaio 2014) presso La Casa dei Teatri di
Roma, una mostra intitolata Prigionie (in)visibili
di Yosuke Taki *
Recensioni Mostre
All’Università Cattolica di Milano
di Giulia Innocenti Malini
D
a anni la sezione di teatro del
Dipartimento di Comunicazioni
Sociali dell’Università Cattolica è
impegnata in un’attenta riflessione sulle
risorse specifiche che il teatro e, più in
generale, le pratiche performative possono
mettere a disposizione dei processi di
sviluppo sociale, di formazione, di cura,
di riabilitazione e di prevenzione diffusa.
Dentro questa cornice è stato proposto
l’incontro La cultura che cura: il teatro
come risorsa per la salute mentale, realizzato
il 7 ottobre 2013. Il teatro da sempre è il
momento in cui la collettività incontra
le sue parti fragili ed oscure e la scena
82
si fa luogo di svelamento di una verità
complessa e scandalosa: primo passo di
un processo di cura. Ma cosa può essere
il teatro oggi in una collettività stremata
dai disagi diffusi, affollata di immagini
e suoni che raccontano dolore, guerra
e sofferenza, incapace di sostenere i
legami sociali, fintanto da alimentarli
con sentimenti di rancore piuttosto che
virtualizzarli sul web? Per rispondere
a questa domanda sono state messe a
confronto alcune esperienze attive da
molti anni in territori geograficamente
prossimali seppur caratterizzati da
sistemi sociali differenti, nelle quali
l’esperienza del teatro è una risorsa per
la salute mentale e un sostegno alla
riabilitazione delle persone entro una
logica di partecipazione comunitaria,
andando a contrastare le dinamiche di
esclusione ai danni di persone che vivono
situazioni di fragilità, con particolare
attenzione all’esperienza della follia. Con
le sue risorse immaginative calate nella
concretezza dell’agire relazionale proprio
della performance, il laboratorio teatrale
e performativo promuove situazioni di
attoralità ed autoralità culturale diffusa,
che coinvolge diversi soggetti - pubblici
e privati, singoli e associati, fragili ed
esclusi - costruendo ponti e legami nel
territorio. Fa cultura là dove la cultura
non c’è, fuori dai centri, dislocandosi nelle
periferie e valorizzando luoghi e spazi che
rappresentano le grandi metafore della
esperienza umana. Insomma sostiene la
speranza e realizza, un’azione dopo l’altra,
le aspirazioni che alimentano il futuro. A
riflettere su queste tematiche, insieme ai
numerosissimi partecipanti che gremivano
lo storico laboratorio teatrale dedicato
a Mario Apollonio, sono intervenuti
per l’Università Cattolica Annamaria
Cascetta professoressa di Storia del
Teatro, Claudio Bernardi professore di
Riti, miti e simboli delle organizzazione
e Giulia Innocenti Malini del Corso di
Alta formazione per operatori di teatro
sociale; per Olinda e il festival Da vicino
nessuno è normale Thomas Emmenegger
e Rosita Volani; Giorgio Cerati direttore
del Dipartimento di Salute Mentale
dell’Azienda Ospedaliera di Legnano;
Alessia Repossi e Vaninka Riccardi per
il progetto Il teatro come ponte per la
comunità di Magenta. L’incontro avvia
un percorso di aggiornamento sulle
tematiche del teatro e la salute mentale
realizzato dal CIT, l’Azienda Ospedaliera
di Legnano della Regione Lombardia,
con particolare riferimento al Unità
Operativa di Psichiatria di Magenta, e
la Provincia di Milano.
S
ono passati 60 anni dalla prima mondiale di Aspettando
Godot, ma in soli sei decenni l’interpretazione di Godot e
di altre opere di Beckett hanno subito forti cambiamenti.
Soprattutto a partire dagli anni Novanta, dopo la sua morte,
le opere di Beckett, non potevano più essere solo ricondotte a
un teatro dell’assurdo, metafisico, distaccato dalla realtà, ma
sono state “richiamate” a essere un teatro capace di stimolare
sensibilità reali (sociali, politiche, psicologiche) che respirassero
nel presente della Storia, un po’ come lo era Godot all’origine.
La mostra percorre cambiamenti ed elementi costanti nell’approccio alle opere di Beckett, invitando i visitatori a domandarsi
sul rapporto tra il teatro e il mondo, nel periodo a cavallo tra
il XX e il XXI secolo.
La mostra si articola in tre parti dopo una premessa:
Abstract
0. All’origine
T
L’opera più celebre di Samuel Beckett, Aspettando Godot, racconta la vicenda di due uomini smarriti come barboni, che aspettano un tizio di nome Godot che non arriva mai, di sera,
su una strada di campagna desolata dove non c’è niente tranne
un albero, e niente di particolare né di drammatico succede.
Quest’opera, poco rispettosa delle convenzioni teatrali dell’epoca, provocò un enorme scandalo quando andò in scena per
la prima volta nel 1953 a Parigi. L’impatto, fortissimo, non si
limitò a penetrare la sfera culturale, ma raggiunse uno strato
emotivo più profondo degli spettatori, perché in qualche modo
l’opera parlava esattamente dello stato d’animo del pubblico di
allora, che aveva la guerra ancora sotto la pelle. L’opera nasceva
difatti dalle esperienze dell’autore irlandese che aveva vissuto tra
he CIT – Centro di Cultura e d’Iniziativa teatrale “Mario Apollonio” – section
of social theatre, organized the meeting
The culture that cares: when the theatre
is a mental health resource (7 october,
2013) at The Catholic University of Milan.
The focus of reflection is the social dimension of mental health, according to the
different perspectives and practices of the
projects: Olinda – Da vicino nessuno è
normale of Milan and Operating Unit of
Psychiatry – Il teatro come ponte per la
comunità of Magenta.
le macerie del sud della Francia, fuggendo dai nazisti insieme
alla futura moglie Suzanne. Godot, all’epoca, deve aver respirato
davvero la Storia insieme al mondo fuori dal teatro.
1. I muri del carcere cadono con Beckett
Ma chi ha capito subito e da sempre il vero senso della drammaturgia di Beckett sono stati i carcerati. A cominciare dal prigioniero di un carcere tedesco, che tradusse e messe in scena
Godot pochi mesi dopo la sua prima mondiale, fino a oggi,
moltissimi carcerati nel mondo e i loro laboratori teatrali hanno continuato a mettere in scena Godot e altre opere beckettiane. Come mai quest’affinità tra Beckett e la prigione? Perché
i carcerati hanno sempre riconosciuto una forte corrispondenza
Abstract
6
0 years have passed since Waiting for Godot appeared for the
first time on a stage and in the meanwhile the interpretation of
Godot and other works by S. Beckett have undergone many changes.
Especially, in the 90’s, after his death, his works were no longer only
as works of the theatre of the absurd, they appeared no longer as
metaphysical works, detached from reality, but they were re-interpreted and seen as capable to arouse a real, social and political
sensibility. It seems as they find their nourishment in the current
time, as it was originally. The exhibition traces the changes which
occurred and shows the constant elements in the approach to Beckett’s
works , stimulating the visitors to consider the relationship between theatre and world in the years between the 20th and 21st century.
teatridellediversità
83
Stefano Casi
T
Aspettando Godot a Fukushima, Kamone Machine
84
tra la loro condizione e le opere di Beckett. Vi leggevano il vero
senso della prigionia. Beckett non descriveva la vita di carcerati.
Semplicemente, è così che vedeva l’umanità. L’umanità, per lui, è
sempre inconsapevolmente imprigionata, seppure comicamente.
Questa prima parte, in una stanza dall’atmosfera carceraria, racconterà alcune esperienze di messe in scena di opere di Beckett
all’interno di prigioni, in Italia e all’estero. Oltre ai lavori di alcuni
esponenti del teatro in carcere in Italia (Gianfranco Pedullà, Claudio Collovà, Giorgia Palombi, Michele Zizzari, Armando Punzo), sono da notare soprattutto i materiali sulla carriera di Rick
Cluchey, l’ex-ergastolano statunitense che ha avuto la grazia per
meriti culturali per le sue attività teatrali nel carcere di San Quentin, e che dopo il suo rilascio ha recitato in diverse opere con la
regia dello stesso Beckett.
imento della sua ricerca. In fondo anche da regista Beckett ha
mostrato la stessa tensione, eliminando ogni possibilità d’interpretazione realistica. E lo seguirono un’intera generazione di registi e attori. In questo modo Beckett è stato a lungo interpretato
come un autore metafisico, comprensibile solo a un altro livello di
coscienza. Sembrava a volte che tra le rappresentazioni e il mondo
ci fosse la stessa distanza tra il sogno e la realtà. La seconda parte,
che si estende lungo tre piccole stanze, dimostra l’evoluzione di
diverse forme di prigionia nelle opere beckettiane, dai vari gradi
di costrizione fisica, come in Giorni felici o in Commedia, alle prigioni fatte di voci infernali che echeggiano fuori e dentro la mente, come ne L’Ultimo nastro di Krapp o in Di’ Joe o Non io, fino alle
“prigionie estreme” vissute all’interno dello spazio bidimensionale
delle immagini televisive.
2. Ricerca dell’astrazione
3. Beckett dopo Beckett
Tuttavia, nelle sue successive ricerche di scrittura drammaturgica
Beckett si allontana sempre più da ogni possibile corrispondenza col mondo esterno e si ritira nella visione più astratta, con i
personaggi che non hanno più connotazioni individuali e spazi
teatrali senza scena, dove i personaggi sono semplicemente circondati dal buio, fino ad arrivare nel 1981 a un’opera di massima
astrazione, Quad, scritta per la televisione. I quattro performer,
incappucciati fino alle caviglie e diversamente colorati, cambiando la combinazione tra loro (1, 1+2, 1+2+3, 1+2+3+4, 2+3+4,
3+4, 4, 4+2, 4+2+3…) percorrono i lati e le diagonali di un’area
quadrata (sempre circondata dal buio) fino a esaurimento delle
combinazioni, ripresi da una telecamera posta in alto. L’autore
solleva il nostro sguardo dal livello di terra perché si possa vedere
bene la realtà catastrofica di questo mondo, dall’alto, a distanza,
ma senza alcuna possibilità di intervenire. Rimane questa distanza
dalla realtà che assomiglia a una certa indifferenza non terrestre.
Sembra davvero che un dio indifferente guardi la povera umanità
destinata a ripetere eternamente gli stessi gesti. Osservando il percorso artistico da Godot a Quad, si ha l’impressione che Beckett
abbia parlato sempre della stessa cosa, dell’ “umanità inconsapevolmente imprigionata”, ma cercando ogni volta una maggiore
astrazione, per raggiungere finalmente lo sguardo “teologico” di
Quad. Quad, in questo senso, può ritenersi l’ultimo raggiung-
Tuttavia, dopo la sua morte, dagli anni Novanta molti registi sensibili alle questioni politiche e sociali hanno riportato Beckett in
mezzo alle rovine della Storia. Susan Sontag fu la prima a tuffarsi
letteralmente tra le macerie, mettendo in scena Aspettando Godot nel 1993 nella Sarajevo ancora assediata. Dopo di lei, altri
seguirono mettendo in scena Godot, Finale di partita e altre opere
di Beckett in varie situazioni di “disagio” del mondo contemporaneo. Con loro inizia una nuova stagione di approccio al teatro
di Beckett, che non poteva più rimanere unicamente un teatro
che ci offre solo una visione filosofica, ritornando invece ad essere un teatro capace di corrodersi e di interagire con la realtà
storico-geografica, facendo così emergere le “prigionie invisibili”
nascoste nell’opaco tessuto del nostro tempo. Il mondo sta cambiando ed è la Storia stessa che ha richiamato Beckett in questo
ruolo, quello di scriba della Storia. In quest’ultima parte sono esposti numerosi esempi di messe in scena (molti i casi stranieri, tra
cui americani e giapponesi) fatte con persone “diverse”, con attori della generazione smarrita, a New Orleans davanti agli sfollati
dopo l’uragano Katrina, in mezzo alla manifestazione di Occupy
Wall Street, e persino in un punto appena fuori dalla zona d’evacuazione della centrale nucleare di Fukushima.
eatro di partecipazione e animazione
teatrale: è Giuliano
Scabia a sperimentarli
per la prima volta a Torino, nel primo grande
Decentramento Teatrale
del 1969/70. Quattro
quartieri-ghetto per immigrati, attraversati da
lotte sociali e sindacali
in pieno “autunno caldo”, si trasformano in
un immenso laboratorio
teatrale: a Mirafiori Sud,
Le Vallette, La Falchera e
Corso Taranto prendono forma azioni di strada, spettacoli
di teatro politico e d’inchiesta, esperienze pionieristiche
con i bambini e un happening non-stop di 33 ore sul manicomio. Queste pagine raccontano le utopie, i boicottaggi,
le mediazioni di quell’esperienza, entrando nell’officina
sperimentale di Scabia (e della neonata Assemblea Teatro)
alla ricerca di un teatro di scontro e contraddizione, “con”
e “per” la comunità.
Edizioni ETS, Narrare la scena / esercizi di analisi dello spettacolo Pisa, 2012, pag
284 ISBN 978-884673127-2
DIALOGO SULL’ATTORE
Leo de Berardinis
a cura di Giorgio Zorcù
L
’8 agosto 1993 al Castello Aldobrandesco
di Arcidosso, a conclusione della prima edizione
del festival-laboratorio
Toscana delle Culture. Leo
De Berardinis tenne questa
conferenza-dialogo sull’attore. In maniera semplice,
discorsiva e sorprendente
vengono toccati tutti i temi
cari a Leo, uno dei maestri
più lucidi, visionari e lungimiranti del nostro teatro.
Edizioni Effigi, Arcidosso (GR), 2012, pag 48, ISBN 978-88-6433-248-2
C
osa succede nel corpo-mente dello spettatore a teatro? Cosa
ci dicono le neuroscienze
cognitive a proposito dell’esperienza spettatoriale?
Com’è possibile, oggi, indagare quei meccanismi
cognitivi che rendono unica
l’esperienza dello spettatore
teatrale rispetto a tutte le
altre esperienze della nostra
quotidianità? Queste sono
solo alcune delle domande
che il libro tenta di esplorare tramite un approccio
multidisciplinare che, partendo dagli studi teatrali, attraversa
le neuroscienze, la psicologia cognitiva, le scienze dei sistemi
complessi e la fenomenologia per poi tornare verso quel polo
della relazione teatrale così importante e così poco studiato:
Segnalazioni editoriali
600.000 E ALTRE AZIONI LE ACROBAZIE DELLO
TEATRALIPER GIULIANO SPETTATORE
Dal teatro alle neuroscienze e ritorno
SCABIA
Gabriele Sofia
Bulzoni Editore, Roma, 2013, pag 184, ISBN 978-88-7870-843-3
LA PENA VISIBILE
Salvatore Ferraro
“L
a pena visibile” è
una teoria dell’esecuzione penale
che mira a dimostrare come
l’esperienza dell’utilizzo del
carcere, quale luogo ideale
e irrinunciabile dell’esecuzione della sanzione penale,
deve ritenersi finita: causa
fallimento. Questa teoria
non si limita a offrire fatti e argomentazioni atti
unicamente a descrivere e
provare le ragioni di questo
fallimento. È una teoria
che aspira a molto di più.
Essa, infatti, oltre a offrire ragioni nuove e più profonde nello
spiegare dove e in che modo il carcere abbia rivelato i suoi lati
deboli, paradossali e contraddittori, mira a modellare un nuovo
scenario esecutivo della pena: alternativo, utile e produttivo.
Questo modello è fondato su una specifica qualità: la visibilità,
ossia la possibilità, da parte della società e della vittima del
reato, di partecipare il percorso sanzionatorio inflitto al reo; e
muove da due presupposti, meglio, due urgenze fondamentali:
ricreare intorno al reo un nuovo ambiente “condizionante” e
dissolvere “l’ambiente carcerario”.
Rubettino Editore, Roma, 2013, Pag 186 ISBN 978-88-498-3581-6
*Curatore della mostra
teatridellediversità
85
filo diretto
BOLOGNA
LA SAGGEZZA DELL’INSICUREZZA
Il 14 e 15 dicembre 2013 si terrà a Bologna presso i Laboratori
del Dipartimento delle arti dell’Universita’ di Bologna (Via Azzo
Gardino 65) un incontro di studi promosso dall’Associazione
DES (Danza Educazione Società). Il convegno, che si articolerà
in momenti di discussione, di pratica e di visione, non cercherà,
in questo senso, risposte certe, ma offrirà percorsi di connessione,
dialogo e riflessione a partire da alcune significative domande:
Può la danza offrire un’apertura di pensiero e azione verso un
nuovo modo di essere e di fronteggiare il senso di insicurezza
così diffuso?; Quali saperi può offrire la danza, in termini di
costruzione di consapevolezza individuale, di centratura di sé, di
riassetto dinamico della persona? Quale ruolo gioca la nostra
corporeità nella costruzione di una solidità esistenziale – emozionale
e fisica – capace di sostenere e fronteggiare le richieste di
adattamento rapido ai cambiamenti? E quali suggestioni,
suggerimenti, intuizioni, direzioni percorribili e confluenti possiamo
ricevere da altri ambiti, come quelli economico, sociologico,
psicologico, ecologico? A parlarne con noi e a offrire testimonianze
di pratica corporea e artistica e suggestioni di pensiero: Simona
Bertozzi, Eugenia Casini Ropa, Alessandro Certini, Marcella
Danon, Laura Delfini, Enrico Euli, Hubert Godard, Julyen
Hamilton, Luciano Vasapollo, Franca Zagatti. ( info e-mail- info@
desonline.it)
ROMA
CARCERAZIONI
carcerAzioni è un progetto a cura dell’Assessorato alla Cultura,
Creatività e Promozione Artistica - Dipartimento Cultura di
Roma Capitale che si sviluppa in diversi spazi della città come
la Casa della Memoria e della Storia, la Casa dei Teatri, il Nuovo
Cinema Aquila, la Sala Santa Rita, il Teatro di Villa Torlonia, il
Museo della Mente e il Museo della Liberazione di via Tasso. Si
prefigge di indagare, attraverso mostre, incontri, letture, proiezioni
e performance, il concetto di libertà dell’individuo contemporaneo,
una libertà precaria, continuamente a rischio di perdita delle
garanzie conquistate. carcerAzioni dunque, come metafora
dell’esistenza umana, dalla segregazione vera e propria all’autochiusura al mondo, all’impedimento come esclusione, alla malattia
come sfera dell’impossibilità di agire. Il progetto si ispira al
concept della mostra alla Casa dei Teatri (fino al 26 gennaio
2014) Prigionie invisibili ispirata alle molte configurazioni visive
e concettuali di Samuel Beckett. Dal 9 dicembre, prenderà l’avvio
invece al Teatro di Villa Torlonia lo stage di Cathy Marchand,
attrice storica del Living Theatre, un’indagine fisica e poetica
intorno al concetto di prigionia partendo da The Brig, spettacolo
totem della compagnia capitanata da Julian Beck e Judith Malina.
Seguiranno poi altri appuntamenti fino al mese di aprile 2014,
quando il progetto si chiuderà con una Lectio magistralis di
Franco Ruffini dal titolo Teatro. Il peso leggero del corpo e il
lancio di un bando di cortometraggi di video-teatro, anch’essi
ispirati al concetto di prigionia. Per informazioni www.comune.
roma.it/cultura; www.culturaroma.it; costanzamaria.mongini@
comune.roma.it
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ANGHIARI (AR)
TOVAGLIA A QUADRI
Nella XVIII edizione di Tovaglia a Quadri, al Poggiolino della
splendida Anghiari, promessa ampiamente mantenuta, con
Traguardaci (10/19 agosto 2013), epopea di una comunità che
si narra e si collega al mondo, attraverso contese e dubbi, contrasti
e affetti, voci e musiche, a ricordarci che la politica divide, ma la
ricerca di una nuova polis e della dignità di una comunità è
l’unica via che valga. Sentieri di storia locale ripercorsi, punti di
vista molteplici, attesa del nuovo, in un intreccio tra loro e noi,
ospiti alla tavola imbandita con raffinata semplicità. Ci chiedono:
Traguardaci e noi tra-guardiamo, tra le pieghe, tra le righe, tra
le note un mondo che cambia, si trasforma e chiede allo spettatore
di essere attivo, se di teatro di comunità si tratta: pedaliamo con
loro, gioiamo e ci immalinconiamo, apprezziamo questi straordinari
attori, talenti naturali alimentati dalla sapienza drammmaturgica
e registica di Merendelli e Pennacchini, allenatori doc di una gara
di intelligenza (Ivana Conte, e.mail [email protected]) .
IL TEATRO DELLE OMBRE
A CARTOCETO (PU)
MASTERCLASS Agosto 2014
La presenza dell’ombra ha dovunque ossessionato l’immaginazione
degli uomini nelle culture più diverse. Non si contano i miti,
le credenze, i tabù, le leggende che hanno come protagonista
l’ombra. Fondo comune di tutte queste credenze sarebbe una
equiparazione tra ombra e anima. Alla scomparsa dei miti,
l’interesse per l’ombra è rimasto vivo in letteratura, nelle arti,
nel cinema sempre legato al tema dell’identità. Con l’ombra
collocata in un interessante incrocio a cavallo tra fisica e metafisica,
possiamo disporre di un centro di interesse congeniale a tutti
i bambini di ogni età, che non separa precocemente ragione
e immaginazione e si presta ad una quantità di giochi, di
ricerche, di attività. Nel corso, diretto da Mariano Dolci dal
25 al 29 agosto 2014 a Cartoceto (Pesaro e Urbino), saranno
esposti materiali ed illustrate esigenze tecniche per passare alla
costruzione di sagome per il teatro d’ombre e a esercitazioni su
giochi con la luce ed altre animazioni. Verranno inoltre esposte
le esperienze più significative ed i risultati di ricerche riguardo
alle credenze ed ai comportamenti dei bambini relativi alla loro
ombra, frutto di 35 anni di attività nelle scuole dall’asilo nido
alle superiori. L’iniziativa è promossa dalla Scuola sperimentale
di teatro di animazione sociale, un progetto del Teatro Aenigma
diretto da Mariano Dolci e Vito Minoia, rivolto ad educatori,
operatori sociali, artisti, studenti interessati a formarsi nell’utilizzo
di tecniche derivanti dalla tradizione del Teatro di Animazione
(burattini, marionette, ombre) in campo educativo e nel sociale.
Per informazioni: [email protected], www.teatroaenigma.it
Riferimento imprescindibile
PER I TEATRI DELLE DIVERSITA
Teatro in Carcere, Marionette e Terapia, Commedia dell’arte e Kyogen, “Profezia” di Pier
Paolo Pasolini, gli argomenti più discussi. Un focus su due longeve significative esperienze è
all’origine di una nuova iniziativa editoriale
Il tema principale è quello del teatro in carcere con due sessioni
di lavoro: la prima dedicata alle esperienze sceniche negli otto
istituti penitenziari marchigiani, a conclusione di un progetto
unitario biennale con gli operatori che intervengono nei
differenti contesti; la seconda, con il coinvolgimento di alcune
selezionate esperienze nazionali, dopo la stipula del Protocollo
d’Intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
attraverso l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari (Ministero
della Giustizia) e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere,
organismo fondato proprio a Urbania tre anni fa e che oggi
annovera al suo interno 44 compagnie da 14 Regioni italiane.
Altri temi in evidenza nel Convegno: il rapporto tra marionette
e terapia, anche alla luce delle più recenti iniziative della
Associazione francese “Marionnette et Thérapie” ed un focus
di natura spettacolare su due esperienze consolidate (quelle di
Néon Teatro di Catania e Stalker Teatro di Torino, entrambe
con un curriculum trentennale) e molto rappresentative del
campo dei « Teatri delle diversità », oggetto di riferimento
per gli studi innovativi promossi dalla Rivista. Il Convegno si
apre a conclusione dello spettacolo Nessuno escluso di Néon
Teatro per le scuole di Urbania. Dopo i saluti delle autorità,
l’’intera mattinata è dedicata al Progetto Regionale di teatro in
carcere nelle Marche con interventi di Cooperativa Koinema,
Fondazione Teatro delle Muse, Associazione teatrale Sassi nello
Stagno, Teatro Aenigma, Compagnia teatrale Art’ò, Compagnia
teatrale La Pioletta, Associazione LaGrù, Associazione
Teatroaponente, Simone Guerro. Nel pomeriggio sono previste
due tavole rotonde: la prima dedicata a marionette e burattini
con persone disabili, coordinata da Mariano Dolci, docente
a contratto di Teatro di Animazione all’Università di Urbino,
intervengono Corrado Vecchi, Giovanna Gambino, Rosario
Perricone; la seconda, dal titolo “Le poetiche degli artisti nelle
attività di gruppo” condotta da Valeria Ottolenghi, esponente
del direttivo della Associazione Nazionale dei Critici di
Teatro, dà conto, attraverso le testimonianze degli operatori,
delle esperienze di teatro in carcere recentemente condotte a
Vigevano, Padova, Saluzzo, Venezia e Bamenda (Camerun)
da Mimmo Sorrentino, Maria Cinzia Zanellato, Grazia Isoardi
di Voci Erranti, Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, Frate
Stefano Luca. Ancora un doppio appuntamento a conclusione
di serata al Teatro Bramante con la replica dello spettacolo
“Nessuno escluso” di Nèon Teatro (regia di Monica Felloni,
direzione artistica di Piero Ristagno), al quale è stato assegnato
il “Premio Teatri delle diversità 2013” (in collaborazione con
l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro) e la performance
“Action” di Stalker Teatro, direzione artistica di Gabriele
Boccacini. La sessione domenicale si apre alle 10 con gli
interventi del regista fiorentino Francesco Gigliotti, insieme
ad alcuni allievi del Teatro Universitario Aenigma su “Studio
sulle tecniche performative delle maschere e del recitare
all’improvviso” e di Yosuke Taki (regista e studioso giapponese)
su “Rigenerare il Kyogen con la linfa della Commedia
dell’Arte”. Quello del confronto e della contaminazione tra le
Tradizioni ed i linguaggi teatrali è uno degli orizzonti che la
Rivista ha esplorato da sempre in chiave interculturale. A seguire
una riflessione sul poema “Profezia” di Pier Paolo Pasolini a
cura del professor Peter Kammerer (Università di Urbino) con
il coinvolgimento dell’attrice Graziella Galvani e di studiosi e
testimoni del pensiero dell’intellettuale friulano (Angela Felice,
Paolo Garofalo, Mirella Pol Bodetto). Si tratta in questo caso
della prima iniziativa del Centro Studi “Catarsi-Teatri delle
diversità Emilio Pozzi”, in forma di anticipazione sui temi del
XV Convegno della rivista (Urbania, novembre 2014). Per tutta
la durata del Convegno nella Sala Volponi Percorsi interiori”
-Teatro in Carcere mostra fotografica di Franco Deriu sul lavoro
del Teatro Aenigma nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi a
Pesaro. La presentazione al Convegno delle due esperienze di
Néon Teatro e di Stalker prelude inoltre all’inaugurazione di una
nuova collana di pubblicazioni delle Edizioni Nuove Catarsi con
i primi due volumi dedicati alla ricerca artistica e pedagogica di
ciascuna delle due storiche Compagnie. Nel prossimo numero
della rivista pubblicheremo un ampio resoconto dell’incontro.
Informazioni più dettagliate sui siti www.teatridellediversita.it
e www.teatroaenigma.it
Il xiv convegno della rivista
Urbania (Pesaro e Urbino) - 30 novembre e 1 dicembre 2013
Action, Stalker Teatro (Foto di Paola Zanini)
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-Teatri delle diversità - trimestrale - anno 18 - ISSN 1594-3496
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Recito,
dunque So (g) no
Teatro e carcere 2009
di Emilio Pozzi
e Vito Minoia
fotografie di Maurizio Buscarino
(Edizioni Nuova Catarsi, Urbino, 2009, pag. 352)
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