Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) rivista europea teatri 64/65 Dicembre 2013 - € 12,00 Garcia Lorca Dramma sacro a Bali Il Butō XIV Convegno Tdd Dario Fo, Franca Rame e la lingua italiana negli USA -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 18 - ISSN 1594-3496 delle diversità 52 29 10 L’ULTIMO SALUTO A UNA SIGNORA DELLA SCENA di Loredana Perissinotto Personaggi 30 83 L’ARTE DELLA DIVERSITA’ TROVA ASILO IN ALTO ADIGE Vito Minoia intervista Antonio Viganò 34 Teatro in fabbrica L’OMSA, IL LAVORO, IL MONDO 36 Michele Pascarella intervista Alberto Grilli EDITORIALE A Napoli dagli anni Ottanta ENZO MOSCATO: L’ESPLOSIONE DELLA LINGUA-CORPO Il teatro è una tribuna libera di Fabio Rocco Oliva 38 39 Workcenter In primo piano 41 4 44 46 8 Teatro in Carcere (Federico García Lorca) AL BAR BELLAVISTA COME NELLA VITA Emanuela Agostini COMINCIAMO A SCRIVERE UNA STORIA NUOVA Buto Samuel Beckett Giuseppe Lipani LA CULTURA RENDE MIGLIORI? LA BARRACA, IL TEATRO UNIVERSITARIO DI FEDERICO GARCIA LORCA di David Aguzzi LE MARCHE: RI- CERCARE PER UN RINASCIMENTO DELLA MANO COOPERANDO di Gianni Tibaldi 77 78 79 TEATRI PARALLELI SETTIMA EDIZIONE di Pierfranco Brandimarte UN FESTIVAL DI DANZA VIRTUOSO E SOSTENIBILE di Claudio Facchinelli 80 82 19 Direttore responsabile: Vito Minoia [email protected] di Giulia Innocenti Malini 83 85 Buone pratiche LE SOLITUDINI DI TERRA TEATRO 61 cina Panorama internazionale Dramma Sacro a Bali GINSBERG E GROTOWSKI UNITI IN SCENA di Walter Valeri 13 LA POESIA DEI CLASSICI di Jiang Ruoyu 19 Bali 55 56 Rubriche 57 CALONARANG: RICONCILIARE LE TRADIZIONI di Ron Jenkins IL BUTO: DIMENSIONE METAMORFICA IN CONTINUA RILETTURA di Eugenia Casini Ropa SE LA DANZA RI-DONA TEMPO AL DOLORE Paolo Randazzo intervista Virgilio Sieni ABITARE IL MONDO: TRASMISSIONI E PRATICHE di Gloria De Angeli MONTE VERITA’:TRA RIVOLUZIONE Teatro e Carcere ESPRESSIVA E UTOPIA ESISTENZIALE 24 LA MARIONETTA TRA IL PARLARE E L’ESSERE di Mariano Dolci Teatro e Scuola 26 QUALE EDUCAZIONE ARTISTICA PER DOMANI? di Loredana Perissinotto 28 di Eugenia Casini Ropa Segnalazioni Editoriali di Gabriele Sofia LA PENA VISIBILE di Salvatore Ferraro DIALOGO SULL’ATTORE di Leo de Berardinis a cura di Giorgio Zorcù 600.000 E ALTRE AZIONI TEATRALI PER GIULIANO SCABIA di Stefano Casi 86 87 Filo diretto Spettacoli Anghiari, Roma, Roma, Cartoceto XIV Convegno della Rivista La Critica A Urbania il 30 novembre e 1 dicembre A LECCE LE PAROLE DEL TEATRO di Claudio Facchinelli LA CRITICA TEATRALE CONTEMPORANEA IN GRECIA di Nicoletta Kokosioulis ALEXIADA, CON MUSICHE ED ARTI PERFORMATIVE di Valantis Fokasi 69 Teatro e Cambiamento MACAO E DIVENTATO? OCA, MA…PER ORA!A di Eleonora Firenze 71 73 Con le radici nel vento Ginevra Sanguigno intervista Marina Spreafico e Kuniaki Ida 65 67 68 Vito Minoia intervista Ottaviano Taddei INSEGNANDO CON PASSIONE A MILANO DAL 1978 Danza 52 Cina di Yosuke Taki LE ACROBAZIE DELLO SPETTATORE 59 Mostre ASPETTANDO GODOT OGGI? Claudio Meldolesi 10 di Gerardo Guccini IL TEATRO COME RISORSA PER LA SALUTE MENTALE Stati Uniti Incontri MELDOLESI RIVOLUZIONARIO Trimestrale fondato da Emilio Pozzi e Vito Minoia nel 1996 di Gloria De Angelis DRAMMATURGIE ORIGINALI AL TEATRALNY KOUFAR di Francesca Marchetti, Ada Borgiani, Susanna, Cinzia Fumelli, Elisa Delsignore, Piero Massimo Macchini, Romina Mascioli, Rosanna Vigliarolo, Luciano Colavero, Simone Guerro e Vito Minoia 13 Emanuela Agostini, David Aguzzi, Ada Borgiani, Pierfranco Brandimarte, Eugenia Casini Ropa, Antonio Cioffi, Luciano Colavero, Gloria De Angeli, Elisa Delsignore, Art director: Mariano Dolci, Athena D’Orazio, Claudio Isacco Locarno Facchinelli, Eleonora Firenze, Valantis Fokas, [email protected] Cinzia Fumelli, Arianna Galuzzi, Gerardo Guccini, Simone Guerro, Nicoletta Kakosioulis, Comitato Scientifico: Kuniaki Ida, Giulia Innocenti Malini, Ron Chiwoon Ahn - teatro, Seul (Corea del Sud) Jenkins, Peter Kammerer, Giuseppe Lipani, Andrea Canevaro - pedagogia, Bologna (Italia) Massimo Macchini, Francesca Marchetti, Elka Fediuk – arti sceniche, Veracruz (Messico) Romina Mascioli, Giuliana Mencarini, Fabio Alejandro Finzi - letteratura, Neuqén (Argentina) Rocco Oliva, Valeria Ottolenghi, Michele Raimondo Guarino – teatro, Roma (Italia) Pascarella, Loredana Perissinotto, Paolo Gianfranco de Bosio - teatro, Milano (Italia) Randazzo, Jiang Ruoyu, Ginevra Sanguigno, Piergiorgio Giacché - teatro, Perugia (Italia) Marina Spreafico, Ottaviano Taddei, Yosuke Maria S. Horne - teatro -New York (USA) Taki, Gianni Tibaldi, Walter Valeri, Antonio Laura Mariani - teatro, Bologna (Italia) Viganò, Rosanna Vigliarolo, Enrica Zampetti. Piero Ricci - linguistica, Siena (Italia) Editore: John Schranz - teatro, Malta (Malta) “Edizioni Nuove Catarsi” Daniele Seragnoli - teatro, Ferrara (Italia) Culturale Aenigma Gianni Tibaldi - psicologia, Padova/OMS (Italia) Associazione Sede legale: via G. De Carlo, 5 61029 Urbino Ouriel Zohar – drammaturgia, Haifa (Israele) Redazione e amministrazione: Fino alla loro scomparsa anche: Via Peschiera 30, 61030 Cartoceto (PU) Sisto Dalla Palma - teatro, Milano (Italia) Impaginazione: Claudio Meldolesi - teatro, Bologna (Italia) Giulio Dal Pozzo Guido Sala - psicologia, Urbino (Italia) [email protected] Luigi Squarzina - teatro, Roma (Italia) Stampa: Procedure di Referaggio Gli articoli della rivista sono sottoposti facol- Arti Grafiche Stibu, Urbania (PU) tativamente a referaggio con la procedura del Confezione: singolo cieco (single blind) Cooperativa Sociale T41b - Pesaro Corrispondenti: Immagine di copertina: Eleonora Firenze (Milano), Paolo Garofalo Federico García Lorca: foto ceduta dalla (Trieste), Giuseppe Lipani (Ferrara), Tihana Fondazione Federico García Lorca (Madrid). Maravic (Bologna), Adela Gjata (Firenze), Ivana Conte e Valentina Venturini (Roma), La Direzione lascia agli autori dei saggi, Fabio Rocco Oliva (Napoli), Salvo Pitruzzella degli articoli e delle recensioni la più ampia (Palermo), Benno Plassmann (Berlino), Marco libertà di opinione, della quale rispondono Consolini (Parigi), Tania Kitsu (Atene), Monica personalmente Santoro (Mosca), Kassim Bayatly (Baghdad), Chiuso in redazione il 25 novembre Turel Eczici (Ankara), Walter Valeri (Boston), 2013 Reg. Tribunale di Pesaro N° 424 del Djalma Patricio (San Paolo del Brasile), Yosuke 18/10/1996 Taki (Tokio), Jiang Ruoyu (Pechino). E-mail: [email protected] Hanno collaborato a questo numero: Sito internet: www.teatridellediversita.it 80 UN PROTOCOLLO D’INTESA CHE APRE PROSPETTIVE di Enrica Zampetti di Valeria Ottolenghi Margini & Frontiere LETTERATURA E TEATRO: DIALOGHI A DISTANZA DOCUMENTI DI CATARSI 64/65 I-VIII DARIO FO E FRANCA RAME NELLE CLASSI DI LINGUA E CULTURA ITALIANA IN NORD AMERICA di Walter Valeri 87 di Valeria Ottolenghi IL BISOGNO DI “CREDERE” 74 di Valeria Ottolenghi Recensioni UN DISTILLATO DI TENEREZZA, RABBIA E POESIA Festival IL RICHIAMO DELL’ARTE di Fabio Rocco Oliva DAPPRIMA UN CAVALIERE Segnaliamo con il numero 64/65 della rivista : l’avvio di una nuova rubrica curata da Ginevra Sanguigno dal suggestivo titolo “Con le radici nel vento”, sull’importanza di figure poetiche, mimi e clown attraverso pagine di diari di viaggi, danze, poesie; la sottoscrizione di un Protocollo d’Intesa tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria tramite l’Istituto superiore di studi penitenziari e il Coordinamento nazionale teatro in carcere (organismo che la rivista ha visto nascere nei convegni 2010 e 2011 e che continua a seguire da vicino); la condivisione con l’Associazione nazionale dei critici di teatro di tre magnifiche giornate a Lecce ospiti del centro italiano dell’Istituto internazionale del teatro e del Teatro pubblico pugliese; l’assegnazione della quarta edizione del “Premio Teatri delle diversità” alla compagnia Néon teatro di Catania che festeggeremo, insieme a Stalker Teatro di Torino, al quattordicesimo Convegno della rivista con il lancio di una nuova iniziativa editoriale. Dulcis in fundo, l’inaugurazione (il primo dicembre 2013 a Urbania) del “Centro studi Emilio Pozzi” con una prima iniziativa ispirata al poema Profezia di Pier Paolo Pasolini, in forma di anticipazione sui temi del XV Convegno (novembre 2014). Vito Minoia di Claudio Facchinelli 76 “I l teatro è il barometro che segna la grandezza o la caduta di una nazione… Un teatro sensibile può cambiare la sensibilità del popolo, mentre un teatro rovinato, può in alcuni anni addormentare e rendere volgare un’intera nazione…”. Come non riconoscersi in queste parole che Federico García Lorca scrisse nel 1935. A distanza di 80 anni circa è molto evidente come il cattivo uso di nuovi media involgarisca il mondo intero. Eppure un certo tipo di teatro “sensibile” continua a resistere e a promuovere contenuti, programmi, obiettivi, riflessioni. Teatri delle diversità, portando al centro la “periferia del teatro”, come avrebbe amato dire Claudio Meldolesi che nel 1996 partecipò alla fondazione di questa rivista, continua a farsi testimone di quelle esperienze “differenti”, “irregolari”, “resilienti”, molto spesso ‘contro corrente’. Ci riferiamo a chi, con il suo agire artistico e umano sente arrivare “una vita nuova che sovrasta il mondo” (ancora García Lorca) ed obietta alle leggi mercantilistiche di un certo “appeal mediatico”. Il teatro ci aiuta a comprendere che esiste la possibilità del cambiamento. “Cosa possiamo fare per cambiare la storia senza aspettare al varco l’evento universale senza pretendere di cambiare gli altri?” Ha chiesto Judith Malina in un recente incontro con le detenute della Casa di reclusione della Giudecca a Venezia. “Non è mai troppo tardi”, convincendo se stessi, è possibile cominciare a scrivere una storia nuova, senza maiuscole, anche tra le mura di un carcere. di Athena D’Orazio XIV Convegno Tdd In primo piano L’ARTISTA E LA SUA SPAGNA La Barraca, il teatro universitario di Federico García Lorca Alla ricerca di un nuovo pubblico teatrale, quello delle campagne e dei paesi sperduti che le compagnie professionali non avrebbero potuto raggiungere di Enrica Zampetti Gruppo Barraca, foto ceduta dalla Fondazione Federico García Lorca (Madrid) D i Federico García Lorca in Italia si conoscono soprattutto poesie, qualche dramma e pochi aforismi sparsi. Quasi completamente s’ignora la sua attività d’instancabile uomo di teatro, drammaturgo, regista e attore, s’ignora il suo fervore di giullaresco conferenziere, di sperimentatore del linguaggio e della scena, di ricercatore infaticabile di musiche popolari, di pianista appassionato. Era un artista immerso nel suo tempo e nella sua Spagna, tanto curioso e interessato al nuovo e all’esotico quanto radicato nella tradizione contadino-andalusa in cui era cresciuto. Nacque a Fuente Vaqueros, provincia di Granada (Andalusia), il 5 giugno 1898. Federico era il primo di quattro figli di una famiglia particolarmente ricca della vega granadina. Il padre, Federico García Rodríguez, era un ricco proprietario terriero, particolarmente aperto per i suoi tempi a concessioni che miglioravano le condizioni di vita dei contadini, cosa che gli inimicava non pochi possidenti della zona. La madre, Vicenta 4 Lorca Romero, era maestra e Federico le fu sempre talmente legato che quando divenne famoso spesso preferì utilizzare il cognome materno Lorca, invece di quello paterno García, anche perché meno diffuso. Dato che Vicenta era molto devota, il bambino la accompagnava spesso a messa e rimaneva affascinato per quei gesti che si ripetevano sempre uguali. Tanto era il fascino che uno dei suoi giochi preferiti era appunto “dire messa” improvvisando un altare nel patio e facendo sedere grandi e piccoli ad ascoltarlo con la condizione fondamentale di piangere durante il sermone. Per continuare gli studi il giovane Lorca si trasferì a Granada e dal ’19 a Madrid; intanto la Spagna si trovava sotto la decadente monarchia dei Borbone prima e sotto la dittatura di Primo de Rivera poi. Dall’Andalusia Lorca si portava dietro la tradizione musicale, l’empatica intuizione della povertà e della condizione della donna nelle campagne, la poesia cruda e beffardamente tragica dei suoi colori vividi; l’Andalusia pervade con vigore l’intera sua opera poetica, drammaturgica e di conferenziere. Lorca riprendeva i temi e le forme della cultura popolare e contadina e le rivisitava in chiave contemporanea mantenendo però un rapporto profondo con la tradizione stessa. Non raramente fu paragonato a un giullare medioevale, sferzante e acuto, dotto e popolare, capace di farsi comprendere da persone di ogni ceto sociale e formazione. L’oralità era per lui parte integrante della sua opera, che nell’oralità prendeva vita e senso, comprese le sue poesie, che prima di arrivare alla carta stampata dava a conoscere attraverso letture e declamazioni pubbliche. Era, però, il teatro per Lorca lo strumento principe per arrivare alla gente, al popolo delle campagne arretrate e ignoranti, che il granadino conosceva bene fin dalla nascita. Nella capitale Lorca era andato a vivere presso la Residenza degli Studenti di Madrid, creata da quello che fu il fiore all’occhiello della formazione in Spagna per quasi 60 anni fino allo scoppio della guerra civile: l’ILE, l’Istituzione Libera d’Insegnamento. Si trattava di un’istituzione ostinatamente indipendente formata da professori, artisti e pedagoghi, dediti a formare giovani provenienti da tutto il paese a un modo diverso di stare insieme, di guardare alla politica come a un servizio alla comunità, di pensare e fare cultura come un modo per svegliare la coscienza collettiva. Quando nel ’31 venne dichiarata la Repubblica, una gran parte degli uomini e delle donne che la animò fin da subito furono persone provenienti dall’ILE. All’interno della neorepubblica Lorca aveva amici molto intimi che si trovarono a ricoprire ruoli politici di spicco, primo fra tutti Fernando de los Ríos, uomo di cultura raffinata e profonda, socialista capace di comunicare con le masse, completamente dedito alla causa repubblicana e alla politica come servizio sociale. Fu lui a far approvare un importante finanziamento ministeriale che nel dicembre del 1931 dava vita al progetto del poeta granadino: La Barraca. Barraca significa “baracca”, ma in Spagna, e soprattutto in Andalusia, con questa parola s’indicavano quelle costruzioni di legno facilmente smontabili dove si rappresentavano spettacoli, compreso il teatro di burattini, tipici durante le feste o i mercati popolari. La Barraca fu il nome che Lorca dette alla compagnia teatrale degli studenti universitari di Madrid, per la maggior parte provenienti dall’ILE, il cui compito era portare in giro per terre di Spagna, a bordo di camioncini, i drammi del siglo de oro spagnolo, da Calderón a Cervantes, da Lope de Vega a Tirso de Molina, riprendendo la tradizione dei “carri di Tespi” e dei corrales spagnoli, ma con una contemporanea forte volontà di rinnovamento estetico della scena teatrale del tempo. Lorca ne fu il regista e, insieme al basco Eduardo Ugarte, anche il direttore artistico. Gli studenti si occupavano di tutto il resto: oltre a lavorare come attori montavano e smontavano palco e scena, questi ultimi progettati e costruiti da studenti di architettura, gestivano la tecnica e l’amministrazione della compagnia. Nessuno riceveva compenso per il lavoro svolto, né gli studenti, né i direttori artistici. I soldi governativi erano destinati alla copertura del materiale per gli allestimenti degli spettacoli, delle spese di viaggio, vitto e alloggio. Si voleva creare un nuovo pubblico teatrale, o meglio recuperare un pubblico messo da parte, quello delle campagne e dei paesi sperduti e arretrati; le compagnie professionali del tempo erano inadatte a questo scopo, poiché totalmente immerse in quegli usi e costumi teatrali che, invece, si cercava di estirpare proprio con esperienze quali La Barraca. Lavorare con giovani studenti universitari, appassionati di teatro ma privi dell’ambizione di vivere con il lavoro teatrale, consentiva, invece, molta più libertà di sperimentazione. L’anonimato era fondamentale e sulle locandine degli spettacoli non comparvero mai nomi propri. Lo stemma de La Barraca, disegnato da Benjamín Palencia, era una stilizzazione del tema classico delle maschere della tragedia e della commedia, sintetizzate in un unico volto per metà bianco e per metà nero, posto al centro di una ruota di carro rossa, simbolo del viaggio, su fondo blu. Una tuta blu da operaio fungeva da divisa per gli uomini, mentre per le ragazze si trasformava in un semplice vestito bianco e blu. La tuta era indossata da tutti questi “operai della cultura”, Lorca compreso, che anzi ne andava fiero, sottolineando la mancanza di gerarchia all’interno della compagnia. Studenti e studentesse, in gran parte appartenenti a classi sociali decisamente alte, furono scelti attraverso una serie di provini successivi, in cui, oltre alla capacità o potenzialità attoriale, il candidato doveva dimostrare di essere in grado di far parte di un gruppo, non avere manie di protagonismo ed essere fisicamente adatti a sopportare fatiche e scomodità. Negli anni si creò un gruppo affiatato ed entusiasta; La Barraca ebbe anche un divertente inno, che era cantato durante i viaggi e a volte anche sul palcoscenico per i saluti. I due direttori artistici, Lorca e Ugarte, formarono una coppia lavorativa perfettamente funzionante in cui l’uno compensava l’altro negli interessi e nei progetti. Ogni scelta scenica che Lorca faceva aveva bisogno dell’approvazione di Ugarte, sempre presente e sempre in grado di esprimere un parere che fosse suggestivo per la creazione di Lorca. Dal ’32 al ’36 il Teatro Universitario portò i suoi spettacoli in repertorio per sessantaquattro paesi e città spagnole, arrivando fino ai protettorati marocchini, con più di cento repliche totali. La maggior parte di queste fu tenuta all’aria aperta, ma alcune repliche, soprattutto nelle città, furono fatte in teatro. Vennero messe in scena 13 opere, tutte appartenenti ai secoli XVI e XVII, con l’eccezione di una, La Tierra de Alvargonzález di Antonio Machado, in onore al grande poeta contemporaneo che aveva saputo unire la poesia più alta alla cultura popolare. In un periodo così fortemente politicizzato come la Spagna degli anni ’30, le scelte dei testi furono criticate sia dalle destre sia dalle sinistre: le prime accusavano la compagnia di fare propaganda politica manipolando e volgarizzando Abstract A n experimental theatre company traveling across Spain and over during the period of the Second Republic in the ‘30s: this is La Barraca. A little army of wealthy students coming from Madrid Universities, upon the guide of the poet and playwright Federico García Lorca, put its enthusiasm in the project to lead down to the most remote countries of Spain the theatrical masterpieces of Spanish Golden Century: Lope de Vega, Cervantes, Calderón, etc…The govern gave a public funding to finance the company tours: with two vans the students went to acting from great cities till small villages squares, because culture must be made available to all, according to the principle of neo republic. Even if civil war soon put an end to Lorca and La Barraca, its seeds were carried overseas by exiles and survivors. teatridellediversità 5 In primo piano Calderon Barraca Arturo Saenz de la Calzada, foto ceduta dalla Fondazione Federico García Lorca (Madrid) l’alta tradizione spagnola, mentre le seconde si scagliavano in particolare su l’autosacramental “La vita è sogno” di Calderón, perché appartenente a una tradizione cattolica oscurantista e ipocrita che la neo-repubblica cercava di arginare. Con i testi scelti, invece, Lorca e Ugarte volevano in definitiva ribadire che La Barraca non era a servizio di nessun partito e di nessuna definibile ideologia politica, il suo compito era avvicinare il pubblico semplice all’arte. L’attore doveva essere un corpo disciplinato e umile a servizio della scena e non della propria vanità. Pertanto Lorca curava minuziosamente non solo le battute e il modo in cui dovevano cadere, ma si occupava con scrupolo anche della presenza degli attori, costruendo movimenti scenici complessi che in molti casi arrivavano ad essere vere e proprie danze, accompagnate da musiche e canti della tradizione popolare che il granadino rielaborava personalmente. Il suggeritore, figura essenziale nelle compagnie teatrali dell’epoca, fu definitivamente soppresso. Tra i primi in Spagna, Lorca incarnò poco a poco l’innovativa figura del regista, in grado di conferire una nuova unità allo spettacolo, mentre la maggior parte delle compagnie professionali restava di tipo capocomicale. Il successo del Teatro Universitario fu enorme sia tra artisti e intellettuali, sia tra le classi più umili. A non vedere di buon occhio il lavoro de La Barraca erano le classi per principio ostili alla Repubblica: ricca borghesia, aristocrazia, Chiesa. 6 Nei suoi numerosi viaggi non sempre, infatti, il Teatro Universitario fu accolto calorosamente: la Spagna era, e lo è tuttora, molto diversificata nei costumi e nella ripartizione geografica delle ricchezze, per cui poteva succedere di fare spettacolo in un paesino povero e il giorno dopo andare in un altro poco distante decisamente benestante, in cui l’accoglienza non era così festosa come nel primo: La Barraca era associata alla Repubblica e quindi alla sinistra e quindi ai comunisti. Le manipolazioni delle destre, fin dall’inizio dell’impresa universitaria, creavano tensioni e incomprensioni non facili da affrontare. In alcuni casi i barracos (così venivano chiamati i membri della compagnia) si trovarono in situazioni minacciose e un paio di volte dovettero fuggire di fretta per evitare sassaiole o aggressioni. Generalmente, però, le persone semplici dimostravano un grande piacere nell’assistere agli spettacoli degli studenti: la loro partecipazione era viva e la loro comprensione era in molti casi al di sopra delle aspettative stesse dei barracos, anche quando si trattava di un’opera nient’affatto facile come quella di Calderón. A titolo d’esempio riporto le parole del poeta e giornalista Dámaso Alonso, presente alla rappresentazione de “La vita è sogno” ad Almazán nel luglio del’32: «nella piazza del paese, poco dopo l’inizio dello spettacolo con il cielo pulito, si mette a piovere implacabilmente, come dio comanda. Gli attori s’inzuppano sul palcoscenico, le donne del paese si portano Federico Garcìa Lorca, foto ceduta dalla Fondazione Federico Garcia Lorca (Madrid) le sottogonne sulla testa, gli uomini si stringono e si fanno compatti: l’acqua scorre, lo spettacolo continua: nessuno si è mosso». Racconta Lorca a un giornalista in un’intervista del ’34: «Immaginati! […] Quattro mila, non te lo esagero; quattromila contadini, quattromila manceghi, lì guardando tutto, in un silenzio che si sarebbe potuto sentir volare le mosche. E, immaginati, i personaggi avevano parrucche di metallo, argentate, di materiali differenti; barbe verdi; signori che portavano vestiti con enormi spalline. Tutti inverosimili per il senso comune. E invece – ah che consolazione! – fu capito tutto fin nei suoi minimi dettagli da quel pubblico che si scontrava in questo modo per la prima volta con Calderón». Lo scoppio della guerra civile mise fine all’avventura de La Barraca come a quella di numerose altre iniziative culturali e sociali della Repubblica. Lorca fu fucilato dai falangisti vicino Granada tra il 18 e il 19 agosto del ’36. Nonostante la morte del suo entusiasta direttore, la compagnia cercò di resistere un anno ancora in una Spagna già divisa a metà. Gli studenti, quelli che non furono uccisi, chiamati al fronte o che non fuggirono in esilio, andavano a fare teatro fin sul fronte di guerra per portare distrazione ai soldati repubblicani. Quando Franco prese il potere nel ’39 la figura di Lorca e la sua opera dovettero subire forti epurazioni, ma l’esperienza del Teatro Universitario di Madrid, tuttavia, come quella di altre importanti iniziative repubblicane, fu portata con successo all’estero dagli esuli spagnoli, soprattutto in America Latina. A mo’ d’epilogo riporto un breve estratto del famoso discorso sul teatro che Lorca pronunciò nel febbraio del ’35, quando in Spagna la tensione politica e sociale stava arrivando al collasso che avrebbe portato alla guerra civile: «Il teatro è uno dei mezzi più espressivi ed efficaci per la costruzione di una nazione, è il barometro che segna la sua grandezza o la sua caduta. Un teatro sensibile e ben orientato in tutti i rami, dalla tragedia al vaudeville, può cambiare in pochi anni la sensibilità del popolo; mentre un teatro rovinato, in cui le zampe sostituiscono le ali, può addormentare e rendere volgare un’intera nazione. Il teatro è una scuola di pianto e di riso, è una tribuna libera da cui gli uomini possono denunciare morali vecchie e equivoche e spiegare, con esempi vivi, le leggi eterne del cuore e del sentimento umano. Un popolo che non aiuta e non potenzia il suo teatro è, se non morto, moribondo. […] Ho riflettuto molto – e con lucidità – su tutto ciò che penso, e, da buon andaluso, conosco il segreto della lucidità perché ho sangue antico. Io so che la verità non è appannaggio di chi dice “Adesso subito, adesso, adesso” con gli occhi fissi sulle piccole fauci della biglietteria, ma chi dice “Domani, domani, domani” e sente arrivare la vita nuova che sovrasta il mondo». teatridellediversità 7 In primo piano Segni e identità Per un Rinascimento della Mano Dalla ricerca dei significati più profondi alle prospettive semantiche e simboliche del nostro organo prensile di Gianni Tibaldi* L ’Umanità ha ritenuto di individuare nella Mano un segno rappresentativo della propria identità specifica. Per avviare un originale processo di ricerca sui significati profondi della Mano può essere utile riferirsi alla geniale intuizione che Imre Hermann, il grande piscoanalista ungherese fondatore dell’Antropoanalisi, espose nell’opera “L’Istinto filiale”, pubblicata nel 1943 e tradotta prima in francese e poi in italiano nel 1974. Secondo Hermann la tappa fondamentale nell’evoluzione della specie Umana è rappresentata dalla discesa dall’albero e dall’assunzione della posizione eretta. Perché ciò potesse avvenire , sempre secondo Hermann, era indispensabile che la Mano rinunciasse alla “presa del ramo” che aveva fino ad allora garantito il sistema di sopravvivenza sostituito dal nuovo sistema basato sulla deambulazione. Pur avendo persa questa funzione vitale la Mano, tuttavia, manteneva la attitudine prensile come carattere strutturale (rappresentato anche a livello cerebrale). Con l’attitudine la Mano prensile, da un lato, avrebbe conservato la memoria indelebile di una fase evolutiva ma anche, come sostiene Hermann, una “nostalgia dell’aggrappamento al ramo” come 8 fonte di sicurezza e benessere. L’attitudine originaria sarebbe stata adattata utilmente al nuovo processo evolutivo e il primitivo “istinto all’aggrappamento” (l’Istinto Filiale) avrebbe alimentato incessantemente la riproduzione di sostituti simbolici del “ramo perduto” dando così origine alla Tecnica, all’Arte, alla Civiltà. La Mano, cioè, da “prensile” sarebbe divenuta “artefice” ed alla sua originaria ed elementare capacità dell’afferrare si sarebbero aggiunte quelle più complesse del costruire e dell’ordinare nelle quali, appunto, si identifica il carattere della Tecnica.Oggi siamo alla ricerca di motivazioni che giustifichino un “rinascimento dell’artigianato” e potremmo scoprirle nelle tesi di Hermann che dimostrano il ruolo culturale della Mano e, soprattutto, la sua “intelligenza”. Ci viene in aiuto l’espressione greca per il termine “artigianato”, Cheiros - Techne, cioè “arte della mano”, dove, fra l’altro, ”Techne” non significa soltanto fabbricare e creare ma anche “meditare”. La Mano dell’Artigiano è intelligente, infatti, non soltanto perché abile e creatrice ma soprattutto perché le opere costruite muovono e si muovono in un mondo libero e disseminato di emozioni e di idee. L ’opera artigianale, in realtà, non rappresenta soltanto una testimonianza del “fare” ma anche del “pensare” e del “conoscere”. Taluno parla a questo proposito di “cultura materiale” ma sarebbe più corretto parlare esclusivamente e autenticamente di “Cultura”. Appaiono, evidentemente, all’orizzonte altre prospettive semantiche e simboliche collegate alla Mano. Da un lato incontriamo la Mano-azione che rappresenta potenza, forza, dominio, autorità, protezione, giustizia, grazia, favore, direzione. È la “Mano di Dio” che ne esprime la totalità dell’onnipotenza. È anche la Mano strumento di lotta e prepotenza, la Mano che “ghermisce”. Da un altro lato, scopriamo la Mano-comunicazione. Qui la Mano è, prima di tutto, protagonista del “gesto” che con un globale impegno corporeo “porta a compimento” pensieri, emozioni, volontà. In realtà il “gesto”, pur rappresentando un autentico elemento linguistico, mantiene integri i naturali caratteri della Mano che “fa”, “prende”, “dirige” aggiungendovi espressioni significative così da risultare alla fine “Azione comunicante”. Taluni esempi di “Mudra “ induisti, per il vigore espressivo collegato alla ritualità del gesto, ne favoriscono la comprensione del valore: la Mano chiusa, che indica il “segreto”, la Mano alzata che esprime “assenza di paura”, la Mano abbassata che significa “donare”, il “pugno chiuso” evocazione di “minaccia” , le “mani giunte” espressione di “preghiera” e “adorazione”. Nel Mudra Vitarka l’indice o il medio toccano la punta del pollice nel significato di “argomentazione”, “esposizione” raffinata di concetti.Ad un livello ancora più complesso nel sistema della comunicazione umana si colloca evidentemente la “Mano che scrive”. La “Mano grafica” che incide la pietra fa nascere da questo gesto duro e forte la Scrittura e , operando come tramite creativo fra la parola- segno e la parola-suono, alla fine dà alla Parola scritta il senso di “pietra animata”. Consegna alla scrittura un destino essenzialmente esoterico: la pietra simbolicamente incisa di fatto rappresenta la “pietra filosofale” della Al-Kimiya. Una illuminante affinità fra Mano e Parola viene anche illustrata dall’essere entrambe non soltanto mezzi di comunicazione ma vie di conoscenza. La tesi appare chiara quando incontriamo connessioni simboliche fra Mano e Occhio come nella espressione “toccare con mano” equivalente a “vedere” o quando intendiamo ogni espressione verbale, dalla più elementare alla più complessa, sempre essenzialmente finalizzate non soltanto a mettere in comune informazioni, intenzioni ed emozioni ma soprattutto a ricercare la soluzione di problemi. Una relazione infine fra Mano e Parola può essere però incontrata anche nel significato profondo e originario di “Verbum” che non indica la Cosa o il Nome ma il Modo e l’Opera. Il senso preciso di questa relazione emerge in particolare dalla radice WERK del termine Verbum e che, significando “lavoro” ed “energia”, stabilisce una parentela diretta fra la Parola e la Mano. Il mondo degli Ideogrammi cinesi apre sui significati della Mano orizzonti profondi e sapienti. L’Ideogramma, al pari della parola alfabetica, è un segno astratto al quale corrisponde un significato e un suono. A differenza, tuttavia, delle lingue alfabetiche i radicali degli Ideogrammi non sono segni astratti ma “figure”. Così l’Ideogramma YOU è oggi un segno astratto che significa Mano ma ad esso corrisponde come radice la figura vera e propria di una mano, in particolare la mano destra con ben evidenti il polso e tre dita. Nel cinese, dunque, la Mano appartiene al mondo del linguaggio in quanto gesto, Mano che scrive e, infine, Mano che esprime valori e significati rappresentando la propria immagine isolata o combinata con altre figure. Così la Mano vicino a una verga è MOU che significa “pastore”, se agita la verga è KIAO che significa “maestro”, se regge un bastone è FOU , il “padre autorevole”, se tocca un uomo diventa KI con il significato di “rispettare”. E ancora, una Mano accanto ad una bocca è KIUNN, il “Principe”, le mani che si oppongono rappresentano TCHA il “disaccordo”, le mani di un povero sotto la paglia indicano HAN il “freddo”, ma se cingono i fianchi di una donna (TCHENN) significano “desiderio” e “amore”. E così via all’infinito. In una miscela affascinante ma rigorosa di fantasmi e di simboli dai quali esce esaltata l’intelligenza della Mano. La Mano costituirà il tema di una rappresentazione del “Teatro delle Ombre”, particolarmente espressiva perché i significati della Mano e dell’Ombra creativamente si associano e si integrano. Le Ombre proiettate sullo schermo rappresentano immagini che evocano il concetto di “fantasma” nel senso psicoanalitico: sono, cioè, forme elaborate dalla fantasia come espressione di desideri inconsci. L’opacità e l’ambiguità dell’Ombra non mortificano, infatti, ma, al contrario, favoriscono i liberi movimenti della fantasia. Non contraddicono la realtà ma ne superano i limiti con la prepotenza del desiderio fino ai confini della perversione. Le Ombre non sono percepite, infatti, come oggetti ma vissute come stimoli di emozioni ed evocatrici di valori simbolici. L’essenza simbolica dell’Ombra nasce in particolare dall’effetto paradossale dell’incontro fra un corpo e una fonte di luce che annulla corporeità e luminosità. È dai complessi ed ambivalenti caratteri dell’Ombra che emerge anche la profonda affinità di significati con la Mano. In realtà come la Mano l’Ombra copre e nasconde, circonda e avvolge. Per questo è fonte di riparo, sicurezza e riposo. L’Ombra come la Mano protegge e intimorisce, afferma e nega, evoca oblìo e memoria, minaccia e allude a beatitudini eterne. Non stupisce che nella lingua cinese nell’Ideogramma YINN convergano i significati di principio femminile, passività, mistero e Ombra. by Gianni Tibaldi *Rappresentante in Italia del Programma dell’ONU sul “Linguaggio Digitale Universale” Abstract t he Renaissance of the Hand Imre Hermann, the famous Hungry psychoanalyst, identify the basic stage of present Man evolution on the Man who “descent from the tree” to assume the erect position and the capacity of walking. The Man Hand changes so its primitive aptitude to grasp the branch in highly developed technical and artistic skills and creates in this way the Human Culture ad Civilization. Actual cultural value of “arts and crafts” is clearly demonstrated by the Hermann Theory. The meanings of the Hand are reaches and complex :The Hand seizing may be named “Hand-action” and means strength, power, authority, protection, management. The “Hand-communication” or the “Hand-language” represents the Hand communicating through he gesture and first of all the Hand writing or “graphics” that creates the Word engraving the Stone. Many examples of ritual gestures of Mudra Hinduist explains clearly the real value and function of the “Hand-language”. Finally the ” Hand-knowledge“ is near deeply to the value of the Word because of not only concerning “to make” but “to transfer” thoughts and emotions. Chinese language adds exclusive characters to the “Hand-communication”: in fact the “roots” of the Ideograms don’t represent abstract signs ( like on alphabetical language) but images of reality. In these “roots” a plurality of meanings is so expressed by the pictures of the Hand that symbolize itself combined with other images. teatridellediversità 9 Panorama internazionale stati uniti GINSBERG E GROTOWSKI UNITI IN SCENA Thomas Richards e Mario Biagini, continuatori dell’esperienza del Maestro polacco, ne sviluppano sia la pedagogia sia l’aspetto produttivo di Walter Valeri manifesto, nelle due paginette del Pontedera Movement, c’è qualcosa di sorprendente e decisamente nuovo. Un cambiamento di rotta sostanziale, sia per quanto riguarda i futuri obbiettivi del Workcenter, sia, in forma più estesa e riflessa, per i teatranti in genere. Almeno per quelli dediti da anni alla ricerca teatrale e sensibili all’ascolto. Ed è l’invito a rompere ogni indugio. Abbandonare il proprio orto, i vecchi schemi mentali, le cordate produttive delle pure logiche spartitorie nazionali e internazionali. Deporre cioè la maschera della corporazione, troppo spesso bisognosa di consenso politico, o troppo spesso strangolata dall’obbligo di conseguire successi immediati; per tornare a guardarsi attorno. Meglio dire: lontano. Per esplorare nuovi territori, e “sfidare le competenze di cui siamo portatori, desistendo dal custodirle gelosamente, ma anzi lavorando assieme per farle crescere, metterle a disposizione, farle circolare in ambiti a cui non sono necessariamente destinate”, così sta scritto, testualmente. Senza autodistruggersi, senza rinunciare a quella competenza artistica specifica, maturata faticosamente nel corso degli anni. Senza abdicare cioè: all’uso del teatro come strumento e luogo d’incontro, nel darsi forza per “favorire la circolazione di nuove idee e spunti creativi, evitare l’isolamento, l’autoreferenzialità, costruire qualcosa di nuovo e più grande di ciò che ciascuno sarebbe in grado di fare da solo”, sempre citando dal manifesto. Un messaggio nobile valido per tutti. Che ricorda un po’ gli anni ‘60, quelli dell’invito all’impegno. Che fa pensare in buona parte a quello che scriveva anche Grotowsky negli anni di Opole, grazie ai documenti ora resi disponibili dal bel libro di Zbigniew Osinski; ma certamente in contrasto, contraddicendo lo spirito del messaggio pedagogico-profetico espresso dallo stesso Grotowsky dagli anni ‘70 in poi, specie negli ultimi anni di residenza a Pontedera. Per tornare in sostanza e soldoni a quella straordinaria ‘terra di cenere e diamanti’ di cui fu testimone, continuatore e artifice Eugenio Barba. Che va detto, col suo Odin Teatret da questo punto di vista per vari aspetti ha superato il maestro; specie per quel bisogno troppo mistico, di metafisica trascendenza, che ha caratterizzato i suoi ultimi anni di attività. “Uno dei motivi Electric Party Songs, 2010 (Foto Aram Jibiliam) L a Fondazione Pontedera Teatro è una presenza più che significativa nel panorama teatrale del nostro paese. Lo testimoniano le attività decennali, le intuizioni di Roberto Bacci che ne è fondatore e instancabile direttore artistico, e non ultimo il recente manifesto programmatico: Pontedera Movement, del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, che trova valido sostegno e sede istituzionale nella stessa fondazione. Lo spirito del manifesto, in parte presente nella pratica teatrale dell’Open Program iniziato e diretto da Mario Biagini nel 2007, mette a fuoco una sostanziale 10 apertura del Workcenter nei confronti del territorio; lo fa apertamente per incoraggiare la vita culturale di Pontedera. Per capire meglio forse occorre ricordare che il Workcenter da anni ha due anime; che operano in modo distinto, sia in Italia che all’estero. Dopo la morte di Jerzy Grotowski, avvenuta nel 1999, Thomas Richards ne ha sostanzialmente ereditato la pedagogia, la continuazione dell’esperienza soprattutto in ambito laboratoriale; mentre Mario Biagini, co-direttore, attore e regista, attraverso l’Open Program Performances, ne ha curato l’aspetto produttivo. Cercando a più riprese di riimmettere sulla scena militante quei risultati grazie ai quali Grotowski, dalla fine degli anni ’60 con Acropolis, Dr. Faustus e Il principe costante ha modificato visibilmente il training dell’attore, il modo di fare teatro. E ovviamente ha ridefinito il concetto di spazio scenico, nonché il rapporto spettatore-attore. Entrambi eredi di Grotowski, Thomas Richards e Mario Biagini, nel corso degli ultimi dieci anni, sono stati autentici portatori di sviluppi e divulgatori del pensiero rivoluzionario del maestro del Teatro Laboratorio di Opole. Ma, quel che più conta qui, resta il fatto che in questo Electric Party Songs 2011 (Foto James Lyons) teatridellediversità 11 Panorama internazionale Cina La Poesia dei Classici Umanità Poesia, e la loro importanza nel Teatro Classico per acquisire un senso profondo della cultura di Jiang Ruoyu* Traduzione dall’inglese di Arianna Galuzzi I Am America 2010 - Timothy Hopfner, Marina Gregory, Alejandro Tomàs, Rodriguez, Lloyd Bricken (Foto Stefano Roggero) The Glass Menagerie I Am America 2010 - Alejandro Tomàs Rodriguez (Foto Francesco Fadda) L I Am America 2011 - (Foto James Lyons) Abstract onsidered one of the most important and influential theater practitioners of the 20th century, Jerzy Grotowski revolutionized contemporary western theater. During his latter pedagogical activity in Italy at the Fondazione Pontedera Teatro, Grotowski - in an intense thirteenth yearlong research explored performative techniques as an instrument in the work on oneself, and created the Workcenter, together with his collaborators Thomas Richards and Mario Biagini. After Grotowski’s death in 1999 the Workcenter evolved into two distinct and complementary teams: The Focused Research Team in Art as Vehicle directed by Thomas Richards, and the Open Program Performances directed by Mario Biagini. This article reports their successful American tour and the group’s performances of and productions, and the at Yale University last March. In both productions, the talented director Mario Biagini and his actors combine the poetry of Allen Ginsberg, traditional folksongs of the American south, and the Grotowski’s performative actors’ style of work, with excellent results. (Foto Xupin) C 12 Panorama internazionale per cui Grotowski ha smesso di fare teatro è stato il fatto che la rappresentazione teatrale non riusciva più a soddisfare la sua necessità di trasgressione. Le sue attività successive (ndr: agli anni ‘70) continuano a rifarsi alla tecnica d’attore ma, soprattutto, consentono di trovare altri sbocchi per la sua tensione verso il sacrum, e di tenere in vita la provocazione e la trasgressione nei propri confronti”. Un genere di provocazioni più che legittime, ma che ovviamente sono diventate altre; ben altre rispetto alle esigenze della scena e al reale rapporto col pubblico. Ora, grazie a Mario Biagini e ai suoi giovani e bravi attori dell’Open Program, in forma vicaria Grotowski torna in scena. Grazie all’uso teatrale, alla regia esperta e appassionata di Biagini, che si è tolto la giacca del maestro e ha saputo portare in performance i versi di Allen Ginsberg, adattandoli a musiche e sonorità tratte dalle canzoni afro-americane del Sud degli Stati Uniti. Grotowski finalmente è stato tradito, tornando ad aggirarsi fra il pubblico, in virtù di due spettacoli decisamente nuovi nella loro concezione e realizzazione, affascinanti e unici nel loro genere. Che fanno un po’ pensare al Pirandelo di Vassiliev adattato e ambientato in caffetteria, ma capaci di affrontare e tenere la scena autonomamente. Due spettacoli eccellenti e provocatori, prodotti dal Workcenter: I Am America e Electric Party Songs. Presentati in prima a New York nel 2012 e successivamente nel febbraio/marzo 2013, dopo tre anni di preparazione, al Witney Theater e Calhoun Cabaret della Yale Universty, nell’ambito del World Performance Project fondato da Joseph Roach. Dove certamente il Workcenter non rinuncia alla faticosa pratica del laboratorio, alla sua cifra stilistica, ma lascia i piccoli conversari, gli orti, le micro società aurorali. Teoria e scena tornano decisamente a confrontarsi per sconfiggere l’isolamento, per muovere verso una cultura teatrale viva, in grado di permeare i bisogni della gente e soprattutto dei giovani. In virtù dei versi dirompenti di Allen Ginsberg; grazie al rigoroso lavoro sull’attore degli allievi del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards i giochi sembrano riaprirsi. Ed è un bene, perché così Il teatro Più che resistere può tornare ad esistere. William Carlos William di Allen Ginsberg scrisse: “I poeti sono dannati ma non sono ciechi, vedono gli occhi degli angeli. Questo poeta vede attraverso tutti gli orrori ai quali partecipa negli stessi particolari intimi della sua poesia”. È stato così anche per Grotowski. Mario Biagini lo conferma durante il symposium di due ore, gremito di pubblico e addetti ai lavori, dal titolo Poesia come pratica d’incontro tenuto alla Yale University dopo le recite più che applaudite. a ragione per cui una storia può essere considerata un classico è perché ha attraversato un certo processo che porta le persone a giudicarla tale. Una volta il noto scrittore cinese Zhu Ziqing ha detto “Lo studio dei classici nell’educazione primaria è essenziale. L’importanza di apprendere i classici non corrisponde solo ad un’applicazione pratica, ma all’impatto culturale generale che ha su coloro che li studiano.” Gli studenti di teatro che esplorano le storie classiche possono acquisire un senso più profondo della cultura in generale. Inoltre, aspetto ancora più importante, possono imparare come gli individui affrontavano le sfide della vita reale in certe circostanze del passato. I cinesi cono orgogliosi del nostro recente sviluppo economico, ma la velocità di tale cambiamento ha portato a scorgere nell’intera società una perdita di emozioni e umanità. Una ragione sempre più evidente di questa perdita di sentimenti nel contesto del progresso è che noi cinesi non sentiamo di avere, e non vogliamo, tempo per prestare attenzione all’ambiente e alle persone che ci circondano. Siamo proiettati in avanti senza dare importanza ai sentimenti, ma diamo priorità a quei passi che ci permettono di realizzare obbiettivi vitali. Ne risulta che i nostri pensieri, le emozioni quotidiane e le nostre stesse vite vengono vissute in un modo che sembra brutale e insensibile. Se confrontiamo le nostre esperienze con quelle di altri insegnanti di educazione secondaria nel mondo, quando gli studenti si diplomano nelle istituzioni primarie e accedono ad una nuova fase della loro vita ci sono differenze importanti che noi insegnanti cinesi dobbiamo affrontare. Nel corso della loro crescita accademica, i nostri studenti danno seriamente poca importanza all’emotività umanistica di base, alla consapevolezza dell’ambiente, alla considerazione dei loro simili e alla vasta gamma delle tipiche fibre morali che gli studenti impiegano per tessere l’arazzo della loro arte di studio. Il nostro sistema si focalizza, in modo straordinario e orientato ai risultati, sui test per l’iscrizione al college e minimizza enormemente l’essenza che si cela dietro al vero tema dei moduli di apprendimento. Mentre la poetica classica e altre arti vengono insegnate presto, quelle che spesso presentano alcune delle più rilevanti espressioni pratiche di umanità in ogni civiltà vengono considerate come testimonianze scritte che sono un ponte di passaggio verso il livello superiore di istruzione. Perciò, come gli insegnanti di teatro pratico, anche noi abbiamo l’opportunità di far crescere i nostri giovani studenti e guidarli nella comprensione del significato della loro esistenza, del loro scopo e della loro anima, e anche lungo il cammino per esprimere se stessi. Le opere classiche non si limitano al realismo. I poemi epici greci e anche alcune opere del teatro dell’assurdo possono di certo essere considerati dei classici. Il teatro realistico tradizionale enfatizza i personaggi e la trama. Le opere di Brecht enfatizzano il comportamento umano all’interno di un ambiente normativo specifico. Il teatro dell’assurdo impiega metafore esagerate per esprimere i sentimenti interiori che gli individui provano nei confronti della società. Anche se con metodi diversi, entrambi i generi si focalizzano sull’espressione individuale. In senso lato, i Classici rivelano in apparenza le persone in relazione alla circostanze specifiche dell’opera. Non ha importanza che il dramma sia realistico o no, è possibile scorgere le persone rivelate in ogni personaggio nelle opere dei grandi autori. La ricerca di Amleto della verità assoluta, la Madre Coraggio di Brecht che scopre la forza interiore dell’uomo, la vivida dimostrazione data dal noto drammaturgo cinese Cao Yu della sofferenza delle donne che si prodigano per gli altri, teatridellediversità 13 Panorama internazionale 14 (Foto Xupin) rilevante. All’Accademia centrale di arte drammatica della Cina non ha importanza se è una classe superiore a realizzare una eccezionale rappresentazione di una delle sue opere, o se degli studenti di una classe inferiore recitano semplicemente alcune scene dei suoi lavori, gli studenti e gli insegnanti si divertono sempre molto. Perchè le opere di Caou Yu ricevono sempre un’accoglienza entusiasta da parte degli educatori e degli studenti cinesi? Le opera di Cao Yu si presentano sempre come monumenti stupefacenti nel teatro cinese del XX secolo. Anche se non è stato molto prolifico, le poche opere che ha scritto influenzarono enormemente il progresso storico del dramma in Cina. I critici spesso dicono “Cao Yu, assieme ad altri, ha creato la tradizione della poetica realista nel teatro cinese, che merita di essere studiato su larga scala.” Nelle sue opere ci sono “le tradizioni artistiche della poetica lirica della Cina.” Si potrebbe affermare che sia stato il più importante, influente e illustre drammaturgo del XX secolo. I suoi primi lavori vennero completati tra il 1933 e il 1949. I temi di tali opere hanno riguardato i più intimi sentimenti e pensieri umani che le persone hanno. Al tempo stesso, trattavano di “persone che vivono in tempi bui e dei loro sentimenti e atteggiamenti riguardo al mondo così come lo conoscono”, rappresentando le difficoltose circostanze in cui vivevano i cinesi durante gli anni di guerra incessante. I personaggi nelle opera di Cao Yu hanno resistito alla prova del tempo. Coloro che hanno messo in scena tali opere hanno rivelato una fine comprensione degli individui e delle sfide che devono affrontare. I loro pensieri e i loro sentimenti echeggiano in scala universale e ci permettono di acquisire una più profonda consapevolezza di noi stessi e delle nostre radici. I personaggi principali delle sue opere più note offrono ai cinesi uno scorcio della loro essenza in quanto razza e nazione. Ci permettono di comprendere la lotta interiore della vita. Sia che questi personaggi conducano una vita onesta o sleale, sono comunque tutti figli della stessa terra cinese. Anche se abitano un’ambientazione tradizionale, dato che la Cina è vista come una società omogenea, vediamo questi personaggi ereditare le promesse e le colpe dei nostri antenati. Possiamo spaziare molto nel ricercare le caratteristiche specifiche delle loro personalità, che includono tutte i fondamentali dello spirito nazionale cinese. Questi aspetti (Foto Xupin) Panorama internazionale sono tutti esempi utili. Se queste opere non avessero enfatizzato attentamente le persone nel loro ambiente, non verrebbero trasmesse di generazione in generazione. Di solito lo scrittore di un classico è un individuo unico alle prese con le problematiche del suo tempo. Perciò crea personaggi particolari con sentimenti interiori e forza di spirito che si imprimono in maniera profonda e duratura nelle menti di chi legge l’opera al giorno d’oggi. Ciò permette a chi lavora in teatro di interpretare costantemente questi personaggi e rivelarli in modi differenti, unificando ogni età. Questi personaggi riescono a toccare ogni persona, in accordo con ogni generazione. Una conoscenza dei classici ha senz’altro notevole importanza nell’educazione teatrale. Senza inoltrarsi più in profondità in discussioni generali al riguardo, questo saggio si concentrerà su applicazioni pratiche e metodi specifici per l’insegnamento agli studenti attraverso i classici. Per discutere tali applicazioni nella recitazione e nella regia, prenderemo come esempi l’opera “La Famiglia” dell’eminente drammaturgo cinese Cao Yu e “Lo Zoo di Vetro” del rinomato scrittore americano Tennessee Williams. Come possiamo rivelare un personaggio di un’opera classica? Chi ci ha preceduto ha fatto un gran buon lavoro per aiutarci a tale proposito. I classici sono senza tempo, ma spesso li interpretiamo secondo la prospettiva moderna. I classici possono avere diverse interpretazioni, anche permettendoci di usare metodi molto moderni per spiegare tematiche antiche. Di certo dobbiamo stare attenti alle interpretazioni forzate che abbandonano completamente i temi originali dei classici. La presentazione di un Classico in un’ambientazione moderna deve essere collegata alla realtà, nel contenuto e nello stile, per renderla vitale. Non importa in che tempo il Classico viene rappresentato, se riesce a toccare il pubblico e a farlo riflettere profondamente allora emergerà il valore di quella particolare interpretazione. Quindi, quando impieghiamo i classici per insegnare agli studenti occorre valutare due questioni importanti. La prima è come considerare la recitazione al di là dei temi, dei personaggi e di azioni specifiche all’interno delle circostanze descritte nella trama. Poi, oltre a questo ma altrettanto importante, dobbiamo pensare a come farlo in modo da rimanere allineati con la prospettiva moderna. Nel regno dei Classici cinesi, Cao Yu è un drammaturgo davvero sono tratti dal sistema nazionale tradizionale del Confucianesimo. Cosa ancora più importante, Cao Yu crea per tali personaggi un mondo in cui devono affrontare circostanze profonde e misteriose adatte a diversi pensieri, personalità e atteggiamenti nei confronti della vita. Molti dei suoi personaggi son inclini a cercare dei modi per sfuggire alle circostanze e al mondo in cui vivono. Molti, allo stesso modo, trascorrono le giornate con un tale peso sul cuore che a volte sembra quasi troppo difficile respirare. Desiderano costantemente una nuova esistenza. Da un punto di vista personale, le opera di Cao Yu possono essere utili per insegnare agli studenti ad esprimere i pensieri e i sentimenti dei personaggi nelle circostanze date. Siccome la trama comprende conflitti ingegnosi, i personaggi agiscono in modo dinamico per raggiungere i proprio obbiettivi. Nelle storie di Cao Yu ci sono aspetti molto sottili nelle relazioni tra queste personalità distintive. Le trame creano ambientazioni uniche e circostanze che ci forniscono un’ampia tela in cui dipingere i nostri personali ritratti artistici degli individui. Cao Yu fa compiere ai suoi personaggi azioni ben precise, permettendo agli studenti di focalizzarsi su queste azioni quando stanno recitando. Ad ogni modo, le circostanze date nell’opera sono spesso così uniche e presentano profonde influenze. Recitando, gli attori dovranno enfatizzare le azioni, senza considerare molto le circostanze generali, per evitare di far risultare i personaggi irrealistici. Questo articolo mira a sottolineare l’importante impatto che le circostanze date in un’opera classica hanno sugli studenti intenti a crearsi la visione complessiva del personaggio che interpretano. Quando affidiamo dei ruoli agli studenti, ci auguriamo che riescano a riprodurre un ritratto realistico e vivo sul palco scenico. Anche noi nelle nostre vite ci troviamo ad affrontare specifiche circostanze. I nostri corpi possono intuire queste circostanze. I personaggi di Cao Yu si trovano immersi in un insieme di affascinanti circostanze e, leggendo la trame, i lettori possono identificarsi e comprendere le problematiche dei personaggi. L’opera di Cao Yu “La Famiglia”, che è in parte tratta da una novella di Bajin, è molto amata dagli insegnanti per le opportunità che offre insegnando recitazione agli studenti. La storia si incentra sulla giovanile ricerca dell’amore. È ambientata nel passato, quando i giovani soffrivano per i vincoli imposti dalla società che non gli permetteva di cercare l’amore, poiché le relazioni amorose venivano decise dalle famiglie. Le circostanze della trama comunicano a chi dirige e recita un grande senso di isolamento. Ad esempio, è possibile notarlo anche nella stessa regia di Cao Yu in una scena, “i fiori di prugno nel giardino della famiglia Gao stavano sbocciando splendidamente, ma vi era solo solitudine senza entusiasmo e senta nemmeno l’ombra di un passante. …il calore rassicurante della Primavera si stava diffondendo, il lago chiaro era bello e placido, con le ombre dei fiori di prugno che brillavano sulle acque cristalline. C’è una profonda quiete nell’aria. …Proprio in quel momento, il silenzio viene rotto da un rumore proveniente dalla casa della famiglia Gao, contrapponendo la serenità paradisiaca e surreale del giardino con la realtà terrena della vita a quel tempo…” Le camere da letto degli sposi erano “completamente tranquille…ma vi era un’aria di infelicità infusa in quella tranquillità.” Questa è l’ambientazione iniziale dell’opera. Il figlio maggiore sta per sposarsi con una cerimonia che si svolge in giardino. Le nozze sono state organizzate. Secondo la tradizione cinese, la notte del matrimonio gli invitati fanno un gran frastuono e prendono in giro per scherzo la nuova coppia. Questo rituale collettivo va avanti tutta la notte fino a quando anche gli ultimi invitati lasciano da soli gli sposi per adempiere ai doveri universali richiesti nell’occasione. “Gli invitati possono gridare insulti alla sposa vergine a loro piacere, come per liberare dei sentimenti repressi.” I due giovani si incontrano per la prima volta in queste circostanze. Lo sposo ha un amore segreto da sempre nel suo cuore, che si spezza non appena si trova faccia a faccia con la realtà. Anche la sposa è preoccupata e angosciata dal timore chiedendosi se il suo nuovo marito la tratterà con la stessa compassione di cui le ha parlato sua madre, descrivendo la propria esperienza. Fuori, le risate sfrenate degli uomini in casa amplificano il palpabile senso di pietà per la giovane coppia. Circondati da questa atmosfera triste, danno inizio alla loro vita insieme. Cao Yu utilizza le costruzioni tradizionali della poetica cinese per realizzare scene che rivelano i sentimenti dei personaggi. Per esprimere le loro emozioni interiori, Cao Yu enfatizza costantemente le circostanze in cui sono coinvolti. L’ambientazione primaverile nella loro stanza di fronte al lago teatridellediversità 15 16 (Foto Xupin) grande influenza sulla comunicazione tra gli attori, per come suona un sospiro, ad esempio, o per come il corpo reagisce quando ha paura. In una simile notte, un sospiro può avere un grande peso sulle emozioni e la fresca brezza di primavera provoca una reazione negli attori, sia nei cuori che nei corpi. Quando insegno a recitare questa scena, provo spesso a stimolare l’immaginazione degli studenti in modo da intensificare la consapevolezza sensoriale e la percezione delle circostanze. Attraverso esercizi pratici focalizzati sul tatto, la vista e l’udito, posso spiegare meglio agli studenti come le circostanze date in una certa situazione riescono ad avere un certo effetto sui loro corpi e i loro sentimenti interiori. Spengo le luci, lasciandone solo una molto debole, e nel buio passo accanto agli studenti con una stoffa di seta fredda per fargli percepire il contatto sulla pelle. Chiedo loro di guardare le ombre che si formano nella stanza e di percepire le mutate emozioni dovute a ciò che sentono e vedono. Poi, richiedo di concentrarsi attentamente sui suoni dei loro respiri e dell’aria attorno. Grazie a questi esercizi, gli studenti sono in grado di evocare sentimenti interiori molto profondi, espressi in modo da accrescere la loro capacità di rappresentare la vita vera. Così, quando la scena viene recitata sul palcoscenico, i personaggi compaiono gradualmente e prendono vita.Vari elementi della recitazione e della regia moderna sono cambiati con il mutare del tempo. In passato il realismo era lo stile preferito per le rappresentazioni, per via dell’enfasi posta sulle ambientazioni realistiche, i costumi, e gli elementi che riguardavano il periodo. Lo stile si concentrava sui conflitti e sulle azioni derivati dalle circostanze date nell’opera. Al giorno d’oggi abbiamo molti stili diversi in cui gli elementi espressi non devono essere presentati per forza in modo così realistico. Questi stili innovativi hanno cambiato lentamente le nostre visioni della recitazione e della regia. Abbiamo diversi metodi, forme e prospettive per rappresentare i personaggi e le azioni nella trama. Quindi, quando mettiamo in scena opere classiche possiamo superare il realismo del passato e incorporare nuovi metodi ingegnosi per rappresentare concetti antichi che possono elevare il pubblico e anche noi stessi. Quando usano i classici con gli studenti, gli insegnanti dovrebbero cercare di connettersi all’essenza dei tempi che cambiano, altrimenti la rappresentazione mancherà di vitalità. Recentemente, ho assistito a delle opere classiche cinesi rappresentate in modo simile, o quasi identico, a come venivano rappresentate in passato. Anche se si tratta di grandi classici del passato, se vengono messi in scena in modo così realistico e non innovativo sembrano troppo simili a quelle rappresentazioni teatrali di molti anni fa, apparendo scialbi e deboli.Siccome il moderno sistema educativo cinese limita le abilità creative degli studenti, è facile che si confondano quando mettono in scena dei classici. A volte pensano che dovrebbero recitare in un modo a loro familiare ma in accordo con le rappresentazioni del passato. Altrimenti, secondo loro, un classico non potrebbe essere considerato un classico. Ad empio, qualche anno fa, durante le prove di una storia d’amore classica, un regista chiese agli innamorati di gattonare attraverso il palco l’uno verso l’altro. Però l’attrice era convinta che in una rappresentazione realistica la protagonista dell’opera classica avrebbe dovuto sembrare bellissima in ogni istante sul palcoscenico. Anche cercare di gattonare in modo “bellissimo”. Perciò, tentando di rappresentare il personaggio secondo la sua idea, i suoi movimenti risultarono rigidi, ampollosi e artefatti. Alcuni credono che l’insegnamento della recitazione dovrebbe seguire il manierismo trasmesso dalle note rappresentazioni del passato. Ma ciò fa si che gli attori siano rigidi e smorti, ostacolando il pensiero e l’espressione creativi. Quindi, ogni volta che Panorama internazionale dove i fiori di prugno stanno sbocciando, con braci di carbone che ardono mentre un cuculo cinguetta, fornisce un immagine molto “vivida”. È qui, in questa stanza, che la sposa conosce veramente il futuro marito, con una certa gioia che si accorda con la notte tranquilla e le fa credere che lo amerà per sempre. Lo sposo, ancora profondamente innamorato di un’altra, si rivolge in modo lirico e poetico alla giovane donna che a sua volta canta le note del suo cuore. Come può un pubblico dimenticare una scena tale? Per ragioni d’insegnamento, questa scena fornisce un pascolo perfetto per nutrire i giovani studenti di recitazione. È ricca di emozioni profonde e pensieri d’amore. I personaggi cambiano gradualmente le proprie emozioni in base alle circostanze. È una scena ricca di linguaggi ed espressioni poetiche. (Le poesie sono un materiale stupendo per insegnare agli studenti di recitazione e regia a conoscere concetti artistici presenti in molte delle più importanti opere letterarie. Insegnare agli studenti attraverso il linguaggio poetico può essere molto utile al loro sviluppo). Le circostanze in tale scena sono ben delineate ed estreme e i personaggi si dedicano a diverse azioni e relazioni. Inoltre, questa scena insegna agli studenti a potenziare la loro sensibilità corporale e l’attitudine a relazionarsi con i sentimenti e le emozioni. Durante l’insegnamento, diversi elementi possono essere isolati per permettere agli studenti di esprimersi con successo attraverso i sensi, come l’udito. In Cina, nelle cerimonie di matrimonio del passato, quando la sposa veniva accompagnata nella camera nuziale veniva costretta a indossare una sciarpa di seta rossa che le copriva tutta la testa. Questo significava che nessuno oltre al marito poteva guardarla in viso e lei poteva soltanto ascoltare ciò che le succedeva attorno prima che il marito le togliesse la sciarpa nella stanza nuziale, dove si rivelavano l’un l’altro. In questa scena, per via della sciarpa attorno alla testa, l’attrice deve sviluppare l’udito per vivere appieno l’atmosfera dovuta alle circostanze. Attraverso i movimenti del corpo il pubblico può intuire chiaramente la sua preoccupazione e la tensione del momento, senza vederla in volto. Quando sente un sospiro del marito, la giovane sposa è colta da timore e nervosismo, pensando che lui sia scontento, e per un attimo è affranta. Quando sente un sospiro più intenso e dolce capisce che non c’è da preoccuparsi e che lui ha un’anima gentile e vuole prendersi cura di lei, diversamente dagli uomini ubriachi e sconsiderati nella storia. Ciò allevia temporaneamente le sue paure.Quando si prova questa scena, gli insegnanti insegnano agli studenti a potenziare la percezione dovuta ai cinque sensi, soprattutto quando i personaggi comunicano tra loro. In questo modo, l’opera permette agli studenti di sviluppare la consapevolezza del corpo e le abilità che aiutano a trasmettere le emozioni più significative, trasmettendo in cambio un ritratto dei personaggi sempre più profondo. Questa scena e le circostanze che presenta portano gli attori a concentrarsi sulle loro abilità sensoriali, soprattutto la vista e l’udito. Nella camera nuziale lo sposo è di fronte alla sposa e le da le spalle, guardando verso il pubblico. Dato che non la vede, le sue prime impressioni derivano solo dal’ascolto di deboli suoni e dalla percezione dei movimenti del suo corpo. Alla fine, quando si volta per guardarla direttamente, vede che ha il volto coperto dalla sciarpa. In questo momento, ricordando il suo vero amore, prova un senso di rabbia di fronte a questa straniera senza volto che dovrà sposare. Anche la sposa all’inizio ha solo la possibilità di ascoltare i sospiri e suoni che amplificano la sua tensione e le comunicano una prima impressione. In seguito, solleva un po’ il velo per dare un’occhiata al giovane uomo che diventerà suo marito e alla camera in cui lo servirà devota per gli anni avvenire. I sospiri e i rumori nella scena hanno una teatridellediversità 17 18 Tennessee Williams.Le donne hanno un ruolo importante nelle opera di Tennessee Williams, soprattutto nel caso del personaggio di Amanda ne “Lo Zoo di Vetro”. La donna medita costantemente sul passato. Anche se pensa ad avvenimenti accaduti molto prima, si accorge che, nonostante il filtro del tempo, la felicità legata a quei ricordi persiste ancora nel suo cuore e la raggiunge con ondeggianti moti di piacere. La trama è ricolma dei poetici ricordi di Amanda. Occorre lottare per rappresentare questi ricordi e i sentimenti interiori e personali. Dato che diversi studenti interpretano Amanda, mentre recitano una scena sul proscenio una seconda Amanda giunge in contemporanea più indietro e inizia ad agitarsi e a ruotare per enfatizzare la natura lirica della scena mentre il palco scenico è diviso in due parti. In questo modo, il palco diviene uno spazio poetico e bellissimo che manifesta lo spirito dell’opera originale. Le opere classiche possono essere vissute solo attraverso il cuore. Come tutti i professori che sperano di influenzare gli studenti sulla visione dei classici durante le lezioni giornaliere, sento che le nostre idee e i nostri pensieri possono essere trasmessi solo in modo non letterario, attraverso i nostri cuori. Noi cinesi veniamo profondamente toccati dalle opere straniere. Usiamo comunque la nostra prospettiva culturale e comprendiamo queste storie attraverso il prisma della nostra sensibilità culturale che ci permette di apprezzare i pensieri e i sentimenti appartenenti a culture diverse. È assolutamente importante sottolineare che siamo tutti esseri umani. Abbiamo tutti due occhi, un corpo e cinque sensi. Impieghiamo lo stesso cervello per pensare. Non importa da dove proveniamo, utilizziamo tutti la cultura per insegnare ai nostri studenti a rappresentare i grandi classici. NEL DRAMMA SACRO DI BALI Calonarang: riconciliando le contraddizioni L’articolo è un estratto del prossimo libro di Ron Jenkins, SARASWATI IN BALI: Hidden Knowledge in a Temple, A Mask, and A Museum. Professore di teatro alla Wesleyan University, Jenkins sta attualmente lavorando con l’artista balinese Made Wianta ad una rappresentazione che commemora il trattato di Breda del 1667 secondo il quale gli olandesi cedettero agli inglesi l’ isola di Manhattan in cambio dell’isola di Run, che ora fa parte dell’Indonesia. Panorama internazionale insegno agli studenti a mettere in scena un classico, oltre ad assimilare il significato intrinseco nella trama e a sviluppare le abilità teatrali degli studenti, cerco anche di enfatizzare l’importanza dello stile creativo con cui si recita. A tale proposito, segue un esempio. Come Cao Yu, anche l’opera classica “Lo Zoo di Vetro” del drammaturgo americano Tennessee Williams, è un’opera che studenti e insegnanti scelgono volentieri. Come ne “La Famiglia” di Cao Yu, anche i personaggi nell’opera di Williams non sono felici per via delle loro situazioni e desiderano una nuova vita ed un nuovo inizio. Attendono di trasformare il proprio destino. Come Cao Yu, Tennessee Williams desidera soffermarsi sui ritratti di donne e sulle loro battaglie. Entrambi gli autori impiegano la loro sensibilità e la loro mente delicata per descriverci queste donne attraverso un prisma di pietà, empatia e dispiacere per come la vita le ha trattate. Cao Yu e Tennessee Williams sono simili anche perché le loro trame presentano uno stile poetico lirico. Ne “Lo Zoo di Vetro” Williams dice “La scena è un ricordo e perciò non è realistica. Il ricordo richiede molta licenza poetica. Omette alcuni dettagli; altri invece vengono esagerati.” Ne “La Famiglia” Cao Yu scrive direttamente il copione dell’opera usando la poesia. Qual è il modo migliore per rappresentare un classico come “Lo Zoo di Vetro”? Occorre considerare in primo luogo la sua natura poetica. Quindi, per insegnare agli studenti la lirica presente in questo classico americano, inizio di solito a far recitare gli studenti in dei noti poemi classici cinesi. Devono nuovamente apprendere come accrescere le loro abilità riguardo alla sensibilità del corpo e a come esprimere i loro sentimenti interiori. Sia che si tratti di un occidentale o di un orientale, tutti i poeti usano i loro sensi più sottili per cogliere il mondo che li circonda. Riescono a percepire e a decifrare l’essenza della natura grazie al loro occhio mentale. Quindi occorre insegnare agli studenti a comprendere, sentire e manifestare la poesia. Nell’approcciarsi all’opera di Williams e ai personaggi, gli studenti impiegano un intero mese del semestre facendo ricerche e analizzando l’opera in tutti gli aspetti. Con l’aiuto di internet gli studenti che non sono mai stati in America possono imparare moltissime cose su Williams e sull’ambientazione dell’opera. Riescono a comprendere profondamente la politica americana, l’economia e lo stile di vita di quel tempo. Nella prima scena dell’atto I di “Lo Zoo di Vetro” Williams descrive attentamente l’allestimento scenico e l’ambientazione nel copione. Inoltre, cosa molto importante, dice che l’opera riguarda i ‘ricordi’, e i ricordi non hanno né limiti né confini. Quindi, quando ci concentriamo sull’allestimento del palco scenico, utilizziamo lo stile tradizionale dell’Opera Cinese, con i suoi principi estetici, per presentare tali concetti al pubblico e raggiungere il massimo grado di immaginazione. Il palcoscenico rimane alquanto spoglio, con una parete semplice come sfondo, quattro sedie disposte secondo lo stile dell’Opera Cinese e senza sipari o alti oggetti. Per perfezionare la lezione, spesso gli insegnanti fanno recitare agli studenti una varietà di scene tratte da diverse opere. Facendo così, gli studenti non hanno una visione completa dell’opera o della trama. Ho introdotto “Lo Zoo di Vetro” agli studenti del secondo anno in modo da permettergli di prendersi il loro tempo per concentrarsi su tutti gli aspetti della storia e recitare tutte le scene. Di solito, un personaggio viene interpretato da quattro o cinque studenti e ogni scena viene realizzata da due o tre gruppi distinti. Ogni scena può essere rappresentata in modi molto diversi e ogni gruppo apprende come passare da una scena all’altra e lasciare che il gruppo successivo riproduca la stessa parte con uno stile poetico differente. Credo che rappresentare l’opera in questo modo ripetitivo di fronte a un pubblico incarni l’essenza dei ricordi ‘senza limite’, come descritti da di Ron Jenkins traduzione dall’inglese di Arianna Galuzzi Abstract I n this article, Jiang Ruoyu underlines the importance of the study of classics at the primary education level. This importance is strongly related to the lack of feelings and emotions in the new Chinese social environment. For this reason, training in classics has tremendous value in theatre education and the essay focus on specific practical applications and methods in using classics to train students, taking as examples the plays “Family” by Cao Yu and “Glass Menagerie” of Tennessee Williams. The first play aims to reveal the impact of given circumstances within a classic and it trains students to heighten their abilities in terms of bodily senses. In addition, the poetic nature of second play helps to show that classical works only can be experienced through the heart, allowing to appreciate thoughts and feelings of different cultures according to our own cultural sensibilities. Family Two rangdas hor teatridellediversità 19 20 emblemi architettonici del ruabineda, l’equilibrio dinamico tra forze in opposizione che viene messo in scena durante la rappresentazione. La sera del Calonarang il tempio si riempie della musica di preghiere, canti, tamburi, gong e campane. Una dozzina di donne che trasportano piccole offerte ballano la danza rejang nel cortile di fronte a Ida Bhatara Ratu Gede, Ratu Sakti e altre maschere Rangda e Barong. Fuori dal tempio, nello spazio destinato alla rappresentazione, un gruppo di uomini con indosso le vesti sacre formano un semicerchio di fronte al candi bentar per ricevere la benedizione dell’acqua santa. Questi stessi uomini danzeranno durante la rappresentazione nel momento in cui Rangda viene attaccato poiché sanno che in tal modo potranno essere posseduti dagli spiriti dei loro antenati. A pochi metri di distanza, ai piedi della torre di bambù di Rangda, i sacri coltelli kris che gli uomini useranno in seguito vengono benedetti anch’essi e sulle lame di metallo ondulate cadono gocce di acqua santa. Gli spettatori si dispongono lentamente attorno al perimetro che delimita lo spazio per la rappresentazione e nel frattempo un’orchestra gamelan ha già incominciato a suonare nel lato nord dell’area. Una processione di donne con dei bastoncini di incenso accesi accompagna le maschere Rangda e Barong dal tempio fino al palco scenico. Le maschere attraversano il candi bentar e vengono disposte in fila di fronte alla torre di Rangda. Delle offerte di frutti, fiori e foglie di palma vengono sistemate davanti alle maschere. Le donne con l’incenso danzano con movimenti lenti e ondeggianti per accogliere ed onorare le maschere. I Barong, animati ognuno da due attori, oscillano da un lato all’altro a tempo di musica. Ogni Rangda è in equilibrio in cima a un cesto trasportato da un uomo che non indossa il costume del Rangda ma ondeggia a sua volta a ritmo di musica. Alla fine formano un cerchio in modo tale che i Barong e i Rangda passino per tre volte intorno all’area tra il candi bentar e la torre di Rangda. Mentre girano in cerchio, le donne usano dei fasci di foglie di palma secche e lunghe per far gocciolare l’acqua santa sulle maschere. Quando i cerchi sono terminati le maschere Rangda, incluso Ratu Sakti, vengono condotte alla torre attraverso la rampa. Una stoffa gialla viene distesa al centro dello spazio per la rappresentazione e la maschera Barong posseduta da Ida Bhatara Ratu Gede si prepara a danzare. Molti Barong a Bali danzano con agilità esuberante e coreografie spettacolari, ma le performance di Ida Bhatara Ratu Gede hanno uno stile più smorzato e adatto al suo status di spirito ancestrale. È Wayan Nama che fa ballare le gambe posteriori del Barong. Cokorda Bagus, il danzatore che controlla la maschera e le gambe anteriori del Barong, ha ereditato il compito di far ballare il Barong dal nonno. Suo zio Rarem si occupa invece della maschera di Ratu Gede. Entrambi ammettono di perdere se stessi mentre danzano e non sono più consapevoli di ciò che succede durante la rappresentazione, la coreografia ben elaborata non è così importante come rispettare l’obbligo di riportare in vita gli spiriti protettivi degli antenati. La scena più apprezzata dal pubblico, in cui una scimmia punzecchia il Barong con una banana, non è così comica come in altri villaggi ma rivela chiamante che il Barong appartiene sia al mondo animale che a quello degli dei. Pur non essendo così ricca come altre danze di Barong a Bali, i passi semplici ed eleganti, la coda che si dimena e le fauci in legno che azzannano di Ida Bhatara Ratu Gede attraggono molto l’attenzione del pubblico, non solo perché lo divertono ma anche perché creano una connessione concreta e viscerale con la storia ancestrale. La rappresentazione si svolge in uno spazio fra il tempio e la casa appartenuta a Cokorda Tabanan, che ospitò la famiglia reale nel XVIII secolo, quando il loro antenato Gusti Jelantik Blahbatuh negoziò la pace tra i fratelli in rivalità della dinastia Sukawati. Lo spettacolo tratta anche di riconciliazione tra i rivali, ma all’inizio nel prologo gli opposti vengono rappresentati da Rangda e Barong nelle loro manifestazioni come Ida Bhatara Ratu Gede e Ratu Sakti. Sono, al tempo stesso, eterni antagonisti e compagni inseparabili. La scena della scimmia è seguita da una serie di danze che ricordano la storia delle origini di Barong come viene narrata dai danzatori topeng e dai cantanti lontar all’inizio della cerimonia. Quando Iswara creò per la prima volta il Barong nel tentativo di riportare Rudra e Dhurga alla loro vera natura come Siwa e Uma, venne accompagnato da Brahma e Siva che assunsero la forma dei danzatori menmen e telek. Un danzatore menmen (a volte chiamato jauk), con unghie lunghe e lucenti e una maschera con occhi che sembrano sul punto di saltar fuori dal volto, segue il Barong sul palcoscenico. Al suo ballo segue l’arrivo di sei danzatrici telek con maschere bianche e ventagli che disegnano movimenti incantevoli al ritmo delle dolci melodie dei gong gamelan. Durante la performance delle danzatrici telek, un uomo con un costume a strisce rosse, bianche e nere, ornato con seni finti e enormi che pendono, raggiunge il fondo della rampa che conduce alla torre di Rangda. È Rarem, il padre del danzatore Barong. Rarem si inginocchia ai piedi della rampa e prega, per poi salire sulla torre dove indosserà la maschera di Rangda in attesa di essere impossessato dallo spirito della maschera. Il giorno seguente descrive l’ emozione che ha provato nell’attesa. “Perdo la sensibilità nelle gambe, mi sento vuoto. E poi non ricordo più niente fino a che non tolgo la maschera.” Dopo che Rarem scompare nella torre di bambù di Rangda, appaiono due danzatori menmen con delle maschere rosse. Sono rappresentazioni di Brahma che si dice sia apparso durante la prima cerimonia macaru sotto forma di un personaggio menmen in rosso. Ma questa non è una ricostruzione esatta del mito. È una rappresentazione che da vita agli elementi essenziali della storia per renderla concreta e rilevante agli occhi dei fedeli al tempio che vengono coinvolti direttamente nell’atto di un nuovo risveglio e raggiungono una reale consapevolezza di se stessi, che è poi il tema della storia. I due menmen con le maschere rosse vengono presto raggiunti da un altro personaggio in rosso che ha una forma più umana del menmen stravagante dalle unghie lunghe. È un guerriero che ha un coltello kris sacro legato con una cinghia sulla schiena ed è pronto a sfidare Ratu Sakti nella sua torre. Il menmen e il telek gli danzano attorno per incoraggiarlo ma alla fine lo lasciano solo sul palcoscenico di fronte alla torre di Rangda. Lui grida a Ratu Sakti e lei appare in cima alla torre sostenuta da due sacerdoti che l’accompagnano lungo la rampa mentre ulula contro l’intruso e agita un tessuto dipinto con disegni di magia nera. Per la prima volta in undici giorni di cerimonia la maschera di rangda impossessata da Ratu Sakti è visibile con il costume completo. Fino a questo momento la maschera era stata trasportata in cima ad una cesta, da un rituale a un altro, e avvolta in un tessuto nero decorato con una foglia oro. Ora le zanne di Ratu Sakti vengono animate in modo minaccioso. Ciocche di capelli lunghe e ricce le scendono fino ai piedi. Tutto ciò è visibile al di sotto della maschera con le zanne e gli occhi sporgenti si trasformano in braccia con artigli lunghi dieci pollici. Le ciocche dei capelli di Rangda sono nere e bianche e la fanno sembrare una tarantola con cento gambe che striscia lungo la rampa verso la sua vittima. Ratu Sakti e il suo sfidante si girano attorno a turno gridando e agitandosi fino a che il guerriero fa la prima mossa e incomincia ad accoltellare il suo avversario con il kris. Lei è invulnerabile all’attacco e riesce ad allontanarlo. Quando il guerriero abbandona l’arena Ida Bhatara Ratu Gede ritorna sotto forma di Barong, forse come incarnazione divina dell’avversario, che avrebbe potuto essere una manifestazione terrena di Iswara. Per il pubblico l’identità dei personaggi precedenti non è così importante come la battaglia epica che si sta per svolgere tra di loro. Rangda e Barong, nelle loro manifestazioni come Ratu Sakti e Ida Bhatara Ratu Gede, rappresentano l’eterna battaglia tra luce e oscurità, bene e male, creazione e distruzione e tra tutte le forze in opposizione dell’universo che vengono impersonate da questi due rappresentanti del ruabineda. Loro sono acerrimi nemici ma sono anche uniti in modo inseparabile. Si girano attorno a vicenda, si aggrediscono, si balzano addosso, ma alla fine nessuno dei due riesce a sconfiggere l’altro. Sono destinati a coesistere in un equilibrio dinamico che riflette tutte le contraddizioni e i paradossi del mondo naturale e della condizione umana. Questo è ciò di cui parlano i balinesi quando si riferiscono a unità e equilibrio. Nel ruabineda l’unità non è l’armonia stereotipata nella filosofia new-age, ma una tregua conquistata con fatica per tenere sotto controllo forze che altrimenti farebbero a pezzi il mondo. Per un momento sembra che Ratu Sakti stia avendo la meglio. Allontana Ida Bhatara Ratu Gede fuori dall’arena della rappresentazione, ma non resta sola a lungo. Otto uomini con perizomi bianchi e neri corrono attorno al candi bentar e circondano Ratu Gede minacciandola con i loro coltelli kris. Dopo vari grugniti, balzi, giri e finte, gli aggressori si calmano. Si inginocchiano e Ratu Sakti fa ondeggiare il suo telo magico sopra di loro. Gli uomini escono in modo ordinato e passivo, ma quando passano attraverso il candi bentar riacquistano il loro spirito combattivo. Tuttavia questa volta aggrediscono se stessi pugnalandosi con violenza, fino a quando vengono fermati dagli spettatori che li gettano a terra e allontanano i coltelli. Ida Bhatara Ratu Gede ritorna quando anche gli uomini in trance vengono riportati nell’area della rappresentazione. Giacciono stesi a terra mentre i sacerdoti li bagnano con acqua benedetta. Lentamente, gli uomini si destano dalla trance mentre Ida Bhatara Ratu Gede e Ratu Sakti camminano avanti e indietro in mezzo a loro. Sono necessarie entrambe le loro potenti presenze per far si che gli teatridellediversità Panorama internazionale L ’evento annunciato e atteso con più ansia al festival del tempio di Pura Madya, a Paliatan, Bali, è stata la danza/ dramma/rituale Calonarang. La rappresentazione si fonda su di un lontar che narra la storia della strega vedova Calonarang e include una trance collettiva durante la quale degli uomini impossessati perdono il controllo, cercando di attaccare la strega con coltelli kris sacri, tuttavia feriscono se stessi, pur rimanendo incolumi grazie al potere protettivo della maschera Barong, in cui risiede lo spirito ancestrale di Ida Bhatara Ratu Gede. La rappresentazione si svolge pochi giorni dopo i rituali per onorare Saraswati, la dea della conoscenza, della bellezza e delle arti e i devoti che sono a Pura Madya hanno la possibilità di essere testimoni della saggezza di Saraswati. Il manoscritto di Colonarang esplora il principio balinese di ruabineda che presuppone un intrinseca connessione tra elementi dialettali opposti come il giorno e la notte, il bene e il male, la bellezza e la bruttezza. L’equilibrio dinamico che secondo i balinesi dovrebbe essere mantenuto tra le forze antitetiche di ruabineda viene messo in scena nel Calonarang in modo tale da confondere i confini tra storia, mito e vita contemporanea del villaggio. Il dramma rituale incomincia con delle benedizioni recitate dai sacerdoti, descrive personaggi del passato, commenta eventi contemporanei, include pericolose possessioni in stato di trance e termina con un epilogo che si svolge in un cimitero, dove solo pochi spettatori hanno il coraggio di andare per assistere ad una cerimonia che mira a trasformare i demoniaci seguaci invisibili della strega in spiriti benevoli. I preparativi per il Calonarang sono ben elaborati. Uno spazio lungo e ristretto destinato alla rappresentazione viene costruito fuori dai cancelli del tempio. Da un lato c’è una torre in bambù dove Ratu Sakti e altre due maschere Rangda vengono sistemate durante la rappresentazione, permettendo loro di entrare, sole o tutte insieme, in alcuni momenti più appropriati durante lo spettacolo, con entrate spettacolari da una rampa ristretta. Dall’altro lato dell’area adibita alla rappresentazione c’è una riproduzione in compensato delle porte, scisse in due, del tempio noto a Bali come Candi Bentar. Il lato destro e quello sinistro sono separati da uno spazio vuoto attraverso il quale entrano gli attori. Le porte scisse in due del tempio sono 21 uomini impossessati riprendano i sensi. Gli uomini che escono dalla trance provano la stessa esperienza degli dei nella storia sulla creazione del Barong a opera di Iswara. Secondo le parole del lontar, il cantante Nyoman Mongoh Aria, “stanno ricordando il loro vero essere.” Hanno dimenticato chi sono e si addentrano in uno scatenarsi di distruzioni, descritto come una perdita di controllo [in inglese “run amok” N.d.T.] . Amok 22 è una parola indonesiana che è stata adottata dalla lingua inglese per descrivere un comportamento irrazionale. Per i balinesi il termine è nato da un esperienza viscerale. La saggezza di Saraswati non è più un semplice concetto astratto descritto dal canto del lontar. Diviene una realtà concreta che hanno sperimentato nei loro corpi attraverso l’incontro con gli spiriti ancestrali che risiedono in Bhatara Ratu Gede e Ratu Sakti. Questa è una lezione di conoscenza di sé che rimarrà impressa nella memoria degli attori in trance e degli spettatori che li hanno visti pugnalarsi. Hanno appreso che gli spiriti buta kala placati durante i rituali macaru non sono presenti solo nei cimiteri e negli angoli oscuri. Queste forze oscure dimorano anche dentro l’anima di ogni essere umano. Dopo che gli uomini impossessati hanno ripreso i sensi, la storia della vedova Calonarang persone non facessero più il lavoro richiesto per svolgere la cerimonia con successo. Ad esempio, se si rifiutassero di pagare per nutrire e dare ospitalità agli attori e ai musicisti, potrebbero semplicemente mettere su una registrazione. Anche i mantra del sacerdote potrebbero essere registrati su cassetta, risparmiando il disturbo e il costo di avere un sacerdote durante la cerimonia. Potrebbe essere riprodotto un dvd per sostituire la realtà. E, invece di arrampicarsi lungo la rampa di bambù della torre di Rangda durante la rappresentazione di Calonarang, il danzatore potrebbe prendere le scale mobili. Il clown imita la voce di un noto prete che fa annunci televisivi sul significato dell’Induismo. Ironizza sulla commercializzazione della vita spirituale in cui “ogni cosa è in vendita.” “Gli indù devono essere molto attenti quando ricevono denaro”, dice con la voce del prete della televisione. “Devono seguire le tre regole base. Guardare il denaro. Toccarlo per verificare se è finto. E poi spenderlo. Guardare. Toccare. Spendere. Ma non guardatelo troppo a lungo o non avrete tempo per spenderlo.” Poi il clown parla del divertimento come fonte di piacere che è una parte necessaria nelle cerimonie del tempio poiché impedisce alla persone di sentirsi affaticate e depresse. Avverte che le rappresentazioni devono essere sincere e scherza su di un gruppo di danzatori in trance che uscirono subito dalla trance quando la polizia arrivò al tempio, dato che non volevano essere arrestati. Suggerisce che la trance a cui il pubblico ha appena assistito era sincera a confronto di alcuni cosiddetti esperti del paranormale che usano la trance per i loro scopi personali. Alla fine il clown parla dell’intelligenza consapevole come chiave dell’identità balinese, paragonandola alla flessibilità dell’albero di bambù. “Gli esseri umani dovrebbero seguire l’esempio dell’albero di bambù,” dice. “Si erge eretto e cresce in ogni stagione, piovosa, calda o secca. L’albero di bambù piega la cima, proprio come le persone ricche dovrebbero ricordarsi di guardare giù e aiutare chi è più in basso. L’albero di bambù è forte. Anche se non ha fiori né frutti, è forte. Le radici sono la chiave della sua forza. È difficile sradicare un albero di bambù perché questo si aggrappa subito alle sue radici.” Il clown sostiene che se le radici dell’identità balinese non vengono preservate, i terroristi distruggeranno facilmente l’isola. Nomina gli uomini colpevoli del bombardamento del 2002 a Bali. Il pubblico ride e applaude durante il monologo. Comprendono la logica comica dell’attore. Sta seguendo il consiglio del sacerdote di ricordare il significato dei rituali e includere il riso nella cerimonia, per onorare Ida Bhatara Ratu Gede. Questa figura sacra appare nel Calonarang come guaritore, unificatore e protettore. Ida Bhatara Gede è la forza che permette agli uomini in trance di riprendere i sensi dopo la possessione. La sua presenza li rende consci del loro vero essere, come rende consapevoli i partecipanti della loro identità in quanto membri di una comunità. In contatto con lo spirito di Saraswati che ha pervaso tutti i rituali e le rappresentazioni, il clown ricorda ai fedeli che la cerimonia a cui hanno partecipato è una fonte di conoscenza nascosta, essenziale per la sopravvivenza della loro cultura. Panorama internazionale IDA BAGUS MADE NADERA Calonarang Dance Drama inizia con la danza degli sisya che sono i discepoli della strega vedova. Gli spettatori conoscono già la storia e sanno che riguarda lo scontro tra forze in opposizione, come quella che hanno appena visto. Calonarang è una vedova che è stata insultata e si vendica mandando i suoi discepoli a diffondere una pianga in tutto il regno. Ci sono diverse varianti nella storia, ma termina sempre con una lotta tra Calonarang e un sant’uomo chiamato Empu Bharadah che usa la magia bianca per contrastare la magia nera della strega. Durante lo scontro si trasformano in Rangda e Barong ma nessuno dei due riesce a sconfiggere completamente l’altro. Nessuno vince. Nessuno perde. Il punto di stallo dimostra che questi poteri antitetici continueranno a coesistere con difficoltà fino alla successive rappresentazione di Calonarang. La storia è sempre la stessa ma gli attori di Calonarang hanno modi diversi di collegare la trama con gli eventi del momento. I personaggi comici sono liberi di improvvisare e nominano spesso i leyak per aggiornare la storia. I leyak sono individui che impiegano la magia nera per trasformarsi in animali e ferire i loro nemici. Un attore comico nel Calonarang di Pura Madya ha scherzato sul fatto che i leyak del passato spaventavano le persone solo volando nella notte sotto forma di animali, ma adesso “i leyak moderni posso assumere ogni forma, anche quella di una motocicletta.” L’attore, truccato da clown, sostiene di non temere i leyak perché ha una laurea in sudi soprannaturali. “Voi gente studiate economia e legge all’università,” si rivolge scherzoso al pubblico, “ma io ho studiato al dipartimento della possessione e della trance (facultas kerauhan) e ho ottenuto la qualifica di S.Ag. Sarjana Alam Gaib” (laureato in Mondo Mistico). Le sue battute sulla trance come forma di educazione fanno riferimento agli stati di trance che il pubblico ha visto, e le sue battute mettono in connessione il mondo invisibile degli antenati e l’identità contemporanea balinese. Poi trasforma la parola Bali nell’ anagramma di Banten Adat Langen Idep (Offerte, Tradizione, Piacere, Consapevolezza). In seguito il clown spiega come tali elementi si connettono ai rituali svolti durante le cerimonie. Prima parla delle offerte. “Le offerte sono il modo in cui i balinesi comunicano con il mondo invisibile dei nostri antenati,” dice. “Non importa quanto l’offerta sia grande o piccola. Anche un po’ di riso, di frutta, una foglia di palma e un po’ di acqua santa sono sufficienti se l’offerta viene dal cuore.” Quando parla della parola “adapt” o “consuetudine”, il clown sostiene che Bali scomparirebbe se le tradizioni non venissero mantenute. Loda il pubblico per come si è comportato alla cerimonia a Pura Madya e la paragona al suo villaggio sconosciuto dove le guardie del tempio indossano abiti occidentali invece degli indumenti tradizionali del tempio o del “pakaian adat.” “Qui a Peliatan,” dice, “le persone si siedono rispettose all’arrivo di Ida Bhatara. Non come nel mio villaggio, dove si alzano in piedi come se la rappresentazione fosse solo un intrattenimento.” Il clown afferma che “Adat” o “tradizione” prevede un lavoro collettivo per raggiungere un obbiettivo comune, la tolleranza per tutte le persone e il senso di uguaglianza. A questo punto l’attore si lancia in una fantasia comica su ciò che accadrebbe se le Abstract T he article is excerpted from Ron Jenkins’ forthcoming book, SARASWATI IN BALI: Hidden Knowledge in a Temple, A Mask, and A Museum. Jenkins, a former Guggenheim Fellow, has been conducting research in Bali for over three decades with the support of the Asian Cultural Council, the Institute for Intercultural Studies, The Thomas Watson Foundation, and a Fulbright Senior Research Grant. A professor of Theater at Wesleyan University, Jenkins is currently working with the Balinese artist Made Wianta on a performance installation commemorating the 1667 treaty of Breda in which the Dutch gave the English the island of Manhattan in exchange for the island of Run, now part of Indonesia. teatridellediversità 23 Rubriche Teatro d’ animazione A Charleville Mezieres La Marionetta tra il parlare e l’essere L’associazione francese Marionnette et Thérapie ha svolto in settembre il suo quattordicesimo colloquio a Charleville Mezières, la cittadina delle Ardenne dove ogni due anni è ospitato il Festival mondiale del teatro d’animazione di Mariano Dolci Burattini creati in ambito terapeutico L a città fondata da un Gonzaga è sede dell’Institut Supérieur des Arts de la Marionnette con la sua ricca biblioteca, le sue aule, i suoi laboratori, la sua foresteria per ospitare gli studiosi o gli iscritti a stages e corsi (residenziali, triennali). Mi sembra che fino ad ora l’unica laureata italiana di questi corsi sia Alessandra Amicarelli della Compagnia Stultifera Navis. Il finanziamento dell’istituto è assicurato quasi interamente dallo stato. Fin dalla sua creazione la direzione del Festival e la Municipalità di Charleville hanno avuto l’intelligenza di favorire quello che chiamano il “Festival off” che comprende tutti coloro che non invitati ufficialmente e quindi non retribuiti si presentano di loro iniziativa a rappresentare i loro spettacoli. Vi è tutta una organizzazione per offrire servizi e permettere la programmazione degli spazi (si utilizza tutto, dall’aula del Consiglio Comunale, al tempio protestante, ecc.). Negli ultimi anni il Festival “in” mi ha permesso di assistere a nobili tradizioni come il Bunraku giapponese, il Wayang Kulit indonesiano o grandi compagnie statali dei paesi dell’Est, ma non di rado gli spettacoli presentati nel programma “off” sono risultati di maggiore interesse. Nel teatro d’animazione è ancora possibile che la creazione di un singolo burattinaio o marionettista di strada risulti più interessante di quella di grandi compagnie di teatri stabili con decine di operatori. Le associazioni che in qualche modo e a qualsiasi titolo hanno a che fare con burattini e marionette, anche se non collegate direttamente al Festival o alla produzione di spettacoli, approfittano 24 del suo periodo e del suo clima per far coincidere le loro assemblee o riunioni in modo da permettere agli aderenti di vivere il Festival. Tra queste, l’associazione “Marionnette et Thérapie”. L’associazione è nata da una costola dell’UNIMA-Francia che aveva costituito una commissione “Educazione e Terapia”. Fu nel corso di un colloquio internazionale nel quadro del Festival Mondiale del 1976, al quale partecipai, che, fu deciso di trasformare la commissione in una associazione indipendente. Fu poi istituzionalizzata nel 1978 con il nome di Marionette et Thérapie (MT) ed è attualmente diretta dalla psicanalista Christine Debien. L’associazione francese è stata dunque la prima a concretizzare l’idea della necessità di un terreno d’incontro tra burattinai (marionettisti, ombristi, ecc.) da una parte, e terapeuti (psichiatri, psicologi, psicanalisti, riabilitatori, ecc.) dall’altra, con l’intento di evitare gli scogli in ognuno di questi due campi molto specifici e tra loro molto diversi per finalità, pur trovandosi ad utilizzare i medesimi strumenti. Essendo la prima associazione nazionale funzionante le riunioni ed i colloqui di MT sono sempre stati molto frequentati da stranieri tra i quali alcuni italiani. L’associazione da decenni pubblica quattro volte all’anno un bollettino e organizza corsi, seminari, conferenze, laboratori. Ricordo il grande interesse delle prime riunioni negli anni ‘70 ma anche la piacevolezza e l’umorismo delle discussioni tra persone di formazione ed interessi così diversi come burattinai e terapeuti. Questo rapporto tra le componenti si è attualmente modificato per la forte prevalenza di terapeuti. Considerata l’assenza o l’isolamento e la difficoltà di contatti tra gli operatori, i teorici e gli studiosi internazionali MT ha promosso vari incontri ai quali hanno partecipato esponenti di tutto il mondo in vista di istituire una federazione mondiale la FIMS (Féderation Internationale Marionnette et Santé). L’ultima edizione del colloquio settembre 2013 era quello di: La marionetta, un “parlessere”? (l’unione di due parole “parlare” ed “essere”) « La marionnette (…) n’est pas un acteur qui parle, c’est une parole qui agit » (Paul Claudel) Erano presenti una cinquantina di partecipanti (Francia, Belgio, Olanda, Germania, Canada, Italia, Catalogna, Libano, Svizzera …) Di seguito, riprendendo la scaletta degli interventi previsti nell’incontro, si riporta una sintesi estrema delle riflessioni espresse dai relatori, di varia formazione: Madeleine Lions (Psicanalista di indirizzo lacaniana e burattinaia) ex-presidente di MT ha rievocato, con la passione che le è propria, la storia dell’associazione. Raphaèle Fleury (Dottore in letterature e civilizzazioni francesi, specialista di Paul Claudel, direttore del polo Ricerca e Documentazione dell’Istituto Internazionale della Marionetta di Charleville) è intervenuto su “Una parola che agisce. Paul Claudel e la marionetta, sforzo di riconcettualizzazione”. In una comunicazione densissima, ha descritto il grande interesse di Paul Claudel per marionette e burattini esponendo le pertinenti dichiarazioni dello scrittore in particolare quelle sul teatro di marionette giapponesi Bunraku. Gilbert Oudot (Psicanalista, formatore presso MT dal 1982; in particolare anima ogni anno il seminario “Marionetta e Psicanalisi”) ha tenuto un intervento dal titolo “Dell’utilizzo della marionetta nel nostro rapporto con la parola.” (Il teatro, tra cui quello di burattini, partecipa a questa messa in scena del nostro rapporto con il mondo e con noi stessi e ci è necessario per accedere a una parola giusta, ossia a una parola che tenga in conto anche la dimensione inconscia del nostro essere e ci permetta di dire “io”). Mariano Dolci (Burattinaio nelle scuole dell’Infanzia e nelle elementari quindi in psichiatria a Reggio Emilia con uno sguardo educativo o terapeutico) ha relazionato su “Un secondo occhio, un altro sguardo?” Il contributo dell’animatore burattinaio in un atelier di marionette in un contesto psichiatrico. Si è evidenziata la presenza di un “altro sapere” oltre a quello degli psicologi, psicanalisti, psichiatri di tante correnti diverse; quello dell’animatore. Un sapere che, al contrario di quello dei curanti, non ha avuto molte possibilità di sedimentarsi e di trasmettersi; insomma di costituirsi; fino ad ora, infatti, animatori e burattinai che operano in questi campi non hanno ricercato occasioni per incontrarsi in modo di parlare del loro specifico sapere e di definirlo per il necessario confronto e la collaborazione con quello medico. Per una collaborazione è necessario che i due termini abbiano la loro autonomia. Karim Dakroub (Marionettista, psicologo, formatore, presidente di Khayal- Association for Arts & Education in Libano) ha riferito su “Quando parlare non è più possibile”. Le esperienze del relatore con burattini in zone martoriate, grazie alla sua grande sensibilità si sono dimostrate importanti per la ricostruzione dei rapporti sociali in individui traumatizzati da guerre e massacri. Pascal Le Maléfan (Psicologo, psicanalista, professore di psicologia clinica presso l’Università di Rouen, autore di numerosi articoli sull’utilizzazione della marionetta in terapia) è stato autore dellintervento “La marionetta come bordo nell’autismo: animare per ingaggiare la propria voce.” Quello che è in gioco per l’autistico con un burattino, è essenzialmente l’impegno della voce, questo oggetto pulsionale dal quale si difende. La marionetta diventa allora un confine a partire dal quale una enunciazione è possibile e può fare legame sociale. Il relatore ha illustrato alcuni esempi convincenti da casi clinici. Françoise Arnoldi-Dessiex (Marionettista, arte terapeuta, presidente di MEET in Svizzera romanda - Marionette, Espressione, Scambi e Terapia - e marionettista degli Hopiclowns - clowns ospedalieri- a Ginevra) è intervenuto su “Storie di ‘innesti d’immaginario’, una esperienza con bambini psicotici.” La relatrice ha illustrato la sua tecnica in cui il terapeuta “presta” al paziente un “pezzo” del suo immaginario conducendo il paziente ad assumerlo per mettere in scena figure del suo mondo interiore, fino allora indicibili. Nei dibattiti al termine di ogni intervento e nelle discussioni, in particolare nei momenti liberi, sulle infinite varietà di utilizzazioni possibili e ipotizzabili dei burattini nei contesti terapeutici tornavano alcuni temi mai esauriti: giungere ad uno spettacolo è sempre indispensabile? Dove finisce il teatro e dove comincia la terapia? Cosa è un burattino? E’ l’assenza di corpo del burattino che gli permette di avere una vita? Attendiamo dunque gli atti e l’autorizzazione a pubblicarli in italiano. Abstract T he French association “Marionnette et Thérapie” organized, in September, its XIV conversation at Charleville Mezières, a town in the Ardennes where the international animation theatre Festival takes place every two years. Almost fifty people took part in the event (form France, Belgium, The Netherlands, Germany, Canada, Italy, Catalonia, Lebanon, Switzerland….). Considering the absence, the isolation and the arduous relationship between the operators, the theorists and the scholars of this sector, “Marionnette et Thérapie” intends to establish a global foundation: the FIMS (Féderation Internationale Marionnette et Santé). teatridellediversità 25 Rubriche Teatro e Scuola “La creanza”, performance per l’atelier sulla “Didattica della Visione”, con Marina Di Virgilio, Desy Gialuz, Guido Gentilini (Idea Paris 2013, Università VII-Diderot) DA UN MONDO ALL’ALTRO quale educazione artistica per domani? Un ritorno in Europa dell’importante appuntamento dell’associazione internazionale IDEA (International Drama/Theatre Education Association), a più di vent’anni dalla sua fondazione a Porto nel1992 di Loredana Perissinotto A Parigi, dopo gli appuntamenti di Brisbane (Australia, 1995), Kisumu (Kenia, 1998), Bergen (Norvegia, 2001), Ottawa (Canada, 2004), Hong Kong (Cina, 2007), Belèm (Brasile, 2011). Resterà sempre in Europa il prossimo incontro, avendo l’assemblea dei soci accettato la candidatura della Turchia (Ankara, 2016), rispetto al Sudafrica. Una rete di associazioni nazionali, dunque, questa Idea che, con non poca fatica e tanti problemi, continua ad affermare l’importanza dell’esperienza artistica nella formazione delle giovani generazioni e a portare avanti ricerche, confronti, costruttivi scambi di punti di vista e pratiche. La metafora di questo ottavo congresso Arti della Scena/Educazione, svoltosi a Parigi dall’8 al 12 luglio, alla presenza di 850 partecipanti provenienti da tutto il mondo, con una nutrita presenza dall’Oriente, potrebbe però essere il labirinto. Nel dire questo, non mi riferisco alla quantità di conferenze, tavole rotonde, presentazioni; all’esubero di comunicazioni, atelier, poster, performance e spettacoli tra cui orientarsi, seguendo i cinque percorsi individuati dal comitato scientifico dell’ANRAT (Association National Recherche Action Théâtral, organizzatrice della manifestazione col Ministero della Cultura e Comunicazione e il Ministero dell’Educazione francesi), su altrettante questioni che vale la pena di elencare: 1) L’educazione artistica è un problema mondiale? (in riferimento alla sua legittimazione nei differenti sistemi nazionali); 2) I processi trasformatori: territori dell’utopia (in riferimento all’apprendimento e alla trasformazione sociale, tenendo presente il rispetto delle differenze culturali); 26 3) L’approccio sensibile e corporeo: quale dialogo tra le neuroscienze e le pratiche artistiche? (in riferimento alle ricerche più recenti che confermano le intuizioni degli artisti quanto al sentire/agire nell’approccio estetico attraverso il teatro e la danza e il radicamento corporeo ed emozionale di tutta la conoscenza); 4) Le arti della scena nell’apprendimento delle lingue e delle culture: quali diversità di approccio e quali problemi? (in riferimento al meticciato culturale ed artistico del nuovo millennio e alla trasformazione che avviene, nella messa in scena, delle lingue – parole/specchio, come i neuroni specchio di Rizzolati e Sinigaglia-); 5) La creazione e la scrittura teatrale per il giovane pubblico: quale posto e quale riconoscimento? (in riferimento alla fruizione delle opere attraverso il teatro, la danza, il cinema, le arti plastiche, la musica; nonché al repertorio di teatro contemporaneo per i bambini e i giovani e al fatto che nella storia del teatro e della letteratura non vi sia traccia di questo). Non evoco il labirinto neanche in riferimento alla difficoltà di capire in quale sede si sarebbe dovuto svolgere qualcosa che ti interessava seguire o che tu stesso dovevi presentare, soprattutto negli spazi dell’Università Paris VII-Diderot dove si smarrivano anche i giovani volontari del servizio accoglienza. Questo fa parte del folclore o delle inevitabili pecche di uno sforzo organizzativo non indifferente. La delegazione AGITA, partner italiano di Idea, con Ivana Conte, Peppe Coppola, Marina Di Virgilio, Guido Gentilini, Desy Gialuz, Patrizia Mazzoni, Salvatore Guadagnuolo e chi scrive, ha presentato alcune significative linee del lavoro in Italia, come la Didattica della visione (o scuola dello sguardo) e la Casa dello Spettatore, il fenomeno delle Rassegne di Teatro della Scuola, la realtà sociale dei Teatri di Comunità. La presentazione non è stata disgiunta dalla messa a fuoco dei problemi aperti nel nostro paese, in ambito educativo e culturale. Richiamo, allora, il topos/il mito/l’immagine del labirinto quale metafora dello stato dell’arte, dell’educazione e delle inerenti prassi formative: arrivare al centro e scoprire che il Minotauro ... è lì e non è lì! Vale a dire, avere la conferma di essere di fronte a qualcosa di sfuggevole e, al contempo, alla soluzione stessa del problema. Quale, perché? Si ha un bel ripetere che il teatro - l’Arte tutta! - è fattore di democrazia, d’integrazione, di intrecci culturali e dialogo, di sviluppo e collaborazione, di apertura verso le meravigliose nuove tecnologie di comunicazione, e così via. Si ha un bell’affermare che le più recenti scoperte delle neuroscienze confermano la positiva incidenza delle pratiche artistiche, fin dalla prima infanzia, sullo sviluppo del cervello umano e della persona - più creativa, empatica, cooperativa-, e che questo ha pure un positivo risvolto sul piano cognitivo e sull’apprendimento verso tutte le discipline scolastiche, e così via. Si ha un bel lanciare appelli da parte di studiosi e di scienziati, oltre che di artisti teatranti come Mnouchkine, Brook, Boal, Vitez, Fo, Bond e molti altri, senza dimenticare i tanti misconosciuti “artisti” della formazione e della pedagogia che, per esperienza diretta e da decenni, non fanno che confermare questo indirizzo, e così via. Si ha un bel ripetere, affermare, firmare appelli... è tutto inutile! Fioccano le domande. E’ inutile solo apparentemente o realmente? Non si riesce ad aver la forza di guardare negli occhi il Minotauro e il centro del labirinto si sposta: dove sta la regola del gioco? Sta nelle mani di istituzioni cieche e sorde, scusabili per il loro handicap o ben consapevoli? Non abbiamo il potere di persuasione e, sentendoci chiamati in causa, ci sentiamo colpevoli per la nostra incapacità di convincere sulle affascinanti prospettive dell’inversione di rotta? O forse che la spinta al cambiamento, dal basso come dall’alto, abbisogna di altra propulsione, del coordinamento di altre volontà e soggetti? E solo la mia personale, sconsolata, considerazione che a chi governa, a chi ha il potere di legiferare e quello economico non interessa né l’arte, né l’educazione, né la salute psicofisica dei cittadini, specie giovani? A Parigi, parlando con tante persone negli intervalli del programma, era palpabile questa sensazione. La situazione di disagio è trasversale ai paesi europei, anche in quelli con una storia e politiche più sensibili e stabili di quelle italiane. Deprimente conclusione di un congresso internazionale, a fronte di una situazione, se non drammaticamente asfittica, generalmente afasica? Eppure si è chiacchierato tanto in questo consesso, forse troppo. Era certamente necessario mettere in fila i problemi e tutte le tessere del puzzle. L’opportunità d’incontro di tanti esperti, studiosi, scienziati, professori universitari, insegnanti, artisti ed operatori teatrali provenienti da tante parti del mondo, e di qualche politico (francese), andava colta e sfruttata sia dal lato teorico-problematico, sia pratico. A Parigi si è anche percepito la concretezza di una realtà diffusa, una forza, una potenzialità; ma ti chiedi pure perché non si sfonda: chi ci ascolta, dal basso come dall’alto, quando peroriamo la causa dell’arte, dell’educazione, della qualità del vivere e delle relazioni interpersonali? Abbiamo soluzioni, esperienze, dati, un pensiero pensante, una visione sistemica e integrata rispetto ai problemi: a chi interessa, chi si avvale di questo o ci consulta? L’impressione di continuare a girare in tondo se non a vuoto, in un labirinto senza uscita, non è stata solo mia. L’ho condivisa con quanti hanno alle spalle anni di studio, ricerca, sperimentazione, di azioni concrete e pubblicazioni; ma non consola. Si può porre rimedio a questa debolezza del movimento, a questa invisibilità di chi opera in ambito della Scena/Educazione? (E questo, ricordo, era il titolo di una pubblicazione ETI/Agita, a seguito del primo Protocollo d’intesa ministeriale sull’educazione teatrale del 1995!). Sappiamo che gli amici di Anrat hanno dovuto affrontare innumerevoli difficoltà nell’organizzare questo appuntamento (anche questo è un sintomo, riferito alla civile Francia!) e, ciò nonostante, possiamo permetterci di dire che, pur a partire da un’impostazione tradizionale, poteva essere anche altro questo congresso, segnando un passo avanti? Poteva essere questo il luogo e l’occasione adatti, considerato il momento storico, economico, sociale, in cui siamo immersi? Poteva uscirne una presa di posizione comune, una concertata – politica - linea di condotta, trasversale alle varie realtà? Si poteva tentare di far seguire alle parole e alle tante analisi, una qualche condivisa azione concreta per smussare le “solitudini” del ritorno a casa propria? A nostro avviso, poteva essere... Allons enfants ! Insomma, le pompe ci sono, l’acqua pure ma la casa continua a bruciare, verrebbe da dire con impotente rassegnazione. Però mi sorge un’altra domanda: forse non sarebbe meglio accettare, con estrema lucidità, il senso di questo stato delle cose; azzerare e convincersi dell’opportunità di un rigenerante fuoco, per ricominciare? Il desiderio accende l’utopia... riprendere il filo in mano e continuare il cammino dentro e fuori il labirinto. Con altri compagni di viaggio e con pazienza si arriverà, prima o poi, alla luce... L’ombra di Sisifo arriva a tormentare una tensione di speranza... ma anche questo fa parte della dialettica della vita, o no?! Abstract T he eighth world congress of Idea, which has recently taken place in Paris and involved 850 people coming from around the world, could be termed a maze, speaking in metaphors. This image does not refer to the difficulty one met to steer the large number of conferences, round-table discussions, presentations, communications, workshops, posters, performances and plays. A maze is actually the image which metaphorically describes the present state of art, education and training practices. Even the most recent neuroscientifc discoveries have backed up how, experiencing art from infancy, has a positive effect on the brain development and on the person as a whole , who is more creative, empathic and cooperative . Therefore the cognitive level is positively implicated and learning is enhanced in all school subjects. On one hand, however, it all seems pointless, although artists and drama operators, as well as experts, scientists, scholars, professors and school teachers from everywhere have been repeating, confirming and signing appeals to the establishment for a long time. To a certain extent, they are under the impression of “running around in circles”, they all feel “unease” every European countries. The authoress raises several questions with regard to this issue, and she also wonders if they should have taken advantage of the meeting as an opportunity to have speeches, analyses and discussions followed by some actual “political” internationally shared action. teatridellediversità 27 Rubriche Teatro e Scuola VLADIMIRA CANTONI Dapprima un cavaliere L’ultimo saluto a una signora della scena Come ridurre stereotipi e pregiudizi contro le Comunità Rom in Abruzzo promuovendo eguali diritti attraverso il linguaggio del corpo Come professoressa alla scuola media diede vita al Teatro di base con i suoi allievi quattordicenni appassionatisi con lei alla recitazione di Athena D’Orazio di Loredana Perissinotto P agine piene di appunti frettolosi, date, luoghi, nomi, punti interrogativi sfogliando il diario di bordo che ho redatto durante il tirocinio presso l’Associazione Deposito Dei Segni Onlus, ideatore del progetto teatrale “Se l’altro fossi io” inserito nel programma comunitario Roma Source, Sharing of Understanding Rights and Citizenship in Europe - Condivisione e Comprensione dei Diritti di Cittadinanza in Europa,” in collaborazione con il Comune di Pescara partner del progetto con altre sei nazioni. Focus del programma erano la riduzione di stereotipi e pregiudizi delle comunità locali contro i Rom e la promozione di eguali diritti. Ritrovo spezzoni dibattiti e spunti di riflessione registrati nei circle time durante il laboratorio di pedagogia teatrale e artistica “Il Libro Vivente” condotto da Cam Lecce e Jörg Grünert del DDSO, da ottobre a dicembre 2012, in continuità con le attività avviate nella primavera precedente. Rivivo le scoperte, le emozioni e l’invisibile agli occhi di quelle due ore settimanali trascorse con i bambini della V/IV della scuola elementare “Don Milani” di Via Sacco di Pescara, e mi torna in mente la storia Il Cavaliere senza corpo e la spada che non c’è realizzata dai 21 bambini, di cui 10 di minoranza linguistica Rom, 3 di nuova immigrazione e 8 gajè. La scuola si trova a Rancitelli, quartiere Villa del Fuoco, connotato da grande disagio sociale, devianza e criminalità, abitato da una cospicua collettività Rom e collettività di nuova emigrazione, collettività gajè multiproblematiche. Il gruppo classe era molto conflittuale, c’era sempre qualche assente, incontrato appena poco prima per strada vicino al bar nei pressi della scuola. Calzini antiscivolo, abbigliamento comodo, fila indiana e nel chiasso trasferimento nella classe senza banchi dove il nostro spazio estetico (precedentemente preparato) era pronto per farci entrare nel “campo magico” delineato dallo scotch di carta sul pavimento. Si iniziava con la presentazione, si pronunciava la formula magica, poi i giochi: la lotta degli animali, il labirinto, il bosco, le mimesis dell’aria, acqua, fuoco, terra, albero, i circle time per socializzare come ci si era sentiti. Il tutto pensato per far narrare con spontaneità i vissuti quotidiani dei bambini da riformulare in una storia della fantasia di cui divenire i protagonisti nella rappresentazione con il linguaggio del corpo. La gestione dei conflitti è stato quindi il cuore delle attività. Cam e Jörg in costante comunicazione con le docenti, hanno ri-modulato le attività adattandole alle necessità del gruppo classe. Le verbalizzazioni e i giochi sono divenuti i contenuti della storia/metafora sulla loro condizione socio-affettiva, sulle loro paure e tristezze a lasciare la scuola elementare, sui pregiudizi verso il diverso, sul timore di crescere e affrontare nuove responsabilità. Un cavaliere senza corpo, alla ricerca di una spada magica, viaggi nel tempo e nella storia affrontando pericoli, diventare gruppo solidale per riuscire a risolvere problemi, litigi e incomprensioni, per combattere mostri e vampiri, per scoprire, attraverso domande, dubbi e curiosità durante la fase di trasposizione dal testo alla drammatizzazione, che la spada magica non esiste e che, invece, il corpo ritrovato sono loro nella capacità di relazione, ascolto, condivisione e complicità con una gran voglia di raccontarsi mentre felici raccolgono gli applausi 28 Vladimira Cantoni del pubblico presente. La scoperta essenziale vissuta durante questo tirocinio formativo ha incoraggiato i miei studi di approfondimento per orientare la mia tesi di laurea in sociologia: “Il Teatro Sociale: dimensioni e metodologie per l’intervento”. Aver vissuto, osservato, registrato e monitorato le attività mi ha reso consapevole di quanto le metodologie di teatro sociale siano un mezzo di mediazione di gruppo, per promuovere la spontanea espressione di sé, libera da maschere sociali e stereotipi imposti attraverso le barriere invisibili dei contesti socio-culturali e le trame delle abitudini quotidiane. Abstract T he author tells about her experience as participant observer to the activities of theatrical and artistic pedagogy of the project “If I were the other”, realized by the association Deposito Dei Segni Onlus within the program Community Rome Source for equal rights and support to the Rom communities. It has been a fundamental experience to editing her thesis of degree in Sociology “Social Theater: dimensions and methodologies for the intervention.” E Rubriche Teatro e Scuola A PESCARA UNA CITTADINANZA PER TUTTI Insaziabilità da Witkiewicz, regia di Vladimira Cantoni ra “la Vladi” per tutti, Vladimira Cantoni uscita di scena a 69 anni accompagnata dalla pioggia di ottobre, dal suono struggente del violino (come era importante la musica dal vivo nei suoi spettacoli!), dal commosso saluto degli amici presenti nella piccola chiesa di S. Antonio a Bologna. La passione di una vita, la sua per il teatro, nata sui banchi di scuola. Banchi frequentati da studentessa e banchi visti dall’altra parte, quale Prof di lettere alla scuola media. E fu proprio con “quel” gruppo di allievi quattordicenni, appena licenziati, contagiati dalla sua energia teatrale, che diede vita al Gruppo Teatro di Base nel 1978. In un intervista di Stefano Casi, una decina di anni dopo (1), Vladi ribadisce il senso del fare ricerca teatrale e dello stare insieme: “ La cosa che si nota, al di là delle capacità di ciascuno, è il fatto che si fa fronte comune, nel bene e nel male. Il nostro gruppo è composto da persone che amano fare il teatro, che vogliono esistere”. Questa filosofia l’ha sempre accompagnata anche quando, dopo lo scioglimento del Gruppo Teatro di Base, diede vita al Gibus Teatro e al gruppo amatoriale con giovani di Cervia. Lì, a Cervia-Pinarella, era andata a vivere dopo la morte del marito. Vicino al mare, i suoi occhi azzurri s’illuminavano d’altra luce. Fare “il teatro/esistere” significava per lei e per i suoi attori, un lungo lavoro drammaturgico, di lettura e di impasto di autori teatrali e letterari: Canetti, Brecht, Valentin, Ionesco, Roversi, E. L. Masters, Wedekind, Brontë.. Significava anche un’attenzione allo spazio d’azione scenica, spesso di rottura di schemi tra attore e spettatore, in interno come all’esterno. Significava l’accendersi di una curiosità per l’oggetto simbolico più che per la scenografia in senso stretto, ai costumi come trovarobato per esprimere un’estetica divergente e sensuale. Una cura per la musica dal vivo, come dicevo, o se registrata, drammaturgicamente dissonante con la storia e l’azione. Significava “intrusioni” di attori non professionisti, di ogni taglia ed età (anche bambini e anziani), coi professionisti; significava generosità civile vuoi verso le celebrazioni dell’Anpi come verso le ricorrenze della parrocchia. “ Ma allora cos’è il teatro”, chiede sempre Casi in quell’intervista. “Per me personalmente, ti potrei dire, che è il mio amante”, risponde. Delle grandi attrici scomparse si dice che erano “signore della scena”: anche tu lo sei stata Vladi, come persona e regista, per quell’amore inseguito con cura e determinazione per tutta la vita, che guardavi coi tuoi occhi azzurri. “Un gruppo, una differenza” intervista a Vladimira Cantoni, a cura di Stefano Casi in “Teatro dell’obbligo”, Editoriale Mongolfiera Teatro, 1989. teatridellediversità 29 Rubriche Personaggi Impronte dell’anima, Accademia Arte della diversità DA COMO A BOLZANO Minotaurus, Accademia Arte della diversità L’arte della diversità trova asilo in Alto Adige Il Teatro La Ribalta, una delle compagnie storiche del teatro per l’infanzia e la gioventù, da otto anni lavora a Bolzano, dove coproduce spettacoli con alcune associazioni e con Lebenshilfe Vito Minoia intervista Antonio Viganò 30 mondo, trasfigurazione immaginifica della realtà, celebrazione della sua complessità, della sua bellezza e del suo mistero. A Bolzano, dove lavoro da quasi otto anni, ho incontrato un nuovo gruppo di attori e attrici che si è stabilizzato in una forma di Compagnia teatrale. Questo gruppo di attori ha avuto la possibilità di misurarsi e formarsi attraverso l’incontro con grandi artisti quali sono Julie Stanzak, Michele Fiocchi, Marta Bevilacqua e Annalisa Ligato. Abbiamo costruito un progetto ambizioso: far nascere la prima Compagnia Professionale in Italia fatta di uomini e donne, attori e danzatori, che nonostante la loro condizione “sociale”, nonostante nessuno ci sia mai riuscito, nonostante le difficoltà burocratiche e amministrative, si misurano nel campo del teatro e della danza attraverso le loro Opere che sono il loro lavoro quotidiano. Gli attori della Compagnia sono dei professionisti del teatro e hanno una coscienza profonda dei meccanismi della finzione. Ma non solo: vogliamo gestire in forma completa un vero e proprio spazio teatrale, un Teatro Comunale pubblico dove tutte le varie professioni e mestieri della scena, dal botteghino alla gestione tecnica, dall’attività di creazione alla attività di ospitalità, dal servizio maschere all’ufficio di promozione artistica, sia gestito completamente e autonomamente da loro. Credo che ne abbiano le capacità e, dopo 8 anni di lavoro, una buona dose di professionalità. Vogliamo essere un’eccellenza e una anomalia. Ho sempre diffidato, mi crea una certa inquietudine la definizione di teatro & handicap. Come ho sempre diffidato di analoghe denominazioni, di ciò che sta dopo la “e” (carcere, tossicodipendenza, politica, emarginazione, disagio ecc..ecc..) sopratutto se, come troppo spesso accade, formulazioni di questo tipo tendono a fissare i confini di un nuovo genere, di una tendenza o di una pratica alla moda, chiudendone le possibilità espressive e creative anzichè sostenerne e svilupparne le molteplici problematiche. Già oggi lavoriamo in collaborazione stretta con le Istituzioni Culturali del territorio quali il Festival BolzanoDanza, nostro coproduttore, o il Teatro Stabile di Bolzano, con i quali interagiamo per progetti creativi e di ospitalità. Inoltre, con il Comune di Bolzano e la Provincia Autonoma, abbiamo realizzato un cartellone teatrale, oggi al suo quarto anno di attività, che propone in città e in diversi Comuni un circuito teatrale denominato ARTE della DIVERSITA’ - come l’arte racconta la diversità e come la diversità si fa arte. Questo ci ha permesso di incontrare ed ospitare i Condoco dance di Londra, Emma Dante, Pippo Delbono, Federica Fracassi, Theater Mezzanin, il Teatro delle Albe, Saverio La Ruina, Ascanio Celestini, e tanti altri artisti che si interrogano e ci interrogano sul tema della “diversità”, declinandola in tanti modi e in tanti mondi possibili. Lavoriamo non per rendere tutti normali, uguali, identici, ma per moltiplicare tutte le diversità. (pierotauro) G li spettacoli “Excusez-le ou il vestito più bello” o “Personnages” che hai relizzato per la Compagnie de l’Oiseau-Mouche sono memorabili. A distanza di anni quelle opere e quegli attori che comunicavano emozioni con tanta semplicità sono ancora vivi nella memoria degli spettatori e testimoniano l’esplorazione della nostra umanità. Oggi la tua ricerca si rinnova nell’esperienza della “Accademia Arte della Diversità”. Ci puoi raccontare il progetto che negli ultimi anni stai sviluppando a Bolzano? Il lavoro con gli Oiseau Mouche, otto anni intensi, hanno lasciato un segno importante dentro di me ma credo anche nel panorama teatrale italiano. Per la prima volta una Compagnia professionale, costituita da uomini e donne con Handicap Mentale, rompeva e travolgeva la consuetudine che negava la possibilità ad una “diversità” di farsi Arte. Sino ad allora, almeno nel teatro, quel lavoro era rinchiuso nei recinti della “socializzazione”, del laboratorio pedagogico o terapeutico. Quella Compagnia “diversa” rivendicava la sua “normalità” di essere solo, davanti a tutto e tutti, un progetto artistico e si assumeva fino in fondo questa responsabilità. Chiedeva un nuovo sguardo, chiedeva che la loro condizione “sociale” venisse dimenticata per diventare solo comunicazione. Gli Oiseau Mouche erano e sono rimasti speciali, non solo perchè ci hanno emozionato, ma perchè è teatro di poesia, metafora del Alla tua più recente ricerca sono ascrivibili due opere di straordinario interesse: “Impronte dell’anima” e “Minotaurus”. Nel primo ti sei occupato di eugenetica ed eutanasia, parole entrate in modo irruento nel dibattito scientifico. Cito testualmente dalla presentazione dello spettacolo: “Il corpo umano non appartiene più a chi lo abita e lo vive, nelle infinite sue possibilità, ma allo Stato, nel culto della salute collettiva e nel sacrificio dell’individuo… In pieno darwinismo e determinismo biologico, con la complicità della scienza, si uccide qualsiasi diversità perché sono vite non degne di essere vissute”. Come avete affrontato teatralmente queste argomentazioni? Avevo voglia e interesse ad affrontare il tema dell’eugenetica: lo trovo un tema di strettissima attualità, per le varie implicazioni scientifiche, per le nuove scoperte intorno al genoma umano e a tutte le implicazioni etiche e sociali che queste comportano. Mi sono chiesto se tra qualche anno nasceranno ancora uomini e donne con la sindrome di Down e, spostando la linea del controllo delle nascite molto in avanti, se esisteranno ancora corpi non conformi, ritenuti imperfetti, costosi, non più corrispondenti a dei parametri culturali. Su questi temi, difficili e dolorosi, abbiamo interrogato i nostri attori e i loro genitori. Inoltre abbiamo costituito un comitato scientifico con psicologi, psichiatri e operatori culturali. Poi c’è stato l’incontro con Giovanni De Martis che aveva già lavorato con Marco Paolini sul tema. Da una sua sceneggiatura è nato questo nuovo spettacolo - racconto chiamato “Impronte dell’Anima”. Gli interpreti di questo spettacolo sono proprio le persone che ne potevano essere le vittime. Ma grazie a Dio, il progetto di eugenetica nazista, condiviso da tutta la psichiatria tedesca dell’epoca, è stato interrotto dopo aver lasciato sul campo di morte più di 300.000 vite umane ritenute “non degne di essere vissute”. E’ un opera teatrale che mi piace molto, che mi sorprende ed emoziona ogni volta. C’è uno spazio scenico molto intimo, per soli 80 spettatori, senza protezioni scenotecniche e scenografiche, e gli attori recitano a strettissimo contatto con il pubblico. Lo spazio scenico è elemento drammaturgico. Il “Minotauro”, invece, prende spunto dall’opera omonima di Dürrenmatt e si cimenta con una definizione che illumina la rappresentazione: “ L’Alterità nasce ogni volta che l’uomo, incontrando se stesso, non si riconosce”. Quale “filo di Arianna” vi ha permesso di compiere tale esplorazione? Durrenmatt è stato un pretesto, una suggestione da cui partire. Il tema del Minotauro è un archetipo della diversità, dell’alterità. Il Minotauro immaginato da Dürrenmatt che lo va a trovare dentro il labirinto nei primi giorni della sua prigionia è una grande suggestione narrativa alla quale abbiamo aggiunto le poesie di Borges sul tema del labirinto. A questa situazione già drammatica, Dürrenmatt aggiunge un altro elemento inquietante; le pareti del labirinto sono specchi in cui il “mostro” si riflette in continuazione. E’ specchiandosi ogni giorno che il “mostro” acquisisce coscienza personale e sociale. Arriva a pensare a sé come individuo dotato di autostima e in grado di avere relazioni di affetto. Dentro questo “labirinto” di relazioni con l’altro se stesso, si sprigiona l’impossibilità della comunicazione con gli altri. Il mitico filo che finirà per collegare il Minotauro con Arianna è la danzatrice Alexandra Hofer, mentre a dare corpo ai due personaggi mitologici sono Manuela Falser e Mattia Peretto della Südtiroler Lebenshilfe. Nel 2012 abbiamo vinto il Premio My Dream e questo ci ha permesso di far conoscere il lavoro anche in Italia. Come per il Minotauro la collaborazione con la coreografa Julie Stanzak è rinnovata anche per il nuovo spettacolo “Il suono della caduta”, che ho avuto il privilegio di osservare in prova generale al Teatro di Gries, solo pochi giorni prima del suo esordio nell’ambito del programma di “Bolzano Danza 2013” il teatridellediversità 31 25 luglio scorso. Il tema dell’angelo è ricorrente sia nella tua ricerca che in quella di Julie Stanzak. “Gli angeli superano la forza di gravità, volano, ma ad un certo punto alcuni di loro decidono di rinunciare alla loro eternità, cadono a terra, perdono le ali”. Una esplorazione sul valore della vita e dei veri sentimenti, al di là di commiserazione e pietismo? La collaborazione con la danzatrice e coreografa Julie Anne Stanzak risale oramai al 1993. E’ un sodalizio artistico importante che ha lasciato un segno evidente in tutte le nostre creazioni, dagli Oiseau Mouche alle creazioni del Teatro la Ribalta. Julie ha accettato il mio invito di passare il suo tempo disponibile, quando non è impegnata con il TanzTheater di Wuppertal, qui a Bolzano per essere la nostra Docente e la nostra coreografa. La collaborazione con il Festival BolzanoDanza ci ha aiutato a costruire una sua residenza artistica quì in città. Abbiamo iniziato con lo spettacolo “Minotauro” dove Julie Stanzak ci ha insegnato che il gesto, il movimento, vive e nasce dentro una necessità interiore, nel racconto personale. Abbiamo imparato che non è importante come si danza, ma il perchè si danza. Abbiamo dato forma alla danza di Mattia e di Emanuela, nostri interpreti “diversi” che mai nessuno avrebbe pensato o immaginato di vedere così. Abbiamo trovato chi ci ha accolto in Festival in Italia e all’estero, abbiamo ricevuto dei Premi, visitato tanti teatri, provato e riprovato le coreografie, cercato sensi nel processo drammaturgico. Come una qualsiasi Compagnia teatrale, come tante altre Compagnie teatrali, ma diversi. Una diversità che non è negli interpreti dello spettacolo ma nella cultura teatrale che cerchiamo di percorrere, cercando nei luoghi del disagio, dell’alterità, vite e storie che appartengono all’umano e non al diverso. Volevamo avere una nuova possibilità: volevamo mettere a frutto questo percorso e confrontarci con un nuovo tema: l’incontro con l’Angelo. Se è vero che “gli angeli intuiscono ciò che gli uomini chiamano i ‘sentimenti’, ma a rigore non possono viverli. Sono profondamente ‘amorevoli’ i nostri angeli, sono buoni e non è dato loro modo di essere altrimenti, perché non possono neanche concepire l’alterità: la paura, ad esempio, o la gelosia, l’invidia, né l’odio. Conoscono i modi con cui vengono espressi, ma non i sentimenti stessi.” (Spagnoletti - Töteberg, 1989 ). Questo tema ci appassiona e ci consente di interrogarci sul valore della “vita”, quella che ha il peso della gravità, del dolore fisico, della ferita che sanguina, della caducità e dell’amore. Quella che si può trasformare, quella che sogni ma non puoi realizzare, quella dell’ingiustizia e della mano del giudice. Abbiamo lavorato intorno a delle suggestioni letterarie: da Rilke con le Elegie Duinesi a Peter Handke e intorno ad un racconto di Marquez dal titolo “un uomo molto vecchio con due grandi ali”. Gli Angeli , caduti sulla terra, scoprono la forza di gravità, che li schiaccia a terra. Sono Handicappati questi Angeli terreni. Scopriranno il sapore della ferita, del sangue che esce dal taglio. Scopriranno la forza del desiderio che non da pace, impareranno ad addormentarsi nel letto d’inverso, a ripararsi dalla pioggia. Cadere è vivere. (pierotauro) Minotaurus, Accademia Arte della diversità 32 Leggiamo tra le righe di presentazione del Teatro La Ribalta che ha operato “per una contaminazione tra generi” e per lo sviluppo di nuove pratiche, dando impulso e spessore artistico ai progetti nei cosiddetti “luoghi del disagio”. In passato hai lavorato in Francia (ricordiamo la lunga collaborazione con il Theatre Le Grand Bleu di Lille). Oggi le tue opere sono riallestite a Bolzano, coinvolgendo molti estimatori anche di lingua tedesca, e in Svizzera. In linea con alcune tue considerazioni, che condividiamo, quanto pensi che in Europa sia progredita una cultura scenica che punta “all’espansione di una diversità – quella dello stesso teatro – verso altre diversità etniche o sociali o culturali che siano”? Non mi sono mai posto il problema di contaminare generi: credo che oggi nelle mie regie ci sia una forma poetica e scenica riconoscibile, che mi appartiene. Quando incontro l’alterità, la diversità, il disagio, lo faccio dentro una ricerca artistica, come necessità di far incontrare al teatro delle vite “vere”, dei mondi e delle forme possibili. Lontano da qualsiasi forma terapeutica perchè questa è costretta a fermarsi sulla soglia di un mistero che appartiene all’inesplicabilità dell’arte. Il teatro, sempre più spesso, in Italia e in Europa, prova ad interrogare se stesso, la sua funzione, andando incontro a territori nuovi e inesplorati, come lo sono quelli delle alterità. Ma è nel lavoro dell’attore, nella presenza in scena di attori segnati da conflitti - statuti sociali - drammi corporei e mentali, nello scarto di energia che solo loro possono produrre sulla scena, che arricchiscono il teatro, luogo di inclusione sociale per eccellenza. C’è un livello in più di organicità, di sintesi tra biologia e cultura in scena. Sono corpi-ambienti, corpi-mondo, che fanno germogliare nuove pratiche e nuovi territori. Abstract V ito Minoia interviews Antonio Viganò, who founded, together with Daniele Fiocchi, the Teatro La Ribalta, one of the main Italian historic company of theatre for childhood and young audience. Viganò moved to Bolzano eight years ago, where he coproduces shows in collaboration with several associations as Lebenshilfe. Thanks to the cooperation with a new group of actors and actresses that formed a theatre Company, an ambitious project was created, with the aim to give birth to the first Italian Professional Company made up of men and women, actors and dancers who, in spite of their “social” condition and the bureaucratic and administrative problems, put themselves to the test in theater and dance, through the realization of proper Operas, that belong to their daily work. This diversity is not represented by the performers, but by the theatre culture that we are trying to go through, looking for lives and stories about humanity -and not diversity-, inside the places of discomfort and otherness. teatridellediversità 33 Rubriche Il teatro in fabbrica A FAENZA L’OMSA, IL LAVORO, IL MONDO Spettacoli, anche in strada e nelle case. Video, concerti e laboratori. Ecco le molte azioni del Teatro Due Mondi di Faenza a sostegno di una lotta Michele Pascarella intervista il regista Alberto Grilli È una modalità abbastanza inusuale ai nostri giorni (anche se non lo è certo nella storia del teatro!), che mira a dare la possibilità di comunicare attraverso l’arte e la valorizzazione delle storie personali e collettive. In seguito è nato anche un progetto di “teatro nelle case”, in collaborazione con Stefano Vercelli, e il video Licenziata!, che ha avuto una vasta diffusione nazionale: le Brigate teatrali, queste donne e uomini vestiti di rosso, sono diventate oggetto di grande attenzione da parte dei media (televisione, giornali, …), il che ha permesso che la lotta avesse più forza. Il progetto Al lavoro! del settembre 2010 comprendeva, tra le altre cose, un grande concerto di Giovanna Marini assieme al Coro e alla Banda della Scuola Popolare di musica di Testaccio. Questi artisti hanno generosamente rinunciato al loro cachet per permetterci, con quei soldi, di acquistare le divise dei “brigatisti”. C ome si inseriscono questi progetti all’interno della vostra storia? Da quando esistiamo, cioè da più di trent’anni, abbiamo cercato di stare costantemente in relazione con il territorio in cui abitiamo: la città di Faenza. I nostri spettacoli sono da sempre politici, nel senso che manifestano il nostro sguardo sul mondo, e cercano di stimolare le persone a riflettere su ciò che accade, combattendo la passività e l’assuefazione. Quale vicenda ha dato origine alle iniziative legate all’OMSA? Nel 2010 lo stabilimento OMSA di Faenza è stato chiuso, per motivi “commerciali” di delocalizzazione in Serbia (e non a causa della crisi…). Si trattava di un’esperienza attiva da settant’anni, e la sua fine ha provocato la forte reazione di un gruppo di operaie. Ciò ha stimolato la nostra voglia di partecipare attivamente alla loro lotta: così è nato il progetto Al lavoro!, nel quale abbiamo coinvolto il gruppo francese Théâtre de l’Unité. La loro è una realtà che sentiamo piuttosto affine alla nostra: 34 sono esperti di lavoro con non-attori (in questa occasione hanno condotto un laboratorio teatrale con le ex-operaie) e di teatro di strada, componente essenziale anche della nostra vita artistica. Così sono nate le Brigate teatrali OMSA… Sì. È un teatro propriamente “di strada”, che vuole lavorare con non-attori, abitando luoghi non teatrali: fuori da qualsiasi protezione scendere nelle piazze, cercando forme molto simili alla manifestazione, alla protesta sindacale. Oltre alle operaie, le Brigate teatrali hanno raccolto l’adesione di molti “volontari della cultura” di diversa età ed estrazione: non direttamente coinvolti nella vicenda OMSA, hanno comunque deciso di offrire il loro tempo e il loro corpo a questo progetto. Abbiamo tentato, con l’aiuto del Théâtre de l’Unité, di dare uno strumento nuovo a un gruppo di persone che non si occupa professionalmente di teatro, cercando di far sì che la rivendicazione sindacale e la lotta trovassero una forma poetica. Come siete arrivati, in seguito, allo spettacolo Lavoravo all’OMSA? Nel 2012 abbiamo deciso di far convergere alcuni elementi caratterizzanti il progetto delle Brigate teatrali con un nostro spettacolo di qualche anno prima: Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht. In Lavoravo all’OMSA una ex-operaia si è mescolata agli attori del nostro gruppo. È una produzione che, seppur di impianto teatrale, vuole essere rappresentata soprattutto fuori dagli spazi tradizionalmente dedicati allo spettacolo: circoli, associazioni, spazi auto-gestiti. Oltre alla protesta per la chiusura dello stabilimento faentino, quale filo conduttore unisce queste diverse “manifestazioni”? Certamente la volontà di diminuire la distanza fra il mondo dell’arte (e più in generale della cultura) e il mondo reale. Scendere in strada, andare nelle case, cercare il pubblico: lavorare coinvolgendo non solo i non-attori, ma anche il non-pubblico. All’inizio del secolo scorso, all’epoca dei grandi riformatori del Novecento e della rivoluzione in Unione Sovietica, le classi operaie e gli studenti erano integrati attivamente nei processi culturali, mentre oggi c’è una distanza enorme fra chi lavora in una fabbrica e chi si occupa di cultura o di arte. Questo progetto è dunque un piccolo (ma concreto) tentativo di riallacciare alcuni fili fra persone che, pur occupandosi di cose diverse, sentono la stessa urgenza di reagire alle ingiustizie del mondo. Attraverso il teatro trovare un linguaggio che permetta di riavvicinarsi: ciò accomuna queste diverse forme. Qual è il senso propriamente politico di progetti come questi? I veri destinatari del lavoro sono coloro che subiscono le ingiustizie, affinché ne prendano coscienza. Ogni eventuale cambiamento non può che partire dalla base, anche attraverso la prima azione politica: il voto. Secondo me è importante che questo tipo di esperienze rimanga una “diversità”, qualcosa di non precisamente catalogabile, inquadrabile o omologabile. In questo senso mi fa particolarmente piacere l’interesse della vostra rivista. Brigate teatrali OMSA, Teatro Due Mondi Abstract T eatro Due Mondi was founded in 1979. Since then, the group has been trying to stay connected to its own territory: the city of Faenza. In 2010, Faenza’s OMSA factory was closed and relocated to Serbia (for business reasons, not because of the crisis...). This caused strong reactions from workers groups, which led Teatro Due Mondi to actively participate in their struggle: thus, workshops were born, along with shows, videos and concerts. OMSA theatrical Brigades is a sort of street theater, which works with non-actors in non-theatrical places. I used to work in OMSA, is a show where a former workers are mixed with Teatro Due Mondi’s actors. All this serves to decrease the distance between the world of art and the real world by means of theatre. teatridellediversità 35 Rubriche A napoli dagli anni Ottanta A NUOVE DRAMMATURGIE ncora la parola. Soprattutto la parola. Enzo Moscato è tra i drammaturghi napoletani degli anni ottanta quello che più scandaglia il linguaggio drammaturgico nelle sue più remote possibilità, nella sua variabilità, nei multiformi registri dei codici linguistici. Se la parola, come abbiamo visto in precedenza, aveva perso la sua capacità di dire, di raccontare e di costruire logicamente e canonicamente la storia, Moscato non chiude gli occhi di fronte a tale mutilazione, anzi ne fissa la malattia. Non cura la parola ormai cancerosa ma la seziona, la indaga nel suono per scoprire cos’altro può. Tutta la sua produzione drammaturgica è un viaggio sonoro dove emerge la frammentazione del dire, l’impossibilità di concludere, di afferrare una certezza, una stabilità. Il linguaggio decostruisce se stesso, la comunicazione cerca altre modalità per esprimersi, le forme classiche del teatro eduardiano franano, non ci sono atti, scene, intrecci, personaggi. Moscato stesso afferma: “Io credo che per me il modo sia quello di scrivere in frammenti e anche in teatro io non scrivo storie ma esplosioni di storie. Credo che sia il riflesso dell’esterno della vita che viviamo e anche della nostra interiorità odierna. È difficile oggi trovarsi di fronte ad una storia, è tutto molto frammentario, noi stessi siamo ridotti a frammenti”. Enzo Moscato: l’esplosione della lingua-corpo Dopo Annibale Ruccello e Manlio Santanelli ci occupiamo di un’altra primaria figura della storia della drammaturgia napoletana degli ultimi trent’anni Enzo Moscato 36 (Foto PPalmieri) Come arrivare a ciò? Moscato ha vissuto la sua infanzia nei Quartieri Spagnoli, in quei vicoli che le guide sconsigliano, in quel dedalo di ciottoli dove la pluralità delle strade in salita e in discesa non permette alcuna stabilità, dove la vita è portata all’eccesso, dove la comunicazione è affidata alla fantasia dell’urlo, al suono più che alla riconoscibilità di una parola significante. Ed è qui, insieme agli studi e all’insegnamento della filosofia, che Moscato incontra Antonin Artaud. È in questi vicoli, prima ancora che nelle teorie e nelle pratiche del teatro, che Moscato coglie le potenzialità sonore della parola e la crudeltà come rigore. Più degli altri drammaturghi degli anni Ottanta, Moscato riesce pienamente a risolvere una problematica linguistica che ogni scrittore napoletano si trova a combattere: come relazionarsi al dialetto e all’italiano? In Moscato l’uno e il molteplice non sono in conflitto, l’uno non esclude l’altro anzi, si realizza perfettamente quello che Artaud scriveva nel suo Eliogabalo, o l’anarchico incoronato: esiste il molteplice-uno e/o l’uno-molteplice. Nei testi di Moscato le parole, qualunque esse siano, italiane, francesi, tedesche, greche, inglesi, napoletane sono prima ancora che portatrici di significato logico, esistono nel singolo suono e nel richiamo ad altre lingue. Lo percepiamo in tutti i suoi testi, da lui stesso declamati, aspetto non trascurabile perché quelle parole hanno senso solo se soffiate dall’autore stesso, dall’uomo che le ha patite prima di tutto nel suo corpo. Soltanto così diventano parole sonore, gesti sonori che comunicano un universo dove non può più esistere la storia teatrale canonicamente costruita con personaggi, con scene, azioni, intrecci. Ancor di più in Toledo suite dove la voce e il suono diventano musica rendendo il teatro invisibile, presente in altra forma (Artaud stesso diceva che il teatro non è quello a cui siamo abituati da secoli ormai, il teatro ha bisogno di scoprire la sua lingua), le note e la voce entrano in simbiosi, un’unione di malinconia e sconfitta, di solitudine disperata e solare al tempo stesso. I suoni sono mediterranei, le melodie consegnano all’orecchio un sole opaco, il calore, la folla dei Quartieri Spagnoli. Un racconto in musica, un quadro in movimento in cui i personaggi, le storie si fanno carne nelle note, nelle melodie. A vico Lungo Gelso, Enzo Moscato scova una puttana e con essa la vita brulicante di esclusi, di disperati che bruciano nella furia passionale. Nel caseggiato della puttana la musica invade le stanze, le orge, le ore d’amore nel calore, distrae, accompagna, svela segreti, getta via le maschere. Nel teatro-canzone di Moscato la musica e il racconto si inseguono, si alternano in una babele di vicende fino a confondersi in una matassa di frammenti, così come sono i Quartieri Spagnoli: una matassa di frammenti ottusi, slegati, quasi come se ognuno fosse una cella all’interno di una cella. Sono storie di delusioni, di verginità rapite, di innocenze violate di fronte alle quali la voce non può essere più una calma e docile mano che accarezza ma un’inafferrabile disperazione bagnata di sole e sorrisi. La voce e la musica confondono le lingue: il francese, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo sono declamati come fossero distorsioni del napoletano perché il suono di una voce roca e fragile è cieco. Allora prende corpo un lungo flusso sonoro in cui bisogna afferrare quello che è sotto la scorza della parola logica e annusarne la consistenza impalpabile: il suono, che è già crudeltà come voleva Artaud, come vogliono i vicoli dei Quartieri Spagnoli; strappando al teatro i suoi soliti riferimenti, togliendo tutto per smarrire, tutto tranne la voce, il suono che non ha grammatiche stabilite da seguire, che non ha traduzioni universali ma la sola illusione individuale. Ma la parola drammaturgica di Moscato scardina ovviamente anche l’essenza canonica della struttura di un dramma. In Pièce Noire non ci sono psicologie ma conseguenze di un dramma sepolto, il nero napoletano seppellito dalle innumerevoli immagini da cartolina del Vesuvio, del mare, della pizza e del mandolino, emerge in tutta la sua forza dirompente. Colpiscono le urla, il dolore, l’ironia, la volgarità, la bassezza, la commozione portate in scena non seguendo una vicenda di intrecci razionali ma vibrando di pulsioni invisibili. Il realismo si camuffa da incubo, la quotidianità diventa sogno e rito. Dopo Eduardo la drammaturgia napoletana si è immersa nell’interiorità profonda di un io ferito, altro da sé, oscuro e irrappresentabile. Moscato allora dà corpo attraverso la voce e il suono al malessere e alla malattia del suo tempo, diversamente da Ruccello e Santanelli, inserendosi nel filone europeo di personalità quali il già citato Artaud, Lacan, Genet, Pinter, confondendoli perfettamente al suo tempo e al suo luogo fino a creare un soffio estremo, individualmente collettivo, dove l’uomo è uno specchio in frantumi che non riflette più alcuna immagine ma solo l’eco di un sogno perduto. Per concludere con le parole di Moscato: “Insomma, se è vero che la Lingua può coincidere (essere) talvolta col suo veicolo principe, la Voce, e avere con essa intime/carnali adesioni, è altrettanto vero che basta un semplice connubio, una liaison, una de-enfatizzazione degli accenti, che ci imbattiamo subito nell’Ombra, nel perfetto Negativo e allora la stessa Voce, da squillo, allarme, richiamo, può farsi silenzio, mera materia afasica o assoluto gesto, assoluta “azione che dice” non parlando. In ogni caso, è in bocca, come si vede, “in ore”, che il teatro si fa, più che in ogni altro posto, anche se si è muti o si decide di non dare alla Lingua, alle labbra, nemmeno il più piccolo appiglio di darsi ali per voce, di voc’ali’zzarsi”. teatridellediversità 37 COMINCIAMO A SCRIVERE UNA STORIA NUOVA Con Judith Malina alla Giudecca un evento indimenticabile attorno alla tragedia di Antigone ed alla dignità delle persone con i loro bisogni fondamentali Tra metafora e farsa, Pedullà, Rotelli e Caccavo si richiamano a Beckett, Pinter, Eduardo, affidandosi ad un’ampia liberta di improvvisazione degli interpreti di Giuseppe Lipani di Emanuela Agostini I tempo sembra essersi fermato: le situazioni si ripetono, impossibile immaginare un oltre. Ma non è ancora detta l’ultima parola. Il bar verrà forse venduto, Vincenzo finirà forse per sistemarsi con un suo “non-amore” di gioventù da cui ha scoperto d’aver avuto un figlioletto non proprio adorabile. Il padre e il figlio si riconcilieranno. Persino Giuseppe toglierà gli occhiali scuri e si alzerà in piedi. Valigia alla mano, Vincenzo è pronto ad affrontare l’avvenire. Al Bar Bellavista, come nella vita, malinconia e risate si susseguono e si compenetrano. Scandito dalla musica dal vivo di Marco Magistrali, da citazioni di Samuel Beckett a quelle di Harold Pinter, da Eduardo de Filippo fino a un’appassionata interpretazione di Maruzzella (che ha «dint’all’uocchie ‘o mare»), lo spettacolo avvicenda episodi giocati sul valore metaforico ad altri che sfiorano la farsa. Bene hanno fatto i registi nell’affidare agli interpreti ampia libertà di improvvisazione: la scelta di “cucire” i personaggi attorno alle qualità e alle abilità degli attori fa sì che tutti risultino convincenti e perfettamente a loro agio. Niente è concesso da parte degli organizzatori dell’evento e dei registi all’involontaria spettacolarizzazione della condizione carceraria: la realizzazione di uno spettacolo alla presenza di un pubblico esterno, essenziale banco di prova per i suoi artefici, non è un’esibizione, ma l’occasione di una più profonda condivisione. Nel corso dello spettacolo si è quasi indotti a dimenticare il luogo in cui è allestito. Non bisogna essere carcerati per aver sperimentato l’impasse, per desiderare una novità, per sperare nel cambiamento. Ma è certo che la consapevolezza della propria condizione carica l’interpretazione degli attori di un’inconsueta intensità. Per loro questo spettacolo è occasione di riscatto e di rinnovamento, ed è per questo che al termine degli applausi insistono nell’esternare la loro gratitudine nei confronti di chi, accompagnandoli lungo il percorso, ha avuto fiducia nelle loro possibilità quando loro per primi non ne avevano. Così come il mobilio del bar, inesistente e indicato solo dai segni di nastro adesivo, anche il futuro è, almeno in parte, il frutto di un atto di fede. Agli attori del Bar Bellavista e a tutti l’augurio di saper vedere lontano e di poter godere di una “bella vista”. Bar Bellavista Spettacolo conclusivo del laboratorio teatrale della Casa circondariale di Pistoia condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Rotelli e Roberto Caccavo Musiche dal vivo di Marco Magistrali Collaborazione di Alice Lou Tanzarella Il laboratorio, inserito nel Progetto Teatro in Carcere della Regione Toscana, è stato realizzato dal Teatro Popolare d’Arte con la Direzione della Casa circondariale di Pistoia. Hanno collaborato all’iniziativa la Provincia di Pistoia e l’Associazione teatrale pistoiese (ATP). Judith Malina È (Foto di Andrea Casari) Rubriche Teatro in carcere Al Bar Bellavista come nella vita l proprietario del Bar Bellavista, Giuseppe, il panorama con il mare e i gabbiani, non lo può vedere: è cieco. E nemmeno sembra poter andare lontano: il suo triciclo a rotelle è destinato a ripercorrere il perimetro del locale senza varcarlo. O forse finge di non vedere e di non camminare per rimanere nei rassicuranti confini di una condizione esistenziale che conosce già e nella quale si è adagiato. Come lui anche Vincenzo, il barista, pur avendo gambe e occhi buoni non riesce a vedere nessuna ‘bella vista’. Non sa immaginare per sé né un nuovo orizzonte, né un futuro diverso. Giuseppe e Vincenzo sono due dei quindici attori detenuti protagonisti dello spettacolo andato in scena presso la Casa Circondariale Santa Caterina di Pistoia al termine del laboratorio tenuto da Gianfranco Pedullà, Francesco Rotelli e Roberto Caccavo, con la collaborazione di Alice Lou Tanzarella, per il Progetto Teatro in carcere della Regione Toscana. Lo spettacolo è allestito, per un pubblico limitato e alla presenza di numerose autorità, nella rinnovata palestra del carcere. Qui, un educato cameriere introduce il pubblico in un bar di periferia animato da un variegato ventaglio di abituali frequentatori: il proprietario Giuseppe, il barista Vincenzo, un inserviente che ammazza il tempo pulendo il pavimento, un gruppo d’amici, un ragazzo che non concede distrazioni alla musica che ascolta in cuffia, un vigile, un ubriaco. Il Bar Bellavista è il crocevia delle loro storie: alcune appena accennate e lasciate in sospeso, come quella del “poeta” silenzioso, altre più approfondite, come quella di un figlio in fuga dalle sue responsabilità e di un padre che lo ossessiona con il richiamo ai suoi doveri e al passato. Le vite di questi e di altri si incrociano per un attimo al Bar Bellavista: si ordina al bancone, si affidano le proprie confidenze agli altri e poi si esce gridando “Segna!” per ricordare al barista di tenere i conti sul suo taccuino. Saranno mai saldati i conti del Bar Bellavista? Il 38 VENEZIA Rubriche Teatro in carcere PISTOIA difficile raccontare un incontro. A volte ci si limita a riferirne le parole, talora l’ambiente, il contesto, ma ciò che veramente è passato tra le persone rimane indicibile. Se poi si incontrano persone come Judith Malina, allora quello che si può dire è solo il residuo di un’esperienza. L’11 luglio scorso Judith ha incontrato le allieve-detenute del laboratorio teatrale organizzato e condotto da Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, nella Casa di reclusione Donna della Giudecca di Venezia. È stato un colloquio intenso, di qualche ora, dove, incontrandosi attorno ad Antigone (su cui le allieve dell’istituto penitenziario stanno conducendo la loro personale ricerca teatrale), si è discusso del senso stesso del fare teatro e del farlo in un carcere, e da lì poi si è giunti a parlare di pena, di giustizia, di mercy and punishment. Quello che Judith è stata e ha fatto per il teatro è quasi inutile ripetere. Per questo è sembrato incredibile sentirle dire di essere venuta per ascoltare dalle ragazze della Giudecca come lavorano, come creano, cosa pensano del lavoro teatrale. Ed esse hanno raccontato, liberamente, il loro percorso e i loro punti di vista. Ed hanno chiesto a loro volta, ponendo talvolta domande semplici e pesanti: «Cosa vuoi fare tu, facendo teatro?». «Voglio fare la migliore dichiarazione politica possibile, perché ho urgenza di dire», ha risposto Judith. In quel contesto la parola urgenza è svilita. Parlando di carceri, teatridellediversità 39 Rubriche Teatro in carcere Rubriche Teatro in carcere FERRARA La cultura rende migliori? Ferrara 5 ottobre 2013 La cultura rende migliori ? 40 Un incontro nell’ambito del programma partecipato del Festival della rivista Internazionale ha riportato in luce una riflessione mutuata dal New York Times e approfondita dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere riunitosi nella città estense di Valeria Ottolenghi S (Foto Andrea Casari) «Non è cambiato niente dagli anni delle tue battaglie ad oggi!» «No, ti assicuro che è cambiato molto, la stessa idea della comprensione prima della punizione, oggi è meglio intesa di allora» «E se si arriva troppo tardi? Se Creonte troppo tardi comprende di aver sbagliato?» «Se è troppo tardi per Creonte, non è troppo tardi per me e per te! Bisogna convincere se stessi della possibilità del cambiamento, in modo che la storia non sia mai finita. Cosa puoi fare tu, tu personalmente, per cambiare questa storia?» Eccola, la rivoluzione! Cambiare la storia, senza aspettare al varco l’evento universale, il miracolo definitivo, ma cominciando da qui, da questa nostra storia, senza maiuscole, senza pretese di cambiare gli altri. Perché convincendo se stessi della possibilità del cambiamento, si può, anche tra le mura del carcere, cominciare a scrivere una storia nuova. Eccolo, il teatro! Una piccola grande rivolta in un luogo di oppressione, che permette di oltrepassare una linea, un varco, un muro. C’è un muro alto nel cortile del carcere, oltre il quale c’è il mare, sebbene le ragazze non riescano a vederlo, perché il muro è stupido e immenso. Ma Judith, quel muro, ci ha insegnato ad abbatterlo col teatro. È difficile raccontare un incontro: ti sembra che le parole acquistino una linearità che l’esperienza non ha, ti sembra che una cosa preziosa, dicendola, diventi normale, che ogni visione si acquieti in un’unica pacificante prospettiva. E capisci invece che Judith quel giorno ha ribaltato le prospettive, anche solo dicendo all’uscita: «Stasera avrò un sacco di cose belle da scrivere sul mio diario». (Foto di Marco Valentini) siamo assuefatti all’idea dell’urgenza. Tutto è urgente. Il sovraffollamento e la situazione edilizia sono urgenti, la carenza di personale è urgente, la carenza di fondi è urgente. Si ha quasi l’impressione che definendo un problema urgente si possa tranquillamente rinviare la soluzione: è già urgente! In mezzo a tutte queste urgenze organizzative e burocratiche, va a finire che ci si scorda delle persone e della loro dignità, delle loro necessità che non sono definite urgenti da nessun decreto, ma che ci sono. Quando Judith ha detto che fare teatro è avere urgenza di dire, ha ribaltato questa vuota parola in un bisogno fondamentale della persona. E l’ha riempita di senso, non facendo una lezione dall’alto di uno scranno, che la sua storia personale certamente merita, ma chiedendo di ascoltare. Perché se hai da dire qualcosa, è necessario che ci sia qualcuno a cui dirla. Il teatro allora diventa lo strumento di questa confidenza, perché «il mondo dentro noi deve essere rilasciato» e il lavoro creativo permette proprio questo: diventa l’angolo da cui considerare la vita, da cui, oltre a sentirsi Antigone, si possono considerare anche le ragioni di Creonte. «Tutti abbiamo un po’ di Creonte dentro, forse non vogliamo esserlo, ma vogliamo capire». Sono rimasto stupito dalla capacità di Judith di rilanciare sempre positivamente ogni momento della discussione, di sapere scovare motivi di speranza anche laddove qualche allieva ha mostrato legittimi motivi di sconforto. «Il teatro – ha detto – è un lavoro di improvement: migliora la situazione personale, migliora l’arte, migliora chi lavora, migliora chi guarda, migliora la società!». Se la discussione si è lasciata tentare dal personalistico, lei vi ha saputo leggere l’universale, quando si è rischiato il generico, lei vi ha colto il personale. Il dialogo si è fatto serrato: i apprezza da sempre e moltissimo il lavoro di Michalis Traitsis, come artista innanzi tutto, come presenza registica capace di consegnare competenza e infondere fiducia in chi lavora con lui, ma anche per il modo rigoroso, colmo d’infinite attenzioni, con cui accudisce ogni cosa, i nodi essenziali, i passaggi principali, e contemporaneamente tutti i più piccoli particolari. E l’incontro ideato, promosso da Michalis a Venezia, presso la casa circondariale della Giudecca su “Antigone” con Judith Malina resterà certamente tra i ricordi più preziosi di questo anno. Tutto predisposto con intelligenza e amorevole cura per poi lasciare respiro al dialogo, perché il contatto potesse avvenire con tranquillità ed energia. E così era stato. E anche all’incontro di Ferrara, promosso nell’ambito del festival “Internazionale” proprio da Michalis Traitsis, “La cultura ci rende migliori? - Dialogo sul teatro in carcere” presso il Centro Teatro Universitario di Ferrara, è ritornata la memoria di Judith che si era alzata per ripetere più volte “It’s not too late, not for us”, come risposta a una detenuta che, con tono rassegnato ricordava come l’opera di Sofocle lasciasse senza respiro: annullata ogni speranza. Creonte capisce “troppo tardi”, ormai la tragedia compiuta. Di qui la reazione - energica, commovente - della Malina: a questo anche serve il teatro. Perché possa restare il tempo per cambiare, scegliere, rendere migliore la convivenza tra le persone. Sempre e ovunque. Una tenace, meravigliosa sicurezza. Non avrebbe avuto dubbi dunque Judith nel dibattito che si stava aprendo lì a Ferrara, guidato da Peter Kammerer dell’Università di Urbino. Ma s’immagina che avrebbe anche chiesto: “quale cultura?” e “migliori rispetto a cosa?”. Senza incertezze - It’s not too late! - sul fatto che la consapevolezza, l’esperienza di più vite sulla scena, il mettere in gioco il pensiero e il corpo all’interno di un gruppo facciano stare maglio, aprano la mente, rendano più ricca, piena la vita. Il confronto a più voci, con l’intervento vivace di più persone, si è dimostrato denso di questioni vere, sincere, vissute, assolutamente prive di retorica, rivelando anche una sorta di continuità problematicodiscorsiva con l’incontro del mattino: perché in quella stessa sede si era svolta, assai proficua e in un bel clima collaborativo, l’ a s s e m b l e a d e l C o o rd i n a m e n t o teatridellediversità 41 42 Carcere. Un passa parola fresco, ricco di idee, solidale, con la soddisfazione di vedere crescere, forse anche a seguito della firma del Protocollo, il numero degli iscritti (attualmente partecipano al Coordinamento oltre quaranta realtà teatrali): più chiara la consapevolezza, in questi tempi davvero difficili, di potersi sentire un poco più forti tra tante esperienze parallele, capaci anche di creare sinergia. E già in quella sede, durante il Coordinamento, guidato da Vito Minoia, segretario David Aguzzi, erano nati interrogativi legati al valore della cultura, stimoli essenziali che sono tornati anche negli interventi successivi: tutto il teatro in carcere “va bene”? Nello spazio teatrale dell’università - che ospitava anche la bella mostra fotografica “Scatti sospesi 2012/ 2013” di Andrea Casari, dedicata al progetto teatrale “Passi Sospesi” di Michalis Traitsis negli Istituti Penitenziari di Venezia - dopo i saluti di Daniele Seragnoli, professore di Storia del Teatro e dello Spettacolo a Ferrara e direttore del CTU, e del vicesindaco Massimo Maisto - si è motivato quel titolo che inizialmente poteva forse sembrare un po’ retorico. Sul New York Times era uscito un ampio articolo che così domandava: “Does Great Literature Make Us Better?” by Gregory Currie che, tra dubbi e nuovi interrogativi, riprendendo anche altri studi, sottolineava come la letteratura di reale qualità “deals in complexity....Literature helps us, to be, or to come closer to being, moral ‘expert’”. Una maggiore sensibilità verso gli altri, una più intensa empatia. Non solo: la letteratura “can make moral expert of us”. Purtroppo la Storia ci ha insegnato che la cultura non è argine assoluto al male, e che sono state spesso persone “per bene”, con alti titoli di studio, a denunciare nella Germania nazista vicini di casa, colleghi ebrei. Tuttavia... Forse davvero bisogna scegliere quale cultura, quale letteratura, quale teatro... La domanda del mattino rimbalzava così anche nel pomeriggio, nel dibattito più teorico. Come spesso accade, dopo la lettura di quell’articolo, sensibilizzati al tema, ci si è accorti che negli Stati Uniti si sta avvertendo quasi una sorta di urgenza sulla questione, anche perché attraversa tutto il percorso formativo, comprese le università. Altri (Foto Andrea Casari) Nazionale Teatro in Carcere. Importanti le comunicazioni di Giovanni Tamburino massimo referente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di Massimo De Pascalis, direttore dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Si è sottolineato il valore del Protocollo d’Intesa stipulato il 18 settembre tra il DAP, l’ISSP e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Tra le commissioni attive quella legata alla formazione, anche per il personale penitenziario.Una speciale emozione la realizzazione del primo teatro creato appositamente all’interno di un carcere: al Marassi di Genova, da parte di Teatro Necessario Onlus, uno spazio flessibile dove saranno ospitati spettacoli seguiti insieme da un pubblico misto di cittadini, chi abita all’interno, chi viene da fuori. Un teatro atto a favorire la convivenza offrendo insieme cultura e divertimento. E proprio lì potrà svolgersi - questa la speranza concreta - il festival “Destini incrociati” del 2015. Per il 2014 invece si sta pensando ad una iniziativa di Formazione da organizzare in Toscana, lanciando l’idea di una Giornata Nazionale del Teatro in (Foto Andrea Casari) Peter Kammerer silenzio di dolore. “Tutto lo spettacolo è rappresentato in queste tavole”, scrive l’autrice, che ringrazia i suoi professori, Stelio Fenzo per il fumetto e Michalis Traitsis per il teatro e chi ha permesso l’organizzazione di questi corsi. Urgente la necessità di immortalare tale vertiginosa esperienza, non con la macchina da presa o fotografica, “ma con l’anima attraverso la punta di una matita direttamente dal cuore”. Sono ancora parole di Luminita Gheorghisor a dare la risposta esatta alla questione che aveva suscitato quel dibattito così acceso e denso a Ferrara: “Il teatro che si fa in carcere è una sorta di porta. Se la varchi entri dentro di te, ti conosci meglio, fai delle scoperte, lasci indietro tutto l’oscuro della vita del carcere e ti immergi in te stesso. Ti nutri delle cose belle che giacciono dentro di te e non sai della loro esistenza” E dello stesso spirito di questo racconto per disegni - della tragedia, dell’esperienza teatrale - si è rivelato poi il video, dalle immagini come sempre limpide, essenziali, una delicatezza di superficie che arriva meravigliosamente in profondità, di Marco Valentini, con Venezia, le sue carceri e il lavoro di Michalis Traitsis. Le foto di Andrea Casari “Forse non è semplice fare foto vive, d’anima. Sicuramente non lo è in carcere. Ci vuole attenzione, discrezione, delicatezza, umiltà per cogliere un processo nel suo snodarsi verso un risultato di trasformazione, per fermare il momento esatto in cui nasce un’immagine, per trattenere l’esitazione dell’emozione, per offrire agli altrui occhi le rughe di dolore e, insieme, di impegno, di pienezza durante un’improvvisazione. Ci vuole pazienza per attendere che lo spazio si riempia di quell’impalpabile potenza che in teatro viene definita Presenza. E sottende l’essere pienamente dentro quello che si fa. Ci vuole esperienza per trasformare, attraverso le foto, un luogo e fare apparire altre realtà. In scatti che testimoniano il porre e porsi sempre domande” (Michalis Traitsis) Rubriche Teatro in carcere articoli erano usciti sul New Yorker. E nel primo numero dell’Internazionale dopo gli intensi giorni di festa a Ferrara si legge di una ricerca svolta da Science che dimostra come la letteratura possa aiutare a sviluppare alcune abilità sociali: “limitarne lo studio a scuola potrebbe quindi avere conseguenze negative, per lo sviluppo dell’individuo e il suo inserimento nella società”. Per il teatro sarebbe ancora più vero coinvolgendo la persona nella sua totalità, mente e corpo, e in continue relazioni di accordo con il gruppo. Limpido, intenso, l’intervento di Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti, rivista realizzata da detenute, detenuti e volontari nella Casa di Reclusione di Padova e nell’Istituto Penale Femminile della Giudecca, che ha ricordato - e così anche altri - come non ci si debba basare sulle statistiche per avere la certezza di alcune conquiste, perché poi è il mondo “fuori” impreparato ad offrire nuove opportunità. Vito Minoia ha portato l’esempio del libro “Il fantasma col passamontagna” di Massimo Balsamo nell’Istituto di Custodia Attenuata di Eboli. Una conquista d’identità. Ma dopo? Quali le prospettive? Tutti comunque in quella sede ben sapevano dell’ossigeno che arriva in carcere con il teatro. Come per la letteratura - e molto di più essendo attività coinvolgente in forma plurale - aiuta a meglio comprendere gli altri, a leggere dentro se stessi, a favorire le “abilità sociali”. E se si fosse voluto un esempio era sufficiente leggere, sfogliare la bella pubblicazione “Le troiane”, sottotitolo “Un fumetto, una storia”, emozionante racconto per immagini che Luminita Gheorghisor ha ricavato dalla realizzazione scenica, dall’opera di Euripide, guidata da Michalis Traitsis per il progetto Passi Sospesi di Balamòs Teatro presso la Giudecca. Elementi simbolici si alternano ad altri più descrittivi, le parole dei personaggi a tratti si affollano - oppure svaniscono, lasciando le figure nel loro Il video di Marco Valentini “In teatro occorre entrare totalmente nel personaggio, fino a respirare all’unisono, e nel medesimo tempo, trovare la giusta distanza per osservarsi, crescere, ricreare, ripetersi. Allo stesso modo Marco Valentini ha la capacità di fondersi con le immagini che registra e esserne testimone consapevole e appassionato..... I video di Marco mostrano all’inizio una Venezia di tradizionale incanto, che sfuma via via nelle inquadrature di un dettaglio delle sue carceri. Non stridono né graffiano immagini così discordanti perché ci vengono consegnate entrambe con una loro intima, differente poeticità. Poeticità che ha a che fare con la cultura. Una cultura che prova a guardare e stare nelle cose, nelle relazioni, nel lavoro, senza giudizi e stereotipi, che ha la forza di indurre domande sulla condizione di una porzione di umanità in cerca di un’altra possibilità che forse ha avuto e polverizzato o, forse, non ha mai avuto” (Michalis Traitsis) teatridellediversità 43 Un Protocollo d’Intesa che apre prospettive Tra Ministero della giustizia Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Istituto Superiore di Studi Penitenziari e Coordinamento nazionale dei teatri in carcere Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, sigla un documento significativo con il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere per la valorizzazione del fenomeno attraverso studi, ricerche e nuove iniziative di formazione Le parti, rispettivamente rappresentate dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Presidente del Coordinamento Nazionale dei Teatri in Carcere: Premesso che il Convegno “La Drammaturgia Penitenziaria”, svoltosi presso l‘Istituto Superiore di Studi Penitenziari il 27 Novembre 2012, ha illustrato la condizione del teatro in carcere, facendo emergere le buone prassi diffuse sull’intero territorio nazionale insieme al carattere disorganico di tali realtà; in tale occasione da più parti è stata rappresentata la necessità di avviare un percorso comune per realizzare uno stabile coordinamento delle diverse esperienze teatrali che, allo stato, caratterizzano oltre cento Istituti penitenziari; il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria condivide tale obiettivo; l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, nell’ambito delle proprie competenze, ritiene utile avviare un progetto/azione di studio per ricondurre a sistema non solo le esperienze teatrali ma, anche, le altrettanto diffuse buone prassi cinematografiche, culturali ed artistiche in essere sul territorio nazionale con l’obiettivo prioritario di ricavare elementi di sostegno per le attività di formazione del personale volte a rafforzare i processi di conoscenza dei detenuti e le conseguenti attività trattamentali; il Coordinamento Nazionale dei Teatri in carcere ha manifestato il proprio interesse a collaborare, senza alcun onere a carico dell’Amministrazione Penitenziaria, all’attività di studio e ricerca dell’Istituto Superiore di Studi penitenziari promuovendo, altresì, ogni possibile azione di supporto alle attività teatrali in carcere con l’obiettivo di collaborare e migliorare i processi di conoscenza delle persone detenute nell’ambito dell’area trattamentale; nelle more di nuovi ulteriori partners da inserire nell’ambito del progetto complessivo, è utile prevedere un protocollo d’intesa al fine di avviare l’attività di ricerca e di studio come sopra indicato, seppure limitatamente al Teatro in carcere. di David Aguzzi M ercoledì 18 settembre presso la sede dell’ISSP (Istituto Superiore di Studi Penitenziari), è avvenuta la Cerimonia per la sottoscrizione del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. La delegazione del CNTiC era rappresentata dal Presidente Vito Minoia, il Segretario organizzativo David Aguzzi, Antonio Turco, Gianfranco Pedullà e Michalis Traitsis. Per il Ministero della Giustizia hanno presenziato alla Cerimonia il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, il Direttore Generale dell’ISSP Massimo 44 PROTOCOLLO D’INTESA De Pascalis, il direttore della Casa di reclusione di Rebibbia Stefano Ricca. Un risultato importante e storico, sottolineato nel discorso di apertura dal Capo di Dipartimento Giovanni Tamburino, che ha auspicato come questa sottoscrizione del Protocollo possa aprire la strada ad altre iniziative simili di tipo culturale e di tutte quelle attività teatrali e artistiche nell’ambito delle carceri. Si è inoltre soffermato sull’esperienza storica dell’attività di teatro in carcere, riconoscendo il valore educativo e riabilitativo dell’espressione attorale. Esperienza trentennale e presente in più di cento carceri, come ha appunto ricordato Tamburino. Il Direttore dell’ISSP ha tenuto a sottolineare le possibilità e potenzialità che potrà avere il Protocollo nella promozione della formazione e della ricerca e studio, annunciando ufficialmente che la Drammaturgia penitenziaria sarà inserita nella formazione dell’ISSP. Infine il Presidente del CNTiC Vito Minoia ha confermato l’urgenza di una qualificazione del teatro in carcere in Italia attraverso l’organizzazione di iniziative di formazione strutturate e approfondite. Alla luce dei risultati conseguiti dalle molteplici esperienze longeve e significative su tutto il territorio nazionale, oggi è possibile cercare una pratica più consapevole nei metodi, nelle funzioni, negli obiettivi del teatro in carcere. Concordano quanto segue Il Coordinamento nazionale dei teatri in carcere s’impegna: (Foto di David Aguzzi) Rubriche Teatro in carcere ROMA • a garantire l’attivazione di iniziative sia di carattere prettamente teatrale, sia di carattere formativo, nell’ambito della formazione professionale ai mestieri legati alla realizzazione degli spettacoli; • a utilizzare le riviste specializzate per la diffusione delle manifestazioni teatrali che vedranno protagonisti i detenuti e gli operatori delle singole realtà istituzionali; • a collaborare, con le proprie strutture e risorse, all’attività di studio e ricerca dell’Issp a sostegno di un’attività formativa finalizzata a realizzare uno stabile coordinamento delle diverse esperienze teatrali volte a rafforzare i processi di conoscenza dei detenuti e le conseguenti attività trattamentali; • a favorire il coinvolgimento delle realtà associate al proprio circuito organizzativo, allo scopo di ampliare le opportunità di realizzazione degli interventi di carattere culturale, anche prevedendo progetti di reinserimento attraverso gli strumenti previsti dall’Ordinamento Penitenziario per costruire occasioni di partecipazione e contributi utili all’affermazione dei valori dello stesso Ordinamento Penitenziario; • a riconoscere che la programmazione e la realizzazione operativa delle attività previste dalla presente intesa dovranno essere concertate tra i responsabili delle Compagnie aderenti al Coordinamento e i Dirigenti Penitenziari preposti ai singoli istituti penitenziari coinvolti, o loro delegati, in riferimento alle esigenze strutturali, organizzative e di sicurezza dei rispettivi Istituti di pena. A tal fine potranno essere costituiti gruppi di lavoro misti con funzioni di programmazione, coordinamento e verifica dei progetti; L’Amministrazione Penitenziaria tramite l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari: • inserirà nel proprio portale, impegnandosi a darne notizia anche all’Ufficio Stampa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, le diverse iniziative artistiche che le singole Compagnie aderenti al Coordinamento metteranno in essere nelle rispettive realtà istituzionali di cui il Coordinamento stesso avrà cura di dare idonea informazione; • nell’ambito delle proprie competenze istituzionali s’impegna a diffondere la consapevolezza dell’importanza dell’attività teatrale nei processi di conoscenza del detenuto e di recupero sociale; • si impegna ad inserire la “Drammaturgia penitenziaria” quale disciplina di studio quando ciò sia coerente con gli obiettivi dei corsi di formazione e aggiornamento programmati per le diverse categorie di operatori penitenziari. Alla presente intesa di carattere generale potranno fare seguito singoli accordi tra i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria e le Sedi periferiche del Coordinamento, anche al fine dell’elaborazione di specifici programmi da attuare negli Istituti del distretto di competenza. Il presente protocollo d’intesa ha durata triennale, salvo rinnovo, e non comporta oneri a carico dell’Amministrazione Penitenziaria, né obbliga la medesima Amministrazione e/o il Coordinamento Nazionale dei Teatri in carcere ad un rapporto di esclusività nelle materie in esso contenute. Letto, confermato e sottoscritto. Roma, 18 Settembre 2013 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Pres. Giovanni Tamburino Il Presidente del Coordinamento Nazionale dei Teatri in Carcere Prof. Vito Minoia teatridellediversità 45 Rubriche Teatro in carcere NELLE MARCHE C.R. FOSSOMBRONE - SEZIONE LEVANTE La Pioletta Ri-cercare, cooperando Grazie ad un’iniziativa del Servizio Politiche Sociali della Regione Marche, nel 2012 e 2013 un Progetto condiviso ha unito tutti gli operatori teatrali impegnati in carcere insieme alle direzioni degli otto Istituti Penitenziari regionali, agli Ambiti Territoriali Sociali di riferimento, al Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale. La Rivista Teatri delle diversità, il 30 novembre nell’ambito del XIV Convegno Internazionale di Urbania, ospita un seminario tra gli operatori a conclusione della sperimentazione, che potrebbe preludere ad un nuovo biennio di attività, alla nascita del Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Marche, al coinvolgimento dei Servizi Culturali Regionali per il potenziamento delle iniziative di formazione e spettacolo. Di seguito alcune testimonianze degli operatori teatrali impegnati nei differenti contesti. C.R. ANCONA BARCAGLIONE Art’O | teatro di Francesca Marchetti L’esperienza del teatro in carcere, nella casa di reclusione Barcaglione ha visto in questi due anni di lavoro un climax creativo fatto da numerose produzioni teatrali e culturali, complice la fruttuosa collaborazione con l’area trattamentale. La costante attività teatrale di ricerca e di studio ha sviluppato competenze nel gruppo di detenutiattori, tanto da farlo diventare un vero e proprio lavoro artistico, con la tournèe i quattro attori-detenuti in art.21 OP hanno debuttato al Macerata Opera Festival 2013 con la regia di Marco Bragaglia e Francesca Marchetti. E’ così che è nato lo spettacolo prodotto dall’associazione Art’O, Il muro, storie rock di gente da galera, spettacolo che narra le vicende carcerarie dei rockers finiti dietro le sbarre, raccontate da chi il carcere lo vive quotidianamente. Una drammaturgia legata all’abbattimento dei muri dell’indifferenza, che mostra il mondo penitenziario da un altro punto di vista, grazie al potente strumento del teatro, i detenuti diventano attori, sperimentano nuovi linguaggi ed invenzioni, scoprono una nuova vita che si allontana da percorsi detentivi della buona condotta fine a se stessa. Ecco che il pubblico esterno si emoziona prova empatia e vicinanza verso quel mondo distante e abbandonato, la magia del teatro capace di incidere nella realtà sociale, trasformandola. “Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”[Leo De Bernardinis]. E’ proprio qui che abbiamo trovato una civiltà teatrale, all’interno del carcere, dove ogni giorno si lavora con tante persone che 46 provengono da mondi diversi, storie di povertà e di marginalità sociale, di devianza e di malattia, grazie al testo teatrale, costruiamo un nuovo linguaggio, un vocabolario comune che parla il linguaggio di chi vuole vivere una vita nuova. Recenti studi sulla recidiva, dimostrano che la percentuale di ricaduta nel reato è maggiore tra le persone che hanno scontato esclusivamente la pena in carcere (68%), che passano le loro giornate a guardare il soffitto, costretti all’ozio che la detenzione inevitabilmente crea, rispetto a quelle che hanno potuto beneficiare di misure di tipo alternativo, come progetti di lavoro teatrale all’esterno (in questo caso la percentuale scende al 19%); soprattutto se connotate dall’obiettivo non di far percepire al reo il male arrecato, ma di aiutarlo a costruirsi un futuro migliore nel rispetto delle regole e nel reinserimento nella società. di Cinzia Fumelli “Il teatro può iniziare ovunque”. Con questa frase Peter Brook iniziava, un po’ di anni fa, le sue lezioni aperte di teatro al Théâtre des Bouffes du Nord. E certamente può essere considerata uno dei punti di partenza del progetto laboratoriale che l’Associazione Teatrale “La Pioletta”, con la cura del regista Fabrizio Bartolucci, sta realizzando, ormai da oltre 10 anni con i detenuti della Sezione di Ponente della Casa di Reclusione di Fossombrone. Un progetto che si è nutrito principalmente della convinzione che le esperienze teatrali favoriscono anche il cambiamento nei linguaggi del teatro, che trova negli stretti orizzonti carcerari una sua rinnovata urgenza e necessità. E che il teatro in carcere, quando è guidato da una corretta metodologia artistica, crea indirettamente un contesto pedagogico basato sull’autoformazione e sull’autoanalisi dove la qualità espressiva ed artistica degli spettacoli creati in carcere e l’utilizzo a fini pedagogici del mezzo teatrale, possono senza contraddizioni rinviare l’uno all’altro e arricchirsi vicendevolmente. Questa è stata l’idea di laboratorio a cui si è voluto dar vita in questi anni: un vero spazio creativo ed una esperienza artistica. Il laboratorio è stato pensato come un laboratorio integrato, con l’interazione tra giovani attrici ed attori e detenuti, nella creazione di una “compagnia mista”, che con la collaborazione di operatori ed artisti ha realizzato un percorso teatrale che si è plasmato sugli stimoli drammaturgici offerti dalle opere di Shakspeare (La recita del sogno, Shakespeare?!...una commedia degli errori), di Jarry (Ubu..settete!), di Aristofane (Uccelli in gabbia), di Cervantes (Mulini a vento), di Goldoni e Fassbinder (O’ Cafè). Drammaturgie che hanno dato vita ad attraversamenti e libere scritture sceniche dove l’occasione testuale e le forti sollecitazioni che essa muove creano un percorso di confronto artistico e umano all’interno del gruppo di detenuti e attori. Il teatro carcere, si sa, si differenzia dal “teatro della rappresentazione” per una valenza di risposta alla necessità di comunicazione sociale dei detenuti-attori. E poiché il teatro mette sempre in ‘gioco’ la vita e l’attore nel suo paradosso, attraverso esso, proietta se stesso; ogni spettacolo è un terreno di incontro, conoscenza, di ricostruzione della propria storia personale. In questi anni di lavoro e di impegno si può dire di essere riusciti a realizzare un’attività stabile, a creare una continuità nel percorso, conquistata non senza difficoltà (logistiche, economiche, di rapporti con l’istituzione e gli enti) con la nostra tenacia, la convinzione degli operatori carcerari dell’Area Trattamentale, il contributo della Polizia Penitenziaria ed il sostegno dei numerosi detenuti che anno dopo anno si sono riconosciuti nel nostro progetto. Per il regime di restrizione cui sono sottoposti i detenuti della Sezione Alta Sicurezza, con cui l’Associazione opera, non è stato possibile a tutt’oggi rappresentare all’esterno gli spettacoli prodotti. In questi anni però, pur non escludendo che l’obiettivo di far uscire le produzioni possa essere prima o poi raggiunto, è stato intrapreso un percorso di graduale apertura del teatro dell’Istituto al pubblico esterno. Partendo dall’ingresso in Istituto di piccoli gruppi (30 persone circa) si è arrivati ormai da qualche anno alla replica dello spettacolo esclusivamente per il pubblico esterno (100-110 persone, che rappresentano ad oggi la capienza massima del teatro interno all’Istituto). La rappresentazione finale rappresenta infatti un momento fondamentale e, seppure non sia l’obiettivo primario del percorso intrapreso, ne diventa il momento conclusivo e di completamento, opportuno al confronto con il pubblico e necessario a dare compimento all’attività svolta. L’apertura verso l’esterno ha portato grande soddisfazione all’intero gruppo che ritiene così di aver aperto la strada ad un percorso che ancora molto può offrire in termini di dialogo, scambio e interazione tra l’Istituto, la città ed il territorio. teatridellediversità 47 Rubriche Teatro in carcere C.C. CAMERINO Sassi nello Stagno Passi una vita a lavorare nel teatro fra le molteplici sfaccettature e possibilità che questa attività ti offre. Poi si aprono le porte del carcere e con entusiasmo pensi di portare la tua esperienza a favore delle persone recluse. Il teatro può essere uno dei sentieri per mantenere aperte le strade della mente. Ma le parole sono facili da trovare- mi dice Susannaa volte un pensiero ti entra in testa e si fissa, si ferma e si amplifica; cresce a dismisura portandoti dentro una condizione che ti impedisce di vedere con chiarezza le cose. Ecco, se il teatro in carcere contribuisse anche solo in parte a raggiungere lo scopo di mantenere la fiducia nel proprio essere, allora avrebbe svolto una parte importante dei suoi poteri. Allora deve essere normale, sia dentro che fuori dal carcere e con il necessario contributo di tutti gli operatori degli ambiti specifici, poter creare le condizioni in cui insieme si riuscirà a tenere aperti quei sentieri la cui visibilità è necessaria alla vita di ciascuno di noi. E’ con questo auspicio che offriamo alla pubblicazione “La gabbia”: un esempio di elaborazione fantastica della realtà , scaturita all’interno del progetto teatro svolto nella casa circondariale di Camerino-MC e che visivamente prende vita con il teatro delle ombre. Ada Borgiani- operatrice teatrale La gabbia Racconto di Susanna Sto canticchiando nervosamente nella mia cella quando, ad un certo punto, affacciandomi alla finestra, attraverso le sbarre noto un uccellino che si è posato sul ramo del ciliegio a pochi metri da me. Lui mi guarda incuriosito inclinando il capino, quasi come se volesse capire meglio qualcosa e con questa espressione interrogativa continua a seguirmi con gli occhi. Io ricambio l’interesse fino a quando mi viene un dubbio: rifletto sul fatto singolare che per una volta nella gabbia c’è una persona e non un uccellino e, come è giusto, a completare il paradosso c’è un uccellino che mi sta guardando mentre sto cinguettando/ cantando. Forse adesso lui sta pensando che “ la persona chiusa in gabbia canta per amore oppure per rabbia”! Poi ripensandoci bene mi rassicuro e mi convinco che un detto stupido come questo può appartenere solo alla meschinità umana e non può certo essere propria di una creaturina così dolce che, oltre tutto, per confermarmelo è già volato via (anche un po’ offeso secondo me). 48 Il Minotauro, Teatroaponente, Foto di Luigi Angelucci di Ada Borgiani FERMO Associazione LaGrù di Piero Massimo Macchini C.R. FOSSOMBRONE - SEZIONE PONENTE Teatroaponente di Elisa Delsignore L’Associazione culturale Teatroaponente, fondata da Elisa Delsignore, Cristian Della Chiara e Ciro Limone, nasce quale strumento di lavoro per l’organizzazione dell’attività teatrale nella sezione di ponente del Carcere di Fossombrone. I componenti dell’associazione operano all’interno della Casa di Reclusione già dal 2005, anno in cui è iniziata l’attività. Fino al 2007 il laboratorio è stato sostenuto da un progetto dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” volto a stabilire l’efficacia dell’attività teatrale sul disagio psichico dei detenuti; dal 2008, poi, il progetto è stato inserito nel programma delle attività promosse dall’area trattamentale della Casa di Reclusione di Fossombrone. Il laboratorio teatrale nella sezione di Ponente è iniziato nel gennaio del 2006 e si è concluso, a giugno, con lo spettacolo “Il marinaio” allestito nel Teatro Metauro della Casa di Reclusione di Fossombrone ed aperto, per la prima volta, al pubblico esterno. L’attività è stata ripresa nell’ottobre del 2006 ed è continuata fino a giugno del 2007, con cadenza settimanale, quando è stato allestito lo spettacolo “Il Minotauro” sempre all’interno della Casa di Reclusione. Nel 2008 il laboratorio ha ripreso la sua attività settimanale fino allo spettacolo allestito questa volta a Pesaro, al Teatro Sperimentale, nell’ambito della rassegna TeatrOltre08. A settembre del 2008 il gruppo dei detenuti ha ripreso a seguire l’attività laboratoriale, sempre con cadenza settimanale, e così per tutto il 2009. A gennaio del 2010 è stato organizzato un laboratorio teatrale intensivo condotto dall’attore Eugenio Allegri, all’interno della struttura penitenziaria. Il 16 maggio 2010, nell’ambito della 50a Stagione Concertistica di Pesaro, è stato allestito, al Teatro Rossini, lo spettacolo “Minotaurus”. L’attività laboratoriale è proseguita per tutto il 2011 durante il quale è stato organizzato un laboratorio musicale con il M° Marco Mencoboni (il gruppo di attori-detenuti ha potuto imparare ad utilizzare oggetti di uso comune come strumenti che producono musica). Per gli anni successivi, 2012 e quello in corso, l’Associazione Teatroaponente ha aderito al progetto unitario per le Marche, continuando la propria attività nella sezione di Ponente della Casa di Reclusione di Fossombrone. Parlare della mia esperienza in carcere non è facile perché è come se dovessi esprimere un’emozione che è difficile spiegare in parole, più facile sarebbe per esempio attraverso un’immagine. Ho iniziato il progetto ad ottobre 2012 ed il primo gruppo che ho incontrato era costituito da 6 ragazzi extracomunitari che parlavano poco l’italiano. Mi sono detto, ed ora che cosa faccio? Di leggere un testo non ne parliamo, di spiegare troppo la messa in scena lo stesso; allora improvvisiamo! (Probabilmente in questo ne sapranno più di me, mi son detto). Da qui ho sviluppato per 15 incontri fondamentalmente due tematiche: “Magia e Mimo”. Devo dire che è stato un lavoro estremamente efficace: sono riuscito a compattare il gruppo, a prendere la leadership e a chiedere loro di mettersi in gioco in maniera spensierata e felice. Trovare una via di comunicazione che collegasse il movimento corporeo (studio del mimo) alla tecnica (magia-missdirection) è stata una risposta ai loro bisogni. Non volevano pensare ma volevano muoversi e vivere. Così è stato. Se penso ai singoli momenti, ce ne sono stati molti in cui chiedi di essere attento e concentrato come un attore dovrebbe essere su di un palco ma la stanchezza è più forte della voglia di imparare, o semplicemente erano dei lunedì “storti”… allora riportavo l’attenzione sulla tematica del gioco con delle semplici ma efficaci parole che fungevano per me, poi ho capito anche un po’ per loro, come un mantra da Guru Indiano. “Giochiamo, se uno impara a giocare riesce ad essere spensierato, ma ricordate che ogni gioco ha delle regole e più le regole si rispettano più è divertente giocare!” Per il resto cosa posso dire, sento di aver fatto un’esperienza personale molto importante. Vivere il carcere ti dà la possibilità di trovare il tuo baricentro, di sentirti al centro del mondo e capire perché ci sei. Dopo un momento iniziale, entrare nel carcere è divenuto per me come entrare al bar, un luogo dove andare a trovare degli amici/conoscenti con i quali condividere delle esperienze. Ed è così. Ora sono con un gruppo nuovo e molto diverso dal precedente per diversi aspetti quindi sto sviluppando un altro tipo di lavoro con un’idea di una ASCOLI PICENO Cooperativa Koinema di Rosanna Vigliarolo SETTE MESI DI PROVE PER VINCERE LA SFIDA PIU’ GRANDE . Il laboratorio teatrale della Casa Circondariale di Marino del Tronto, nel mese di luglio 2013 ha prodotto uno spettacolo ispirato al testo “Libero dentro” di Giovanni Arcuri, uno degli interpreti di Cesare deve morire dei fratelli Taviani. L’esame delle condizioni carcerarie, ha dato vita all’idea di mettere in scena uno spettacolo che potesse rappresentare per i detenuti una possibilità di dare parola a emozioni, confessioni e ricordi che spesso vengono taciuti per paura di essere fraintesi o giudicati. La messa in scena dello spettacolo nato dalla scrittura autobiografica dei partecipanti al laboratorio, ha favorito all’interno del gruppo la creazione di un clima di solidarietà e fiducia, a punto tale che i detenuti italiani, di numero inferiore ai partecipanti stranieri, si sono offerti per tradurre in italiano i testi scritti dai compagni e dare a questi una stesura più corretta. Sul piano dell’interpretazione, si è lavorato sulla memoria, sulla relazione parola/gesto, con l’intento di eliminare le cattive abitudini espressive contratte nella vita quotidiana. Con tecniche derivanti dal Teatro Sperimentale sono state realizzate coreografie neutre, utilizzando come elementi scenografici un tavolino e delle panchine. Per Armando, Vittorio, Giacomo ed tutti gli altri attori detenuti, l’esperienza del laboratorio teatrale è stata a dir loro rigenerante. Alcuni testimonianze: “Ci sono voluti sette mesi, lavorando sodo due giorni a settimana, per scrivere e mettere in scena i testi prodotti da noi. Per me che sono straniero – dice Armando - è stato difficile. All’inizio mi sembrava impossibile riuscire in questa impresa, ma sentivo di voler andare avanti, e ce l’ho messa tutta. Non dimenticherò mai le sensazioni provate durante gli incontri del laboratorio teatrale, le risate, la commozione nel sentire narrare le storie di vita dei miei compagni di cella, e il sudore per la fatica, hanno riscaldato le fredde giornate invernali.” “Nelle settimane di prova precedenti lo spettacolo, l’insegnante Rosanna, - dice Giacomo - ci trattava come dei veri attori e le sue parole mi hanno dato coraggio, mi sono detto che quella poteva essere l’occasione giusta per dimostrare a me stesso e agli altri quello di cui ero capace, per poter tirare fuori tutto il buono che c’è in me”. Il 4 Luglio giorno della messa in scena dello spettacolo, c’è stata grande commozione da parte del pubblico partecipante, che ha dichiarato di aver scoperto il dietro le quinte della vita ordinaria teatridellediversità 49 Rubriche Teatro in carcere C.C. ANCONA MONTACUTO Fondazione Teatro delle Muse di Luciano Colavero C.C. PESARO VILLA FASTIGGI e CASA MANDAMENTALE DI MACERATA FELTRIA Compagnia Lo Spacco e Teatro Aenigma di Romina Mascioli La Comunicazione Teatrale è il titolo del laboratorio attivato nel 2002 all’interno della Casa Circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro a cura delTeatro Aenigma (Università di Urbino). Oltre trecento persone recluse hanno partecipato finora alle diverse attività promosse, dando vita alla Compagnia teatrale Lo Spacco. L’obiettivo principale è quello di stimolare la creatività, permettendo ai singoli partecipanti di rappresentarsi e prendere coscienza dei propri mezzi espressivi e comunicativi. Non secondariamente, a livello più specificatamente teatrale, attraverso una costante ricerca sul linguaggio scenico ed un’attenzione anche al risultato artistico dell’esperienza, sono stati prodotti i seguenti allestimenti/eventi: Antigone da Sofocle- Brecht (maggio 2003); Il Teatro-Forum di Augusto Boal (ottobre 2003 e replica al Teatro Sperimentale di Pesaro a novembre 2003); Le Serve di Jean Genet (Teatro Raffaello Sanzio di Urbino – Giugno 2004); Il Teatro di Jean Genet - “Le Serve” e “I Negri” (dicembre 2004); UBU Roi di Alfred Jarry (dicembre 2005, progetto vincitore del Premio nazionale Enriquez per l’impegno sociale), Comedia in Comedia (novembre 2006, replicato a maggio 2007 per l’inaugurazione della nuova sede del Palazzo di Giustizia di Pesaro su invito dell’Associazione Nazionale Magistrati), Teatro Forum (febbraio 2007 e repliche negli istituti di Ancona e Fossombrone), Dialogo semiserio con la Morte (ottobre 2007, scritto e diretto da Urbano Stenta), Vita nuova (aprile 2008, da un suggerimento di Dario Fo), Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo (aprile 2009), Lettere dal carcere (maggio 2010, il testo dello spettacolo vince la X edizione del Premio Letterario nazionale Antonio Gramsci ad Ales), Drammi onirici (dicembre 2011), Performance poetica (giugno 2012, in collaborazione con il Quartetto italiano di flauti Les Flutes Joyeuses, il laboratorio di scrittura creativa a cura della Cooperativa L’officina, il fotografo Umberto Dolcini). Sulle attività sono stati sin qui prodotti i documentari di Maria Celeste Taliani Dentro e oltre: vite parallele (2004), UBU al fresco (2006), Il riscatto di Pulcinella (2007), Natività (2008, regia di Vito Minoia), Oh, bellissimo sole (2011), Sogni che varcano i muri (2012). Nei volumi Per uscire dall’invisibile (2004, a cura di David Aguzzi e Vito Minoia e Recito, dunque so(g)no (2009, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia). Del dicembre 2012 – giugno 2013 è lo spettacolo Un clown alla corte dello Zar, rappresentato quattro volte all’esterno del carcere (Teatri municipali di Caldarola, Corinaldo, Pesaro, Torino/ Officine Caos). Si tratta della traduzione teatrale dei particolari della vita pittoresca ed avventurosa (agli inizi del ‘900) del clown Giacomo Cireni, in arte Giacomino. Dopo un’infanzia di stenti, in Russia, all’apice del successo, superò per notorietà Anatoli Durov, il clown più amato a San Pietroburgo. Questo gli valse l’invito della famiglia reale ad esibirsi più volte a corte per rallegrare il piccolo zarevic Aleksej, malato di emofilia, futuro erede al trono di Nicola II . Negli ultimi anni di vita in povertà fu maggiordomo al Circolo della Stampa a Milano, dove ancora vive il suo unico figlio Michele, che ci ha aiutato nelle ricerche documentali ed iconografiche. “Una parabola, la storia di Giacomino, capace di far riflettere sulle difficoltà e le gioie della vita, ma anche su “nomadismi culturali”, vagabondando nel passato e nel futuro di ognuno, oltrepassando il senso comune e la percezione spazio-temporale, dalla vita alla scena…e di nuovo alla vita”. Particolare attenzione è stata rivolta, inotre, al collegamento con la città di Pesaro, con la direzione della Casa Circondariale di Pesaro che, in collaborazione con la Biblioteca San Giovanni, dedicata da dieci anni una giornata alle produzioni artistiche ed artigianali che collegano carcere e territorio “L’arte sprigionata”. Dal 2003, il progetto coinvolge ogni anno una classe della Scuola secondaria inferiore di Villa Fastiggi (ICS “Galilei”) con felici elaborazioni creative intrecciate con quelle attuate in carcere. L’ultimo spettacolo dei ragazzi dal titolo Io non mi salverò è stato dedicato al pedagogista polacco Janusz Korczak morto nel campo di concentramento di Treblinka insieme ai bambini dell’orfanotrofio che aveva fondato nel Ghetto di Varsavia. Sono stati gli stessi allievi della “Galilei” nel 2006 a suggerire il nome del gruppo teatrale penitenziario, che da allora, costituito da uomini e donne, è diventato la Compagnia Lo Spacco. Attualmente a Pesaro è in corso una ricerca teatrale su Federico Garcia Lorca, mentre nella Casa Mandamentale di Macerata Feltria (PU), dove nel 2006 era stato attivato un laboratorio su Aspettando Godot di Samuel Beckett, si intende concludere entro il 2013 un laboratorio su “La vita delle api” di Maurice Maeterlink, ricerca abbinata all’attività di formazione professionale in apicoltura presente nell’istituto. Nel progetto sono coinvolti anche gli allievi disabili del Centro Socio Educativo Riabilitativo “Margherita” di Casinina di Auditore. “A SIVIGLIA OPPURE A NAPOLI? “La mia ultima esperienza di teatro in carcere è stata la messa in scena de “Il barbere di Siviglia” nella Casa Circondariale di Montacuto (AN), sezione comuni. Il lavoro, parte del Progetto Musesociale, guidato dalla Fondazione Teatro delle Muse e al quale ha collaborato l’associazione culturale Strutture Primarie, è stato l’ultimo atto di un lavoro triennale incentrato sul teatro d’Opera e i suoi protagonisti. Perché ho scelto, tra tanti Libretti d’Opera, proprio “Il barbiere di Siviglia?” Non so se accada lo stesso ai miei colleghi, ma gli allievi che ho avuto finora mi hanno sempre chiesto di far recitare loro qualcosa di leggero, per distrarsi. Ma distrarli non è il mio obiettivo, quello che provo a fare è insegnare loro i rudimenti di un mestiere. Che fare? Alla fine ho pensato che in effetti un testo comico avrebbe potuto coinvolgerli maggiormente di uno drammatico e così ho scelto “Il barbiere” che, oltre tutto, parla ampiamente di furti e rapimenti, corruzioni e ricatti, tutti argomenti che ai miei attori sarebbero certo stati familiari (ed effettivamente devo ammettere che ci siamo fatti un bel po’ di risate il giorno in cui, durante un’improvvisazione, uno degli attori si è messo a contare quanti anni di carcere sarebbero toccati a chi davvero avesse fatto tutto quel che stava facendo il Conte di Almaviva). Insomma, alla fin fine la scelta si è rivelata buona: ci siamo divertiti, gli allievi sono stati molto convolti, l’impegno è stato altissimo e il risultato performativo decisamente apprezzabile. Tuttavia mi sono accorto di una cosa: a un certo punto quello che spingeva i miei allievi a C.C. ANCONA MONTACUTO - SEZIONE ALTA SICUREZZA Simone Guerro e Teatro Aenigma di Simone Guerro e Vito Minoia Il Teatro Aenigma, che nella Casa Circondariale di Montacuto aveva operato dal 2004 al 2009 (Teatro Forum di Augusto Boal, L’arte della Commedia e Sik Sik l’artefice magico di Eduardo De Filippo, La Traviata e Rigoletto di Giuseppe Verdi) ha condiviso nel 2012/2013 un progetto con Simone Guerro, autore nel 2011 di un lavoro poetico sulla “paternità” (progetto in collaborazione con la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi). impegnarsi ancora di più ha smesso di essere la risata, il distrarsi, il divertirsi; nelle immediate vicinanze dell’andata in scena quello che li muoveva era il cercare di lavorare meglio, sempre meglio. La fiducia preventiva che avevo accordato loro a ogni incontro, pretendendo lo stesso impegno che pretendo dai professionisti, li aveva responsabilizzati artisticamente. Partiti dalla distrazione, partiti dal coinvolgimento del gioco eravamo alla fine approdati all’impegno e al rigore dell’arte dell’attore. Forse vale solo per il teatro, ma mi sono chiesto se anche in altri ambiti del sistema carcerario non si possa seguire lo stesso percorso: partire dal coinvolgimento per arrivare al rigore, invece di usare soltanto il rigore come strumento educativo. personaggi, che di volta in volta sono stati ideati e valorizzati teatralmente. L’arte scenica popolare ha risvegliato ancora una volta il piacere di cimentarsi con una esperienza di creazione collettiva di carattere empatico e cooperativo che si completa nella condivisione di un momento conviviale e poetico tra attori e spettatori. Ciccio Anzermo, Simone Guerro e Teatro Aenigma” Figura centrale dello spettacolo,Ciccio Anzermo, è il protagonista di una saga popolare siciliana arrivata nel nostro laboratorio, con la quale abbiamo iniziato a giocare per capire ciò che volevamo dire. Ciccio è un idiota. La società si prende gioco di lui. Ciccio crede ad ogni cosa gli si dice, non riesce a far del male a nessuno, piuttosto accetta ogni sofferenza. Per questo è un bersaglio per tutti e la sua vita, guardandola in superfice, sembra solo un insieme di sofferenze. Ma come si fa a stabilire chi è un idiota? Quale filo, secondo quale giudizio, con quale scala di valori si misura la forza e il coraggio, o addiritura il successo di un essere umano? Spesso nelle vite più silenziose si nasconde una forza insospettabile. Ancora più spesso dietro vite scoppiettanti o lustrate si nascondono paure e fragilità gigantesche. Ciccio è stato così uno specchio ottimo, divertente e imparziale, per vedere oggi a che punto siamo con noi stessi. Il laboratorio, basato sulle modalità del teatro di tradizione italiana della Commedia dell’arte, ha permesso ai partecipanti di misurarsi con la non semplice tecnica della recitazione a soggetto attraverso anche l’utilizzo di maschere tradizionali in cuoio. Ciascuno ha avuto in questo modo la possibilità di scoprire proprie risorse e repertori gestuali e verbali inaspettati in un clima di autentica riflessione sui 50 teatridellediversità 51 Rubriche Danza Il Butō una realtà metamorfica in continua rilettura La prima manifestazione di danza “moderna” in Giappone oggi è finalmente oggetto di studio storico, biografico e culturale, nonché filosofico e in una dimensione multiforme di Eugenia Casini Ropa T ra le discipline e le arti del corpo ormai insite nel DNA della danza contemporanea nelle sue più varie manifestazioni, ci sono anche, assimilati e incorporati, gli elementi di una danza venuta oltre trent’anni fa dall’Oriente, portatrice allora di un corpo inquietante e di una poetica enigmatica e oscura. Quando infatti il Butō, nato negli anni Cinquanta e prima manifestazione autoctona di una danza “moderna” in Giappone, fu introdotto in Occidente dalla fine degli anni Settanta, vi suscitò per prima cosa un acuto choc estetico, combattuto tra fascinazione e repulsione, per la conturbante deformazione dei corpi nudi, imbiancati e coartati, così prepotentemente “diversi” ed estranei alla nostra sensibilità. I primi scritti critici degli anni Ottanta così, ricchi soprattutto di immagini, si concentrarono sulle forti impressioni visive ed emozionali, trascurando ampiamente gli approfondimenti storici, biografici e culturali, e marcando a prima vista la “danza delle tenebre” come intrinsecamente nipponica, esito tormentoso della lacerazione dei corpi e delle coscienze provocata dall’atomica, profondamente aliena e di oscura comprensione. Una manifestazione esotica dal fascino innegabile ma imbarazzante e provocatorio, troppo 52 cupa e al fondo disturbante per la cattiva coscienza eurocentrica. Negli anni Novanta il Butō si diffuse molto più ampiamente, soprattutto in Europa. Alcuni artisti importanti si stabilirono a Parigi e altri furono frequentemente presenti in tournée, dando spettacoli e tenendo laboratori, così da attrarre e iniziare alla disciplina un numero crescente di giovani danzatori occidentali. Con l’avvio di un radicamento attivo del Butō, anche le analisi, seppure in numero limitato, acquistarono maggiore profondità, sia storica sia teorica. Si tentò con reale coinvolgimento di penetrare un fenomeno artistico sfaccettato, che non si definiva tanto in una tecnica o in uno stile condivisi e riconosciuti, ma si presentava in forme diverse sull’evidente base comune, però, di un’urgenza eversiva e innovativa profonda e di un pensiero-guida sulla vita, il corpo e la danza, le cui fonti erano tutte da esplorare. Compito non facile, che se dal punto di vista storiografico richiedeva un’indagine più accurata sugli eventi e la cultura d’origine, sulle vicende biografiche degli artisti, sulle ascendenze artistiche, da quello teorico imponeva la scoperta e la comprensione di un ambito di pensiero dalle radici profonde e ignote, una vera e propria filosofia generatrice. Così gli studi sul Butō di quel decennio si divisero tra quelli che cercavano di coglierne il senso ricostruendone storicamente la nascita e le motivazioni all’interno della cultura giapponese (superamento del teatro tradizionale No e Kabuki, rifiuto del colonialismo culturale americano, movimenti d’avanguardia post-bellici, ecc.) e quelle che si sforzavano in ogni modo di rintracciare nelle origini influenze e contaminazioni reali o ideali con fenomeni artistici e culturali occidentali (espressionismo, dadaismo, surrealismo, ma anche post-modernismo). Qualcuno iniziava tuttavia a sottolinearne invece i caratteri universali e transculturali. È nel Duemila che si raggiunge la maggiore consapevolezza epistemologica e si sottopongono a critica i metodi di analisi usati fino ad allora. Vengono così prevalentemente messi in atto sguardi multipli e incrociati, che si servono di strumenti critici tanto nella prospettiva dei recenti cultural studies quanto in quella di discipline diverse, come sociologia, antropologia, psicologia, semiologia, pedagogia. Il Butō è affrontato come una realtà multiforme e composita, da indagare al plurale, contestualizzandola attentamente nel tempo e nello spazio, nelle diverse relazioni con la cultura, nelle difformità o somiglianze delle concezioni di base di ogni artista oltre che nella tecnica e negli stili. Kazuo Ohno (Foto di Enrico di Luigi, Rimini 1997) Sayoko Onishi in Primavera Siciliana Nell’ultimo decennio sono stati pubblicati in occidente alcuni testi importanti, che fanno luce in particolare sui due grandi protagonisti all’origine della danza Butō e che ne portano finalmente a miglior conoscenza i percorsi di vita, la rete delle relazioni culturali, il pensiero e le tecniche artistiche. Se, fra i padri fondatori, Kazuo Ōno aveva finora ottenuto una più ampia popolarità e visibilità negli studi, per le sue ripetute permanenze in Occidente, per la maggiore affinità della sua arte intrisa di spiritualità anche cristiana col sentire occidentale e per la sorprendente longevità della sua carriera, anche Tatsumi Hijikata, morto invece prematuramente, noto soprattutto attraverso gli allievi e padre di quel versante “oscuro” e sovversivo del Butō che maggiormente ha turbato gli animi, ha finalmente ricevuto una seria attenzione con studi davvero rivelatori del suo tormentoso percorso biografico e creativo. Articoli e saggi di varie dimensioni e in lingue diverse hanno poi esplorato questioni disparate che la danza Butō fa sorgere: dal problematico rapporto tra i generi maschile e femminile alla destrutturazione dell’identità individuale, dalla relazione corpo-spirito al metamorfismo intrinseco del corpo danzante, fino a tanti possibili raffronti con le arti e la danza del passato, della modernità e della contemporaneità. La centralità acquisita dagli studi sul corpo nell’ambito delle scienze umane, poi, ha favorito approcci di particolare penetrazione alla corporeità ricca di mistero del danzatore di Butō, alla sua generazione di vita e alla sua pulsione di morte, alla sua esaltazione e al suo annullamento, alle sue radici materiali e trascendenti, al suo farsi portatrice di una diversa concezione della vita. Antropologicamente, il Butō viene infine letto tra i fenomeni sociali “liminoidi”, ossia tra quei fenomeni che racchiudono in sé, nelle società moderne di grandi dimensioni, il potenziale trasformativo delle regole morali e comportamentali che i rituali collettivi possedevano nelle società tradizionali. Questo lo connota come disciplina dalla vocazione culturalmente trasformazionale e autorizza i ricercatori a spingersi verso ipotesi più azzardate intorno alle sue valenze e ai suoi possibili effetti in ambito artistico e sociale, tanto nella sua cultura d’origine quanto in diversi territori culturali (oltre a giustificare il conclamato diritto dei danzatori di terza o quarta generazione di contaminarne le pratiche e modificarne i modelli originari sulla base delle stesse premesse poetiche e filosofiche). Il corpo del Butō così, quell’oscuro butōtai di carne e sangue che molto ci turbava, non più così criptico e respingente, può essere oggi indagato perfino in una prospettiva aperta e stimolante di critica alla corporeità occidentale, come fa, ad esempio, un attualissimo studio in lingua portoghese in corso di pubblicazione in Brasile, O soldato nu di Eden Peretta. In questa lettura, la corporeità critica del “soldato nudo” Tatsumi Hijikata propone un ripensamento della pedagogia del corpo in Occidente, con la proposta di un “anti-corpo” che si fa “anticorpo” di resistenza “di fronte ai meccanismi di oppressione e dominazione fisica e culturale che s’impongono quotidianamente nel contesto globalizzato contemporaneo”. La danza Butō sembra dunque offrirsi come “veicolo di azioni trasformative”, stimolo a una pedagogia di ricerca che non si limiti a trasmettere modelli precostituiti ma si dedichi “a un’incessante costruzione di anticorpi per una società malata”. Dalla diversità all’assimilazione, dalla rielaborazione critica alla ricreazione di forme e contenuti non soltanto artistici, ma addirittura sociali e politici, il Butō continua a offrirci materiale per il pensiero e la sperimentazione, purché sappiamo rimanere, come lui, in movimento. teatridellediversità 53 Butoh, Japanese modern dance, is nowadays an integral part of the contemporary dance in the Western world, too. However, if the dancers have soon assimilated some of its principles , the critical interpretation has been going over the years through different contrasting phases leading to new perspectives, which are at present the subject matter of the research. Visto a Gibellina QUANDO SI RI-DONA tempo al dolore Intervista a Virgilio Sieni su Sonate Bach di fronte al dolore degli altri, spettacolo ispirato anche a Susan Sontag ed Adriano Sofri e presentato a luglio alle Orestiadi Rubriche Danza Abstract Kazuo Ohno di Paolo Randazzo P Ko Morobushi Tatsumi Hijikata uò trarre in inganno la danza di Virgilio Sieni: allusiva, rarefatta, colta, intrecciata di movimenti e intuizioni che però non si fermano a proporre vuota bellezza, ma si aprono su panorami mentali assai vasti oppure si retroflettono, si frantumano, decostruiscono per poi riaggregarsi in equilibri dinamici e in architetture che lasciano spazio alla vertigine del pensiero, al dolore, alla consapevolezza della responsabilità. Lo abbiamo incontrato, il 14 luglio scorso, a Gibellina, nel contesto delle Orestiadi dove ha proposto “Sonate Bach, di fronte al dolore degli altri”, uno spettacolo nato da una riflessione che parte dal famoso saggio di Susan Sontag (Davanti al dolore degli altri) per arricchirsi dello spessore culturale e della sensibilità di Bach (le Sonate BWV 1027, 1028, 1029, eseguite in scena da Mariodavide Leonardi alla viola e da Alessia Zanghì al pianoforte) e della bellezza struggente di un frammento del documentario girato nel ’94 da Adriano Sofri “I cani e i bambini di Sarajevo”. Perché Bach per raccontare il male e il dolore? Perché Bach è, innanzitutto, un’opportunità straordinaria da cogliere in quanto la sua musica crea quasi un’urbanistica, un qualcosa che ha a che fare non solo con la geografia e la topografia di un territorio indicibile, ma un contesto architettonico e allo stesso tempo profondo e sacrale. Un’urbanistica e un’architettura già predisposte per accogliere quel che avevo in mente per questa “dedica”, per questo tentativo di riportare a memoria con la danza una serie di tragedie avvenute negli ultimi trent’anni. Inoltre la musica di Bach è capace di decostruire il corpo stesso, passando da simmetria ad articolazione, dall’approfondimento su segmenti e frammenti minimi all’associazione, all’analogia, alla dimensione complessiva di un corpo che si costruisce e decostruisce continuamente e che quindi si rinnova. Come può la danza inventare un corpo “epico”, ovvero un corpo che possa e sappia “raccontare”? La danza non racconta: non c’è in partenza l’idea di danzare quei dati eventi, quelle tragedie, tutt’altro. Nel caso di “Sonate Bach” ad esempio, attraverso una ricerca fatta con centinaia di fotografie scattate dai reporter di quelle tragedie (Sarajevo, Kigali, Srebrenica, Tel Aviv, Jenin, Baghdad, Istanbul, Beslan, Gaza, Andijan, Kabul), abbiamo cercato di ricostruire lo strazio di quei corpi: l’atteggiamento fondamentale è stato quello di ri-donare tempo a quei momenti, a quelle momentaneità puntuali. Una dedica di tempo. Poi è chiaro che il corpo, riprendendo quelle figure, cercando di metterle in dinamica, costruendo una mappa, va ad accennare a quegli eventi. Ma siamo in una forma di completa trasfigurazione: non si tratta di raffigurare la tragedia, viceversa si tratta di portare bellezza 54 seguendo quello che forse è il compito vero del corpo; come se la tragedia annunciasse quella bellezza infinita che si annida in ogni attimo. Questo elemento dialogico apre poi il campo a prospettive molto ampie: non si cerca di alleggerire quel determinato momento ma di mettere distanza tra noi ed esso, e ripensarlo, rivederlo sotto un altro punto di vista. Un elemento fondamentale di questa coreografia è il contatto profondo con emozioni che provengono dalle arti figurative. Sicuramente si tratta di un elemento molto presente: il lavoro delle “sonate Bach” è molto “sottratto” e si realizza attraverso i corpi e con i corpi, non tanto nella creazione di “unisoni” o di figure lineari, quanto di corpi che si rivelano articolati, apparentemente disorganici, irregolari, quasi a cercare una fessurazione spirituale in ogni istante. Inoltre questi lavori si possono pensare come tante danze, ciascuna tale da poter essere rappresentata o vista autonomamente. Ed ancora il fatto che il tutto avvenga in un luogo che è uno spazio (non recinto, Abstract I n this interview Virgilio Sieni, Tuscan choreographer among the most popular on the European scene, explains the genesis and development of the show “ Sonate Bach, in front of other’s sorrows” The choreographer explains the significance of Bach’s music in the organization of the show which, inspired by the famous essay by Susan Sontag “Regarding the pain of others”, unfolds in a run of eleven stages corresponding to as many places in the world that, in recent years, have been marked by cruelty and massacres (Sarajevo, Kigali, Srebrenica, Tel Aviv, Jenin, Baghdad, Istanbul, Beslan, Gaza, Bentalha, Kabul). The show ends with a fragment of the documentary by Adriano Sofri “Dogs and children in Sarajevo.” teatridellediversità 55 Perché parla di artigianalità per spiegare il suo lavoro? La danza è un’arte che necessita di disponibilità di tempo, tempo e durata, Quasi la conferma di una dimensione del fare artistico che non dimentica di avere una responsabilità sul reale. È così, ma vale anche il discorso inverso. L’arte fa parte della vita, è la vita stessa ed anche la devianza della vita. L’artista è colui che in forma umile riesce a mettere in luce qualcosa che non appartiene alla comune percezione dell’essere e della vita: è un boscaiolo, direbbe Heidegger, che riesce ad orientarsi in un bosco, a trovare in esso sentieri che altri non vedono e a indicarli. Poi, certo, sta a noi e al pubblico, provare a seguirli, a caderci dentro, a farci interpellare profondamente. Sonate Bach di fronte al dolore degli altri 56 MONTE VERITA’ insomma di un contesto d’officina che sia permanentemente laboratoriale, di un’attitudine alla trasmissione diretta, quasi tattile, dei saperi. Un’attitudine che caratterizzava le antiche officine artigiane e caratterizza (deve caratterizzare la danza): il danzatore studia sì delle tecniche, dei codici, ma ogni codice, come si sa, è un materiale morto che occorre portare in relazione dialogica con la vita. Un lavoro lungo basato sulla cura di migliaia di movimenti e che non si esaurisce nell’effervescenza, nella stravaganza, ma nemmeno nella serietà o nella forza di un’idea sola. Un lavoro “antiproduttivo”, che esalta anche cose non eclatanti che richiedono un’attenzione diversa. tra rivoluzione espressiva e utopia esistenziale Tra il 10 e il 14 ottobre scorso si è celebrato in Canton Ticino il centenario dell’arrivo in quei luoghi di Rudolf Laban e, simbolicamente, l’inizio della danza moderna europea di Eugenia Casini Ropa I Biennale Danza – Venezia giugno 2013 Abitare il mondo Trasmissione e pratiche L’incarico come nuovo direttore della sezione Danza della Biennale di Venezia, che ha investito il coreografo fiorentino Virgilio Sieni, ha portato ad ideare per il 2013 un ciclo di percorsi di formazione e creazione che si è concluso in brevi spettacoli aperti al pubblico. Una tre giorni che ha letteralmente invaso la città - una dozzina gli spazi utilizzati per le performance a San Marco e all’Arsenale coinvolgendola non solo come spettatrice ma come partecipe del fenomeno Danza. Hanno preso parte alla Biennale College - Danza (progetto volto alla formazione di giovani artisti offrendo loro l’opportunità di operare a contatto di maestri per la messa a punto di nuove opere) 70 danzatori e 50 cittadini (madri e figli, giovani e anziani) che si sono approcciati alla danza praticandola e vivendola direttamente. Sieni, che da anni porta avanti un progetto di trasmissione del gesto con persone di differenti età , professionisti e non, in varie regioni d’Italia e all’estero, ha offerto come primo risultato del suo nuovo incarico 26 coreografie originali distribuite in diversi capitoli - Prima Danza, Vita Nova, Atleta Donna, Visitazioni, Agorà, Invenzioni, in un unico racconto dal titolo Abitare il mondo. (Gloria De Angeli) (foto di Maria Rosaria Cherchi) C’è in questo lavoro un aspetto di riflessione, se non proprio politica, almeno sul senso profondo della contemporaneità? Chi lavora attraverso il corpo in una forma artigianale lo considera come espressione politica rivoluzionaria. Lo spettacolo cessa d’essere intrattenimento: si tratta di acquisire una consapevolezza del reale, di portare ad altri, attraverso questa artigianalità, questa consapevolezza e di iniziare (insieme) un percorso. Ci si interroga non tanto sul senso dello spettacolo stesso, ma sul senso dell’abitare il corpo e sull’esercizio dello sguardo che si chiede al pubblico. Rubriche Danza ma radura, come direbbe la Zambrano) di sei metri per sei, che cioè si presenti quasi come una tavola su cui i danzatori scrivono dei segni, ecco anche questo può significare un’adiacenza col concetto di opera pittorica. In questo senso vanno infine letti anche altri due elementi: i costumi, un trovarobato degli anni settanta, ottanta (un meticciato di colori, di toni proprio degli anni delle tragedie in questione) e le didascalie proiettate in alto quasi a mo’ di cornice dell’aspetto visuale e di epigrafe tombale, insieme elemento di cesura tra un episodio e l’altro e tra il tempo della danza e il tempo dell’evento tragico. n quattro giornate turgide di memorie, emozioni, riflessioni, ricerche e corpi danzanti, Laban, il suo pensiero e la sua opera sono stati ricollocati nel luogo e nel periodo delle origini, entrambi ribollenti di sperimentazioni fondanti, e insieme si è toccata con mano la vitalità dei suoi principi e delle sue scoperte ancora oggi. Monte Verità, collina che sovrasta Ascona nel Canton Ticino e si affaccia sul Lago Maggiore, è stata, nei primi decenni del secolo scorso, il luogo emblematico di raccolta scomposta delle teorie e delle sperimentazioni più radicali di riforma della vita e di rigenerazione dell’essere umano elaborate in Europa, messe alla prova da una comunità singolare e variegata di residenti. Negli anni ha visto passare esuli, dissidenti ed eccentrici di ogni tipo: artisti, politici, filosofi e scienziati (da Mühsam a Toller, da Jung alla Duncan, da Krishnamurti a Hesse, da Schlemmer a H.H. Lawrence, da Fromm a Kérenyi ecc.) insieme a molti altri visitatori e osservatori più o meno illustri che ne hanno promosso e spesso mitizzato il ricordo. Sorta inizialmente come sanatorio, per “bagni di aria e luce”, negli anni Dieci la colonia individualista, vegetariana e naturista di Monte Verità era popolata di “stranieri” di ogni provenienza, dissidenti rispetto alla società dell’epoca ed eterogenei tra loro, ma accomunati da un’enorme tolleranza etica, politica e religiosa e dalla condivisione di un’esperienza di vita alternativa. La riforma della vita (Lebensreform) che qui si perseguiva, con tendenze anarcoidi, esoteriche e utopistiche, passava sostanzialmente attraverso la rigenerazione e la liberazione dell’uomo - inteso nella sua totalità di corpo, anima e intelletto - e delle sue potenzialità fisiche, psichiche e mentali represse e controllate dalle varie costrizioni della civilizzazione, attraverso il ritrovato contatto con la natura e le sue leggi primarie. Modi di vita semplici, igienici e salutistici (vegetarismo, eliminazione di alcool e tabacco, vita all’aperto, esercizio fisico, abiti sciolti o addirittura nudismo, prime manifestazioni di quella cultura del corpo - Körperkultur - che si sarebbe sviluppata nel decennio successivo in Germania) si accompagnavano alla coltivazione di orti e alla produzione autonoma ed essenziale di cibi, mobili, tessuti, indumenti e calzature. Psichiatri e psicanalisti d’avanguardia sondavano lì i misteri della mente e della psiche sperimentando terapie innovative e azzardate; filosofi eccentrici, teosofi, mistici orientali e utopisti sognatori elaboravano le loro visioni dell’universo e del destino dell’Uomo Nuovo che avrebbe modificato l’avvenire, mentre pittori esaltavano e immortalavano la salute e la bellezza dei corpi nudi, idealizzandoli in un’aura pagana di divinità. Il corpo vivente e senziente e il suo rinnovato rapporto con la propria natura e con quella del mondo d’intorno erano con evidenza al centro del progetto di riforma per una società nuova, ed è quindi facilmente comprensibile come la danza, elevazione poetica e simbolica del corpo, potesse essere bene accolta come arte rappresentativa dello spirito del luogo. Nell’estate del 1913 Rudolf von Laban, artista figurativo, danzatore e coreografo di origine ungherese, con un gruppo di giovani allievi e collaboratori, insedia a Monte Verità una scuola estiva d’arte (arti del movimento, del suono, della parola, della forma), ma soprattutto dà inizio a una intensa sperimentazione intorno a quella che aveva da poco individuato come arte primaria dell’uomo: la danza. È il momento per lui, trentenne, in cui desiderio e volontà sono al massimo livello, la sua mente è un crogiuolo di idee ed è in atto un suo sforzo di autodefinizione che va di pari passo con quello di investigazione della danza, tanto nella sua essenza quanto nella sua valenza sociale e pedagogica. Già gli è chiaro che il movimento è “l’esperienza fondamentale della vita”, che la danza appartiene a tutti (“ogni uomo è un danzatore”) e che in essa si esercita una forza che nasce dal più profondo livello di coscienza dell’essere. Ma occorre riuscire ad afferrare il processo intimo del movimento del corpo nello teatridellediversità 57 Rubriche Danza cinetografia (Kinetographie), la notazione più completa della danza di cui siamo in possesso. E ancora il duplice, costante lavoro sull’artista e sull’uomo comune, così come sull’individuo con le sue potenzialità personali di espressione corporea e sul gruppo, quel “coro di movimento” (Bewegungschor) che avrebbe dovuto dar corpo e vita alla mitica comunità danzante. Nel 1917, in piena guerra mondiale, Laban dà vita a Monte Verità a una grande, evocativa “Festa del sole” per l’Ordine del Tempio d’Oriente, espressione piena del versante più mistico ed esoterico del suo pensiero. Certo il momento di più piena fusione utopica con lo spirito della colonia, che attraverso di lui celebrava l’espressione rituale della propria alterità, traducendovi le mitologie culturali della propria utopia esistenziale. Oggi Rudolf Laban è conosciuto come grande maestro europeo della danza moderna, padre della sua concezione espressiva, pedagogica e terapeutica sulle basi di una vera e propria scienza del movimento che continua a fruttificare nell’arte contemporanea. Il Monte Verità è divenuto museo di se stesso e cerca di mantenere viva la propria memoria con studi rigorosi e commemorazioni dell’antica vitalità, anche salvaguardando il fascino naturale del luogo. L’incontro di oggi con Laban e la sua eredità vivente ha rinnovato un’unione momentanea e felice, sotto il segno della libertà e dell’intelligenza creatrice. Abstract I n the summer of 1913, Rudolf Laban, the great theoretical father of European modern dance, settled in Monte Verità in Canton Ticino where a peculiar community of utopists were testing a radical reform of the way of living, a life close to nature. Consequently, the new and revolutionary kind of dance brought by Laban and meant to express the individual’s and the community’s feelings, came in contact with the cultural and social beliefs of the residents, who recognized in this kind of dance the ritualization of their existential utopia. Monte Verità Edificio centrale della colonia (1904) 58 NELLA PROVINCIA DI TERAMO Le solitudini di Terrateatro Produzione, formazione e l’organizzazione di due festival sono alla base della significativa esperienza artistica abruzzese che ha il coraggio di esprimere valori collettivi Vito Minoia intervista Ottaviano Taddei Teatri Paralleli è una delle due significative iniziative che Terrateatro organizza in Abruzzo e che ho avuto finalmente il piacere di conoscere di persona. Come è natal’idea di organizzare il Festival e qual è il segreto di una così calorosa accoglienza del territorio? Teatri Paralleli nasce nel 2006. Dopo una pausa l’anno, continua a proporre spettacoli e momenti di laboratorio e di studio ogni mese di luglio. Nasce all’interno del Centro Diurno Socio-Educativo della Val Vibrata (TE) dove la Cooperativa Sociale La Formica è impegnata dal 1994 per lo sviluppo dell’autonomia e per l’inclusione sociale di persone diversamente abili. Grazie al contributo teatrale della compagnia Terrateatro e al coinvolgimento iniziale dell’Associazione Culturale L’Istrione, ci sembrò allora un approdo naturale quello di una rassegna di teatro sociale e di un confronto con altre realtà nazionali, da legare all’attività teatrale dei ragazzi e alla loro grande motivazione. Col tempo, e grazie ad un lavoro continuativo sul territorio da parte della Cooperativa La Formica e di Terrateatro, che hanno in questo tempo creato una rete importante, il Festival ha potuto godere di una sempre maggiore attenzione da parte del territorio. Questo aspetto, facilitato nelle ultime edizioni anche dal supporto del Comune e della Pro Loco di Sant’Omero, dove ora si svolge l’Iniziativa, fa di Teatri Paralleli uno dei momenti più significativi dei cartelloni estivi nell’intera regione Abruzzo. Riesce a catalizzare l’attenzione di un pubblico che sente di poter trovare negli spettacoli del festival un alto momento di riflessione e di arte nuova. Credo anzi che nel tempo un atteggiamento che poteva essere di curiosità e di compatimento, si sia trasformato in un interesse vero nei confronti di una proposta unica sul nostro territorio. Terrateatro, l’associazione teatrale che coordini insieme a Cristina Cartone e che si avvale di diverse altre collaborazioni, produce anche spettacoli e cura laboratori in contesti socio-educativi. Quale l’attività prevalente e con quali principali obiettivi? Terrateatro nasce dal 1999. Fin dall’inizio opera su tre fronti: la produzione di spettacoli, la formazione (soprattutto attraverso Scuole di Teatro per adulti e bambini e laboratori nelle scuole) e l’organizzazione di due festival (oltre a Teatri Paralleli organizza a Giulianova anche il festival di Teatro Contemporaneo e Teatro Ragazzi Terre di Teatri). Negli ultimi tempi ha assunto una grande importanza il lavoro nelle scuole e in contesti di aggregazione giovanile, dove i suoi operatori hanno la possibilità di mettere in campo le idee legate al teatro come momento educativo e di socializzazione. Il lavoro con i bambini, con i ragazzi e con gli adulti parte sempre dal principio generale di una messa in gioco delle possibilità espressive ed umane dei partecipanti. In questo senso, il teatro è inteso come uno strumento attraverso il quale ognuno può trovare nuove modalità di comunicazione e di socialità. In un periodo complicato come quello attuale, nel quale è assai difficile proporre produzioni di teatro contemporaneo, il lavoro laboratoriale nei vari ambiti diventa, per una compagnia come la nostra, uno straordinario momento di possibilità rispetto alla ricerca e alla sperimentazione. E’ ovvio che la produzione di spettacoli resta per Terrateatro il momento di studio e confronto più importante, il momento creativo per eccellenza in cui troviamo la linfa vitale per tutto il nostro lavoro. Anche in questo ambito, l’aspetto sociale è diventato un luogo privilegiato in cui sperimentare nuovi linguaggi. “Lo spettacolo deve metterci in crisi, Rubriche Buone pratiche spazio e nel tempo, la formazione dei suoi ritmi, le sue modalità espressive, i suoi flussi energetici. Per raggiungere quella “danza libera” dai vincoli delle convenzioni culturali che va ricercando e che recuperi il suo perduto significato antropologico e rituale, lo seduce il sogno utopico di una comunità danzante, un “tempio vibrante” fondato su di un’esperienza comune di vita, che potrà costituire la futura “cattedrale dell’avvenire”. E Monte Verità appare certo un luogo ideale per mettere alla prova questa possibilità. Tra il 1913 e il ‘14, nel lavoro sperimentale di Laban sono già presenti in potenza tutti gli elementi che verranno in seguito sviluppati attraverso una ricerca durata una vita. L’interesse per un’arte teatrale totale (Tanz-Ton-Wort - danza-suono-parola) in cui le fondamentali forme dell’espressione umana trovino la perfetta interazione, ma anche l’affermazione della peculiarità della danza come arte in sé completa (da cui le molte esperienze di danza senza musica messe principalmente in atto da Mary Wigman, allora sua preziosa assistente e in seguito artista massima di quella danza d’espressione -Ausdruckstanz- nata da loro). La connaturata espressività del movimento che nasce da un impulso interiore. L’individuazione di energia, spazio e tempo (Kraft-Raum-Zeit) come elementi fondamentali della danza e l’avvio di quel metodo di analisi del movimento ancora oggi fondamentale per artisti e studiosi, insieme ai primi tentativi di deve stimolarci per giorni, costringerci a darci dei limiti, intesi come confini definiti dentro ai quali permetterci un tempo di riflessione”. Ho trovato questo riferimento nella vostra scheda di presentazione. Mi ritorna in mente Brecht ed un certo teatro d’impegno civile. Quali i riferimenti culturali e teatrali che sottendono la vostra ricerca umana ed artistica? Pensare a Brecht significa pensare al senso di responsabilità civile che ogni essere umano dovrebbe avere. Il teatro è uno dei momenti più importanti della dimensione umana, nel quale ognuno può riflettere sugli alti significati della vita e sul coraggio di sentirsi collettività. E’ molto più semplice starsene in disparte, in un angolo di solitudine. Ma questo non può appartenere a chi fa della propria esperienza sulla terra un grande atto di condivisione. Sulla scena questo atto si ripete e si rinnova ogni volta. Noi siamo in grado di impegnarci nella società attraverso una presa di coscienza forte di fronte alle tematiche che da sempre appassionano l’umanità. E’ necessario soltanto convincersi della partecipazione teatridellediversità 59 Insegnando con passione a Milano dal 1978 L’importanza di figure poetiche, mimi e clown in una nuova rubrica fatta di diari di viaggi, danze, poesie. Si parte con una chiesa sconsacrata e due allievi di Jacques Lecoq Ginevra Sanguigno intervista con Marina Spreafico e Kuniaki Ida Il cappotto, Terrateatro attiva. Anche per queste ragioni, crediamo molto nel lavoro dell’attore come espressione alta dell’individuo che si confronta con se stesso e con gli altri. E qui la lezione di Grotowski rimane, per noi, ancora il riferimento più importante. Beckett (al quale avete dedicato una trilogia), Gogol, ma anche tematiche impegnative come l’immigrazione clandestina, la guerra, la storia di Chiara d’Assisi, fino alle storie della vostra terra d’Abruzzo, come quelle del Gran Sasso o intrecciate con opere di autori come Pietro di Donato o Fedele Romani contraddistinguono le vostre creazioni artistiche. Esiste un filo rosso che attraversa l’intera ricerca? Uno dei soggetti più riusciti del pittore Salvatore Fiume sono le Isole di Pietra, dei monoliti solitari inseriti in un’atmosfera rarefatta. Se esiste un filo rosso nelle tematiche affrontate negli spettacoli da Terrateatro è proprio questo: le solitudini. Quelle degli immigrati, quella di Vladimiro ed Estragone, quella dei personaggi straordinari che hanno popolato la storia dell’umanità, oppure quella delle montagne parlanti della nostra regione. Partiamo da queste solitudini, però, per ribadire quanto siamo uniti, gli uni agli altri, quanto l’essere umano abbia bisogno di sentirsi collegato con il mondo che lo circonda. E questo è talmente vero che, paradossalmente, attraverso i nuovi canali di comunicazione, ognuno voglia sentirsi parte di un tutto, anche se con modalità solitarie che non comprendo e che ancora mi lasciano perplesso. Nel teatro abbiamo invece la possibilità di sentirci vicini attorno ad una storia, un tempo sottratto all’individualismo e vissuto in collettività. “Vivo nel vuoto” è invece il titolo del vostro ultimo spettacolo con gli attori diversamente abili del Teatro delle Formiche, metafora della passeggiata che il funambolo Philippe Petit nel 1974 eseguì con la fune tra le Twin Towers. “Un pretesto - cito ancora un vostro scritto - per parlare di solitudini che si incontrano”. Quali le modalità di lavoro con gli attori del Teatro delle Formiche e quali i risultati raggiunti nel lungo percorso sin qui intrapreso? “Vivo nel Vuoto” è uno spettacolo straordinariamente importante per Terrateatro: per quello che rappresenta a livello di poetica, 60 perché è stato riconosciuto dalle Istituzioni teatrali abruzzesi (Teatro Stabile d’Abruzzo), perché è un punto di incontro tra modalità di lavoro che sulla scena hanno trovato una sintesi. Ancora una volta, appunto, le tematiche della solitudine dell’uomo contemporaneo tornano in gioco, e ancora una volta il racconto dell’attore lancia una fune “ tra due punti che altrimenti sarebbero rimasti divisi per sempre”, per citare Petit. Il Teatro delle Formiche è un luogo di ricerca; qui si parte dal corpo come strumento primario di espressione e di creazione, il testo ha una importanza relativa, e torna nel lavoro con prepotenza solo verso la fine del percorso. Quello che si è raggiunto in questi anni di ricerca con gli attori diversamente abili è la consapevolezza di se stessi, delle proprie possibilità, il sapere che sul palcoscenico si può urlare la propria presenza nella società. Da qui, da questo stato d’animo, parte la scommessa di immaginare nuovi linguaggi contemporanei che sfidino l’uomo alla radice, vale a dire dentro alle verità più ataviche e sensibili. Tutti siamo in grado di reinventare il mondo, a partire dalla bellezza dell’animo e dalla meraviglia che può esprimere un corpo offeso. Abstract T he interview to Ottaviano Taddei reveals the enthusiastic welcome that the artistic experience of Terrateatro received in its own territory, Abruzzi, where it operates. It is a civil theatre with disabled actors as protagonists and with the tendency to put on shows by contemporary theater authors such as Beckett and Gogol, moreover it also focuses on themes as illegal immigration, war, the story of Chiara from Assisi or stories about Abruzzi, such as the one of Gran Sasso or other experiences intersected with works of authors as Pietro di Donato and Fedele Romano. This generated the bet of imaging new contemporary languages that may challenge men’s roots or, in other words, the most ancestral and sensitive truths. “Everybody is able to reinvent the world, starting from the beauty of the soul and the wonder expressed by a hurt body”. I Rubriche Con le radici nel vento I FONDATORI DEL TEATRO ARSENALE ncontro Marina Spreafico(*) e Kuniaki Ida (*), al Teatro Arsenale. Avevo 20 anni quando ho scoperto questa magnigfica chiesa sconsacrata a quindici minuti a piedi da Piazza Duomo a Milano, sede del Teatro. Senza avere nessuna cultura teatrale, ma con la voglia di intraprendere un percorso con bravi maestri, ho scelto il Teatro Arsenale. Per la simpatia che mi hanno ispirato gli insegnanti, che incontro per la prima volta intenti a dipingere l’ingresso della scuola: era il 1980. Oggi posso dire che il mio istinto è stato perfetto, non potevo trovare migliore scuola e migliori maestri! Marina , Kuniaki come è nata la scuola del teatro Arsenale e quando ? M.: La scuola l’abbiamo fondata nel 1978. Avevamo frequentato la scuola di Lecoq a Parigi , dove siamo arrivati da percorsi diversi K.: Io venivo dalla Toho University una accademia di teatro giapponese e avevo conosciuto Lecoq tramite un insegnante della Toho che aveva a suo tempo frequentato la sua scuola. M.: Io vivevo a Roma , una sera assisto a uno spettacolo di Alberto Vidal , uno scrittore spagnolo, ne rimango molto colpita e ne parlo con lui , che mi rivela: “...è tutto merito di Lecoq”, io non sapevo neanche chi fosse... La collaborazione con Lecoq è nata dopo avere fondato la nostra scuola; eravamo diventati amici e ci intendevamo molto bene, tra noi c’era una bella sintonia culturale e umana. Poi (nel 1999 ) Lecoq è morto e subito dopo la sua morte c’è stato una specie di terremoto nella scuola di Parigi; la moglie mi ha chiamato chiedendomi di andare a insegnare a Parigi perchè riteneva fossi la persona piu’ adatta, e così ho fatto, per qualche anno dopo la sua morte. Marina e Kuniaki, arrivate da tradizioni culturali diverse, la scuola di Lecoq ha unito le vostre esperienze? Avete poi fondato la scuola. C’è stata una intenzione di fondere diversi linguaggi teatrali (occidente / oriente), esplorarne nuovi ? K.: L’Accademia di teatro che ho frequentato in Giappone era multiforme, studiavamo il teatro tradizionale giapponese, ma anche il teatro moderno; grazie all’insegnante che era stata allievo di Lecoq e aveva introdotto nuove forme e metodi di lavoro per l’attore. In seguito mi sono orientato a lavorare con Kobo Abe (3), che è uno scrittore e aveva una compagnia di teatro. L’indirizzo che mi indicava Abe è quello che da tempo ho scelto e che mi interessa di piu’. Alla fine dell’università, intorno ai 25 anni , sono partito per l’Europa , e sono entrato nella scuola di Lecoq. Ad oggi è diificile dire cosa sia rimasto di questi insegnamenti e o di quelli... M.: Io credo che tutti gli ingredienti provenienti dai diversi linguuaggi teatrali e quindi corporei, gestuali, da diverse culture, si siano miscelate insieme, creando una diversa alchimia di linguaggi. Ci parli della relazione tra sport e teatro? Ne parla Lecoq nel libro “Il Corpo Poetico” (Ubu edizioni), e attribuisce allo sport una valenza importante nella formazione dell’attore. Lecoq veniva dallo sport, era stato fisioterapista anche sportivo, in qualche teatridellediversità 61 Ci puoi parlare del vostro lavoro con la maschera ? Ricordo l’uso della maschera neutra e larvale e poi la maschera della commedia dell’arte. Il percorso con la maschera è quello che noi mutuiamo da Lecoq; è stato fondamentale nella mia formazione e lo considero fondamentale nella formazione degli studenti. Un percorso che ti porta adagio fuori dal quotidiano, dal rapporto psicologico con le cose, ed eleva il tuo modo di recitare a un livello stilistico; ti aiuta a trovare un linguaggio che non sia quotidiano, una lingua articolata. La maschera ti aiuta ad approfondire quello che è essenziale nel rapporto comunicativo, e fa cadere il gesto quotidiano, il gesto rotondo, il gesto che non significa niente, cioè ti porta dalla gesticolazione al gesto. Quando hai una maschera sul viso, per esempio quella larvale, il tuo corpo diventa la faccia, quel corpo/faccia deve diventare espressivo, comunicante, altrimenti la maschera non funziona. E’ un processo didattico fondamentale. Quando poi togli la maschera, il linguaggio che hai creato ti rimane dentro e si esprime autonomamente. 62 Ci puoi parlare del lavoro sul buffone? Ricordo il processo proposto da Kuniaki per la creazione del personaggio: a occhi chiusi abbiamo modellato una statuetta di argilla pensando al nostro buffone personale. Copiando la statuetta creato il nostro costume. E poi lo studio delle opere di Bruegel e Bosh , grande fonte di ispirazione. M.: Il buffone è un essere mascherato dalla testa ai piedi, il cui corpo prende una forma che non è la sua originale, è una specie di maschera globale. Ha anche una caratteristica caricaturale; per esempio hai una grande pancia o sei magro come un chiodo, ti si accorciano braccia e gambe. Ti inventi un altro corpo ... paradossalmente questo altro corpo/maschera invece di essere una costrizione diventa una grande libertà. Il buffone appartiene al mondo della grande caricatura alla Bosh, alla Bruegel, che è una caricatura estrema della natura umana. esperienza mi ha fatto riflettere sul tema della identità. La proponete ancora? M.: E’ una esperienza che proponiamo nel primo anno di scuola: il lavoro sul personaggio; per personaggio si intende non uno della letteratura, ma un’altra persona. Invitiamo gli studenti a trasformarsi in qualche modo, in altra persona a prenderne gli abiti, copiandolo, identificandosi. Con qualcuno di molto diverso da loro, nella forma fisica nel carattere e nell’età. Quest’anno un ragazzo del corso si era invecchiato di non so quanto ed era talmente credibile che gli hanno chiuso in faccia le porte del tram, camminava lentamente , ci era rimasto malissimo . . Per noi è un esercizio per il giovane attore, che da notevoli risultati ; è il gusto della trasformazione, è un esercizio forte perchè vai fuori dalle mura protettive del teatro, ci vuole un bel coraggio, e aiuta nel lavoro teatrale. Lavorare sul buffone, pensi che possa avere un effetto scaramantico o terapeutico sull’attore che finalmente si libera delle sue paure sui propri difetti e altro? M.: Penso di si, è una rivolta contro tutte le deformazioni, è il regno del deforme che prende il potere. Ci puoi parlare del lavoro sul tema della follia? Ricordo al tempo, ci avevate aiutato a organizzare una uscita all’ex ospedale psichiatrico di Mombello; è stato subito prima che chiudessero definitivamente i manicomi, negli anni ‘80. Ho due ricordi molto vivi di quella esperienza: 1) una ragazza, in una stanza imbottita, nuda, che si buttava contro le pareti e gridava; ci hanno aperto una piccola finestra per vederla . 2) un uomo affetto da schizofrenia, che camminava per il parco, con un uccellino morto attaccato alla corda intorno alla vita. M.: Mi ricordo bene, avete poi presentato un saggio su questa esperienza; è stato molto interessante. Avevate scelto voi il tema all’interno di una inchiesta fatta sugli istituti psichiatrici. Noi facciamo sempre scegliere agli allievi, non mettiamo nel programma l’argomento follia, sono gli allievi che scelgono alla fine del loro primo anno. Gli “argomenti indagine” che noi facciamo al di fuori della scuola, sono argomenti scelti dagli allievi; per esempio quest’anno un gruppo ha fatto un lavoro sui pesci, e un altro sui luoghi abbandonati, quindi nulla di più lontano da quello che hai fatto tu . Erano anche anni storicamente diversi, le persone erano interessate a questo aspetto, adesso c’è meno interesse e c’è anche più difficoltà a entrare in questi luoghi. La scuola su di me aveva sortito un effetto anche liberatorio, oltre a farmi scoprire l’amore per il teatro; penso che non tutti i vostri allievi arrivino con l’intento di diventare attori... E’ vero, la scuola può facilitare questo processo liberatorio, ma per noi non è lo scopo. Questa è una scuola per attori; io invito le persone che si iscrivono a pensare questo percorso indipendentemente dall’uso che poi ne faranno, come un percorso teatrale. Altrimenti si sconfina in territori che non conosciamo, per i quali non siamo attrezzati e non è il nostro intento. Durante la scuola ci hai fatto fare l’esperienza di entrare nei panni di un altro. Uno dei suggerimenti era di entrare nel “contrario” di noi stessi, di scendere in strada e camminare; portare questa nuova “maschera sociale” in giro ogni settimana, almeno una volta per qualche ora. Per esempio io amavo colori e ho scelto di andare in giro vestita di grigio, guardando per terra. Ho provato qualcosa di inaspettato: mi sono sentita invisibile in mezzo alla gente, che non esistevo per nessuno, nessuno mi guardava; quando sei giovane e non solo, hai voglia di essere ammirata e di piacere... Questa Marina Spreafico Rubriche Con le radici nel vento modo si è trovato nel teatro partendo dallo sport. Noi anche, posso dire, veniamo dal mondo dello sport; l’attività fisica nella nostra esperienza è sempre stata importante, judo arti marziali, io ho sempre fatto agonismo sportivo. Lo sport e il teatro secondo me si assomigliano, nel senso che uno si gioca il tutto e per tutto in quel momento, e nel mio modo di vedere, tra lo sport e il teatro ci sta di mezzo il circo. Per due motivi credo: per il circo ci vuole grande competenza e allenamento e l’altro motivo è la solidarietà del circo; quando tu tieni la fune di salvezza di un tuo compagno che salta se sei distratto lo ammazzi. Per me questo giocarsi il tutto e per tutto in una solidarietà che non annulla la propria persona, ma valorizza l’altro, è fondamentale nel rapporto del teatro. Nello sport poi è molto chiaro: sai fare o non sai fare. Nel teatro è la stessa cosa; o sai correre o non sai correre; o studi e ti alleni o non lo puoi fare. Mi chiedono se tengo corsi per adolescenti; per me un adolescente non è pronto a fare teatro, trovo che un adolescente abbia un corpo giovane e resistente, più adatto a imparare una disciplina, a suonare uno strumento, a danzare, una disciplina dove applicarsi e avere il piacere di farlo. Il teatro è a un livello altro, ci vuole una maturità della vita. Per me un adolescente è adatto a fare qualcosa dove ci vuole un corpo giovane; nel teatro non necessariamente hai bisogno di un corpo giovane, anzi. Ti ho fatto questa domanda perchè nella mia esperienza, come clown che opera nel sociale, in situazioni di disagio anche forte, sento il confine sottile con teatridellediversità 63 Ho letto che la scuola di Lecoq aveva sede in una sorta di chiesa sconsacrata. L’Arsenale è una chiesa sconsacrata e un posto speciale, sede del comitato Vietnam negli anni ‘70, e del Teatro Verticale. M.: Noi siamo qui per caso, all’epoca negli anni ‘70, quando tornai in Italia dalla scuola di Lecoq a Parigi, con Kuniaki avevamo uno spettacolo in due, 64 Ricordo che nel tempo è sempre stata una battaglia mantenere questo luogo e non farlo diventare un fast food o un negozio di abbigliamento, siete nel centro di Milano in un luogo storico... mi ricordo manifestazioni davanti a Palazzo Marino contro lo sfratto.. L’Arsenale è un luogo che definirei speciale e un po’ magico. L’energia e la storia creano un atmosfera speciale, nutriente; una ex chiesa dove venivano celebrati riti, il teatro è rito: quanto è importante il “luogo” del teatro? M: Molto! Forse è una mia fissazione ma credo che qui dentro ci sia una specie di Genius Loci (ho fatto recentemente uno spettacolo su questo) che è qualcosa che aiuta nei momenti difficili, e nei momenti sereni se ne frega. Lo spettacolo sul Genius Loci è iniziato durante una visita guidata e adesso è diventato uno spettacolo di un ora e 40 minuti, con tantissimo materiale storico e non solo raccolto... Clown in ospedale e clown volontari; per incoraggiare i giovani a intrapredere percorsi di volontariato. Il naso rosso incoraggia persone che altrimenti sarebbero troppo timide, cosa ne pensi? M.: Penso che non basti un naso rosso da clown per essere clown, questo è un equivoco grave; è necessaria una prepaprazione di qualche tipo, non è il naso rosso che fa il clown. Molti volontari fanno servizio negli ospedali da tanti anni e l’effetto positivo nei percorsi di cura è verificato ...e non hanno la pretesa (non tutti) di fare del teatro M.: Meno male, perchè non puoi mettere piede su un palcoscenico se non sei preparato. Se funziona nei contesti di ospedali ben venga … ma ...se per clown si intende qualcuno che si mette un naso rosso, allora poi entriamo nell’equivoco delle parole. Mi sembra un pò riduttivo chiamare clown una persona solo perché indossa un naso rosso. 3 giornate per l’ANCT Il Teatro Arsenale è dal 1978 un centro di iniziative artistiche teatrali. La sede è un antico edificio, più volte rimaneggiato, la cui prima pietra fu posta nel 1272. Nel corso dei secoli è stato alternativamente chiesa, teatro, collegio e scuola. Profondamente ricco di storia, luogo di emblematici avvenimenti della vita spirituale ed artistica milanese, ha un fascino particolare che colpisce chiunque vi entri. E’ un luogo accogliente, dove ci si sente di casa e dove il rapporto tra pubblico, scena ed attori è più intimo e sentito che negli spazi tradizionali. Le sue caratteristiche architettoniche, artistiche e gestionali lo hanno posto spesso in contrasto con l’andamento generale delle cose, e l’Arsenale ha passato non pochi guai... ma il potente Genius loci che vi abita ha finora reso possibile la sua sopravvivenza e la sua continuità. L’Arsenale è diretto da Marina Spreafico. A Lecce Le parole del teatro Note • Marina Spreafico Diplomata alla “Scuola Internazionale diTeatro Jacques Lecoq” a Parigi nel 1975. Ha studiato movimento con Monika Pagneux, Moshe Feldenkrais, Gerda Alexander.Laureata all’Università degli Studi di Milano. Nel 1978 al Teatro Arsenale di Milano, ha avuto l’opportunità di fondare una compagnia stanziale, di aprire una scuola di teatro e di esplorare liberamente. Dal 1976 si dedica all’insegnamento teatrale per il quale nutre una vera passione. Lo ritiene parte fondamentale del proprio percorso, complementare e indipendente dalla ideazione e realizzazione di spettacoli. Ha fondato nel 1978 la Scuola di Teatro ‘Arsenale’ a Milano, dove insegna continuativamente. • Kuniaki Ida Laureato al Toho College del Teatro e delle Arti di Tokio, ha fatto parte in seguito del prestigioso Kobo Abe Studio. Ha studiato teatro tradizionale giapponese, No e Kyogen. Si è diplomato alla “Scuola Internazionale di Teatro Jacques Lecoq” nel 1975. Dal 1976 risiede prevalentemente in Italia. Dall’ ‘89 è insegnante presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica ‘Paolo Grassi’. Come regista di spettacoli teatrali e musicali e insegnante di teatro ha lavorato in Italia, Giappone, Corea, Portogallo, Germania, Sud Africa, Hong Kong, India, Francia. E’ direttore artistico del TheatreX di Tokio. E’ stato uno dei fondatori del Teatro Arsenale di Milano. • Kōbō Abe E stato uno scrittore, drammaturgo e inventore giapponese. Nasce aTokyo, nel 1948 comincia a dedicarsi alla letteratura ispirandosi al surrealismo kafkiano.Sia nei romanzi che nelle opere teatrali descrive un’umanità alienata, affetta da incomunicabilità, chiusa in reticoli di situazioni senza via d’uscita. Opera paradigmatica è Suna no onna (La donna di sabbia) che descrive una situazione claustrofobica in cui un uomo e una donna vivono prigionieri all’interno di una voragine sabbiosa impegnati in un’eterna opera di svuotamento della sabbia che continuamente precipita dall’alto rischiando di soffocarli. Abe scrive varie opere teatrali dirigendo una propria compagnia a Tokyo. Anche in questi lavori propone i temi della solitudine e dell’alienazione. Dopo la morte di Mishima (1970) diventa il principale autore giapponese di opere teatrali. Muore il 22 gennaio 1993. Le parole del teatro, Premio ANCT, Lecce Dal 30 ottobre al 2 novembre l’ANCT (Associazione Nazionale Critici di Teatro) è stata ospite, nel Salento, di Astragali Teatro, in partenariato col Teatro Pubblico Pugliese, all’interno del progetto europeo walls – separate worlds di Claudio Facchinelli P (Foto di Pierpaolo Fari) Con le radici nel vento Teatri delle diversità esplora e racconta il teatro non solo nei luoghi celebrati ma anche e molto nei luoghi “altri”: piazze, carceri, ospedali, nei paesi in guerra e molto altro. Come scuola di teatro, incoraggiate queste altre direzioni ? M.: Noi ci sentiamo a monte di queste esperienze che poi lo studente sceglie. Trovo che siano importanti e sono commossa da chi fa queste scelte. Se i nostri insegnamenti possono servire all’interno di queste scelte per noi è solo una gioia. Per esempio anni fa gli allievi hanno presentato diverse performance alle Colonne di San Lorenzo. Ma non eravamo noi insegnanti a gestire l’evento, noi aiutavamo gli allievi a proporre il lavoro al comune di Milano e poi gli studenti gestivano. Sono esperienze formative forti, di attenzione e energia che, per esempio, la piazza richiede. Se capitano occasioni del genere diamo la possibilità di realizzarle; in genere avvengono alla fine della scuola quando riteniamo le persone mature e in grado di gestire un progetto. qui c’era una associazione che tra le altre cose organizzava rassegne teatrali. Presentavamo il nostro spettacolo e non avevamo molto pubblico. Siamo venuti a sapere che cercavano qualcuno che gestisse l’Arsenale, non avevamo soldi ma ci siamo subito buttati , lo spazio era straordinario ...e da allora siamo qui! Rubriche La Critica il territorio della follia. Spesso mi sento come un ponte, che facilita, a volte, delle intese rare, momenti di serenità. Per essere quel ponte è importante conoscere i linguaggi del disagio. Mi potresti parlare del vostro lavoro sul clown? M.: Per noi è il lavoro finale della scuola, è difficile farlo prima perchè lo studente non ha sufficienti strumenti. Il clown in qualche modo recita sé stesso; però deve anche sapere fare delle cose, altrimenti cosa può proporre? Il clown esiste nel momento in cui l’attore ha acquisito un senso di umorismo e distanza da se stesso mentre recita; secondo me sotto ogni grande interpretazione c’è un clown che sta recitando qualcosa. In questo senso io conosco questo lavoro. Il clown circense di tradizione per me è abbastanza lontano. A me piace il clown che si nasconde sotto quello che sta raccontando o vivendo. Faccio usare il naso rosso a fini didattici, ma poi per me è una cosa che si toglie, come la maschera neutra. Per me lo studio sul clown ha senso quando dà all’attore un senso di umorismo e accettazione rispetto a quello che fa. er darne conto dell’evento, intitolato Le parole del teatro, comincerei da alcuni dettagli apparentemente secondari. Il volto accattivante e gioioso della giovane donna che ci ha guidato col suo sorriso nei meandri e nel museo archeologico del castello di Mesagne; la purea di piselli gialli dal gusto di fave; le orecchiette con i ceci, annaffiate da un vino rosso, profumato ed aromatico: immagini e percezioni sensoriali soggettive, forse banali, ma che mi sembra evochino con efficacia l’atmosfera che si è respirata nei tre giorni di esplorazione – e scoperta – di quel lembo estremo d’Italia. In apertura dell’incontro assembleare, nel palazzo Turrisi di Lecce, il presidente Giulio Baffi ha esortato a non cedere alla tentazione di piangersi addosso per lo spazio sempre più esiguo dedicato alla critica teatrale, ma a prendere atto, con realismo, della diffusione sempre più aggressiva delle riviste web: è importante perseguire, anche in tale ambito, una qualità professionale. Baffi ha poi stimolato i soci a mettere a punto nuove strategie, a uscire da una dimensione autoreferenziale, a cercare il rapporto col territorio, con le istituzioni, gli artisti. Nel dibattito è emersa l’esigenza di attenzione a un nuovo pubblico, di una politica di educazione al teatro delle nuove generazioni, vittime dell’eclissi culturale che ha offuscato l’ultimo ventennio, anche attraverso la creazione di un polo di formazione e riqualificazione degli teatridellediversità 65 Rubriche La Critica PER UNA RIVISTA INTERNAZIONALE PLURILINGUE alla memoria del critico teatrale Paolo Emilio Poesio, assegnato a Roberto Herlitzka, quelli dalle riviste Hystrio, Teatri delle Diversità e InScenaOnline, rispettivamente a Daria Deflorian, Neon Teatro di Catania, Ludovica Radif. La sera, nella sede di Astragali Teatro, Metamorfosi restituiva in un linguaggio musicale e figurativo alcuni miti del primo libro del poema di Ovidio; uno studio ancora in progress, ove la nudità femminile, proposta quasi con noncuranza, eppure con forte suggestività iconica ed espressiva, assumeva un valore etico, quasi a risarcimento dello stupro sistematico che la civiltà dei consumi, specie negli ultimi vent’anni, ha operato sull’immagine della donna. La terza giornata, dopo un trasferimento a Mesagne, è stata dedicata principalmente al progetto Teatri Abitati, cui era andato, assieme al Teatro Pubblico Pugliese, uno dei premi dell’ANCT. Dietro questa formula c’è l’idea, semplice ma geniale, illustrata con concitata passione dall’assessore Maria De Guido, di un’interpretazione originale del concetto di “residenza teatrale”, che coniuga l’esigenza di compagnie teatrali in cerca di un ubi consistam con quella di dare continuità di vita a spazi teatrali, a volte fascinosi, ma poco o nulla utilizzati. Una pratica non casualmente parallela a quella, promossa dall’associazione Libera in quegli stessi territori, che impiega in attività produttive sociali i terreni sequestrati alle organizzazioni mafiose e, come quella, atta a creare un rapporto virtuoso col territorio. Prima della presentazione delle principali residenze pugliesi (cioè dei Teatri Abitati), il gruppo Thalassia ha offerto agli ospiti, nel Teatro Comunale (un disadorno piccolo spazio all’italiana), Aspettando il vento. Nei modi della narrazione, in una scenografia costruita con legni spiaggiati, bianchi e contorti, che suggerisce un canneto, ma richiama anche forme o scheletri di trampolieri, si sviluppa una favola iniziatica, sospesa fra realismo e fantasia, materiata di un gusto affettuoso per l’osservazione della natura, con un finale aperto; scritta e raccontata con garbo ed efficacia drammaturgica, a misura di bambino. Per chiudere, riporterei una frase che il presidente dell’ANCT, Giulio Baffi, interpretando il sentimento di noi tutti, ha inviato a Ivano, Lino, Fabio, i nostri splendidi anfitrioni. “Per tutti i soci che hanno partecipato a questi nostri incontri è stata una bellissima esperienza di lavoro e di amicizia, di teatro e di scoperte di luoghi bellissimi. Saremo attenti alle realtà che ci avete mostrato e che nascono e crescono sul vostro territorio, ed ora bisognerà mettere a frutto impegni presi e desideri emersi”. la critica teatrale contemporanea in Grecia Prosegue il confronto per l’attivazione del progetto E-CRITICS (Electronic Collection of Reviews on International Theatre and Innovative Critical Studies) con uno sguardo a quello che accade nella penisola ellenica di Nicoletta Kokosioulis L Metamorfosi, Astragali Teatro Abstract 66 (Foto di Pierpaolo Fari) A t the beginning of November, ANCT (National Association of Theatre Critics) has been hosted in Salento – deep South of Italy – by Teatro Pubblico Pugliese, a public institution that links theatre companies and promotes the culture of drama in the region. During those three days ANCT had different fine opportunities: a profitable meeting among its members, where new policy lines were discussed; official awarding of Critic Prizes; happy discovering of an unknown cultural and social richness of theatre presence in that region. Last but not least, a friendly, warm atmosphere has marked and supported every moment of the stay. Rubriche La critica operatori della critica teatrale. Dopo un incontro con Assostampa, la discussione, proseguita la mattina successiva, ha evidenziato l’istanza di una maggior coesione dell’associazione, che non si appiattisca sul rituale dei premi ma che, anche attraverso una cadenza almeno annuale delle assemblee, favorisca lo scambio e il confronto di informazioni, conoscenze e idee. E già la modalità dei rapporti umani, scevri di formalismi, che in quei tre giorni si è stabilita tra l’ANCT, le istituzioni amministrative e le realtà artistiche sembrava informata a questa esigenza. A conferma di una rinnovata identità dell’ANCT, a un tempo coesa ed aperta all’esterno, si è già delineata l’ipotesi di un rapporto con Assostampa e con l’università, e la partecipazione, col Teatro Pubblico Pugliese, ad un gruppo di lavoro per la stesura di un progetto di formazione per operatori della critica. Piacevoli sorprese ha riservato, in serata, la “Finestra sullo spettacolo in Puglia”, una presentazione, sia dal vivo, sia con l’ausilio di brevi video, della locale realtà teatrale e della danza. Il giorno successivo, dopo la conclusione dell’assemblea, il tedesco Thomas Engel – occhi azzurri, lunghi capelli grigi – esponente del segretariato generale dell’ITI (International Theater Institute), ha alzato lo sguardo su una prospettiva di respiro internazionale. Introdotto da Fabio Tolledi, di Astragali, presidente della sede italiana dell’ITI, Thomas ci ha illustrato l’attività dell’istituzione, nata nel ’48 per iniziativa dell’UNESCO, invidiabile per le sue molteplici funzioni ed articolazioni operative, diffusa in tutto il mondo, anche nei cosiddetti paesi emergenti, e presente pure in Italia. Più tardi, al Teatro Paisiello, la cerimonia dell’assegnazione dei premi è stata improntata a quella stessa atmosfera informale e calda che, fin dall’inizio, aveva caratterizzato i lavori. Il direttivo dell’ANCT, seduto in palco assieme ai premiati, con simpatiche, estemporanee inversioni della scaletta, leggeva le motivazioni, e consegnava i premi: non fredde targhe di metallo, ma piatti artigianali in ceramica, modellati e personalizzati da un artista locale. A tratti, in questa dimensione d’antan, irrompeva la tecnologia, con gli SMS di saluto e di ringraziamento degli assenti. Premiati Carlo Formigoni, Circo equestre Squeglia (di Alfredo Arias), Babilonia Teatri con Gli Amici di Luca, Serata a Colono (regia di Mario Martone), Pippo Delbono, Alessandro Averone, La classe (regia di Nanni Garella), Roberto Zappalà, Imma Villa, i fratelli Mancuso, Le Nuvole Teatro di Napoli, Michele Santeramo, Daniela Ardini, Michalis Traitsis. Premiata anche un’istituzione, il Teatro Pubblico Pugliese e Teatri Abitati. Il premio alla carriera, intitolato a critica teatrale può considerarsi una scienza? Certo è necessaria una grande cura “scientifica” nell’evidenziare gli elementi da giudicare, nel comporre le coordinate storiche, nel motivare il giudizio. Il teatro è storia antica in Grecia - e il pubblico era allora in qualche modo anche giudice. Ora invece il critico teatrale si assume il compito di essere tramite tra l’evento artistico e i singoli lettori di giornali/ dei siti web. Una delle caratteristiche della critica in Grecia in questi ultimi decenni è forse la particolare provenienza delle firme più importanti, con formazioni molto differenti, dagli studi di archeologia, giurisprudenza o economia. Tra i nomi più importanti da ricordare, a fondamento dell’esercizio critico più recente, Politis, Ploritis, Lignadis. Da citare inoltre: Gianni Varveris, personalità poliedrica, laureato in Giurisprudenza all’Universita` di Atene, prosatore, traduttore, saggista, studioso - molti i riconoscimenti - oltre che critico teatrale dal 1976 per riviste e giornali (kathimerini); Kostas Georgousopoulos, laureato presso la facoltà di Storia e Archeologia e alla Scuola di recitazione del Conservatorio di Atene, ha insegnato per trentacinque anni, ricercatore associato al Dipartimento degli Studi Teatrali dell’Università di Atene, interessandosi anche di poesia e letteratura. Ha cominciato a scrivere recensioni nel 1971, collaborando con riviste e giornali (VIMA, NEA). Ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Nazionale della Critica. Importanti le sue traduzioni - e il suo impegno in molte associazioni che promuovono la cultura teatrale. Sempre attento al teatro contemporaneo, delle nuove generazioni, promuove volentieri laboratori, seminari. Ercole D. Logothetis: anche se laureato in Economia, ha incominciato a interessarsi presto alla letteratura, alla filosofia, al cinema e al teatro. Professore della Scuola di Teatro ‘’Prova’’, saggista e critico teatrale. Marika Thomadaki: laureata in Storia e Archeologia e in letteratura francese all’Università di Atene, dove è ora docente presso il Dipartimento Studi Teatrali. Fondamentale il suo contributo al teatro con lezioni, seminari e, naturalmente, con Theatrografies, la rivista che dirige. C’è poi la critica legata al teatro lirico: Kyriakos Loukakos contribuisce notevolmente alla conoscenza e alla comprensione del teatro musicale, vasta la sua competenza su Maria Callas, essenziale il suo impegno critico su “Alba’’. E’ presidente dell’Associazione Nazionale dei critici teatrali e musicali. George Leotsakos, musicologo e critico musicale, ha una vasta esperienza che dura da oltre quarantacinque anni. Grande ricercatore, ha scoperto, vistando l’Albania socialista nel 1981 e nel1999, brani per pianoforte prima sconosciuti di compositori greci composti tra il 1847 e il 1908; Alexis Spanidis: vasti i suoi interessi, i suoi studi in antropologia, sociologia, filosofia, numerosi i titoli di studio, Bachelor, Master e PhD. Tra i più giovani in questo campo, ha lavorato al terzo programma di ERT, all’Opera Nazionale, al Ministero della Cultura, ecc. Editorialista per undici anni (2000 - 2011) alla ‘’Sera’’, ora è fortemente impegnato nell’associazione dei critici di teatro e musica e nell’aggiornare costantemente il suo sito personale. E’ dunque viva l’attività critica in Grecia. Sempre grande il rigore “scientifico”: di alto profilo la preparazione, consegnando al lettore elementi precisi su cui riflettere, lasciando, come ricorda Georgousopoulos, proprio allo spettatore la possibilità di formarsi un’opinione personale, ma potendo contare su recensioni serie, accurate, di giornalisti, di studiosi che hanno saputo conquistarsi con il tempo la fiducia del pubblico. Come è spesso capitato, ancora oggi può accadere che muti il giudizio critico nel tempo e iniziali insuccessi ricevano poi ampi consensi. Una questione di sensibilità teatridellediversità 67 Macao è diventato? Oca, ma… per ora! Prosegue l’indagine di Teatri delle diversità sull’effettivo recente cambiamento nelle politiche culturali a Milano attraversoun’attenta analisi delle esperienze di Eleonora Firenze Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle Arti estetica. Così come può svelare vasti divari l’adesione, più o meno positiva, a uno spettacolo da parte di uno sguardo esperto e da parte del pubblico. Cresce la preoccupazione per l’influenza della televisione, di Internet, che facilmente tendono a omologare le forme di gradimento e “spostano il pensiero critico e comprimono il gusto del pubblico verso il basso” (Ercole Logothetis). Così come dispiace l’opinionismo diffuso, “recensioni” (che tali non sono), scritte per lo più in forma anonima, superficiale: tende a svanire il riconoscimento della preparazione, dell’esperienza, della scrittura meditata - e il voto a “stelle” spesso si traduce in giudizio astratto, veloce, quasi un invito a evitare di leggere l’articolo ragionato. Che fare? Perché bisogna lottare per ritrovare il senso del proprio ruolo. Con la crisi economica chiudono riviste e giornali e spesso la critica teatrale viene affidata a semplici giornalisti, privi di cultura specifica. Ma vale la pena andare avanti, individuare percorsi positivi. Migliorando l’educazione teatrale a tutti i La seconda edizione del Festival di Kastoria Alexiada, con musiche e arti performative La ricerca scenica contemporanea qui si accosta bene alle celebrazioni storico artistiche tradizionali di Valantis Fokas A volte non basta che l’ imperatore sia nudo, occorre che i suoi sudditi aprano gli occhi per vederlo. Dal nostro arrivo a Kastoria il 21 Agosto abbiamo sentito una città in lotta contro la crisi e il ristagno estivo. Ma il festival era lì, con il suo impressionante manifesto e una moltitudine di volontari, a resistere alla crisi e all’ apparente stasi del dopo-vacanze. La citta’ stessa era all’erta, circondata dalla sua superba bellezza, l’eredità bizantina e l’affascinante lago. L’apertura del festival è stata affidata ad uno spettacolo del gruppo “Myisis”, alla chiesa di Madonna Cubelidiki: sotto la luna piena, 40 persone hanno attraversato la storia con testi, balli, canti, costumi e tradizioni. E’ stata quindi la volta dell’ apparizione di Anna Komnena, che in questi giorni si stacca dagli affreschi per poi sparire nelle acque oscure del lago. Il 22 ancora una veglia nel monastero di Madonna Mavriotissa, accanto al lago, con canti bizantini di toccante teatralita’. Il 23 un concerto di musica greca del cantante, ormai storico, Chronis Aidonidis. Nei giorni seguenti la mostra di bozzetti dei monasteri del monte Athos dell’ architetto Vassilopoulos, presentazioni di libri, letture teatrali al mercato medievale-dove il gusto delle 68 livelli, rafforzando le associazioni che si interessano di spettacolo e quelle che diffondono e approfondiscono l’esercizio critico, rinnovando le modalità di assegnazione dei premi, collaborando con le università, e così via. Fondamentale l’alleanza tra le generazioni, per consegnare sapere, ma anche per rinnovarlo. In questi tempi difficilissimi è forse importante anche avere il coraggio di selezionare, di scegliere chi davvero ha le qualità per lavorare correttamente nell’ambito della critica teatrale? Riportare l’attenzione su chi ha seri studi alle spalle, ha visto tanti spettacoli, sa riflettere in termini di stili, di mutamenti estetici? Come fare in modo che il pubblico si renda più sensibile a queste forme di lavoro più “scientifiche”? Secondo Logothetis al critico viene richiesto, insieme alla conoscenza del passato, della storia, “la capacità di guardare oltre, vedere, riconoscere i futuri orizzonti, avendo l’olfatto del cane, l’ottima vista del falco, la velocità del ghepardo e l’astuzia della volpe”. mercanzie tradizionali si mescolava con l’ autenticità dei mercanti-fino ad una gita guidata per la città ed un progetto educativo per bambini, a testimoniare le eclettiche scelte degli organizzatori. Il 28 “La Vaga Harmonia” del tenore e maestro pugliese Fabio Anti con musica Rinascimentale: Monteverdi, Frescobaldi, Landi ed altri, interpretati con profonda conoscenza e sensibilità. Giustificando il titolo “Alexiada, festival di musica antica ed arti performative”, con lo spettacolo “Bradamante e Marfisa”Tania Kitsou, direttrice del festival, ha curato un allestimento traducendo un frammento dal voluminoso poema di Ariosto: prestandosi al teatro totalitario (parola- azione fisica- gioco e tradizione) ha creato uno spettacolo magico. Chiari i riferimenti al Kabuki sia nei cambi dei livelli scenici che nell’ immobilità di Bradamante contro Marfisa. Lo spettacolo e’ stato uno dei momenti forti del festival. Il 31 agosto nei giardini della Diocesi il Coro dell’ Universita’ Musicale Ionica con l’ opera di Dimitris Maragopulos “Elafos”(Cervo), basata su frammenti rielaborati della liturgia paleo -cristiana di S. Marco. Con saggezza e intuizione il compositore ha usato le due clavinove, il coro misto, la lira tradizionale e un cantante. Il concerto, un vero rituale, ha commosso tutti, che già si preparavano per il gran finale: la rappresentazione della consegna di Kastoria all’ Imperatore Alexios. Domenica 1 settembre alle 21.00 la processione, guidata da circa 30 cavalieri, con candele e fiaccole, è giunta a Mavriotissa. Costumi bellissimi, tantissima gente, applausi nel momento in cui Anna Komnena “entra nella barca azzurra e, spinta dalla brezza notturna, si allontana sulle acque argentee del lago Orestiade”, nome che ci ha spinto a parafrasare i versi di Eschilo in “Agamennone”. S ul sito web di Macao si legge: “L’esperienza di Macao dimostra che una comunità di cittadine e cittadini, lavoratrici e lavoratori, con i propri corpi, le proprie intelligenze e competenze può ripensare uno spazio abbandonato ridefinendolo come bene comune e legittimandosi attraverso processi costituenti fondati sulla partecipazione attiva. Questo processo di riqualificazione, cura e ridefinizione dello spazio prende forma intorno ad un nuovo immaginario, che ridisegna un edificio di grande valenza storica lasciato fino ad ora nel degrado, per restituirlo alla cittadinanza come un luogo da poter vivere, attraversare e partecipare, dove produrre e fruire arte e cultura”. Lo scorso febbraio sono andata a vedere questo luogo a Milano in Viale Molise 68. Era un giorno di pioggia, umido e freddo. Uno spazio, che lascia immaginare la sua bellezza nei primi anni del Novecento, riproduce nello stile una corte, chiusa, quadrangolare, con porticato e lampadari d’epoca agli angoli; un tetto di vetro, molto liberty e molto sporco, attraverso cui filtra una luce invernale. Immediato il pensiero a come potrebbe essere incantevole questo spazio in una giornata di sole. Nelle tante stanze, intorno alla corte, molti oggetti accatastati, mobilio vecchio e malconcio, per lo più. Una grande umidità. Un ragazzo molto assonnato vaga per le stanze pulendo e mettendo a posto. Uno sforzo insufficiente. Ovunque bidoni di rifiuti, differenziati però. Una cucina con mestoli appesi, che però – detto tra noi non fa venir voglia di mangiare. Al piano superiore stanze per il pernottamento, destinate a chi sta “occupando”. Un caffè letterario, una biblioteca e sale per riunioni sui vari progetti. Un workshop in corso: “Io e un altro”. Molti hanno creduto nella possibilità di “appropriarsi” di questo spazio per dare voce e risposte concrete alle esigenze di socializzazione, di realizzazione di progetti creativi, di autonomia gestionale rispetto alle esigenze di un territorio, ma soprattutto di una generazione, la più nuova, la più bisognosa di prospettive e di futuro. Macao però non ha ottenuto dal Comune di Milano la gestione di questo spazio. Ha invece indetto un bando per la gestione delle attività culturali e creative in uno spazio alternativo, la ex sede dell’Ansaldo in Via Tortona. Il bando è stato vinto nel 2012 dalla società Barley Arts, fondata nel 1979, che da 35 anni è attiva nel mondo dell’intrattenimento musicale con la direzione di Claudio Trotta. Ed ecco le Officine Artistiche Ansaldo, OCA. Sempre in febbraio, ho visitato anche questo spazio e ho visto un cantiere in piena attività. Una struttura fatiscente, ma già tutta fasciata da impalcature e Rubriche Teatro e cambiamento ANAGRAMMA DA SVELARE veli di plastica gialli a protezione dei passanti. All’interno ruspe, camion, operai al lavoro. Uno spazio in divenire. Sono andata all’Università statale di Milano, sede di Via Noto, dove c’è il corso di studi in Scienze dei Beni Culturali. Ho intervistato molti studenti e, mentre tutti erano a conoscenza della realtà culturale Macao, per avervi partecipato direttamente o per averne sentito parlare, nessuno era al corrente della nuova sede OCA, Officine Creative Ansaldo. Per Macao la parola più usata è stata “entusiasmo”, seguita subito dopo da “mancanza di continuità”. Alcuni mi hanno detto che si possono organizzare cose in tanti posti, non necessariamente nella sede Macao, visto che hanno fatto liberare gli spazi occupati. Poi: “Tanta protesta per che cosa? Anche quando erano lì che cosa hanno fatto? A parte la presenza di politici vari?”. E anche: teatridellediversità 69 Abstract L ast year, many young people occupied the Galfa Tower in Milan with the scope to change the use of a deserted and empty place, defining it as common owner-ship and obtaining the relative right for it to exist through constituting processes based on active people participation. They were looking for a place in which it could be possible to live, participate, produce and use art and culture. Municipality of Milan considered this action as an attack and and forced them to live the place: Ex Officine Ansaldo, named OCA: Officine Creative Ansaldo www.ocamilano.it. Then issued an announcement to identify an organization able to manage it. In 2012 the winner was in 2012 the Company Barley Arts active in this field for 35 years. Important building reconstruction works started. Remained excluded, the guys decided that they would occupy another place, an old, beautiful and empty building of the last century and named this organization MACAO www.macao.mi.it. During these last months the activities in both palaces increased a lot with very important data, regarding organizations, workshops, events, shows and number of people involved. The last political action of the Macao organization is to denounce other deserted public buildings in Milan and write on their walls the quantity of square metres available and not used, almost 900.000. They are asking politicians to believe and invest on young generation. The guys of Macao are demonstrating they are able to manage this kind of structure. Why do not give them trust, new responsibilities and regulated freedom? “Con i problemi che ha l’Italia questo non è stato più seguito, è passato in secondo, terzo, quarto etc. piano”. Qualcun altro ritiene che nella sede di Macao vengano fatti ottimi concerti, ma poco pubblicizzati. Mi raccontano che ci sono persone che lavorano al suo interno gratuitamente, che se ne occupano praticamente a tempo pieno. Esclama una ragazza: “Che bello il Comune sta facendo qualcosa, ma realisticamente…? Non succede niente, come al solito!”. Un’altra ancora mi fa notare che l’autogestione ha dei lati positivi, ma anche negativi. Il lato negativo dell’occupazione è che prima o poi inizia una fase di decadenza, si lascia che le cose vadano come vadano… Alla fine, convinta, mi dice che ci vuole qualcosa di strutturato, anche perché noi viviamo in una città civile e questo è necessario. Un ragazzo dall’aspetto molto alternativo esplode con: “Se OCA è governato perché serve a qualcosa, bene, se invece è per lucrare etc. allora non serve a nulla”. Incontro altre due ragazze che, una volta sentita la notizia dell’attività OCA dicono: “Ben venga! Così ci sarà spazio per gli emergenti”. Pare che ci sia molta confusione, soprattutto disinformazione. Il tempo è passato. Le attività non si sono fermate. Nelle Officine Creative Ansaldo, nei tre padiglioni, Agorà, Palco e Primo Piano, destinate rispettivamente alle attività creative ed emergenti con ingresso libero, a realtà culturali consolidate, concerti e spettacoli a pagamento e ad esposizioni e laboratori artigianali, hanno partecipato da allora oltre 200.000 persone, con numeri importanti: più di 100 associazioni che hanno prodotto 20 mostre, 23 laboratori, 60 serate di musica dal vivo e 8 botteghe artigianali con residenza stabile presso OCA. www.ocamilano.it. Ma anche nella sede di Macao c’è stata una notevole evoluzione. I ragazzi hanno continuato con i loro 70 progetti, seminari, workshop, incontri e spettacoli. I temi toccati raccontano di quanto grande sia il desiderio di essere attivi su tutti gli aspetti sociali e culturali. Dall’editoria con un festival ad essa dedicato “Macao in edito” all’architettura con “Architettura Città bene comune”. Dall’attenzione al problema della violenza sessista con “Occupare il conflitto” alla necessità di legittimazione della cittadinanza attiva. Dalla formazione teatrale con corsi di auto-formazione alla costituzione della Free University. Dalla necessità di esprimere l’arte con il Festival Zenobia, con danza, teatro e arti performative, ai workshop fotografici e alle proiezioni cinematografiche. Ma c’è molto di più: la costituzione di un centro sociale autogestito, con tanto di sito web altrettanto ben fatto www.macao.mi.it. Le ultime attività riguardano la denuncia dei tanti metri quadri vuoti e disponibili a Milano. E lo hanno scritto sui muri di questi spazi abbandonati: Torre Galfa, 26.000 mq.; Ex Macello Via Lombroso, 800.000 mq.; tanti altri ancora nella ex sede del Provveditorato agli Studi di Via Ripamonti. L’operazione si chiama: “Non è mica la Luna”. Si sente forte, in questi atti di denuncia, il desiderio di appropriarsi della gestione di spazi cittadini abbandonati per organizzare attività di aggregazione sociale secondo i propri modelli. Altrettanto forte si sente l’esigenza che da parte della pubblica amministrazione e della politica sia più vivo l’interesse per il mondo giovanile, più concreta la convinzione della necessità di investire sul loro presente e sul loro futuro, impegnando in modo serio e competente fondi e menti. I ragazzi di Macao stanno dimostrando che sono capaci e che anche i cosiddetti “centri sociali” sono cresciuti in maturità e competenza. Perché non investire su di loro? (5 agosto 2013) Letteratura e teatro Dialoghi a distanza Edmund de Waal, “Un’eredità di avorio e ambra” - I.J. Singer, “La famiglia Karnowski” due testi alla ricerca dell’identità ebraica Rubriche Margini & frontiere COMUNICAZIONI INATTESE di Valeria Ottolenghi Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle “Viktor impara che amare la Germania significa amare l’illuminismo. Che tedesco significa emancipazione dall’oscurantismo, significa Bildung/cultura, sapere, il viaggio verso l’esperienza. La Bildung, è sottinteso, sta nel passaggio dal russo al tedesco, da Odessa alla Ringstrasse, dal commercio dei cereali alla lettura di Schiller...” Edmund de Waal, “Un’eredità di avorio e ambra”, Bollati Boringhieri, 2010, p.149 curatore di collane, direttore artistico di festival, e così via. Sì: un problema di sovrapposizioni, intrecci di competenze e ruoli che riguardano certo non solo il teatro. Ma la differenza è anche nella quantità e nell’omologazione? Malgrado la moltiplicazione dei siti di teatro ancora pare di “Quando [David], ragazzino, studiava il tedesco sulla traduzione della Torah di Mendelssohn si era sentito attratto dal paese al di là della frontiera, da cui veniva tutto ciò che era buono, illuminato, razionale....Berlino rappresentava per lui la cultura, sapienza, nobiltà, bellezza, luce attingibili solo in sogno. Ora vedeva l’occasione di realizzare il suo desiderio...andare laggiù, oltre frontiera... Israel Joshua Singer, “La famiglia Karnowski”, Adelphi, 2013 “La speranza si proietta nel futuro per riconciliare l’uomo con la storia...Questo spirito dell’utopia è custodito soprattutto nella civiltà ebraica... Il disincanto è una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza; ne modera il pathos profetico e generosamente ottimista, che facilmente sottovaluta le paurose possibilità di regressione, di discontinuità, di tragica barbarie latenti nella storia” Claudio Magris, “Utopia e disincanto”, Garzanti, 1999 B ellissimo lo scatto di Marisa Zanzotto a Radicondoli durante l’ “Aperitivo critico” legato alla cerimonia dei premi dedicati a Nico Garrone: “questo è un problema che vale per tutti, non solo per il teatro!”. Preziosa lì la sua presenza: aveva voluto portare a Luca Ricci - uno dei premiati per la sezione “progetti” - un regalo del tutto speciale, una formella con un’incisione per mano del marito, Andrea, poeta tra i più grandi, con pochi versi, proprio alcuni di quelli utilizzati da Ricci in un suo spettacolo. Una grande emozione. Ma la presenza della Zanzotto si è fatta poi sentire forte, limpida e decisa, quando si è affrontato il problema della critica oltre la scrittura, per l’impegno dell’intellettuale su più fronti, non solo per l’indagine analitica, la recensione, ma anche come figura più complessa, promotore di mostre e rassegne, teatridellediversità 71 72 distanza, con l’utopia e il disincanto che attraversano entrambi i romanzi, a creare nuove corrispondenze, non importa quanto siano esistite “realmente” le diverse figure tratteggiate da de Waal e Singer. Senza bisogno di rimettere in gioco le variabili del romanzo storico. Al figlio appena circonciso David Karnowski aveva detto in ebraico e in tedesco (non in yiddish, lingua ripudiata dello shtetl di Melnitz, la terra polacca delle origini): “Sii un ebreo a casa tua e un uomo quando ne esci”. Nella sala da ballo del superbo palazzo viennese fatto costruire da Ignace Ritter von Ephrussi (sì: nominato cavaliere l’ebreo arrivato da Odessa, banchiere dalle sostanze favolose), del 1869 la forma del contratto con l’architetto Hansen, “all’improvviso Ignace si lascia sfuggire un segreto. Se in altri Palais della Ringstrasse questa sala è riservata a qualcosa di paradisiaco, qui la serie di dipinti raffigura invece episodi biblici tratti dal Libro di Ester”. Con uno dei passaggi soggettivi di Edmund, che in fondo sta scrivendo della sua famiglia: “Complimenti, Ignace: un bel modo, tacito ma indelebile, di rivendicare ciò che sei”. Ma diversamente da David Karnowski, qui c’è anche una sorta di orgoglio da svelare, la sala “unico luogo della casa di un ebreo che i gentili hanno modo di vedere nelle occasioni mondane”. Un assaggio di affinità, di confronti possibili. Qui ora resta solo l’invito per molteplici altri riflessi, per il meccanismo dei tempi e la costruzione del filo narrativo (in de Waal si segue il percorso di una collezione - oggetti d’arte, i netsuke, minuscole statuine giapponesi - per raccontare degli uomini), le persecuzioni che fanno riscoprire un’identità ebraica forse a volte dimenticata nella dialettica senza fine tra fedeltà alle origini e assimilazione, fierezza d’appartenenza e desiderio laico d’emancipazione. Parigi, Vienna, Berlino: il diverso manifestarsi dell’antisemitismo. La definizione dei caratteri femminili e il problema dei matrimoni misti. Il tema dell’intellettuale, diversi i compiti dello studio, della conoscenza, della ricerca: ai due estremi Charles Ephrussi che sa riconoscere e valorizzare le nuove indagini pittoriche nella Parigi proustiana, alla nascita dell’impressionismo, e l’erudito talmudista chiuso nel suo spazio soffocante di libri (ma è sua la frase “La vita ama giocarci degli scherzi. Gli ebrei vogliono essere ebrei nelle loro case e uomini all’esterno, ma tutto si è complicato, noi siamo gentili nelle nostre case ed ebrei all’esterno”: anche lui in qualche modo capace di capire profondamente, di vedere oltre). Facendo attenzione anche al linguaggio tra sottile ironia e partecipazione, per i meccanismi della memoria tra documenti e ricordi, per i diversi gradi d’empatia con i personaggi (e a volte l’oggettività, più del vivace coinvolgimento dell’autore, si traduce in travolgenti emozioni con il sentimento della tragedia sempre incombente). Una mappa d’Europa che si espande, da Odessa e Melnitz alle grandi capitali - e poi ancora oltre, l’America, il Giappone... Così lo zio che accoglierà la famiglia Karnowski: Abstract “Io mi chiamo Harry. A Melnitz ero Hatskl, qui sono Harry... Quando sono sbarcato io, la metà di questo non esisteva. E’ stato costruito dopo. Un shtetl mica male New York, eh?” “Non aveva niente contro gli ebrei...[per gli acquisti, il medico, la banca]... Ciò nonostante marito e moglie sentivano gli ebrei estranei, li classificavano tra le persone poco affidabili, come gli attori, che si possono ammirare ma dai quali è sempre bene stare lontani”, I.J. Singer, “La famiglia Karnowski” Nell’ultimo romanzo di Baliani Il Bisogno di “credere” Le infinite svolte possibili nelle nostre vite, la memoria (in particolare legata al tempo delle scelte estreme) tra i temi principali del racconto “Sì, una parola, o anche meno, qualcuno fa un gesto, quel gesto apre uno squarcio, si spalanca un altro mondo, di colpo vedi il tempo in un altro modo”: Marco Baliani nel romanzo, breve, agile, “L’occasione”, intreccia temi che gli sono cari, l’idea delle infinite svolte possibili nelle nostre vite, la memoria (in particolare legata al tempo delle scelte estreme, fino alla lotta armata), il bisogno di “credere” (darsi una meta, sentire di avere un senso, di immaginare se stessi dentro un percorso di miglioramento non solo egoistico). La stessa narrazione, che vede i percorsi paralleli di Marcella e del figlio Matteo, ha bisogno di trovare respiro dentro un riferimento maggiore, l’evocazione della figura di Ginepro, il frate giunto “troppo tardi” (termini che tornano spesso, e con diversi echi, di pensiero, d’emozione, nel testo) per salutare Francesco, ormai in fin di vita alla Porziuncola. Torna in varie forme la presenza della droga, così come il bisogno di “riscatto” (anche qui: con molte sfumature). Numerosi i riflessi possibili, i fili che s’intrecciano, con alcune forti immagini dal segno anche opposto (come per gli uccelli, ricordo di San Francesco e insieme presenze inquietanti, da imprigionare per guarirli alla libertà). Le diverse foto tra le mani della madre e del figlio - un allievo svanito, catturato dalla droga; un gruppo di amici che avevano creduto alla possibilità di trasformare il mondo, armi in mano - sono come bussole che li guidano in un percorso di conoscenza fatto di molteplici incontri. Una professoressa di matematica che probabilmente avvertiva da tempo il bisogno di una svolta, forse proprio di una motivazione forte oltre la routine quotidiana; un figlio che, saputo quanto accaduto a suo padre - non era morto in un incidente d’auto prima che nascesse - cerca di sapere di più da chi aveva condiviso quelle scelte radicali. Con il meccanismo dell’interpretazione che, come sempre, complica la verità, inevitabilmente complessa, ambigua, sfuggente: impossibile? (Valeria Ottolenghi) Rubriche Margini & frontiere avvertire ogni volta, in chi scrive, l’impressione che quello spettacolo di cui si sta relazionando abbia instaurato un rapporto diretto, sentito, proprio con la singola persona, che avverte quindi una sorta di dovere di restituzione per tale regalo, le parole scelte con sensibilità, massimo rigore, le immagini definite con correttezza, i simboli scelti con estrema cura. La critica teatrale risulta in qualche modo più rara, accompagnata com’è da un percorso di accesso non semplice: andare a vedere uno spettacolo, magari in un’altra città, avendo moltiplicato tali appuntamenti per costruirsi una conoscenza di base abbastanza solida da poter affrontare il compito di giudicare, di scrivere. Questo per il teatro e, in generale, per lo spettacolo “dal vivo”. Una diversa dimensione. Le opere vivono nelle menti di chi le ospita. E lì costruiscono dialoghi. Per gli autori/ creatori stimoli che rimbalzano. Così, per esempio, i ritmi poetici di Andrea Zanzotto per Luca Ricci. Ma ancora si ricorda, esempio recente, l’emozione per il frammento del romanzo di Littell “Le Benevole” nel magnifico spettacolo di Anagoor Lingua Imperii. Influenze più o meno esplicite, a volte segrete, per suggestioni. Chagall e uno spettacolo di teatro danza, immagini, ritmi cinematografici e un dramma shakespeariano... Al critico anche il compito di nutrire il proprio sapere su più aspetti del contemporaneo, cercando di tenere aperta la comunicazione tra creazioni distanti anche nel tempo. Così per Charles nel libro di de Waal, con il suo catalogo dei disegni di Dürer, di cui “si serve [anche] come piattaforma emotiva e intellettuale dalla quale sostenere che le diverse epoche si influenzano a vicenda, che un disegno di Dürer può interloquire con uno di Degas. Charles sa che può succedere”. Non interessa dunque qui recensire i due romanzi delle citazioni iniziali, quanto, ripensando anche allo stimolo della Zanzotto a Radicondoli, sperimentare questo gioco di rispecchiamenti, sapendo che per le opere letterarie è molto facile trovare in internet una vasta molteplicità di riassunti e di indagini critiche (molto più che per il teatro). Inutile ricordare qui le trame, facilmente rintracciabili. Molti elementi inevitabilmente ripetuti per i personaggi di verità e finzione, la geografia storica, l’antisemitismo che cresce, si gonfia, si diffonde, esplode, la necessità dell’esilio, l’illusione tradita di un ebraismo illuminato che potesse tradursi in naturale integrazione...caratteri questi già comuni a “Un’eredità di avorio e ambra” e a “La famiglia Karnowski”, opere di grande respiro, colte, avvincenti, che attraversano la Storia, scandite entrambe per generazioni e luoghi, il primo strutturato come una ricerca nel tempo, delle proprie radici, con tanto di albero genealogico della famiglia Ephrussi, in fondo il nome dell’autore, nato nel 1964, seguito dai tre figli, un percorso solo parzialmente lineare, con il narratore che inserisce commenti, propri stupori e umori, e una sorta di circolarità legata al Giappone, con ampie permanenze a Parigi e Vienna; il secondo, scritto in yiddish, solo da poco tradotto in italiano, ha il narratore invisibile, i capitoli intitolati ai personaggi principali, David, Georg, Jegor, nonno, figlio e nipote, figure complesse ma a tutto tondo, un vero romanzo storico “all’antica”, capace però di oggettivare meravigliosamente, fino alla commozione, anche i propri anni, l’autore, Israel Joshua Singer, morto nel 1944, l’anno dopo la pubblicazione di quest’opera straordinaria, fratello del più famoso Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura 1978. “La storia dice gli eventi, la sociologia descrive i processi, la statistica fornisce i numeri, ma è la letteratura che li fa toccare con mano là dove essi prendono corpo e sangue nell’esistenza degli uomini”: è Magris, già coinvolto in questo dialogo a MARCO BALIANI L’occasione Rizzoli, 2013 € 18,00 R eflections between literature and theatre. The intellectual’s function. Books and cultural encounters as incentives for the artists. The critic’s role for live performances and new novels. The internet reviews. The important participation of Marisa Zanzotto at Garrone Award in Radicondoli. Affinities among different works: dialogue and similarity. Edmund de Waal, “The Hare with Amber Eyes” and Israel Joshua Singer, “Karnowski Family”: very interesting the charm exerted by Berlin in the shtetl world for the people who wanted to emancipate and loved Enlightenment. Parallelisms are many, about diffusion of anti-Semitism, Jewish identity, for a mix between humour and tragedy... teatridellediversità 73 Recensioni Spettacoli Francesco Colella e Francesco Lagi DA UN CASO LETTERARIO Francesco Colella in Zigulì Un distillato di tenerezza, rabbia e poesia Lo spettacolo Zigulì, interpretato da Francesco Colella con la regia di Francesco Lagi, visto al Teatro di Ringhiera di Milano lo scorso marzo, nasce dal testo omonimo di Massimiliano Verga, e ha per sottotitolo La mia vita dolceamara con un figlio disabile. di Claudio Facchinelli L ’autore insegna sociologia all’università di Milano-Bicocca; ha superato la quarantina, ma ha un viso da ragazzino, che contrasta con la corta, folta barba nera; per ora, è alla sua prima esperienza letteraria. Non si tratta di un saggio, né di un diario, ma di una serie di annotazioni, alcune di poche righe, al massimo di un paio di pagine, disposte in ordine casuale, non cronologico. È un testo singolare, da cui stillano momenti di tenerezza ed espressioni di rabbia, afrori scostanti di liquidi organici e squarci di poesia. Pubblicato nel 2012 da Mondadori, in pochi mesi è diventato un caso letterario, e un anno dopo è stato riedito negli Oscar. Prima di vedere lo spettacolo, non avevo letto per intero il libro: la sua struttura, dichiaratamente rapsodica, mi aveva indotto a scorrerlo ad apertura di pagina; e mi ero convinto di averne capito il senso, almeno per potere scrivere una recensione non superficiale dello spettacolo che ne era stato ricavato. A posteriori, leggendo per intero quella prosa dalla struttura dimessa, dal linguaggio quotidiano, basso, ne sono stato catturato. L’ho letto d’un fiato, in un pomeriggio, continuando a segnarmi i punti che mi sembrava necessario citare, fino a rendermi conto che, come fanno gli studenti che preparano un esame, stavo annotando quasi ogni pagina. Da quella successione 74 Preludio dramatico e Musical per Constantino Cavafi-Festival della Accademia di Belle di frammenti – che Verga, con quel feroce, eppur tenerissima ironia che percorre l’intero libro, chiama epitaffi – prendeva forma, come per inviluppo, non solo il ritratto di un tormentato, ma fortissimo rapporto d’amore fra lui e il figlio, ma una visione della vita. Colpisce, nel libro, oltre a una disarmante sincerità, l’assenza di qualsiasi compiacimento, o di captatio benevolentiae. Il testo è strutturato come una frammentata serie di confidenze, per lo più rivolte a Moreno, il figlio cieco dal cervello grande come una , una Zigulì caramella. Ma non mancano invettive indirizzate a un mondo che non sa rapportarsi con la disabilità, all’inefficienza di chi dovrebbe prendersene cura, all’inadeguatezza delle strutture logistiche, alle reazioni ipocrite di chi la incontra; vi si trovano frecciate nei confronti di inservibili, inconcludenti manuali che ne dissertano, di pretenziosi accademici che li scrivono. Ma emergono anche figure tratteggiate con affetto, in punta di penna: alcune insegnanti, o giovani che hanno trovato una via praticabile e solidale per occuparsi di Moreno. La madre e i due fratelli, Jacopo e Cosimo, compaiono solo di passaggio, pur in pagine di grande intensità, ma specialmente si parla del rapporto, totalizzante, fra lui e il figlio. “Avrei voluto parlare di Moreno”, confessa l’autore in una delle ultime pagine, “invece ho parlato soltanto di me stesso”. “Zigulì l’ho scritto in una notte; il resto a pezzettini; di solito, sul tram. Nasce come un diario”, mi dice Verga, “e un diario lo scrivi per te stesso. È diventato un diario pubblico perché ho capito che le mie parole avrebbero potuto essere d’aiuto anche ad altri. Dopo due anni, e centinaia di e-mail ricevute, posso dire di non aver sbagliato”. Da un libro come questo non era facile trarre uno spettacolo teatrale. Il regista, Francesco Lagi, mi spiega cosa l’ha convinto ad affrontare questa sfida. “Il libro me lo ha fatto conoscere Colella. La temperatura emotiva delle parole e delle scene del libro mi è sembrata subito densa. C’è qualcosa di urgente nel racconto, di molto immediato. Questo è stato l’elemento che, senza troppo pensare, ci ha spinto a farne uno spettacolo. Da subito ci siamo resi conto che dovevamo fare delle scelte: volevamo restituire l’emozione forte che avevamo avuto leggendo. Mi sembrava che ci fossero gli elementi emotivi per farne teatro”. La struttura senza tempo del libro diviene un non luogo del palcoscenico, uno spazio indefinito con palloncini sospesi; un universo chiuso, abitato solo da Moreno, “così inutile e così indispensabile”, e da suo padre. “Quando lo spettacolo inizia,” mi dice ancora Lagi, “il nostro personaggio è immerso nel disordine, e a poco a poco la scena si pulisce ed emerge un pavimento bianco, in un andamento realistico e anche emotivo. Quello che fa in scena ha un rapporto stretto con quello che dice e che pensa in quel momento. I palloncini, che rimangono con lui per tutto il tempo dello spettacolo, sono all’inizio elementi riconducibili alla festa appena finita, poi assumono via via un aspetto simbolico: sono addirittura i suoi tre figli. Ed è proprio al volo e alla leggerezza di uno di quei palloncini che il padre affida la lettera che ha scritto sul futuro di suo figlio disabile, quella lettera che lui non potrà mai leggere. Abbiamo calato il personaggio in una situazione domestica e notturna, alla fine di una festa di compleanno, dove rimangono i resti di una torta e dei giocattoli sparpagliati. Questa notte è l’occasione per il padre di fare i conti con suo figlio e con se stesso”. La colonna sonora spazia da rumori della natura, come il frinire di grilli, il cinguettio di uccelli, un carillon, il rock più duro; ma fa risuonare anche il quinto Concerto brandeburghese di Bach, cui Moreno sembra particolarmente sensibile. Il padre, inizialmente, si pone delle domande: perché a Moreno è toccato questo? Poi si sofferma sull’ipocrita inadeguatezza dell’espressone “portatore di diverse abilità” e, forzando le regole del politically correct, preferisce usare il più diretto termine “handicappato”, o “disabile”. E, a poco a poco, lo spettacolo ci fa entrare nel suo mondo, spiazzandoci con la sua brutale franchezza, ma anche con la tenerezza, che a volte sembrano collidere, ma che mostrano – vorrei dire, finalmente – un approccio all’handicap tanto lontano dalla retorica quanto dal pietismo: un approccio fatto di ironia, di disperazione, di amore, anche e specialmente di concretezza: “Se morirai prima di me, soffrirò di meno. Non è un discordo da padre, lo so. Un padre non dovrebbe nemmeno pensarle certe cose. Ma nel tuo caso è così”. Sul finale, si rivolge ai due fratelli, Jacopo e Cosimo: “Quando sarò costretto a fermarmi, se sarà ancora al mio fianco, Moreno dovrà prendere la mano di qualcun altro, per proseguire. [...] Quelle quattro noccioline che avrò messo da parte, dovrò metterle nelle sue tasche, perché lui non potrà raccoglierne delle altre. Voi sì”. Ma il senso profondo del suo sguardo su Moreno sta in una battuta, una delle più fulminanti del testo: “Quando ridi, non me ne frega un cazzo di tutto quello che succede intorno”. E lo spettacolo si chiude con un’ultima, luminosa immagine di poesia, metafora di quel problematico, amorevole rapporto col figlio: “Perché con Moreno è come camminare in un prato pieno di margherite: non sai dove mettere i piedi, per paura di schiacciarle”. Abstract Z igulì is a book by Massimiliano Verga, whose subtitle is My Bittersweet Life with an Handicapped Son. It’s not an essay, nor a diary, but a set of notes about the relationship between the father and Moreno, the handicapped boy: sometimes tender, sometimes desperate, with spots of poetry but also of very prosaic images. To create a play from such a peculiar book was a challenge, but Francesco Lagi (director) and Francesco Colella (actor) succeeded in doing it. The main value of the play relies on an original sight on handicap, without any false piety, nor rhetoric, but a great love. The whole work is outlined by its last sentence: “Because with Moreno is like to walk on a field full of daisies: you don’t know where to put your foot, for the fear of stepping on them”. teatridellediversità 75 Recensioni Festival Il richiamo dell’arte Teatri Paralleli Una metamorfosi degli spazi fisici per la terza edizione del festival anima, oltre a Napoli, anche Caserta e Benevento con la partecipazione di molti artisti internazionali Ogni anno a luglio, centinaia di persone affollano la piazza centrale del piccolo borgo abruzzese e condividono collettivamente proposte di impegno sociale e civile. Il resoconto critico di uno spettatore di Fabio Rocco Oliva di Pierfranco Brandimarte Altofest è un festival internazionale d’arti performative ed interventi trasversali, ideato e organizzato da TeatrInGestAzione. Otto giorni in cui le case, le cantine, le terrazze, i negozi, le scale hanno mutato pelle, in cui le performance hanno dato luogo alla metamorfosi non solo degli spazi fisici ma soprattutto del guardare lo spazio non come geografia definita ma pagina bianca da colorare. Altofest non solo porta la cultura e l’arte e il bello in quei luoghi dove generalmente latita, c’è qualcosa di altro che rende tremendamente attuale l’energia che irradia. Perché Alto? Alto è tensione continua all’oltre, al confine più lontano, verso l’orizzonte che non si percepisce con la vista, come volo che non vuole raggiungere alcun nido, come virata improvvisa e sorprendente. Per scardinare la staticità affossante dell’oggi è necessario rifiutare il punto fermo, buttare giù le porte, allontanarsi il più possibile dall’arte come pacchetto ben confezionato. Gli uomini primitivi avevano colto l’essenza mutevole del mondo, metamorfica, mai stabile né completa ma sempre in movimento. In questa corsa continua il festival di 76 A SANT’OMERO LA SETTIMA EDIZIONE TeatrInGestAzione costringe gli artisti, i donatori di spazi, i cittadini, i giornalisti ad alzare lo sguardo e sfidare quella religio che soffoca, ad essere in alto sulle terrazze e in alto nelle cantine della pedamentina, di Materdei, del centro storico di Napoli per una riqualificazione che è umana e urbana. Attraverso l’atto creativo, il gesto poetico, Altofest non costruisce le fondamenta di un palazzo dorato dove riposare in beatitudine ma apre una voragine dove insiste una sorta di primigenio interrogativo: cosa vedo? Dove sono? Il teatro, e l’arte in generale, è occhio, vista non solo sensibile ma esplorazione nella totalità delle relazioni presenti in natura, è lanciarsi nell’incalcolabili reazioni tra gli elementi fisici del mondo. Infine è creare le infinite possibilità. In ogni luogo delle città e delle pulsioni creative, l’uno e il molteplice si con-fondono senza che l’uno escluda l’altro. Come per i primitivi un uomo poteva realmente trasformarsi in pianta o in animale, così il principio che brilla in Altofest: ogni luogo scelto, vissuto dagli artisti, dai donatori di spazio, dai cittadini, non è mai quello che il senso visivo coglie, ma attraverso l’opera poetica, il gesto poetico, quello spazio è altro: un giardino che abbraccia il panorama di una Napoli da cartolina è una piazza affollata dove un uomo vomita la sua ribellione in megafono (Diktat di Marco Tizianel); in una casa soppalcata due donne sono oggetti, un ventilatore è un danzatore che disegna l’ombra dei suoi pensieri (Gesamtkunstwerk a domicilio di Simona Rossi); in uno scantinato affossato e umido una coppia precipita sulla soglia di una porta, eternamente al suolo nel bilico (Freeze di Pietribiasi- Tedeschi); in una stanza di specchi le pareti sono alberi di una favola dove antichi cavalieri e mostri rincorrono la ciclicità della sconfitta (Cara mamma caro papà di Stalker Teatro); ancora cortili, terrazze e antichi conventi hanno reso materialmente visibile il pensiero di Pasolini, luoghi e persone colorate non tanto dei personaggi pasoliniani quanto della sua essenza profonda, quella malinconia che abbraccia la vitalità (Pasoliniana di Elisabetta Di Terlizzi progetto Brockenhaus). Una domanda si impone inevitabilmente: come è possibile che l’arte sia, quando essa rifiuti consapevolmente la forma compiuta? La logica di Altofest è altra dalle canoniche strutture: non domina il prodotto finito, ma si scatena la potenzialità. La bellezza infatti non risiede nella compiutezza ma nella tensione ad abbattere muri, nel porsi in quella frazione di secondo che precede l’atto e succede alla stasi, è quel frammento unico e irripetibile nel quale è possibile “vedere” non la macchina ma il bullone che si avvita al motore, il muscolo dell’operaio mentre si contrae, il sangue che fluisce nelle vene, una matassa organica di energia, di forze invisibili che dai corpi degli artisti evadono nel luogo e donano nuove geografie.Infine, viene alla mente (in dissolvenza) un’immagine che lega Altofest a Il richiamo della foresta di Jack London: il cane protagonista del romanzo, in una tappa del suo viaggiare tra monti deserti, scopre nel gelo della neve la possibilità di calore. Ecco in Altofest la visione famelica che crea la vita. La settimana di Teatri Paralleli 2013 inizia e finisce con due spettacoliparata sul tema della luna in cui ci è sembrato di leggere la vocazione del festival, il tentativo cioè di unire alla funzione terapeutica del teatro la ricerca estetica di nuovi linguaggi. Le due parate, interpretate dalla Compagnia delle Formiche e dai bambini del laboratorio di Cristina Cartone, stabilivano la similitudine tra l’attore disabile e il lato oscuro della luna inteso come uno spazio della stessa sostanza di quello in luce ma inesplorato e carico di possibilità: una metafora lirica e allo stesso tempo concreta. In questa prospettiva lo spettacolo migliore è stato senza dubbio Pinocchio dei Babilonia Teatri (progetto prodotto in collaborazione con l’associazione Amici di Luca-Casa dei Risvegli di Bologna), un’opera rigorosa al contrario di altre che ci sono sembrate dimostrazioni di laboratorio ancora premature come nel caso del primo spettacolo del festival, Una Piccola Ape Furibonda dell’Officina d’arte in movimento, che trattava la malattia mentale e il manicomio attraverso la vita intima di Alda Merini. Lo spettacolo procedeva per quadri: alla narrazione seguiva un’azione scenica corale a mo’ di didascalia, ad ogni quadretto un cambio musicale. La monotonia veniva interrotta soltanto dai contributi diretti della poetessa, video e stralci di poesie. Nella seconda serata abbiamo assistito allo spettacolo S’ogni Sogno lasciasse un segno, scritto e diretto dagli aquilani Comunità XXIV luglio. Si alternano sulla scena due video e due momenti teatrali. I video, realizzati dall’abile Francesco Paolucci, mostrano gli attori in un viaggio onirico coinvolgente mentre le parti dal vivo consistono in un rilassato talk tra la regia e il palcoscenico - parti queste che potevano essere di maggior interesse se messe in relazione ai contributi video e all’argomento onirico. La terza sera è la volta del Teatro del Paradosso di Ancona con i ragazzi della comunità Ceis di Pescara. In scena una commedia classica, Le Nuvole di Aristofane. Notevole l’attore protagonista che con la sua vis dialettale restituisce al personaggio di Lesina l’energia popolana. Nella quarta serata troviamo Pinocchio dei Babilonia Teatri e degli Amici di Luca, di cui abbiamo accennato in apertura. Lo spettacolo nasce dal laboratorio tenuto da Valeria Raimondi e Enrico Castellani presso la Casa dei Risvegli di Bologna e dalla partecipazione sulla scena di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton. Una scena snudata su cui gli attori salgono in mutande, snudati anch’essi – raccontano la loro storia incentrata sull’esperienza del coma. Assistiamo a un colloquio intimo, sostenuto dalle domande della regia - un interlocutore asciutto e privo di indulgenza retorica tanto da evocare la conversazione di un medico specialista. Pinocchio incombe come un simbolo vivo, è sul palco, è un attore con un naso posticcio che siede immobile o si muove appena. Pinocchio entra a volte nelle domande della regia come un’allusione, uno sfondo sul quale si proiettano le vicende e che, sul finale, viene in evidenza con l’ascesa di uno dei tre protagonisti, il più fragile e segnato dal trauma, che agganciato a una fune si solleva sul palcoscenico come un burattino coraggioso che aspira a un livello ulteriore di umanità. Nell’ultima serata Il Dirigibile di Forlì presenta Esperando, una rielaborazione di Aspettando Godot che pone l’accento sul conflitto tra i poveri disgraziati della piece e il ricco Pozzo, interpretato e berlusconizzato dal regista della compagnia Michele Zizzari. Nonostante l’interessante rielaborazione il testo a tratti rischia di tenere poco conto delle potenzialità degli interpreti. Recensioni Festival ALTOFEST Abstract T he 2013 edition of Parallel Theaters opened and closed with a show-parade, which set out the similarity between the disabled actor and the dark side of the moon as a space to explore, rich of expressive possibilities. It seemed that the metaphor enclose the vocation of the festival, which is to combine the theatrical therapeutic play with aesthetic research of new languages. In this sense, the best show of the edition was Pinocchio by Bailonia Teatri, a show that lays bare the fragility of the actors marked by the experience of coma and at the same time it expresses a desire to return to life as fragile wooden uppets wish an additional level of humanity. teatridellediversità 77 Recensioni Festival MINSK / BIELORUSSIA UN FESTIVAL DI DANZA VIRTUOSO E SOSTENIBILE Hangartfest promuove la cultura della danza e sostiene i giovani artisti senza costi per la collettività di Gloria De Angeli L’obiettivo di questo festival, che nasce e cresce a Pesaro, nelle Marche, per volontà di Antonio Cioffi, è da sempre quello di promuovere la danza e favorire lo sviluppo di una cultura coreutica sul territorio marchigiano. Attraverso proposte di carattere professionale, sperimentando forme e modalità sempre differenti, Hangartfest è oggi un ricco contenitore di momenti performativi, mostre, conferenze e installazioni dedicate alla danza - e non solo - che si svolge nei locali di una scuola di danza: l’Atelier Danza Hangart (diretto da Rosanna Gorgolini). Una scelta che non è dovuta al caso, o alla necessità, ma che rispecchia una precisa concezione di “scuola di danza” quale base per la formazione culturale, oltre che per la preparazione fisica, di un danzatore. Fin dalla sua costituzione nel 1992, Atelier Danza Hangart ha offerto ai suoi frequentatori una intensa attività culturale e performativa, sicuramente rara, per non dire unica, nel circuito delle scuole di danza del territorio, con artisti-ospiti del calibro di Giorgio Rossi, solo per citarne uno. Iniziative che si sono susseguite negli anni in maniera episodica e casuale e che hanno trovano finalmente una contestualizzazione ben precisa in Hangartfest, nato nel 2004, e da allora diretto da Antonio Cioffi, con la volontà di organizzare un festival con cadenza annuale che programmi una serie di proposte artistiche e diventi un punto di riferimento per appassionati di danza, favorendo la fruizione e creando un contesto dal carattere intimistico con al centro lo spettatore. Questa vocazione è stata ribadita dal programma della sua X edizione (1- 28 settembre). Ancora una volta lo spettatore è stato in prima persona, attivo nella scoperta dei vari eventi proposti, tra i quali la conferenza “Cent’anni di Monte Verità” condotta da Eugenia Casini Ropa e dedicata a Rudolf Laban, i laboratori “Creativity, Space and Laban Theories” (condotto da Ingvild Isaksen) e “L’Arte dell’Improvvisazione” (composto dal percorso danza condotto da Susan Sentler e dal percorso teatro condotto da Francesco Gigliotti) e una intera giornata (quella di sabato 28 settembre) di eventi non-stop con video proiezioni, installazioni, performance e musica, dove lo spettatore si è sentito libero di costruire il suo programma e dove è stato possibile incontrare momenti performativi interattivi. Anche se con un carattere definito “intimistico”, Hangartfest non si preclude occasioni di apertura verso l’esterno. Un passo in tale direzione è stato fatto con la vetrina “Essere Creativo”, iniziativa nata nel 2011 per offrire la possibilità a coreografi e performer emergenti di tutta Italia e Europa di presentare il proprio lavoro rispondendo ad un invito pubblico. Continuando sul carattere di apertura che ha contraddistinto la decima edizione di Hangartfest è da citare l’intensificarsi dei rapporti con altre organizzazioni ed enti del territorio. Hangartfest, infatti, fa parte di Ortopolis_Arti in rete ed è partner - insieme a Proartis, Teatro Aenigma e Associazione Nuovo Cinema - del progetto “L’arte dell’improvvisazione” nell’ambito del progetto REFRESH! Lo Spettacolo delle Marche per le Nuove Generazioni (a cura di CSM Consorzio Marche Spettacolo). Come anche sono da segnalare due escursioni che hanno portato il festival a Venezia e a Macerata. Nel primo caso Hangartfest è stato il sostenitore di un gruppo di performer europei accolti in residenza durante agosto e che si sono esibiti, che si sono esibiti ai Docks di San Pietro di Castello a Venezia il 4 e 5 settembre nel cotesto di ExExEx Extemporary Experimental Exibition, in collaborazione con Art Events. Nel secondo caso, danzatori provenienti da tutte le Marche, curati da Susan Sentler e prodotti da Hangartfest, sono stati protagonisti di una performance di danza urbana tenutasi il 15 settembre in Piazza Cesare Battisti a Macerata. Hangartfest è un festival che si rinnova costantemente pur mantenendo fermi i suoi obiettivi, che riscopre ogni anno l’apprezzamento da parte dei suoi spettatori, di quelli vecchi come di quelli nuovi, e una forte attenzione da parte della stampa. Il festival, che si regge esclusivamente sulle proprie forze grazie al sostegno dei soci e al coinvolgimento di alcuni sponsor privati, è un progetto virtuoso che non pesa sulla collettività e che è al 100% sostenibile Abstract H angartfest, festival of the independent scene directed by Antonio Cioffi, celebrates its tenth anniversary. Ten years of Hangartfest mean ten years dedicated to dance and contemporary performing arts. The purpose of this festival, which was born and raised in Pesaro, Marche, has always been to promote the dance and encourage to promote the dance and encourage the young choreographers. 78 Drammaturgie originali al Teatralny Koufar Dal 22 al 28 settembre si è tenuto a Minsk il Teatralny Koufar, festival internazionale di teatro universitario, giunto ormai alla sua decima edizione Recensioni Festival A PESARO LA SCENA INDIPENDENTE CONTEMPORANEA di Claudio Facchinelli Forse a causa delle restrizioni economiche, con poche eccezioni (la storica compagnia dell’università di Liegi diretta da Robert Germay; gli sloveni del liceo di Maribor; i macedoni di Skopie), i gruppi partecipanti, su un totale di ventitre, provenivano tutti dall’ex Unione Sovietica: Lituania, Lettonia, Georgia, Estonia, Russia e, naturalmente, Bielorussia. La connotazione internazionale della manifestazione è stata tuttavia garantita dalla composizione della giuria, proveniente da Francia, Belgio, Polonia, Moldavia, Grecia, persino dal Bangladesh. La giuria, oltre ai premi ufficiali, ha espresso una serie di segnalazioni speciali, con l’evidente intenzione di dare un riconoscimento a tutti i lavori che presentassero elementi teatrali degni di attenzione. Il Grand Prix, assegnato dal pubblico, è andato a Mensch/Čelovek, del laboratorio gruppo giovanile “TeatralnY Kvadrat”: uno spettacolo multimediale (video, mimo, narrazione) di grande freschezza e di forte impatto emotivo. La palma del miglior attore protagonista e del miglior ruolo femminile secondario, rivelando nella giuria un giusto riconoscimento alla spontaneità e all’energia giovanile, è andata ai liceali di Maribor che, due anni fa si era segnalato per una fantasiosa rivisitazione del Midsummer Night’s Dream, qui impegnati nella gustosa proposta di una poco frequentata Psyché, da Molière. A L’uomo latente, di Minsk, una performance beffarda, esilarante nel suo rovesciamento dei ruoli e degli stereotipi di genere, è andato il premio per la miglior regia. Da citare ancora: L’aeroplano di Vanja Čonkin, una sorta di musical del gruppo dell’università di Tomsk, una favola sulla guerra a lieto fine, sorprendentemente antistalinista; il gruppo vocale georgiano di Arika do Varika, che rivelava inattese somiglianze musicali con gli stilemi del nostro storico coro della SAT; le fascinose scenografie dei lituani de Il circo; l’originale assetto scenico e drammaturgico dei lituani con Vivi, e potresti non accorgerti che sei già nell’altro mondo. Per un elenco completo degli spettacoli e dei premi assegnati, si rimanda al sito www.theatre-fest.bsu.by/eng/kufar.html. Un’ultima osservazione. Il ventaglio di quanto visto consentiva di riconoscere, nella realtà del teatro universitario dell’Europa dell’Est, una forte preminenza delle drammaturgie originali e delle rielaborazioni rispetto alle riproposte pure e semplici di classici: una tendenza che mostra una consolante vitalità culturale di quell’importante angolo di mondo. Abstract I n spite of widespread economical difficulties, the tenth edition of Teatralny Koufar took happily place in Minsk last September, mostly with East Europe groups. An international jury has chosen to award, beside the main nominations, several deserving works with special prizes. The energy and freshness of the youth has been appreciated also by the audience. Most of the works were based on original texts. teatridellediversità 79 Meldolesi rivoluzionario A Claudio Meldolesi la sola immagine di grande intellettuale, fondatore degli studi teatrali e Accademico dei Lincei, sta forse un po’ stretta. Prosegue lo spazio a lui dedicato da Teatri delle diversità dopo l’iniziativa a cura di Laura Mariani promossa il 18 marzo scorso a Bologna U n ricordo che ne rievochi, al di là delle opere, la sensibilità e l’intelligenza, entrambe indagatrici, acuminate e, soprattutto, l’una al servizio dell’altra, dovrebbe comprendere, in primissimo piano, anche la sua indole di “uomo contro” e studioso rivoluzionario. Questo perché, detto in due parole, lo spirito del ’68 gli apparteneva, e, appartenendogli, è entrato in maniera più o meno esplicita nella sue opere, che – come mi suggerisce l’editore Fausto Lupetti, compagno di Claudio negli anni burrascosi di “Servire il popolo” – “sono in gran parte dedicate a utopisti, a proletari, ad artisti irregolari, alle zone inquiete e marginali del teatro”. Il personale “decentramento” operato da Meldolesi ha, infatti, coinvolto comici dimenticati come gli Sticotti, un iniziatore caduto nell’ombra come Gustavo Modena, le esperienze nel sociale e nuove formazioni che hanno trovato in lui un punto di riferimento al quale rapportarsi per rilanciare le proprie possibilità e intuizioni. Con gli scritti, con la didattica universitaria, con le collaborazioni e le azioni di sostegno, Meldolesi ha compiuto piccole rivoluzioni teatrali, in parte, adattando ai tempi la grande spinta pedagogica del Novecento, in parte, contraddicendo e spiazzando le nuove tendenze al riordino e alla normalizzazione da qualunque parte venissero: dai Maestri della scena, dagli intellettuali, da centri culturali egemoni. Era proprio di Claudio Meldolesi spostare il focus delle ricerca nelle zone d’ombra che via via si formavano ai margini dei nuovi modelli. Chi l’ha conosciuto negli anni del maggior impegno politico, riconosce in questa sua pedagogia di intellettuale militante e formatore, uno strumento di giustizia, che, almeno nella «micro-società» del teatro (come egli stesso, con fortunata 80 definizione, aveva chiamato le comiche compagnie), rimettesse le cose a posto. E cioè illuminasse gli ultimi, capisse gli irregolari, trascinasse al centro la periferia del teatro, e rivalutasse, per contro, il centro del teatro a misura che questo si dimostrava marginale e periferico rispetto ai nuovi centri d’interesse. Claudio Meldolesi – è ancora Lupetti che parla – “fa parte di quella generazione che ha cercato di dare l’assalto al cielo. Per anni ha scelto di vivere vicino agli operai di Milano, pur essendo già padre, professore e noto studioso di teatro. Organizzava spettacoli di opere teatrali e cinematografiche nelle piazze, fra la gente. Ha scritto, sul posto, della occupazione degli operai francesi della fabbrica di orologi Lip di Besançon”. Si dice che il tratto più immediatamente evidente di Meldolesi fosse una gentilezza, che stabiliva, con un accenno, un sottinteso, un riferimento, ponti tenaci anche con persone appena incontrate. È indubbiamente vero, ma, di questo suo modo di essere, il profondo substrato umano è forse da individuare, ancor più che in una naturale mitezza, nella trasformazione intima, continua e continuamente sofferta delle modalità ideologiche e dei valori rivoluzionari del ‘68. Dalla decantazione dei miraggi epocali riflessi nel vissuto, Meldolesi aveva ricavato una saggezza intinta di ironia, che si assottigliava e articolava in vari modi, agendo simultaneamente su diversi scenari: pedagogici, intellettuali, editoriali, istituzionali e relazionali. E ciò al fine di mettere mano alla realtà delle cose, dimostrandone l’essenziale trasformabilità marxiana. Il ‘68 ha bruciato molte vite, molte speranze, molte agguerrite intelligenze; Meldolesi, invece, ha avuto la forza e il coraggio di bruciare in sé gli aspetti caduchi di quell’estrema avventura generazionale, serbandone, per contro, la peculiare incandescenza, che, non controllata, consuma e distrugge, mentre, inquadrata fra relazioni umane non viziate da presupposti ideologici, illumina come una lanterna la difficile strada che si può percorrere insieme, magari cogliendo mutamenti modesti, ma comunque indicativi delle possibilità dell’agire umano. L’aver mantenuto fermo il fine di intervenire intellettualmente e concretamente sul reale, ha, però, determinato in Meldolesi anche la necessità di coltivare, pur adattandolo ai nuovi contesti, il pensiero strategico della lotta rivoluzionaria. E di questo, in particolare, la percezione dei rapporti di forza, la capacità di prevedere e governare gli effetti delle spinte causali, l’intima tendenza a tradursi in logiche di contro-potere che originavano, a loro volta, ulteriori aree d’influenza. Molti intellettuali sono stati trasformati in “baroni” dalla carriera universitaria – parlo, ovviamente, della vecchia università italiana, prima della riforma –, ma nessuno è stato, come Meldolesi, un “barone” al contempo segreto ed eticamente limpidissimo. A frequentarlo, non si sospettava in lui l’uomo di potere, poiché ad imporsi attraverso la sua persona erano quella saggezza ironica, quella trasparenza di pensiero, che, d’altronde, lo portavano a individuare nell’esercizio del potere il necessario strumento di attuazioni intellettuali e poetiche. Proprio perciò, Meldolesi era anche un politico disinibito, astuto e imprevedibile: uno scacchista nato. Un piccolo aneddoto potrà meglio descrivere questo aspetto della sua personalità. Ogni quattro anni i dipartimenti universitari eleggono il proprio Direttore. Si tratta di un’elezione segreta attuata nel più semplice dei modi. Ogni docente scrive il nome del candidato su un foglietto, (Foto di Franco Deriu) Recensioni Incontri MAI L’UNANIMITA’! che depone in una scatola di cartone chiusa e forata nella parte superiore. Segue lo scrutinio. Durante l’elezione di un direttore particolarmente benvoluto, di cui si sapevano le capacità gestionali e sul quale c’era la più ampia convergenza, improvvisamente uscì dall’ “urna” un nome diverso e inatteso, quello di Eugenia Casini Ropa. Sconcerto generale. Cos’era? Uno scherzo? Una provocazione? Un messaggio in codice? Ho ancora presente il sorriso di Claudio, mentre risponde alle mie curiosità dicendo: “Sono stato io... mai l’unanimità!”. E cioè, mai un potere, che pensi allentato il controllo della collettività votante, che tragga dalla fiducia accordata l’auspicio d’una delega un po’ troppo spinta. Non è un dettaglio, ma un modo di pensare. Il potere accademico è invasivo, si ramifica in discussioni, in proposte, in nuove articolazioni istituzionali di delicata e difficile attuazione. Claudio Meldolesi è stato fra i fautori del Dottorato in Discipline dello spettacolo, ha fortemente voluto la rivista “Teatro e Storia”, edita dal Mulino, ha ispirato i rapporti fra gli storici del teatro e questa casa editrice, ha fondato il Centro di produzione e ricerca teatrale “La Soffitta” e, assieme a me, il semestrale “Prove di drammaturgia”, trovando poi modo di difendere e preservare, nonostante la malattia, anche questa creatura culturale. Ma, soprattutto, non va dimenticato che a Meldolesi si deve, in grandissima parte, il radicamento di Leo de Berardinis a Bologna: uno degli episodi più importanti e artisticamente fecondi dell’ultimo Novecento. Parlando di Leo – attore-artista che gli è stato vicino e straordinariamente affine –, Meldolesi ha tracciato una specie di autoritratto per trasposta persona, che vorrei ora includere, e quasi sovrapporre, a queste osservazioni, che, trattando aspetti solitamente trascurati nella personalità del grande studioso, corrono forse il rischio di lasciare in ombra proprio i suoi valori essenziali, per cui le scelte politiche s’innestavano in una totalità antropologica continuamente rigenerata e rivelata dalle manifestazioni del teatrale. Scrive, dunque, Meldolesi: «Chi può misurare gli impulsi primari di Leo? Si pensi a quanti artisti ha aiutato prospettando maggiori possibilità; e si pensi alla serenità delle sue prove. Nessun altro regista ho visto orientare gli attori manifestando loro fiducia e distanza maieutica. Nessun altro, ho visto, dotato della sua capacità di rivalorizzare magicamente il vissuto […]. La stessa ultima e schiva ricerca dei gruppi si è a lui rifatta, specie per la maestria nell’essenzializzare la forma guida degli spettacoli; e sia sul versante degli scavi ulteriori nel tragico e nel meraviglioso sia su quello delle sintonie mentali. Le quali sono state preziose anche per le perlustrazioni dell’antico di vari storici del teatro stessi. La sapienza raggiunta da Leo colpisce perché conquistata di persona». (Maestro di teatri fra loro lontani, 2002, al link http://www.arcoscenico.it/n_perleo.htm). Similmente, di Claudio Meldolesi, potrei dire: nessun altro studioso ho visto orientare gli studenti manifestando loro fiducia e distanza maieutica. Nessun altro, ho visto, dotato della sua capacità di rivalorizzare magicamente il vissuto… La sapienza raggiunta da Claudio colpisce perché conquistata di persona… Proprio a causa di questo senso etico, che ne guidava il lavoro intellettuale, possiamo chiederci come Meldolesi vivesse la propria accortezza politica, la sua predisposizione ad essere uomo di potere. Credo che gli studi sul “dramaturg”, forniscano una risposta oggettiva a questo interrogativo altrimenti irrisolvibile e indiscreto. Di tutti i ruoli teatrali – l’autore, il regista, l’attore – il “dramaturg” è il più indifeso, l’unico che non abbia una mansione estetica assolutamente propria, alla quale potersi appellare nella paziente opera di tessitura e mediazione fra testo, interpretazione e messinscena. Proprio a questo ruolo, Meldolesi ha dedicato una ricerca originale e profonda, che possiamo definire di fondazione. Assieme al libro sul teatro delle Laminarie (2008) e a quello su Leo de Berardinis (edito postumo 2010), il volume sul “dramaturg” (2007), scritto a quattro mani con Renata Molinari, costituisce un ultimo prolungarsi di Meldolesi attraverso la scrittura. Non credo si tratti di scelte casuali. Specchiandosi nell’esistenza del teatro delle Laminarie fra idealità e problemi concreti, nel rigenerarsi artistico di Leo, nella figura del “dramaturg”, Meldolesi, chiuso nel suo piccolo studio affollato all’inverosimile di carte, si allontanava dall’esercizio del potere attraverso il rito del pensiero che si fa discorso, consegnando alla memoria del lettore il fuoco depurato e vivo della speranza rivoluzionaria. Abstract T he essay relates the early adhesion of Claudio Meldolesi to the revolutionary ideology of the 1968 with his later work as scholar and intellectual, revealing the transformations that characterized him form the original political imprinting. On one hand, Meldolesi’s studies prefer marginal characters and phenomena or that are diminished by new models of values, but, on the other hand, his studies set these choices in a total anthropological context continuously regenerated and revealed by theatre’s performances. The fixed aim to intervene on the reality caused also Mendonlesi’s necessity to cultivate the strategic ideology of revolution, adapting it to new contexts. teatridellediversità 81 Recensioni Incontri SAMUEL BECKETT E IL MONDO CONTEMPORANEO Il teatro come risorsa per la salute mentale Aspettando Godot oggi? Tra le diverse attività del CIT – Centro di Cultura e d’Iniziativa teatrale “Mario Apollonio” una sezione dedicata al teatro sociale Inaugurata il 6 novembre (e aperta fino al 26 gennaio 2014) presso La Casa dei Teatri di Roma, una mostra intitolata Prigionie (in)visibili di Yosuke Taki * Recensioni Mostre All’Università Cattolica di Milano di Giulia Innocenti Malini D a anni la sezione di teatro del Dipartimento di Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica è impegnata in un’attenta riflessione sulle risorse specifiche che il teatro e, più in generale, le pratiche performative possono mettere a disposizione dei processi di sviluppo sociale, di formazione, di cura, di riabilitazione e di prevenzione diffusa. Dentro questa cornice è stato proposto l’incontro La cultura che cura: il teatro come risorsa per la salute mentale, realizzato il 7 ottobre 2013. Il teatro da sempre è il momento in cui la collettività incontra le sue parti fragili ed oscure e la scena 82 si fa luogo di svelamento di una verità complessa e scandalosa: primo passo di un processo di cura. Ma cosa può essere il teatro oggi in una collettività stremata dai disagi diffusi, affollata di immagini e suoni che raccontano dolore, guerra e sofferenza, incapace di sostenere i legami sociali, fintanto da alimentarli con sentimenti di rancore piuttosto che virtualizzarli sul web? Per rispondere a questa domanda sono state messe a confronto alcune esperienze attive da molti anni in territori geograficamente prossimali seppur caratterizzati da sistemi sociali differenti, nelle quali l’esperienza del teatro è una risorsa per la salute mentale e un sostegno alla riabilitazione delle persone entro una logica di partecipazione comunitaria, andando a contrastare le dinamiche di esclusione ai danni di persone che vivono situazioni di fragilità, con particolare attenzione all’esperienza della follia. Con le sue risorse immaginative calate nella concretezza dell’agire relazionale proprio della performance, il laboratorio teatrale e performativo promuove situazioni di attoralità ed autoralità culturale diffusa, che coinvolge diversi soggetti - pubblici e privati, singoli e associati, fragili ed esclusi - costruendo ponti e legami nel territorio. Fa cultura là dove la cultura non c’è, fuori dai centri, dislocandosi nelle periferie e valorizzando luoghi e spazi che rappresentano le grandi metafore della esperienza umana. Insomma sostiene la speranza e realizza, un’azione dopo l’altra, le aspirazioni che alimentano il futuro. A riflettere su queste tematiche, insieme ai numerosissimi partecipanti che gremivano lo storico laboratorio teatrale dedicato a Mario Apollonio, sono intervenuti per l’Università Cattolica Annamaria Cascetta professoressa di Storia del Teatro, Claudio Bernardi professore di Riti, miti e simboli delle organizzazione e Giulia Innocenti Malini del Corso di Alta formazione per operatori di teatro sociale; per Olinda e il festival Da vicino nessuno è normale Thomas Emmenegger e Rosita Volani; Giorgio Cerati direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera di Legnano; Alessia Repossi e Vaninka Riccardi per il progetto Il teatro come ponte per la comunità di Magenta. L’incontro avvia un percorso di aggiornamento sulle tematiche del teatro e la salute mentale realizzato dal CIT, l’Azienda Ospedaliera di Legnano della Regione Lombardia, con particolare riferimento al Unità Operativa di Psichiatria di Magenta, e la Provincia di Milano. S ono passati 60 anni dalla prima mondiale di Aspettando Godot, ma in soli sei decenni l’interpretazione di Godot e di altre opere di Beckett hanno subito forti cambiamenti. Soprattutto a partire dagli anni Novanta, dopo la sua morte, le opere di Beckett, non potevano più essere solo ricondotte a un teatro dell’assurdo, metafisico, distaccato dalla realtà, ma sono state “richiamate” a essere un teatro capace di stimolare sensibilità reali (sociali, politiche, psicologiche) che respirassero nel presente della Storia, un po’ come lo era Godot all’origine. La mostra percorre cambiamenti ed elementi costanti nell’approccio alle opere di Beckett, invitando i visitatori a domandarsi sul rapporto tra il teatro e il mondo, nel periodo a cavallo tra il XX e il XXI secolo. La mostra si articola in tre parti dopo una premessa: Abstract 0. All’origine T L’opera più celebre di Samuel Beckett, Aspettando Godot, racconta la vicenda di due uomini smarriti come barboni, che aspettano un tizio di nome Godot che non arriva mai, di sera, su una strada di campagna desolata dove non c’è niente tranne un albero, e niente di particolare né di drammatico succede. Quest’opera, poco rispettosa delle convenzioni teatrali dell’epoca, provocò un enorme scandalo quando andò in scena per la prima volta nel 1953 a Parigi. L’impatto, fortissimo, non si limitò a penetrare la sfera culturale, ma raggiunse uno strato emotivo più profondo degli spettatori, perché in qualche modo l’opera parlava esattamente dello stato d’animo del pubblico di allora, che aveva la guerra ancora sotto la pelle. L’opera nasceva difatti dalle esperienze dell’autore irlandese che aveva vissuto tra he CIT – Centro di Cultura e d’Iniziativa teatrale “Mario Apollonio” – section of social theatre, organized the meeting The culture that cares: when the theatre is a mental health resource (7 october, 2013) at The Catholic University of Milan. The focus of reflection is the social dimension of mental health, according to the different perspectives and practices of the projects: Olinda – Da vicino nessuno è normale of Milan and Operating Unit of Psychiatry – Il teatro come ponte per la comunità of Magenta. le macerie del sud della Francia, fuggendo dai nazisti insieme alla futura moglie Suzanne. Godot, all’epoca, deve aver respirato davvero la Storia insieme al mondo fuori dal teatro. 1. I muri del carcere cadono con Beckett Ma chi ha capito subito e da sempre il vero senso della drammaturgia di Beckett sono stati i carcerati. A cominciare dal prigioniero di un carcere tedesco, che tradusse e messe in scena Godot pochi mesi dopo la sua prima mondiale, fino a oggi, moltissimi carcerati nel mondo e i loro laboratori teatrali hanno continuato a mettere in scena Godot e altre opere beckettiane. Come mai quest’affinità tra Beckett e la prigione? Perché i carcerati hanno sempre riconosciuto una forte corrispondenza Abstract 6 0 years have passed since Waiting for Godot appeared for the first time on a stage and in the meanwhile the interpretation of Godot and other works by S. Beckett have undergone many changes. Especially, in the 90’s, after his death, his works were no longer only as works of the theatre of the absurd, they appeared no longer as metaphysical works, detached from reality, but they were re-interpreted and seen as capable to arouse a real, social and political sensibility. It seems as they find their nourishment in the current time, as it was originally. The exhibition traces the changes which occurred and shows the constant elements in the approach to Beckett’s works , stimulating the visitors to consider the relationship between theatre and world in the years between the 20th and 21st century. teatridellediversità 83 Stefano Casi T Aspettando Godot a Fukushima, Kamone Machine 84 tra la loro condizione e le opere di Beckett. Vi leggevano il vero senso della prigionia. Beckett non descriveva la vita di carcerati. Semplicemente, è così che vedeva l’umanità. L’umanità, per lui, è sempre inconsapevolmente imprigionata, seppure comicamente. Questa prima parte, in una stanza dall’atmosfera carceraria, racconterà alcune esperienze di messe in scena di opere di Beckett all’interno di prigioni, in Italia e all’estero. Oltre ai lavori di alcuni esponenti del teatro in carcere in Italia (Gianfranco Pedullà, Claudio Collovà, Giorgia Palombi, Michele Zizzari, Armando Punzo), sono da notare soprattutto i materiali sulla carriera di Rick Cluchey, l’ex-ergastolano statunitense che ha avuto la grazia per meriti culturali per le sue attività teatrali nel carcere di San Quentin, e che dopo il suo rilascio ha recitato in diverse opere con la regia dello stesso Beckett. imento della sua ricerca. In fondo anche da regista Beckett ha mostrato la stessa tensione, eliminando ogni possibilità d’interpretazione realistica. E lo seguirono un’intera generazione di registi e attori. In questo modo Beckett è stato a lungo interpretato come un autore metafisico, comprensibile solo a un altro livello di coscienza. Sembrava a volte che tra le rappresentazioni e il mondo ci fosse la stessa distanza tra il sogno e la realtà. La seconda parte, che si estende lungo tre piccole stanze, dimostra l’evoluzione di diverse forme di prigionia nelle opere beckettiane, dai vari gradi di costrizione fisica, come in Giorni felici o in Commedia, alle prigioni fatte di voci infernali che echeggiano fuori e dentro la mente, come ne L’Ultimo nastro di Krapp o in Di’ Joe o Non io, fino alle “prigionie estreme” vissute all’interno dello spazio bidimensionale delle immagini televisive. 2. Ricerca dell’astrazione 3. Beckett dopo Beckett Tuttavia, nelle sue successive ricerche di scrittura drammaturgica Beckett si allontana sempre più da ogni possibile corrispondenza col mondo esterno e si ritira nella visione più astratta, con i personaggi che non hanno più connotazioni individuali e spazi teatrali senza scena, dove i personaggi sono semplicemente circondati dal buio, fino ad arrivare nel 1981 a un’opera di massima astrazione, Quad, scritta per la televisione. I quattro performer, incappucciati fino alle caviglie e diversamente colorati, cambiando la combinazione tra loro (1, 1+2, 1+2+3, 1+2+3+4, 2+3+4, 3+4, 4, 4+2, 4+2+3…) percorrono i lati e le diagonali di un’area quadrata (sempre circondata dal buio) fino a esaurimento delle combinazioni, ripresi da una telecamera posta in alto. L’autore solleva il nostro sguardo dal livello di terra perché si possa vedere bene la realtà catastrofica di questo mondo, dall’alto, a distanza, ma senza alcuna possibilità di intervenire. Rimane questa distanza dalla realtà che assomiglia a una certa indifferenza non terrestre. Sembra davvero che un dio indifferente guardi la povera umanità destinata a ripetere eternamente gli stessi gesti. Osservando il percorso artistico da Godot a Quad, si ha l’impressione che Beckett abbia parlato sempre della stessa cosa, dell’ “umanità inconsapevolmente imprigionata”, ma cercando ogni volta una maggiore astrazione, per raggiungere finalmente lo sguardo “teologico” di Quad. Quad, in questo senso, può ritenersi l’ultimo raggiung- Tuttavia, dopo la sua morte, dagli anni Novanta molti registi sensibili alle questioni politiche e sociali hanno riportato Beckett in mezzo alle rovine della Storia. Susan Sontag fu la prima a tuffarsi letteralmente tra le macerie, mettendo in scena Aspettando Godot nel 1993 nella Sarajevo ancora assediata. Dopo di lei, altri seguirono mettendo in scena Godot, Finale di partita e altre opere di Beckett in varie situazioni di “disagio” del mondo contemporaneo. Con loro inizia una nuova stagione di approccio al teatro di Beckett, che non poteva più rimanere unicamente un teatro che ci offre solo una visione filosofica, ritornando invece ad essere un teatro capace di corrodersi e di interagire con la realtà storico-geografica, facendo così emergere le “prigionie invisibili” nascoste nell’opaco tessuto del nostro tempo. Il mondo sta cambiando ed è la Storia stessa che ha richiamato Beckett in questo ruolo, quello di scriba della Storia. In quest’ultima parte sono esposti numerosi esempi di messe in scena (molti i casi stranieri, tra cui americani e giapponesi) fatte con persone “diverse”, con attori della generazione smarrita, a New Orleans davanti agli sfollati dopo l’uragano Katrina, in mezzo alla manifestazione di Occupy Wall Street, e persino in un punto appena fuori dalla zona d’evacuazione della centrale nucleare di Fukushima. eatro di partecipazione e animazione teatrale: è Giuliano Scabia a sperimentarli per la prima volta a Torino, nel primo grande Decentramento Teatrale del 1969/70. Quattro quartieri-ghetto per immigrati, attraversati da lotte sociali e sindacali in pieno “autunno caldo”, si trasformano in un immenso laboratorio teatrale: a Mirafiori Sud, Le Vallette, La Falchera e Corso Taranto prendono forma azioni di strada, spettacoli di teatro politico e d’inchiesta, esperienze pionieristiche con i bambini e un happening non-stop di 33 ore sul manicomio. Queste pagine raccontano le utopie, i boicottaggi, le mediazioni di quell’esperienza, entrando nell’officina sperimentale di Scabia (e della neonata Assemblea Teatro) alla ricerca di un teatro di scontro e contraddizione, “con” e “per” la comunità. Edizioni ETS, Narrare la scena / esercizi di analisi dello spettacolo Pisa, 2012, pag 284 ISBN 978-884673127-2 DIALOGO SULL’ATTORE Leo de Berardinis a cura di Giorgio Zorcù L ’8 agosto 1993 al Castello Aldobrandesco di Arcidosso, a conclusione della prima edizione del festival-laboratorio Toscana delle Culture. Leo De Berardinis tenne questa conferenza-dialogo sull’attore. In maniera semplice, discorsiva e sorprendente vengono toccati tutti i temi cari a Leo, uno dei maestri più lucidi, visionari e lungimiranti del nostro teatro. Edizioni Effigi, Arcidosso (GR), 2012, pag 48, ISBN 978-88-6433-248-2 C osa succede nel corpo-mente dello spettatore a teatro? Cosa ci dicono le neuroscienze cognitive a proposito dell’esperienza spettatoriale? Com’è possibile, oggi, indagare quei meccanismi cognitivi che rendono unica l’esperienza dello spettatore teatrale rispetto a tutte le altre esperienze della nostra quotidianità? Queste sono solo alcune delle domande che il libro tenta di esplorare tramite un approccio multidisciplinare che, partendo dagli studi teatrali, attraversa le neuroscienze, la psicologia cognitiva, le scienze dei sistemi complessi e la fenomenologia per poi tornare verso quel polo della relazione teatrale così importante e così poco studiato: Segnalazioni editoriali 600.000 E ALTRE AZIONI LE ACROBAZIE DELLO TEATRALIPER GIULIANO SPETTATORE Dal teatro alle neuroscienze e ritorno SCABIA Gabriele Sofia Bulzoni Editore, Roma, 2013, pag 184, ISBN 978-88-7870-843-3 LA PENA VISIBILE Salvatore Ferraro “L a pena visibile” è una teoria dell’esecuzione penale che mira a dimostrare come l’esperienza dell’utilizzo del carcere, quale luogo ideale e irrinunciabile dell’esecuzione della sanzione penale, deve ritenersi finita: causa fallimento. Questa teoria non si limita a offrire fatti e argomentazioni atti unicamente a descrivere e provare le ragioni di questo fallimento. È una teoria che aspira a molto di più. Essa, infatti, oltre a offrire ragioni nuove e più profonde nello spiegare dove e in che modo il carcere abbia rivelato i suoi lati deboli, paradossali e contraddittori, mira a modellare un nuovo scenario esecutivo della pena: alternativo, utile e produttivo. Questo modello è fondato su una specifica qualità: la visibilità, ossia la possibilità, da parte della società e della vittima del reato, di partecipare il percorso sanzionatorio inflitto al reo; e muove da due presupposti, meglio, due urgenze fondamentali: ricreare intorno al reo un nuovo ambiente “condizionante” e dissolvere “l’ambiente carcerario”. Rubettino Editore, Roma, 2013, Pag 186 ISBN 978-88-498-3581-6 *Curatore della mostra teatridellediversità 85 filo diretto BOLOGNA LA SAGGEZZA DELL’INSICUREZZA Il 14 e 15 dicembre 2013 si terrà a Bologna presso i Laboratori del Dipartimento delle arti dell’Universita’ di Bologna (Via Azzo Gardino 65) un incontro di studi promosso dall’Associazione DES (Danza Educazione Società). Il convegno, che si articolerà in momenti di discussione, di pratica e di visione, non cercherà, in questo senso, risposte certe, ma offrirà percorsi di connessione, dialogo e riflessione a partire da alcune significative domande: Può la danza offrire un’apertura di pensiero e azione verso un nuovo modo di essere e di fronteggiare il senso di insicurezza così diffuso?; Quali saperi può offrire la danza, in termini di costruzione di consapevolezza individuale, di centratura di sé, di riassetto dinamico della persona? Quale ruolo gioca la nostra corporeità nella costruzione di una solidità esistenziale – emozionale e fisica – capace di sostenere e fronteggiare le richieste di adattamento rapido ai cambiamenti? E quali suggestioni, suggerimenti, intuizioni, direzioni percorribili e confluenti possiamo ricevere da altri ambiti, come quelli economico, sociologico, psicologico, ecologico? A parlarne con noi e a offrire testimonianze di pratica corporea e artistica e suggestioni di pensiero: Simona Bertozzi, Eugenia Casini Ropa, Alessandro Certini, Marcella Danon, Laura Delfini, Enrico Euli, Hubert Godard, Julyen Hamilton, Luciano Vasapollo, Franca Zagatti. ( info e-mail- info@ desonline.it) ROMA CARCERAZIONI carcerAzioni è un progetto a cura dell’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica - Dipartimento Cultura di Roma Capitale che si sviluppa in diversi spazi della città come la Casa della Memoria e della Storia, la Casa dei Teatri, il Nuovo Cinema Aquila, la Sala Santa Rita, il Teatro di Villa Torlonia, il Museo della Mente e il Museo della Liberazione di via Tasso. Si prefigge di indagare, attraverso mostre, incontri, letture, proiezioni e performance, il concetto di libertà dell’individuo contemporaneo, una libertà precaria, continuamente a rischio di perdita delle garanzie conquistate. carcerAzioni dunque, come metafora dell’esistenza umana, dalla segregazione vera e propria all’autochiusura al mondo, all’impedimento come esclusione, alla malattia come sfera dell’impossibilità di agire. Il progetto si ispira al concept della mostra alla Casa dei Teatri (fino al 26 gennaio 2014) Prigionie invisibili ispirata alle molte configurazioni visive e concettuali di Samuel Beckett. Dal 9 dicembre, prenderà l’avvio invece al Teatro di Villa Torlonia lo stage di Cathy Marchand, attrice storica del Living Theatre, un’indagine fisica e poetica intorno al concetto di prigionia partendo da The Brig, spettacolo totem della compagnia capitanata da Julian Beck e Judith Malina. Seguiranno poi altri appuntamenti fino al mese di aprile 2014, quando il progetto si chiuderà con una Lectio magistralis di Franco Ruffini dal titolo Teatro. Il peso leggero del corpo e il lancio di un bando di cortometraggi di video-teatro, anch’essi ispirati al concetto di prigionia. Per informazioni www.comune. roma.it/cultura; www.culturaroma.it; costanzamaria.mongini@ comune.roma.it 86 ANGHIARI (AR) TOVAGLIA A QUADRI Nella XVIII edizione di Tovaglia a Quadri, al Poggiolino della splendida Anghiari, promessa ampiamente mantenuta, con Traguardaci (10/19 agosto 2013), epopea di una comunità che si narra e si collega al mondo, attraverso contese e dubbi, contrasti e affetti, voci e musiche, a ricordarci che la politica divide, ma la ricerca di una nuova polis e della dignità di una comunità è l’unica via che valga. Sentieri di storia locale ripercorsi, punti di vista molteplici, attesa del nuovo, in un intreccio tra loro e noi, ospiti alla tavola imbandita con raffinata semplicità. Ci chiedono: Traguardaci e noi tra-guardiamo, tra le pieghe, tra le righe, tra le note un mondo che cambia, si trasforma e chiede allo spettatore di essere attivo, se di teatro di comunità si tratta: pedaliamo con loro, gioiamo e ci immalinconiamo, apprezziamo questi straordinari attori, talenti naturali alimentati dalla sapienza drammmaturgica e registica di Merendelli e Pennacchini, allenatori doc di una gara di intelligenza (Ivana Conte, e.mail [email protected]) . IL TEATRO DELLE OMBRE A CARTOCETO (PU) MASTERCLASS Agosto 2014 La presenza dell’ombra ha dovunque ossessionato l’immaginazione degli uomini nelle culture più diverse. Non si contano i miti, le credenze, i tabù, le leggende che hanno come protagonista l’ombra. Fondo comune di tutte queste credenze sarebbe una equiparazione tra ombra e anima. Alla scomparsa dei miti, l’interesse per l’ombra è rimasto vivo in letteratura, nelle arti, nel cinema sempre legato al tema dell’identità. Con l’ombra collocata in un interessante incrocio a cavallo tra fisica e metafisica, possiamo disporre di un centro di interesse congeniale a tutti i bambini di ogni età, che non separa precocemente ragione e immaginazione e si presta ad una quantità di giochi, di ricerche, di attività. Nel corso, diretto da Mariano Dolci dal 25 al 29 agosto 2014 a Cartoceto (Pesaro e Urbino), saranno esposti materiali ed illustrate esigenze tecniche per passare alla costruzione di sagome per il teatro d’ombre e a esercitazioni su giochi con la luce ed altre animazioni. Verranno inoltre esposte le esperienze più significative ed i risultati di ricerche riguardo alle credenze ed ai comportamenti dei bambini relativi alla loro ombra, frutto di 35 anni di attività nelle scuole dall’asilo nido alle superiori. L’iniziativa è promossa dalla Scuola sperimentale di teatro di animazione sociale, un progetto del Teatro Aenigma diretto da Mariano Dolci e Vito Minoia, rivolto ad educatori, operatori sociali, artisti, studenti interessati a formarsi nell’utilizzo di tecniche derivanti dalla tradizione del Teatro di Animazione (burattini, marionette, ombre) in campo educativo e nel sociale. Per informazioni: [email protected], www.teatroaenigma.it Riferimento imprescindibile PER I TEATRI DELLE DIVERSITA Teatro in Carcere, Marionette e Terapia, Commedia dell’arte e Kyogen, “Profezia” di Pier Paolo Pasolini, gli argomenti più discussi. Un focus su due longeve significative esperienze è all’origine di una nuova iniziativa editoriale Il tema principale è quello del teatro in carcere con due sessioni di lavoro: la prima dedicata alle esperienze sceniche negli otto istituti penitenziari marchigiani, a conclusione di un progetto unitario biennale con gli operatori che intervengono nei differenti contesti; la seconda, con il coinvolgimento di alcune selezionate esperienze nazionali, dopo la stipula del Protocollo d’Intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria attraverso l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari (Ministero della Giustizia) e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, organismo fondato proprio a Urbania tre anni fa e che oggi annovera al suo interno 44 compagnie da 14 Regioni italiane. Altri temi in evidenza nel Convegno: il rapporto tra marionette e terapia, anche alla luce delle più recenti iniziative della Associazione francese “Marionnette et Thérapie” ed un focus di natura spettacolare su due esperienze consolidate (quelle di Néon Teatro di Catania e Stalker Teatro di Torino, entrambe con un curriculum trentennale) e molto rappresentative del campo dei « Teatri delle diversità », oggetto di riferimento per gli studi innovativi promossi dalla Rivista. Il Convegno si apre a conclusione dello spettacolo Nessuno escluso di Néon Teatro per le scuole di Urbania. Dopo i saluti delle autorità, l’’intera mattinata è dedicata al Progetto Regionale di teatro in carcere nelle Marche con interventi di Cooperativa Koinema, Fondazione Teatro delle Muse, Associazione teatrale Sassi nello Stagno, Teatro Aenigma, Compagnia teatrale Art’ò, Compagnia teatrale La Pioletta, Associazione LaGrù, Associazione Teatroaponente, Simone Guerro. Nel pomeriggio sono previste due tavole rotonde: la prima dedicata a marionette e burattini con persone disabili, coordinata da Mariano Dolci, docente a contratto di Teatro di Animazione all’Università di Urbino, intervengono Corrado Vecchi, Giovanna Gambino, Rosario Perricone; la seconda, dal titolo “Le poetiche degli artisti nelle attività di gruppo” condotta da Valeria Ottolenghi, esponente del direttivo della Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, dà conto, attraverso le testimonianze degli operatori, delle esperienze di teatro in carcere recentemente condotte a Vigevano, Padova, Saluzzo, Venezia e Bamenda (Camerun) da Mimmo Sorrentino, Maria Cinzia Zanellato, Grazia Isoardi di Voci Erranti, Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, Frate Stefano Luca. Ancora un doppio appuntamento a conclusione di serata al Teatro Bramante con la replica dello spettacolo “Nessuno escluso” di Nèon Teatro (regia di Monica Felloni, direzione artistica di Piero Ristagno), al quale è stato assegnato il “Premio Teatri delle diversità 2013” (in collaborazione con l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro) e la performance “Action” di Stalker Teatro, direzione artistica di Gabriele Boccacini. La sessione domenicale si apre alle 10 con gli interventi del regista fiorentino Francesco Gigliotti, insieme ad alcuni allievi del Teatro Universitario Aenigma su “Studio sulle tecniche performative delle maschere e del recitare all’improvviso” e di Yosuke Taki (regista e studioso giapponese) su “Rigenerare il Kyogen con la linfa della Commedia dell’Arte”. Quello del confronto e della contaminazione tra le Tradizioni ed i linguaggi teatrali è uno degli orizzonti che la Rivista ha esplorato da sempre in chiave interculturale. A seguire una riflessione sul poema “Profezia” di Pier Paolo Pasolini a cura del professor Peter Kammerer (Università di Urbino) con il coinvolgimento dell’attrice Graziella Galvani e di studiosi e testimoni del pensiero dell’intellettuale friulano (Angela Felice, Paolo Garofalo, Mirella Pol Bodetto). Si tratta in questo caso della prima iniziativa del Centro Studi “Catarsi-Teatri delle diversità Emilio Pozzi”, in forma di anticipazione sui temi del XV Convegno della rivista (Urbania, novembre 2014). Per tutta la durata del Convegno nella Sala Volponi Percorsi interiori” -Teatro in Carcere mostra fotografica di Franco Deriu sul lavoro del Teatro Aenigma nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. La presentazione al Convegno delle due esperienze di Néon Teatro e di Stalker prelude inoltre all’inaugurazione di una nuova collana di pubblicazioni delle Edizioni Nuove Catarsi con i primi due volumi dedicati alla ricerca artistica e pedagogica di ciascuna delle due storiche Compagnie. Nel prossimo numero della rivista pubblicheremo un ampio resoconto dell’incontro. Informazioni più dettagliate sui siti www.teatridellediversita.it e www.teatroaenigma.it Il xiv convegno della rivista Urbania (Pesaro e Urbino) - 30 novembre e 1 dicembre 2013 Action, Stalker Teatro (Foto di Paola Zanini) teatridellediversità 87 rivista europea teatri delle diversità abbonamento annuo Italia € 30,00 Estero € 60,00 Sostenitore € 100,00 da versare, specificando la causale e l’indirizzo al quale si vuole ricevere la rivista, sul conto corrente postale numero 92384346 o tramite bonifico su Conto Banco Posta, Codice IBAN IT21Y0760113300000092384346, Codice BIC/SWIFT BPPIITRRXXX, intestati a Associazione Culturale “AENIGMA”, Via Giancarlo De Carlo n° 5, 61029 Urbino, tel. 339 1333907 – fax c/o 0721 893035 e.mail: [email protected] sito internet: www.teatridellediversita.it Poste Italiane s. p. a. – Spedizione in abbonamento postale – 70% Commerciale Business Pesaro n. 92/2009 • Edizioni Nuove Catarsi, via Peschiera 30 – 61030 Cartoceto (PU) rivista europea teatri delle diversità A fianco le copertine delle ultime quattro riviste pubblicate. Tra gli argomenti trattati finora, inchieste monotematiche su: teatro e disabilità, teatro e carcere, teatro e follia, teatro ed etnie, teatro e varie altre forme di disagio sociale. Il costo dei numeri arretrati è di € 12,00 (singoli), € 18,00 (doppi). È possibile richiedere l’intera collana dei numeri arretrati dal n° 1 al n° 63 al costo promozionale di € 300,00. 63 Giugno 2013 - € 8,00 Franca Rame Carcere e affettività La Corea di Kim ki Duk Nabucco di Daniele Abbado Si accettano anche donazioni in forma di erogazioni liberali, utilizzando gli stessi riferimenti di Conto Banco Posta sopra indicati. -Teatri delle diversità - trimestrale - anno 18 - ISSN 1594-3496 In promozione per gli abbonati con lo sconto del 20% (€ 20, 00 anzichè €25, 00) Il volume: Recito, dunque So (g) no Teatro e carcere 2009 di Emilio Pozzi e Vito Minoia fotografie di Maurizio Buscarino (Edizioni Nuova Catarsi, Urbino, 2009, pag. 352) Il tuo 5x1000 per Teatri delle Diversità 5x1000 codice fiscale 91006880412 Aiutaci a sostenere una rivista indipendente