Museo di Anatomia Patologica "Andrea Vesalio".

H COPERTINA Museo 13,5x20cm ESTERNO
La Scuola Grande di San Marco
è patrimonio culturale
dell’Azienda ULSS 12 Veneziana,
che la valorizza quale sede
del Museo di storia della medicina,
Archivio storico,
Biblioteca storico-scientifica,
Museo di anatomia patologica
e Farmacia storica
MUSEO DI
ANATOMIA PATOLOGICA
“Andrea Vesalio”
Venezia, ottobre 2014
H COPERTINA Museo 13,5x20cm INTERNO
Il Museo è stato progettato, nella nuova sede dell’ex-Scuola
di Santa Maria della Pace, e restaurato dall’equipe del
Dipartimento di Pianificazione dell’Azienda Ulss 12
Veneziana, condotta da Mario Po’, e da Ezio Fulcheri,
Barbara Cafferata e Luca Pellegrino delle Università
di Genova e Torino.
Commissione scientifica del Museo di Anatomia patologica:
SCUOLA GRANDE
DI SAN MARCO
Dr. Pietro Maria Donisi | DIRETTORE DI ANATOMIA PATOLOGICA
DELL’OSPEDALE SS. GIOVANNI E PAOLO DI VENEZIA
Prof. Ezio Fulcheri | PROFESSORE ASSOCIATO DI ANATOMIA
PATOLOGICA DIPARTIMENTO DISC , UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
DI GENOVA, PROFESSORE INCARICATO DI PALEOPATOLOGIA ,
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA E BIOLOGIA DEI
SISTEMI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Dr. Giovanni Capitanio | MEDICO SPECIALISTA DI ANATOMIA
PATOLOGICA DELL’OSPEDALE SS. GIOVANNI E PAOLO DI
VENEZIA, PROFESSORE A CONTRATTO DI ANATOMIA UMANA
NORMALE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Prof. Rosa Boano | RICERCATORE IN ANTROPOLOGIA FISICA,
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA E BIOLOGIA DEI SISTEMI,
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Dr. Luca Pellegrino | LAUREATO IN SCIENZE NATURALI,
FREQUENTATORE DEL LABORATORIO DI ANTROPOLOGIA
MORFOLOGICA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA E
BIOLOGIA DEI SISTEMI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Dr. Barbara Cafferata | MEDICO CHIRURGO, FREQUENTATORE
SEZIONE DI ANATOMIA PATOLOGICA, DIPARTIMENTO DISC ,
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA
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Presentazione
Il Museo di Anatomia Patologica dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo, dopo un’importante restauro della sua raccolta curata dal team del prof. Ezio Fulcheri dell’Università
di Genova, entrando a far parte del patrimonio storico della Scuola Grande di San Marco,
arricchisce in modo coerente la sua già importante offerta scientifica e culturale.
La raccolta del Museo è strettamente legata alla storia della medicina veneziana e,
particolarmente, alla dedizione documentaristica di alcuni valenti specialisti dell’Ospedale Civile, come si apprende anche dalla serie completa dei registri autoptici e dei
prelievi anatomici. Tra questi specialisti eccelle Giuseppe Jona, che con la sua statura
morale e la sua figura di medico e studioso di anatomia ha connotato per alcuni decenni l’attività ospedaliera nella prima parte del secolo scorso.
Si accede al Museo, dedicato ad Andrea Vesalio, fondatore dell’anatomia e partecipe
della medicina veneziana, dal portale inferiore della maestosa facciata della Scuola
Grande di San Marco. In realtà, sino al 1806 da qui si accedeva alla sede di un’altra
Scuola, quella di Santa Maria della Pace, chiamata a custodire l’icona della Vergine
dipinta, secondo la tradizione, dall’evangelista Luca. Prima di essere immessi nel locale
del Museo, si attraversa la Farmacia Storica, che è un’altra preziosa testimonianza che
si era dispersa nel tempo e che è stata qui riportata nel suo allestimento ottocentesco.
Abbiamo così costituito a Venezia un organico e raro sistema di conoscenza sanitaria,
formato nel compendio della Scuola di San Marco, da due Musei (quello degli strumenti chirurgici e quello di anatomia patologica), la Biblioteca scientifica e di tavole
anatomiche, l’Archivio dei documenti degli antichi ospedali veneziani dal 1190, la
Farmacia Storica, la soluzione digitale virtuale delle raccolte culturali costituenti
un’innovativa applicazione di eMuseum.
È un tesoro culturale che ha al suo centro l’amore per la persona, che abbiamo ereditato dalla antica Regola della Scuola Grande di San Marco e che, in tutta la sua
attualità etica e civile, è anche l’orientamento ispirativo per questa realizzazione.
IL DIRETTORE GENERALE
Dott. Giuseppe Dal Ben
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1. Metodi di preparazione
2. Una figura esemplare di patologo:
la storia di Jona
3. Calcoli e concrezioni
Patologia cardiaca
4. Etilismo e cirrosi
Patologia cardiaca
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6.
7.
8.
9.
PRESENTAZIONE DEL
MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA
Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia
Patologia polmonare
La tubercolosi
Femori, traumi, infezioni dell’osso
Collezione di calvariae
Preparazione anatomica
in tassidermia
I.
Introduzione
• L’Anatomia Umana Normale a Venezia
• L’Anatomia Patologica a Venezia
• I musei di Anatomia Patologica, glorie passate e valorizzazione attuale
• I musei di Anatomia Patologica come fonte di materiale
di comparazione per la Paleopatologia.
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II. Il Museo di Anatomia Patologica
della Scuola Grande di San Marco a Venezia
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III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia
tra i percorsi museali della Cattedra Unesco
“Antropologia della salute - biosfera e sistemi di cura”
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IV. Il percorso museale
1. Le vetrine con preparati anatomici in liquido di dimora
• Caratteristiche e storia dei liquidi di dimora
• Le vetrine: memorie scientifiche legate all’arte del vetro a Venezia
I. Vetrina 1: Le collezioni del Museo, varie tipologie di preparazioni
II. Vetrina 2: Una figura esemplare di patologo: La storia di Jona
III. Vetrina 3: Esempi di patologia tematica e didattica
– Calcoli e concrezioni della colecisti
– Calcoli e concrezioni delle vie urinarie
– Patologia cardiaca neoplastica, ischemica
IV. Vetrina 4: Esempi di patologia tematica e didattica
– L’etilismo e la cirrosi epatica
– Patologia cardiaca infettiva
V. Vetrina 5: Patologia polmonare
– Il polmone dei soffiatori di vetro e i tumori polmonari
VI. Vetrina 6: La tubercolosi
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2. Le vetrine con preparati a secco
• Le preparazioni delle calotte craniche
• Le preparazioni di osso disseccato
I. Vetrina 7
– Esempi di patologia ossea infettiva e traumatica
– I femori e l’antropologia fisica
II. Vetrina 8: La collezione di calvaria
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3. La teca 9 con preparazione anatomica in tassidermia
• Il caso clinico
• La tecnica di preparazione in tassidermia
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MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA
Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia
La fondazione del museo
Nel 1871 venne stabilmente creato il posto di dissettore anatomico che fu ricoperto da
Luigi Paganuzzi (1843-1902) che sviluppò e organizzò questo vitale e importante settore
dell’ospedale.
Nelle istruzioni interne per l’esecuzione del Regolamento Organico dell’Ospedale Civile
Generale di Venezia del 1874, fra i compiti del dissettore, oltre alle autopsie e alla responsabilità della sala anatomica, era contemplato anche l’obbligo della conservazione
di reperti anatomopatologici ritenuti interessanti in una specie di museo che veniva arricchito in continuazione di nuovi preparati “a secco o in alcole” opportunamente registrati e illustrati dalle osservazioni dei vari primari.
Anatomopatologi direttori e primari dell’Ospedale di Venezia
Paganuzzi Luigi
Cavagnis Vittorio
Jona Giuseppe
Cagnetto Giovanni
Franco Enrico Emilio
Fabris Angiolo
Nazari Giovanni
Bortolozzi Menenio
Giampalmo Antonio
Nadin Corrado
Ferrari Enrico
Stracca Pansa Vincenzo
Donisi Pietro Maria
Consistenza delle raccolte
Preparazioni in liquido di dimora
Preparazioni osteologiche “scheletropea”
Preparazioni anatomiche a secco
CONSERVATORE DEL MUSEO
Dr. Pietro Maria Donisi
RESPONSABILI SCIENTIFICI
Prof. Ezio Fulcheri
Dr. Giovanni Capitanio
Prof. Rosa Boano
Professore associato di Anatomia Patologica,
Dipartimento DISC, Università degli Studi di Genova,
Professore incaricato di Paleopatologia,
Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi,
Università degli Studi di Torino
Medico specialista di Anatomia Patologica
dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia,
Professore a contratto di Anatomia Umana Normale
dell’Università degli Studi di Padova
Ricercatore in Antropologia Fisica,
Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi,
Università degli Studi di Torino
RICERCATORI DEL MUSEO
Dr. Luca Pellegrino
n°304
n°480
n°4
Dr. Barbara Cafferata
La struttura museale
Sezione espositiva:
Deposito museale e laboratorio conservazione e restauro:
Direttore di Anatomia Patologica
dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia
Castello 6777
Castello 6777
Laureato in Scienze Naturali,
Frequentatore del Laboratorio di Antropologia Morfologica
del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia
dei Sistemi, Università degli Studi di Torino
Medico Chirurgo,
Frequentatore Sezione di Anatomia Patologica,
Dipartimento DISC, Università degli Studi di Genova
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I. Introduzione
L’anatomia umana normale a Venezia
Anche se l’anatomia si praticava “ab immemorabili” nel 1325 la serenissima Repubblica chiamava il Mondino o
Raimondino Dei Liucci (Bologna 12701326) ad insegnare l’anatomia sezionando
cadaveri, “sebbene il popolo aborrisse
quasi rei di violata religione questi uomini
coraggiosi che ad ogni costo volevano
scrutare nelle fibre dei morti il grande problema della vita”.
L’esercizio dell’anatomia si praticava in
luoghi sacri come chiese, cappelle e conventi per la loro vicinanza ad un cimitero,
per legittimare l’atto scientifico che violava la morte per cogliere i segreti della
vita, e nei casi di malattie contagiose per
adottare misure di protezione.
Uno dei primi luminari della “Veneta
Anatomia” fu Niccolò Massa, nato a Venezia nel 1485, che si addottorò nel collegio medico di Venezia.
“Egli infatti fu il primo anche per il giudizio dell’Haller, che sezionando molti cadaveri, abbia estratto dal corpo umano il
peritoneo intero e chiuso, e studiata la
struttura e l’uso di quell'involucro de’ visceri addominali. Asserì essere le ossa assolutamente insensibili, e parlò delle
papille renali, se non prima di Berengario
certamente prima di Eustachio, come ne
prova Morgagni; descrisse il tramezzo dello
scroto, e i muscoli piramidali avanti del
Falloppio. Considerò pure la differente posizione che ha il ventricolo vuoto e pieno,
nonché quella della vescica nelle medesime
circostanze”. Diventando pubblico incisore nel collegio medico e chirurgico, fece
una pubblica e solenne dissezione nel
convento dei Padri Carmelitani e nel
1536 scrisse “liber introductionis anatomiae” stampato a Venezia.
Nel 1537 venne a Venezia, invitato dal
Senato, il fiammingo Andrea Vesalio
(1514-1564). Conseguita la laurea in medicina subito dopo gli fu affidata la cattedra di Chirurgia con annesso l’incarco
dell’insegnamento dell’anatomia contrariamente alla prassi affermata sin dal medioevo. Vesalio scende dalla cattedra e
prende in mano il coltello per compiere
lui stesso la dissezione, per vedere direttamente nei visceri e acquisire le sensazioni visive e tattili.
A Venezia ebbe contatti con il mondo artistico, scientifico ed editoriale. Incontrò
Jan Stephan van Calcar, suo connazionale
ed allievo di Tiziano, con il quale pubblicò, nel 1538, Tabulae Anatomicae Sex,
un gruppo di sei xilografie, le più grandi
per formato tra quelle usate a Venezia per
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I. Introduzione
un lavoro a stampa. Con Van Calcar e Tiziano, Vesalio elaborò a Venezia l’opera
De humani corporis fabrica libri septem,
pubblicata a Basilea nel 1543, opera innovativa non solo nel testo, ma soprattutto
nelle immagini che lo illustravano, alta
espressione di arte grafica, come veicolo
di informazione.
Mentre la Scuola Padovana emergeva
sopra ogni altra per il succedersi di quei
nomi gloriosi come Vesalio, Falloppio,
Colombo e Acquapendente, a Venezia,
una volta deceduto Nicolò Massa nel
1569, le pubbliche dissezioni si eseguirono sempre meno di frequente.
Nel 1618 fu chiamato da Padova ad esercitare l’anatomia per un mese a Venezia il
celebre Adriano Spigelio (1578-1625).
Un altro grande Anatomico della serenissima è stato Giandomenico Santorini
(1681-1737); quando Morgagni venne a
Venezia dal 1707 al 1709, al suo maestro
ed amico Valsalva scrisse: “sento le erudite lezioni anatomiche del signor Grandi
Giuseppe, e le ostensioni di questo giovane
ma diligente ed ingegnoso incisore il Signor dottor Santorini”.
La descrizione dei muscoli della faccia,
la scoperta delle cartilagini piramidali del
laringe, delle vene comunicanti tra il pericranio e i seni cerebrali, e la descrizione
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I. Introduzione
della natura ghiandolare della prostata, lo
pongono tra i grandi maestri dell’anatomia. Nell’anatomia patologica avrebbe
certamente condiviso la gloria del Morgagni se la morte non lo avesse colpito nella
piena maturità del suo genio. Morgagni
che gli fu discepolo ed amico lo cita numerose volte nelle sue Adversaria anatomica, nelle sue Epistole e nell’opera
monumentale De sedibus et de causis morborum.
Dopo Santorini, l’anatomico Francesco
Aglietti (1759-1836), nato a Brescia, ripromosse gli studi anatomopatologici e
clinici sulle malattie delle arterie e fu l’ultimo professore di anatomia a Venezia.
Dopo l’incendio dell’8 gennaio 1800, che
distrusse il teatro anatomico, inaugurato
l’11 febbraio 1671 in quel campiello che
ancora oggi si chiama Corte dell’Anatomia, la parte teorica dello studio medico
si concentrò nella vicina Università di Padova.
Le ricerche continuarono però nell’Ospedale Civico istituito nel 1819. Qui Paolo
Zannini con Aglietti, suo maestro dal
1804 al 1819, concentrò nella sala anatomica, allora “gretta e informe”, tutte le
autopsie che potessero, o per morti improvvise o per altri motivi interessare le
autorità.
L’anatomia patologica a Venezia
Nel 1871 venne stabilmente creato il
posto di dissettore anatomico che fu ricoperto da Luigi Paganuzzi (1843-1902) che
sviluppò e organizzò questo vitale e importante settore dell’ospedale.
Nel 1885, durante il settorato di Vittorio
Cavagnis, venne costruita una nuova sala
incisoria “ampia e bene illuminata” dove
si praticavano dalle 800 alle 900 autopsie
all’anno, e addirittura 1102 nel 1914
quando era direttore Giovanni Cagnetto.
A Giuseppe Jona, grande esempio di medico e uomo, che divenne primario nel
1902, si deve l’ampliamento del Museo di
Anatomia Patologica fino al 1912.
Con Cagnetto un’altra tradizione si rinnovò, quella del passaggio di anatomo pa-
tologi di Venezia allo studio di Padova,
così come in passato anatomici veneziani
rinunciavano al seggio archiginnasiale
per insegnare a Venezia.
A Cagnetto seguirono Enrico Emilio
Franco, Angiolo Fabris e Giovanni Nazari
prima della seconda guerra mondiale, e
successivamente Menenio Bortolozzi, Antonio Giampalmo, Corrado Nadin e Enrico
Ferrari. Vincenzo Stracca Pansa ha contribuito a tener viva la tradizione scientifica e didattica del servizio di anatomia
patologica dell’Ospedale Civile con le
più aggiornate tecniche diagnostiche,
continuando così ad onorare l’altissima
fama che negli studi dell’anatomia ebbe
Venezia.
I musei di anatomia patologica:
glorie passate e valorizzazione attuale
La museologia scientifica raccoglie e documenta la realtà per poter conservare e
mostrare a fine divulgativo-didattico e di
ricerca ciò che si studia nei libri di testo.
L’oggetto di studio della medicina è
l’uomo con le malattie che lo accompagnano durante la sua esistenza. Senza
voler sminuire l’importanza dei senti-
menti che la malattia accompagnano, a
scopo principalmente didattico, essendo
l’uomo l’oggetto di studio, è stato necessario raccogliere ogni alterazione o anomalia patologica di esso. Da questa
necessità sono sorti i musei di anatomia
patologica dove i patologi raccoglievano e
conservavano casi rari e didattici per aiu9
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Pagina 10
I. Introduzione
tare a comprendere la materia oggetto di
studio.
Se è nota la corrispondenza tra l’occhio
umano e la camera fotografica può essere
intuitivo il parallelo che ha portato nel
tempo a sostituire l’oggetto, il reperto, con
la immagine di esso. Questo processo risulta però riduttivo in quanto si perde la
possibilità di allenare sensi diversi dalla
vista sostituendo le percezioni con una
mera ispezione fotografica.
Prima dell’esistenza dei computer e delle
simulazioni virtuali delle lesioni, l’unico
modo che avevano gli studenti e gli specializzandi dell’area medica per capire a
pieno l’espressione patofenica delle malattie era vederle e toccarle con mano.
L’avvento delle nuove tecnologie e la possibilità di ottenere immagini perfette ha
sovvertito le impostazioni museali.
La riflessione sulle possibilità che offrono
le nuove tecnologie spiega quindi perchè
oggi i musei siano stati in parte abbandonati, se non addirittura distrutti per riutilizzare i locali.
La spiegazione non è però una giustificazione: i musei di anatomia patologia testimoniano, al pari dei prodotti dell’uomo, le
civiltà passate. Dipingono un’epoca, una
realtà e aiutando a comprendere le malattie che accompagnavano l’uomo permettono di capire l’uomo stesso e l’ambiente
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I. Introduzione
da cui è stato modificato o che lui stesso
ha modificato.
L’unicità di questi musei e dei reperti che
li compongo è anche rappresentata dalla
mancanza, ad oggi, di pratiche diagnostiche che continuino a conservare e tramandare i reperti. La ragione di ciò
risiede nel declino delle autopsie che
erano fonte di materiale e l’occasione per
raccogliere i preparati esposti nei musei.
Un tempo era naturale per il clinico effettuare, con il patologo, l’autopsia. Questa
era vista come l’ultima visita al paziente,
dove cercare la spiegazione di ciò che
aveva palpato, auscultato e visto.
Oggi i clinici spesso credono che gli
esami laboratoristici e la diagnostica per
immagini siano sufficienti per capire le
patologie che affliggono i loro pazienti ritenendo le autopsie superate.
La diagnostica macroscopica infine è
stata soppiantata, dopo la seconda guerra
mondiale, dalla microscopica e conseguentemente le tecniche e le procedure
diagnostiche e terapeutiche sempre meno
prevedono l’ispezione degli organi mentre
frequentemente intervengono le biopsie
mirate.
Salvare il Museo, che è storia della cultura e della scienza al tempo stesso, è in
definitiva un modo per raccontare la storia
del pensiero dei patologi che lo costrui-
rono, capire un’epoca e offrirla in lettura
non solo ai medici ma anche agli storici
che verranno. È quindi in definitiva sal-
vaguardare un importante Bene Culturale
del nostro Paese.
I musei di anatomia patologica come fonte
di materiale di comparazione per la paleopatologia
Le collezioni di anatomia patologica rivestono un ruolo centrale nella formazione dei futuri medici chirurghi.
Cionondimeno, queste raccolte sono di
grande stimolo anche per gli studiosi di
una particolare branca condivisa della
scienza medica e dell’antropologia fisica,
una disciplina le cui origini si possono far
risalire al 1774, con la descrizione di un
tumore localizzato sul femore di un orso
ad opera di Johann Friedrich Esper
(1732-1781): la paleopatologia.
Nel 1913 Sir Marc Armand Ruffer (18591917), eminente studioso di reperti
umani egizi, definì la paleopatologia
come “la scienza delle malattie delle quali
può essere dimostrata l’esistenza sui resti
umani e animali dei tempi antichi”. Decenni dopo, il patologo scozzese Andrew
Tawse Sandison (1923-1982) affermerà:
“non si può conoscere interamente una popolazione se non si tiene conto della malattie che l’afflissero”.
La paleopatologia concorre dunque alla
ricostruzione delle antiche vicende
umane, al pari di tutte le altre discipline
scientifiche coinvolte in questo genere di
ricerche (antropologia, etnologia, archeologia, storia, botanica, zoologia, chimica).
L’indagine paleopatologica si basa prima
di tutto sulla descrizione del reperto, sia
esso scheletrico (nella gran parte dei casi
il paleopatologo lavora su soggetti inumati scheletrizzati) o mummificato: tipicamente è assai arduo andare oltre,
giacché spesso i resti umani antichi si
presentano incompleti, alterati dalle condizioni chimiche, fisiche e biologiche dei
luoghi in cui hanno dimorato per secoli.
La diagnosi delle malattie, che i medici
conducono valutando la storia clinica e
personale del paziente (anamnesi), i sintomi e i segni della malattia (semeiotica),
le indagini di laboratorio biomedico e la
diagnostica anatomo-patologica, diventa
una vera e propria sfida per chi si occupa
dei resti degli uomini vissuti nelle epoche
passate. I metodi di indagine, anche i più
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II. Il Museo di Anatomia Patologica
“Andrea Vesalio”
della Scuola Grande di San Marco
I. Introduzione
raffinati e moderni della paleopatologia
(analisi istologiche, ultrastrutturali e biochimiche), non consentiranno mai di pervenire a un inquadramento definitivo
della lesione: il tempo procede implacabile, rimuovendo una traccia dopo l’altra.
Una grande sventura, certamente, ma al
tempo stesso uno stimolo per elaborare
nuovi strumenti di ricerca.
Un ulteriore problematica è rappresentata dalle differenti manifestazioni assunte da una malattia nel corso dei
secoli: per definire questo aspetto, nel
1962 il patologo genovese A. Giampalmo
(1912-1998) utilizzò il termine di “patomorfosi”. È dunque lecito attendersi che
nei secoli passati quella stessa malattia
che oggi si presenta con sintomi e segni
di un determinato tipo, ne abbia mostrati
altri: ciò sulla base dei differenti approcci
chirurgici e farmacologici (si pensi al
ruolo rivoluzionario svolto dagli antibiotici), o delle diverse condizioni ambientali (alimentazione, condizioni igieniche
ecc.). Si prenda come esempio l’osteomielite: oggigiorno, se diagnosticata in
tempo utile può essere guarita e in ogni
caso il suo decorso può essere attenuato,
ma un tempo, tale patologia poteva modificare in maniera drammatica i distretti
anatomici colpiti e portare a morte il paziente.
12
Il museo di anatomia patologica diventa
allora un luogo privilegiato per chi si occupa dello studio dei segni lasciati dalle
malattie sui reperti umani antichi: qui è
possibile effettuare dei confronti fra reperti patologici provenienti da epoche diverse, supportati da diagnosi quasi
sempre certe e ben documentate.
Nei musei di anatomia patologica sono
generalmente esposti reperti risalenti
all’era pre-antibiotica o comunque privi
di sostanziali modificazioni indotte dalle
terapie: le lesioni che si riscontrano sono
dunque molto simili a quelle di cui si occupa la paleopatologia e ciò può contribuire in maniera notevole allo studio
della patomorfosi, di cui abbiamo parlato
in precedenza.
Va ricordato che non solo i reperti anatomici, ma anche i testi di anatomia patologica risalenti all’era pre-antibiotica,
spesso dimenticati nelle biblioteche mediche e scarsamente valorizzati, costituiscono dei validissimi riferimenti per il
paleopatologo.
L’anatomia patologica e la paleopatologia
sono discipline che si completano vicendevolmente. A entrambe spetta il dovere
di tramandare alle future generazioni di
ricercatori e curiosus naturae i beni
scientifici e culturali che costituiscono il
nucleo delle loro indagini.
Queste raccolte sono espressione di una
consolidata tendenza che si radica e progredisce a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, vale a dire la tendenza a
documentare le malattie e l’espressione
patofenica di esse mediante i reperti anatomici abbandonando definitivamente le
cere, i calchi e le preparazioni anatomiche specifiche ritenute appannaggio
degli anatomici che devono dimostrare ed
esemplificare e non documentare e portare evidenza di processi morbosi.
Nel 1871 venne stabilmente creato il
posto di dissettore anatomico che fu ricoperto da Luigi Paganuzzi (1843-1902)
che sviluppò e organizzò questo vitale e
importante settore dell’ospedale.
Nelle istruzioni interne per l’esecuzione
del Regolamento Organico dell’Ospedale
Civile Generale di Venezia del 1874, fra
i compiti del dissettore, oltre alle autopsie e alla responsabilità della sala anatomica, era contemplato anche l’obbligo
della conservazione di reperti anatomopatologici ritenuti interessanti in una
specie di museo che veniva arricchito in
continuazione di nuovi preparati “a secco
o in alcole” opportunamente registrati e
illustrati dalle osservazioni dei vari primari.
Tutti i reparti contribuivano ad incrementare il museo, talvolta anche su espressa
sollecitazione dei Regolamenti come
quello della Scuola di Ostetricia che imponeva al professore di raccogliere nel
corso delle “sezioni cadaveriche... i pezzi
patologici degni di osservazione onde arricchire il gabinetto patologico dello stabilimento”.
Il museo anatomico continuò ad essere arricchito di reperti e preparati fino al 900
inoltrato, suscitando così il grande favore
delle attività scientifiche e didattiche ad
esso connesse.
Sotto la direzione del primario Angiolo
Fabris, già assistente di Cagnetto, il
museo ebbe un importante sviluppo fra le
varie attività dell’istituto.
Fino agli anni ’70 il museo è stato curato
ed ulteriormente arricchito di reperti e
preparati in particolar modo dal professor
Enrico Ferrari, primario e docente di anatomia patologica dal 1956 al 1980.
Da allora fino al 1991 il museo è rimasto
in un locale adiacente ai laboratori di anatomia del secondo piano della palazzina
laboratori.
Dal 1991 il museo è stato trasferito in una
stanza a pian terreno nella palazzina laboratori e comprende 8 armadi in legno
con vetrine che contengono all’incirca
300 pezzi anatomici risalenti al massimo
ai primi decenni del Novecento, conservati in vasi di vetro. Erano inoltre presenti
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Pagina 14
II. Il Museo di Anatomia Patologica della Scuola Grande di San Marco a Venezia
III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia
tra i percorsi museali della cattedra Unesco
“Antropologia della salute – biosfera
e sistemi di cura”
diversi reperti osteologici e una raccolta
di calcoli biliari e urinari anche di notevoli dimensioni, alcune preparazioni anatomiche di inizio secolo disseccate e
colorate e un “gobbetto” imbalsamato e
conservato in una vetrinetta lignea.
Una parte dei reperti, restaurati si sono
oggi collocati nella nuova sede museale
vicino alla antica farmacia ristrutturata e
accanto allo scalone che conduce alla biblioteca dove è allestita la mostra permanente di storia della medicina e delle
strumentazioni dell’Ospedale Civile intitolata “la memoria della salute”.
Il Museo di Anatomia Patologica oggi,
oltre a conservare materiale anatomico
esemplificativo come strumento didattico
per studenti e specializzandi, o per anatomopatologi appassionati e studiosi di
malattie e patologie del passato, diventa
uno strumento utile per gli studiosi di alcune discipline medico-biologiche, in
particolare di paleopatologia, scienza che
studia le malattie delle popolazioni antiche con riferimenti storici, etnici e geografici. Il paleopatologo si affianca
all’antropologo, all’etnologo, all’archeologo, al chimico, al geologo, al botanico,
allo zoologo ed allo storico in uno studio
La Cattedra UNESCO presso l’Università di Genova (Responsabile del progetto Prof Antonio Guerci) nasce da una
esigenza culturale e da una realtà patrimoniale.
L’esigenza culturale tiene conto delle
tendenze contemporanee della ricerca di
tipo interdisciplinare attorno al tema dei
luoghi, delle forme e delle modalità di
cura, dove appare un nesso tra le idee di
salute, di ambiente e di medicina. Questo approccio supera la tradizionale separazione tra campi della conoscenza –
scienza, cultura, natura – verso un sistema nuovo e integrato. Il concetto di
salute e i metodi di cura non hanno valore universale: universale è invece la
qualità scientifica dell’indagine.
La realtà patrimoniale è il Museo di Etnomedicina A. Scarpa dell’Università
degli Studi di Genova. Il Museo alimentato in 50 anni di ricerche nei 5 continenti, raccoglie oltre 1500 pezzi e
rappresenta oggi un unicum nel panorama museale mondiale di questo genere. Alcuni ricercatori di differenti
discipline hanno formato un gruppo di ricerca attorno al tema dei luoghi, delle
forme e delle modalità di salute, cura e
guarigione.
14
multidisciplinare per concatenare tutti i
dati ambientali, fisici, culturali, economici ed etnografici al fine di studiare globalmente una popolazione.
I reperti anatomopatologici diventano importanti per valutare la patomorfosi, ossia
studiare come variano nel tempo le malattie e il loro manifestarsi, ad esempio a
causa delle modificazioni indotte dalla terapia antibiotica, oppure dalle diverse
condizioni ambientali, tipo di vita, abitudini alimentari, oltre che da variazioni e
mutazioni degli stessi agenti eziologici nel
caso di malattie infettive o parassitarie.
Il Museo di Anatomia Patologica può descrivere pertanto un ponte tra passato e
futuro attraverso un percorso di continuità
temporale e che diviene anche percorso
della continuità biologica con lo studio
del rapporto uomo-ambiente, in particolare nell’ecosistema lagunare.
Il Museo di Anatomia diventa quindi “archivio biologico” e centro di cultura per
ricerche mirate e specialistiche, e di conseguenza un bene culturale, intendendo
con questo termine “tutto ciò che costituisce testimonianza materiale avente valore
di civiltà” e pertanto degno di essere salvaguardato.
La Cattedra “Antropologia della salute –
biosfera e sistemi di cura” persegue le seguenti finalità:
1. Conoscere, promuovere e proteggere i
luoghi naturali e i sistemi culturali che
consentono alle società tradizionali di
perpetuarsi e di curare;
2. Proteggere la biosfera e l’etnosfera
come laboratorio naturale dei rimedi e
nozioni terapeutiche dei popoli indigeni; preservare i luoghi, gli spazi, le
architetture e i paesaggi della guarigione intesi come ripristino armonico
tra le comunità umane nell’ambiente
di insediamento.
3. Fornire un luogo di incontro tra i saperi di culture tradizionali e le conoscenze scientifiche della medicina
occidentale contemporanea, in un
contesto di pari dignità e scientificamente documentabile.
4. Aprire una nuova modalità cognitiva al
concetto di salute e di cura e al suo immaginario; ricercare le condizioni e i
criteri necessari al mantenimento della
salute, considerando etnomedicina,
pianificazione spaziale e territoriale
come aspetti della medesima attività.
5. Aprire la ricerca scientifica verso
altre concezioni della realtà e dell’immaginario, riconoscendone identità e
valore, generando un sapere multidi15
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 16
III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali
della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura”
sciplinare, culturale e cognitivo, ma
unico nel linguaggio.
6. Mettere in rete i Musei Etnomedici ed
Etnografici esistenti, i Musei di
Science Naturali e i Giardini Botanici.
7. Perseguire l’attività didattica con lauree, dottorati, scambi tra terapeuti e tra
docenti e studenti di altre Università
nonché insegnamenti post-laurea,
borse di studio, sviluppo delle istituzioni locali, divulgazione, rafforzamento delle capacità, trasferimento
delle conoscenze e sostenibilità.
8. Agire in accordo con le altre Cattedre
Unesco condividendo obbiettivi e finalità all’interno della rete UNITWIN.
La Cattedra prende in esame il vasto
contesto in cui si sviluppano le ricerche
medico-antropologiche nell’area della
salute e del benessere. Nelle finalità
viene espressa la volontà di rafforzare i
legami tra le Università, gli Istituti di ricerca di istruzione superiore per favorire
le capacità di trasferimento delle conoscenze in un ambito unitario.
Il progetto articola attorno al Museo di
Etnomedicina dell’Università di Genova
e a più ricerche sul campo. Queste le
aree d’indagine, dirette da specialisti disciplinari:
e) Antropologia: sistemi di cura, immaginario della salute, luoghi sacri, etno16
musicologia
f) Architettura: centri cerimoniali e spazi
di guarigione
g) Botanica : policulture e linguaggi delle
piante
h) Ecologia: equilibrio dinamico della
rete biotica, biosfera ed etnosfera
i) Etnomedicina: documentazione e indagini sul funzionamento di rimedi e
cure
j) Geofisica: geomorfologia, idrologia e
struttura del paesaggio
k) Medicina: determinanti e promozione
della salute globale
l) Pianificazione territoriale: topos di armonia ambientale e paesaggi oracolari
In questo contesto la medicina occidentale contemporanea diviene elemento di
confronto di dialogo con i sistemi di cura
propri di civiltà ed etnie differenti. Il minimo comun denominatore tuttavia resta
sempre la malattia vissuta e curata in diverse maniere e con differenti approcci.
Per quanto riguarda la specialistica disciplinare di Antropologia-Anatomia Patolgica e Paleopatologia (Prof Ezio Fulcheri),
il tema a noi più vicino resta tuttavia
quello delle malattie in sè, a prescindere
dai sistemi di cura, studiate nella patofenia e nel modo di essere individuate, osservate, capite e diagnosticate. Per questa
operazione sono necessari due approcci
III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali
della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura”
quello della museologia classica anatomo
patologica e quello della paleopatologia.
L’anatomia patologica è disciplina
medica fondata sull’esigenza di individuare la sede e la causa delle malattie,
laddove per sede si intenda il substrato
anatomico (di organo o apparato), istologico (isto architetturale dei vari tessuti)
e citologico (cellulare microscopico o
sub microscopico - ultrastrutturale).
Nella ricerca delle cause, l’anatomia patologica, estende le proprie indagini
nella ampia sfera della virologia e della
microbiologia, della genetica, della biochimica, delle alterazioni del metabolismo, negli studi di oncogenesi ed ancora
nelle anomalie di prima formazione
dell’embrione e del feto, di crescita e di
sviluppo come nelle alterazioni proprie
della senilità.
In tutti i campi, e sopra tutti, domina
sempre l’imperativo categorico di documentare e, come un tempo si diceva, di
“mostrare e di dimostrare”. Si delinea
dunque un approccio estremamente rigido della disciplina che non ipotizza o
suppone nulla ma cerca evidenze della
malattie, ne descrive le caratteristiche ed
il modo di apparire, delinea i processi
evolutivi ed i quadri terminali.
Per questi motivi costituisce la base del-
l’iter diagnostico e terapeutico, insegna
ai medici il valore non solo speculativo
ma, e molto più, clinico dell’evidenza
delle malattie e nel contempo, oltre ad insegnare a riconoscerle, ad impostare diagnosi differenziali analizzando analogie e
differenze tra i vari quadri morbosi.
La paleopatologia è una scienza che si
avvale di contributi multidisciplinari ma
che è fondata sull’Antropologia Fisica e
sull’anatomia patologica. Lo studio delle
malattie del passato può essere intrapreso con diversi obiettivi; tra questi, un
tema particolarmente interessante è
quello dell’interazione tra uomo ed ambiente (emergenza delle malattie in ambiente naturale ed artificiale) e dell’uomo
con le differenti culture e civiltà (diffusione delle malattie). La Paleopatologia
si intreccia pertanto con la storia della
cura delle malattie stesse (Storia della
Medicina) e con la patomorfosi sia dei
processi morbosi che degli agenti patogeni (Storia delle Malattie). La possibilità
di studiare reperti provenienti da differenti siti archeologici di varie epoche storiche distribuiti sul territorio nazionale
permette di concretizzare ricerche articolate e altamente finalizzate. La possibilità
di accedere ad una rete di Musei di Antropologia, di Paleopatologia e di Archeo17
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 18
IV. Il percorso museale
III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali
della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura”
logia permette poi di sviluppare una didattica articolata (teorico-pratica) di alto
livello.
Il Museo di Anatomia Patologica dell’Ospedale Civile di Venezia si colloca
in pieno nella strategia didattica e di ricerca della Cattedra Unesco.
L’ambiente particolare in cui si sviluppa
la città impone stili ed abitudini di vita
che in un passato non troppo lontano
erano del tutto dissimili da qualsiasi altro
ambiente antropizzato.
L’uomo, nei secoli passati, ha dovuto adattarsi ad una vita di laguna e di città lagunare con tutto ciò che questo comportava
in termini di rapporti ambientali con il
mare, la terra lagunare, la flora e la fauna;
l’ambiente naturale in cui veniva plasmato un ambiente artificiale e l’urbanistica di una realtà complessa.
A questo particolare ambiente (forse
unico al mondo) deve essere poi accostata
un’altra caratteristica del tutto particolare.
Venezia, vista come città estremamente
aperta al mondo ed al mondo orientale in
particolare con scambi non solo culturali
18
e commerciali e politici ma anche antropici, ne consegue che il concetto di patocenosi viene ampiamente stravolto a
Venezia dal luogo e dagli uomini.
Un ponte tra il presente ed il passato.
Sappiamo che il limite imposto alla Paleopatolgia era canonicamente fissato alla
Rivoluzione Francese e che i secoli successivi non vengono considerati. Più recentemente si è pensato di estendere tale
limite all’inizio dell’era industriale, nella
consapevolezza che il mutare delle condizioni ambientali (micro ambiente prossimo all’individuo, ambiente artificiale,
vale a dire costruito dall’uomo, ed ambiente naturale, seppure influenzato
dall’uomo) sono cambiati in modo significativo solo dopo questo momento storico:
Ancora potremmo dire oggi che un altro
limite potrebbe essere spostato, per la medicina, tra l’era pre e post antibiotica vedendo il momento della messa in
commercio della penicillina come il momento iniziale dell’espansione della farmacopea moderna chimica e di sintesi.
Le vetrine con preparati anatomici in liquido di dimora
Caratteristiche e storia
dei liquidi di dimora
I patologi nel tempo affrontarono il problema della conservazione dei preparati
museali da un particolare punto di vista
che li portò ad elaborare una serie di ricette e metodiche assai articolata, originale e caratterizzante i singoli istituti.
Dalla semplice raccolta e stoccaggio in alcool o in formalina si passò alla conservazione in liquidi particolari.
Si definisce fissazione il processo chimico
con cui si arrestano i fisiologici processi
trasformativi che seguono l’arresto delle
funzioni vitali; tale processo avviene trasformando i colloidi dei tessuti in gel irreversibili. Le soluzioni più utilizzate sono
alcool, formalina, soluzioni di sali di metalli pesanti e soluzioni di acidi inorganici
ed organici.
I fissativi possono essere suddivisi in due
classi: fissativi ad uso diagnostico e liquidi di dimora ad uso museale.
Tale distinzione è richiesta dal fatto che
le caratteristiche di un buon fissativo diagnostico si discostano in parte da quelle
dei fissativi ad uso museale il cui scopo
principale è infatti l’esposizione del reperto nella forma più fedele alla realtà e
non la sola conservazione dello stesso al
fine di conservarne le caratteristiche isto19
logiche e molecolari.
Nonostante gli svantaggi, sovente queste
sostanze sono state utilizzate in ambito
museale, dato che molte delle miscele fissative allestite in passato a scopi museali,
seppur ottimali, sono oggi in disuso a
causa dell’elevato loro costo o dell’elevata
tossicità.
I liquidi di dimora sono invece soluzioni
nelle quali è possibile conservare materiale biologico indefinitamente. Spesso
tali miscele derivano dalla diluizione
delle miscele fissative. I principali liquidi
di dimora per uso museale sono il liquido
di Zenker, il liquido di Foà, il liquido di
Mueller, il metodo di Nuzzi e quello di
Kaiserling.
Quello di Kaiserling, in particolare, consiste nell’immersione del pezzo per un periodo variabile da 12 ore a una settimana,
a seconda delle sue dimensioni, nel seguente liquido fissatore: formalina, acetato di potassio, nitrato di potassio e
acqua. Il reperto deve poi essere lavato in
acqua per alcune ore e immerso, per un
periodo che può essere protratto sino a 24
ore, in alcool 80 gradi, dove il pezzo riacquista i primitivi colori.
Infine si conserva il materiale in acetato
di potassio, acqua distillata, glicerina
neutra pura, timolo.
19
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 20
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Nella pagina a sinistra:
Vetrina 1
Vetrina 2:
Il microscopio di Giuseppe Jona
Grazie alle caratteristiche del liquido di
dimora il preparato anatomico tende a
costituire un sistema chiuso in grado di
mantenersi costante: nel tempo si stabilisce infatti un equilibrio chimico-fisico
tra il reperto anatomico ed il proprio liquido.
Se l’equilibrio tra il liquido e il reperto
viene rispettato, non sarà necessaria nel
tempo alcuna variazione del sistema.
Talvolta però il liquido può andare incontro ad evaporazione per la mancata
tenuta del contenitore: il reperto pertanto
si altera progressivamente, per l’esposizione all’ambiente circostante. In questi
casi l’integrità del reperto può venir
compromessa irrimediabilmente e pertanto si rende necessario un intervento
di ripristino sul liquido di dimora. Tale
intervento deve rispettare però sia
l’istanza storica dovuta all’antichità del
liquido in quanto testimonianza delle antiche procedure di allestimento dei campioni anatomici che l’equilibrio chimico
del microambiente. L’intervento non
deve alterare l’equilibrio chimico-fisico
instauratosi nel tempo tra il reperto ed il
proprio liquido.
Il liquido di dimora diventa parte integrante del reperto anatomico storicizzandosi ed autenticandosi con esso. Il
restauro di un preparato conservato in fis20
Le vetrine: memorie scientifiche
legate all’arte del vetro a Venezia
I. Vetrina 1:
LE COLLEZIONI DEL MUSEO, VARIE
TIPOLOGIE DI PREPARAZIONI
sativo liquido non può consistere nella
semplice sostituzione del liquido di dimora ma deve sempre prevedere il restauro del liquido stesso; in caso contrario
sarebbe come restaurare un dipinto senza
restaurare nel tempo la tela e la base del
colore, o ancora peggio cambiando la tela
ad ogni operazione di restauro.
La conoscenza delle caratteristiche del
liquido di dimora e la conservazione
degli stessi è quindi presupposto essenziale per la conservazione degli stessi e
quindi presupposto essenziale per la conservazione corretta del preparato e la
fruizione scientifica del materiale. Il preparato anatomico patologico antico può
essere infatti, e solo in tal modo, impiegato con successo per la ricerca storico
scientifica sull’evoluzione e la patomorfosi delle malattie.
II. Vetrina 2:
UNA FIGURA ESEMPLARE
DI PATOLOGO: LA STORIA DI JONA
L’interesse degli storici si è spesso rivolto verso la figura di Giuseppe Jona e
il museo dedica una parte a questa importante figura di uomo e medico.
Nato nel 1866 a Venezia si era laureato
a Padova nel 1892 dove rimase presso
l’istituto di anatomia patologica. Nel
1895 inizia la sua attività presso l’Ospedale Civile di Venezia. A lui si deve il
potenziamento dell’istituto e del museo
di anatomia-patologica fino al 1912
quando passa a dirigere la divisione medica II. Si dedica anche alla scuola pratica di medicina e chirurgia che il
nosocomio veneziano aveva istituito nel
1863 con corsi tenuti dai primari. Estintasi nel 1882, la scuola era stata riattivata nel 1896 per un lascito del chirurgo
Angelo Minich. Giuseppe Jona insegue
il sogno di farne un centro di alta cultura
per le scienze mediche, caratterizzato da
una impostazione scientifica e pratica
che la differenzi da quella teorica e di21
dattica dell’ateneo patavino. Nei tragici
giorni che seguono Caporetto, offre la
sua opera all’autorità militare come
ispettore malariologo e consulente medico-legale di tutti gli ospedali militari.
Opera anche come membro del comitato
di Assistenza Civile e il ministero dell’interno gli riconosce un impegno da
“patriota entusiasta di fede incrollabile”
che “da tutta la sua opera infaticabile di
cittadino alla patria. Vero esempio di attività e di altissimo valore civile”.
Entrato a far parte dell’ateneo veneto nel
1901 ed eletto presidente nel 1921,
Jona potenzia la diffusione della cultura
con la biblioteca circolante e cerca di
promuovere due istituti scientifici legati
alla tradizione e alla specificità veneziane: la stazione idrobiologica del lido
21
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 22
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Nella pagina a destra:
Vetrina 3: Colecisti
Vetrina 3:
La cassetta dei calcoli,
una raccolta originale
e l’istituto di anatomia patologica dell’Ospedale Civile.
Nel ’36, dopo quarant’anni di servizio
Jona si congeda dai suoi allievi e nella
sua ultima prolusione denuncia con
grande amarezza che la sua origine
ebraica gli viene rinfacciata come se
“l’essere nato fosse una colpa e un delitto
il sopravvivere”.
Ritiratosi per i sopraggiunti limiti di età,
l’anziano maestro evita l’umiliazione di
essere cacciato dal suo ospedale, come
toccherà agli altri medici ebrei in seguito
alle leggi razziali del ’38.
Per lui, che non aveva né moglie né figli,
l’ospedale aveva rappresentato la sua
casa, i suoi affetti, in esso aveva realizzato il senso più profondo della sua esistenza e della sua professione. Ma non
gli mancheranno altre umiliazioni. Nel
1938 il ministero dell’educazione nazionale ordina il censimento degli accademici di razza ebraica e poi la loro
espulsione, perciò viene radiato dall’istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti e
dall’Ateneo Veneto. Nel 1940, come gli
altri suoi corregionali, viene depennato
dall’albo dei medici e privato della sua
professione fra lo sgomento e il rammarico della società civile.
Il 16 giugno di quell’anno assume il
compito di guidare la comunità israeli22
tica, scegliendo di rimanere a Venezia
come riferimento per chi non vuole o non
può fuggire.
La situazione precipita l’8 settembre
1943. Il giorno dopo l’armistizio i tedeschi occupano Mestre e Venezia e si accingono a realizzare la “soluzione finale”.
Per farlo hanno l’esigenza di conoscere
la lista degli ebrei rimasti che ormai differiva molto da quella consegnata nel
1938 a Prefettura, Questura e Federazione Fascista.
Il presidente Jona aveva quell’elenco e
sapeva che gli sarebbe stato imposto di
consegnarlo con metodi ai quali sarebbe
stato difficile resistere. Allora lo fa nascondere da una persona di sua fiducia
nell’armadio della scuola media ebraica
(“la scoletta”).
Il 14 settembre Jona fa testamento, lascia
i suoi libri all’ospedale e pensa anche ai
medici e ai malati che gli sopravvivranno
perciò destina 240.000 lire in buoni del
tesoro al 5% all’istituzione di 4 premi annuali di 1.000 lire agli infermieri più meritevoli delle divisioni di medicina e
chirurgia generale in memoria dei genitori Adele e Moisè, stabilisce altre quattro donazioni annue di uguale importo
per quattro malati poveri bisognosi e due
borse di studio quadriennali di 8.000 lire
per il perfezionamento di due medici as22
sistenti dell’Ospedale Civile in istituti superiori italiani o stranieri.
Tre giorni dopo, il 17 settembre, si toglie
la vita avvelenandosi.
La lista i tedeschi non la ottennero mai,
l’aveva nascosta bene.
III. Vetrina 3:
ESEMPI DI PATOLOGIA TEMATICA
E DIDATTICA
Ca lcoli e concrezioni della colecisti
Una delle prime descrizioni di calcoli
della colecisti rinvenuti in una autopsia
risale al 1341 ed è stata fatta proprio
nell’università di Padova da un docente
dell’università di Bologna (Gentile da Foglino); essa include la descrizione di un
calcolo incuneato nel condotto cistico.
Contributi importanti sul tema vengono
offerti in seguito da A. Beniventi, A. Vesalio e da Morgagni.
La calcolosi biliare, di cui abbiamo diversi esempi all’interno della raccolta,
viene oggi suddivisa in calcoli puri e
misti. I calcoli puri possono essere di colesterolo, di bilirubinato di calcio e di
carbonato di calcio.
La conseguenza di una ostruzione cronica da essi causata è visibile nel vaso
di forma cilindrica con etichetta originale che riporta la dicitura “idrope della
colecisti”.
Ca lcoli e concrezioni
delle vie urinarie
La formazione di calcoli è possibile
anche a tutti i livelli delle vie urinarie ma
la maggior parte ha genesi nel rene.
Nel corso degli ultimi secoli, con il passaggio all’economia moderna e l’aumentata presenza di carne nella dieta i calcoli
vescicali sono scomparsi mentre è aumentata la frequenza dei calcoli renali.
All’interno della raccolta vi sono esemplari dei calcoli renali più rappresentati
in natura ovvero di ossalato di calcio ri23
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 24
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Vetrina 3:
Idrofrenosi
conoscibili per la superficie ruvida di colore marrone; esistono inoltre esempi di
calcoli di acido urico con superficie liscia e colore marrone e quelli di fosfato
di ammonio e magnesio dal colore chiaro
bianco e grigio.
I calcoli di grandi dimensioni sono di
probabile origine vescicale; causando
l’ostruzione della vescica inducono trabecolazioni nella parete vescicale che
portano al quadro della “vescica a colonne” presente nel vaso cilindrico con
etichetta manoscritta.
Accompagna infine la cassetta dei calcoli
il vaso cilindrico con etichetta manoscritta contenente un caso di idronefrosi
che è la dilatazione della pelvi renale dovuta all’ostruzione al deflusso dell’urina.
P a tologia ca rdia ca neopla stica
e ischemica
L’uomo non poteva sottrarsi in passato al
fascino di quest’organo che più di ogni
altro era collegato al mistero stesso della
vita. Tutti i grandi della medicina espressero ipotesi che inizialmente erano molto
lontane dalla realtà: Galeno intuì per
primo, contrariamente ad Aristotele, che
le arterie contenevano sangue; rimase
però fedele all’idea platonica che individuava nel fegato il principio delle vene e
del sangue in esso contenute. Non esclu24
Vetrina 3:
Metastasi cardiache di melanoma
deva inoltre che il sangue contenuto in arterie e vene si mischiasse all’interno del
cuore. Sarà Leonardo, studiando il cuore
in maniera accurata attraverso l’esperienza della dissezione compiuta principalmente su animali (quali bue e maiale)
piuttosto che sull’uomo, a comprendere la
natura muscolare del cuore; ne descrisse
inoltre le cavità e i meccanismi di chiusura e apertura delle valvole e il flusso di
sangue che lo attraversava (costruì un modello in vetro dell’aorta per compiere gli
esperimenti relativi al flusso sanguigno)
rimanendo però ancora in parte legato agli
schemi della scuola galenica.
Lo spartiacque tra passato e presente nell’anatomia di quest’organo venne segnato
proprio nell’università di Padova. Qui
William Harvey conobbe il grande patrimonio di osservazioni e dati di Vesalio,
Cesalpino, Fabrizio d’Acquapendente,
essenziali per criticare la concezione ga-
lenica nella sua opera Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis del 1628
dove spiega la fisiologia cardiaca (individua sistole e diastole) e del movimento
sanguigno (evidenziato per la prima volta
nella sua caratteristica di moto circolare)
come oggi lo conosciamo.
Una grande attenzione è stata rivolta a
quest’organo dai patologi dell’Ospedale
Civile di Venezia: la raccolta in vetro
vanta una collezione di trenta cuori tra i
quali sono stati selezionati i casi più interessanti per l’esposizione.
Assai rare sono le neoplasie primitive e le
metastasi interessanti il cuore, presenti in
due vasi esposti: un vaso contiene un
esempio di tumore primitivo del cuore ovvero un mixoma, il più frequente tra le
rare neoplasie cardiache. I mixomi hanno
sede preferenziale nell’atrio sinistro come
nel caso esposto, e possono essere piccoli
ma possono diventare grosse formazioni
che riempiono quasi interamente l’atrio.
Un altro vaso in vetro di forma cilindrica
con etichetta originale manoscritta “metastasi multiple di un melanoma maligno”
mostra invece l’interessamento epicardico
da parte di numerose metastasi.
L’assenza di terapie antineoplastiche e
l’impossibilità di stadiare i melanomi portavano a quadri “estremi” di metastasi
anche a livello cardiaco che con gli attuali
protocolli terapeutici non sono più visibili
al giorno d’oggi.
Accanto a questi casi rari numerosi vasi
mostrano patologie di più frequente riscontro quali casi di endocardite delle semilunari, panendocardite, ipertrofia
cardiaca e vasi contenenti preparazioni
che evidenziano la presenza di trombi.
IV. Vetrina 4:
ESEMPI DI PATOLOGIA TEMATICA
E DIDATTICA
L’etilismo e la cirrosi epa tica
Nel De sedibus et causis morborum per
anatomen indagatis Morgagni raccoglie
le storie di facchini, barbieri e giovani
donne che eccedevano nell’uso del vino.
L’autopsia di questi soggetti portò lo
stesso Morgagni, ancor prima di Laennec, a descrivere la forma classica di cirrosi che prese il loro nome: la cirrosi
epatica di Morgagni-Laennec.
25
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 26
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Vetrina 4:
Cirrosi atrofica di Morgagni-Laennec
Questa forma di cirrosi, nota anche con
i termini di cirrosi volgare, o portale o
atrofica o alcoolica, è caratterizzata dal
lento decorso, dalla abituale riduzione di
volume del fegato, dai fenomeni di stasi
portale e dalla comparsa, per lo più tardiva, di segni di insufficienza epatica.
Nel vaso esposto con l’etichetta “cirrosi
atrofica di Morgagni-Laennec”, è possibile apprezzare l’aspetto granuloso della
cirrosi menzionata, per la presenza di
noduli rilevati, di dimensioni variabili da
pochi millimetri a un centimetro. I noduli sono dovuti alla rigenerazione da
parte degli epatociti che rimangono intrappolati all’interno del tessuto fibroso
depositato dalle cellule di Ito; i noduli
più grandi creano un aspetto “a testa di
chiodo” sulla superficie dell’organo. La
tendenza ad aumentare il volume dell’organo nella fase iniziale si inverte nelle
fasi finali in cui si ha un organo raggrinzito, duro. Il colore del preparato non è
apprezzabile ma è verosimile che vi fossero delle aree verdastre a causa della
stasi biliare. A livello del lobo destro è
possibile infine vedere una massa che
potrebbe essere un carcinoma epatocellulare esito finale della rigenerazione incontrollata.
Nelle 40.444 autopsie effettuate nell’istituto di anatomia patologica dell’Ospe26
Vetrina 4:
Cisticerco nel cuore
dale Civile di Venezia nel cinquantennio
1906-56 si notò un crescendo impressionante di cirrosi nell’ultimo decennio
quale espressione di epatosofferenza legata al passaggio dal periodo carenziato
ma sano ed austero della guerra, a quello
di insensati abusi e di bevande alcoliche
ed in genere di cibi quantitativamente e
soprattutto qualitativamente irrazionali.
Sempre nello stesso cinquantennio vengono riscontrati nelle autopsie menzionate 120 tumori o “neoplasmi” epatici di
cui vi è un esempio all’interno del contenitore cilindrico in vetro chiuso con
etichetta originale che riporta indicazioni sulla natura del preparato.
La “preparazione tumorale” della cirrosi
mostrata nel primo preparato fa trovare
al cancro un terreno favorevole al proprio
sviluppo. Il carcinoma epatocellulare
all’esame macroscopico appare come un
nodulo per lo più avvolto da capsula, di
colorito bianco-grigiastro, o verdastro se
gli epatociti neoplastici conservano la
capacità di produrre bile.
P a tologia ca rdia ca infettiva
In passato, fino al XX secolo, in Italia i
commercianti di maiali percorrevano le
campagne dell’Italia centrale per comprare dai contadini giovani maiali che
una volta acquistati portavano ai caseifici della pianura padana dove venivano
ingrassati. Contadini e commercianti sapevano bene che questa patologia infestava la carne facendo comparire “segni
bianchi, quasi grane di miglio”. Poichè
infestava i muscoli erano spesso ricercati
segni della malattia a livello della lingua
dei maiali. I veterinari utilizzavano un
cisticercoscopio consistente in una lente
che aiutava, ingrandendoli, a riconoscere
i segni della malattia.
La cisticercosi è causata da Tenia solium
27
che può causare due distinte forme di infestazione, a seconda che l’uomo venga
interessato dalle forme adulte nell’intestino o, come nel caso mostrato, dalle
forme larvali. Gli esseri umani sono gli
ospiti definitivi dei cestodi mentre i maiali sono gli ospiti intermedi abituali. Le
infestazioni nell’uomo derivano dall’ingestione di carne di maiale parassitate,
le carni panicate, poco cotte contenenti
cisticerchi. Le infestazioni che causa la
cisticercosi umana avviene in seguito a
ingestione delle uova di Tenia solium, di
solito per stretti contatti con un soggetto
portatore di teniasi intestinale.
V. Vetrina 5:
PATOLOGIA POLMONARE
I l polmone dei soffia tori di vetro
e i tumori polmona ri
Nel 1960 venne assegnato il premio “Vitali” degli Ospedali Civili Riuniti di Venezia ad un articolo dal titolo “Enfisema
polmonare e professionale in una zona a
scarso sviluppo industriale” che si proponeva di indagare il rapporto tra il rapido
sviluppo industriale e le patologie polmonari, al fine di favorire la prevenzione di
“un importante gruppo di malattie”.
Al fine di ricavare dati eziopatogenetici
peculiari Venezia si ritenne ideale perchè
non industriale, come poche altre città,
27
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 28
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Vetrina 5:
Neoplasie polmonari
nei riguardi di quelle industrie (minerarie,
metallurgiche, chimiche..) che si ritenevano responsabili dell’insorgenza di enfisema polmonare; esisteva a tal riguardo un
solo tipo di industria, quella vetraria che
si presentava quasi ed esclusivamente sull’isola di Murano. L’assenza di automobili
faceva sì che i lavoratori non fossero esposti a inquinanti che avrebbero reso più difficile l’interpretazione dei risultati. Unica
eccezione presa in considerazione fu la vicinanza di Venezia con la zona industriale
di Porto Marghera.
Lo studio condotto su 880 autopsie effettuate tra il 1 gennaio 1959 e il 31 maggio
1960 concluse che l’enfisema era più frequente nei lavoratori manuali, categoria
che includeva i lavoratori del vetro. Viene
così valutato il quadro del cosiddetto
“polmone dei soffiatori di vetro” entrato
poi a far parte della letteraura anatomopatologica. Si trova esposto un esempio
dell’enfisema da sforzo dei lavoratori del
vetro rappresentato da una permanente ed
esagerata distensione degli alveoli polmonari con diminuita elasticità del parenchima; l’osservatore potrà notare un
organo dalla forma irregolare per la presenza di bolle subpleuriche, il volume risulta aumentato a causa dell’aumento del
contenuto aereo che lo rende più soffice
e ne sfuma il colore; al tatto dà la sensa28
Vetrina 6:
Pneumonite caseosa
zione di “lana cardata” e al taglio si osservano aree più o meno ampie di parenchima di aspetto microcistico sino a
voluminose bolle. Non ogni lavoro muscolare eccessivo può avere per conseguenza
la formazione di enfisema, ma solo quegli
sforzi nei quali entrano in azione il torace
ed i muscoli respiratori come avviene per
gli insufflatori di vetro che hanno bisogno
di respirare da prima la maggior quantità
di aria possibile per emetterla poi con una
espirazione forzata e prolungata.
“Uno degli aspetti più interessanti della patologia neoplastica del nostro tempo è l’aumento del numero dei casi di carcinoma
polmonare” così inizia un altro articolo
della raccolta di pubblicazioni scientifiche
degli Ospedali Civili Riuniti di Venezia.
All’inizio del secolo il carcinoma polmonare rappresentava un’evenienza rara, se
pure non eccezionale; erano casi “da
museo”; oggi qualunque settorato può ap28
prontare statistiche di decine di casi in un
anno di questo tumore che è tra le prime
cause di morte per neoplasia.
Gli studi di stampo anatomo-patologica sul
carcinoma bronco-polmonare a Venezia
ebbero una lunga tradizione, Fabris ne fu
l’iniziatore, segnalando già nel 1930 l’impressionante aumento di frequenza di questa localizzazione tumorale e tornando poi
più volte sull’argomento.
Venezia, per la scarsità di industrie, strade
asfaltate, autoveicoli e inquinamenti atmosferici si supponeva ancora una volta essere luogo ideale per dimostrare la oggi
nota correlazione tra fumo e neoplasia polmonare. Il fumo di tabacco ebbe un incremento in Italia a partire dal 1930, anno da
cui iniziarono le indagini in tale ambito a
Venezia. Queste ricerche nel 1960 dimostrarono che i deceduti per carcinoma
bronco-polmonare avevano fumato, in
media, notevolmente di più dei soggetti
sani di controllo. Le tipologie di tumore
correlate maggiormente al fumo di sigaretta sono il carcinoma squamocellulare e
il tumore a piccole cellule. All’interno
della raccolta ricordiamo i due esempi più
rappresentativi: l’“endotelioma penetrante
in un bronco” in cui la neoplasia è posizionata nella sede tipica del carcinoma
squamocellulare: vicino a un grosso
bronco. Il colore biancastro, la forma ovoidale a margini netti e la consistenza dura
sono tipiche di questa neoplasia.
Altro esempio è il “polmone maligno ulcerato”: le dimensioni della neoplasia
sono tali da sovvertire completamente la
struttura polmonare; al taglio si presenta
di colore chiaro come il precedente ma la
consistenza non è dura e i margini sono
più irregolari; la posizione più periferica
nel polmone, fa pensare ad un adenocarcinoma anche se le ulcerazioni, tipiche
delle neoplasie a rapido turn-over, non
escludono che si possa trattare dell’altra
neoplasia tipica dei forti fumatori: il tumore a piccole cellule o anaplastico a
grandi cellule.
VI. Vetrina 6:
LA TUBERCOLOSI
La tubercolosi, conosciuta da molti con il
termine letterario di “tisi”, che letteralmente significa consunzione (dal greco
29
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 30
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Vetrina 6:
I medici ponevano al volto
una maschera che copriva
tutto il viso e riempivano il naso
di erbe per proteggersi
ϕϑίσις), ampliamente descritta non solo
nei testi medici ma anche nella letteratura in particolar modo del 1800.
Definita anche “malattia romantica”, oltre
ad aver provocato la morte di molti personaggi famosi della letteratura e della storia, come la celeberrima Silvia cantata da
Leopardi, ha decimato la popolazione italiana nei secoli scorsi, dilaniando l’Europa
con una epidemia iniziata nel 1650 e durata duecento anni conquistandosi così il
triste primato tra le cause di morte dell’epoca. Nei secoli dei grandi viaggi e delle
grandi scoperte continentali, l’uomo europeo è stato il grande “untore” di tubercolosi nel mondo. È noto, che furono gli
emigranti europei a portare la malattia
nelle Americhe, e lo stesso si deve dire di
altri paesi oggi fortemente colpiti dalla patologia, che in passato, prima dell’arrivo
degli europei, ne erano totalmente privi,
come per esempio l’Africa subsahariana.
L’impatto che ha avuto la tubercolosi sulla
città di Venezia è testimoniato dalle parole
di Giuseppe Jona (1866-1943) che la definì una “piaga sociale” e “un flagello per
la nazione”; egli contribuì a documentare
la malattia tubercolare e la sua espressione patofenica mediante i reperti anatomici conservati nei liquidi di dimora.
L’agente causale diviene noto nel 1882
grazie agli studi del microbiologo tedesco
30
Robert Koch che, grazie alla scoperta del
Mycobacterium tuberculosis, vince il
Nobel per la medicina nel 1905.
La sezione inerente il tema della tubercolosi comprende una parte in liquido e una
parte di preparati a secco che permette di
apprezzare l’impatto della patologia sul sistema locomotore.
I preparati anatomici permettono di apprezzare l’impatto della tubercolosi sui diversi organi ed apparati: la tubercolosi
d’organo può comparire in qualsiasi organo o tessuto infettato per via ematica e
può essere l’unica manifestazione della
malattia. Gli organi che vengono tipicamente colpiti comprendono le meningi, i
reni, le ghiandole surrenali, le ossa e l’apparato genitale maschile e femminile.
Negli ospiti immunocompromessi o nei
bambini gli organi possono essere intaccati dalla devastante tubercolosi miliare
dovuta al passaggio attraverso le vene polmonari al cuore dei microrganismi che,
attraverso il sistema arterioso, possono
raggiungere tutti gli organi dell’organismo.
Due vasi mostrano la diffusione all’interno
dello stesso polmone per via endobronchiale e la diffusione per contiguità al dia-
framma. Un altro vaso cilindrico con etichetta manoscritta originale mostra la sede
prediletta dei tubercoli solitari all’interno
del sistema nervoso centrale: il cervelletto.
Vari esempi di tubercolosi d’organo mostrano inoltre l’impatto della malattia sull’apparato urogenitale, respiratorio e
gastroenterico. La tubercolosi vertebrale,
di cui ne esiste un esempio nella raccolta,
è stata descritta da Sir Percival Pott, un
chirurgo dell’ospedale St Bartholomeus di
Londra nel 1779. Da lui ha preso il nome
il morbo di Pott o spondilite tubercolare.
La colonna vertebrale presenta la lesione
tipica della tubercolosi localizzata su vertebre toraciche che ha causato l’erosione
dei corpi vertebrali con probabile collasso
della colonna.
La calotta infine presenta un’erosione subcircolare di circa 2 centimetri di diametro,
in corrispondenza dell’osso frontale sinistro. La localizzazione dei focolai tubercolari nelle ossa del cranio sotto forma
di processi osteolitici è confermata dalla
presenza di tre ulteriori erosioni interne, di dimensioni minori, due delle
quali localizzate sull’osso parietale destro e una sul parietale sinistro.
Le vetrine con preparati a secco
Oltre ai reperti in liquido di dimora, il
Museo espone una parte del materiale a
secco custodito dal reparto di anatomia
patologica dell’Ospedale Civile di Venezia: nelle vetrine si possono osservare i
reperti più rappresentativi dell’intera
raccolta, costituita da quasi 500 elementi craniali e postcraniali.
I femori (10 quelli esposti) e i calvaria
(ben 32), caratterizzano la collezione per
la loro consistenza e l’eccellente stato di
conservazione, offrendo quindi interessanti spunti didattico-divulgativi per
l’anatomia patologica, la paleopatologia
e l’antropologia fisica.
Ad essi si aggiungono casi importanti di
traumi e infezioni ossee e il reperto di
un essere umano completo, trattato secondo le tecniche della tassidermia.
Le preparazioni
delle calotte craniche
Nel corso del riscontro diagnostico il cervello viene rimosso, per essere sezionato
e analizzato. Per effettuare la rimozione
il patologo prepara l’accesso alla parte
scheletrica mediante un’incisione trasversale del cuoio capelluto, posteriormente al capo, da un processo mastoideo
31
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 32
IL BORACE VENEZIANO
IV. Il percorso museale
Il borace è un composto di formula
Na 2B4O7·10H2O che si presenta sottoforma di solido cristallino di colore
biancastro. È solubile in acqua e all’aria
aperta tende a disidratarsi.
Si rinviene nei cosiddetti depositi evaporitici, in aree geografiche, come i
laghi interni salati, in cui l’apporto idrico
può ridursi per periodi più o meno prolungati, causando l’aumento di concentrazione dei minerali disciolti e dunque
la loro precipitazione.
Le sue applicazioni sono molteplici:
come antisettico, conservante per alimenti, fondente per metalli, detergente
e sbiancante, nell’industria del vetro,
degli smalti e nell’industria conciaria.
La storia dell’industria boracifera è legata alle vicende commerciali di Marco
Polo (1254-1324): il borace o tinkal proveniente dai giacimenti del Tibet e del
Kashmir venne importato in Italia dal
celebre mercante, e l’area veneziana divenne famosa per la sua raffinazione
(da cui il nome di borace veneziano). Al
tempo veniva impiegato principalmente dagli orefici, per le saldature.
IV. Il percorso museale
1
all’altro; il cuoio capelluto con la galea
capitis viene quindi sollevato e ribaltato
in avanti, esponendo la calotta cranica;
a questo punto si procede con l’asportazione del calvarium (costituito dalla porzione superiore dell’osso frontale, delle
due ossa parietali e dalla squama dell’osso occipitale) attraverso l’utilizzo di
una sega vibrante per tessuti ossei e uno
scalpello; recise le meningi ed in particolare la dura madre, vengono esposti gli
emisferi cerebrali; successivamente
viene inciso il tentorio del cervelletto, liberando così la fossa cranica posteriore.
Viene poi reciso il collegamento del cervello con il midollo spinale e l’encefalo
rimosso viene posto a fissare in formalina. Dopo adeguata fissazione esso
viene sezionato secondo tagli codificati
da precise tecniche settorie.
Al termine di questa operazione il calvarium, se interessato da particolari lesioni patologiche, può essere sostituito
con una struttura di adeguato materiale
(più frequentemente legno), modellato
così da consentire la ricomposizione
della salma e nel contempo permettere
di conservare il reperto anatomico costituito dal calvarium. Il metodo utilizzato
a Venezia per l’ottenimento dei calvaria
è ben descritto dalla seguente immagine
(J. Ludwig, Autopsy Practice, 2002):
32
Le preparazioni di osso disseccato
Per poter apprezzare pienamente l’anatomia scheletrica normale o patologica è
importante rimuovere i residui organici
presenti sull’osso. D’altronde, tali residui
vanno incontro ai comuni processi di decomposizione, con ovvie e indesiderate
conseguenze.
Nel corso del XVIII e del XIX secolo,
nei gabinetti di anatomia di tutta Europa
furono proposti innumerevoli metodi per
il disseccamento delle ossa a fini espositivi. In questo campo fu celebre Johann
Gottlieb Walter (1734-1818), titolare
della cattedra di Anatomia dell’Università di Berlino. In Italia fu particolarmente attiva la scuola anatomica pavese,
diretta da Bartolomeo Panizza (17851867).
La disciplina che si occupa del trattamento dei reperti scheletrici, umani o di
qualsiasi altro vertebrato, è definita
scheletropea (dal greco skeletos = sche-
1
Borace è il nome comune di questo composto,
ma secondo l’International Union of Pure and Applied Chemistry (IUPAC), organismo incaricato di
stabilire le regole standard per la nomenclatura
chimica, si tratta di disodio tetraborato decaidrato o tetraborato di disodio decaidrato.
letro e poieo = faccio → preparare scheletri): vera e propria arte, per ottenere risultati di pregio è necessaria molta
pratica e la conoscenza approfondita dell’anatomia scheletrica dell’uomo o dell’animale trattato.
Il metodo più applicato per la preparazione dei reperti scheletrici consiste nella
macerazione: il reperto anatomico viene
posto in un recipiente di dimensioni variabili, ricolmo d’acqua con aggiunta di
borace (v. box di approfondimento); l’acqua viene portata e mantenuta a ebollizione per alcune ore, dopodiché si
rimuove il reperto e lo si priva dei tessuti
molli che circondano l’osso (nel caso di
arti in connessione si procede alla disarticolazione); il processo di bollitura va
dunque ripetuto, al fine di rimuovere i residui più grossolani ancora presenti sull’osso; a questo punto si procede alla
rimozione di cartilagini e legamenti e
all’asciugatura; segue infine lo sbiancamento con acqua ossigenata, la sgrassatura e la disidratazione dell’osso mediante
l’utilizzo di alcol e xilolo; dopo circa 2448 ore di trattamento chimico, l’osso può
essere esposto.
I. Vetrina 7
Esempi di pa tologia ossea infettiva
e tra uma tica
Gli agenti infettivi (virus, batteri, funghi)
possono coinvolgere anche il tessuto
osseo, originando delle lesioni riconducibili a:
• INFEZIONI ASPECIFICHE: la reazione
ossea non è specie-specifica, non permette dunque di risalire con precisione all’agente eziologico che ha
scatenato l’infezione. Le periostiti (in33
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 34
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Vetrina 7:
Grave osteomielite del femore:
le frecce rosse indicano le cloache
per il drenaggio del pus
fezioni del periostio, la membrana vascolarizzata che riveste le ossa) si
riconoscono per l’aspetto poroticospugnoso assunto dall’osso in corrispondenza della lesione, conseguente
all’iperostosi dell’osso sub periosteo.
Nelle osteiti ed ancor più nelle osteomieliti, molto più gravi, l’agente infettivo raggiunge parti profonde dell’osso
o il midollo osseo. Si formano ampie
zone necrotico-purulente stimolando
un’apposizione esuberante di osso
neoformato, che altera in maniera
drammatica la morfologia del distretto
scheletrico colpito; si riscontra inoltre
la presenza di fori da cui viene drenato il pus (cloache) e necrosi ossee
(sequestri). Periostiti e osteomieliti si
individuano più frequentemente sugli
arti inferiori.
• INFEZIONI SPECIFICHE: in questi casi
la reazione dell’osso presenta caratteristiche inconfondibili, che permettono
di correlarla con certezza a uno specifico agente infettivo. È il caso di alcune malattie note sin dall’antichità,
legate alla domesticazione degli animali, alle migrazioni e all’aumento
della densità demografica:
TUBERCOLOSI (Mycobacterium bovis, M.
tubercolosis): nel suo decorso coinvolge
i corpi vertebrali a livello toracico e
34
Vetrina 7:
la calotta affetta
dalla “malattia del cappello”
(Morbo di Paget)
lombare, causando il collasso del
corpo vertebrale, che così assume un
aspetto incurvato (cifosi).
SIFILIDE (Treponema pallidum): se congenita, causa deformazioni ossee a livello degli arti inferiori (tibie
incurvate) e riduzione della dimensione degli incisivi, che risultano affusolati e fratturati; se venerea coinvolge
anche il cranio, facendogli assumere
un aspetto mammellonare.
LEBBRA (Mycobacterium leprae): coinvolge soprattutto le ossa dello splancnocranio (tasche alveolari degli
incisivi mascellari, ossa nasali); le falangi di mani e piedi vanno incontro a
deterioramento osteolitico.
BRUCELLOSI (Brucella melitensis, B.
abortus bovis, B. abortus sus), coinvolge
come la tubercolosi i corpi vertebrali
ma in maniera più lieve.
Nella vetrina 7, sul primo ripiano, sono
esposti alcuni casi di periostite di tibia e
fibula, un caso incerto di osteite della
tibia e un grave caso di osteomielite del
femore.
Si segnala inoltre, sul primo ripiano
della vetrina 7, la presenza di una calotta
affetta da Morbo di Paget (“la malattia
del cappello”): un caso molto particolare
e dibattuto di patologia ossea, descritta
inizialmente da Sir James Paget (18141899), nel 1877 come un’infiammazione
cronica dell’osso (osteite deformante). Si
tratta di una delle patologie dell’osso più
comuni in tarda età, molto diffusa nell’Europa settentrionale. Colpisce preferenzialmente la popolazione maschile.
La causa scatenante non è chiara ma
sembrerebbe essere di origine ambientale, forse virale.
A fianco alla calotta affetta da Morbo di
Paget sono collocati due casi di neoplasia ossea: un mieloma dell’omero (preparato in liquido di dimora) e un osteoma
della tibia.
Il tessuto osseo è in grado di ricomporre
la sua integrità in seguito a un’alterazione traumatica, come nel caso di una
sua rottura parziale o completa (frattura).
In pagina successiva uno schema che
descrive le principali tipologie di fratture
(da Canci&Minozzi, Archeologia dei resti
umani, 2010):
È possibile distinguere tra fratture premortali e perimortali: le prime si sono verificate prima della morte del soggetto,
dunque osservando l’osso è possibile cogliere i segni lasciati dai processi di riparazione attorno alla zona fratturata; le
seconde sono spesso la causa stessa di
morte e dunque l’organismo non ha il
tempo di ripararle: non si osserva nessuna
differenza fra la zona fratturata e la superficie dell’osso che la circonda.
Un discorso a parte meritano le lesioni
postmortali, molto importanti da riconoscere onde evitare interpretazioni fuorvianti, specialmente quando si studiano i
reperti umani antichi: esse sono il risul35
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 36
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
TIPOLOGIA FRATTURA
DESCRIZIONE
Frattura chiusa
L’osso è fratturato ma la pelle rimane intatta
Frattura aperta
La pelle è lacerata e l’osso è esposto all’ambiente esterno
Frattura completa
L’intero osso, sia lungo che piatto, è spezzato
Frattura incompleta
La rottura non si estende all’intero osso. Nota anche come
“frattura a legno verde”
Frattura trasversa, obliqua,
trasversa-obliqua, a spirale
Questi termini indicano le direzioni delle linee di forza che
provocano la frattura
Frattura comminuta
L’osso si frantuma in più frammenti a seguito di un trauma
particolarmente violento. Poco comune in resti scheletrici di interesse
archeologico.
Frattura da impatto
Uno dei frammenti è spinto dentro il frammento opposto a seguito
della dinamica del trauma
Frattura da compressione
Causata da forze compressive. Ad esempio lo schiacciamento di
una vertebra a seguito di una caduta.
Frattura da trazione/avulsione
Si verifica a seguito di una improvvisa e violenta contrazione
muscolare che asporta un frammento d’osso.
tato delle alterazioni indotte dalle caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche
dell’ambiente di sepoltura. Per indicare
l’insieme di queste trasformazioni si suole
utilizzare il termine diagenesi.
L’acidità del suolo, i minerali disciolti
nelle acque percolanti, la luce solare, la
pressione delle radici e la secrezione di
sostanze chimiche di origine vegetale,
fungina e batterica, l’azione degli invertebrati (insetti e lombrichi), dei roditori,
degli ungulati e dei carnivori, il dilava36
mento dei corredi funebri e la predazione,
sono tutti fattori diagenetici che possono
intervenire sull’osso, compromettendone
l’aspetto originario e inducendo la formulazione di diagnosi, quando in realtà si è
di fronte a pseudopatologie.
Il processo di guarigione del focolaio di
frattura determina la formazione di un
callo osseo, attraverso le seguenti fasi:
• FASE INFIAMMATORIA: in corrispondenza dell’emorragia causata dal
trauma, l’osso va incontro a necrosi;
l’intervento di leucociti, macrofagi,
mastociti e fibroblasti rimuove l’osso
necrotico, inducendo un’iniziale processo di consolidamento
• FASE DEL CALLO FIBROSO O FIBROCARTILAGINEO: nel callo si verifica la
proliferazione di collagene e delle cellule progenitrici dell’osso e della cartilagine (preosteociti, osteoblasti,
condroblasti).
• FASE DEL CALLO OSSEO PROVVISORIO: il callo va incontro a mineralizzazione (formazione di osso primitivo
ancora privo dei sistemi haversiani)
• FASE DI RIMODELLAMENTO O CALLO
OSSEO DEFINITIVO: gli osteoclasti rimuovono l’osso compatto e mineralizzato. Ne consegue un successivo,
ulteriore rimodellamento, grazie all’attività osteoblastica e osteoclastica che
inducono la formazione di osso lamellare, composto dalle tipiche strutture
haversiane. Il segmento osseo si ricompone così definitivamente.
La vetrina 7, nel secondo ripiano, espone
alcuni interessanti casi di lesioni traumatiche: fra questi, la frattura di una tibia e
la frattura dell’articolazione del gomito.
Il femore in a ntropologia fisica
CARATTERISTICHE GENERALI
Il femore è l’osso più lungo e robusto del
corpo. È costituito da una struttura tubulare centrale detta diafisi e da due parti
terminali dette epifisi. Prossimalmente, si
articola con l’acetabolo dell’anca mentre
distalmente trova articolazione con la patella e l’epifisi prossimale della tibia.
Al fine di mantenere il baricentro all’interno del piano di appoggio dei piedi, il
femore ha un andamento convergente
verso l’articolazione del ginocchio. In
questo modo il peso del corpo viene scaricato, lungo una linea di trasmissione del
carico, dalla testa del femore al condilo
laterale.
Nell’uomo, il collo del femore è più lungo
rispetto ai primati non umani e presenta
una struttura interna con maggiore densità in corrispondenza del suo bordo inferiore, ovvero nel punto di maggior carico.
LA STORIA EVOLUTIVA
La postura eretta e l’andatura bipede costituiscono due tratti distintivi della specie Homo sapiens, e più in generale della
famiglia degli Ominidi (che comprende le
specie estinte appartenenti al genere
Homo e altre forme strettamente imparentate, come gli australopitechi e i parantropi). Queste due importanti innovazioni
anatomiche sono sorte e si sono affermate
in Africa, nel Miocene superiore, fra gli 8
e i 5 milioni di anni fa. Fino a quel mo37
H INTERNO Museo 13,5x20cm.pdf
Pagina 38
IV. Il percorso museale
mento, la deambulazione dei primati, di
cui la nostra specie fa parte, prevedeva
l’intervento frequente degli arti superiori,
in funzione di sostegno: questa caratteristica si può osservare molto bene negli
scimpanzé, primati adattati alla vita terricola che solo in particolari situazioni
(pericolo, raccolta di cibo) liberano momentaneamente gli arti superiori. Con
l’affrancamento definitivo degli arti superiori, questi poterono essere impiegati con
maggiore efficienza nella manipolazione
IV. Il percorso museale
dell’ambiente circostante, un vantaggio
notevole, che pose le basi per l’incremento delle facoltà cerebrali, con un meccanismo causa-effetto di cui è impossibile
tratteggiare la sequenza cronologica.
L’adozione di un nuovo approccio biomeccanico da parte degli ominidi, come
testimoniano i celebri resti di Lucy (Australopithecus afarensis), fu possibile grazie alle modificazioni intervenute in
diversi distretti scheletrici, fra cui ovviamente il femore.
ANTROPOMORFE
OMINIDI
Cranio
Forame occipitale in posizione posteriore
Forame occipitale in posizione avanzata
Colonna
vertebrale
Curvature poco accentuate; la colonna
è inclinata e destabilizza l’animale quando
si trova in posizione eretta (busto in avanti
rispetto al bacino)
Curvature accentuate; le due doppie
curvature (due cifosi e due lordosi)
permettono di ottimizzare l’allineamento
busto-bacino; la superficie dei corpi
vertebrali aumenta progressivamente
dall’alto verso il basso
Bacino
Lungo e stretto, l’osso iliaco è orientato
posteriormente, più lungo che largo; il
gluteo svolge una funzione essenzialmente
locomotoria
Ampio e svasato, l’osso iliaco è orientato
lateralmente, più largo che lungo; il gluteo
ha un’importante funzione stabilizzatrice
FEMORE
Più corto dell’omero, ortogonale rispetto
al terreno; collo breve
Convergente verso il ginocchio; collo
lungo; robusta articolazione del ginocchio,
che risulta in linea con le anche
Piede
Privo di arco plantare, è inefficiente nel
movimento di spinta; alluce divergente
Arcuato, con articolazioni delle dita in
grado di iperestendersi, favorendo il
movimento di spinta; alluce allineato
38
Nelle scimmie antropomorfe, come gli
scimpanzé e i gorilla, gli arti inferiori si
mantengono divaricati durante la camminata: il bipedismo risulta dunque molto
goffo, poiché ad ogni passo l’animale
ruota l’arto attorno al baricentro, dondolando il corpo lateralmente. Ciò è determinato dal particolare assetto del bacino,
in particolare dell’osso iliaco (orientato
all’indietro) e fa delle antropomorfe delle
pessime camminatrici: al contrario, gli
ominidi, grazie all’orientamento laterale
dell’osso iliaco, a una cavità acetabolare
più ampia, a un collo del femore più
lungo, e alla presenza di muscoli stabilizzatori come il piccolo gluteo, possono
camminare più agevolmente. Soprattutto,
la convergenza del femore verso l’articolazione del ginocchio consente di mantenere il baricentro più stabile durante il
movimento di avanzata, grazie all’allineamento anca-ginocchio-tibia e al conseguente avvicinamento dei piedi.
Confrontando la lunghezza degli arti superiori e degli arti inferiori nelle scimmie
antropomorfe e negli ominidi si può comprendere immediatamente l’importanza
del femore per l’evoluzione del bipedismo e della statura eretta.
Tali differenze sono il riflesso dei rispettivi modi di vita: arboricole-terricole,
quadrumani saltuariamente bipedi le an-
tropomorfe; bipedi tout-court gli ominidi.
Il femore, nel corso della sua storia evolutiva, è andato incontro a ulteriore modificazioni, ben evidenti dal confronto tra
i fossili degli australopitechi e dei primi
rappresentanti del genere Homo: l’incremento in lunghezza e diametro ha reso il
femore sempre più resistente, dotandolo
di più forti inserzioni muscolari, e ha migliorato l’efficienza della falcata (maggiore lunghezza della gamba = minore
dispendio di energia per coprire la medesima distanza).
Dunque il femore attuale, l’osso più lungo
e robusto dell’apparato scheletrico dell’uomo, è il risultato di un lungo processo
di modificazioni avvenute nel corso di
milioni di anni: ma ben oltre il tempo in
cui visse Lucy si dovrebbe risalire per
comprenderne l’origine e l’antica funzione, legata alla storia dei Vertebrati.
L’evoluzione, stupefacente bricolage biologico, ha sempre fatto i conti con i “materiali” disponibili nelle diverse fasi
della storia della vita sulla Terra (v. box
di approfondimento): nessuna struttura
anatomica è mai stata creata ex-novo, e
il femore non fa di certo eccezione.
LO STUDIO ANTROPOMETRICO
L’antropometria si occupa di studiare le
proporzioni corporee di individui e po39
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Pagina 40
IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
UN PREZZO DA PAGARE...
L’acquisizione del bipedismo e della statura eretta comportò notevoli vantaggi per gli
ominidi che popolavano le savane africane: primo fra tutti, l’affrancamento degli arti superiori fu cruciale per il potenziamento della capacità di manipolazione dell’ambiente e
dunque rappresentò un insospettabile volano del processo di encefalizzazione (chi
l’avrebbe mai detto che l’evoluzione del nostro grande cervello sia dipesa anche dal nostro strano modo di deambulare?);secondariamente, essere bipedi in uno spazio aperto
come quello di savana può dimostrarsi molto utile per l’individuazione di potenziali
prede e predatori, oltre che per fornire una superficie minore ai raggi solari, scongiurando
così il riscaldamento eccessivo del corpo.
Ma l’evoluzione è un continuo bilancio fra costi e benefici: essa agisce sui materiali disponibili, non disegna a tavolino strutture perfette.Volendo usare una metafora, l’evoluzione è più un aggiustatutto che si procura la materia grezza da un robivecchi, piuttosto
che un architetto che progetta qualcosa partendo da un foglio bianco. Una delle migliori
dimostrazioni della realtà dei processi evolutivi sta proprio negli inconvenienti che derivano dalle innovazioni morfo-anatomiche: nel nostro caso,“stare in piedi”ha significato
anche scaricare un peso medio di circa 70 kg su due punti d’appoggio anziché quattro,
sovraccaricando la colonna vertebrale (in particolare la zona lombare), le anche, le ginocchia e le caviglie. Camminando e correndo il sovraccarico aumenta considerevolmente.
A questo problema la colonna vertebrale cerca di ovviare con le sue curvature fisiologiche, il femore con la sua inclinazione e le robuste inserzioni muscolari, il piede con l’arco
plantare:queste soluzioni dissipano le forze che agiscono sulle articolazioni e le stabilizzano, ma ciò può non essere sufficiente, cosicché le strutture deputate al sostegno del
nostro corpo e alla sua locomozione, possono andare incontro a processi di deterioramento.
polazioni umane: ciò può risultare molto
utile nelle indagini forensi o nelle ricerche bio-archeologiche.
In mancanza di uno scheletro completo,
condizione piuttosto frequente nel caso
di ritrovamenti fortuiti o scavi archeologici, il femore è un valido indicatore
40
della statura e della costituzione di un
individuo.
La determinazione della statura e degli
indici di robustezza prevede la misurazione di numerosi parametri, fra cui la
lunghezza, i diametri della diafisi e della
testa, le circonferenze, la larghezza dei
condili. Queste operazioni vengono condotte mediante l’utilizzo della tavoletta
osteometrica e del compasso scorrevole.
LE PATOLOGIE DEGENERATIVE
Le patologie che coinvolgono normalmente il femore sono di tipo degenerativo, imputabili all’avanzare dell’età e
agli stress biomeccanici di tipo cronico
(causati per esempio da sovrappeso o attività professionali usuranti):
• ARTROSI (OSTEOARTROSI O OSTEOARTRITE): patologia di tipo proliferativo, comune sia nelle popolazioni
antiche che moderne. Tipicamente legata allo stress biomeccanico a carico
delle capsule articolari, con conseguente infiammazione delle membrane sinoviali che rivestono
l’articolazione e assottigliamento
delle cartilagini: lo spazio articolare
si riduce, si innescano fenomeni proliferativi nella zona interessata, con
apposizione di osso neoformato (osteofiti), formazioni cistiche e conseguenti
alterazioni morfologiche, che possono
compromettere sensibilmente la funzionalità dell’arto coinvolto. Il trattamento farmacologico con analgesici
può non essere sufficiente e in tal
caso è necessario l’intervento di artroprotesi.
•
OSTEOPOROSI: trattasi della riduzione
di densità ossea, che determina un aumentato rischio di frattura; è una tipica
patologia senile, ma può essere causata anche da disturbi endocrini (iperparatiroidismo, sindrome di Cushing),
neoplasie, patologie infiammatorie croniche (artrite reumatoide), malnutrizione, malassorbimento, menopausa.
Alle patologie di tipo degenerativo si aggiungono le patologie infettive (v. “Esempi
di patologia ossea infettiva”) e quelle tumorali, più rare.
La collezione espone 10 femori, nel ripiano più alto della vetrina 7.
L’ANTROPOLOGIA FISICA
Il termine “antropologia” (anthropos =
uomo; logos = discorso) si deve ad Aristotele (384-322 a.C.), che nel definire
l’uomo un animale razionale seppe coglierne le caratteristiche che lo accomunavano e al tempo stesso lo distinguevano
rispetto agli altri animali.
Erodoto (484-406 a.C.) e Ippocrate (468377 a.C.) lasciarono testimonianze estremamente interessanti per chi si occupa
di antropologia fisica e di paleopatologia:
entrambi viaggiatori, descrissero con minuzia i popoli con cui vennero in contatto, ipotizzando che le differenze fra di
essi fossero dovute all’influenza eserci41
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Pagina 42
IV. Il percorso museale
tata dall’ambiente. Curiose, a questo proposito, le considerazioni di Erodoto nel
terzo libro delle sue Storie: qui egli, rammentando una battaglia fra Egiziani e
Persiani, ne descrive i crani accumulati
al termine dello scontro, notando come i
primi fossero estremamente robusti rispetto ai secondi, sottili e fragili. Erodoto
ipotizzò che la causa andasse ricercata
nelle diverse abitudini di vita dei due popoli: gli Egiziani si rasavano la testa e si
esponevano al sole, mentre i Persiani si
coprivano e vivevano all’ombra fin da
bambini.
Nel Medioevo l’interesse per l’uomo dal
punto di vista naturalistico è messo in secondo piano. Questa è piuttosto l’epoca
delle testimonianze di missionari e commercianti: nel Milione di Marco Polo
(1254-1324), per esempio, vengono descritte le caratteristiche dei popoli orientali. Col Rinascimento è la figura di
Leonardo da Vinci (1452-1519) a spiccare su tutte: le sue tavole anatomiche
sono esempi magnifici dell’importanza rivestita dal corpo umano per gli studiosi
del tempo.
Edward Tyson (1649-1708), nel 1699, è
uno dei primi a studiare l’anatomia comparata di uomini e primati, evidenziando
somiglianze che aveva già fatto notare
Galeno (129-201 d.C.) più di mille anni
42
IV. Il percorso museale
prima.
L’opera di Carl Nilsson Linnaeus, meglio
conosciuto come Linneo (1707-1778), il
Systema Naturae (1707), colloca definitivamente l’uomo nel regno animale, fra i
Primati. Il naturalista svedese identifica
3 specie appartenenti al genere Homo: H.
sylvestris e H. troglodytes (l’orango e lo
scimpanzé) e H. sapiens (l’uomo in senso
stretto). Non riscontra nulla, dal punto di
vista morfo-anatomico, che possa indurlo
a istituire un genere diverso per oranghi
e scimpanzé: l’idea di una stretta affinità
fra uomini e scimmie antropomorfe comincia a farsi strada.
Il fondatore del Museo di Storia Naturale
di Parigi, Georges-Louis Leclerc, conte
di Buffon (1707-1788), nella sua Histoire
naturelle del 1749 contribuisce a impostare lo studio dell’uomo in chiave evoluzionistica, pur con tutti i limiti culturali
del suo tempo, sottolineando il ruolo
dell’ambiente nella determinazione delle
differenze fra gruppi umani. Questo approccio verrà ulteriormente approfondito
dal grande evoluzionista Jean Baptiste de
Lamarck (1744-1829). Non si può non citare, relativamente a questo periodo, la
figura di Johann Friedrich Blumenbach
(1752-1840), considerato il padre dell’antropologia fisica: egli anticiperà future indagini sulla locomozione degli
scimpanzé e si occuperà estesamente di
craniologia. Sua l’opera del 1775 De generis humanis varietate nativa.
Sulla scorta di questi nuovi stimoli, i
musei di scienze naturali del XIX secolo
cominciano a raccogliere ed esporre sempre più reperti antropologici.
Ma è soprattutto grazie alla teoria della
selezione naturale di Charles Darwin
(1809-1882) che l’antropologia fisica che
oggi conosciamo diventa una scienza a
tutti gli effetti, libera da qualsiasi speculazione metafisica: l’uomo è il risultato di
una lunga serie di modificazioni e per
comprenderne pienamente le caratteristiche è necessario studiarne l’origine e
l’evoluzione.
Ovviamente, l’accettazione di questa teoria non fu immediata: Darwin pubblica
On the Origin of Species nel 1859 e The
Descent of Man nel 1871. A questi celeberrimi lavori si affianca, nello stesso periodo, il Man’s place in Nature di Thomas
Huxley (1825-1895) del 1863, ma perché
la comunità scientifica si convinca della
bontà del ragionamento darwiniano dovranno passare molti anni. Cruciale, da
questo punto di vista, la pubblicazione
delle ricerche sull’ereditarietà di Gregor
Mendel (1822-1884): risalenti al 1865,
verranno prese in considerazione solo nel
1900, fornendo un eccellente supporto
alle teorie di Darwin.
Fraintendimenti e strumentalizzazioni
ideologiche renderanno difficile il cammino dell’antropologia fisica nella prima
parte del XX secolo, ma essa tornerà a
stimolare il dibattito scientifico con le
scoperte fossili degli ominidi africani nel
corso del dopoguerra.
L’oggetto delle ricerche dell’antropologia
fisica è dunque l’uomo inteso come ente
biologico (Homo sapiens). In altre parole
l’antropologia fisica si occupa di ricostruire la “storia naturale dell’uomo”,
come da definizione di Pierre Paul Broca
(1824-1880): la sua origine, la sua evoluzione, la sua variabilità, le sue caratteristiche
genetiche,
fisiologiche,
anatomiche ed eco-etologiche. Per farlo,
si avvale di numerose metodologie: dall’osteologia (lo studio dello scheletro)
all’antropometria, dalla ricerca molecolare (DNA) a quella paleontologica e paleopatologica, dall’indagine condotta sul
singolo individuo, a quella popolazionistica, estesa a interi gruppi umani.
In ciò l’antropologia fisica si differenzia,
almeno in Italia, dall’antropologia culturale. Va fatto notare, in ogni caso, che le
due discipline, seppur utilizzando approcci differenti, si completano e che il
loro dialogo è sempre auspicabile.
L’antropologia italiana vanta una storia
43
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IV. Il percorso museale
IV. Il percorso museale
Vetrina 8:
Batricefalia
illustre, che si lega con le dinamiche politiche e culturali innescate dal processo
di unificazione nazionale.
A Pavia, nel 1860, la cattedra di antropologia è tenuta da Giuseppe Vincenzo
Giglioli, cui succede Cesare Lombroso
(1835-1909), futuro docente di antropologia criminale a Torino nel 1905.
Va di certo annoverata la figura di Filippo De Filippi (1814-1867), allievo del
grande anatomista Bartolomeo Panizza e
docente di Zoologia presso la Regia Università di Torino: in questa città, la sera
dell’11 gennaio 1864, De Filippi tiene
una conferenza dal titolo “L’Uomo e le
Scimie”, in cui sostiene con forza l’applicabilità delle teorie di Darwin alla
specie umana. A lui succede Michele
Lessona, che ne raccoglie l’eredità.
Figura di spicco nel panorama antropologico italiano è senza ombra di dubbio
Paolo Mantegazza (1831-1910), professore di Antropologia presso l’Istituto di
Studi Superiori di Firenze dal 1869 al
1910 e fondatore, nel 1871, della Società
Italiana di Antropologia ed Etnologia.
Vale la pena citare un suo passaggio in
Quadri della natura umana (1870): per
Mantegazza l’antropologia “non ha altra
pretesa che quella di studiare l’uomo con
lo stesso criterio sperimentale con cui si
studiano le piante, gli animali, le pie44
Vetrina 8:
Idrocefalia. Si notino le ossa
sovrannumerarie (wormiane)
presentata dall’Associazione Antropologica Italiana, fondata nel 1995.
La ricerca antropologica attuale e futura
è inevitabilmente legata allo studio delle
dinamiche fra uomo e ambiente moderno: la tecnologia, uno straordinario
prodotto dell’evoluzione culturale, interessa ormai ogni aspetto della vita
umana, dall’alimentazione all’igiene personale, dal lavoro al tempo libero. Quali
sono e quali saranno le sue conseguenze
su quel bipede dal grande cervello chiamato uomo?
tre… Non ha altra aspirazione che
quella di misurare, di pesare l’uomo e le
sue forze senza il giogo di tradizioni religiose, di teorie filosofiche preconcette,
senza orgoglio, ma senza paure”.
Giuseppe Sergi (1841-1936), professore
a Bologna e Roma, è un altro grande
esponente dell’antropologia italiana: allievo di Mantegazza, se ne discosta successivamente, segnando così una
profonda frattura con l’impostazione olistica della disciplina fino allora fortemente voluta dal suo ex maestro. Nasce
con Sergi l’antropologia fisica italiana: è
un passaggio importante, perché da
adesso in poi i due campi dell’indagine
antropologica, quello biologico e culturale, marceranno separatamente.
Non vanno dimenticate le figure di Giu-
stiniano Nicolucci (1819-1905) che insegna a Napoli e vi fonda il Museo di Antropologia ed Etnologia, di Enrico
Tedeschi (1869-1931) e Fabio Frassetto
(1876-1953), allievi del Sergi e docenti
a Padova e Bologna, di Enrico Morselli
(1852-1929), autore de L’uomo secondo
la teoria dell’evoluzione, e di Rodolfo Livi
(1856-1920) autore di Antropometria
militare, imponente studio antropometrico condotto su 300.000 soldati di diverse zone del nostro paese.
Fino al secondo conflitto mondiale, l’antropologia italiana può contare su centri
di ricerca ben consolidati: Bologna, Napoli e Roma per l’antropologia fisica, Padova, Firenze e Torino più incentrate
sugli studi di carattere etnologico.
L’antropologia fisica in Italia è oggi rap-
II. Vetrina 8:
LA COLLEZIONE DI CALVARIA
La collezione di calotte del Museo è di
indubbio valore. Consiste di 32 calvaria
(27 nella vetrina 8), su cui è possibile
evidenziare numerose alterazioni patologiche, tuttora in corso di studio. Fra i
casi più eclatanti che vale la pena segnalare rientrano senza dubbio i calvaria affetti da batricefalia (emergenza più o
meno accentuata della porzione superiore della squama occipitale), plagiocefalia (un grado più o meno notevole di
asimmetria delle due metà della volta
cranica), macrocefalia-idrocefalia (lo sviluppo abnorme dell’encefalo, spesso accompagnato da raccolta di liquido nei
ventricoli cerebrali), iperostosi frontale
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IV. Il percorso museale
Vetrina 8:
Iperostosi frantale interna
(Sindrome di Morgagni)
Il nano
interna (o Sindrome di Morgagni-StuartMorel, un ispessimento, normalmente bilaterale, del tavolato interno dell’osso
frontale, associata a patologie dismetaboliche come il diabete), e la patologia
vascolare endocranica o meningea reattiva.
La teca 9 con preparazione anatomica in tassidermia
Fra i reperti a secco esposti nel Museo
spicca un essere umano custodito all’interno di una teca, posizionato su un supporto museale di antica fattura.
Il caso clinico
La statura del soggetto è di 67 cm, la circonferenza cranica di 56 cm e quella toracica di 70 cm. Sono presenti vistose
malformazioni scheletriche, fra cui un
marcato gibbo, associabili al nanismo.
Gli occhi e il cuoio capelluto sono in
sede e appaiono disseccati ma in buono
stato di conservazione. La cute è lucida,
di colore bruno. Aldilà dell’incisione
cranica, tipica dell’esame autoptico, la
presenza di una doppia incisione, anteriore e posteriore, risulta inusuale a fini
46
strettamente medico-legali: l’ipotesi è
che l’individuo sia stato sottoposto ad autopsia e successivamente preparato per
un’esposizione museale. A questo proposito venne inizialmente ipotizzato un intervento di tannizzazione, suggerito dalla
colorazione innaturale della cute: tale
metodica, sviluppata nel 1867 a Padova,
da Lodovico Brunetti, consisteva nel dissanguamento, con successivo lavaggio
del letto vascolare tramite iniezione di
acqua nelle arterie; seguiva dunque una
fase di sgrassamento dei tessuti con etere
solforico e la tannizzazione con acido
tannico diluito con acqua demineralizzata; la preparazione si concludeva con
la disidratazione mediante esposizione
ad aria calda compressa.
La tecnica di preparazione
in tassidermia
L’ipotesi della tannizzazione è stata tuttavia sconfessata dall’esame radiografico
del soggetto, che ha evidenziato l’assenza
degli organi interni, sostituiti da materiale di riempimento: il corpo è stato dunque completamente eviscerato, la cute
presumibilmente rimossa, trattata con fissativi come il sapone arsenicale, per
scongiurare i processi degenerativi e in
seguito disidratata e rimontata sul reperto
scheletrico; quest’ultimo è stato invece
trattato secondo le tecniche della scheletropea (v.: “Le preparazioni di osso disseccato”).
Si è dunque di fronte ad una tipica tecnica tassidermica, utilizzata nei musei di
Scienze Naturali per le esposizioni zoologiche: ciò è sicuramente inusuale per
un reperto umano, che in genere viene
mummificato artificialmente, lasciando
all’interno della mummia almeno una
parte degli organi interni, se non addirittura tutti. Tutto ciò depone a favore dell’ipotesi che il preparatore si fosse
formato presso il “Reale Istituto Veneto
di Scienze Lettere e Arti” di Venezia, nel
quale lavorò Enrico Filippo Trois (18381918), specializzato per l’appunto in tassidermia. Tuttavia, l’assenza di un
rivestimento in gommalacca, tipico di
tutte le preparazioni del Trois, non permette di attribuirgli con certezza la preparazione di questo reperto.
Indipendentemente dalla documentazione storica e tecnica relativa alle spoglie di quest’uomo, resta la grande
importanza del reperto, un raro caso di
tassidermia umana.
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SCUOLA GRANDE
DI SAN MARCO