INDICE Presentazione, di Oliviero Roggi pag. 13 1. Il rischio d’impresa, di Oliviero Roggi e Alessandro Giannozzi 1. Definizione di rischio 2. La misurazione del rischio: indicatori generali sigma e beta 2.1. Il fattore sigma e le caratteristiche della distribuzione di frequenza dei risultati d’impresa 2.2. Il fattore Beta 3. La visione classica d’impresa e il rischio 4. Rischi d’impresa: una classificazione per natura 4.1. I rischi operativi 4.2. I rischi finanziari 4.3. I rischi di mercato 5. Rischi d’impresa: business and leverage risk 6. Adeguatezza delle fonti e rischio di struttura finanziaria 7. Il rischio e le fasi del ciclo di vita di un’impresa 8. Il rischio e il valore d’impresa 8.1. L’inclusione del rischio nel tasso di attualizzazione 8.2. L’inclusione del rischio nei flussi di cassa 8.3. L’inclusione del rischio nei flussi di cassa at risk (CFaR) 5 » » 15 15 » 19 » » » » » » » » 19 23 25 27 27 29 31 32 » » » 36 39 44 » » 47 50 » 50 9. Rischio di credito, insolvenza e costo del debito per l’impresa 9.1. La definizione del rischio di insolvenza/credito nella prospettiva del risk taker bancario: il rischio di credito 9.2. Le componenti del rischio di credito 9.3. La relazione tra perdita attesa e costo del debito: il pricing del prestito 2. Il corporate risk management. Analisi del rischio, il capitale di dotazione e i soggetti prenditori, di Oliviero Roggi 1. Evoluzione degli studi sul risk management e il trattamento dei rischi puri 2. Il risk management e le aree tipiche di intervento 2.1. Il risk management nell’accezione tradizionale (Traditional Risk Management) 2.2. Il Project Risk Management 2.3. Il Financial Risk Management 3. Il processo di risk management 3.1. L’identificazione degli obiettivi di risk management e d’impresa 3.2. Il risk assessment 3.3. La stima dei rischi (Risk estimation) 4. Il valore d’impresa e la valutazione dei rischi. Il modello economico valutativo 4.1. Il modello economico valutativo 4.2. Gli effetti delle imperfezioni e l’allontanamento dalla finanza neoclassica 5. Le principali strategie e tecniche di gestione dell’incertezza (risk treatment) 5.1. Risk Avoidance 5.2. Risk Transfer 5.3. Risk Retention 5.4. Risk Reduction, la diversificazione e le altre policies 6. Il monitoraggio dei rischi sostenuti 6 pag. 52 » » 53 55 » 60 » 63 » » 63 65 » » » » 65 65 66 67 » » » 68 69 72 » » 80 80 » 83 » » » » 84 85 86 86 » » 87 89 7. Il retained risk e la necessità di un fondo di garanzia: cenni 8. Il capitale di dotazione, il rischio e la garanzia patrimoniale 9. Il capitale investito, di dotazione e quello sociale nella prospettiva classica della finanza aziendale 9.1. Il modello classico 9.2. Il modello assicurativo 10. I prenditori del rischio d’impresa, seniority e insolvenza 3. La valutazione dell’impresa e del suo capitale economico, di Oliviero Roggi 1. Premessa 2. Il concetto di valore d’impresa. Teoria e prassi professionale 3. Il valore d’impresa e il valore dell’equity. Una premessa 4. Le scelte del valutatore e il processo di stima del valore 4.1. Gli obiettivi della valutazione, i valutatori e i soggetti promotori 4.2. Le circostanze nelle quali si realizza la valutazione 4.3. La raccolta delle informazioni 4.4. La scelta del metodo di valutazione delle imprese 4.5. La determinazione del valore dell’impresa e la redazione della relazione di valutazione 5. I fondamentali d’impresa. Variabili determinanti nella valutazione diretta dell’impresa e del suo capitale proprio 5.1. Il metodo patrimoniale 5.2. Il metodo reddituale 5.3. Il metodo misto. “Stock e flussi di valore” 5.4. Il metodo finanziario. Il valore del tempo e dei flussi finanziari 7 pag. 90 » 91 » » » 92 94 96 » 100 » 105 » 105 » 106 » 108 » 109 » 110 » 111 » 112 » 113 » 115 » » » » 116 118 122 127 » 131 5.5. La valutazione delle operazioni di M&A. L’impatto delle sinergie sul valore intrinseco delle imprese coinvolte 6. I metodi indiretti di valutazione del capitale economico delle imprese 6.1. I multipli di mercato e delle transazioni comparabili. Una definizione 6.2. Il Processo di calcolo di un multiplo generico 6.3. Come si scelgono le imprese comparabili 6.4. “Il valore dei propri simili”. La scelta del multiplo di mercato più adatto per il confronto con imprese simili 6.5. I multipli delle transazioni di imprese simili. Il valore d’impresa e i multipli impliciti 6.6. Vantaggi e svantaggi nell’utilizzo del metodo dei multipli 4. La leva fiscale nella valutazione della struttura finanziaria e del rischio di default, di Valentina Cioli 1. Premessa 2. La posizione della dottrina sul rapporto debito/capitale proprio 3. La criticità della variabile fiscale nella determinazione della leva finanziaria 4. Il rischio di default nella stima del costo del capitale di debito 5. La situazione prima della riforma fiscale 1997 e le opportunità offerte dalla normativa fiscale vigente 6. L’equazione della leva finanziaria sotto specifici scenari tributari 6. Conclusioni 5. Cartolarizzazione dei crediti e crisi dei mercati finanziari, di Francesco Ferragina 1. La crisi dei mercati finanziari e la cartolarizzazione 2. Gli elementi caratteristici di un’operazione di asset securitization 8 pag. 141 » 144 » 145 » 146 » 147 » 148 » 153 » 154 » 157 » 157 » 160 » 163 » 168 » 171 » 178 » 182 » 187 » 190 » 197 2.1. La struttura dell’operazione 2.2. I rischi connessi a un’operazione di securitization 2.3. L’originator 2.4. Special purpose vehicle 2.5. Tecniche di Credit enhancement 2.6. Società di rating 2.7. Servicer 3. Alcuni esempi di strutture di cartolarizzazione 3.1. Le Collateralised Obligations (CO) 3.2. Le Asset Backed Commercial Paper (ABCP) 4. Conclusioni Bibliografia pag. 199 » » » » » » » » » » 202 204 207 210 212 215 217 218 221 226 » 227 9 Al professor Ivano Paci nostro Maestro PRESENTAZIONE Nel panorama delle discipline aziendali che si occupano della Finanza Aziendale i temi del rischio, della struttura finanziaria e degli strumenti per la mitigazione degli eventi aziendali negativi sono fortemente dibattuti e oggetto di insegnamenti di ogni genere e grado. Oggi presentiamo questo lavoro collettaneo che, in continuità con Temi di finanza aziendale a cura di Ivano Paci, vuole costituire un utile compendio per l’approfondimento sistematico di alcuni temi centrali nella formazione dello studente undergraduate. Alcune letture sono però fruibili anche da studenti graduate, almeno per coloro che non fanno della finanza aziendale l’oggetto principale di studio e lavoro. Le recenti modifiche legislative in materia di diritto societario, l’introduzione di nuovi strumenti finanziari e l’evoluzione della disciplina a seguito delle mutate condizioni dei mercati finanziari rendono opportuna l’illustrazione di alcuni argomenti di finanza aziendale non ancora accolti nei più diffusi manuali dedicati alla disciplina; sebbene la “Finanza Aziendale” sia costituita da un “corpus” ormai accettato di “oggetti” di indagine, di “principi” ispiratori e di criteri di analisi, che attribuiscono alla disciplina medesima un’apprezzabile unitarietà, si percepisce la necessità di questo compendio di letture critiche. L’universalità di contenuti della manualistica, dominata dal progressivo affermarsi delle impostazioni culturali e delle categorie concettuali di origine angloamericana, tende infatti a non tenere conto della specificità dei contesti istituzionali e ordinamentali, oltre che dei sistemi economici, all’interno dei quali si svolge la vita concreta delle imprese. La considerazione che precede, che si presterebbe a più ampio svolgimento, spiega l’origine di questo volume, destinato prevalentemente a finalità didattiche, che raccoglie nelle sue varie parti l’esposizione di argomenti e temi di attualità che integrano quelli dei testi di base. Si tratta di argomenti che completano e approfondiscono temi generali (il rischio, e la valutazione delle imprese) o illustrano tecniche finanziarie di recente introduzione nel nostro Paese (la cartolarizzazione) o danno noti- 13 zia sui rapporti fra scelte finanziarie e ordinamento tributario italiano. Naturalmente quelli contenuti nel testo sono alcuni degli argomenti che meriterebbero di essere illustrati. Nel Capitolo 1, in alcune parti realizzate insieme ad Alessandro Giannozzi, si illustrano le principali definizioni e classificazioni di rischio, legando queste ultime al valore dell’impresa nell’ottica economicofinanziaria. Inoltre, si tenta di chiarire il rapporto tra rischio di credito, insolvenza e pricing del debito aziendale. Nel Capitolo 2 si introduce il corporate risk management e si illustrano i concetti e i processi necessari per l’analisi del rischio, la quantificazione del capitale di dotazione di un’impresa, normalmente detto capitale di rischio, e i rischi assunti dai soggetti finanziatori dell’impresa. L’obiettivo è di far comprendere come il rischio d’impresa, generato dalle decisioni strategiche, debba essere identificato, stimato e trattato con adeguati strumenti onde evitare conseguenze negative capaci di deprimere i risultati d’impresa e non permettere il rispetto del principio di massimizzazione del valore. Le fasi di identificazione, valutazione e trattamento del rischio sono ivi trattate in dettaglio. Nel Capitolo 3 è trattato il tema centrale della misurazione del valore e in particolare della valutazione dell’impresa, tanto nella prospettiva del socio di capitale che del finanziatore terzo. Nel Capitolo 4, Valentina Cioli produce alcune riflessioni utili a collocare il principio di massimizzazione del valore e di ottimizzazione della struttura finanziaria all’interno della vigente normativa fiscale mostrando l’importanza della leva fiscale nelle scelte di finanziamento degli investimenti e le ricadute sul valore d’impresa. Infine, nel Capitolo 5, Francesco Ferragina riprende e completa le riflessioni sulla cartolarizzazione contestualizzandole rispetto alla crisi finanziaria mondiale che proprio da tali strumenti ha tratto origini. Ai singoli autori che da tempo collaborano con la cattedra di Finanza aziendale della Facoltà di Economia dell’Università di Firenze va il mio ringraziamento per il loro apprezzato impegno. Questo volume è dedicato al professor Ivano Paci, nostro maestro, primo docente della disciplina di Finanza Aziendale presso la nostra Facoltà. A lui va la mia riconoscenza per il percorso umano e professionale vissuto insieme. Oliviero Roggi 14 1. IL RISCHIO D’IMPRESA di Oliviero Roggi e Alessandro Giannozzi* 1. Definizione di rischio Ogni soggetto economico, in qualità di soggetto decisore, è naturalmente sottoposto all’incertezza e al rischio degli accadimenti futuri che lo riguardano. Ancora tutt’oggi, né la ragione né l’esoterismo sono riusciti a eliminare l’incertezza rispetto al futuro. Certo, gli strumenti logici e scientifici si sono evoluti al punto di divenire sofisticati modelli di simulazione del futuro, ma nessuno di essi ha potuto eliminare quell’incertezza intrinseca nella condizione umana. È l’incertezza nel prevedere fatti futuri che ci permette di introdurre l’argomento trattato in questo libro: il rischio. Di esso si illustreranno le manifestazioni generali e poi quelle specifiche del rischio d’impresa e in particolare del rischio finanziario. Prima di ciò, dobbiamo tentare di delimitare i confini logici ed epistemologici dei concetti di incertezza e di rischio. Lo faremo dopo aver richiamato le definizioni più comuni e quelle specifiche utilizzate nell’ambito delle discipline economico-finanziarie. Il Vocabolario della Lingua Italiana Treccani (1991, p. 1479) riporta per il concetto di rischio la seguente definizione: “Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”. In questa definizione si enfatizzano solo gli aspetti negativi del rischio ovvero quelli connessi al verificarsi di un danno. Il Dizionario Enciclopedico Treccani (1970, p. 424), invece, alla voce “Rischio in economia”, riporta una definizione molto più vicina a quella ormai utilizzata nella finanza e anche più prossima a quella antichissima cinese: “Il rischio è indissociabile dalle operazioni economiche che, svolgendosi nel tempo, si basano su previsioni del futuro. Gli errori di previsio* Il par. 1.9 è da attribuirsi interamente ad Alessandro Giannozzi, i rimanenti a Oliviero Roggi. 15 ne, positivi o negativi, sono infatti frequenti e si traducono sempre in perdite anche quando è possibile rettificare le previsioni stesse durante il corso delle operazioni”. Il dizionario ideografico cinese illustra il rischio come la combinazione di due altri concetti rappresentati dagli ideogrammi della perdita (pregiudizio) e dell’opportunità. Ciò a testimoniare che la variabilità non prevista può recare effetti tanto positivi quanto negativi nel soggetto che si accolla il rischio. Questa nozione è molto vicina a quella che utilizzeremo in questo libro. Ai giorni nostri e nell’uso comune: “Il rischio è un concetto connesso con le aspettative umane. Indica un potenziale effetto negativo su un bene che può derivare da determinati processi in corso o da determinati eventi futuri. Nel linguaggio comune, rischio è spesso usato come sinonimo di probabilità di una perdita o di un pericolo. Nella valutazione del rischio professionale il concetto di rischio combina la probabilità del verificarsi di un evento con l’impatto che questo evento potrebbe avere e con le sue differenti circostanze di accadimento”1. Uno sforzo di sistematizzazione è stato compiuto da alcuni autori (Floreani 2005, pp. 5 e ss.; Misani 1994). Sono state così elaborate anche distinzioni del concetto in esame assunte sulla base di differenti criteri dei quali richiamiamo i principali: • criterio sociologico e psicologico, secondo cui il rischio è un concetto connesso con le aspettative umane. Indica un potenziale effetto negativo (sinistro) su un bene o una persona che può derivare da attività in corso o da eventi futuri; • criterio tradizionale-assicurativo: il rischio è inteso come l’insieme delle possibili minacce. Reen (1998:51) definisce il rischio come la “possibilità che si verifichino degli effetti avversi in seguito a eventi naturali o azioni umane”. Questa criterio presenta uno spaccato parziale del rischio in quanto, di esso, considera solo la manifestazione negativa (cosiddetti “rischi puri”, per esempio il rischio di incendio). Questi sono generalmente rappresentati dalla presenza di due scenari: uno, in cui l’impresa non sperimenta alcun pregiudizio (non si ha alcun effetto economico/patrimoniale/finanziario negativo per l’impresa); l’altro è, invece, caratterizzato da eventi sfavorevoli capaci di generare danni molto elevati e pesanti ripercussioni sull’intero sistema aziendale; • criterio statistico-finanziario, il rischio è inteso come aleatorietà stoca1 Voce “Rischio”, www.wikipedia.com. 16 stica, vale a dire come il possibile scostamento di una variabile aleatoria rispetto al suo valore atteso. Tale criterio nasce nell’ambito delle scienze statistiche ed è uno dei cardini dalla teoria neoclassica della finanza di cui tratteremo più avanti; • criterio manageriale, secondo il cui approccio “i rischi sono eventi futuri e incerti che possono influenzare il raggiungimento di obiettivi strategici e finanziari di un’istituzione” (PricewaterhouseCoopers 1996, pp. 6 e ss). In questo caso, il rischio è essenzialmente visto come il possibile scostamento rispetto agli obiettivi prefissati di un soggetto, che generalmente coincide con il management. Gli studiosi di varie discipline interessate al fenomeno del rischio hanno tentato di dare una definizione generale di rischio senza giungere, peraltro, a una sintesi capace di racchiudere tutte le articolazioni del concetto, nonché di chiarire il rapporto che esiste tra esso e il concetto di incertezza. Vediamo in breve i principali contributi. Già nei primi anni del secolo XXI, A. H. Willet nel suo principale lavoro scientifico, The Economic Theory of Risk and Insurance, tentò di dare maggiore corpo alla definizione di rischio e di incertezza illustrando la relazione che esiste tra i due concetti: “Risk and uncertainty are objective and subjective aspects of appartent variability in the course of natural events” (Willet 1901, p. 24) e cercando poi di illustrare meglio la differenza tra i due concetti affermava: “It seems necessary to define risk with reference to the degree of uncertainty about the occurrence of a loss, and not with reference to the degree of probability that it will occur. Risk in this sense is the objective correlative of the subjective uncertainty. It is the uncertainty as embodied in the course of events in external world, of which subjective uncertainty is a more o less faithful interpretation” (Willet 1901, p. 8). Frank Knight, nella sua opera principale Risk, Uncertainty and Profit (1921, pp. 26 e ss.), introduce ulteriori elementi alla distinzione tra rischio e incertezza. “Uncertainty must be taken in a sense radically distinct from the familiar notion of Risk, from which it has never been properly separated. The term ‘risk,’ as loosely used in everyday speech and in economic discussion, really covers two things which, functionally at least, in their causal relations to the phenomena of economic organization, are categorically different […]. The essential fact is that ‘risk’ means in some cases a quantity susceptible of measurement, while at other times it is something distinctly not of this character; and there are far-reaching and crucial differences in the bearings of the phenomenon depending on which of the two is really present and operating […]. It will appear that a measurable uncer- 17 tainty, or ‘risk’ proper, as we shall use the term, is so far different from an unmeasurable one that it is not in effect an uncertainty at all. We shall accordingly restrict the term ‘uncertainty’ to cases of the non-quantitive type. It is the true uncertainty and not risk, as has been argued, which forms the basis of a valide theory of profit and accounts from the divergence between actual and theoretical competition”. L’autore, in parte riprende quanto asserito da Willet, in parte vi si discosta trattando i due concetti indipendentemente gli uni dagli altri e affermando la misurabilità del rischio contrapposta all’indeterminabilità dell’incertezza. Altri autori, come Archer e D’Ambrosio (1967), riprendono Willet precisando i concetti enunciati come segue: “la certezza è la perfetta conoscenza di una variabile futura, il rischio è definito dalla probabilità oggettiva del manifestarsi di una variabile, l’incertezza è, a loro dire, conseguenza dell’attribuzione di una probabilità soggettiva del verificarsi di un evento”. Più recentemente Cattaneo (1999) chiarisce come i tre concetti siano applicabili alle decisioni d’impresa giungendo a una classificazione rigorosa degli stessi all’interno delle dinamiche d’impresa. Egli riferisce che i tre concetti possono essere differenziati rispetto alle tre caratteristiche essenziali di una decisione: 1. conoscibilità dell’ambiente nel quale la decisione è assunta; 2. presenza di alternative; 3. ordinabilità delle stesse. Secondo Cattaneo decidere in condizioni di certezza significa operare nella circostanza nella quale l’ambiente è conosciuto, vi sono alternative per raggiungere l’obiettivo, le stesse sono note al decisore, e, in ultimo, tali alternative sono ordinabili. Le decisioni in condizioni di rischio sono invece caratterizzate da una non perfetta conoscenza dell’ambiente, dall’individuazione esaustiva delle alternative e dalla loro ordinabilità attraverso l’attribuzione di una funzione di probabilità oggettiva della variabile casuale ricercata. Le decisioni in condizioni di incertezza sono riconoscibili per il mancato soddisfacimento della prima e terza caratteristica, ovvero non è conosciuto l’ambiente, né l’ordine delle alternative. L’incertezza è, nelle parole di Cattaneo (1999, p. 214), una “qualità di eventi futuri e deriva dalla non perfetta conoscibilità delle alternative e dall’incapacità di dar loro un ordinamento”. In questo caso i soggetti decisori si debbono affidare, per la sti- 18 ma, a distribuzioni soggettive di frequenza delle manifestazioni future della variabile casuale oggetto della stima stessa. Tabella 1 – Decisioni e condizioni di certezza, rischio e incertezza Condizione/caratteri stiche delle decisioni Conoscibilità ambiente Presenza di alternative Ordinabilità alternative Certezza Sì Sì Sì Rischio No Sì Sì Incertezza No Sì No Fonte: Nostra elaborazione da Cattaneo (1999) Nella maggior parte dei lavori di finanza aziendale però si è persa la distinzione tra rischio e incertezza, al punto che spesso i due termini vengono utilizzati come sinonimi. Tale confusione deriva probabilmente dal fatto che, una volta stimata la funzione di probabilità con metodi oggettivi o soggettivi, la variabilità è studiata con i medesimi strumenti, ovvero attraverso il calcolo della dispersione dei risultati intorno alla media e lo studio della forma della distribuzione stessa. 2. La misurazione del rischio: indicatori generali sigma e beta La misurazione dei rischi si è arricchita negli anni di tecniche sempre più sofisticate che tuttavia si riferiscono indirettamente a due indicatori generali che qui sotto descriveremo: il fattore sigma e il fattore beta. 2.1. Il fattore sigma e le caratteristiche della distribuzione di frequenza dei risultati d’impresa Lo studio delle caratteristiche della distribuzione di probabilità permette il calcolo del primo degli indicatori universalmente utilizzati per la stima del rischio. Tale indicatore, noto come fattore sigma (σ) o rischio totale, è misurato dallo scarto quadratico medio e/o dalla varianza. A tale misura si associano, per completare una corretta lettura del rischio totale, l’osservazione di altre caratteristiche della distribuzione di frequenza quali: la media, moda e mediana e la curtosi. In particolare, nell’ambito degli studi di risk management che ci apprestiamo a condurre, è rilevante la conoscenza della media, dello scostamento 19 dalla stessa (varianza o scarto quadratico medio), della curtosi e della skewness o asimmetria. In generale in finanza, per descrivere il rischio sostenuto nello stimare una variabile aleatoria come il rendimento, anziché procedere a una sua rappresentazione completa mediante la funzione di densità di probabilità, è necessario identificare tre gruppi di indicatori sintetici e caratteristici. Questi sono rappresentati dagli: • indicatori di posizione; • indicatori di rischio (o di dispersione); • indicatori di forma e simmetria. Tutti questi indicatori contribuiscono a illustrare correttamente il rischio assunto da una soggetto decisore. Infatti, sarebbe sicuramente avventato basare la propria decisione (per esempio di investimento) solo sulla base dell’indicatore di posizione, il rendimento atteso che, nel caso di una distribuzione normale, si manifesta con i medesimi valori della moda e della mediana, assumendo il nome di “valore atteso”2 o di “speranza matematica”. Accanto a questo valore atteso sarà, invece, necessario calcolare anche la dispersione dei possibili risultati intorno alla media e altre caratteristiche sotto citate. Indicatori di posizione. Il principale indicatore di posizione è rappresentato dal valore atteso: la media ponderata delle modalità assunte dalla variabile. In essa i coefficienti di ponderazione sono rappresentati dalle probabilità associate a ciascuna modalità. Il valore così stimato corrisponde sostanzialmente al risultato medio che un soggetto otterrebbe se ripetesse all’infinito l’esperimento che coinvolge la variabile aleatoria presa in esame. Quanto abbiamo appena detto ci suggerisce intuitivamente perché il “valore atteso”, noto anche in inglese come expected value [E(x)], venga definito anche come “media aritmetica della variabile casuale”. Il valore atteso della variabile aleatoria si ottiene: • nel discreto • nel continuo ; . Indicatori di rischio (o di dispersione): il sigma e la varianza. Per valutare la dispersione dei rendimenti intorno alla media le scienze statisti2 Il Valore Atteso può essere definito come una media ponderata delle modalità assunte da una variabile, dove i coefficienti di ponderazione sono rappresentati dalle probabilità associate a ciascuna modalità. 20 che ci vengono in aiuto con il concetto di varianza e quello derivato di scarto quadratico medio. In statistica la varianza è un indice di dispersione dei valori di una distribuzione intorno alla propria media. Viene solitamente indicata con σ2 (dove σ è la deviazione standard o scarto quadratico medio). Nell’ambito della statistica descrittiva la varianza è definita dall’espressione che segue: dove μ rappresenta la media aritmetica dei valori xi. Nel caso di una variabile casuale X, si definisce la varianza VAR(X) come: VAR[ X ] = E [( X − E [ X ]) 2 ] = E ( X 2 − E [ X ]2 ) dove E[X] è il valore atteso della variabile casuale X. In tale espressione osserviamo come, poiché la differenza (X − E [X])2 elevata al quadrato fornisce sempre un risultato positivo, il suo valore atteso, ovvero la varianza di X, sarà anch’esso positivo. Accanto alla varianza, nell’ambito specifico dell’analisi del rischio di un singolo progetto e/o di un portafoglio di attività, si è diffuso l’utilizzo del concetto di perdita massima potenziale (PMP). Tale misura, in particolare, stima gli effetti negativi degli scostamenti dal valore medio. Essa può essere definita come “il massimo livello di perdita con la sola esclusione degli scenari del tutto eccezionali” (Floreani 2005, p. 19). Si tratta di una stima di probabilità della perdita massima effettuata una volta aver definito un determinato grado di confidenza della stima (normalmente l’1% oppure il 5%). Rispetto allo scarto quadratico medio, che ricordiamo essere un indicatore di rischio complessivo, rileviamo un’importante differenza. La PMP, infatti, tende a misurare solo le minacce e non le opportunità offerte dalla variabilità degli accadimenti futuri. Ciò vuol dire che la “PMP” si riferisce solo al cosiddetto downside risk. Ulteriore elemento di differenziazione fra i due indicatori è rappresentato dal fatto che, mentre lo scarto quadratico medio può essere calcolato sia in presenza di variabili causali discrete sia continue, la perdita massima potenziale può essere stimata solo in presenza di funzioni continue. Accanto alla PMP, è possibile misurare anche lo scenario estremo. In tale caso sarà misurata la perdita massima possibile (PM) che corrisponde alla perdita che si verifica nella peggiore delle ipotesi prospettate dall’analista. La conoscenza di tale valore è di per sé poco utile, in quanto lo scenario più catastrofico non è perfettamente individua- 21 bile e, laddove anche lo fosse, avrebbe generalmente delle infinitesime probabilità di realizzazione (per esempio, lo “scenario worst” dell’impresa α avrebbe una probabilità di realizzazione pari allo 0,00001%). Indicatori di forma e simmetria. Accanto alla varianza, scarto quadratico e perdita massima potenziale è necessario osservare la forma della distribuzione di frequenza. Un primo strumento è il calcolo della curtosi (Kurtosis). La curtosi è un allontanamento dalla normalità distributiva, rispetto alla quale si verifica un maggiore appiattimento (distribuzione platicurtica) o un maggiore allungamento (distribuzione leptocurtica). La più nota misura della curtosi è l’indice di Fisher, ottenuto facendo il rapporto tra il momento centrato di ordine 4 e il quadrato della varianza. Il valore dell’indice corrispondente alla distribuzione normale (gaussiana) è 3. Un valore minore di 3 indica una distribuzione platicurtica, mentre un valore maggiore di 3 indica una distribuzione leptocurtica. In finanza, e in particolare nella stima del rischio, tale indicatore permette di valutare correttamente gli scostamenti dalla media. Infatti valori alti di curtosi indicano una maggiore dimensione delle code e quindi un maggiore rischio generato dalla presenza di consistenti eventi estremi. Il concetto utile in questo gruppo è l’indicatore di simmetria (skewness)3 cioè un indicatore che è in grado di segnalare se la possibile dispersione dei valori della variabile aleatoria dipende maggiormente dagli scenari negativi (asimmetria negativa) o dagli scenari positivi (asimmetria positiva). La distribuzione “tenderà” verso valori positivi (asimmetria positiva) quando la mediana è minore della media. In questo caso, alcuni valori osservati, particolarmente alti, sposteranno la media verso destra. Da un punto di vista finanziario, un’asimmetria positiva evidenzia la maggior probabilità di ottenere rendimenti particolarmente elevati. Analizzando con tutti gli strumenti sopra enunciati la distribuzione di frequenza del rendimento di un’attività si giunge alla stima più circostanziata della sua rischiosità. C’è da precisare che la variazione dei risultati intorno alla media non ha, però, i medesimi effetti sull’impresa. Infatti, solo gli scostamenti verificatesi nella parte sinistra della distribuzione, quella normalmente formata con scenari i cui risultati sono inferiori al valore atteso, costituisce un pro- 3 Si ricordi i coefficienti di asimmetria di Pearson e Fisher. Per un approfondimento cfr. Piccolo D. (2000), Statistica, Il Mulino, Bologna. 22 blema per l’impresa. Ciò poiché i rendimenti effettivi sono inferiori a quelli attesi. Tali rischi, denominati downside risk, sono trattati con attenzione dai risk managers in quanto portano l’impresa a ridurre gli utili e quindi le aspettative future sull’impresa medesima. Proprio per distinguere i rischi di perdita dalle opportunità di ottenere un rendimento superiore a quello atteso, gli studiosi di risk management hanno distinto i rischi in due gruppi. Si parla, di rischi puri quando si è in presenza di scenari di perdita rispetto al risultato atteso, mentre si parla di rischi speculativi quando la variabilità si manifesta simmetricamente con risultati effettivi sia superiori sia inferiori a quelli attesi. Il comportamento ideale degli addetti alla gestione dei rischi d’impresa dovrebbe essere, quindi, quello di massimizzare le possibilità di incorrere in “errori” positivi ottenendo performance superiori a quelle sperate e al medesimo tempo coprire con polizze assicurative o altri strumenti di trasferimento del rischio i possibili eventi negativi, anche detti sinistri, che possono occorrere durante la vita dell’impresa. 2.2. Il fattore Beta Il secondo strumento comune a tutti gli approcci per la stima della variabilità dei risultati d’impresa rispetto a un fattore esogeno alla stessa (per esempio il rendimento del portafoglio di mercato o il prezzo del petrolio o ancora l’indice di variazione dei prezzi delle materie prime), è il fattore Beta, ovvero il rapporto tra la covarianza della variabile casuale ricercata rispetto al fattore indipendente che genera la variazione e la varianza del fattore medesimo. Il fattore beta maggiormente conosciuto e utilizzato nella letteratura aziendale per la stima del rischio è il beta azionario ovvero il rapporto tra la covarianza del rendimento del titolo e di quello del mercato diviso la varianza del rendimento di mercato. β= Cov ym Varm = σ ym σ m2 Tale indicatore è utilizzato nel Capital Asset Pricing Model (Treynor, 1961; Sharpe, 1964; Lintner, 1965) per la definizione della relazione rischio-rendimento. Si tratta di una misura relativa del rischio sostenuto dall’investitore che viene utilizzata come stima del rischio sistematico d’un investimento in oc23 casione della quatificazione del rendimento atteso di un investimento mobiliare azionario4. Il beta è strumento generico per lo studio della variabilità indotta da un fenomeno su una variabile dipendente e rientra negli indici di relazione in quanto composto, al numeratore, dalla covarianza della variabile dipendente con l’indipendente; e al denominatore, dalla varianza della variabile indipendente. In questo modo il rapporto esprime la variabilità relativa del rendimento di un’attività J specifica indotta dalla variazione dei rendimenti di mercato. Il beta può essere usato quindi per studiare l’effetto della variazione di una qualsiasi grandezza esogena o endogena all’impresa su grandezze di risultato quali: il reddito operativo, l’utile netto, il cash flow operativo, il Free Cash Flow to Equity (FCFE), il Free Cash Flow to Firm (FCFF) o il prezzo azionario. I modelli di rischio rendimento che utilizzano l’analisi multivariata fanno largo uso del beta che, in questo caso, è il fattore legato a ciascuna variabile indipendente. Per esempio l’Arbritage Pricing Theory (Ross, 1976) studia i movimenti del rendimento di un titolo azionario al variare di una pluralità di fattori di rischio sistematico che impattano sui risultati dell’impresa. Questi fattori sono, di fatto, i “fattori primi” ottenuti con un’analisi delle componenti principali. I modelli fattoriali poi possono tentare di isolare la variabilità indotta sul rendimento atteso di un titolo da variabili esogene quali il prezzo del petrolio, l’indice generale dei prezzi all’ingrosso, quello dei prezzi al dettaglio, oppure altre variabili esogene responsabili del cosiddetto rischio di mercato. Nel caso dell’APT, dopo aver eseguito una Principal Component Analysis con la quale si individuano i regressori, e la successiva regressione multipla per legare questi ultimi alla variabile casuale E(X), si ottiene: E (X ) = a + β1 F1 + β 2 F2 + β 3 F3 + ....β n Fn + ε dove F da 1 a N rappresentano i Fattori primi determinati con la PCA. 4 Treynor, Sharpe e Lintner giungono, indipendentemente gli uni dagli altri, a enunciare la relazione che lega il rendimento atteso di un titolo al rischio sostenuto dall’investitore nell’investimento. Tale rendimento, afferma Sharpe, è pari alla somma tra il rendimento privo di rischio (Rf) con il premio per il rischio. Questo secondo addendo è composto appunto dal Beta (β) che moltiplica il premio per il rischio di mercato (Rm – Rf) ovvero il rendimento differenziale di un portafoglio azionario ben diversificato rispetto a quello composto da soli titoli risk free. 24 E ( X ) = R f + β1 ( E [ R ]1 − R f ) + β 2 ( E [ R ]2 − R f ) + + ... + β n ( E [ R ]n − R f ) + ε Dalla quale si ricava il rendimento atteso con l’APM come generalizzazione del CAPM. Nel caso di modelli multifattoriali con indicazione a priori dei regressori l’equazione si presenta nella forma in basso: E (X ) = a + β1V1 + β 2V2 + ....β nVn + ε dove le V da 1 a N rappresentano i fattori macroeconomici di rischio sistematico. L’analisi del rischio utilizza di preferenza questa ultima tecnica in quanto permette di stimare l’effetto sulla redditività dell’impresa indotto dalla variazione di indicatori ai quali è possibile dare un’“etichetta”. Ciò rende più facile l’interpretazione dei risultati e indirizza con maggior chiarezza il management nelle scelte di investimento e dividendo. 3. La visione classica d’impresa e il rischio Impresa, dal latino impresum (participio passato di imprendere), nel senso di “prendere sopra di sé”, indica l’atto di compiere gesta e azioni capaci di raggiungere un obiettivo prefissato. Nell’accezione giuridica l’impresa è definita indirettamente dal concetto di imprenditore all’art 2082 del Codice Civile: “È imprenditore chi esercita professionalmente l’attività economica al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi”. L’impresa è quindi connotata dall’esercizio professionale cioè sistematico di un’attività economica volta alla realizzazione dell’oggetto sociale. Il concetto di imprenditore è presente già nel secondo ottocento negli studi J. S. Mill (1848) e di L. Walras (1874)5. Il concetto d’impresa si ritrova più tardi nei lavori di Knight (1921), laddove l’autore lega il concetto di incertezza alla scelta della forma d’impresa quale strumento per l’organizzazione del sistema economico6. 5 Cfr. Mill J. S. (1848), Principles of Political Economy, with Some of Their Applications to Social Philosophiy, Parker, London; Walras L. (1874) Elements d’economie politique pure, Economia, Paris. 6 Afferma infatti Knight: “It is this true uncertainty which by preventing the theoretically perfect outworking of the tendencies of competition gives the characteristic form of ‘enterprise’ to economic organization as a whole and accounts for the peculiar income of the entrepreneur”. Knight F. H. (1921), Risk, Uncertainty and Profit, VII, p. 48 e ss. 25 Nei medesimi anni gli scienziati aziendali italiani, e in primis Zappa (1927), precisavano i tratti salienti del rapporto tra l’azienda e l’impresa. Zappa intende l’azienda come la manifestazione oggettiva dell’impresa, e quest’ultima: una “coordinazione economica in atto istituita e retta per il soddisfacimento dei bisogni umani” (Zappa 1927, p. 30). Più tardi, Ceccherelli si riferisce all’azienda come a un “organismo produttivo soggetto ai rischi e alle variabilità dell’ambiente economico che ne formano un sistema perennemente perturbato” (Ceccherelli 1948, p. 64). Dalla diversità delle definizioni emerge, però, un primo elemento comune, quello della finalità per la quale l’imprenditore da luogo all’impresa attraverso la creazione e la gestione economica dell’azienda. Tale obiettivo è il soddisfacimento dei bisogni di individui. La finalità sopra esposta può essere raggiunta solo se l’imprenditore, e quindi l’impresa, si dota, par anticipation, dei fattori produttivi e organizza tali fattori in processi di trasformazione spazio/temporale capaci di soddisfare i bisogni attraverso la fornitura di beni e servizi. Questa circostanza per la quale l’imprenditore è obbligato ad anticipare i bisogni percepiti dai consumatori si concretizza nel secondo elemento comune alle definizioni finora citate, elemento prevalente nell’impresa manifatturiera: il rischio sostenuto dall’imprenditore nell’organizzare la produzione. L’impresa, proprio per la necessaria anticipazione dei processi di acquisizione dei fattori e di trasformazione degli stessi in prodotti finiti, è caratterizzata da incertezza nella conduzione delle operazioni, incertezza che diviene elemento costitutivo del rischio d’impresa. L’organizzazione dell’impresa non può, dunque, essere un’attività filantropica proprio a causa del rischio che l’imprenditore deve assumersi per soddisfare i bisogni altrui. Per questo egli ha il diritto di appropriarsi del plusvalore generato nell’attività; plusvalore che poi dovrà distribuire agli azionisti o trattenere all’interno dell’impresa per finanziarne lo sviluppo In sostanza l’attività d’impresa è lucrativa. “Questo presupposto economico di reddito potenziale, naturalmente connesso con l’attuazione del processo produttivo, è quello che sprona l’imprenditore a costituire l’impresa e a crearne l’organizzazione economico-tecnica, nonostante i rischi che l’iniziativa presenta e che egli assume” (Ceccherelli 1961, p. 64). L’impresa, in questa prospettiva, diviene un centro di funzioni economico-tecniche (Ceccherelli 1964; Fazzi 1982) di produzione, trasformazione dei beni, di adattamento di questi alle esigenze dei clienti, di produzione dei servizi e infine quella produttiva dei finanziamenti. Gli investimenti vengono scelti proprio svolgendo la funzione economico-tecnica di trasformazione. La scelta genera l’esigenza di impiego di 26 risorse che si concretizza nel fabbisogno finanziario, al quale il management da copertura attraverso le scelte economico tecniche relative ai finanziamenti ovvero le scelte di struttura finanziaria. Da queste poche parole si evince come nella sua visione classica come in una più recente come quella finanziaria (Damoraran 2006)7, nella quale l’attenzione si focalizza sugli investimenti e i finanziamenti, l’impresa e rischio generato nella conduzione della stessa, siano concetti inscindibili. Non esiste impresa senza rischio. Tale relazione può essere violata solo in occasione di particolari imprese quali quelle di erogazione. In tali imprese la forma societaria è scelta come utile strumento per l’erogazione dei servizi alla collettività e la maggior parte delle volte non implica rischi per l’operatore. 4. Rischi d’impresa: una classificazione per natura La natura dei rischi sostenuti dall’impresa è la più varia; volendo classificare i rischi secondo natura e genesi potremmo rifarci alla letteratura principale (Misani, 1995; Metelli, 1999; Floreani, 2005, Shimpi, 2001), che distingue tra rischi: • operativi: – operativi e di controllo; – business risk; • finanziari: – interni (insolvenza, controparte, progettazione struttura finanziaria); – esterni (tasso d’interesse, tasso di cambio su valute, inflazione); • mercato. Ognuno di essi può essere utilmente articolato in sotto classi omogenee e in verità alcune manifestazioni di impresa generano rischi poi classificabili in più di un gruppo. 4.1. I rischi operativi I rischi operativi sono gli scostamenti che si verificano dai risultati attesi per effetto dello svolgimento delle attività operative d’impresa. Per 7 In questa prospettiva l’impresa può essere intesa come un organismo caratterizzato dagli investimenti realizzati e dai finanziamenti. In particolare la si identifica come: • la somma dei progetti di investimento di cui la medesima necessita per lo svolgimento delle proprie attività di produzione di beni e servizi; • la somma dei finanziamenti necessari alla copertura dei fabbisogni finanziari derivanti dagli investimenti. 27 loro natura essi si manifestano a seguito delle decisioni di impiego delle risorse e quindi attengono alle decisioni di investimento dell’impresa. Per questo motivo essi incidono, oltre che sul flusso di cassa effettivo, prevalentemente sul lato sinistro del prospetto fonti/impieghi, quello degli impieghi appunto. Tra i rischi operativi si ritrovano i rischi di controllo: errori, omissioni di comportamenti, errata valutazione dei costi di struttura. Possono verificarsi inoltre rischi quali: errori di controllo di procedura, ribassi non attesi di prezzi di vendita e sottrazioni di beni di proprietà dell’impresa tra cui anche il denaro. Inoltre, l’impresa può essere soggetta a rischi operativi relativi alla governance o alla contabilità. Un esempio del primo dei due ultimi rischi operativi citati è la paralisi societaria innescata da conflitti tra gruppi di azionisti e/o consiglieri di amministrazione. Rischi relativi alla contabilità sono invece quelli originati dalle politiche di bilancio e soprattutto dalle scelte di adesione ai principi contabili internazionali. Altra categoria propria dei rischi operativi è quella relativa ai rapporti con i dipendenti. In tal caso le perdite possono essere originate dalle procedure di gestione del personale, da azioni legali, dall’inasprimento delle vertenze sindacali, dalla perdita di risorse umane e di competenze strategiche detenute dal personale. Sempre di maggior entità sono “ai giorni nostri” i rischi che l’impresa sostiene nell’organizzare i propri sistemi informativi. È sufficiente ricordare i grandi “black out” informatici di Wall Street per comprendere quanto questi rischi possano essere rilevanti a livello aziendale e addirittura di sistema. In particolare, vi possono essere problemi di sincronizzazione del sistema informatico, di accuratezza del flusso di informazioni, di incapacità di recupero di danni alle memorie. Inoltre i rischi possono venire da soggetti terzi a cui sono affidati servizi in outsourcing. Accanto a questi rischi si configurano quelli relativi all’utilizzo della rete nella gestione del business: rischi di capacità di utilizzo, i rischi di frode, di utilizzo improprio delle infrastrutture informatiche; ancora i rischi definiti “collo di bottiglia” e la fuoriuscita involontaria di informazioni. Esiste poi un secondo sotto-gruppo di rischi operativi detto di business. A tale insieme appartengono i rischi fortemente collegati con l’attività svolta quindi agli investimenti realizzati. Fanno parte di questo gruppo business event risk, quali: il rischio di obsolescenza tecnica, quello di cambiamento degli assetti regolamentari, il danno di immagine e l’interruzione del servizio. L’entità del danno generato dal manifestarsi degli eventi sopra descritti dipende, tra l’altro, dal settore a cui appartiene l’impresa e, in alcuni casi, dalle peculiarità dell’impresa considerata (per esempio il rischio 28 regolamentare per un colosso come Microsoft è molto più accentuato di quello di una piccola casa di software che operi in provincia e produca software per la contabilità delle imprese locali). I rischi di sviluppo e fornitura dei prodotti (product risks) sono generalmente inclusi nei rischi operativi, almeno per gli scostamenti rispetto alle previsioni che si manifestano in ragione di problemi imprevisti nello sviluppo e ingegnerizzazione del prodotto, nella gestione del magazzino e anche nel packaging e nella distribuzione. L’impresa si sottopone a rischi operativi anche quando non prevede correttamente il comportamento dei principali competitors. Ciò si ripercuote sui prezzi di vendita dei prodotti e sulla quota di mercato che a loro volta impattano negativamente sui risultati effettivi. La differenza tra questi ultimi e i risultati attesi è capace di innescare rischi finanziari quali il crunch delle linee di credito. Accanto a questi rischi operativi possono verificarsi eventi negativi legati ai rapporti di partenariato e alleanza. Per esempio, la concentrazione dei fornitori o dei clienti, insieme alla gestione non oculata delle alleanze strategiche o all’errata individuazione di terzi cui affidare i servizi in outsourcing, potrebbe compromettere il servizio prestato e, quindi, i flussi di cassa attesi da esso. Inoltre sempre sotto il “cappello” dei rischi di business, possiamo trovare i cosiddetti rischi legali. Essi sono principalmente riconducibili a eventi dannosi nei quali professionisti, dirigenti e top managers dell’impresa compromettono, con i loro comportamenti, il buon esito di attività d’investimento rendendo impossibile l’incasso dei relativi flussi di ritorno. Inoltre accanto a questi troviamo i rischi contrattuali e i cosiddetti rischi di controparte. Questi ultimi sono quelli sostenuti in conseguenza dell’affidamento di credito a clienti e fornitori. 4.2. I rischi finanziari I rischi finanziari costituiscono il secondo gruppo di rischi sostenuti dall’impresa. Essi sono identificabili come gli scostamenti dal risultato atteso che si originano a causa di cambiamenti nelle variabili finanziarie (Metelli 1995). Questa definizione, senz’altro non esaustiva, ci permette però di riferirsi alla totalità degli scostamenti che potenzialmente si verificano a causa delle decisioni di finanziamento. All’interno di tale gruppo è poi possibile distinguere i rischi interni quali quelli di insolvenza, di controparte, di progettazione della struttura finanziaria; da quelli esterni, ovvero originati da eventi fuori dalla portata del management, ma che finiscono per modificare il valore di stock dei finanziamenti o generare flussi non 29 previsti. Per illustrare questo secondo gruppo ci riferiremo principalmente ai rischi di cambio (se la fonte finanziaria è espressa in valuta), di interesse, di inflazione. Tra i rischi finanziari interni ritroviamo il rischio di insolvenza. Esso si manifesta quando un’impresa non è capace di fare fronte con i mezzi ordinari alle esigenze di pagamento, esigenze che si manifestano per il normale trascorrere della vita d’impresa. Tale rischio è principalmente legato a condizioni di mancato rispetto del rapporto organico tra investimenti realizzati e fonti finanziarie. Come avremo modo di vedere, l’impresa deve operare seguendo il principio dell’equilibrio finanziario. In particolare questo equilibrio ha la caratteristica di dover essere verificato costantemente per permettere la sopravvivenza dell’impresa. L’adeguatezza della struttura finanziaria è quindi un fattore rilevante nella determinazione del rischio di insolvenza. Tale adeguatezza è definita sia in relazione al rapporto impieghi/fonti che a quello tra fonti di finanziamento alternative (il rapporto di leva finanziaria). Al rischio di insolvenza dell’impresa, che costituisce una componente del rischio di credito nella prospettiva della banca, dedicheremo il paragrafo 9; per il momento è utile ricordare come questo rischio renda necessaria la costituzione di un fondo di garanzia per lo svolgimento delle operazioni, il capitale sociale volto a tutelare proprio i terzi dagli esiti sfavorevoli dell’agire d’impresa. Diverso, anche se spesso confuso con il precedente, è il rischio di liquidità. Esso si manifesta ogni volta che un’impresa presenta un’elevata variabilità del saldo di cassa. Ciò può rendere difficile, se non addirittura impossibile, il controllo della liquidità disponibile. In questo caso il rischio si manifesta nella forma di un deficit di cassa che comporta uno smobilizzo non previsto o rende necessario la negoziazione di un affidamento bancario per effettiva elasticità di cassa. Ciò finisce per incidere sui risultati e quindi sul valore d’impresa. In particolare, il rischio è elevato ogni qualvolta che l’attivo circolante dell’impresa è composto da assets non prontamente liquidabili a fronte di esigenze di pagamento di breve termine. Un altro tipo di rischio finanziario è quello legato al regolamento delle transazioni. Sebbene non ci sia volontà di interrompere o di non effettuare i pagamenti relativi alle attività di gestione, può accadere che la distanza fisica o organizzativa degli operatori faccia sì che si presentino casi di insolvenza generati da cause tecniche di regolamento delle partite. Per quanto riguarda gli altri rischi finanziari, quelli esogeni, principalmente ci riferiamo al rischio di cambio e a quello di interesse. Il primo si manifesta quando il rapporto di cambio tra due monete nazionali viene a modificarsi sostanzialmente. Tale evenienza può modificare i flussi di cassa 30 generati dai vari progetti di investimento che l’impresa sta realizzando o quelli relativi agli interessi e quota-capitale annualmente dovuti sull base per un finanziamento in valuta. Generalmente tale rischio si manifesta in presenza di realtà aziendali multi-nazionali e come rischio specifico finanziario può essere anche molto rilevante quando l’impresa produce e vende in due o più mercati caratterizzati da una diversa moneta di conto. In questo caso, l’apprezzamento o il deprezzamento inatteso di una valuta può generare scostamenti anche di notevole rilievo rispetto a flussi di cassa attesi. Da ciò emerge che il rischio di cambio ha natura duplice: è prevalentemente rischio operativo quando gli scostamenti riguardano i minori incassi da ricavi in Paesi terzi o maggiori costi di approvvigionamento o altre attività legate alla gestione operativa; è finanziario quando gli scostamenti sono imputabili al diverso apprezzamento di finanziamenti con i quali coprire gli investimenti. In particolare il rischio ha natura squisitamente finanziaria quando lo scostamento è dovuto a variazione nel valore degli stock di finanziamento in valuta o dei flussi di remunerazione dei finanziamenti in valuta8. Ultima fonte di rischio finanziario a cui sono sottoposte le imprese, è il rischio di tasso di interesse. Con tale concetto si definiscono gli scostamenti nei valori stock e nei flussi di risultato generati dalla variazione inattesa del tasso di interesse vigente sui mercati dei capitali. Tale situazione si manifesta quando, per cause non controllabili dall’impresa, le condizioni esterne inducono modifiche sostanziali del costo del denaro tanto da modificare l’entità del flusso di cassa disponibile. In particolare le politiche monetarie restrittive o permissive giocano un ruolo determinante nella scelta del tasso d’interesse di ciascun Paese e sebbene esso si configuri come un rischio esogeno (vedi più sotto), spesso si lega a uno indogeno quale quello di struttura finanziaria squilibrata. 4.3. I rischi di mercato Il terzo gruppo di rischi, detto dei rischi di mercato, è legato a fattori esogeni all’impresa non riferibili all’area dei finanziamenti. Si tratta di rischi generati dalla fluttuazione del valore di mercato di alcune poste 8 Un caso ben noto di rischio finanziario legato al cambio è quello nel quale si sono imbattute centinaia di famiglie e di imprese italiane quando, per condizioni di mercato particolari, risultava particolarmente conveniente accendere mutui in Franchi svizzeri. L’apprezzamento di quest’ultima divisa ha portato a situazioni di rischio addirittura non sostenibili, tanto che è dovuto intervenire il governo il quale ha predisposto misure per la conversione e consolidamento dei mutui esteri rischiosi. 31 di bilancio. In letteratura tali eventi sono anche detti rischi di posizione. In particolare, questi rischi sono presenti in imprese con attività finanziaria accentuata quali società finanziarie, le banche commerciali e di affari, le imprese di gestione mobiliare e ogni altra impresa il cui oggetto sociale consista nella gestione di partecipazione azionarie e obbligazionarie in altre imprese o enti. In alcuni casi il rischio di mercato si manifesta anche per alcune merci fungibili quali: l’oro e i metalli preziosi in generale o altre materie prime dette commodities. In questo caso, un’oscillazione imprevista dei prezzi di mercato può generare la necessaria svalutazione delle poste contabili con conseguenze negative sul risultato d’impresa. La panoramica sopra esposta non ha la pretesa di essere esaustiva; essa può essere utilizzata, però, ai fini di una prima organizzazione e classificazione dei rischi cui un’impresa può andare incontro. Tuttavia essa risulta inadeguata quando si vuole approfondire il problema del legame tra decisioni economico-finanziarie, rischio e valore d’impresa. Per fare, infatti, luce sul rapporto che esiste fra tali grandezze è necessario rileggere i rischi sopra descritti tentando di collegarli alle decisioni di investimento o di finanziamento. Nel prossimo paragrafo impareremo a distinguere il business dal leverage risk e ha comprendere come esso venga ripartito tra i finanziatori d’impresa. In questo caso, quindi, l’analisi sarà svolta nella prospettiva del prenditore del rischio (azionista o obbligazionista) e non dell’impresa, come abbiamo finora fatto. Individuare i profili di rischio di ciascun investitore ci sarà utile quando tratteremo dell’entità e della natura dei capitali che dovranno essere posti a garanzia dei rischi enunciati. 5. Rischi d’impresa: business and leverage risk9 Se volessimo rileggere l’impresa come centro dei rischi originati dalle decisioni economico-finanziarie (investimento, finanziamento e dividendo), l’articolato quadro disegnato nel paragrafo precedente andrebbe notevolmente a semplificarsi. I rischi sono infatti classificabili in due classi omogenee: • il business risk, ovvero la variabilità dei risultati conseguente agli atti di investimento; 9 Per un approfondimento cfr. Conti C. (2006), Introduzione al Corporate Financial Risk Management, Pearson, Milano, pp. 23 e ss. 32 • il leverage risk, misurato dalla variabilità dei risultati a seguito delle decisioni di finanziamento dell’impresa. La somma delle due componenti, il rischio totale, grava sull’impresa e costituisce, insieme alla rinuncia al consumo, la principale motivazione per la quale gli investitori – azionisti o obbligazionisti che siano – pretendono un rendimento. Applicando pedissequamente la teoria neoclassica della finanza è possibile affermare che l’impresa si trova in posizione neutra rispetto ai rischi assunti nella gestione, e ciò in quanto il rischio totale (asset risk) si trasferisce sui soggetti che finanziano l’impresa. Infatti, su di essi, quant’anche soggetti razionali e dal portafoglio di investimenti ben diversificato, ricade il rischio sistematico dell’investimento. Limitandoci a osservare il rischio generato nelle attività d’impresa prima che esso “transiti” verso i suoi prenditori e trascurando, così, le politiche di diversificazione dei finanziatori, possiamo approfondire l’origine del rischio d’impresa. Il rischio totale d’impresa, detto asset risk, è scomponibile in business e leverage risk. I due tipi di rischio non hanno, tuttavia, le medesime caratteristiche in quanto, il business risk è connaturato all’esistenza dell’impresa, mentre il secondo è un rischio eventuale, sebbene quasi sempre presente. Infatti, se come conseguenza della propria attività ogni impresa che necessiti di investimenti è soggetta al business risk, lo stesso non si può dire per il leverage risk che emerge in modo pronunciato nel caso in cui l’impresa faccia uso di capitale di terzi. L’imprenditore può evitare di sopportare i rischi relativi al finanziamento degli investimenti non dotandosi di debito, oppure limitarne la portata e disegnando una struttura finanziaria capace di garantire solvibilità e sostenibilità. Si tratta dunque di un rischio eventuale non presente nel “caso di scuola” in cui l’imprenditore finanziasse l’intero fabbisogno finanziario ricorrendo alle risorse proprie; in tal caso i risultati dell’impresa sarebbero soggetti solo all’alea derivante da rischi operativi generati dagli investimenti. Di conseguenza l’asset risk risulterebbe uguale al business risk e il valore dell’impresa (Vassets) uguale a quello per i suoi azionisti (Vequity). Rischio Totale = Asset Risk = Business Risk Vassets = Vequity Una struttura finanziaria interamente costituita da capitale proprio è, però, un caso assai raro, più spesso confinato nelle ipotesi dei modelli rela33 tivi al rapporto tra struttura finanziaria e valore (Modigliani e Miller 1958 e 1963; Miller, 1977). Nella maggioranza dei casi, infatti, le imprese fanno fronte al fabbisogno finanziario, ricorrendo in parte al capitale proprio, in parte al capitale di terzi. In questo caso accanto al business risk sopra descritto, si affianca la variabilità dei risultati derivante dalle modalità con cui l’impresa si finanzia. Tale variabilità è definita leverage risk. Il leverage risk è dunque un rischio eventuale che l’impresa, e poi quindi i suoi finanziatori, si accollano per il ricorso al denaro di terzi. In presenza di leverage risk e in assenza di posizioni di arbitraggio (Modigliani e Miller 1958, Miller 1977), il rischio totale è quindi composto da business e leverage risk. Questi, insieme, sono sopportati interamente dai finanziatori dell’impresa secondo i criteri previsti dalla tutela dei creditori. Anche in questo caso, nella maggioranza dei casi, i residual claimers sono innanzitutto gli azionisti sui quali ricadrà tanto il business risk che il leverage risk generato dalle decisioni di struttura finanziaria. Rischio Totale = Business risk + Leverage risk. Per determinare il valore asset dell’impresa verrebbe naturale concludere che esso sia la somma del Vequity + Vdebts. Per la verità questa uguaglianza non è verificata, principalmente a causa di alcune caratteristiche del debito nella creazione di valore (Myers 1984). In particolare gli interessi passivi, pagati dall’impresa come rendimento dei capitali di terzi, sono fiscalmente deducibili e inoltre l’introduzione del debito in impresa porta all’emergere del rischio di insolvenza e dei conseguenti costi del fallimento. Di conseguenza per calcolare il valore dell’impresa indebitata sarà necessario riprendere il “caso di scuola” sopra descritto dell’impresa unlevered per applicarvi i correttivi necessari per tenere conto della presenza del debito. Myers nel suo saggio del 1984 presenta il calcolo del valore di un’impresa indebitata come segue: Vlevered = Vunlevered + BF – CF dove il valore dell’impresa indebitata (Vlevered) è la somma algebrica del valore dell’impresa priva di debito (Vunlevered), dei benefici fiscali associati al debito (BF) e dei costi attesi diretti e indiretti del fallimento (CF). In sostanza il valore totale d’impresa, ma anche quello per i propri azionisti, potrà essere aumentato al crescere dell’indebitamento fino a quando il beneficio marginale del debito non eguaglierà il costo marginale del fallimento. Nel caso di un’impresa unlevered, il Beta, che ricordiamo essere la misura utilizzata in Finanza Aziendale per misurare il rischio totale, sarà 34 uguale al Beta del capitale proprio in assenza di debito (βequity0,100), detto anche Unlevered Beta (βunlevered). In questo caso βassets = βequity0,100 = βunlevered Nel caso invece di presenza di debito, il rischio d’impresa, misurato ancora dal Beta assets, sarà la media ponderata dei Betas delle varie fonti. Esprimendo questa medesima relazione servendosi del Beta quale misura del rischio d’impresa possiamo scrivere: β assets = β equity + β debts = β e E D + βd E+D D+E dove βequity sarà un Beta Levered ovvero un indicatore di rischio dell’azionista di un’impresa indebitata e dove βdebts sarà la misura del rischio dei portatori di capitale di terzi. Il Beta del debito sarà tanto maggiore quanto più alto sarà il credit spread (CS). Poiché Il credit spread è a sua volta funzione del merito creditizio dell’impresa (Probability of Default) e della Loss Given Default. Nel dettaglio è illustrato proprio come sia possibile calcolare il Beta del debito in modo indiretto dal credit spread negoziato per un titolo obbligazionario. L’equazione si ridurrebbe infatti alla seguente: βd = Credit spread ( Rm − R f ) Nella circostanza di un’impresa solvibile il beta del debito è zero e il rischio di business e di leverage sono entrambi sopportati dall’azionista. Nel caso invece di insolvenza, essa comporterà il trasferimento di parte del rischio dall’azionista al creditore, cosa che si manifesterà con l’incremento del Beta Debts. In particolare ciò avviene quando le politiche di finanziamento dell’impresa non sono coerenti con quelle di investimento e si manifestano degli squilibri di struttura finanziaria. Concludendo, il rischio di business e quello di leverage non hanno la medesima natura e nemmeno sono riservati loro i medesimi trattamenti. Il business risk è infatti insito nell’attività d’impresa e può essere abbattuto solo ricorrendo a politiche di diversificazione del proprio portafoglio di investimenti. Il leverage risk è invece un rischio accessorio derivante dalle decisioni assunte in materia di copertura degli investimenti e dalle condizioni esterne all’impresa che possono modificare l’onerosità delle fonti finanziarie. 35 Non è quindi possibile determinare una corrispondenza tra il business risk e l’equity risk da una parte e il leverage risk e il debts risk dall’altra. Infatti, in ipotesi di impresa solvibile, entrambi i rischi sono sopportati dal azionista ogni qualvolta il patrimonio netto è capiente rispetto alla perdita massima potenziale. Nel caso contrario, il manifestarsi del rischio di insolvenza fa sì che una parte sia del rischio di business sia di quello più ampio di leverage ricadano sul finanziatore terzo generando debts risk. 6. Adeguatezza delle fonti e rischio di struttura finanziaria L’importanza di un’adeguata politica di finanziamento è testimoniata dagli approfondimenti teorici della Scuola italiana, la quale ha contribuito al dibattito sviluppando il rapporto tra copertura degli investimenti e rischio di struttura di finanziaria (Cattaneo 1976; Pivato 1983; Fanni Duemila). Si debbono a questo periodo gli studi sul margine di struttura e di tesoreria (Brugger 1980; Cattaneo 1976; Cheng 1985), lo sviluppo degli indicatori di leverage e di copertura delle immobilizzazioni e di quelli di liquidità. Tra gli strumenti di più semplice utilizzo, sviluppati in quegli anni, ritroviamo il prospetto fonti-impieghi. Da esso è possibile evincere con chiarezza quali investimenti il management ritenga utili alla realizzazione della mission e quali finanziamenti siano stati attivati. In particolare, tale prospetto è l’equivalente finanziario dello stato patrimoniale dell’impresa. Si tratta di un documento extra-contabile non richiesto dalla normativa civilistica e fiscale, ma necessario per valutare l’adeguatezza delle fonti rispetto agli impieghi. Nella sua forma a sezioni contrapposte il prospetto presenta, seguendo il criterio di crescente liquidità dell’investimento, le poste relative a cespiti e disponibilità aziendali necessarie all’impresa. Dai beni difficilmente liquidabili al bene liquido per eccellenza, la moneta, si iscrivono nella parte sinistra del prospetto i valori finanziari dei vari investimenti. Contrapposta agli impieghi troviamo la sezione delle fonti finanziarie. Si tratta dei finanziamenti ottenuti dall’impresa presso terzi o presso i soci, finanziamenti che garantiscono l’acquisizione dei beni per il processo produttivo. Tali fonti sono ordinate per scadenza: partendo da quelle vincolate all’impresa per un periodo pluriennale (per esempio: capitale proprio, riserve di utili, di rivalutazione, riserve libere) e raccolte presso gli azionisti, incontriamo le obbligazioni contratte per mutui bancari o per l’emissione di titoli di debito direttamente sul mercato finanziario, per arrivare al debito commerciale e finire con il debito a breve termine (aperture c/c bancario, 36 sconto di portafoglio commerciale). La natura e la composizione degli impieghi e delle fonti cambia al mutare della fase di sviluppo nell’impresa. I finanziamenti debbono essere scelti tra le fonti disponibili secondo il principio di adeguatezza. Si individuano tre tipi di adeguatezza delle fonti agli impieghi: a. orizzontale; b. verticale; c. economica. L’adeguatezza orizzontale è di gran lunga la più trattata in letteratura (Cattaneo 1976, Brugger 1980) e si verifica quando le fonti sono omogenee per natura e scadenza agli investimenti che vanno a finanziare. Una misura dell’adeguatezza orizzontale è quella del margine di struttura e di tesoreria utilizzati già da molti anni in letteratura. Entrambi hanno però il limite di calcolare l’adeguatezza servendosi di valori assoluti e quindi di non essere capace di catturare il margine relativo di copertura e di tesoreria. Per questo motivo, nel caso del primo, si è soliti servirsi del rapporto di copertura delle immobilizzazioni, che costituisce l’equivalente in forma di rapporto del margine di struttura stesso. L’altro margine utilizzato per valutare l’adeguatezza orizzontale è il margine di tesoreria che viene calcolato sottraendo dalle poste liquide dell’attivo corrente i debiti finanziari e commerciali a brevissima scadenza. Tale margine, come già il precedente, ha una versione in forma di rapporto nell’acid ratio, uno degli indicatori di liquidità maggiormente utilizzati in letteratura insieme al current ratio e al quick ratio. Proprio l’adeguatezza orizzontale nelle poste di bilancio di brevissimo termine scongiura l’insolvenza e rende possibili il raggiungimento dell’equilibrio finanziario dell’impresa. L’adeguatezza verticale pone l’accento sulle proporzioni relative delle fonti di finanziamento ed è capace di segnalare situazioni di squilibrio nella scelta dei finanziamenti nella forma di eccessivo indebitamento rispetto al capitale proprio. Per misurare l’adeguatezza verticale possono essere utilizzati i ratio di composizione del capitale aziendale [D/(D+E)] ed E/(D+E) oppure il conosciuto rapporto di leva finanziaria o D/E). Quest’ultimo, in particolare, segnala quante volte il debito sottoscritto dall’impresa sopravanza il capitale netto investito. Si tratta di un indicatore relativo di adeguatezza in quanto due grandezze che partecipano alla struttura finanziaria d’impresa vengono messe a confronto le une con le altre. Per questo motivo tale indice è utilizzato confrontandolo con quello di imprese simili operanti nel medesimo settore e assimilabili alle prime per natura dei flussi finanziari generati e per rischio a cui sottopongono l’investitore. L’adeguatezza economica della struttura dei finanziamenti viene sod- 37 disfatta quando la gestione corrente è capace di generare ricchezza sufficiente al “servizio del debito”, ovvero alla copertura degli oneri finanziari generati dal ricorso all’indebitamento. Il debito, infatti, non genera di per sé squilibri finanziari. Essi si verificano solo nel caso in cui la redditività operativa dell’impresa, ovvero il reddito operativo ante interessi, non sia capiente rispetto agli interessi passivi originati dal debito stesso. In altre parole, quando EBIT (1 – tc) < Oneri Finanziari. In questo caso, non solo tutta la redditività operativa è assorbita dal servizio del debito, ma anche una parte di tali costi costituiscono perdite che vanno a erodere il capitale proprio dell’impresa. Se questa situazione permane nel tempo, l’impresa è destinata a uno squilibrio strutturale e subentra lo stato di sofferenza e crisi. Proprio per calcolare la capacità dei flussi di cassa di servire il debito sono state sviluppate in letteratura e prassi una serie di indicatori capaci di valutare l’effettiva copertura delle politiche di finanziamento da terzi. Tra i più utilizzati ricordiamo, dal punto di vista prettamente contabile, il rapporto: EBITDA Indice di copertura degli oneri finanziari = Oneri finanziari che mette in rapporto il reddito operativo ante ammortamenti, svalutazioni, oneri finanziari e imposte (EBITDA) con i soli oneri finanziari. Tale indice non tiene conto della quota capitale oggetto di rimborso che, sommata agli oneri finanziari, va, invece, a costituire il denominatore (Total Debt Service) dell’indice conosciuto nella prassi e in letteratura come Debt Service Coverage Ratio (DSCR): DSCR = EBIT Total debt service oppure una sua variante finanziaria al cui numeratore troviamo il flusso di cassa disponibile per i finanziatori (FCFF): DSCR Fin = FCFF Total debt service Qualora gli indicatori sopra descritti assumano valori uguali o inferiori a uno, si verificherà l’impossibilità oggettiva per l’impresa di fare fronte alle uscite originate dall’indebitamento con la liquidità generata dall’attività operativa. Tale circostanza, tuttavia, non costituisce di per sé un elemento sufficiente all’emergere dell’insolvenza in quanto il management può, teo- 38 ricamente, reperire nuove risorse nelle altre aree del rendiconto finanziario, ovvero in quella del debito o in quella del capitale proprio. La copertura del debito è dunque condizione necessaria alla sopravvivenza dell’impresa nel lungo termine e a un corretta ripartizione del rischio sui soggetti prenditori, ma di per sé non è sufficiente a garantirne la solvibilità. Infatti, l’insolvenza potrebbe manifestarsi a causa degli sfasamenti temporali del ciclo monetario, responsabili delle tensioni di liquidità e ciò in presenza anche di flussi di cassa annuali superiori al servizio del debito. Non è questa la sede per approfondire il tema dell’adeguatezza patrimoniale ed economica, in questa sede ci preme di sottolineare come la funzione tecnica di produzione e adattamento e quella produttiva di finanziamenti siano centrali nelle attività d’impresa e fortemente collegate tra loro. Proprio il mancato coordinamento, abbiamo visto, genera rischio d’impresa, in questo caso rischio di struttura finanziaria che è inserito tra i rischi finanziari interni. 7. Il rischio e le fasi del ciclo di vita di un’impresa Il rischio, che come abbiamo già detto nel par. 1 è originato dalle condizioni di incertezza nelle quali gli investimenti vengono assunti, può emergere in modo difforme nella varie fasi di crescita dell’impresa. Volendo tracciare un percorso ideale di crescita dalla formazione della business idea fino all’impresa complessa, possiamo tentare di illustrare il rapporto tra investimenti e finanziamenti, e il rischio tipico di ogni fase di sviluppo dell’impresa. La fase di genesi (start-up) è quella in cui l’imprenditore formalizza la business idea e definisce gli assetti organizzativi, strategici e proprietari iniziali. In particolare, in questa fase, l’imprenditore pioniere è tenuto a selezionare gli investimenti iniziali per l’avvio dell’attività e a reperire, prevalentemente dalle proprie disponibilità – attraverso il conferimento – le fonti finanziarie. Il primo atto di finanziamento dell’impresa è il conferimento del capitale sociale in sede di costituzione al quale normalmente seguono fonti finanziarie di terzi: principalmente nella forma dell’indebitamento bancario di breve e di medio lungo termine. In questa fase primaria di sviluppo, si avviano le attività di produzione e adattamento di beni e servizi e, proprio a causa della novità, si verificano più spesso che nelle fasi successive, rischi operativi relativi: ai materiali utilizzati, all’organizzazione del processo produttivo e a quella dei canali distributivi. Per questi motivi la copertura degli investimenti iniziali è prevalentemente operata at- 39 traverso fondi propri e solo per la parte relativa alle attrezzature e alla strutture produttive si ricorre al debito. Solo in questo caso, accanto al rischio operativo, si affianca quello derivato di struttura finanziaria (Floreani 2005), rischio che abbiamo visto emergere a causa di un’inadeguata copertura dei fabbisogni finanziari. In questa fase la composizione delle fonti è inizialmente sbilanciata verso il capitale proprio, mentre il rapporto D/E aumenta velocemente con l’utilizzo del debito bancario, sia esso a breve o a medio lungo termine. La fase successiva, quella di espansione dell’impresa, ha come obiettivo quello del consolidamento delle attività, della crescita della quota di mercato e di ampliamento dei canali distributivi, anche oltre i confini nazionali. Gli investimenti tipici di questa fase sono quelli relativi alla crescita della quota di mercato, all’affermazione di marchi e brevetti distintivi rispetto alla concorrenza e all’espansione del capitale circolante netto a causa della maggior diffusione dei beni e servizi. Si acutizzano i rischi operativi relativi alla logistica e quelli sulle stime di vendita, che risultano di minor qualità a causa della forte varianza causata dalla crescita. Sono per la prima volta presenti rischi relativi alle attività internazionali poste in essere dall’impresa identificabili tanto nel rischio di cambio che in quello di tasso di interesse, rischi, questi, di natura finanziaria. Nel caso, poi, l’impresa intraprenda la via della crescita esterna, gli impieghi saranno prevalentemente di natura finanziaria e relativi all’acquisizione di quote di partecipazione al capitale di imprese operanti nel medesimo settore o in altri a esso collegati. Il fabbisogno finanziario tipico di questa fase è molto elevato e deve essere coperto principalmente ricorrendo a iniezioni di nuovo capitale proprio capaci di rendere possibile un’ulteriore espansione del debito. È in questa fase che, in alcuni casi, all’imprenditore pioniere si affiancano degli operatori specializzati nel capitale di rischio i quali possono sottoscrivere, in parte o integralmente, l’aumento di capitale necessario alla fase espansiva. A seguito di tale operazione, il rapporto D/E subisce un ridimensionamento. Ciò permette all’impresa di reperire ulteriori fonti di finanziamento presso gli istituti bancari e comporta, nella seconda parte di questa fase, il ritorno a livelli elevati di D/E. Dal punto di vista della struttura finanziaria, questa fase è caratterizzata da una crescita diffusa di entrambe le componenti debito e capitale proprio con uno sbilanciamento, nella parte finale, a favore del debito. Con esso infatti si possono finanziare operazioni di Leverage Buy Out. In questa fase il servizio del debito è in alcuni casi difficoltoso e l’impresa soffre di scarsa flessibilità finanziaria derivante dagli alti costi collegati al debito. Inoltre, la presenza di operazioni di fusione e acquisizione finisce per aumentare il rischio operativo nella componente dei rischi di integrazione tra impresa target e bidder. Ciò finisce per far crescere le aspet- 40 tative in termini di rendimento atteso che si dovrà adeguarsi a nuovi e più alti livelli di rischio, sia finanziario che operativo. La fase successiva a quella dell’espansione d’impresa è quella del going-public10. In tale fase il management ha come obiettivo quello di proseguire lo sviluppo delle attività superando i vincoli delle risorse finanziarie private reperibili sui mercati non regolamentati. Altri possibili obiettivi capaci di orientare questa fase sono (Arosio, Giudici, Paleari 2000): • il disinvestimento da parte di alcuni soci (pionieri o private bankers) delle partecipazioni d’impresa. Ciò da spesso origine a operazioni di management buy out o family buy out; • il miglioramento dell’immagine aziendale a seguito della maggior trasparenza necessaria per l’accesso alle negoziazioni e conseguenza, anche, della quantità e qualità delle informazioni scambiate sull’impresa; • la capacità di attrarre risorse umane di maggior qualità. In questa fase l’impresa continua nel suo percorso di crescita, interna o esterna che sia, aumentando il volume delle attività fisse e in particolare degli impieghi in attività durevoli materiali o in quelle finanziarie (in caso di crescita esterna tramite acquisizioni). Gli ingenti impieghi necessari in questa fase fanno emergere un fabbisogno finanziario di notevoli dimensioni che deve trovare temporaneo soddisfacimento in fonti di debito quali: il debito secondario (second lien) e il mezzanine financing. Proprio queste fonti permettono all’impresa di non interrompere il proprio percorso di crescita garantendo le risorse per investire in quel processo di riorganizzazione funzionale, strategica e finanziaria che accompagnerà la società alla quotazione sui mercati regolamentati. In questa fase, il rischio generato dall’impresa è principalmente causato dalle difficoltà di integrazione dei nuovi assets acquisiti dalla medesima e dal mancato raggiungimento di obiettivi di vendite e redditività. Ciò si manifesta congiuntamente al rischio di struttura finanziaria innescato dal forte ricorso al capitale di terzi. Proprio questa ultima componente di rischio finanziario è solo in parte mitigata dall’utilizzo, da parte dell’impresa, di forme di finanziamento a remunerazione variabile, normalmente definiti strumenti di semiequity. Un esempio è la sottoscrizione da parte dell’impresa di prestiti partecipativi o di mezzanine loans destinati alle operazioni di quotazione. Il rapporto D/E subisce in questa fase un rapido incremento che terminerà solo con l’immissione di nuovo capitale in fase di Initial Public Offering. Una volta realizzata la quotazione con l’aiuto degli advisors e del glo10 Il termine “going public” sta a indicare l’operazione di prima quotazione di un’impresa su un mercato regolamentato. Per un approfondimento sul tema del valore in fase di emissione cfr. Roggi O. (2003), Valore intrinseco e prezzo di mercato nelle operazioni di finanza straordinaria. Una analisi sulle public utilities, FrancoAngeli, Milano. 41 bal coordinator (Roggi 2003; Arosio, Giudici, Paleari 2000), l’impresa, ormai una public company, orienta le proprie attività di impiego e di finanziamento tenendo in dovuta attenzione il rapporto con il mercato nel quale i titoli sono negoziati. I progetti di investimento vengono scelti non tanto sulla base del principio di creazione di valore tout-court, ma piuttosto perseguendo quello specifico di massimizzazione del valore disponibile per gli azionisti. In questa fase, infatti, la massimizzazione del prezzo azionario si sostituisce all’obiettivo di creazione del valore e finisce per modificare le scelte di investimenti e di finanziamento. Proseguendo nel percorso di crescita, l’impresa raccoglie il capitale emesso nel corso dell’IPO provvedendo a riequilibrare il rapporto D/E che era cresciuto nelle fasi precedenti. Visti gli alti costi di emissione, l’impresa raccoglierà sul mercato il capitale necessario a finanziare il fabbisogno durevole evidenziato nel piano industriale e ciò comporterà, almeno nella prima fase post-quotazione, una notevole riduzione dell’indice D/E. Successivamente alla quotazione, l’impresa continuerà a crescere espandendo la propria attività alla produzione di altri beni e servizi, oppure deciderà di affrontare il mercato internazionale. In entrambi questi casi, l’impresa beneficerà della riduzione del rischio specifico relativo al core business e sottoporrà i propri investitori a un rischio mitigato, principalmente pari a quello sistematico. La letteratura non è concorde sull’utilità delle operazioni di diversificazione intraprese dall’impresa all’indomani della quotazione. Infatti, una corrente di pensiero (Myers 1968; Shall 1972; Brealey e Myers 1981) afferma che la diversificazione di rischi specifici di impresa è raggiungibile con minori costi e maggiore facilità dall’investitore (persona fisica), il quale potrà costruirsi un portafoglio di azioni rappresentative di imprese dalle attività diversificate. Tali autori concludono che le attività di crescita in settori e attività attigue a quella svolta sono da disincentivare e non dovrebbero essere oggetto della crescita post-quotazione. Altri autori, convinti dell’utilità dell’impresa come intermediario tra i bisogni della collettività non organizzata e lo Stato, pongono l’accento sulla sopravvivenza della stessa e sottolineano come le attività di diversificazione, successive alla fase di quotazione, portino benefici all’impresa sotto forma di maggiore stabilità dei flussi di risultato, riducendo così i rischi degli investitori. Ai nostri fini dobbiamo segnalare come la diversificazione riduca il rischio specifico e quindi contribuisca alla riduzione dei rendimenti attesi dei soggetti finanziatori in assenza di ipotesi di razionalità e perfetta diversificazione del portafoglio delle attività. Riguardo alla natura delle fonti, e al loro rapporto, possiamo affermare che dopo la prima fase di maggiore capitalizzazione dovuta all’emissione azionaria, l’impresa, ormai quotata, potrà e dovrà aumentare il ricorso alla 42 leva finanziaria. Ciò accadrà servendosi di nuovi e più “potenti” strumenti di debito disponibili prevalentemente per le imprese quotate. Ci riferiamo in particolare alla possibilità di emettere e quotare sul Mercato Obbligazionario Telematico (MOT) i titoli rappresentativi del debito d’impresa e sull’IDEM ogni prodotto da esso derivato. Queste emissioni, che possono essere di natura e importi molto diversi tra loro, contribuiscono a far nuovamente aumentare il rapporto D/E, che tornerà a livelli di attenzione. Soprattutto nelle fasi finali di questo periodo si potrà far ricorso a operazioni a maggior rischio finanziario attraverso l’emissione di prestiti non garantiti ad alta rischiosità, quali gli high yield bond. Continuando il percorso di crescita, l’impresa entra nella fase di maturità. Tale fase è caratterizzata principalmente da rischi di natura non operativa. Obiettivi propri di questa fase sono: la stabilizzazione dei flussi di risultati, la riduzione del costo del capitale, l’individuazione di operazioni di rejuvenation (Baden Fuller, Stopford 1994) delle attività legate a nuovi prodotti o mercati, o solo anche a nuovi processi produttivi. Con la maturità dell’impresa, il rendimento atteso dei progetti da realizzare diminuirà a seguito del venire meno di progetti maggiormente remunerativi, con la conseguenza di una minore redditività differenziale dei progetti marginali rispetto a quelli inizialmente intrapresi. Questa circostanza, misurata efficacemente dalle riduzione dell’Economic Value Added di progetto (Stewart 1991), ha come conseguenza quella di disciplinare il management (Jensen 1986) nell’utilizzo delle fonti finanziarie (Myers 1984) e soprattutto di orientare lo stesso verso operazioni di riduzione del costo del capitale. Ciò necessariamente spinge a sostituire capitale proprio con quello di terzi e, indirettamente, ad aumentare il rischio d’insolvenza dell’impresa. Inoltre il management realizzerà operazioni di copertura dei rischi, trasferendo a terzi i cosiddetti rischi assicurabili e trattenendo solo quelli tipici e ineliminabili d’impresa. Da quanto sopra illustrato emerge come la visione statica dell’impresa non contribuisca a conoscere il rapporto organico che esiste tra investimenti, finanziamenti, rischio e rendimenti richiesti dai finanziatori. L’impresa, nel suo divenire, si trasforma negli impieghi e nelle fonti che ne garantiscono la copertura. Dagli impieghi, diversi fase per fase, emergono principalmente rischi operativi relativi: ai progetti realizzati, alla logistica, alla produzione e alla commercializzazione dei beni e servizi. Dalle fonti, invece, prende origine il rischio finanziario. Quest’ultimo è caratterizzato principalmente dal rischio d’insolvenza, ma a esso si associano altri rischi finanziari connessi alle caratteristiche dei finanziamenti raccolti, primi fra tutti i rischi di interesse e di cambio. 43 Natura degli impieghi Impieghi per l’organizzazione delle funzioni produttive e di adattamento Espansione commerciale, impianti e macchinari M&A Natura delle fonti Conferimento equity iniziale + debito bancario Debito bancario prevalente sul capitale proprio. Eventuale e mezzanino pre IPO Capitale proprio raccolto in IPO, debito strutturato senior Capitale proprio (aumenti), Debito senior, secondario e subord. Debito a basso rendimento Rischi aziendali Rischio operativo di organizzazione d’impresa Rischio operativo e finanziario Rischio operativo e finanziario e regolamentare Rischio finanziario prevalente Rischio finanziario e rischio di Governance Altissimo Alto Alto Rapporto D/E Alto Going Public Basso Expansion Basso per ricapitalizzazione Fase di sviluppo Basso in crescita Start-up Altissimo Figura 1 – Ciclo di sviluppo dell’impresa, tipologie di rischi aziendali e andamento del rapporto d’indebitamento D/E Public Maturità D/E t 8. Il rischio e il valore d’impresa Le discipline aziendali e in particolare la Finanza Aziendale hanno sviluppato e più volte tentato di legare i rischi d’impresa ai rendimenti richiesti dai suoi finanziatori. I numerosi modelli teorici e strumenti operativi sono stati in- 44 trodotti per comprendere, stimare e poi ridurre i rischi d’impresa (Doherty 1985; Greene e Serbein, 1983; Ferry 1988). Come approfondiremo nel Capitolo 2, tali sforzi sistematori hanno fatto nascere un filone di studi conosciuto come corporate risk management, nel quale le relazioni tra rischio e valore dell’impresa sono assunte come principali e le attività si organizzano per affiancare al classico obiettivo di massimizzazione del valore dell’impresa quello peculiare, e oggi molto ricercato di minimizzazione dei rischi. Già da alcuni decenni, per la verità, la Finanza Aziendale si è assunta il compito di indagare sul rapporto che esiste tra rischio e valore. Ciò ha portato agli studi sull’adeguatezza della struttura economico finanziaria dell’impresa nell’esercizio delle proprie attività. In particolare è possibile affermare che, nella prospettiva finanziaria, l’impresa può essere vista come: la sommatoria degli investimenti in attività necessarie all’impresa e dei corrispondenti finanziamenti necessari alla copertura. Nel suo funzionamento fisiologico, poi, essa è un organismo capace di produrre flussi finanziari positivi che eccedono quelli negativi. In questa seppur sintetica descrizione dell’impresa nella sua prospettiva finanziaria ritroviamo immediatamente la forte relazione che sussiste tra attività/impieghi dell’impresa e le fonti finanziarie che ne permettono la realizzazione e il rischio. Di seguito proponiamo alcuni richiami alla genesi della relazione sopra descritta. Nel 1927 a Ca’ Foscari, Gino Zappa introduceva nelle discipline aziendali il concetto di reddito d’impresa e su di esso costruiva una teleologia d’impresa volta alla sua massimizzazione. Nel medesimo periodo, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, il reddito era oggetto di studi da parte di altrettanto illustri economisti e matematici. Correva l’anno 1930, infatti, quando Irving Fisher, enunciando la teoria dell’interesse, dette un fondamentale contributo teorico allo sviluppo delle discipline manageriali e, involontariamente, alla teleologia d’impresa zappiana: introducendo il concetto di risparmio e di investimento e definendo il valore capitale e il valore d’impresa e di ogni altro investimento in relazione al reddito. Infatti, sebbene il suo interesse fosse principalmente rivolto a comprendere le ragioni dell’esistenza di un tasso di interesse sul capitale, indirettamente, egli fece luce sul rapporto tra il risparmio presente, il suo “utile impiego” (investimento) e il rendimento o reddito futuro che era possibile ritrarre dal risparmio impiegato. Affermava Fisher (1930, p. 26): “È il risparmio che ci porta a considerare la natura del capitale”. Proprio il capitale, insieme al tasso di interesse su di esso applicato, è infatti l’elemento di collegamento tra il risparmio presente e il reddito futuro. Nelle parole dell’economista americano: “Il capitale, nel senso di valore capitale, è semplicemente reddito futuro scontato o, in altri 45 termini, capitalizzato”. Così facendo Fisher lega in modo chiaro il concetto di risparmio presente a quello di valore capitale futuro, affermando che: “il valore di qualsiasi proprietà, o diritto di ricchezza, è il suo valore come fonte di reddito e si trova scontando quel reddito atteso”. Si ponevano in questo modo le basi della teoria del valore più tardi sviluppata da Modigliani e Miller (1958, 1963, Miller 1977) e da tutti gli studiosi che hanno contribuito a farne, ai tempi odierni, il paradigma prevalente nelle scienze manageriali (Rappaport 1986, Stewart 1991). Già nel 1930, Fisher era consapevole del rapporto che esisteva tra il valore capitale odierno e il reddito futuro incerto. “Il problema fondamentale della valutazione temporale che la natura ci propone è sempre quello di tradurre il futuro nel presente, e cioè di determinare il valore capitale del reddito futuro. Il valore del capitale deve essere calcolato sul valore del suo reddito futuro e non viceversa” (Fisher 1930, p. 31). Con queste affermazioni egli si mostrava consapevole del fatto che le decisioni di investimento fossero soggette all’alea del risultato, all’incertezza, portandoci a concludere che già in questo modello il valore d’impresa dipendesse anche dall’incertezza e dal rischio. È questo sicuramente un altro elemento fondamentale per il quale il contributo di Fisher rimane fondante nello sviluppo della Finanza Aziendale11: l’introduzione dell’incertezza e quindi del rischio nella determinazione del valore dell’impresa (Fanni 2000). Gli studiosi successivi hanno proseguito il lavoro partendo da questo contributo e già con Modigliani e Miller nel 1958 e poi con Myers (1984) e altri, si è approfondita la genesi del valore. Con Rappaport (1986) e gli anni Ottanta, poi, il paradigma del valore è divenuto predominante. L’obiettivo d’impresa è quello di massimizzare il valore in generale e quello per gli azionisti, in particolare. Tale obiettivo è perseguibile e desiderabile tanto quando si opera in condizione di certezza, tanto quando, invece, le condizioni sono di incertezza. In questo paragrafo vogliamo mostrare come la massimizzazione del valore può essere raggiunta in condizioni di incertezza e quindi il rischio influisca sulla funzione obiettivo (Damodaran 2006) della Finanza Aziendale. Partiremo nel nostro percorso dalla concezione di impresa basata proprio sul concetto di investimento introdotto da Fisher (1930). In finanza un’impresa può essere valutata come la sommatoria dei progetti di investimento che un soggetto economico imprenditore realizza al fine di compiere la propria “impresa”. 11 Sull’argomento e in particolare sul contributo del pensiero di Fisher alla Finanza Aziendale, cfr. Fanni M. (2000), Manuale di finanza dell’impresa, Giuffrè, Milano, pp. XXIII e ss.. 46 In sostanza il valore di un investimento J qualunque, e quindi dell’impresa sommatoria, può essere determinato come valore dei flussi di risultato futuro (CFt) generati dai progetti di investimento e attualizzati a un tasso di interesse r che tenga conto del grado rischio insito nella stima. Formalizzando: Le componenti per la determinazione del valore sono quindi principalmente tre: i flussi di cassa generati dall’investimento CFt, il tempo t e il tasso di attualizzazione r. In condizioni di certezza tali variabili hanno una determinazione univoca trattandosi di valori certi. Ciò fa si che il valore d’impresa possa essere definito come la sommatoria dei flussi di cassa nominali attualizzati al tasso risk free. Nel caso, invece, in cui si operi in condizioni di incertezza le cose cambiano. Ai valori determinati univocamente saranno sostituite le stime della variabili e per fare questo dovranno essere costruite, per ciascun elemento di calcolo, le rispettive distribuzioni di frequenza delle variabili aleatorie. In dottrina (Guatri Bini 2002), l’alea è inclusa all’interno della formula del valore in due modi alternativi. Il primo prevede che l’alea sia inclusa nella stima del tasso di attualizzazione e che invece i flussi di cassa attesi siano indicati al loro valore nominale. Il secondo metodo prevede che il rischio sia previsto e incluso nella stima attraverso la ponderazione dei flussi nominali con la probabilità di verificarsi degli stessi. In questo caso la letteratura parla di flusso di cassa equivalente certo. Accanto a questi due primi metodi esiste anche il “Metodo del Venture Capitalist” (Callow 2005) nel quale il rendimento atteso risk adjusted viene diviso ulteriormente per la probabilità di verificarsi. Recentemente, mutuando gli strumenti dalla gestione dei rischi delle imprese bancarie, si sta cercando di introdurre la valutazione del rischio inatteso su operazioni non bancarie servendosi del Cash Flow at Risk. Ne parleremo nelle pagine che seguono. 8.1. L’inclusione del rischio nel tasso di attualizzazione Come abbiamo ricordato sopra, utilizzando il primo metodo di inclusione dell’incertezza nel tasso di attualizzazione, i flussi di risultato, detti 47 anche cash flows (CF), sono espressi a valori nominali e non tengono conto del rischio che essi varino a seguito dell’alea insita negli investimenti realizzati. Il rischio, come conseguenza dell’incertezza nella quale la decisione è assunta, viene invece a essere incluso nel denominatore della sopra descritta formula, laddove il tasso di interesse al quale si attualizzano e capitalizzano i flussi di cassa contenga un premio per il rischio stesso. Tale tasso sarà sempre stimato tenendo conto del rendimento richiesto dagli investitori per rinunciare al consumo e per investire in un’attività rischiosa. Per questo motivo al già citato tasso risk free dovrà essere aggiunto un premio di rendimento capace di indennizzare l’investitore del rischio che sostiene nel realizzare il progetto stesso. Tale tasso, noto in letteratura come Risk Adjusted Rate of Return, RAdR (Guatri Bini 2002 et alia), dovrà tenere conto tanto dei rischi operativi, insiti nell’iniziativa, quanto del financial risk che emerge dalla struttura finanziaria scelta dall’impresa e dagli altri rischi finanziari. Tabella 2 – Modalità di inserimento del rischio nella formula del valore d’impresa Criteri/CF e tassi utilizzati Equivalenti Certi Flussi attesi rischiosi Venture Capital Method Tipo di flusso da scontare Equivalente certo del risultato atteso Risultato medio atteso Risultato dello scenario di successo Tasso di sconto Risk Free RAdR Rendimento richiesto Calcolato cosi: Rf Rf + Premio per il rischio RAdR/probabilità di successo dello scenario Fonte: Nostra elaborazione da Guatri e Bini (2002, p. 297) In sostanza RAdR = E (Rj) = rf + ∆r, dove ∆r è il premio per operare in condizioni di incertezza nell’investimento j. Il calcolo del tasso di attualizzazione avviene effettuando la media ponderata del costo delle fonti finanziarie che partecipano alla copertura dell’investimento; le principali di esse sono il capitale proprio e quello di terzi. La letteratura sul tema del costo del capitale è ampia e variegata. Più degli altri, Sharpe (1964) e Lintner (1965) e Miles-Ezzel (1980) sviluppando i contributi già noti sotto il nome di “Wacc Textbook” (il cosiddetto costo medio ponderato del capitale) hanno contribuito a completare il quadro teorico già tracciato da Modigliani e Miller (1958 e 1963). In generale, per costo del capitale si intende la remunerazione media 48 ponderata corrisposta ai finanziatori. Tale valore può essere stimato in due modi differenti. Attraverso il tasso-costo viene calcolato l’onere di ciascuna fonte secondo una logica del costo storico sostenuto, ponderandola con il peso relativo della fonte nella struttura finanziaria. Ne consegue, la formula di seguito illustrata: E D WACC = Re + Rd E+D E+D dove le due componenti di costo sono calcolate secondo la seguente logica: • Re viene generalmente stimato facendo ricorso all’onerosità delle fonti di capitale proprio (ROE storico); • Rd è invece calcolato come rapporto fra gli oneri finanziari sostenuti e il debito finanziario contratto. In alternativa la stima può essere realizzata attraverso il tassoopportunità, più spesso utilizzato nel caso di una misurazione prospettica, nel qual caso si considerano alla base del calcolo gli impieghi alternativi a cui hanno rinunciato i finanziatori per investire nell’impresa. Ne consegue, la formula di seguito illustrata: WACC = K e E D + Kd E+D E+D dove le due componenti di costo sono calcolate secondo la seguente logica: • Ke viene generalmente stimato facendo ricorso al metodo del CAPM calcolato con un beta levered tenendo conto della specifica struttura finanziaria e del rischio finanziario a essa legato; • Kd è invece calcolato come somma del tasso privo di rischio e di un premio per il rischio finanziario legato al rating e alla probability of default del soggetto finanziato. Considerato che la somma D + E = V rappresenta il valore dell’impresa ed è pari al totale delle fonti necessarie per coprire il fabbisogno finanziario, il manager dovrà individuare il mix ottimale di finanziamenti che permetta la massimizzazione del valore dell’impresa secondo la formula del Discounted Cash Flow (DCF) qui di seguito ricordata Tale obiettivo, se poniamo costanti i free cash flow to firm (FCFF), sulla base delle considerazioni fatte in precedenza, coincide con la ricerca della minimizzazione del costo del capitale aziendale sopra indicato (Wacc). 49 8.2. L’inclusione del rischio nei flussi di cassa Un secondo metodo per includere il rischio nella valutazione d’impresa è quello di utilizzare il metodo degli Equivalenti Certi (Certainty Cash Equivalent) nel quale l’alea relativa alla realizzazione del progetto viene incorporata nelle stime dei flussi di cassa. Tale approccio prevede la quantificazione del flusso di cassa certo che un soggetto è disposto a ricevere in cambio di uno rischioso. Tale importo denominato CEQ è inserito al numeratore della sommatoria al posto del FCFF e attualizzato al tasso risk free. Un approccio indiretto, ma sempre assimilabile a quello sopra descritto, è quello presentato da Guatri e Bini (2005). L’equivalente certo è calcolato in modo indiretto riducendo il valore dei flussi di cassa rischiosi del costo della copertura. Ciò fatto sarà possibile attualizzare la differenza al tasso privo di rischio. Limite di questo ulteriore approccio è quello di poter essere applicato solo nel caso in cui la copertura sia perfetta. Ciò facendo si costruisce un’espressione del valore del tipo: In questo caso, come nel precedente, il tasso di attualizzazione da utilizzare nel processo di valorizzazione dei flussi futuri è quello dell’investimento privo di rischio. Infatti, nessun premio per il rischio sarà dovuto in ragione del fatto che tale rischio è già stato calcolato e ha preso parte alla determinazione del numeratore. 8.3. L’inclusione del rischio nei flussi di cassa at risk (CFaR) Recentemente la dottrina ha sviluppato alcuni metodi previsionali per i flussi di cassa rischiosi. Tra i più noti, anche se poco utilizzato in pratica, è il metodo di Monte Carlo. Accanto a esso, si sta sviluppando un metodo di stima che possiamo definire derivato. Esso trae infatti origine dalla stima del Value at Risk (RiskMetric 1999). Il VaR può essere utilizzato anche nell’analisi del rischio d’impresa e può permetterci di valorizzare quest’ultima sulla base dei Cash Flow at Risk. In particolare il metodo tenta di includere 50 nel calcolo quelle variabili che permettono di misurare la volatilità dei flussi di cassa operativi di natura commerciale piuttosto che concentrarsi sulla variabilità introdotta dai rischi di mercato come nel VaR. In letteratura sono conosciuti tre distinti metodi per il calcolo dei Cash Flow at Risk. Il primo, tradizionale, è stato sviluppato da Risk Metric (1999) ed è conosciuto come metodo Bottom-up; esiste poi il metodo illustrato da Stein Ulsher and Laguttata (2001) e definito Top-Down. Recentemente si è sviluppato un terzo metodo detto Exposure Base CFaR (Andrén, Jankensgard, Oxelheim 2005). Il metodo bottom-up realizza la stima del CFaR tentando di identificare e misurare le componenti della volatilità che sono esposti a rischi di mercato. La definizione dei CFaR è dunque diretta a conoscere la volatilità dei cash flow dato un determinato livello di rischio di mercato. Questo approccio può essere utilizzato quando il top management è ragionevolmente sicuro delle proprie valutazioni riguardo al rischio e soprattutto è consapevole dei meccanismi che, mutato il rischio di mercato, portano i cash flows a modificarsi. Questo il principale limite che ha permesso lo svilupparsi di approcci alternativi. Il metodo top-down, al contrario del precedente, costruisce la distribuzione di probabilità servendosi di dati storici aziendali e delle proiezioni e stime soggettive dei managers di un numero elevato di società. Questo approccio ha il vantaggio di offrire una stima media storica dell’esposizione al rischio. Tale stima deve riflettere l’esperienza di una pluralità di imprese esposte al rischio di mercato in modo anche dissimile. L’elemento di forza di questo metodo è, però, anche il suo principale limite. Infatti le imprese utilizzate per la costruzione della distribuzione di probabilità possono essere molto diverse tra loro e quindi portare a risultati non utilizzabili dall’impresa di cui si vogliono stimare i CFaR. Gli autori (Stein, Ulsher, Laguttata 2001) osservando circa 85000 imprese incluse nel data base Compustat, e in particolare tentando di spiegare le variazioni inattese dell’EBITDA di queste imprese, giungono a concludere che tali variazioni sono principalmente attribuibili a quattro diversi gruppi di variabili: la dimensione, la profittabilità, un indicatore di rischio settoriale dei cash flow e infine la volatilità del prezzo dell’azione. Sulla base di queste categorie essi hanno diviso le imprese in gruppi omogenei e costruito le distribuzioni di probabilità dei cash flow per classi omogenee. Per ovviare alla scarsa attenzione che entrambi i precedenti metodi, basati principalmente sulla stima della variabilità dei CF sulla base di quella delle variabili di mercato, il metodo dell’Exposed Based-CFaR propone un terzo metodo di calcolo. Esso si sostanzia in sei fasi: 1. identificazione delle variabili macroeconomiche e di mercato attese rilevanti ai fini della performance; 51 2. acquisizione e generazione delle previsioni delle variabili macroeconomiche e di mercato rilevanti per la stima della volatilità; 3. stima dello exposure model che sia tanto plausibile dal punto di vista economico quanto con buone caratteristiche statistiche; 4. simulazione dei valori relativi alle variabili macroeconomiche servendosi di valori random estratti dalla matrice varianza-covarianza; 5. inserimento dei valori sopra determinati nel modello per generare la distribuzione condizionale dei cash flow che tenga conto dell’impatto delle sole variabili macroeconomiche di mercato e la distribuzione la distribuzione di frequenza costruita considerando tutte le variabili non identificabili come fonti di volatilità non-macroeconomica; 6. combinazione delle due distribuzioni di frequenza in una singola distribuzione per identificare il grado di confidenza con il quale calcolare i CFaR. Il vantaggio di questo ultimo metodo, che, vista la complessità di utilizzo, si sta sviluppando quasi esclusivamente nelle imprese industriali medio-grandi, è principalmente quello di identificare con chiarezza quale parte della variabilità dei cash flow è attribuibile ai rischi macroeconomici e di mercato e quale invece non è a essi attribuibile. Così facendo, questo metodo, si avvicina alla trattazione del rischio secondo i principi della teoria del portafoglio finanziario (Markowitz 1952, Modigliani e Miller 1958, Sharpe 1964) e dà una misura indipendente del rischio sistematico e specifico sopportato dall’impresa. 9. Rischio di credito, insolvenza e costo del debito per l’impresa Il percorso finora intrapreso ci ha portato a indagare la natura e le manifestazioni del rischio d’impresa, a comprendere il legame tra questo e il valore d’impresa. La prospettiva scelta è quella dell’impresa e del suo rischio complessivo. È ora necessario affrancarci temporaneamente dalla prospettiva d’impresa per assumere l’ottica del principale risk taker non azionista, la banca, e affrontare il tema del rischio di credito. Quest’ultimo, infatti, è normalmente molto discusso dagli studiosi della discipline bancarie, poiché concerne il rischio sostenuto dall’impresa bancaria nell’attività tipica d’impiego delle risorse raccolte presso i risparmiatori. In questo contesto, però, l’analisi del rischio di credito non è, quindi, esercizio inutile all’economia del lavoro, giacché tende a chiarire il rapporto genetico che esiste tra rischio di credito, rischio d’insolvenza e pricing del credito. Tale relazione è importante in quanto il pricing del credito per la banca si trasforma imme- 52 diatamente nel costo del debito per l’impresa. Quest’ultimo, poi, contribuisce alla determinazione del Wacc e di conseguenza alla determinazione del valore d’impresa. 9.1. La definizione del rischio di insolvenza/credito nella prospettiva del risk taker bancario: il rischio di credito “Il rischio di qualunque prestito è espresso dalla probabilità che l’operazione non dia alcun contributo positivo alla redditività dell’azienda finanziatrice o addirittura incida sfavorevolmente sui suoi risultati di esercizio”. Dell’Amore (1965) già evidenziava come il rischio di credito fosse legato direttamente alla capacità del debitore di remunerare il finanziamento ottenuto e di rimborsare il capitale. Più recentemente, il rischio di credito è stato definito da Sironi (2000a) come: “L’eventualità che si verifichi una variazione inattesa del merito creditizio; variazione in grado di generare una modifica imprevista del valore di mercato della posizione creditoria”12. Entrambe le definizioni citate contengono i due elementi fondanti il rischio di credito: a. il rischio d’insolvenza, inteso come la probabilità che l’impresa non sia in grado di adempiere al pagamento degli interessi sul debito e al rimborso del capitale prestato; b. il rischio di migrazione, relativo al deterioramento del merito creditizio dell’impresa. Il primo elemento di genesi del rischio non è, quindi, unico in quanto anche il deterioramento del merito creditizio può generare una riduzione del valore di mercato di un’esposizione debitoria. Si pensi a un titolo obbligazionario “quotato” nei mercati regolamentati, al quale è stato assegnato un determinato rating, ovvero un giudizio di “affidabilità” creditizia da parte di un’agenzia esterna. L’eventuale downgrading13, causato dal deterioramento della qualità creditizia dell’emittente, genererebbe, nel rispetto della logica di rischio/rendimento, un incremento del premio per il rischio d’insolvenza richiesto dagli investitori. Non essendo possibile la revisione dello spread, tale 12 Cfr. Sironi A. (2000a), “La misurazione e la gestione del rischio di credito: approcci alternativi, obiettivi e applicazioni”, in P. Savona, A. Sironi (a cura di), La gestione del rischio di credito, esperienze e modelli nelle grandi banche italiane, Edibank, Roma. 13 Nel linguaggio tecnico dell’agenzie di rating per downgrading viene inteso un declassamento dell’impresa in una classe peggiore rispetto a quella occupata dall’attività, per esempio un rating BBB che diventa BB. 53 declassamento provocherà una riduzione del prezzo di mercato del titolo quotato. In realtà, il rischio di migrazione, definito anche rischio di spread, non è connesso solo alla possibilità di migrazione da una classe di rating all’altra, ma può derivare anche dalle generiche condizioni dei mercati. In effetti, è possibile che sia il “mercato”, o meglio gli investitori, a richiedere un aumento dei differenziali di tasso rispetto ai titoli risk free per le obbligazioni appartenenti a una medesima classe di rating. Tale fenomeno è generato dalla relazione esistente tra avversione al rischio degli investitori, premio per il rischio e condizioni congiunturali dei mercati finanziari e non da cause direttamente imputabili al merito creditizio dell’impresa. Il rischio di migrazione non riguarda solo i titoli obbligazionari, ma anche i rapporti di finanziamento che la banca instaura con i propri affidati14. La misurazione del rischio di credito richiede, a livello operativo, la quantificazione di due componenti15: la perdita attesa (expected loss, EL) e la perdita inattesa (unespected loss, UL)16. L’UL rappresenta la perdita che l’intermediario si attende a fronte di una posizione di prestito, la seconda è espressione, in termini di variabilità, del valore sopra citato17. L’entità della perdita attesa nella concessione di un affidamento, date le caratteristiche della controparte debitrice, determina il pricing del prestito. Fino a poco meno di un ventennio fa l’attenzione delle banche era rivolta quasi esclusivamente alla stima della perdita attesa, senza preoccupazione della possibilità che la perdita effettiva, a posteriori, potesse risultare maggiore di 14 Uno degli obiettivi di Basilea 2 è quello di valutare il prenditore non solo al momento della richiesta di affidamento, ma anche durante la fase di vita del prestito. Ciò facendo un possibile deterioramento o miglioramento della qualità creditizia si rifletterà direttamente sull’accantonamento a patrimonio di vigilanza e di conseguenza sul tasso di interesse applicato all’operazione in ogetto. 15 Si vedano De Lisa R. (2002), I sistemi interni di credit rating, FrancoAngeli, Milano, e De Laurentis G. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma. 16 Il NAC è calibrato in modo tale da fornire copertura sia per la componente di perdita attesa sia per quella inattesa: ciò diverge con i modelli finora utilizzati dalle banche che prevedono che la perdita attesa debba trovare copertura in un apposito accantonamento mentre la perdita inattesa debba trovare copertura nel patrimonio di vigilanza. In sostanza il NAC estende la copertura patrimoniale anche alla componente di perdita attesa. Ma in realtà la perdita attesa è tenuta in considerazione nella determinazione del tasso attivo del prestito, quindi si comprende che il NAC crea una sorta di duplice copertura. 17 Si vedano De Laurentis G. (1994), Il rischio di credito. I fidi bancari nel nuovo contesto teorico, normativo e di mercato, Egea, Milano; e Id. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma; Sironi A., Marsella M. (a cura di) (1998), La misurazione e la gestione del rischio di credito: modelli, strumenti e politiche, Bancaria, Roma. 54 quella prevista in via preliminare. L’evoluzione degli studi sull’attività bancaria e sul rischio hanno “spostato”, invece, l’attenzione sulla perdita inattesa. La distinzione tra EL e UL risulta essere fondamentale anche dal punto di vista contabile, in quanto, a fronte della prima, la banca dovrà rettificare il valore dell’attivo o rilevare un accantonamento a fondo rischi nel Conto Economico, mentre la copertura della seconda avverrà attraverso il patrimonio della banca stessa. Gli azionisti della banca potranno quindi beneficiare di risultati economici superiori alle attese quando le perdite effettive saranno inferiori a quelle preventivate, mentre dovranno sopportare l’onere derivante da perdite realizzate maggiori di quelle previste (Sironi 2005). Nei paragrafi successivi analizzeremo in dettaglio le componenti della perdita attesa e la relazione tra quest’ultima e il costo del debito per l’impresa. 9.2. Le componenti del rischio di credito La stima della perdita attesa. La perdita attesa di un’esposizione creditizia al momento del default (expected loss, EL) è funzione di due fattori18: • il valore dell’esposizione creditizia che ci si attende al momento del default (exposure at default, EAD); • il tasso atteso di perdita attribuibile alla stessa esposizione creditizia (expected loss rate, ELR). A sua volta il tasso atteso di perdita è definito come il prodotto di due ulteriori fattori: • la probabilità d’insolvenza del debitore (probability of default, PD); • il valore atteso della quota del credito non recuperabile in caso d’insolvenza (loss given default, LGD). Volendo formalizzare, la perdita attesa, espressa in valore assoluto, è data dal prodotto tra esposizione al momento del default (EAD), probabilità d’insolvenza (PD) e loss given default (LGD). EL = EAD × PD × LGD Nei paragrafi successivi analizzeremo gli aspetti teorici e pratici inerenti alla misurazione delle componenti del rischio di credito sopra descritte. 18 Si vedano De Lisa R. (2002), I sistemi interni di credit rating, FrancoAngeli, Milano; e De Laurentis G. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma; Szego G., Varetto F. (1999), Il rischio creditizio, Utet, Torino; Anolli M., Gualtieri P. (1999), La misurazione del rischio di credito nella gestione delle banche, Il Mulino, Bologna. 55 Il calcolo dell’esposizione al momento del default (EAD). La stima dell’esposizione al momento del default si basa sui seguenti elementi: 1. l’entità corrente di fido utilizzato (definita Drawn Portion, DP); 2. la quota inutilizzata al momento della valutazione (Undrawn Portion, UP); 3. la percentuale di quota inutilizzata che si prevede sarà utilizzata dal debitore al momento dell’insolvenza (Usage Given Default, UGD)19. Nella stima dell’EAD, è di fondamentale importanza considerare la parte di fido inutilizzata e prevedere quale sarà la quota di essa che l’impresa utilizzerà nel momento del default. All’avvicinarsi della situazione d’insolvenza vi è la tendenza dell’impresa a incrementare l’esposizione entro i limiti del fido accordato dalla banca per far fronte agli squilibri finanziari in atto20. Tale circostanza fa sì che l’entità di fido utilizzata da un’impresa in funzionamento non patologico e l’exposure at default (EAD) possano divergere notevolmente. Ciò spiega l’importanza segnaletica degli indicatori sopra citati. La formula di determinazione dell’esposizione corretta per la quota di fido non utilizzata è la seguente: EAD = DP + UP × UGD A questo punto può essere utile soffermarsi su un aspetto non secondario connesso alla stima dell’esposizione al momento del default. Il fatto di considerare anche la parte di affidamento non utilizzata, inevitabilmente determina un incremento della perdita attesa, che, in teoria, per la nota relazione rischio/rendimento, dovrebbe portare a un aumento del pricing del debito per l’impresa. In altre parole, il maggior rischio avvertito dal finanziatore determina un innalzamento dello spread applicato all’impresa per remunerare la banca del maggior rischio sostenuto, che in questo caso è implicito nella quota inutilizzata. Nella maggior parte dei casi, invece, tale componente di rischio è coperta da una commissione, diffusa nei mercati anglosassoni con il nome di commitment fee e conosciuta in Italia come “commissione di massimo scoperto”21. 19 Vedi Sironi A. (2000b), “Un approccio multinomiale semplificato per le banche italiane”, in P. Savona, A. Sironi (a cura di), La gestione del rischio di credito, esperienze e modelli nelle grandi banche italiane, Edibank, Roma. 20 Cfr. Ong M. K. (1999), Internal Credit Risk Models: Capital Allocation and Performance Measurement, Risk Books, London. 21 Con il termine “massimo scoperto” si indica il livello più alto raggiunto dal debito del cliente nel rapporto tra la banca e il cliente stesso. Viene preso in considerazione per ogni periodo temporale di determinazione degli interessi addebitati al cliente. Sul massimo scoperto la banca applica, appunto, una commissione percentuale che viene addebitata al cliente. Il Decreto Legge n. 223 del 4 luglio 2006 convertito nella legge n. 248 del 4 agosto 2006 ha dichiarato nulla la commissione di massimo scoperto. 56 La stima della probabilità d’insolvenza. Il secondo fattore della perdita attesa consiste nella probabilità di default del soggetto, la quale rappresenta la probabilità che si verifichi l’evento “insolvenza”. La determinazione di tale probabilità presuppone la stima di un modello statistico di previsione delle insolvenze. Attraverso tecniche matematico-statistiche (Altman 1968, 1977, 2000; Alberici 1975; Luerti 1992), diffusamente affrontate nei paragrafi successivi, è possibile attribuire a ciascuna impresa affidata una stima ex-ante delle probabilità d’insolvenza. Preliminare al calcolo della PD è l’individuazione della fattispecie da considerare come proxy dell’insolvenza22. Dei vari concetti di default utilizzati nelle ricerche empiriche sul rischio d’insolvenza e nella prassi operativa delle banche tratteremo nei paragrafi successivi del presente capitolo. Un ulteriore aspetto preordinato alla creazione del modello statistico è quello della scelta dell’ampiezza dell’orizzonte temporale delle valutazioni, ossia della valenza nel tempo delle previsioni sull’insolvenza. Da essa dipenderà il lag temporale per la raccolta del campione d’apprendimento23 alla base della stima del modello di previsione. Secondo alcuni autori (Masera-Maino 2002; Zazzara 2001), la proiezione temporale di riferimento non deve essere di breve durata24 e comunque deve essere correlata alla durata della relazione di credito25. È ormai prassi consolidata, sia nei rating delle agenzie specializzate sia nella pratica bancaria e accademica, determinare le probabilità d’insolvenza a un anno. Tale scadenza è coerente con le procedure di affidamento bancario che, nella maggior parte dei casi, prevedono una revisione annuale degli affidamenti. Le probabilità possono essere aggregate per classi di rischio al fine di determinare un rating26. La banca dovrà innanzitutto definire le due classi 22 Si veda Aa. Vv. (2000a), “Modelli per la gestione del rischio di credito. I ratings interni”, Tematiche istituzionali, Banca d’Italia, Roma. 23 Il campione d’apprendimento è la base di dati sul quale si procede a stimare il modello di previsione dell’insolvenza. 24 Le valutazioni del rischio d’insolvenza delle controparti basate su brevi periodi possono comportare una non idonea valutazione d’importanti condizioni che stanno alla base della stima del puntuale adempimento delle obbligazioni finanziarie da parete della controparte affidata. 25 Secondo Banca d’Italia le banche stimeranno la PD su un orizzonte temporale di un anno, in proposito si veda Aa. Vv. (2000a), “Modelli per la gestione del rischio di credito. I ratings interni”, Tematiche istituzionali, Banca d’Italia, Roma. 26 Per la costruzione di un modello di rating si veda Banca D’Italia, Tematiche Istituzionali (2000); De Laurentis G. (1994), Il rischio di credito. I fidi bancari nel nuovo contesto teorico, normativo e di mercato, Egea, Milano; Id. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma. 57 che si collocano negli estremi della scala di valutazione: la classe di rating “migliore”, nella quale inserire le imprese con il più elevato standing creditizio, e per le quali si stima un rischio di default (PD) molto contenuto, e la classe di rating “peggiore”, nella quale inserire le imprese per le quali si verifica il default27. La banca dovrà quindi definire il numero delle classi da istituire nella scala di rating e l’ampiezza di ciascuna di esse28. Tali scelte non saranno oggetto di ampia trattazione in questo lavoro in quanto costituiscono problematiche di natura tipicamente bancaria, ma è comprensibile come tali decisioni possano avere un impatto sulla valutazione dell’impresa e in particolare sul suo costo del debito. La determinazione dei tassi di perdita attesa in caso di insolvenza. L’ultimo parametro da stimare per calcolare la perdita attesa è la loss given default, ossia la perdita attesa in caso d’insolvenza. Volendo esprimere tale parametro in termini di tasso percentuale, si può utilizzare la seguente formula: LGD = 1 − RR dove: • LGD = tasso di perdita attesa in caso d’insolvenza; • RR (Recovery Rate) = il tasso di recupero del credito. In sostanza, mentre la probabilità di default di un debitore dipende dallo specifico merito creditizio e, quindi, dalla situazione economicofinanziaria attuale e prospettica dell’impresa, la loss given default riflette le caratteristiche peculiari dell’operazione di finanziamento. La componente LGD è funzione dei seguenti fattori29: a. la tipologia di operazione di finanziamento utilizzata; b. la presenza di garanzie collaterali alla posizione di affidamento; c. il valore della base garante, rispetto all’esposizione debitoria del cliente; d. l’attitudine delle suddette garanzie a trasformarsi in moneta e il profilo temporale di monetizzazione della base garante; e. i tempi e i costi del recupero. Il tasso di recupero30 (recovery rate) dell’esposizione creditizia sarà 27 Qui l’insolvenza non è stimata ma anzi rilevata: si tratta di imprese per le quali in default si è verificato. 28 A ogni classe di rating corrisponderà un intervallo di probability of default; la “robustezza” di un modello di rating dovrà essere testata ex-post rilevando le frequenze di default riscontrate in ciascuna classe e verificando se esse sono coerenti con l’intervallo delle probabilità definito ex-ante. 29 Sul punto si veda De Laurentis G. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma. 58 determinato come il rapporto tra il valore netto recuperato e l’esposizione al momento del default; in modo analitico il tasso di recupero può essere espresso come: dove: • ValR = somme recuperate nei periodi da t = 1 a t = n; • ValS = spese sostenute per il recupero nei periodi da t = 1 a t = n; • EAD = esposizione al momento del default; • i = tasso di attualizzazione. Concretamente si tratterà di stimare il valore delle somme recuperate, il valore delle spese sostenute per il recupero e la loro distribuzione temporale: tali fattori dipendono dal valore della “base garante” e dall’attitudine di essa a trasformarsi in moneta. Essendo tali valori distribuiti nel tempo, questi dovranno essere “attualizzati” a un tasso i31 in quanto la banca sta stimando in data odierna la perdita attesa dall’esposizione. La LGD dipende dal tasso di recupero e quindi dalla tipologia e dal valore della “base garante”, dalla tipologia e dalla forma tecnica dell’operazione32. Alla luce di ciò, una riduzione della loss given default a livello generale sarebbe ottenibile attraverso la riduzione dei tempi di escussione per il recupero dei crediti in default33, ma questo è argomento a cui si dedicano con profitto gli studiosi di diritto fallimentare. A questo punto della trattazione è opportuno concentrare l’attenzione sulle modalità di stima dei tassi di recupero. 30 Si vedano De Laurentis G. (1994), Il rischio di credito. I fidi bancari nel nuovo contesto teorico, normativo e di mercato, Egea, Milano; Id. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma; Sironi A., Marsella M. (a cura di) (1998), La misurazione e la gestione del rischio di credito: modelli, strumenti e politiche, Bancaria, Roma; De Lisa R. (2002), I sistemi interni di credit rating, FrancoAngeli, Milano. 31 Il tasso d’attualizzazione dovrà essere espressivo del costo marginale del funding per la banca e viene di solito stimato tramite il ricorso a un tasso interbancario. 32 Si capisce che ci sono particolari contratti di finanziamento in cui la banca può facilmente escutere la garanzia e altri in cui il recupero richiede il sostenimento di notevoli spese e tempi prolungati. 33 In merito ai costi e ai tempi delle azioni di recupero si veda Generale A., Gobbi G. (1996), “Il recupero dei crediti: costi, tempi e comportamenti delle banche”, Temi di discussione della Banca d’Italia, marzo. 59 Una via praticabile è quella della stima interna da parte della banca. Essa viene realizzata sulla base dell’esperienza storica del proprio portafoglio impieghi. In questo caso si procede a segmentare il portafoglioimpieghi per categoria di affidati, per tipologia di esposizione e garanzie rilasciate, al fine di stimare i tassi medi storici di recupero. In questo processo di stima la banca deve intendere il tasso di recupero in senso finanziario e non puramente contabile, stimando, di fatto, il valore attuale dei flussi di risorse rinvenute dalle diverse fasi del processo di recupero fino al termine del contenzioso. Inoltre si dovrà tener conto di alcune variabili come: a. la percentuale di credito che si prevede possa essere recuperata, in funzione sia della forma del finanziamento sia della garanzia rilasciata (ER); b. i costi di natura amministrativa che la banca deve sostenere sia esterni, come quelli legali, sia interni, per il personale addetto al recupero e per le eventuali strutture dedicate al processo di recupero (AC); c. il tempo di recupero, che deriva dalla procedura di esecuzione intrapresa (t); d. il tasso a cui scontare i flussi di recupero attesi, generalmente assimilato al tasso interbancario (i). 9.3. La relazione tra perdita attesa e costo del debito: il pricing del prestito La classificazione delle imprese in classi di rating, cui siano associabili rispettivi valori circa la perdita attesa, permette di calcolare una prima specificazione del risk adjusted pricing34. Tale processo consente di impostare le politiche di differenziazione di tasso d’interesse dei prestiti in base al rischio di credito35 a essi correlato. Ponendo uguali il montante di due investimenti di valore unitario, il primo del tipo risk free, il secondo, con un tasso di interesse pari a ip sol34 In merito alle metodologie di fissazione del tasso d’interesse dei finanziamenti si veda De Laurentis G. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma; De Lisa R. (2002), I sistemi interni di credit rating, FrancoAngeli, Milano; e, in particolare, Corigliano R. (a cura di) (1998), Rischio di credito e pricing dei prestiti bancari: nuove metodologie di analisi e conseguenze organizzative per le banche italiane, Bancaria, Roma. 35 Si tratta d’indicatori che non richiedono le specificazioni di modelli value at risk o la quantificazione dell’effetto di portafoglio attraverso la stima delle correlazioni tra debitori: con tale impostazione si giunge a un pricing che è funzione soltanto della perdita attesa. 60 tanto sulla quota di capitale prestato che non genera perdite, si perviene alla seguente uguaglianza: (1 – ELR) × (1 + ip) = 1 + irf dove: • ELR = tasso di perdita attesa (expected loss rate); • irf = tasso d’interesse risk free. Questo semplice modello di pricing è costruito tenendo conto del fatto che la banca può ottenere il tasso richiesto esclusivamente sulla quota del prestito che non genera perdite. Esplicitando la precedente equazione per il tasso d’interesse da applicarsi al prestito avremo: irf + ELR ip = 1 − ELR ip = irf + PD ⋅ LGD 1 − PD ⋅ LGD Questa ultima formula stima il prezzo del prestito per livelli superiori alla somma del tasso risk free e della perdita attesa (il denominatore è minore di 1), in ragione del fatto che tale tasso può essere ottenuto solo sulla quota del prestito che non genera perdita36, vale a dire (1 – ELR). Dalla medesima equazione si ricava che il tasso d’interesse a cui le imprese saranno assoggettate per ottenere credito tende a crescere in funzione delle perdite attese, ossia in funzione della PD e della LGD. Questa relazione tra pricing e perdita attesa può essere evidenziata dall’analisi dello spread richiesto rispetto a un investimento risk free: i p − irf = PD ⋅ LGD ⋅ (1 + irf ) 1 − PD ⋅ LGD La formula sopra illustrata evidenzia come il primo per il rischio pagato dall’impresa dipenda dalla probabilità di default dell’impresa stessa. Quest’ultima, a sua volta, dipende dalla situazione economico-finanziaria attuale e prospettica e dalla loss given default. Quindi, tanto minore sarà la 36 Si veda De Laurentis G. (2001), Rating interni e credit risk management: l’evoluzione dei processi d’affidamento bancari, Bancaria, Roma; De Lisa R. (2002), I sistemi interni di credit rating, FrancoAngeli, Milano; Corigliano R. (a cura di) (1998), Rischio di credito e pricing dei prestiti bancari: nuove metodologie di analisi e conseguenze organizzative per le banche italiane, Bancaria, Roma; Sironi A., Marsella M. (a cura di) (1998), La misurazione e la gestione del rischio di credito: modelli, strumenti e politiche, Bancaria, Roma. 61 LGD, tanto più limitato sarà il premio per il rischio che l’impresa dovrà pagare alla banca. Volendo completare la relazione di pricing fin qui trattata, è necessario rimuovere l’ipotesi d’uguaglianza con il tasso risk free e considerare anche la componente di premio per il rischio atteso per l’operazione, ossia la remunerazione attesa dagli azionisti37. In questo caso la relazione: (1 – ELR) × (1 + ip) = 1 + irf assume la seguente configurazione38: 1 + irf + ik = (1 – PD) × (1 + ip) + PD × (1 – LGD) × (1 + ip). 37 È evidente che l’investitore azionista della banca si assume il rischio d’impresa e deve quindi essere remunerato con un adeguato premio per il rischio. Ciò impone quindi di considerare, nella procedura di pricing dei prestiti, anche la remunerazione attesa dagli azionisti. 38 Si veda Alberici A., Caselli S. (2003), La valutazione dell’impresa per i fidi bancari, FrancoAngeli, Milano, pp. 33 e ss. 62 2. IL CORPORATE RISK MANAGEMENT. ANALISI DEL RISCHIO, IL CAPITALE DI DOTAZIONE E I SOGGETTI PRENDITORI di Oliviero Roggi 1. Evoluzione degli studi sul risk management e il trattamento dei rischi puri Da alcuni decenni il risk management (RM) è al centro di un numero crescente di studi e analisi volte a comprendere e ridurre gli effetti del rischio sull’impresa. L’oggetto della disciplina, al pari degli strumenti, si è evoluto nel tempo e ha abbracciato sempre nuovi gruppi di rischi. Il risk management si è arricchito di una prospettiva interdisciplinare alla quale hanno contribuito esperti di banking, di corporate finance, statistici d’impresa e matematici attuariali. Nella sua accezione generale tuttavia, esso identifica quella branca delle scienze sociali che studia prevalentemente il manifestarsi dei rischi puri e/o speculativi che siano. Sebbene il RM li tratti entrambi, è possibile affermare che, nell’evolversi degli studi, i due tipi di rischio sopra definiti abbiano trovato diversa attenzione da parte degli studiosi. Inizialmente, gli studiosi hanno dedicato le proprie energie ad approfondire natura e manifestarsi dei rischi puri e, con l’ausilio degli strumenti delle scienze attuariali, hanno risposto alle esigenze di copertura degli stessi. Rientrano in questo filone di studi i lavori di Dennenberg e Ferrari (1966); Blinn e Brown (1982); Willet (1951); Williams ed Heins (1964). Essi sistematizzano le conoscenze relative alla natura e probabilità di accadimento di eventi negativi per l’impresa e si stabiliscono i processi per l’analisi e copertura dei rischi puri. Nei medesimi anni e con la specializzazione delle scienze economiche in quelle manageriali, il risk management ha trovato anche una propria collocazione nel filone di studi sulla finanza e in particolare in quello del financial management, prendendo il nome di corporate risk management (CRM) o enterprise risk management (ERM1). Le disci1 Nel proseguo della trattazione utilizzero le due definizioni come sinonimi. 63 pline aziendali e in particolare la teoria neoclassica della Finanza (Fisher 1930; Markowitz 1952; Modigliani e Miller 1958 e 1963; Fama 1970; Fama e French 1984; Jensen 1986; Miller 1977; Myers 1984), hanno sviluppato numerosi modelli teorici e strumenti operativi per comprendere, stimare e poi ridurre i rischi d’impresa (Floreani 2005; Dickinson 2001, p. 360). Dalla seconda metà degli anni Novanta, tali sforzi sistematizzatori hanno fatto nascere il filone di studi in oggetto dando rilevanza alla pianificazione dei rischi d’impresa, pratica fino a quel momento trascurata. In tale consesso le relazioni tra rischio e valore dell’impresa sono assunte come principali e i manager si sono organizzati per affiancare al classico obiettivo di massimizzazione del valore dell’impresa, quello peculiare, e oggi molto ricercato, di minimizzazione del rischio. Secondo Nocco e Shulz (2006) l’ERM, riconoscendo l’imperfezione dei mercati, la non perfetta diversificazione del portafoglio degli investimenti e altre imperfezioni che allontanano l’investimento in impresa dal mondo disegnato dalla finanza neoclassica, permette all’impresa di creare valore riducendo i rischi. Il benefico effetto, affermano gli autori, si manifesta sia a livello macro – il più discusso in letteratura – sia e soprattutto a livello micro. È infatti a livello micro che l’ERM deve divenire a tutti i livelli gerarchici un diverso modo di pensare i processi d’impresa. In sostanza un approccio proattivo al rischio da parte anche di middle manager e impiegati. Nell’ERM si analizzano i rischi connessi alla natura delle decisioni economico-finanziarie d’impresa. Tali decisioni infatti sono assunte in condizioni di incertezza. In particolare l’imprenditore è chiamato, nelle decisioni di investimento, a sostenere i rischi a causa dell’asincronia che esiste tra i flussi di cassa negativi generati dall’acquisizione dei fattori della produzione (Capex e working capital) e quelli positivi relativi alla cessione dei prodotti sul mercato a individui non organizzati. Per la natura stessa delle decisioni oggetto del ERM, quindi, è possibile affermare che le attività di gestione e riduzione del rischio d’impresa risultano essere compatibili con la teoria d’impresa che vede nella massimizzazione del valore dell’impresa la funzione obiettivo. Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, ragionando in termini di decisioni finanziarie rischiose, è possibile misurare l’impatto sul valore d’impresa generato dalla gestione attiva dei rischi aziendali e quindi l’incremento di valore susseguente all’applicazione dei processi di risk assessment. Tale maggior valore è stato definito, da chi scrive, “beneficio della copertura” e assume valore diverso da zero nel caso di specie nel quale il mercato è perfetto e il rischio transita dal’impresa verso i propri finanziatori senza modificarsi. 64 2. Il risk management e le aree tipiche di intervento Il Corporate Risk Management (CRM) può essere definito come un’“attività strategica di supporto al processo di direzione d’impresa volta a creare valore aziendale a favore dei portatori del capitale di rischio attraverso un processo integrato d’identificazione, stima, valutazione, trattamento e controllo dei tutti i rischi aziendali” (Floreani 2005:55). Dalla definizione di Floreani emerge come il CRM sia un processo a carattere normativo compatibile con il principio guida della finanza neoclassica e coerente con le recenti impostazioni di misurazione dei risultati d’impresa. In particolare, oggetto di tale processo, sono tutti i rischi d’impresa, rischi che abbiamo già visto nel par. 2 del Capitolo 1. e che si sono concretizzati in business e/o leverage risk. 2.1. Il risk management nell’accezione tradizionale (Traditional Risk Management) Il Traditional Risk Management (Forestieri 1996; Cacciamani 2004) è conosciuto in letteratura come il primo gruppo di tecniche utilizzate nel campo della previsione e trattamento dei rischi. Esso ha l’obiettivo generale di trattare i rischi puri che possono sorgere durante la vita di un’impresa. Viene naturale pensare al TRM come a un sottoinsieme del più vasto ERM in quanto, quest’ultimo, cerca di identificare, misurare e trattare anche rischi speculativi. Negli studi ricompresi in questo filone si è data enfasi soprattutto agli strumenti e tecniche di copertura dei rischi puri. Assumono, infatti, rilevanza le tematiche della prevenzione, protezione e copertura da rischi attraverso il trasferimento a soggetti terzi (polizze assicurative e altri strumenti di risk transferring). In questo approccio si vuole quindi contribuire alla creazione di valore, principio guida della finanza aziendale, attraverso la minimizzazione dei downside risk. In particolare sono rilevanti gli aspetti teorici e di processo conosciuti come crisis management (Coombs 1999; Seeger e Sellnow 2007) e il business continuity management. Rispetto al ERM l’approccio alle singole fonti di rischio è non organico e non sono accentuati gli elementi di programmazione integrata di rischi sostenibili. 2.2. Il Project Risk Management Le tecniche di valutazione del rischio sono utilizzate frequentemente nella valutazione di grandi progetti a prescindere dalla forma giuridica 65 con la quale questi sono realizzati. Il project risk management (PRM) è, dunque, il processo con il quale si identificano, analizzano e trattano i rischi legati a grandi opere pubbliche o private (Pennock e Haimes 2002; Williams 1995; Bing e Tiong 1999). Date le caratteristiche sopra esposte, tale filone di studi e applicazioni ha un raggio di azione più limitato rispetto all’ERM e viene utilmente impiegato nell’industria delle costruzioni, grandi opere pubbliche o nell’industria meccanica avanzata (Aeronautica, Spaziale, ma anche Navale). Poiché l’obiettivo del progetto è realizzare e gestire l’opera analizzata, il PRM ha come finalità quella di limitare i downside risk generati nell’esecuzione del progetto. Trattandosi di grandi opere, spesso molto complesse nella loro realizzazione, le fonti di rischio sono prevalentemente di business: il rischio di interruzione servizio per eventi atmosferici, il rischio geologico e in generale ogni rischio operativo nella realizzazione. Il manifestarsi dei rischi sopra ricordati e di quelli tipici di un progetto complesso hanno come effetto quello di rivedere al ribasso le stime sui flussi di cassa attesi positivi. Non è escluso poi che il progetto possa soffrire anche di rischi finanziari, dovuti anche all’effetto di alcuni rischi di mercato. In particolare ricordiamo il rischio di liquidità derivante, per esempio, da un ritardo nei pagamenti dello stato di avanzamento lavori; o quello di tasso di interesse o di cambio nel caso di flussi in valuta. 2.3. Il Financial Risk Management Il Financial Risk Management (FRM) (Floreani 2000; Lusignani 1996) è orientato ad analizzare in modo specifico i rischi finanziari a cui l’impresa è sottoposta. Tale approccio al RM ha riscosso sempre maggiori consensi anche tra le imprese industriali a seguito dell’introduzione in azienda dei prodotti derivati principalmente su tassi e cambi. A dimostrazione di ciò Conti (2006), nell’adattare il concetto alle imprese non finanziarie, tratta del Corporate Financial Risk Management intendendo: “la disciplina che per oggetto la gestione dei rischi finanziari di prezzo (tasso di interesse, cambio, prezzo delle commodities ecc.) nelle imprese non finanziarie” (Conti 2006, p. 1). Grazie alla grande varietà di nuovi strumenti introdotti proprio sul mercato dei derivati, il FRM si può avvalere di prodotti sempre più potenti per mitigare i rischi che dipendono da variabili di mercato legate alle scelte di investimento e di struttura finanziaria. Al pari del TRM è focalizzato solo su alcuni rischi d’impresa e quindi si presenta come un sottoinsieme delle tecniche previste nell’ERM. 66 3. Il processo di risk management Nella definizione dell’AIRMIC2 (2002, p. 2) il risk management è definito come “il processo attraverso il quale gli istituti si occupano dei rischi associati alle attività svolte con l’obiettivo di ottenere dei benefici riguardanti le singole attività e/o l’insieme delle stesse”. Le fasi di cui si compone non trovano la dottrina concorde. Il processo certificato da AIRMIC prevede che l’analisi sia svolta in quattro fasi sequenziali: • definizioni degli obiettivi di risk management e dell’impresa; • risk assessment; • risk treatment; • risk monitoring. Alcune delle precedenti fasi si articolano poi in sottofasi. Delle fasi principali, poi, alcune hanno prevalenza di contenuti normativi manageriali, mentre altre sono prevalentemente tecniche. In particolare sono manageriali, la scelta degli obiettivi di RM, di quelli strategici dell’impresa e la fase di risk treatment, che presuppone la definizione di criteri decisionali per il trattamento del rischio e quindi si configura come attività tipica del governo dell’impresa. Le altre fasi del processo sono invece prevalentemente tecniche e comprendono il risk assessment, il risk reporting e il monitoring. Figura 1 – Il processo di Risk Management Fonte: nostra elaborazione 2 Association of Insurance and Risk Managers. www.airmic.com. 67 In generale il processo di risk management (Shimpi 2001, p. 59) deve aiutare l’impresa a: 1. definire i rischi sostenibili dall’impresa nel suo complesso; 2. sviluppare un catalogo di rischi potenziali; 3. permettere all’impresa di includere in un modello finanziario dinamico gli effetti dei principali rischi identificati, trasferiti o ritenuti che essi siano. Veniamo adesso a descrivere le principali fasi del processo di risk management partendo dalla prima. 3.1. L’identificazione degli obiettivi di risk management e d’impresa Questa fase, che come abbiamo ricordato è prevalentemente di carattere manageriale, prende le mosse dalla scelta dell’atteggiamento che l’impresa deve tenere di fronte alle varie forme di rischio potenziali. Nella stessa, oltre a scegliere l’atteggiamento e quindi gli obiettivi da perseguire in materia di rischio, si pianificano le risorse disponibili per il risk management e i criteri generali per il trattamento dei rischi. Per questo motivo il management è chiamato a definire nell’ordine: gli obiettivi strategici, prima, quelli operativi, poi, e infine a organizzare la loro realizzazione in piani di azione coerenti con lo shareholder approach. In questa fase, che è svolta nel rispetto del principio guida di massimizzazione del valore per gli shareholder, l’impresa si scopre più o meno disponibile al risk taking e definisce la strategia d’impresa più compatibile con il grado di avversione al rischio che, come ricorda Keynes (Keynes, 1936), è una caratteristica intrinseca, quasi genetica, dei soggetti decisori e quindi anche dell’impresa nei quali i managers lavorano3. In questo contesto, quindi, ogni decisione di RM dovrà realizzarsi avendo prima risposto alla seguente domanda: “quale impatto ha l’azione di copertura o ritenzione sul valore dell’impresa per i suoi azionisti?”. Solo in questo modo il RM e in particolare il CRM si pone come leva strategica utilizzabile dal management nella creazione di valore d’impresa. 3 Afferma infatti Keynes, nel celeberrimo The General Theory of Employment, Interest and Money: “Even apart from the instability due to speculation, there is the instability due to the characteristic of human nature that a large proportion of our positive activities depend on spontaneous optimism rather than mathematical expectations, whether moral or hedonistic or economic. Most, probably, of our decisions to do something positive, the full consequences of which will be drawn out over many days to come, can only be taken as the result of animal spirits – a spontaneous urge to action rather than inaction, and not as the outcome of a weighted average of quantitative benefits multiplied by quantitative probabilities” (1930, pp. 161-162). 68 3.2. Il risk assessment La seconda fase di natura prevalentemente tecnica è a sua volta suddivisa in alcune sottofasi: a. identificazione/descrizione; b. stima; c. valutazione dei rischi. Nell’identificazione dei rischi l’impresa i soggetti delegati al processo di RM dovranno identificare le fonti dalle quali possono scaturire eventi negativi capaci di compromettere il raggiungimento degli obiettivi sopra prefissati. I sinistri possono impattare sull’impresa nel suo complesso, su alcuni suoi progetti o esclusivamente su alcune attività intraprese dalla medesima. Per questo motivo al fine di conoscere la variabilità sui risultati economico-finanziari e la varianza della solidità patrimoniale dell’impresa, è necessario scomporre l’attività dell’impresa o i suoi progetti in unità elementari all’interno delle quali andremo puoi a identificare le fonti di rischio. Per aiutarsi nell’identificazione, si può procedere classificando le fonti in esterne/interne e individuando dove rischi puri e speculativi si possono verificare. Chiaramente l’enfasi sarà principalmente riposta sull’identificazione del downside risk, ovvero del solo rischio di perdita; ciò perché, sebbene si tratti di un rischio come il precedente, l’upside risk ha effetti benefici sulla performance economico-finanziaria e/o sulla patrimonializzazione d’impresa. In ogni caso e per ogni fonte di rischio identificata sarebbe necessario tentare di stimare, quantitativamente o almeno con tecniche semi-quantitative, il rischio sostenuto. Nella prassi degli operatori non esiste un processo riconosciuto come il più adeguato nell’opera di mappatura dei rischi, ma piuttosto si posso brevemente riportare le caratteristiche delle tecniche più note4. Dalle più semplici a quelle sempre più complesse possiamo ricordare: a. la fault tree analysis (FTA); b. la failure mode and effect analysis (FMEA) e la sua evoluzione; c. la failure mode, effect and critical analysis (FMECA). La prima tecnica prevede di identificare un evento indesiderato detto “top-event” al quale collegare un albero logico. Questo albero è costruito andando a collegare al top-event altri eventi detti lower-events servendosi della logica boeleana. Generalmente il metodo è utilizzato nell’industria aerospaziale o aeronautica per prevedere la probabilità di un hazard, ma può essere impiegato all’interno dell’impresa per analizzare il venire meno di 4 Per una analisi approfondita dei principali metodi di previsione cfr. Langford J. W. (1995), Logistics: Principles and Applications, McGraw Hill, New York. 69 una fattore critico della produzione. Dettagliando l’albero e procedendo all’inverso dall’evento più basso al più alto è possibile stimare la probabilità con la quale si verificherà ogni catena di eventi e ciò preclude alla stima dell’effetto negativo sull’impresa. La failure mode and effect analysis, introdotta negli anni Quaranta come tecnica per l’analisi del rischio di produzione dei razzi militari, è una procedura per l’analisi del manifestarsi di un evento negativo (failure) caratterizzato dalla classificazione in termini di magnitudo (severity) dell’effetto del sinistro. Figura 2 – Esempio di albero logico Fonte: nostra elaborazione Questo metodo è largamente utilizzato nel’impresa manifatturiera all’interno di varie fasi del ciclo di vita del prodotto. In questo caso i sinistri sono in prevalenza gli errori, i difetti di processo, di progettazione e gli altri sinistri che possono compromettere la funzionalità del prodotto per il consumatore o metterne addirittura a rischio l’incolumità. L’analisi si concentra proprio sugli effetti di tali eventi. L’FMEA è stato introdotto per evitare sinistri quali il ritiro di un’autoveicolo per un evidente difetto di progettazione o per ridurre i rischi di produzione. Una evoluzione del precedente metodo detta: failure mode, effect and critical analysis (FMECA) è stata sviluppata al fine di integrare nel metodo precedente anche una analisi di criticità (Critical Analysis) ed è utilizzata per ottenere risultati paragonabili con il metodo precedente anche su campioni molti piccoli di manufatti. 70 Figura 3 – La descrizione del metodo FMEA Fonte: Quality Associates International (2007) Per completare il mapping dei rischi, una volta identificati gli eventi sinistri, è necessario descrivere i rischi a cui l’impresa è sottoposta. In questa secondo task della fase di identificazione saranno redatte le schede di rischio nelle quali i singoli eventi verranno qualificati secondo le seguenti caratteristiche: nome, descrizione qualitativa del rischio, principali scenari up/downside legati al rischio corredati della probabilità di verificarsi, una sommaria valutazione degli effetti economici legati a ciascuno scenario; in aggiunta, nella scheda, saranno citati i soggetti responsabili della gestione di quel particolare rischio e l’indicazione delle misure per il suo monitoraggio. L’analista di RM giunge all’identificazione dei rischi attraverso numerose tecniche di raccolta. Principalmente farà affidamento sulla storia passata dei sinistri e quindi assumerà tutte le informazioni su eventi negativi occorsi all’interno dell’impresa come conseguenza delle operazioni di gestione. Come ogni analisi storica essa non permette di identificare i nuovi rischi e neppure quelli che, sebbene presenti anche in passato, non hanno avuto una manifestazione. L’operatore può anche servirsi di interviste e brainstorming con soggetti chiave del processo di produzione e contabilizzazione delle attività per ottenere, attraverso un questionario strutturato, una mappa concreta dei possibili eventi negativi. Normalmente gli operatori si servono di vere e proprie prompt lists nelle quali i rischi sono classificati secondo categorie omogenee. I contenuti di tali liste sono generalmente sviluppati nel corso dell’analisi di imprese simili precedentemente oggetto di indagine da parte dell’operatore. 71 3.3. La stima dei rischi (Risk estimation) Una volta conosciuta la mappa, l’impresa deve dotarsi di un insieme di misure capaci di quantificare la probabilità dell’evento e quindi anche il suo impatto sui flussi di cassa, stimando le perdite inattese e/o gli excess of returns. I metodi di stima sono divisi in tre principali gruppo in ragione del della natura della stima: a. stime qualitative; b. stime semi-quantitative; c. stime puramente quantitative. Le prime, quelle qualitative, si differenziano dalle altre in quanto il risultato, in termini di probabilità di un evento, è espresso da una scala qualitativa capace di illustrare l’intensità della relazione. Le seconde, quelle semi-quantitative, sono preferite alle prime e soprattutto alle stime quantitative quando vi è necessità di giungere a un indicatore sintetico di tipo numerico (scoring), ma non è necessario quantificare distribuzione di probabilità di un sinistro. Le stime quantitative, quali la simulazione Monte Carlo, pervengono alla stima della distribuzione di probabilità dei risultati di una variabile aleatoria generatrice di rischio. Vediamo le differenze nel dettaglio. La stima qualitativa dei rischi (puri). Come ricordato in precedenza, le tecniche qualitative si servono di parole o scale descrittive per illustrare gli effetti economici e le probabilità di realizzazione di un evento aleatorio. Anche se esistono vari metodi da impiegare nella stima qualitativa dei rischi puri, la tecnica più diffusa è rappresentata dalla matrice ProbabilitàImpatto, nota anche sotto il nome di “matrice P-I”. Essa richiede per la sua costruzione, la definizione di: • una scala qualitativa che indichi la probabilità relativa al verificarsi di un determinato evento. Generalmente si hanno cinque classi di impatto (insignificante-basso-moderato-elevato-catastrofico); • una scala qualitativa rappresentativa degli impatti, ovvero delle possibili conseguenze economiche derivanti dalla realizzazione dell’evento. Anche in questo caso generalmente si hanno cinque classi di probabilità (quasi certo-probabile-moderata-improbabile-rara); • una scala qualitativa che assegna a ogni combinazione di elementi (probabilità-impatto) un giudizio di valutazione detto risk rating. Questa può assumere quattro diversi valori (estremo-alto-modesto-basso); • opportuni criteri di valutazione di risk rating. Graficamente la matrice può essere rappresentata come nella fig. 4. 72 Figura 4 – La struttura della matrice Probabilità-Impatto Probabilità Impatto Insignificante Basso Moderato Elevato Catastrofico Quasi certo (>50%) Alto Alto Estremo Estremo Estremo Probabile (20%-50%) Moderato Alto Alto Estremo Estremo Moderata (5%-20%) Basso Moderato Alto Estremo Estremo Improbabile (1%-5%) Basso Basso Moderato Alto Estremo Rara (<1%) Basso Basso Moderato Alto Alto Legenda. Basso: gestione dell’evento rischioso mediante procedure di routine. Moderato: richiede di individuare un soggetto responsabile della sua gestione e del suo monitoraggio. Alto: attenta valutazione del rischio da parte del responsabile posto al livello gerarchico più elevato. Estremo: richiede un livello di attenzione massimo, nonché un intervento immediato per il trattamento del rischio. Vale la pena sottolineare come le scale e i criteri di risk rating dipendano da scelte soggettive, e quindi le scelte siano riconducibili al buon senso del corporate risk officer. Per realizzare una stima qualitativa, il risk manager può utilizzare sessioni di brainstorming, effettuare interviste, oppure può decidere di far redigere la matrice P-I direttamente al responsabile che si occupa della gestione di quel particolare rischio. Una volta definito lo schema generale, si può procedere all’effettivo collocamento dei rischi nella matrice P-I. Tale operazione risulta essere particolarmente delicata, in quanto dalla collocazione del rischio all’interno della matrice dipende la sua valutazione, e quindi il suo trattamento. Conseguentemente, si dovrà usare particolare cautela nel classificare un rischio, evitando di definirlo rilevante quando invece non lo è, o non rilevante quando invece risulta tale. Per quanto riguarda i principali pro e contro della matrice P-I, è possibile affermare che, se da un lato essa è molto semplice da redigere e da utilizzare, dall’altro essa costituisce solo un primo screening dei rischi puri, e non può essere impiegata nel caso di rischi speculativi. Inoltre, un ulteriore limite all’utilizzo delle stime qualitative è quello per il quale accade di attribuire una stessa valutazione a variabili aleatorie che hanno lo stesso valore atteso, ma rischi differenziati. Ciò dipende dal fatto che la tecnica Probabilità-Impatto tende a sintetizzare una variabile causale attraverso un unico parametro, peraltro neanche oggettivo, quale è appunto il risk rating. 73 La stima semi-quantitativa dei rischi (puri). La stima semi-quantitativa5 si configura come quella tecnica nella quale una serie di giudizi qualitativi vengono trasformati in variabili quantitative attraverso l’utilizzo di sistemi di punteggio o funzioni e tecniche matematiche di scalatura al fine di giungere a un giudizio sintetico di rischio. In questo metodo l’operatore si limita a ordinare i rischi attraverso l’attribuzione di punteggi (Scores) che misurano l’intensità del rischio. Ciò è possibile applicando alla scala qualitativa un punteggio o una funzione matematica. Tale tecnica è nota sotto il nome di risk score, e viene applicata alla “matrice P-I” dando luogo a uno schema logico come quello sottostante. Si tratta in sostanza di costruire un indice di severità di un rischio e poi applicarlo alla rilevazione esterna al campione che ha contribuito alla determinazione della scala. Figura 5 – Esemplificazione della tecnica del Risk Score Probabilità Score Quasi certo 100 Probabile 50 Moderata 25 Improbabile 5 Rara 1 × Impatto Score Catastrofico 1.000 Elevato Alto Moderato Basso > 5.000 5.000____ 500 500_____ 50 < 50 200 Moderato 50 Basso 10 Insignificante Risk Score Estremo 1 Fonte: nostra elaborazione Tutte le tecniche di risk scoring, tra le quali il celeberrimo modello di Altman (1968), sono basate su questo metodo e possono essere utili 5 Per una analisi approfondita delle tecniche di stima semi-quantitative cfr.: Misani N. (1999), Il risk management fra assicurazione e finanza. Nuove tecniche di gestione dei rischi puri: catastrophe bonds, derivati assicurativi, capitale contingente, risk fusion, Egea, Milano; Floreani A. (2004), La valutazione dei rischi e le decisioni di risk management, ISU Università Cattolica, Milano; Vose D. (2000), Risk Analysis. A Quantitative Guide, Wiley, Chichester; Corvino G. (1996), “Il processo di identificazione del rischio: descrizione del profilo di rischio e metodologie di ricerca delle informazioni”, in Forestieri G. (a cura di), Risk management. Strumenti e politiche per la gestione dei rischi puri dell’impresa, Egea, Milano. 74 nel caso in cui la valutazione dei rischi debba essere realizzata tenendo conto di più variabili obiettivo e nel caso di valutazioni comparative di fonti multiple di aleatorietà (Floreani 2005). Le tecniche semiquantitative tentano di mitigare uno dei principali limiti della tecnica qualitativa, vale a dire, l’impossibilità di effettuare un’analisi di convenienza economica. Tra i limiti attribuiti da Floreani (2005, pp. 90 e ss.) a questa famiglia di metodi, il principale è quello di non permettere la scelta tra investimenti relativi sulla base dello scoring ottenuto e anche l’ulteriore limite di non essere adeguate alla valutazione degli upside risks, essendo invece capaci di stimare appieno i rischi puri. Ulteriore fattore negativo è rappresentato dal limitare l’analisi del rischio a un unico indice di severità. Ciò comporta una notevole perdita di informazione in quanto tutte le informazioni disponibili debbo essere sintetizzate in un solo numero. La tecnica del Risk Score, applicata alla matrice Probabilità-Impatto, rappresenta soltanto una delle tecniche, peraltro tra le più elementari, applicabili. Una possibile variante, infatti, potrebbe essere quella di applicare alla scala qualitativa, che se vogliamo rappresenta il nostro ideale punto di partenza, una funzione matematica, avente come dominio le categorie della scala (Carroll 1984). Questo significa che l’esperto dovrà definire innanzitutto la scala su cui sarà effettuata la valutazione, e, successivamente, dovrà, per ciascuna di esse, valutare la frequenza. Ciò può avvenire mediante la costruzione esemplificata in tab. 1. Tabella 1 – La scala di giudizio Giudizio Punteggio Inverosimile 1,0-1,5 Improbabile 1,5-2,5 Possibile 2,5-3,5 Probabile 3,5-4,5 Certo 4,5-5 Fonte: Carrol (1984) Il valore di punteggio viene poi trasformato in valore di probabilità mediante la seguente funzione. 75 Esistono anche altri approcci semiquantitativi che tendono a comprimere, se non a eliminare del tutto, la fase relativa all’espressione del giudizio qualitativo, a favore di una formulazione diretta del punteggio. Una valida e puntuale dimostrazione di quanto appena affermato giunge dalla Metodologia Fink (Fink 1984). Tale tecnica ha come principale obiettivo quello di stimare le circostanze in cui eventi gravi mettono alla prova i comportamenti consolidati dell’azienda e i suoi rapporti esterni con i vari stakeholder. L’approccio teorizzato da Fink si basa su alcune domande chiave che si identificano in: • Qual è la massima intensità che la crisi può raggiungere? • Qual è il grado di attenzione medio rivolto alla crisi? • In che misura la crisi può interferire con le normali operazioni? • In che misura la crisi può danneggiare l’immagine aziendale? • Fino a che punto può essere messa alla prova la resistenza finanziaria dell’azienda? A ogni quesito sarà necessario rispondere con un punteggio compreso tra 0 e 10. Effettuando poi la somma di tali valori ottenuti in ciascuna riga, si ottiene come risultato un numero compreso tra 0 e 50, che esprime in maniera sintetica, il livello di gravità delle possibili conseguenze della crisi. Comunque sia, a prescindere da quale sia la tecnica impiegata, si deve sottolineare come l’approccio semi-quantitativo rappresenti un miglioramento rispetto alla semplice stima qualitativa. Naturalmente, la valutazione semi-quantitativa si caratterizza per una serie di limiti piuttosto rilevanti tra cui vale la pena di ricordare: • che si tratta di un approccio utile a valutare i rischi puri, ma non lo è altrettanto nel caso dei rischi speculativi; • che esso effettua una semplificazione eccessiva per mezzo di un unico indicatore di gravità dell’evento; • che il risultato è frutto di una analisi approssimativa, in cui si registra una notevole perdita di informazioni. Concludendo, è utile ricordare come negli ultimi anni sia stata identificata una modalità di utilizzazione alternativa/supplementare per le tecniche qualitative e semiquantitative. Infatti queste possono essere impiegate come strumento divulgativo, soprattutto quando ci si rivolge a soggetti che non possiedono competenze adeguate nell’area di risk management tali da comprendere appieno i risultati di una analisi quantitativa. Inoltre, tale schematizzazione, consente di non diffondere all’esterno informazioni che potrebbero rivelarsi utili per la concorrenza. 76 La stima quantitativa dei rischi (puri). Le metodologie quantitative6 si pongono come principale obiettivo quello di stimare la distribuzione delle variabili casuali aleatorie rappresentative dei rischi aziendali. Esistono due rappresentazioni simili dell’effetto del rischio sull’impresa: • la distribuzione dei risultati possibili, che indica l’impatto di un singolo rischio sul risultato economico aziendale, assumendo come assioma la neutralità degli altri rischi aziendali; • la distribuzione delle perdite possibili, che indica la variazione negativa che il rischio può determinare sulla variabile obiettivo aziendale, vale a dire sulla massimizzazione del profitto. In questa seconda distribuzione in particolare si prende in esame il downside risk. Come già abbiamo avuto modo di accennare precedentemente, il processo di stima quantitativa consiste nella determinazione dei possibili risultati di un evento. Ciò avviene attraverso l’esecuzione di una serie di fasi nelle quali vengono: dapprima fissati gli obiettivi dell’indagine, poi, scelte le variabili aleatorie da misurare e infine selezionata la metodologia statistica con la quale realizzare la stima quantitativa del rischio sostenuto dall’impresa. In tab. 2 riportiamo una sintesi degli aspetti salienti di ciascuna fase. Quanto descritto in tab. 2 rappresenta un iter dei passaggi logici da seguire, dal momento che le metodologie quantitative che possono essere impiegate sono numerose e assai eterogenee. Tabella 2 – Le fasi del processo di stima quantitativa Formulazione del modello Rappresenta un primo di step di fondamentale importanza. In questa prima fase è necessario riuscire a conciliare esigenze di semplicità e focalizzazione dell’analisi, e quelle di realisticità e completezza. Per fare ciò lo specialista può attingere a una serie di modelli esistenti e collaudati. Inoltre l’analisi risulta essere semplificata dalla natura monetaria delle variabili coinvolte. 6 Per una analisi approfondita sul tema della stima quantitativa cfr. Misani N. (1995), Introduzione al risk management, Egea, Milano; Floreani A. (2005), Introduzione al risk management: un approccio integrato alla gestione dei rischi aziendali, Etas, Milano; Vose D. (2000), Risk Analysis. A Quantitative Guide, Wiley, Chichester; Corvino G. (1996), “Il processo di identificazione del rischio: descrizione del profilo di rischio e metodologie di ricerca delle informazioni”, in Forestieri G. (a cura di), Risk management. Strumenti e politiche per la gestione dei rischi puri dell’impresa, Egea, Milano; Klugman S., Panjer H., Willmot G. (1998), Loss Models: From data to Decisions, Wiley, Hoboken; Allen S. (2003), Financial Risk Management: A Practitioner’s Guide to Managing Market and Credit Risk, Wiley, Hoboken; Green M. R., Serbein O. N (1983), Risk Management: Text and Cases, Reston Publishing, Reston. 77 Determinazione delle caratteristiche delle variabili aleatorie e dei principali parametri del modello La determinazione delle caratteristiche delle variabili aleatorie avviene mediante l’individuazione di: • ipotesi o assiomi su cui si fonda il modello. Al fine di ottenere un’analisi più rigorosa, è necessario basarsi su indicazioni teoriche che forniscano un’approssimazione della realtà; • serie storiche e altre informazioni. Attraverso un’accurata analisi delle informazioni si può arrivare ad avere una migliore conoscenza, e una migliore stima, di quelli che sono i parametri rilevanti del modello; • valutazioni soggettive effettuate a opera di soggetti esperti. Si tratta di una valutazione che può essere impiegata con successo nelle stime qualitative e semiquantitative durante la fase di identificazione dei principali fattori di rischio; mentre risulta quasi inutilizzabile nel caso di stime quantitative. Ciò perché vi sono difficoltà nella trasformazione di una valutazione qualitativa in una quantitativa. Determinazione della distribuzione dei possibili risultati e degli indicatori di sintesi La determinazione del modello può avvenire tramite: • risoluzione analitica – essa rappresenta la migliore soluzione quando la distribuzione della variabile aleatoria presa in esame viene individuata direttamente dal modello, in virtù delle proprietà che contraddistinguono la v.c. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la soluzione analitica rappresenta una strada praticabile solo quando si hanno modelli semplificati, il che si verifica quando ci si trova in presenza di v.c. che hanno una distribuzione normale. Infatti, in tutti gli altri casi, si preferisce utilizzare altri strumenti; • simulazione Monte Carlo – è una delle più diffuse modalità di risoluzione dei problemi che hanno per oggetto la stima di variabili aleatorie. Il metodo Monte Carlo consiste nel cercare la soluzione di un problema, rappresentandolo quale parametro di una ipotetica popolazione, e, nello stimare tale parametro tramite l’esame di un campione estratto dalla popolazione mediante una sequenza di numeri casuali. In altra parole, è possibile stimare la variabile aleatoria obiettivo generando un numero sufficientemente elevato di scenari (o interazioni) casuali con i quali costruire la distribuzione di frequenza. La simulazione Monte Carlo prevede la realizzazione dei seguenti passi: • simulazione di una realizzazione casuale della variabile aleatoria obiettivo; • ripetizione per N volte dell’operazione precedente, in maniera tale da arrivare a ottenere N realizzazioni casuali della variabile aleatoria obiettivo; • stima della distribuzione della variabile aleatoria obiettivo tramite le N realizzazioni casuali; • stima degli indicatori sintetici della v.c. Validazione e verifica del modello Si tratta di una fase volta a verificare la bontà dei risultati derivanti dall’analisi condotta. 78 In alternativa è possibile avvalersi di una tecnica molto nota anche nell’analisi degli investimenti e conosciuta con il nome di albero delle probabilità. Tale tecnica si fonda sul presupposto per cui l’evento del quale si sta studiando la frequenza potenziale venga suddiviso in una serie di eventi sub-sequenziali necessari al suo verificarsi, ognuno dei quali caratterizzato da una autonoma probabilità di accadimento. Perché l’evento si verifichi, infatti, è necessario che si realizzino un serie di sub-eventi. Schematizzando quanto detto avremo un relazione del seguente tipo: P(Ev M) = P(M / L) × P(M) + P(L / I) × P(I) + P(I / A) × P(I) + P(A) o alternativamente: P(M) = P(M) ∩ P(L) ∩ P(I) ∩ P(A) Il metodo dell’albero delle probabilità permette di scomporre un problema naturalmente complesso in una serie di problemi elementari. Ciò consente un maggior grado di approfondimento, una migliore conoscenza delle dinamiche che possono determinare un evento caratterizzato da impatti fortemente negativi, e, conseguentemente, permette di identificare agevolmente quei provvedimenti utili a scongiurare il verificarsi del danno. Un esempio è fornito dai modelli denominati FMECA, descritti precedentemente. Un’altra tecnica assai nota è la PERT7 (Program Evalutation and Review Tecnique). La principale caratteristica di tale tecnica è quella di fornire un unico indicatore determinato dall’equazione che segue: Q= V optimum+4V probabile + V pessimistico 5 dove: • Q = quantità da stimare; • VOptimum = valore che secondo la previsione più ottimistica si ritiene che la quantità possa assumere; • VProbabile = valore che dovrebbe assumere la v.c. con maggiore probabilità; • VPessimistico = valore che si ritiene possa assumere la quantità secondo una stima pessimistica. Questa tecnica è basata essenzialmente su una media ponderata con 7 Vedi: Misani N. (1995), Introduzione al risk management, Egea, Milano; Minty G. (1998), Production Planning and Controlling, Goodheart-Willcox, Tinley Park; Stevenson W. J. (1996), Production-Operations Management, V ed., McGraw-Hill, New York. 79 {k = 1} per il complesso dei casi estremi e {k = 4} per il caso più probabile, che generalmente coincide con il valore intermedio. Ovviamente è possibile utilizzare coefficienti diversi, utilizzando una serie di stime basate, per esempio, su di un’analisi storica. 4. Il valore d’impresa e la valutazione dei rischi. Il modello economico valutativo L’individuazione di un modello economico-valutativo del rischio permette di realizzare concretamente il collegamento tra valore generato nella gestione del rischio e quello d’impresa. Si tratta, al pari di altre fasi sopra indicate, di una fase manageriale nella quale il decisore è chiamato a identificare il modello con il quale si intende misurare l’effetto delle politiche di trattamento del rischio. Nel Capitolo 1 avevamo illustrato come il legame tra rischio e valore fosse fortemente dibattuto in letteratura. Qui, partendo dal modello della finanza neoclassica per il quale le operazioni di copertura non generano valore in quanto un investitore razionale e ben diversificato è sottoposto ai soli rischi sistematici, concordiamo con quelli autori (Adam e Chitru 2005; Stulz 1996, Brown, Crabb e Haushalters 2002; Henteschel e Kothari, Adam 2005), che vedono nelle imperfezioni di mercato e di comportamento degli operatori, gli elementi generatrici del valore della copertura. In sostanza, l’ERM principalmente opera nella convinzione che trattare i rischi è, come avevamo affermato, un’attività di governo coerente con la funzione obiettivo di massimizzazione del valore dell’impresa e permette di generare ricchezza addizionale per gli shareholders. Venendo all’illustrazione delle modalità con cui si giunge all’incremento di valore attraverso la copertura, osserviamo come il risk manager per giungere a valutazione complessiva debba utilizzare con discrezionalità i risultati della stima dei singoli rischi identificati in precedenza e inserirli in un modello decisionale. In particolare in questa fase l’operatore decide se e su quali tipi di rischio intervenire e soprattutto, nel caso di presenza di alternative di trattamento del rischio, stabilire e poi seguire un criterio di ordinabilità degli interventi. Prima però di trattare i rischi dovrà riuscire a misurarne l’impatto in termini di valore creato. 4.1. Il modello economico valutativo Le decisioni inerenti le modalità di trattamento dei rischi possono essere intraprese solo attraverso la preliminare costruzione di un modello eco- 80 nomico-valutativo, nel quale si legano le distribuzioni di probabilità delle variabili fonte di rischio alle grandezze che invece contribuiscono a determinare il valore dell’impresa. La scelta del modello economico-valutativo deve essere realizzata tenendo conto di un insieme di dimensioni che trascendono le sole manifestazioni di variabilità delle variabili aleatorie alla base del rischio. Il modello deve essere coerente con gli obiettivi strategici e gestionali dell’impresa, debbono essere tenute in adeguata considerazione l’ambiente e i mercati nei quali l’impresa o istituzione opera. Infine è necessario capire la struttura delle preferenze dei mercati ai quali l’impresa si rivolge. Altro sistema di vincoli è il tipo di stime alle quali si può accedere. Se, infatti, esse sono qualitative o semi-quantitative non sarà possibile ricondurre le decisioni di ritenzione/alienazione/trattamento alle loro conseguenze in termini di flussi di cassa incrementali senza servirci delle capacità di quantificazione del valutatore. Se invece saranno utilizzate le stime di natura quantitativa allora il modello economico-valutativo costituirà la “catena di trasmissione” attraverso la quale la decisione riguardo a un determinato rischio genererà o meno flussi di cassa incrementali. In letteratura sono previsti molti modelli capaci di realizzare questa quantificazione di flussi incrementali. Qualora si assuma la rilevanza del modello neoclassico della financial economics e da esso si parta per valutarne le imperfezioni, l’impatto può essere valutato seguendo il seguente processo. 1. Si stima la distribuzione dei flussi aleatori incrementali8 (FAIt) legati al rischio che stiamo valutando (per esempio nella copertura assicurativa l’entità del premio pagato a t0) alla quale si aggiungono i flussi di cassa derivanti dal risarcimento in caso di sinistro. A ognuna delle possibili manifestazioni del sinistro verrà applicata la probabilità di verificarsi. Sarà così possibile giungere agli E(FAIt). 2. Tali flussi incrementali aleatori verranno attualizzati al tasso risk free divenendo ognuno VA(FAIt). 3. Sarà tenuto conto del rischio sistematico dell’investimento aggiustando tali flussi alla variabilità da esso introdotta. 8 I flussi di cassa aleatori incrementali si caratterizzano per essere di natura esclusivamente operativa e non debbono tenere conto delle implicazioni sulla struttura finanziaria ovvero oneri e proventi finanziari dipendenti in qualche modo dalla decisione di copertura del rischio. Non fanno parte dei FAI nemmeno i costi indiretti legati al manifestarsi di un evento sfavorevole quale il maggior costo della provvista di liquidità necessaria fronteggiare l’evento negativo che peraltro è già stimato nei flussi incrementali negativi. Per approfondimenti sul calcolo cfr. CoSo (2004), Enterprise Risk Management. Integrated Framework, www.coso.org; anche in Floreani A. (2005), Introduzione al risk management: un approccio integrato alla gestione dei rischi aziendali, Etas, Milano, pp. 104 e ss. 81 La somma algebrica dei due addendi sopra determinati, VA(FAI) + ∆ rischio sistematico darà il Fair Value9. Se il mercato nel quale il rischio si manifesta fosse completo e perfetto e i comportamenti degli investitori razionali, il Fair Value misurerebbe il contributo della decisione di copertura al valore d’impresa. Nel caso in cui invece ci siano delle imperfezioni sarà necessario sommare algebricamente al fair value i flussi di cassa incrementali generati come effetto delle imperfezioni e del rischio non sistematico ovvero della non perfetta diversificazione del portafoglio di investimenti in mano allo shareholder. In questo caso il processo dovrà proseguire con un quarto punto: 4. Aggiustamento per i rischi incrementali negativi (downside risk) e per effetto delle imperfezioni (IEt). Proprio per considerare gli aggiustamenti qui sopra descritti, il valore finale della decisione relativa al rischio sarà quindi la somma algebrica del fair value con i flussi derivanti dagli aggiustamenti e dagli effetti dell’inclusione del premio per il rischio nel tasso di attualizzazione dei flussi di cassa. Questi aggiustamenti sono conseguenza dei rischi incrementali ne9 Il fair value è definibile, limitatamente a questo contesto valutativo, come il valore attuale dei flussi incrementali aleatori determinato con il valore di mercato (prezzo) assunto dagli stessi se negoziati in un mercato finanziario perfetto. Si tratta del concetto di valore utilizzato dai teorici della finanza neoclassica. In letteratura sono conosciuti almeno due diversi metodi per la determinazione del fair value. Il primo è conosciuto come metodo del portafoglio replicante utilizzato diffusamente nella valutazione dei prodotti derivati. Si cfr. i principali lavori sulla valutazione delle opzioni e loro più recente applicazioni. Merton R. (1973), “The Rational Theory of Options Pricing”, Bell Journal of Economics and Management Science, n. 4, pp. 141-183; Black F. (1975), “Fact and Fantasy in the Use of Options”, Financial Analysts Journal, July-August, pp. 36-72; Black F., Sholes M. (1973), “The Pricing of Options and Corporate Liabilities”, Journal of Political Economy, vol. 81, pp. 637-654, pp. 637-659; Hull J. C. (2006), Opzioni, futures e altri derivati, VI ed., Pearson Prentice Hall, Milano; Roll R. (1977), “An Analytical Formula for Unprotected American Call Options on Stocks with Known Dividends”, Journal of Financial Economics, n. 5, pp. 251-258. Il secondo è invece determinato sulla base dei flussi di cassa incrementali aleatori, flussi ai quali vengono apportate le correzioni necessarie per tenere conto del rischio sistematico sostenuto da un investiture ben diversificato. Per questa tecnica si veda Floreani A. (2005), Introduzione al risk management: un approccio integrato alla gestione dei rischi aziendali, Etas, Milano. Altre accezioni di fair value sono quelle introdotte dall’art. 2426 c.c., numeri 1 e 9 nel quale si prevede il costo quale criterio base per le valutazioni delle poste in bilancio. Tale criterio di valutazione riguarda le valutazioni di bilancio dell’impresa in funzionamento. La prassi contabile internazionale e, in particolare, i principi contabili internazionali (Ias), sono infatti orientati all’abbandono del “criterio del costo” in favore del fair value. Lo Ias 32 e lo Ias 39 definiscono infatti come già detto, “il corrispettivo al quale un’attività può essere scambiata, o una passività estinta, tra parti consapevoli e disponibili, in un’operazione fra terzi”. In sostanza, si tratta della valutazione al valore che si può definire “di mercato”, tradotto dalle direttive comunitarie in “valore equo”. 82 gativi e delle caratteristiche d’impresa che possono allontanare l’impresa dalla condizione prevista nella finanza neoclassica. Le principali imperfezioni dei mercati, capaci di modificare il valore della decisione di copertura, sono: i costi di transazione relativi alle operazioni di copertura, il risk shifting effect, ovvero il manifestarsi di comportamenti opportunistici che il management può porre in essere a svantaggio dei propri finanziatori a favore degli shareholders. Tra le imperfezioni capaci di generare valore positivo per la copertura ricordiamo i costi diretti e indiretti del fallimento. In particolare si tratta dei costi della crisi preordinati alle procedure concorsuali e, infine, di quelli sostenuti per il fallimento e le asimmetrie fiscali (Miller 1977; Miles ed Ezzel 1980). 4.2. Gli effetti delle imperfezioni e l’allontanamento dalla finanza neoclassica Gli effetti delle imperfezioni possono essere misurati attraverso un concetto già introdotto nel Capitolo 1, ovvero la perdita massima potenziale. In particolare, tale effetto può essere calcolato come prodotto del rischio incrementale di downside (IR) con il premio per le imperfezioni (IP). Addivenendo alla seguente equazione: EI j = IR × IP dove EIj, il valore delle imperfezioni, sarà poi trattato anche con il simbolo ∆VI. Dal lungo processo fin qui illustrato, scaturisce il valore della decisione di copertura come la somma algebrica delle componenti sopra descritte sinteticamente. dove E(FAIt) sono i flussi aleatori incrementali attesi, rf è il tasso privo di rischio rj è dato dalla somma del risk free con il premio per il rischio di mercato quindi con Beta = 1; FRS sono i flussi incrementali negativi o flussi corretti per il rischio sistematico e ∆VI è la somma algebrica degli effetti delle imperfezioni che favoriscono/sfavoriscono la decisione di copertura e sono tipiche dell’impresa che l’assume e del periodo nel quale si verifica. I primi due addendi formano quello che abbiamo detto essere il fair value. La fase si conclude con la decisione di coprire o meno il rischio. 83 5. Le principali strategie e tecniche di gestione dell’incertezza (risk treatment) Ogni rischio che viene identificato e presentato all’attenzione del management è oggetto di una decisione al riguardo. In particolare saranno disponibili, ex ante, tre esiti della decisione di trattamento: 1. il progetto analizzato genera rischi non adeguati rispetto al rendimento che potrebbe garantire, cosa che rende non conveniente la realizzazione del progetto e come conseguenza il rischio non viene assunto (risk avoided); 2. il progetto in oggetto essendo economicamente valido genera dei rischi che possono essere gestiti e minimizzati. il rischio sarà trattato (risk treated); 3. il progetto in studio genera rischi adeguati e non trasferibili o eliminabili attraverso la gestione del rischio e il rischio sarà in questo caso ritenuto (risk retained). Shimpi (2001) asserisce che i comportamenti di soggetto decisore in relazione a un rischio, sono classificabili secondo una scala di intensità che varia dalla non assunzione del rischio (0) fino alla ritenzione del rischio senza copertura (1). Figura 6 – Il processo per la valutazione di una decisione rischiosa Modello economico valutativo Risk retained Risk Assessment Valutazione dei rischi Risk avoided Risk treated Trattamento del rischio Ex ante Risk treatment decision Fonte: Nostro Adattamento da Shimpi (2001) Rielaborando e modificando in parte quanto detto da Shimpi (2001, pp. 16 e ss.), possiamo ampliare il range delle decisioni alle quattro opzioni sotto descritte, introducendo l’azione di risk reduction. 1. risk avoidance; 2. risk reduction; 3. risk transfer; 4. risk retention. 84 Pertanto è preferibile riorganizzare il processo secondo il diagramma di fig. 7. Figura 7 – Decisioni di copertura del rischio Modello economico valutativo Risk avoided Risk Assessment Risk retained Valutazione dei rischi Risk accepted Risk treated Risk reduction (Diversification) Risk transfer Legenda: in corsivo le decisioni relative al rischio, in normale gli stati relativi a ciascun rischio d’impresa analizzato. Fonte: nostra rielaborazione da Shimpi (2001, pp. 16) La novità è costituita dalla fase di risk reduction, non prevista dal modello precedente. Ciò ci spinge ad ampliare il processo di copertura come segue: una volta identificati e valutati con un modello economico-finanziario, i rischi sono alternativamente evitati (avoided) o accettati. Nel caso in cui vengano accettati essi possono essere: • oggetto di ritenzione. Così facendo essi entrano a far parte del portafoglio rischi sostenuti dall’impresa; • trattati (risk treated) attraverso le tecniche di diversificazione del rischio o attraverso la cessione a terzi del rischio (risk transfer) Vediamo nel dettaglio alcune di queste fasi di processo. 5.1. Risk Avoidance Quando i rischi generati da un progetto sono superiori a quelli sopportabili ed essi non sono coerenti con gli obiettivi guida e le raccomandazioni in materia di assunzione dei rischi, il decisore sceglierà di non dare seguito al progetto evitando l’incertezza che ne consegue (Risk Avoidance). In sostanza si tratta di progetti per i quali il costo della copertura sarebbe superiore al valore generato con il progetto, il che implicherebbe una distruzione di valore. La soglia di accettabilità, però, dipende anche dalla propensione al rischio 85 del soggetto decisore. Infatti, se essa fosse particolarmente bassa, porterebbe al rifiuto di molti progetti presentati. L’abilità del management è, in questa fase, quella di stabilire alcuni criteri per la determinazione del rischio sostenibile e poi, attenendosi a questi, cercare di massimizzare il valore dell’impresa. In sostanza il decisore sceglierà di escludere quei rischi che sono difficilmente valutabili o quelli che compromettono i risultati del core business. Ricordando la relazione rischio-rendimento sviluppata dai teorici della teoria di portafoglio, possiamo concludere che un’impresa che è fortemente avversa al rischio si attende dei rendimenti molto inferiori a quella che accetta progetti rischiosi. La risk avoidance non è particolarmente adatta ad ambienti dinamici nei quali si devono continuamente ridefinire mercati, prodotti, tecnologia, ciò in quanto porterebbe a rifiutare tutti i progetti. 5.2. Risk Transfer Continuando nella direzione della ritenzione del rischio, un possibile comportamento è quello tenuto dal management nel caso in cui il progetto sia in grado di creare valore e quindi il rischio valga la pena di essere sostenuto. Comunque sia, il management vuole limitare parte del rischio trasferendolo ad altri soggetti attraverso l’acquisto di polizze o prodotti finanziari e altri contratti atipici che possano ridurre la variabilità dei flussi e quindi il rischio sostenuto. Si tratta del comportamento di risk transfer con il quale il management “ritiene”, solo temporaneamente, il rischio per poi trovare utile copertura fuori dall’impresa stessa. Esempio tipico di questo comportamento è quello adottato nei confronti dei rischi puri come quello di incendio, di insolvenza dei crediti e di ogni altro evento che sia caratterizzato dalla presenza di solo downside risk. Nel caso di rischi speculativi, sarà necessario costruire apposite posizioni di copertura che possano stabilizzare i flussi di cassa futuri. Si pensi alla copertura sull’oscillazione del prezzo di alcune materie prime come il petrolio. Ultimamente, come afferma Shimpi (2001, p. 19), la copertura si è estesa ai rischi finanziari di mercato quali quello di cambio e di tasso di interesse. 5.3. Risk Retention L’ultimo grado della scala indicata da Shimpi è quello della risk retention, ovvero della decisione di assumersi il rischio e mantenerlo all’interno dell’impresa. Alla categoria dei rischi ritenuti partecipano, in verità, due distinti tipi di rischio: i primi, quelli che sono volontariamente assunti dal manage- 86 ment e che debbono trovare una loro copertura nella dotazione del capitale proprio posto a garanzia dei terzi; i secondi, ovvero tutti quei rischi che non è stato possibile identificare, formalizzare, valutare e sui quali non è stato quindi possibile assumere alcuna decisione. Shimpi ci ricorda infatti che “A risk neglected is a risk retained” (Shimpi 2001, p. 19). Proprio questi rischi non conosciuti, o non conoscibili, fanno sì che sia necessario dotare l’impresa di capitale sufficiente a fronteggiare i possibili effetti negativi da essi generati. 5.4. Risk Reduction, la diversificazione e le altre policies La classificazione sopra riportata, sebbene illustri i principali comportamenti nei confronti del rischio, non è capace di descrivere compiutamente l’operato del risk manager di fronte al rischio. Per dare esaurire la trattazione, illustrando tutte le alternative, dobbiamo citare anche il comportamento di riduzione del rischio attraverso un’adeguata politica di diversificazione del portafoglio degli investimenti. L’obiettivo normativo di questa azione è quello ridurre il più possibile il rischio ritenuto utilizzando l’effetto di abbattimento del rischio specifico sostenuto da soggetti che investono in attività non correlate tra loro. Questa tecnica, conosciuta come risk reduction, può essere attuata sia in una logica, ex ante (di prevenzione), che in quella ex post, di minimizzazione delle perdite subite in occasione dell’evento. Lo strumento principale per la riduzione del rischio è fornito dalle politiche di diversificazione introdotte da Markowitz (1952) e sviluppate successivamente dai teorici della relazione rischio-rendimento. La diversificazione del rischio è quel fenomeno che interviene quando un soggetto possiede più attività tra loro non correlate o correlate negativamente. Ciò determina un riduzione del rischio del portafoglio. Infatti se il rendimento atteso di un portafoglio continua a essere la media ponderata dei rendimenti dei singoli titoli in portafoglio, ciò non avviene per quanto riguarda la varianza del rendimento che può essere scelto come indicatore del rischio del portafoglio. A titolo esemplificativo la varianza di un portafoglio di titoli, σ p2 , è infatti determinata come segue: ~ σ p2 = ERp − ( R p ) dove, trattandosi di due soli titoli, gli scostamenti dal valore medio sono i seguenti: ~ ~ ~ ER p − ( R p ) 2 = E [W1 R1 − ( R1 ) + W 2 R 2 − ( R 2 )] 2 87 Seguendo il ragionamento di Fanni (2000, p. 679) è necessario svolgere il quadrato della somma nella forma: ( a + b) 2 = a 2 + b 2 + 2ab Applicando alla precedente otteniamo: Da quest’ultima deriva come: ~ ~ ~ ~ 2 E [W1 R1 − ( R1 ) 2 + W 22 R 2 − ( R 2 ) 2 + 2W1W 2 R1 − ( R 1 ) R 2 − ( R 2 )] = ~ ~ ~ ~ = W12 E [ R1 − ( R1 ) 2 ] + W 22 E [ R 2 − ( R 2 ) 2 ] + 2W1W 2 E [ R1 − ( R1 ) R 2 − ( R 2 )] Ovvero: σ p2 = W1σ 12 + W2σ 22 + 2W1W2σ 1σ 2 Dove i primi due addendi stimano la varianza dei titoli 1 e 2, ognuna ponderate con pesi W1 e W2 al quadrato; il terzo è costituito da due volte il prodotto dei pesi per la covarianza del titolo 1 con il titolo 2. In conclusione la varianza del portafoglio composto da due titoli è determinato sulla base delle varianza dei titoli singolarmente presi al quale si somma algebricamente il doppio della covarianza. Come osserva Fanni (2000, pp. 680 e ss.), la covarianza assume valori positivi molto elevati ogni volta che i titoli sono fortemente correlati, mentre assume valore zero se i titoli si muovono indipendentemente gli uni dagli altri. Si osservano invece valori molto alti negativi nel caso di movimenti di segno opposto. Proprio il contributo dato dalle covarianze al rischio del portafoglio, giustifica l’affermazione secondo la quale, inserendo in un portafoglio delle attività indipendenti o inversamente correlate le une alle altre, si ottiene una varianza del portafoglio uguale o inferiore alle somma delle varianze. Ciò determina, di fatto, l’effetto di diversificazione. Nel caso poi di una indipendenza tra tutti i titoli presenti nel portafoglio, la varianza di quest’ultimo sarà determinata come somma delle varianze dei singoli contenuti ponderate con i loro pesi, costituendo questo un caso particolare della stima. È da notare che la diversificazione esaurisce il proprio effetto di ridu- 88 zione del rischio dopo che sono state inserite all’interno del portafoglio anche solo 15-20 attività non correlate o inversamente correlate. Ciò in quanto i rendimenti dei titoli azionari quotati su un medesimo mercato sono soggetti a fonti di rischio e quindi di variabilità dei rendimenti comuni, quali: il costo delle materie prime, del denaro, l’inflazione e la crescita del PIL. Questo permette di richiamare la distinzione nota in letteratura, e già accennata nel Capitolo 1, tra rischi diversificabili o specifici dell’investimento e, invece, i rischi non diversificabili o sistematici. In presenza di un soggetto investitore razionale e ben diversificato, esso sarà disposto a sostenere i soli rischi sistematici in quanto quelli specifici potranno essere abbattuti ricorrendo a un portafoglio di attività non correlate. Chiudendo questa parentesi sulla diversificazione, cerchiamo di ricondurre il fenomeno all’interno dei comportamenti razionali del soggetto assuntore del rischio. La diversificazione costituisce uno strumento utile alla risk reduction almeno laddove il decisore abbia la possibilità di frazionare il proprio capitale destinandolo ad attività diversificate. In questo senso quanto sopra detto è utile al percorso conoscitivo che stiamo illustrando. 6. Il monitoraggio dei rischi sostenuti L’ultima fase del processo integrato di risk management è quello del monitoraggio. Si tratta di una fase in parte tecnica in parte manageriale vista la diversa natura dei controlli eseguiti. I principali autori e le agenzie nazionale e internazionali che sin sono occupate delle progettazione del processo in oggetto, concordano infatti sul fatto che il monitoraggio sia indispensabile e che l’oggetto sia: • monitoraggio dei rischi “ritenuti”. Si tratta del controllo concomitante eseguito su quelle variabili aziendali individuate come potenziali fonti di rischio, rischio che volontariamente il management ha deciso si assumersi. Ogni scostamento dalle stima di rischio atteso deve infatti prevedere una sollecitazione degli organi decisionali e il monitoraggio è proprio l’attività con la quale si esegue la diagnosi di tali eventi; • monitoraggio sull’obsolescenza dei risultati di un’analisi eseguita rispetto alla situazione ambientale nel quale il rischio si manifesta; • monitoraggio della qualità del processo e della sua efficacia. In questo caso gli addetti al monitoring seguono un test sul funzionamento del processo di risk management segnalando e provvedendo a fornire una soluzione al top management. 89 7. Il retained risk e la necessità di un fondo di garanzia: cenni I rischi non evitati (retained) e nemmeno trasferiti (transferred) nell’ambito delle precedenti decisioni di trattamento, vengono ritenuti dall’impresa e vanno a formare quello che comunemente viene definito rischio d’impresa. La presenza di tali rischi è inevitabile e costituisce proprio elemento fondante dell’attività dell’imprenditore, il quale si espone all’alea di organizzare processi di produzione di beni e servizi, anticipando i bisogni di individui non organizzati. In questo senso è comprensibile come il concetto di rischio è connaturato nell’impresa. Per fare fronte al rischio e condurre con continuità le proprie attività, l’imprenditore dovrà svolgere come abbiamo ricordato nel Capitolo 1, la funzione produttrice di finanziamenti, ovvero, reperire le fonti di finanziamento per gli investimenti. Tali finanziamenti dovranno essere capaci di preservare l’equilibrio finanziario in ogni istante e quello economico almeno nel lungo termine. Per fare questo, a tutela dei terzi, gli ordinamenti civilistici nazionali hanno previsto, ognuno con forme e istituti giuridici diversi, che l’impresa si doti di un capitale sociale posto a garanzia delle obbligazioni nei confronti di terzi e impongono che questo capitale sia mantenuto a livelli di sicurezza. Si tratta del capitale legale dell’impresa, quello cioè versato ai soli fini di rispetto della normativa civilistica (capitale sociale). In verità l’impresa non può svolgere la propria attività esclusivamente con il capitale sociale minimo di legge, ma spesso, a causa della struttura dei propri investimenti, è caratterizzata da una intensità di capitale molto maggiore. Per questo motivo accanto al capitale sociale è necessario associare delle riserve o del nuovo capitale fino a raggiungere un livello adeguato di patrimonializzazione. Il capitale proprio così raccolto va considerato fondo per lo svolgimento delle attività e, nella quota eccedente tale fondo, la garanzia per assorbire l’effetto di rischi generati. In questo modo il capitale proprio è composto da due addendi: il capitale sociale legale e quello volontario. Quest’ultimo differisce in dimensione al variare dell’attività svolta dall’impresa. Prima di comprendere quali strategie di finanziamento il management deve porre in essere al fine di massimizzare il valore dell’impresa attraverso l’ottimizzazione della struttura finanziaria che tenga conto delle opportunità di copertura, è necessario fare un breve excursus sul ruolo del capitale proprio e di quello di dotazione all’interno della totalità delle fonti raccolte. 90 8. Il capitale di dotazione, il rischio e la garanzia patrimoniale Fin dall’età pre-capitalistica medievale, il capitale si identificava con un fondo di anticipazioni necessarie per una attività di circolazione o produzione delle merci. Per David Ricardo (1817, Capitoli 1 e 5), “il capitale è elemento attivatore della capacità lavorativa”; per Keynes (1936, pp. 135 e ss.), esso è il presupposto all’atto di rinuncia al consumo e al sostenimento del rischio, eventi per i quali il capitalista è giustificato a chiedere una remunerazione o rendimento del capitale. Anche la Scuola fiorentina di Ceccherelli (1931) e Riparbelli (1950) da una parte e Corsani (1937) e Fazzi (1940 e 1942) dall’altra, trattano il tema della struttura delle fonti e dell’importanza del capitale proprio nella gestione dell’impresa. Riparbelli (1950, p. 73 e ss.), trattando del dissesto aziendale, sottolinea, ai fini della sopravvivenza d’impresa, l’importanza della struttura finanziaria accanto alla capacità reddituale. L’emergere delle “disfunzioni finanziarie”, complemento e conseguenza di quelle economiche, genera, a dire dello stesso Riparbelli e di Fazzi (1942, p. 51), le condizioni per il manifestarsi dell’insolvenza e induce l’impresa a dotarsi di un capitale proprio sufficiente a garantirne la sopravvivenza. Nella visione più specifica che utilizzeremo nella presente monografia il capitale di dotazione è definito come l’insieme di fonti finanziarie apportate dall’azionista e nella disponibilità giuridica10 del management, capaci di garantire il funzionamento dell’impresa in condizioni di equilibrio finanziario. La prospettiva scelta è più ampia di quella giuridicamente conosciuta come capitale sociale in quanto va a ricomprendere accanto alle 10 Nel diritto commerciale italiano (A norma del Titolo V del Libro V c.c. – 1942), la forma giuridica dell’impresa si definisce sulla base dell’autonomia patrimoniale perfetta, imperfetta o assente. Nel primo caso siamo in presenza di società di capitali nella forma di Società per Azioni, e Società a Responsabilità limitata, alle quali si affianca la SAPA società in accomandita per azioni. Tale società unisce la responsabilità limitata dei portatori del capitale alla differenziazione nei compiti riservati ai soci (accomandanti o accomandatari). L’imprenditore può anche optare per forme giuridiche più semplici e decidere di non separare il proprio patrimonio personale da quello della società che viene costituita. È questo il caso della più comune della Società in Nome Collettivo, nella quale i soci rimangono illimitatamente responsabili delle obbligazioni societarie. Una forma di autonomia patrimoniale imperfetta è quella prevista per la Società in Accomandita Semplice, nella quale i soci accomandanti rispondono limitatamente alle risorse conferite, mentre quelli accomandatari rispondono al pari di quelli della SNC illimitatamente. Esistono anche altre forme più semplici di organizzazione sociale come la società semplice, ma in questo caso il patrimonio della società non è individuabile e distinguibile da quello dei soci. In questo contesto si fa riferimento alle società di capitali ovvero a quelle imprese nelle quali i soci rispondono delle obbligazioni assunte dall’impresa, limitatamente alle risorse conferite a titolo di capitale proprio. Per un approfondimento di natura giuridica cfr. Ferrara F., Corsi F. (2006), L’imprenditore e le società, Giuffré, Milano. 91 tradizionali poste che costituiscono il patrimonio netto, ovvero il capitale sociale versato e le riserve di capitale accumulate nel tempo, anche altre fonti che possono anche essere fuori-bilancio. In generale, il capitale, inteso come capitale apportato, è elemento comune a quasi tutte le forme giuridiche che si possono dare a un’impresa. Esiste una differenza sostanziale nell’identificazione e nel ruolo del capitale nel caso in cui l’imprenditore scelga di operare con la forma della società di persone, piuttosto che con quella di capitali. Nelle prime, infatti, i soggetti imprenditori, laddove amministratori, sono illimitatamente responsabili delle obbligazioni contratte nell’esercizio dell’attività, configurandosi l’impresa come un soggetto dotato di autonomia patrimoniale imperfetta. Nelle società di capitali, quest’ultimo è conferito all’impresa nella forma di capitale sociale e non si confonde con il patrimonio dei soggetti che costituiscono la società. Questo fa sì che l’azionista o il titolare di quote sociali, sia responsabile nei confronti di terzi per il solo ammontare conferito nell’impresa, realizzandosi così l’autonomia patrimoniale perfetta delle società di capitale. Questa premessa di tipo giuridico, che per la sua brevità non ha pretesa di essere esaustiva, ci permette però di comprendere il ruolo assunto dal capitale o fondo di dotazione proprio all’interno di un’impresa. Sia essa di persone o di capitale, il capitale costituisce una garanzia che l’impresa è obbligata a fornire all’atto della sua costituzione ed è valida per garantire i terzi che nei confronti dell’impresa possono vantare obbligazioni contrattuali o interessi legittimi. In particolare il capitale sociale deve o dovrebbe garantire i terzi nel caso di insolvenza dell’impresa e rendere possibile la restituzione delle altre fonti di finanziamento contrattate sui mercati finanziari, dette: capitale di terzi. In questo ruolo di garanzia il capitale d’impresa deve quindi essere adeguato a sopportare gli effetti negativi del manifestarsi dei rischi che l’impresa genera nello svolgimento della propria attività e anche capace di garantire l’equilibrio finanziario. Prima di illustrare il concetto esteso di capitale d’impresa richiamiamo i concetti noti come modello classico alla determinazione del capitale sociale. 9. Il capitale investito, di dotazione e quello sociale nella prospettiva classica della finanza aziendale Tra i principi normativi della finanza aziendale ricordiamo quello di finanziamento. “Scegliere una struttura finanziaria tale che massimizzi il valore d’impresa e che sia in linea con gli investimenti da finanziare” (Damodaran, 92 2006, p. 12). In questo principio normativo il rapporto tra capitale proprio e di terzi è solo accennato nella seconda parte e limitato al problema dell’adeguatezza delle fonti rispetto agli investimenti che l’impresa ha intenzione di realizzare. In questo contesto, in particolare, il rischio è relegato alla determinazione del tasso di attualizzazione dei flussi di cassa che vanno a determinare il valore dell’impresa. La determinazione del mix di fonti di finanziamento ottimale, capace di minimizzare il tasso di attualizzazione, è dunque un obiettivo utile al raggiungimento del fine ultimo dell’impresa, che rimane quello di massimizzazione del valore per i propri azionisti. Una visione così limitata non mette, a nostro avviso, in adeguata luce l’importanza della sopravvivenza dell’impresa attraverso la verifica degli equilibri economici e finanziari che fanno da presupposto al funzionamento di lungo termine dell’impresa. L’adeguata composizione delle fonti rispetto agli impieghi è, difatti, attività fondamentale per la sopravvivenza dell’impresa. È chiaro quindi che il dimensionamento del capitale di dotazione e di funzionamento come il rapporto tra capitale sociale e di terzi siano decisioni strategiche per coloro che vogliono svolgere una gestione integrata e razionale del rischio d’impresa. In letteratura sono state individuate almeno tre esigenze per le quali l’impresa deve raccogliere del capitale di dotazione: 1. copertura degli investimenti operativi operational capital; 2. copertura dei rischi attesi e inattesi risk capital; 3. segnale ai mercati signalling capital. Per ognuno di tali fini è necessario che l’impresa si doti di capitale. Il primo, e più ovvio motivo, è quello di raccogliere le fonti finanziarie necessarie a sostenere le uscite di cassa per gli investimenti operativi, siano essi durevoli o meno. La seconda motivazione è riconducibile al rischio di progetto generato dagli investimenti. A fronte di attività rischiose, infatti, l’impresa dovrà accumulare un’ulteriore quota di capitale volto alla copertura dei rischi di perdita attesa e inattesa. Questa seconda componente è, come abbiamo già affermato sopra, detta risk capital. Inoltre i managers, nella determinazione della quota di equity ottimale, debbono tenere presente anche le esigenze di “marketing del capitale”; ovvero debbono, soprattutto se quotate su di un mercato regolamentato, raccogliere ulteriori fondi che hanno il solo scopo di costituire una riserva liquida e disponibile capace di convincere anche il più scettico degli analisti equity, sulla convenienza di investire nell’impresa. Nella prassi tuttavia queste esigenze sono percepite da un numero limitato di imprese. Non così invece, la necessità di accumulare equity per scopi assicurativi, interni o esterni. 93 Se l’accumulazione avviene all’interno del capitale dell’impresa, di fatto si parla di riserve di capitale alle quali debbono corrispondere nell’attivo poste prontamente liquidabili. Se l’accumulazione resterà eventuale ed esterna, gli imprenditori si prodigheranno per sottoscrivere contratti di copertura delle perdite in caso si verifichino gli eventi di downside risk. Tale forma di raccolta “on demand” è detta contingent capital ed è prevalentemente utilizzata dalle imprese evolute per ridurre l’entità dell’equity iscritto in bilancio. Ritorneremo sul concetto di contingent capital allorché tratteremo del modello assicurativo di dimensionamento del capitale e non prima di aver illustrato il modello classico. 9.1. Il modello classico Per molti anni gli studiosi hanno discusso sulla dimensione ottimale da dare al capitale di dotazione e a quello sociale. Il dibattito verteva, principalmente, sulle fonti finanziarie capaci di garantire in ogni istante l’equilibrio finanziario. I teorici dell’analisi per indici e margini (Cattaneo 1976), hanno identificato, e poi calcolato, alcune misure di solidità, stabilità e liquidità capaci di mantenere l’impresa in equilibrio. Altri (Colombi, 1995), hanno sviluppato modelli complessi quali il baricentro finanziario, proprio per indagare il rapporto dinamico che esiste tra fonti e impieghi. In tutti questi approcci, tuttavia, si parte da una considerazione iniziale comune: quella che tutti i rischi generati dalle attività d’impresa vengano trasferiti ai soggetti finanziatori e che quindi esista una sostanziale equivalenza tra rischio generato delle attività e quello assunto dai sottoscrittori delle fonti che le finanziano. Infatti, se il rischio d’impresa non è trattato attivamente dal management attraverso le tecniche di risk management dell’impresa o con quelle di diversificazione, si può affermare l’equivalenza tra Risk generated = Risk retained Il rischio dovrà ricadere su quello che viene definito capitale totale investiti o paid-up capital: la somma delle fonti finanziarie effettivamente versate all’interno dell’impresa. Paid-up capital = F (Risk retained) = F (Risk generated) Nella prospettica classica le fonti finanziarie sono reperibili in molti modi. Qui di seguito citiamo le tre forme più comuni ovvero: il capitale 94 proprio, il debito garantito o senior debt e il credito subordinato. Accanto a tali forme si trovano sempre più frequentemente forme miste di semi-equity che presentano caratteristiche proprie del debito e in parte dell’equity. Il capitale proprio (equity), poi, si scompone in capitale sociale propriamente detto e riserve legali e volontarie. Questi due aggregati formano quello che è conosciuto come patrimonio netto dell’impresa. Investimenti = Paid-up capital = Senior debt + Junior debt + Equity Le fonti sopra esposte sono selezionate in funzione della loro onerosità, dell’adeguatezza rispetto agli investimenti ai quali offrono copertura e, soprattutto, secondo l’intensità di esposizione al rischio. Ordinando le fonti sulla base del criterio della rischiosità crescente per il prenditore (seniority), incontriamo: il prestito senior, che normalmente è provvisto di garanzie collaterali reali o personali; successivamente vi è il prestito junior, che invece si dice subordinato al precedente, in quanto i diritti di rimborsi sono subordinati a quelli dei sottoscrittori del prestito senior; infine citiamo il capitale proprio, per il quale gli azionisti si aspettano un rimborso solo nel caso in cui si sia provveduto a rimborsare capitale e interessi ai prestatori a titolo di debito. Gli azionisti sono infatti residual claimers e su di essi insiste, in condizioni di funzionamento ordinario ed equilibrato della gestione aziendale, l’intero rischio di business e di leverage. Figura 8 – Il modello standard per la determinazione della struttura finanziaria e il rapporto tra rischio generato e ritenuto Bassa Investimenti Junior Debt Esposizione al rischio Prelazione di liquidazione Senior Debt Equity Alta Risk generated = Fonte: nostra rielaborazione su Shimpi (2001, p. 32) 95 Risk retained Questo metodo prevede che i portatori di fonti finanziarie si accollino in modo integrale il rischio generato dalle attività d’impresa. In questo senso proprio l’equity risulta essere l’unica grandezza sulla quale normalmente dovrebbero andarsi a scaricare le perdite attese e in attese. Pertanto il dimensionamento dell’equity è funzione della perdita massima ottenibile in presenza di un determinato livello di confidenza e ciò dovrebbe mettere al riparo l’impresa dagli eventi che è verosimile possono accadere nell’esercizio della stessa. Sulla base delle considerazioni sopra svolte, quindi, il rischio d’impresa ricade contemporaneamente su tutti i finanziatori (capitale totale investito o capitale d’impresa), mentre gli effetti di una perdita sono sopportati dai soli azionisti: capitale di dotazione. 9.2. Il modello assicurativo Secondo quanto detto nella prima parte di questo capitolo, un approccio attivo alla gestione del rischio fa si che non tutti i rischi debbono essere sostenuti e sopportati dal paid up capital. Quest’ultimo deve, infatti, essere capace di fare fronte alla variabilità dei flussi di cassa derivante da rischi che non possono essere evitati, ridotti e/o trasferiti a terzi. Figura 9 – Il modello assicurativo. Rischio totale = Rischio ritenuto + Rischio trasferito Bassa Derivatives and insurance Junior Debt Investimenti Esposizione al rischio Prelazione di liquidazione Senior Debt Equity Alta Risk generated = Risk retained Fonte: nostra rielaborazione su Shimpi (2001, p. 34) 96 + R. transferred Shimpi (2001) propone a questo proposito un modello capace di associare ai comportamenti ottimizzanti della finanza tradizionale, azioni più consone a gestioni assicurative. Ne emerge quello che è conosciuto come l’insurance model. In esso il rischio generato dall’impresa (business e leverage risk) è in parte ritenuto e in parte trasferito a terzi attraverso la stipula di contratti di copertura. In questo caso, quindi, al rischio generato dagli investimenti (Risk generated) si contrappongo i rischi ritenuti e quelli trasferiti a terzi. Risk generated = Risk retained + Risk Transferred Il rischio che ricadrà sul paid-up capital è in questo caso solo una parte del rischio generato e ciò porta all’esigenza di raccogliere una quota minore di capitale come conseguenza della riduzione della perdita massima potenziale a seguito della copertura. A fronte del rischio trasferito a terzi, si può identificare una seconda forma di capitale, l’off balance-sheet capital, conseguenza dell’attività di trasferimento. Quest’ultimo, insieme al paid-up capital, andrà a costituire il fondo di garanzia per il rischio totale generato dall’impresa. Paid-up Capital = F (Risk retained) Off Balance-sheet capital = F (Risk transferred) Paid-up capital + Off Balance-sheet capital = = F (Risk Retained; Risk Transferred) È da notare che in ipotesi di impresa solvibile la riduzione del paid-up capital riguarderà il solo equity in quanto è a tale grandezza che è affidato il compito di coprire i rischi d’impresa non trasferibili. Senior Debt e Mezzanine rimarranno invece costanti in importo e per rischi da essi assunti. Questa affermazione segue quanto indicato nella proposta di capitale di dotazione necessario all’impresa nel lavoro di Shimpi (2001). Tale impostazione, tuttavia, non è condivisa da alcuni autori e tra tutti da Doherty (1995) il quale contesta a Shimpi la natura di impiego e non di fonte della quota abbattuta tramite trasferimento a terzi. Finora ci siamo limitati all’utilizzo di strumenti che hanno una rappresentazione in bilancio limitata agli effetti economici della copertura e che hanno permesso la riduzione del rischio ritenuto. Se, invece volessimo ridurre ulteriormente il rischio, inducendo una riduzione del capitale di dotazione, po- 97 tremmo fare ricorso a quello che viene definito come contingent capital. Tale fonte finanziaria non si trova nel bilancio d’impresa in quanto viene attivata dal manifestarsi di un sinistro ed è costituita da linee di credito o di capitale erogabili on demand, capaci di ridurre la quantità di capitale proprio da raccogliere in assenza di sinistri. Tecnicamente, si tratta di forme di opzioni put di tipo “knock-in”, ovvero titoli emessi dall’impresa e sottoscritti da assicurazioni e banche che si attivano a prima richiesta nel caso in cui l’impresa riporti un sinistro oggetto del contratto di opzione. Attenzione, non si tratta di un trasferimento di rischio a titolo definitivo, ma solo temporaneo, infatti, se al manifestarsi del sinistro l’impresa sarà comunque solvibile, le nuove linee di credito attivate dovranno essere rimborsate al pari delle altre. Il contingent capital, i contratti assicurativi e i derivati per la copertura partecipano a quello che in letteratura (Cult 2002; Conti 2005, Doherty 1995, 2005), è conosciuto come risk capital, ovvero quella parte di fonti dedite alla copertura di rischi inattesi. Figura 10 – Il modello assicurativo con strumenti off balance-sheet e contingent capital Paid-up capital Off balance-sheet Bassa Insurance and derivatives Contingent capital Insurance linked securities Junior Debt Investimenti Esposizione al rischio Prelazione di liquidazione Senior Debt Equity Alta Risk generated = Risk retained + Risk transferred I ragionamenti finora svolti sono stati sviluppati nella prospettiva dell’impresa e quindi sono rivolti alla quantificazione della relazione che esiste tra rischio sostenuto e capitale di dotazione di una impresa standing alone. Ciò fa sì che in tali modelli non siano stati introdotti i possibili effetti delle politiche di diversificazione del rischio che i soggetti prenditori possono por98 re in essere per abbattere il rischio specifico dell’impresa. Assumendo, invece, la prospettiva dell’investitore, e dando a quest’ultimo la possibilità di diversificare il rischio specifico sopportato per investire nell’impresa, possiamo affermare che una parte del rischio retained da parte del finanziatore può essere abbattuto facendo ricorso alle tecniche di diversificazione del portafoglio di investimenti che abbiamo già visto nel par. 5.4. Qualora ciò avvenga, vediamo quali sono le conseguenze in termini di rapporto tra il rischio generato dalle attività e i rischi sostenuti dai soggetti prenditori. In questo terzo modello, che include anche la diversificazione del rischio in capo al finanziatore dell’impresa, la relazione sarà illustrata dalla seguente: Risk generated = Risk assets = = Risk Retained after diversification + risk transferred Figura 11 – Il rischio ritenuto nel modello assicurativo con strumenti off balancesheet e Contingent Capital nella prospettiva del risk taker diversificato Paid-up capital Off balance-sheet Bassa Insurance and derivatives Contingent capital Insurance linked securities Specific risk diversification Junior Debt Investimenti Esposizione al rischio Prelazione di liquidazione Senior Debt Equity Alta Risk generated = Risk retained + Risk transferred Fonte: nostra elaborazione In questo caso il rischio ritenuto dopo la diversificazione sarà minore di quello precedentemente sopportato a causa della seguente relazione: Risk retained – Risk Diversified = Risk retained after diversification 99 Dalla quale ricaviamo: Risk Diversified = Risk retained – Risk retained after diversification In questo caso, il rischio ritenuto dall’impresa dopo la diversificazione diminuisce proprio in funzione dell’indipendenza dei risultati dell’impresa rispetto a quelli degli altri investimenti inseriti nei portfolios di attività dei finanziatori. Questa situazione è illustrata nella figura della pagina precedente, nella quale la diversificazione agisce sul rischio specifico sostenuto tanto dagli azionisti che dai creditori riducendolo. In presenza di un’impresa solvibile, però, tale riduzione andrà a vantaggio dei soli azionisti. Tutte queste considerazioni, che permettono di ampliare molto quelle tradizionali relative alle scelte del mix di capitale proprio e di terzi tale da massimizzare il valore dell’impresa, ci segnalano l’importanza dell’adeguatezza del capitale di dotazione per l’esistenza dell’impresa. Prima di procedere all’analisi più dettagliata del rischio d’impresa nella sua componente principale, il rischio di struttura finanziaria, è necessario svolgere una riflessione sulla relazione tra rischio e soggetti prenditori del medesimo. Tale analisi è anticipatrice dei temi trattati nella seconda parte di questo libro. 10. I prenditori del rischio d’impresa, seniority e insolvenza Dopo questo breve approfondimento sull’entità del rischio generato, la sua trasferibilità a soggetti terzi prenditori e dimensione del capitale di dotazione, è necessario riportare il focus dell’analisi sulla struttura finanziaria per comprendere come business e leverage risk residui si dividano tra i soggetti prenditori. L’analisi sarà svolta nel caso di imprese con struttura finanziaria caratterizzata o solo da equity o da debito ed equity. Prima di farlo vogliamo ripartire dal concetto di seniority e dalla gerarchia individuata dalla legge, dai regolamenti o dalle singole covenants predisposte negli strumenti di finanziamento dell’impresa. Ricordiamo che ogni strumento finanziario con il quale l’impresa raccoglie risorse può essere ordinato secondo il principio della prelazione sui flussi di risultato. Ciò è tanto più importante, quanto minori sono i flussi di cassa generati dall’impresa. L’istituto della prelazione, infatti, è trattato, nelle situazioni aziendali, dalle fattispecie previste dal diritto fallimentare. Al fine di sopravvivere l’impresa deve generare flussi di cassa disponi- 100 bili per tutti i finanziatori sufficienti a onorare gli impegni assunti in via prioritaria con i creditori privilegiati, quindi con i creditori chirografari e infine con gli azionisti. Tra i creditori privilegiati, accanto a dipendenti, professionisti e artigiani, la legge fallimentare stabilisce ugual grado di seniority ai creditori assistiti da garanzie reali o personali, tra cui si citano gli obbligazionisti titolari di debito senior. I creditori assistiti da garanzie sono, infatti, titolari di un privilegio che permette loro l’azione di esecuzione individuale sul bene finanziato e, nella maggioranza degli ordinamenti vigenti, un privilegio in caso di ripartizione dell’attivo della procedura concorsuale. Con grado di seniority inferiore, possono essere citati i creditori non assistiti da garanzie o diritti disciplinati dalla legge. Tra questi annoveriamo i creditori obbligazionari titolari di debito subordinato e/o mezzanino e comunque tutti i finanziatori terzi non commerciali e non serviti da garanzia. Tutti questi creditori si soddisfano solo nel caso in cui siano stati interamenti liquidati gli importi dovuti ai creditori privilegiati e vi siano risorse residue da distribuire. Riguardo ai rischi assunti dai soggetti prenditori in condizione di funzionamento dell’impresa (going concern) possono verificarsi tre casi: 1. l’impresa è finanziata interamente da equity; 2. l’impresa è finanziata da equity e debito e il patrimonio netto è capiente rispetto alla perdita massima potenziale; 3. l’impresa è finanziata da equity e debito e il patrimonio netto è capiente rispetto alla perdita d’esercizio e inferiore a quella massima potenziale. Ponendo attenzione esclusivamente all’obiettivo di garantire la sopravvivenza dell’impresa, in altre parole quello di minimizzare il default risk, possiamo affermare che le imprese che si trovano nella condizione 1 e 2, garantiscono la sopravvivenza in caso di perdite attese inferiori alla massima potenziale. In questi casi l’azionista rimane unico prenditore del rischio. In particolare, nel caso dell’impresa unlevered, la natura del rischio è esclusivamente di business. Nel secondo caso l’azionista si accollerà business e leverage risk, l’obbligazionista il solo rischio inatteso relativo al debito. Nel terzo caso, invece, quello caratterizzato da un capitale di dotazione inferiore alla perdita massima potenziale, i rischi sono accollati sugli azionisti fino al concorrere del valore di mercato del capitale di dotazione, se liquido, e quando la perdita assume valori superiori a quest’ultimo, il rischio si trasferisce sui creditori. Ciò è detto ipotizzando che l’impresa non soffra, nel caso di perdite anche inferiori alla PMP, di rischi di liquidità, in altre parole di situazioni nelle quali la perdita non può essere coperta con la liquidazione degli 101 assets. Se infatti ciò avvenisse, l’impresa sarebbe in condizioni d’insolvenza a causa dell’inadeguatezza della struttura finanziaria e ciò porterebbe al fallimento dell’impresa a prescindere dalla sostenibilità di medio termine della perdita. In altre parole non sarebbe soddisfatto l’equilibrio finanziario. Tabella 3 – I prenditori del rischio nell’impresa finanziata da equity e in quella finanziata con equity e debito HP Impresa finanziata con solo equity Azionista Creditore Business risk — Impresa finanziata con equity e debito con Capitale di dotazione (Paid up capital) > Perdita massima potenziale* CD > PMP Business e leverage risk Rischio d’insolvenza nullo Impresa finanziata con Equity e Debito e con perdita d’esercizio superiore al CD e inferiore alla PMP CD < P < PMP Business risk e leverage risk Parte del business risk e leverage risk * Tale caso fa riferimento a una situazione di Patrimonio netto > Perdita massima potenziale sempre verificata. Ciò non esclude che si possa verificare una perdita effettiva superiore al patrimonio netto, ma il caso di specie ipotizza che l’azionista ricapitalizzi l’impresa al fine di coprire in tutto o in parte la perdita, ricostituendo il capitale sociale. Sulla base di tale ipotesi non vi è la possibilità che si generi una perdita in c/capitale per gli obbligazionisti e quindi il rischio d’insolvenza risulta nullo. Figura 12 – La distribuzione dei risultati attesi e la perdita massima potenziale (PMP) 95% PMP 5% Fonte: nostra elaborazione Al fine di comprendere, quindi, cosa possa accade a un’impresa che abbia capitale di dotazione capiente o non capiente il valore delle perdite e che voglia, aggiungere all’obiettivo finora perseguito della sopravvivenza, quello 102 della finanza neoclassica di massimizzazione del valore dell’impresa, andiamo a illustrare il rapporto perdita/capitale di dotazione prendendo come variabile aleatoria la distribuzione di frequenza dei risultati d’impresa. Supponiamo di avere costruito la distribuzione di frequenza dei possibili risultati finanziari d’impresa J. Il risultato atteso, qualora la distribuzione sia gaussiana, è stimato nel valore medio e sarà pari a R j . Nel caso in cui l’impresa ottenga un rendimento effettivo superiore a quello atteso, i rischi di business e leverage saranno interamente accollati all’azionista. Tali rischi saranno ritenuti dagli shareholders anche nel caso in cui il Rj sia minore di R j e maggiore di 0; oppure, addirittura, nel caso in cui esso sia negativo, almeno fino al verificarsi della condizione sotto descritta: Perdita d’esercizio < Valore di mercato del capitale di dotazione Nel caso, infatti, in cui la perdita ecceda il capitale di dotazione, avverrà un trasferimento del rischio in capo all’obbligazionista, rischio che avrà natura prevalentemente finanziaria, ma che potrà anche essere originato da un evento negativo legato all’attività operativa. Questa possibilità giustifica la richiesta di un rendimento atteso diverso da quello risk free per i prestatori di capitale di debito e riporta l’esempio sopra citato nel quadro teorico previsto dal modello neoclassico. La presenza di un premio per il rischio d’insolvenza è, infatti, naturale se si considera che, accanto all’obiettivo di sopravvivenza, il management deve perseguire anche quello di massimizzazione del valore d’impresa. Realizzare solo il primo, infatti, porterebbe il livello di capitale di dotazione a essere uguale o superiore alla PMP, ma ciò non permetterebbe al management di minimizzare il Wacc e conseguentemente massimizzare il valore d’impresa. In sostanza ci troviamo nuovamente a dover scegliere quel livello d’indebitamento tale per il quale si minimizzano i costi del fallimento e si massimizza il valore d’impresa. La dimensione del capitale di dotazione sarà, in questo contesto, ottimale quando il costo marginale del fallimento eguaglierà il beneficio marginale del debito. Tutto ciò è detto in assenza di politiche innovative di gestione del rischio d’impresa. Infatti, il management potrebbe, servendosi per esempio del contingent capital, realizzare contemporaneamente i due obiettivi sopra citati. Egli, in sostanza, si troverebbe a determinare il capitale proprio sulla base del rapporto tra costi e benefici marginali del debito, ma potrà abbattere il rischio atteso non coperto dallo stesso, servendosi proprio del contingent capital da attivarsi in occasione di perdite attese che eccedano il capitale di proprio. Quanto detto finora, tuttavia, non permette all’impresa di 103 mettersi al riparo dagli effetti catastrofici di un rischio inatteso, per la tranquillità del lettore ricordiamo che tali casi sono previsti con una probabilità vicina allo zero. La conclusione che traiamo da quanto finora detto è che la gestione economico finanziaria d’impresa, riletta alla luce dei principi del risk management, permette al management capace di gestire attivamente il rischio di creare valore e di sottoporre al rischio d’impresa azionisti e obbligazioni che, per tale rischio, sono adeguatamente remunerati. 104 3. LA VALUTAZIONE DELL’IMPRESA E DEL SUO CAPITALE ECONOMICO * di Oliviero Roggi 1. Premessa Il tema della valutazione dell’impresa e del suo capitale economico ha appassionato studiosi e analisti finanziari fin da tempi in cui le imprese erano prevalentemente valutate per le attività di cui disponevano e per i debiti che avevano contratto per coprire i loro investimenti. La misurazione del valore è, infatti, attività strumentale a una variegata gamma di operazioni di finanza ordinaria e straordinaria realizzate dalle imprese nel corso della loro vita. Inoltre la valutazione dell’impresa è strumentale alla stima del valore creato e quindi della stima delle performance aziendali. È in questa sua accezione che la determinazione del valore generato con le decisioni aziendali è coerente con il percorso di analisi che ci ha portato, nei primi due capitoli, a conoscere natura e manifestazione del rischio e che deve necessariamente passare dalla fase di valutazione del valore generato dall’impresa nella gestione attiva del rischio stesso. L’obiettivo di questo lavoro rimane innanzitutto quello di fornire un quadro teorico delle metodologie utilizzate in dottrina e nella prassi per stimare il valore intrinseco di un’impresa; per arrivare quanto più vicini possibile all’individuazione del true value che ne esprime in modo astratto il valore certo. Determinare il valore intrinseco del capitale di un’impresa è un’attività complessa a causa della pluralità di prospettive dalle quali l’impresa può essere osservata. Nell’analisi più superficiale emergono immediatamente gli elementi principali su cui fondare la stima, gli elementi patrimoniali, quelli reddituali e finanziari legati allo sviluppo. Più difficile è invece cogliere gli aspetti immateriali dell’essere (impresa), o quelli potenziali rela* L’argomento è stato trattato precedentemente in Roggi O. (2003), Valore intrinseco e prezzo di mercato nelle operazioni di finanza straordinaria. Una analisi sulle public utilities, FrancoAngeli, Milano; e in Paci I. (2004), Temi di finanza aziendale, FrancoAngeli, Milano. 105 tivi a un migliore impiego delle risorse nello sviluppo o a una valorizzazione in sede di cessione dell’impresa. Ancora più difficile è determinare il valore imprese in situazione di crisi o usando la terminologia anglosassone in special situations. Procederemo come segue: innanzitutto definiremo il concetto di valore intrinseco, per se, precisando cosa intenderemo per valutazione dell’impresa e del suo capitale economico. In seguito saranno illustrati i principali strumenti teorici di stima del valore. Infine saranno richiamati alcuni modelli empirici di valorizzazione dell’impresa e doi alcune decisioni tipiche del Chief Risk Officer, quali quelle di copertura del rischio d’impresa. 2. Il concetto di valore d’impresa. Teoria e prassi professionale Nell’ultimo decennio molti studiosi si sono dedicati alle ricerche volte a identificare uno strumento idoneo di misurazione del valore d’impresa (Copeland, Koller e Murrin 1990 e 2000, Guatri 1990, 1991, 1994, 1997, 1998; Damodaran 1997, 2002 e 2006; Massari 1998; Massari e Zanetti 2008; Guatri e Bini 2001, 2002 e 2005) Tutti, nel perseguire questo fine, sono partiti dalla definizione stessa di valore d’impresa chiamandolo ora true-value, ora fair value e talvolta standing alone value. Si tratta di concetti molto simili in quanto basati sulla medesima astrazione concettuale di valore, ma anche sottilmente diversi gli uni dagli altri nelle caratteristiche che ognuno di essi vuole esaltare. Guatri (1997) sottolinea come ciascun metodo sia niente più che un’“opinione” sul valore intrinseco dell’impresa. In quanto opinabile tale valore è foriero di critiche riguardo alla soggettività delle determinazioni, ma è comunque un elemento necessario nei processi obbligatori o volontari in cui la valutazione si realizza. Si deve alla scuola americana della fine degli anni Ottanta l’identificazione del true-value quale valore che un investitore sarebbe disposto a pagare nel caso in cui l’impresa si trovasse isolata da forze esogene, capaci in qualche modo di influenzarne la valorizzazione. Tale definizione vuole sottolineare l’impatto che l’ambiente rilevante per l’impresa (fornitori, clienti, struttura competitiva del settore), esercita sulla stessa, in modo da modificarne il valore intrinseco. Alcuni autori, opportunamente, si soffermano sul termine valore piuttosto che su quello di prezzo, in quanto il true-value non si forma dall’incontro della domanda e dell’offerta, nel mercato delle partecipazioni d’impresa. Esso è infatti normalmente riferito al complesso delle attività d’impresa. Sostanzialmente diverso dal precedente è il valore stand-alone, che Massari traduce nel concetto zappiano di capitale economico dell’impresa. 106 Si tratta del “valore che potrebbe essere attribuito all’impresa nelle attuali condizioni di gestione” (Massari 1998, p. 183). Esso, a dire dell’autore, non prende in considerazione né il valore potenziale in caso di acquisizione, né tanto meno i benefici privati del controllo dell’impresa. Per questo motivo il valore stand-alone è anche assimilabile al valore dell’impresa nell’ottica dell’investitore non di controllo. Le motivazioni che spingono Massari ad assimilare lo stand-alone value al capitale economico sono da ricercarsi nel fatto che entrambi si basano sui soli risultati reddituali dell’impresa, in assenza di “perturbazioni” esterne. Un concetto abbastanza diverso di valore, forse il più pragmatico e vicino al concetto di prezzo, è quello, frequentemente citato dalla dottrina anglosassone, di fair-market value1. Tale configurazione di valore è, per molti aspetti, simile a quella italiana di prezzo probabile di negoziazione, in occasione di operazioni di finanza straordinaria. Rispetto al true-value, il fairvalue mostra notevoli vantaggi nel suo utilizzo pragmatico. La genesi si deve agli ambienti della finanza anglosassone, in Paesi nei quali la maggiore efficienza del mercato del controllo delle imprese rende attendibili le stime del valore intrinseco con questo metodo. Infatti, laddove il controllo delle imprese è contendibile o il volume delle operazioni sul capitale è comunque elevato, il fair-value costituisce un prezioso punto di partenza per l’operatore, o per l’impresa stessa, nell’avvio delle operazioni di valutazione e poi anche durante le fasi di negoziazione politica del prezzo di cessione. In questa ottica, il valore dipende dalle transazioni precedentemente avvenute su imprese simili e non solo dalle caratteristiche uniche della realtà aziendale che si sta valutando. Per questo motivo parte della prassi anglosassone dà ampio spazio ai metodi dei multipli relativi di risultato o di mercato per giungere alla stima del valore futuro di un’impresa. Il concetto di fair-value ha trovato ampia diffusione e legittimazione nel corso degli ultimi anni in quanto applicabile anche a imprese in perdita, come quelle della net economy. Ciò ha portato gli operatori a servirsi del concetto di fair-value e poi del metodo dei multipli per il calcolo del valore di partenza nelle negoziazioni (Perrini 2000; Guatri e Bini 2002 e 2005). Dal multiplo sul fatturato, a quello più noto del P/E, fino al volatile, quanto inaffidabile, multiplo sul contatto (Perrini 2000), gli studiosi della finanza d’impresa hanno cercato strumenti capaci di catturare il potenziale di creazione di valore delle imprese e hanno abbandonato sistematicamente le valutazioni patrimoniali, reddituali o miste. 1 In Europa il metodo del fair-value è stato recentemente rivalutato dalla Direttiva Europea 2001/65/CE del 27 settembre 2001 nella quale si è modificato la IV e VII direttiva Europea in materia di bilancio delle società e bilancio consolidato. Cfr. Caratozzolo M. (2002), “L’introduzione del fair-value nella IV e VII Direttiva Comunitaria: una prima valutazione” Le Società, 11/2002. 107 Proprio gli elementi che avevano decretato il successo del fair value sono oggi i principali motivi di un ripensamento sull’utilità dello strumento. Lo scoppio della bolla speculativa legata a internet prima e quello sicuramente devastante della crisi immobiliare che affligge il mondo intero dal 2007 hanno portato a disapplicare il metodo del fair value nella valutazione degli assets finanziari. Il disallineamento dei prezzi di mercato rispetto alla più conservative stime di valore intrinseco degli assets ha suggerito agli analisti la revisione e in parte l’accantonato i metodi legati al valore di mercato e soprattutto quelli nei quali era prevista un’applicazione “creativa” dei multipli stessi. Ciòha comportato una rivalutazione dei modelli nei quali il valore alle imprese è stimato sulla base dei più concreti flussi di cassa, se non addirittura basandosi sul valore dell’attivo. Le crisi, almeno nei modelli di valutaizone, sono quindi foriere anche di conseguenze positive. Mai come all’indomani della crisi della net economy e nel dibatitto di oggi, infatti, la disciplina aziendale a cui fa capo la valutazione delle imprese sta riflettendo su nuovi metodi di misurazione del valore intrinseco. Ciò è, di per sé, un risultato positivo per la determinazione del true-value. 3. Il valore d’impresa e il valore dell’equity. Una premessa Prima di affrontare in dettaglio l’analisi degli strumenti a disposizione del valutatore è necessario chiarire cosa intenderemo per valore dell’impresa, cosa per valore dell’equity e cosa si sta valutando. Per valore d’impresa intenderemo il valore complessivo dell’organismo economico atto a perdurare e volto alla produzione di beni e servizi (impresa). È insomma il valore intrinseco dell’impresa nel suo complesso, a prescindere da chi ne sia il finanziatore. La letteratura utilizza per tale valutazione la dizione assets side valuation per sottolineare la centralità e l’importanza del complesso interrelarsi di risorse, materiali, immateriali, umane, e delle competenze nelle attività capaci di generare il valore dell’organismo impresa. Diversa è la valutazione equity side, ovvero quella volta a individuare il valore dell’impresa per il solo azionista. A tale valore è possibile giungere, stimando direttamente gli elementi che costituiscono le basi del valore per lo shareholder oppure indirettamente calcolando l’assets side value prima e sottraendovi poi la posizione finanziaria netta2. 2 Per un approfondimento sul metodo indiretto di determinazione del valore dell’equity basato sul Debt-free approach si confrontino Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milano, pp. 58 e ss.; e Visco J. D. (1995), “Debt-free Approach Revisited”, Business Valuation Approach, March. 108 Guatri (1998), suggerisce poi come tanto il valore dell’impresa quanto quello per l’azionista possano avere connotazioni molto diverse a seconda del metodo con il quale si misura. Egli parla di capitale economico quando il valore dell’impresa per l’azionista è prevalentemente stimato servendosi dei risultati reddituali netti analitici; definisce invece valore potenziale per l’azionista quello derivante dall’applicazione dei metodi finanziari prospettici disponibili all’azionista nel lungo termine nelle forme sintetiche (rendite perpetue) o in quelle finanziarie (DCF). Il valore potenziale è anche quello per l’acquirente e per il venditore in un’operazione di finanza straordinaria. Di ciò parleremo dettagliatamente nel par. 5.5. Sia il valore flusso che quello potenziale sono misure della capacità di creazione di valore dell’impresa antagoniste alla visione statica, patrimoniale, della stessa. Proprio il valore stock dell’equity si contrappone ai precedenti ed è assimilabile al patrimonio netto rettificato attraverso l’evidenziazione in bilancio degli assets patrimoniali a valori correnti. I metodi di valutazione misti di cui parleremo nel par. 5 rispondono, poi, proprio all’esigenza di valorizzare l’impresa da una pluralità di prospettive capaci di evidenziare ora le componenti di stock del valore, ora quelle di flusso nel breve e lungo termine, ora quelle miste. Le configurazioni di calcolo al pari delle differenti prospettive sono multiple e permettono la valorizzazione dell’impresa sia nell’ottica della totalità dei finanziatori sia in quella dei soli azionisti. Alcuni metodi però sono specifici della sola valutazione assets side, altri solo di quella equity based. 4. Le scelte del valutatore e il processo di stima del valore Il processo di valutazione comprende numerose fasi. Tra le principali citiamo: 1. l’individuazione degli obiettivi di valutazione (chi valuta, nell’interesse di chi e cosa si valuta); 2. la definizione del contesto di valutazione (perché si valuta e quali sono i soggetti che partecipano o interferiscono sulla misurazione del valore); a. circostanze della valutazione (obbligatoria, volontaria, ostile); b. contesto di valutazione (soggetti, interessi e poteri relativi); 3. la raccolta delle informazioni; 4. la scelta del metodo di valutazione; 5. la determinazione del valore (compreso sanity check) e la redazione del rapporto di valutazione. 109 4.1. Gli obiettivi della valutazione, i valutatori e i soggetti promotori La prima fase di definizione degli obiettivi si apre individuando la prospettiva interna o esterna dalla quale si valuta l’impresa. La domanda implicita è la seguente: Chi valuta l’impresa? E poi ancora: il valutatore è interno (insider) o esterno alla stessa? Questo interrogativo, che può sembrare ai non addetti ai lavori niente più che una curiosità da soddisfare in via preliminare, è, invece, fondamentale per la determinazione del livello di accuratezza della misurazione del valore, la sua attendibilità. Infatti la valutazione è sovente influenzata dalla posizione relativa del valutatore rispetto all’impresa. Nel caso si tratti di dipendente o consulente dell’impresa esso è un “insider” e potrà beneficiare di maggiori informazioni rispetto a quelle ottenibili da un soggetto terzo (outsider). Il valutatore esterno, infatti, è abbandonato a se stesso in un esercizio di misurazione nel quale può utilizzare solamente dati pubblicamente disponibili o, al massimo, fraudolentemente ottenuti. Ciò finirà necessariamente per determinare il grado di attendibilità e accuratezza della stima del valore intrinseco. Negli ultimi anni, tuttavia, in ragione di un notevole sviluppo dell’informativa finanziaria disponibile sulle società quotate nei listini italiani, anche le valutazioni degli outsiders hanno raggiunto livelli di analiticità soddisfacenti e permettono agli investitori di formulare un giudizio abbastanza accurato sulle potenzialità dell’impresa, con un occhio sia ai fondamentali sia all’andamento del corso del titolo. La prospettiva del valutatore è fortemente influenzata dalle motivazioni per le quali si arriva alla determinazione quantitativa del valore d’impresa e in particolare dagli obiettivi dei soggetti nell’interesse dei quali si valuta l’impresa. Si possono distinguere almeno tre principali gruppi di attori direttamente e indirettamente interessati. Saranno direttamente interessati al processo valutativo coloro che partecipano da protagonisti alla vita dell’impresa: managers e finanziatori (azionisti e obbligazionisti). Saranno invece indirettamente interessati alla determinazione del valore coloro che la dottrina definisce normalmente stakeholders o portatori di interessi legittimi. Ritroviamo in questa categoria i clienti e i fornitori, interessati a stimare l’andamento dell’impresa e il suo valore, i concorrenti, il cui valore dipende dalla quota di mercato relativa detenuta dall’impresa valutanda, le forze sindacali, che cercheranno nella capacità di creare valore dell’impresa le assicurazioni per non vedere minate le basi dell’occupazione dei propri affiliati, e le pubbliche amministrazioni, che puntano a far crescere l’economia e quindi anche la singola impresa. 110 4.2. Le circostanze nelle quali si realizza la valutazione In merito al contesto nel quale la valutazione del capitale si inserisce, la dottrina ha elaborato una classificazione che distingue le circostanze di valutazione obbligatoria da quelle facoltative. Nel primo gruppo rientrano quelle misurazioni del valore d’impresa previste da una disposizione normativa o regolamentare. Per esempio è obbligatorio effettuare la valutazione dell’azienda nel caso di trasformazione in società di capitale (SpA, o srl) di società di persone (snc o Sas). È ancora necessario giungere a determinare il valore di un’impresa in occasione di operazioni di finanza straordinaria di particolare rilevanza per l’impresa quali: fusioni, incorporazioni, scissioni, acquisizione/cessione di rami d’azienda. La procedura di quotazione dell’impresa su di un mercato regolamentato prevede una valutazione approfondita dell’impresa. Talvolta sarà il Tribunale a chiedere una perizia di valore nell’ambito di procedure concorsuali, contenziosi e arbitrati, o comunque in occasione di procedimenti giudiziari a carico di soggetti coinvolti nell’impresa. Rientrano invece nella valutazione di natura discrezionale tutte quelle valutazioni preparatorie alle operazioni di compravendita di aziende, rami d’azienda, partecipazioni di maggioranza, minoranza qualificata, nel caso di affidamenti bancari o di operazioni di ristrutturazione finanziaria. La valutazione è attività utile anche alla pianificazione in quelle imprese che utilizzano piani di incentivazione del personale basati sulla creazione di valore, e in ogni altra occasione ordinaria o straordinaria nella quale sia necessario pervenire a una stima del valore dell’intero complesso aziendale o di quello riservato ai soli azionisti. È verosimile pensare come gli elementi di contesto sopra citati possano influire sulle fasi successive di misurazione del valore e principalmente sulla scelta del metodo di valutazione. Anche i soggetti che partecipano alla valutazione sono in grado di influenzare la stima del true value. Pensate per esempio al venditore di un’impresa e alla pressione che esso eserciterà sul perito al fine di massimizzare il valore e poi anche il prezzo di cessione. Nell’ambito della tutela delle garanzie nei confronti di terzi (perizie per il Tribunale), il giudice incaricato esercita di fatto un’influenza sul perito spingendolo ad applicare attentamente il principio di prudenza nella determinazione del valore del capitale proprio posto dall’impresa a tutela dei terzi creditori. Per non parlare poi dei managers e delle pressioni che potrebbero esercitare sul valutatore ogni volta che parte del loro salario è legato alla valorizzazione dell’impresa. Non è questa la sede per approfondire quanto la valutazione finale sia 111 realmente influenzata dai soggetti che a titolo diverso prendono parte al processo. È necessario però ricordare che un’attenta analisi del contesto è necessaria per comprendere il grado di affidabilità della stima. 4.3. La raccolta delle informazioni Una volta determinato e conosciuto il contesto all’interno del quale l’operazione di valutazione si svolge è necessario raccogliere le informazioni indispensabili per le fasi tecniche di stima del valore. Si distinguono innanzitutto i dati primari, quelli direttamente reperiti in azienda, da quelli secondari, disponibili da fonti pubbliche. Spesso per una corretta valutazione dell’impresa è necessario integrare gli uni con gli altri e giungere a una stima quanto più possibile basata su dati non affetti da bias di rilevazione. All’interno dell’impresa i periti cercheranno informazioni sulla storia e sul business nel quale l’impresa opera. Tali informazioni sono normalmente inserite nelle comunicazioni sociali, nel piano industriale in corso di realizzazione e nei business plan prospettici, documenti di cui le imprese si dotano con maggiore frequenza rispetto al passato. Tuttavia i documenti indispensabili alla redazione di ogni tipo di valutazione sono i documenti contabili sintetici e principalmente: il bilancio d’esercizio relativo agli anni precedenti a quello della stima, il rendiconto finanziario e tutta la documentazione sintetica e analitica disponibile nella contabilità industriale e direzionale. Nel caso in cui l’impresa sia valutata sui flussi di risultato saranno indispensabili i documenti finanziari prospettici dai quali sarà possibile ricavare grandezze fondamentali quali: il reddito netto atteso futuro, i free cash flow to equity o i free cash flow to firm e ancora tutte le variabili necessarie alla determinazione del valore futuro atteso. Nel caso l’impresa sia valutata con metodi patrimoniali essa dovrà dotarsi delle informazioni relative al valore corrente degli assets in suo possesso. Ai dati interni si associano quelli esterni, pubblici. Questi sono disponibili gratuitamente o a pagamento da fonti terze. Si tratta prevalentemente di informazioni sulle principali variabili macroeconomiche, sul settore in cui l’impresa opera, sulle operazioni che si sono realizzate nel settore e sui processi evolutivi in corso. Ancora, è possibile raccogliere da fonte pubblica le informazioni sulle imprese simili (comparables) o sulle transazioni comparabili necessarie alla determinazione del relative-value dell’impresa nei metodi indiretti. La fase di raccolta delle informazioni è preliminare alla scelta del metodo di valutazione in quanto questa può essere influenzata anche dalla di- 112 sponibilità di dati attendibili e raccolti seguendo il criterio fondamentale della prudenza nelle rilevazioni. Il valutatore integrerà, poi, il materiale raccolto proprio alla luce della scelta del metodo di stima del valore. 4.4. La scelta del metodo di valutazione delle imprese La scelta del metodo di valutazione è sicuramente la fase più importante da realizzare all’intero del processo valutativo. Non è detto, però, che la scelta di un metodo sia esclusiva, ovvero che il valutatore ne utilizzi uno solo. È possibile, anzi preferibile, applicare più di un metodo e verificare se i valori indipendentemente determinati convergono intorno a un valore o comunque in un intervallo di valutazione. In una parola è necessario verificare se e come aspetti diversi della stessa impresa portino a valutazioni convergenti o divergenti3. Il progresso delle discipline aziendali che si occupano della valutazione e quello indotto dalle esigenze degli operatori hanno reso disponibili molte metodologie di valutazione dell’impresa. La dottrina è solita distinguere però quei metodi che giungono al valore dell’impresa partendo dalle caratteristiche intrinseche, fondamentali, da quelli nei quali il valore è determinato “per relazione”. Nel primo caso si parla di metodi diretti, in quanto si apprezza l’impresa servendosi di caratteristiche fondamentali: ora degli assets patrimoniali posseduti, ora del reddito o dei flussi finanziari generati, ora di una pluralità di caratteristiche dell’essere impresa (metodi misti). Nel caso invece dei metodi indiretti il valore dell’impresa è determinato per relazione, ovvero prendendo come parametro il valore di imprese simili o di transazioni di mercato che hanno avuto per oggetto imprese comparabili. Nella fig. 1 sono illustrati i metodi più diffusi per la stima del true value classificati con il criterio diretti/indiretti. Altro elemento da tenere in considerazione è l’attività svolta dall’impresa e il settore di appartenenza. La scelta del metodo di valutazione deve essere fatta proprio tenendo in considerazione le specificità dell’impresa che si sta valutando e quindi anche il settore in cui opera. Alcuni studi hanno messo in evidenza una correlazione tra l’appartenenza di un’impresa a un settore e il metodo di stima del valore utilizzato. Nella tab. 1 sono riportati i risultati di due studi condotti da Ambrosetti Stern Stewart Italia nel 1999 e poi ancora nel 2002. 3 Sia la dottrina che la prassi della valutazione prevede nel corso del processo di stima il cosiddetto sanity check. Tale operazione è volta a verificare che la misurazione effettuata con metodi diretti sia compatibile e convergente con quella realizzata per esempio con metodi di relative valuation. Per un approfondimento confronta Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milano, p. 56. 113 Figura 1 – I metodi di valutazione dell’impresa e del suo capitale economico Metodi Metodi diretti Flussi di risultato Finanziari Misti (equity) Media + Avviamento Criteri empirici Economic Value added Sintetici Sintetici Analitici Reddituali Multipli di mercato (imprese e transazioni comparabili) Misti Analitici Patrimoniali Semplice e complesso Metodi indiretti Fonte: nostro adattamento da Massari (1998) Tabella 1 – Metodi di valutazione dell’impresa. Una prospettiva per settori di appartenenza Metodo Valutazione Settore Industriale Holding e finanziarie Assicurativo Bancario 1999 2002 1999* 2002 1999 2002 1999 2002 Patrimoniale 1,9% 0% 50% 74% 28,6% 0% 16,2% 1% Reddituale 8,4% 5% — — 7% 0% 11,2% 16% Misto (patr + redd) 1,6% 5% — 6% 23,8% 3% 29,5% 23% 34,7% 32% — 13% 32% 7% 35% 13% Discount Cash Flow (DCF) 37,5% 47% 25% 2% 5,6% 16% 7,2% 12% Economic Value Added 15,9% 8% 25% 5% 2,1% 8% 0,9% 9% Embedded Value — — — — — 65% — 8% Altro — — — — — 1% — 18% Multipli Si riferisce alle imprese immobiliari e non propriamente alle holding operative e finanziarie i dati risultano pertanto difficilmente comparabili. Fonte: Ambrosetti Stern Stewart Italia (1999, 2002) Appare subito evidente come l’attività dell’impresa oggetto di valutazione influenzi fortemente l’analista nella scelta del metodo di calcolo del valore economico del capitale o dell’enterprise value. Dal confronto dei due studi emerge poi come, anche all’interno di settori omogenei, le tecniche di misurazione del true value siano evolute. Per esempio si è assistito a una rivoluzione degli strumenti impiegati per la determinazione del valore delle banche e delle 114 assicurazioni con il ricorso all’embedded value4 (AIAF 2002; Eccles, Herz, Keegan, e Phillips 2001). Altra tendenza da evidenziare è quella di un minore ricorso alla valutazione relativa sia essa realizzata con il metodo dei multipli di mercato o con quello delle transazioni comparabili. Il DCF model consolida, nello studio 2002, posizioni di rilevanza già acquisite precedentemente. Tenendo conto di quanto abbiamo ricordato sopra il perito identificherà il metodo principale e i metodi di controllo di cui si avvarrà e integrerà, se necessario, le informazioni necessarie alle fasi tecniche di calcolo. La descrizione dei principali metodi di valutazione delle imprese sarà oggetto del par. 5 al quale rinviamo per i dettagli. Proseguiamo invece nella descrizione del processo di valutazione. 4.5. La determinazione del valore dell’impresa e la redazione della relazione di valutazione Per arrivare a determinare il valore dell’impresa nel suo complesso o per i suoi azionisti è necessario applicare gli algoritmi specifici di ogni metodo e verificare successivamente il range di valori all’interno del quale la stima varia. È proprio a questo punto che si rende necessario il sanity check grazie al quale è possibile stabile se i valori ottenuti con l’applicazione del metodo principale e con quelli di controllo convergono nell’intorno di un valore oppure divergono notevolmente. In questo caso è necessario risalire alle cause del mismatching e verificare se la differenza può essere imputata in qualche modo ai dati, ad altri fattori di calcolo, oppure effettivamente alle diversità riscontrate nell’oggetto di valutazione. Nel caso in cui i valori siano coerenti gli uni agli altri sceglieremo quale delle valutazioni considerare la definitiva e sulla base di questa scelta andremo a redigere la relazione di valutazione. La relazione di valutazione avrà contenuto più o meno dettagliato in funzione degli scopi per i quali è redatta. Adattando quanto detto da Guatri (1998, p. 417) possiamo distinguere tre principali scopi: • interno – stime informali; • esterno – stime formalizzate per comunicare risultati e notizie a terzi; • esterno – stime ufficiali. 4 Il metodo dell’embedded value si è diffuso principalmente nei settori assicurativi e bancari. Per una disamina esaustiva si confrontino tra gli altri: Eccles R. G., Herz H. R., Keegan E. M., Phillips D. M (2001), The Value Reporting Revolution. Moving Beyond the Earnings Game, Wiley, New York; AIAF (2002), “The Communication of Intangibles and Intellectual Capital: An Empirical Model of Analysis”, Official Report, n. 106, Milano; Di Piazza Jr. S. A., Eccles R. G. (2002), Building Public Trust. The Future of Corporate Reporting, Wiley, New York. 115 Nel caso di stime informali il reporting non ha una struttura obbligatoria e risponde alle esigenze di controllo interno che hanno originato la valutazione. Chi redige la stima “Ha la massima libertà di comportamento e di scelta dei criteri e in particolare non è legato a obblighi di dimostrazione a terzi dei propri assunti e delle conclusioni” (Guatri 199, p. 417). Le stime formalizzate per scopi di comunicazione di dati a terzi sono il più delle volte realizzati da soggetti esterni all’impresa e hanno spesso il compito di orientare gli investitori nelle scelte di investimento nel capitale dell’impresa. Sono generalmente realizzate da analisti finanziari di banche d’affari legate all’impresa o indipendenti e seguono la prassi di comunicazione delle informazioni agli investitori individuali e istituzionali sui mercati finanziari. Un esempio di documento redatto da terzi e volto alla valorizzazione dell’impresa è quello predisposto dall’advisor della stessa in occasione della sua cessione. In questo caso l’advisor svolge un’indagine sul valore potenziale del venditore, indagine che sarà documentata nell’information memorandum che la banca d’affari (advisor) farà circolare alla ricerca di un potenziale acquirente. In tale documento dovranno essere evidenziati gli elementi strategico-finanziari su cui la valutazione è costruita e soprattutto dovranno essere ben enunciate le ipotesi con le quali si è giunti al valore del cedente. L’ultimo gruppo di relazioni è quello delle stime ufficiali. A seconda della procedura nel corso della quale la stima è richiesta, il valutatore redigerà una relazione dettagliata sulla misurazione da lui effettuata, e se necessario provvederà ad asseverare la perizia presso il tribunale competente per la procedura stessa. 5. I fondamentali d’impresa. Variabili determinanti nella valutazione diretta dell’impresa e del suo capitale proprio I metodi di valutazione diretti sono quelle tecniche di calcolo del valore d’impresa basate su dati fondamentali interni all’impresa. Il più delle volte si tratta di grandezze stock come gli assets altre volte si tratta di flussi reddituali o finanziari, ma in entrambe le circostanze il valore finale dell’impresa è determinato partendo da caratteristiche intrinseche alla stessa. La dottrina distingue tre gruppi di metodi diretti: quelli patrimoniali, quelli dei flussi di risultato e i metodi misti. Il primo metodo, quello patrimoniale si basa sulla visione d’impresa come contenitore di assets e di debito a valori correnti. In questa accezione sarà necessario stimare ogni componente patrimoniale dell’impresa e de- 116 terminare il valore del capitale proprio per differenza dei valori correnti del attivo e del passivo. Si parla di patrimonio netto rettificato. Figura 2 – I metodi diretti per la determinazione del valore d’impresa. Quadro sinottico Metodi diretti Flussi di risultato Misti Finanziari Misti (equity) Media + Avviamento Economic Value added Sintetici Sintetici Reddituali Analitici Semplice e complesso Analitici Patrimoniali Fonte: nostra elaborazione I metodi dei flussi di risultato5 valutano l’impresa relativamente alla performance che essa è capace di generare. Non importa se l’impresa è 5 Nel Capitolo 1, abbiamo definito il concetto di rischio e analizzato i molteplici criteri per introdurre l’incertezza nelle decisioni d’impresa nell’ambito della funzione obiettivo della finanza aziendale, ossia la massimizzazione del valore dell’impresa. A tal fine è stato necessario introdurre il concetto di valore, definendo il valore di un investimento J qualunque, e quindi dell’impresa sommatoria, come valore dei flussi di risultato futuro (CFt) generati dai progetti di investimento e attualizzati a un tasso di interesse r. Inoltre, abbiamo visto che il rischio può essere incluso all’interno della formula del valore in due modi alternativi. Il primo prevede che il rischio sia incluso nel tasso di attualizzazione, mentre i flussi di risultato, detti anche cash flows (CF), sono espressi a valori nominali e non tengono conto del rischio che essi varino a seguito dell’alea insita negli investimenti realizzati. Il rischio, come conseguenza dell’incertezza nella quale la decisione è assunta, viene quindi a essere incluso nel denominatore della formula del valore, laddove il tasso di interesse al quale si attualizzano e capitalizzano i flussi di cassa contenga un premio per il rischio stesso. Il secondo metodo prevede che il rischio sia previsto e incluso nella stima attraverso la ponderazione dei flussi nominali con la probabilità di verificarsi degli stessi. In questo lavoro tratteremo dei metodi di flusso di risultato che si rifanno al primo dei metodi sopra descritti. 117 sotto o sovra capitalizzata o di quali assets sia dotata, essa varrà per i risultati che è in grado di ottenere. In questa seconda accezione il valore d’impresa è assimilato a quello dei flussi di risultato attesi futuri. La dottrina distingue due principali gruppi di flussi di risultato: gli indicatori di performance reddituale e quelli squisitamente finanziari. I primi hanno trovato nel filone dottrinale italiano iniziato da Zappa (1937) e proseguito da Guatri (1991, 1994, 1997, 1998) la loro legittimazione e misurano il valore dell’impresa servendosi di grandezze di bilancio note quali l’utile netto o il reddito operativo. I secondi hanno i loro natali prevalentemente nel mondo anglosassone e stimano il valore attraverso l’attualizzazione dei flussi di cassa disponibili per l’impresa (Free Cash Flow to Firm) o per il solo azionista (Free Cash Flow to Firm o i flussi dividendo). Il terzo gruppo di strumenti di valutazione è quello che tenta di “sposare” i due metodi precedenti introducendo elementi di valutazione reddituale/finanziario in un impianto di stima prevalentemente basato sul patrimonio netto rettificato. Tra i metodi misti si distingue quello della media, unico realmente costruito come media dei valori patrimoniali e reddituali dell’impresa; quello del metodo misto con evidenziazione separata dell’avviamento e il metodo dell’Economic Value Added. Non resta che approfondire la conoscenza degli strumenti di calcolo. 5.1. Il metodo patrimoniale Il metodo di valutazione patrimoniale, nella prospettiva più ampia di stima dell’intero capitale raccolto dall’impresa, si basa sul valore corrente delle attività di cui l’impresa stessa dispone. In tale prospettiva essa è paragonabile a un contenitore nel quale la proprietà prima, e il management poi, depositano quelle attività patrimoniali necessarie allo svolgimento dell’attività. La valutazione in questo caso risponde a esigenze di corretta valorizzazione dei singoli cespiti patrimoniali dell’impresa per la determinazione del valore-stock6, ora dell’impresa tutta, ora del solo capitale economico. La valorizzazione delle attività è complessa. In essa si deve tenere presente che il valore degli assets deve essere stimato in ipotesi di going concern dell’impresa, ovvero in ipotesi di funzionamento. È per questo motivo che accanto agli asseta materiali trovano spazio anche gli intangibles, che esprimono le potenzialità dell’impresa nello sfruttamento dell’immagine di marca, del know-how, della tecnologia ecc. La visione del 6 Cfr. Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milano, p. 211. 118 contenitore di soli beni materiali non interdipendenti sarebbe parziale e inadeguata a esprimere correttamente la filosofia di valutazione patrimoniale dell’impresa. Se l’attivo deve essere valutato tenendo presente quanto appena detto, la misurazione del passivo aziendale, al contrario, non risulta problematica in quanto questo deve sempre essere quantificato al valore nominale. L’attivo patrimoniale, invece, deve subire una complessa serie di operazioni di apprezzamento e stima, necessarie a far emergere il valore di funzionamento di ciascuna attività. I criteri più utilizzati sono, in questa prospettiva, quello del valore corrente o di riproduzione che sostituiscono il costo storico al quale l’impresa ha acquisito gli assets. Formalizzando, il valore del complesso delle attività è determinato come sommatoria degli assets (j) materiali e immateriali siano essi cespiti o disponibilità patrimoniali espresso a valori correnti. Algebricamente: La valutazione patrimoniale nella prospettiva degli azionisti quali residual claimers, sarà invece determinata come differenza tra il valore degli assets (Wassets), appena calcolato, e valore corrente delle passività esistenti (Wliabilities). Tale importo corrisponde al valore nominale, in quanto un’impresa, in regime di funzionamento, è obbligata a iscrivere e rimborsare le obbligazioni contratte con terzi, al loro valore nominale7. In tale espressione il patrimonio netto rettificato (K’) è espresso proprio dalla differenza tra il valore corrente dei singoli cespiti (j) e la sommatoria delle obbligazioni di pagamento (k) facenti capo all’impresa. Gli studiosi (Guatri 1992, 1994, 1998; Massari 1998) sono concordi 7 Uno dei pochi casi in cui il valore corrente del debito non corrisponde a quello nominale è la procedura concorsuale di concordato preventivo o fallimentare; in essa le passività non privilegiate hanno valore zero fino a quando non sono stati rimborsati i creditori privilegiati, e poi vengono valutate in moneta fallimentare in sede di riparto dell’attivo fallimentare (Cfr. Legge Fallimentare RD 16 marzo 1942). Un altro caso di sottovalutazione del passivo riguarda l’impresa che, dopo aver emesso obbligazioni sul mercato finanziario, si trova nella condizione di poter legalmente e finanziariamente rimborsare il prestito (richiamando i titoli) a un valore di mercato inferiore a quello nominale. 119 nell’attribuire al metodo del patrimonio semplice una serie di limiti oggettivi tali da farlo derubricare a strumento di controllo del valore, piuttosto che essere un autonomo metodo di valutazione8. Il limite principale è quello di trascurare gli elementi immateriali non iscritti in bilancio a seguito di acquisizione a titolo oneroso. Il secondo, non meno importante, è quello di considerare l’impresa come un contenitore di assets anziché come un’organizzazione complessa, nella quale il valore si crea non solo attraverso il possesso di beni, ma, soprattutto, tramite le capacità di chi li utilizza. In relazione a tale limite osserviamo che le imprese sono indotte dalla concorrenza ad attuare strategie di differenziazione (Porter 1982) che le costringono a investire in assets immateriali capaci di garantire la riconoscibilità ai loro prodotti. Che si tratti di marchi registrati, brevetti a tutela di opere dell’ingegno o di altri intangibles9 legati prevalentemente alle aree del marketing e delle tecnologie produttive, poco importa: è vitale per l’impresa distinguersi dalle proprie concorrenti per esprimere pienamente il proprio valore. Proprio per dare il giusto peso a questa rilevante componente del valore aziendale e per rimuovere il limite sopra enunciato, la dottrina e la prassi hanno sviluppato, e gradualmente introdotto, il metodo patrimoniale complesso. Il valore intrinseco è calcolato, nella prospettiva dell’azionista, come la somma tra il Patrimonio Netto Rettificato (K’), determinato con il metodo semplice, e i Beni Immateriali (BI), gli intangibles posseduti dall’impresa. Wequity = K ' + BI Tali beni constano di attività immateriali, generalmente non iscritte in bilancio (fatta eccezione per quelle acquisite a titolo oneroso, come l’avviamento commerciale evidenziato in occasione di acquisizioni d’impresa), e contribuiscono in modo determinante al successo dell’impresa10. 8 Non a caso Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milanopreferisce la dizione “informazione patrimoniale” a quella di metodo patrimoniale, da contrapporre a quelli finanziario e reddituale. Il valore-stock determinato nel corso dell’indagine svolta con criteri patrimoniali “non è mai, in se stesso, un modo accettabile per valutare un’azienda. Ciò non toglie che l’informazione patrimoniale sia sempre utile” (p. 211). L’indagine patrimoniale, prosegue l’autore, “rimane per sempre un momento utile o necessario delle stime di valore, anche quando queste ultime si orientano sui valori-flussi o sui prezzi probabili” (p. 212). 9 Per una prospettiva storica esaustiva della relazione tra valore e intangibles si cfr. Guatri L. (1997), Valore e intangibles nella misura della performance aziendale: un percorso storico, Egea, Milano. 10 Senza la pretesa di essere esaurienti riprendiamo da Guatri i principali beni immateriali dell’area marketing e tecnologia oggetto di valutazione patrimoniale complessa: nome e lo- 120 In verità l’introduzione del valore di detti beni apprezza la capacità dell’impresa che ne dispone, di produrre risultati superiori a quelli mediamente ottenuti nel proprio settore. Tale condizione appare necessaria affinché si manifesti l’extra-profitto che sta alla base del calcolo dell’avviamento nei metodi misti patrimoniali-reddituali. Se la prospettiva di valutazione è quella dell’azionista di maggioranza al valore come sopra determinato dovrà essere aggiunto il maggior valore corrispondente ai benefici ottenuti dal controllo (BC) della società (Fringe benefits, redditi indiretti ecc.). Wequity = K ' + BI + BC È generalmente condiviso che la valutazione con il metodo patrimoniale sia efficace per quelle imprese in cui le attività tangibili iscritte nel bilancio rappresentano la maggior parte del valore intrinseco e su cui c’è minore incertezza di misurazione. Perciò il metodo trova principale applicazione nel campo delle imprese finanziarie e di quelle immobiliari, come appare evidente nelle percentuali di utilizzo dei metodi di stima riportate in tab. 1. L’informazione patrimoniale è di sicura utilità anche per lo svolgimento di operazioni di finanza straordinaria quali la quotazione sul mercato regolamentato o la negoziazione in caso di acquisizione e/o fusione d’impresa. Gli operatori delle principali banche d’affari preferiscono peraltro attribuire al valore patrimoniale d’impresa il significato di valore intrinseco minimo da cui partire per la valutazione: un floor-value solido e spesso non contrattabile. L’utilizzo dell’informazione patrimoniale è, nella frequenza, inversamente proporzionale alla rilevanza del peso degli elementi intangibili sul successo d’impresa. Come già evidenziato nell’indagine condotta da AIAF in collaborazione con ASSI (Ambrosetti Stern Stewart Italia 1999) solo l’1,9% delle imprese industriali del campione analizzato utilizza l’informazione patrimoniale per determinare il proprio valore. Il metodo basato sul valore degli assets patrimoniali risulta invece maggiormente diffuso in settori come quello bancario, con il 16,2% delle preferenze, o quello assicurativo con il 28,6%. go società, denominazione marchi, insegne, marche secondarie, idee pubblicitarie, strategie di marketing, garanzia prodotti, grafica, idee promozionali, sforzo di pubbliche relazioni, design delle etichette, design dell’imballo, registrazione marchi, tecnologia, know-how produttivo, R&S, brevetti, segreti industriali, software, databases; cfr. Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milano, pp. 245 e ss. Riguardo al modo in cui i beni immateriali partecipano alla produzione di ricchezza aziendale si confronti Massari M. (1998), Finanza aziendale. Valutazione, Mc-Graw Hill, Milano, in cui si contrappongono i criteri di valorizzazione del costo sostenuto e delle maggiori prospettive di reddito. 121 5.2. Il metodo reddituale L’approccio valutativo conosciuto come reddituale si fonda sul seguente assunto: un’impresa vale in quanto è capace di produrre ricchezza nell’esercizio della propria attività. In questa prospettiva, il valore-stock illustrato nelle pagine precedenti lascia il posto al valore-flusso quale migliore strumento di misurazione del valore intrinseco dell’impresa. I sostenitori dell’approccio dei flussi di risultato, di cui il metodo reddituale fa parte, sono convinti che il principale value driver sia proprio il reddito d’impresa nella sua duplice configurazione di reddito operativo o utile netto, a seconda che l’oggetto di valutazione sia l’intera impresa o il solo capitale economico. L’impresa è nella prospettiva reddituale non più un contenitore di assets con i quali produrre beni e servizi, ma quel particolare mix di risorse materiali, immateriali e umane capace di garantire nel lungo termine una consistente e duratura eccedenza dei ricavi sui costi di gestione: il reddito d’esercizio. L’impresa vale in quanto produce risultati positivi i quali, apprezzati con strumenti adeguati, ne determinano il valore stand alone. I flussi di risultato economico da misurare sono quelli prospettici dell’impresa. I flussi passati costituiscono, invece, le basi su cui impostare la stima. Sul piano operativo, determinare il valore dell’impresa con il metodo reddituale, significa valutare i flussi di reddito atteso futuro tenendo conto dell’orizzonte temporale in cui si verificheranno. Si tratta quindi di attualizzare o capitalizzare11 i flussi a un tasso che tenga conto del rischio operativo e finanziario a cui l’impresa sottopone l’investitore12. Nella prassi il tasso di attualizzazione/capitalizzazione è stimato servendosi del massimo rendimento ottenibile dagli investitori sul mercato finanziario con titoli azionari simili, in termini di rischio operativo e finanziario (si tratta in sostanza del costo-opportunità. Cattaneo 1999). 11 Il valore dell’impresa con il metodo reddituale è frequentemente ricavato con la sola operazione di attualizzazione dei flussi di cassa futuri. Nel caso in cui si debba stimare il valore atteso futuro dell’impresa i flussi reddituali situati tra il giorno 0 e il giorno t, nel quale la stima deve essere effettuata, saranno capitalizzati, mentre i flussi di risultato successivi al giorno t saranno attualizzati. Il tasso utilizzato nelle operazioni finanziarie per spostare i capitali nel tempo è il medesimo, in quanto riflette il rischio operativo e finanziario a cui l’impresa sottopone i propri investitori. Per un approfondimento sul tasso di attualizzazione si confrontino Renoldi A. (1997), Valore dell’impresa, creazione di valore e struttura finanziaria, Egea, Milano, e Poli A. (1997), Costo del capitale, Etas, Torino. 12 Per la scelta del corretto tasso di attualizzazione cfr. Capitolo 1 par. 8.1. 122 In letteratura (Massari 1998) si conoscono almeno due gruppi omogenei di metodi valutativi reddituali: quelli analitici e quelli sintetici. I primi mirano a determinare il valore dell’impresa stimando in modo dettagliato i costi e ricavi che questa avrà in futuro, in modo da quantificare il reddito operativo o l’utile netto prospettico di periodo. I secondi, invece, si servono del reddito medio normalizzato per determinare il valore d’impresa, dopo avere ipotizzato uno scenario di crescita dell’impresa. Talvolta la prassi ha preferito utilizzarli congiuntamente stimando in modo analitico i primi esercizi futuri e lasciando ai metodi sintetici il compito di determinare il valore finale dell’impresa. Un’ulteriore dimensione nell’illustrazione dei vari metodi reddituali è quella dell’orizzonte temporale di valutazione. Qualora si consideri l’impresa come “un organismo economico atto a perdurare”(Zappa 1937, 1957) e quindi di fatto se ne ipotizzi la durata illimitata, si potranno utilizzare algoritmi che tengano conto di questa caratteristica. In tali formule semplificate di stima il valore intrinseco dell’impresa è determinato come il risultato di una serie matematica di redditi normalizzati futuri lucrati dall’impresa (metodo sintetico). La formula della rendita perpetua senza fattore di crescita sarà pertanto: • • nella prospettiva assets side; nella prospettiva equity side. Se invece, come più spesso si orienta la prassi dei consulenti e soprattutto degli organi di giustizia, l’impresa è considerata capace di produrre redditi solo in un orizzonte temporale limitato agli otto anni successivi alla valutazione, allora il valore sarà determinato analiticamente solo dai flussi reddituali stimati analiticamente. Come si è accennato, spesso è necessario utilizzare entrambi gli algoritmi con l’accortezza di stimare analiticamente i flussi di reddito più vicini e sinteticamente quelli prodotti dal giorno T, nel quale si interrompe la valutazione analitica, fino all’infinito. In questo caso si dovrà procedere a un’operazione di normalizzazione del reddito. Nella tab. 2 abbiamo tentato di incrociare la prospettiva di valutazione e il grado di analiticità della stima del reddito per giungere alla determinazione dell’algoritmo di calcolo più appropriato rispetto alle esigenze del valutatore e alle caratteristiche dell’impresa. 123 Fonte: nostra elaborazione Orizzonte definito Assets Side Tabella 2 – La valutazione reddituale Analiticità della stima Analitico Sintetico Composto 124 n.d. Orizzonte indefinito Orizzonte definito Prospettiva di Valutazione Equity side n.d. Orizzonte indefinito Elementi comuni alla valutazione delle imprese con il metodo reddituale a prescindere dalla prospettiva assunta o dal grado di analiticità sono: • una o più configurazioni di reddito: Reddito operativo (Ro) per la valutazione dell’impresa nel suo complesso e utile netto (UN) per quella equity; • un tasso di attualizzazione necessario per tenere conto della struttura temporale dei flussi di reddito. Il tasso di attualizzazione è calcolato in modo diverso a seconda si tratti di valutare l’intera impresa o il solo capitale economico. Nel primo caso, si misurerà il rendimento medio ponderato delle fonti di capitale raccolte a titolo di debito o di capitale proprio dall’impresa e necessarie a finanziarie il progetto d’investimento arrivando a determinare il costo medio ponderato del capitale (Wacc)13. Nel caso della valutazione del solo capitale economico, esso sarà invece pari al rendimento richiesto dagli shareholders per progetti di investimento con profilo di rischio simile a quello considerato (re). Una terza caratteristica comune è la necessità di normalizzare le configurazioni di reddito sopra illustrate nel caso si valuti l’impresa in un orizzonte temporale illimitato. Tale processo di normalizzazione si rende necessario per non includere nella valutazione elementi gestionali transitori che potrebbero in qualche modo rendere difficoltosa la stima dell’effettiva capacità dell’impresa di produrre reddito. Un esempio classico, in questo senso, è l’esclusione di poste straordinarie quali plusvalenze, minusvalenze, sopravvenienze e/o insussistenze14 dal calcolo del reddito normalizzato. Una volta eseguite le operazioni di normalizzazione sarà possibile arrivare alla valorizzazione dell’impresa. Con il metodo analitico, il valore dell’impresa nel suo complesso sarà determinato, in un orizzonte limitato 0-T, operando la sommatoria dei flussi 13 Il costo medio ponderato del capitale è quello sostenuto dall’impresa per remunerare i portatori di capitale: azionisti, creditori finanziari. Il rendimento è ottenuto ponderando i tassi delle singole fonti finanziarie sulla base della loro incidenza percentuale sulla struttura finanziaria. Wacc = re E D + rdr D+E D+E dove re è il rendimento richiesto dagli azionisti, rdr è il rendimento richiesto dai portatori di capitale di debito e i due rapporti esprimono i pesi, ovvero le percentuali di incidenza dei mezzi propri [E / (D + E)], e delle fonti di debito [D / (D + E)] sulla struttura finanziaria. 14 Per una approfondita disamina sull’argomento della normalizzazione dei risultati reddituali si confronti Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milano; e Guatri L., Bini M. (2005), Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, Università Bocconi Editore, Milano. 125 di reddito operativo/utile netto stimati per i successivi T anni e opportunamente attualizzati al costo medio ponderato del capitale (Wacc). In questo caso non è necessario procedere alla normalizzazione dei flussi in quanto si ipotizza di essere in grado di misurare, anno per anno, tanto le componenti ordinarie quanto quelle straordinarie di reddito. In tale valutazione è trascurata la capacità dell’impresa di realizzare redditi oltre l’anno T. Ciò costituisce un notevole limite del metodo che può essere rimosso introducendo quello che abbiamo chiamato metodo composto. In tale metodo il valore del capitale economico di un’impresa è composto da due addendi. Il primo, è già noto al lettore essendo l’omologo di quello precedentemente trattato, ed esprime il valore analitico dell’impresa o del solo capitale economico nel periodo 0 – T, mentre il secondo costituisce il valore finale, o residuo, al termine del periodo di valutazione analitica. Quest’ultimo è ottenuto grazie all’utilizzo del metodo sintetico: Il secondo addendo è determinato ricorrendo a una serie di ipotesi restrittive sull’evoluzione dell’impresa. Innanzitutto è ipotizzata la permanenza dell’impresa per un tempo indeterminato; viene inoltre postulato un flusso reddituale normalizzato costante per gli anni che vanno da T all’infinito; si considera pure costante il grado di rischio a cui l’impresa sottoporrà l’investitore per il tempo avvenire, e quindi è utilizzato un tasso di attualizzazione esso pure invariato. Nonostante le vigorose semplificazioni necessarie per giungere a una valutazione sintetica, tale metodo permette, al contrario di quello patrimoniale, di inserire elementi dinamici, quali le potenzialità future di risultato, nella valutazione dell’impresa. Sebbene il metodo reddituale costituisca un primo passo verso la determinazione del valore potenziale dell’impresa, esso soffre, per sua natura, di notevoli limiti di applicazione. Tanto il reddito operativo quanto l’utile netto, sono 126 configurazioni di risultato stimate nella logica di redazione del bilancio civilistico. L’utile netto è pertanto influenzato dalle politiche di bilancio relative agli ammortamenti, alla svalutazione dei crediti, e ad altri costi non monetari. Inoltre utilizzando indicatori di performance di tipo contabile non è immediatamente apprezzabile la capacità dell’impresa di generare valore attraverso l’attività operativa. Potrebbe infatti accadere che, sebbene i ricavi della gestione siano sistematicamente superiori ai costi d’esercizio, la natura finanziaria degli stessi generi situazioni di squilibrio nelle manifestazioni finanziarie delle operazioni di gestione. Solo analizzando i cash flows della gestione operativa e complessiva, sarà possibile rimuovere questo importante limite, che rende il metodo reddituale incerto nella determinazione del valore intrinseco. Nel prossimo paragrafo saranno passati in rassegna i metodi finanziari che risultano più efficaci nella valutazione della ricchezza creata dall’impresa. A causa delle ipotesi restrittive e dei limiti oggettivi evidenziati qui sopra, il metodo reddituale di stima del valore d’impresa non trova frequente applicazione nell’ambito di operazioni di finanza straordinaria. Ciò prevalentemente perché il management che si appresta a effettuare una fusione, una acquisizione o un altro atto di gestione straordinaria, ha necessità di conoscere l’entità e la distribuzione temporale della liquidità su cui potrà contare. Ciò al fine di gestire i processi di integrazione tra le imprese acquisite e, eventualmente, sostenere correttamente gli obiettivi dell’impresa bidder e target. Lo studio realizzato da AIAF/ASSI conferma la scarsa affezione dimostrata a questo metodo dai periti incaricati della misurazione del valore intrinseco per l’ammissione alle contrattazioni. Ciò può derivare dal fatto che dovendosi omologare ai metodi di valutazione utilizzati sui mercati finanziari, dove il valore di una impresa viene stimato in una prospettiva outsider e nell’interesse dei potenziali investitori, l’impresa si vedrà costretta a utilizzare i flussi monetari quale principale strumento di stima del proprio valore. Per gli investitori, infatti, una azione vale in quanto capace di produrre flussi di dividendo e di capital gain, e non per l’utile d’esercizio che evidenzia in bilancio. 5.3. Il metodo misto. “Stock e flussi di valore” Prima di passare alla stima del valore intrinseco basata sui flussi finanziari è necessario introdurre i metodi misti nei quali il valore patrimoniale, semplice o composto che sia, si somma all’avviamento dell’impresa. I metodi misti sono, di fatto, metodi di stima del valore intrinseco relativi. In- 127 fatti il valore dell’avviamento viene calcolato come sommatoria dei flussi di extra-profitto lucrati dall’impresa rispetto ai concorrenti a parità di stock di patrimonio netto rettificato. In letteratura si distinguono due gruppi di metodi misti15: quelli cosiddetti puri (tra cui la media algebrica) e quelli che utilizzano l’Excess Earning Method, o relativi. Il più immediato e semplice modo di determinare il valore intrinseco dell’impresa tenendo presente sia stock di assets disponibili, sia potenzialità di reddito, è il metodo della media algebrica. Con questo metodo l’assets side value di un’impresa è determinato come media del valore patrimoniale e di quello reddituale sintetico. In esso il capitale investito netto (CIN’) è sommato al valore della rendita perpetua derivante da un reddito operativo (Rot) sottoposto all’ipotesi di assenza di crescita (steady state)16, e poi il tutto diviso per due. Volendo esprimere il valore dell’impresa così determinato in funzione del capitale investito netto (CIN’) e dell’avviamento (A) ricaveremo: dalla quale è possibile determinare il valore dell’avviamento o goodwill che sarà: Al metodo della media aritmetica si è affiancato, con il trascorrere degli anni un altro gruppo di tecniche basate sul concetto di Excess of Return (Viel, Bredt e Renard 1986; Fishman, Pratt, Griffith e Wilson 1992). In esse l’avviamento è stimato come sommatoria degli extra-rendimenti lucrati dall’impresa e non dai suoi concorrenti di settore, o dalle imprese comunque ritenute simili. Si tratta di una valutazione relativa che, insieme a 15 Il metodo misto è apparso per la prima volta negli Stati Uniti, al contrario di quanto generalmente sostenuto negli ambienti della finanza aziendale. Il metodo si deve precisamente a Viel J., Bredt O., Renard M. (1986), La valutazione delle aziende, Etas, Milano. 16 Si tratta di una serie matematica che per t che va da 1 all’infinito converge al valore Ro1/wacc; nel caso in cui i redditi futuri siano stimati ricorrendo al reddito operativo normalizzato la serie convergerà, invece, al valore Ronorm/wacc. 128 quella dell’Economic Value Added, prepara e favorisce la diffusione delle tecniche di relative valuation. I drivers di valore per la stima del capitale economico dell’impresa sono costituiti da: stock di risorse (assets) a disposizione dell’impresa e da capacità differenziali, ovvero competenze nella gestione operativa che rendono l’impresa più redditizia per l’azionista e quindi giustificano una maggiorazione di valore rispetto al solo valore patrimoniale. Formalmente la valutazione mista, con evidenziazione separata dell’avviamento, si esegue applicando il seguente algoritmo: dove: • K’j = patrimonio netto rettificato dell’impresa j al tempo 0; • Rjn = utile netto dell’impresa j per ogni anno n che va da 0 a N; • isett = rendimento normalizzato di imprese del medesimo settore dell’impresa j o rendimento di imprese simili. rappresenta, invece, l’extra rendimento netto cumulato, lucrato per N anni dall’impresa j e attualizzato al tempo 0 servendosi di un tasso di attualizzazione pari rj. L’avviamento, valore attuale degli extra-rendimenti futuri, è calcolato in ottica equity side e permette di determinare la ricchezza differenziale creata per i soli azionisti della società. Se volessimo invece determinare l’extra-rendimento garantito a tutti i portatori di capitale sarebbe necessario calcolare il più noto Economic Value Added (EVA)17 o metodo misto in “versione finanziaria”18 (Guatri 1998, 17 Sul tema dell’Economic Value Added la dottrina si è soffermata fin dal 1991 anno nel quale G. Bennett Stewart III illustrò il metodo nel famoso volume: Stewart G. B. III (1991), The Quest for Value: The EVATM Management Guide, Harper Collins, New York. Si ricordino tra i primi contributi in lingua italiana sul tema Massari M. (1995), “Il metodo misto di valutazione delle imprese. Una riformulazione aderente alla moderna finanza aziendale”, Finanza marketing produzione, n. 3. 18 L’appellativo “versione finanziaria” è dovuto al fatto che nel calcolo dell’EVA alcune imputazioni sostanziali quali gli accantonamenti ai fondi imposte, svalutazione crediti, obsolescenza magazzino, garanzia e i ratei e risconti in genere sono determinati secondo il criterio della cassa e non con quello della competenza economica dell’esercizio. Cfr. Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione delle imprese, Egea, Milano, pp. 455 e ss. 129 p. 291), con il quale si stima il valore economico aggiunto dell’impresa nel suo complesso. L’EVA è uno strumento di valutazione molto impiegato nella stima del valore intrinseco di grandi imprese poiché permette la determinazione del valore aggiunto annuale sulla base del quale sono realizzati i piani di incentivo rivolti ai managers delle società. In questo caso il valore dell’impresa sarà determinato come segue: e quindi: in cui: • CIRj = Capitale investito nell’impresa j da tutti gli investitori; • EVAjn = Economic Value Added dell’impresa j nel periodo n; • Nopatjn = Net Operating Profit after Tax ovvero reddito operativo al netto delle tasse dell’impresa j nel periodo n; • Wacc = costo medio ponderato del capitale normalizzato per imprese simili o dello stesso settore; • Waccj = costo medio ponderato del capitale per l’impresa j; • MVA = sommatoria per n che va da 0 al N degli EVA dei singoli anni. Sebbene i metodi misti siano i primi a inserire una pluralità di aspetti nella valutazione dell’impresa, essi hanno visto la loro applicazione ridursi nel tempo principalmente a causa di alcune difficoltà di calcolo del saggio di rendimento normalizzato di settore o di imprese simili, ma soprattutto per la sempre minore rilevanza dell’entità degli assets per la riuscita dei progetti imprenditoriali. Lo studio di AIAF/ASSI testimonia la scarsa affezione degli operatori al metodo per l’applicazione a imprese industriali (1,6% nel 1999 e 5% nel 2002). I dati mostrano anche una forte riduzione nel suo utilizzo per il settore bancario e assicurativo, campo nel quale invece il 23% degli intervistati dichiarava di usarlo nel 1999. Per la verità la riduzione è da attribuire alla cresciuta importanza attribuita al metodo dell’embedded value, o valore incorporato, utilizzato dalle imprese assicurative e bancarie per stimare il valore reale delle attività (polizze) in portafoglio. Ulteriori approfondimenti sui metodi misti non aggiungerebbero molto alla nostra panoramica. Unica considerazione aggiuntiva degna di nota è forse il fatto che questi metodi non si adattano alla valutazione delle imprese industriali. La valutazione patrimoniale-reddituale, inoltre, si presta poco all’impiego nelle operazioni di finanza straordinaria e ciò in quanto in essa 130 vengono trascurati i drivers di valore cari all’investitore finanziario: flussi monetari ritraibili dall’investimento (dividendo e capital gain). Per la valorizzazione di questi ultimi sembra che il metodo di stima del valore intrinseco di maggior impiego sia quello finanziario, che illustreremo nel prossimo paragrafo. 5.4. Il metodo finanziario. Il valore del tempo e dei flussi finanziari Le tecniche di misurazione del valore basate sulla stima dei flussi finanziari generati e poi distribuiti dalle imprese sono molto articolate e vanno generalmente sotto il nome di Discount Cash Flow methods (DCF). Come già per i metodi patrimoniali e reddituali, anche nel caso dei metodi finanziari, insieme agli strumenti di stima del valore del complesso delle attività d’impresa, coesistono quelli volti ad apprezzare il valore del solo capitale netto. L’indagine condotta da AIAF mette in risalto l’importanza del metodo dei flussi nel panorama dei metodi di valutazione delle imprese rilevando che nel 1999 il 37,5% delle imprese industriali inserite nel campione dichiara di servirsene per il calcolo del valore. È necessario quindi conoscerne gli aspetti principali. Similmente ai metodi reddituali, i metodi finanziari si propongono di valutare il potenziale di creazione di valore dell’impresa e non tanto la dotazione di risorse e competenze necessarie all’accrescimento dello stesso. La differenza principale rispetto ai metodi illustrati nei paragrafi precedenti risiede nella prospettiva di valutazione finanziaria, volta a stimare l’entità dei flussi di cassa positivi e negativi (entrate e uscite finanziarie), generati e generabili dalla gestione aziendale. I dati da raccogliere sono qualitativamente diversi da quelli utilizzati nella valutazione reddituale e per questo muta anche l’origine degli stessi. Il documento principale da cui si ricavano le informazioni sulla “vita finanziaria” dell’impresa è il rendiconto finanziario, in tutte le sue diverse configurazioni. Il conto economico, compilato seguendo il principio della competenza, non sarà più idoneo a illustrare la dinamica finanziaria dell’impresa e a fornire i dati per la valutazione. Da esso, però, si parte per ricavare le configurazioni di flussi di cassa che ci serviranno per la stima del valore dell’impresa. Lo stato patrimoniale continuerà a essere documento importante per la comprensione della dinamica dei flussi finanziari. In particolare saranno necessari due prospetti patrimoniali per determinare le variazioni subite dalle vari gruppi di investimenti e finanziamento all’interno del periodo di osservazione che dovranno essere inserite nel rendiconto. 131 Una volta illustrate le fonti dei dati da raccogliere è importante stabilire che cosa sia necessario per il calcolo del valore d’impresa con il metodo finanziario. A questo proposito sono rilevanti: • la tipologia dei flussi di cassa (quali), • l’entità dei flussi finanziari di risultato dell’impresa (quanti); • la distribuzione temporale degli stessi (quando); • il valore finanziario del tempo; • il rischio di errore nella determinazione dei flussi stessi. Valore finanziario del tempo e rischio di errore nella stima dei flussi sono fattori rilevanti nella determinazione del tasso di attualizzazione con il quale i capitali saranno spostati nel tempo19. Il metodo finanziario ha una articolazione di configurazioni di calcolo del valore dell’impresa complessa, al pari di quella vista per i metodi reddituali. Anche in questo caso la scelta dell’algoritmo di calcolo dipenderà dall’oggetto di analisi (impresa/capitale netto) e dal grado di analiticità scelto nella valutazione. In ragione di quest’ultima dimensione potranno esser eseguite valutazioni sintetiche, analitiche o composte dei flussi di cassa ritraibili dalla gestione aziendale. Partendo dal modello composto, il valore generale di una impresa con il 19 In letteratura il tasso di attualizzazione è normalmente scisso in due componenti che sono legate rispettivamente al valore finanziario del tempo e al rischio dell’investimento. R = rf + Premio per il rischio. La prima componente è il tasso rf che è il corrispettivo riconosciuto all’investitore per la rinuncia al consumo. Ciò a causa del valore finanziario del tempo per il quale due capitali nominalmente identici, ma disponibili in istanti diversi, hanno valore attuale diverso. Infatti colui che ha la disponibilità del capitale al tempo 0 può impiegarlo senza alcun rischio e ottenere, alla fine del periodo, la restituzione del capitale insieme al rendimento rf come compenso per la rinuncia al consumo immediato. In finanza aziendale si usa stimare il tasso di interesse per la rinuncia al consumo con il tasso privo di rischio (rf) lucrato dagli investitori in titoli di stato a breve termine. La seconda componente del rendimento richiesto da un investitore per cedere il capitale all’impresa è il premio per il rischio al quale il soggetto viene sottoposto. Ora, il rischio è determinato dallo scostamento del valore effettivo di una variabile casuale da quello atteso. In questo caso quindi l’investitore subisce il rischio di vedere dei flussi di cassa futuri diversi, per entità e manifestazione temporale, da quelli previsti (attesi) e sui quali egli basava le proprie decisioni di investimento. Il premio per il rischio è proprio il rendimento differenziale concesso all’investitore per indennizzarlo dell’incertezza che si assume con l’investimento. Per la stima di questa seconda importante componente del rendimento azionario gli studiosi hanno sviluppato alcuni modelli teorici tra i quali il più famoso, e tuttora utilizzato, è il Capital Assets Pricing Model; Sharpe W. F. (1964), “Capital Asset Prices: A Theory of Market Equilibrium Under Condition of Risk”, Journal of Finance, n. 19, pp. 425-442; e Lintner J. (1965), “The Valuation of Risk Assets and the Selection of Risky Investments in Stock Portfolios and Capital Budgets”, Review of Economics and Statistics, 47 (1), pp. 13-37. 132 metodo dei flussi finanziari può essere determinato genericamente con l’ausilio dell’equazione che segue: dove: • FCt = Flussi di cassa di periodo t; • r = tasso di attualizzazione che tengono conto del rischio dell’investimento; • VT0 = valore attuale del valore terminale o finale; • VTt = valore terminale del titolo al tempo T. In questa espressione il primo addendo è costituito dalla sommatoria dei flussi di cassa stimabili analiticamente attraverso il ricorso a documenti finanziari prospettici, mentre il secondo addendo stima il valore residuo dell’impresa per i flussi che genererà dall’anno T all’infinito, o almeno nella sua vita utile. Quest’operazione permette di stabilire quanta parte del valore d’impresa sia attribuibile ai flussi finanziari più vicini nel tempo, e quindi analiticamente prevedibili, e quanta parte sia, invece, imputabile al valore terminale (terminal value), frutto, quest’ultimo, di una stima sintetica dei flussi più lontani. Il valore finale, o terminale (VTt), sarà determinato con algoritmi sintetici basati sulle rendite perpetue con o senza fattore di crescita. In questo modo esso sarà: in caso di flussi costanti perpetui; • FCT +1 in caso di flussi distribuiti con fattore g. r−g dove g = fattore annuale di crescita dei flussi di cassa distribuiti. Per arrivare a determinare il valore attuale di VTT, VTo, sarà poi necesFCT +1 sario attualizzare VTT per T anni. VT0 = oppure con flussi crer (1 + r ) T FCT +1 scenti costanti VT0 = . ( r − g )(1 + r )T Una volta enunciate brevemente le modalità di calcolo comuni a tutti i metodi finanziari, nei paragrafi che seguono si illustreranno, le variabili dalla cui combinazione scaturirà ora il valore dell’impresa, ora quello del solo capitale netto. • VTT = Le configurazioni di flussi finanziari utilizzabili nella stima del va133 lore intrinseco. Il valore d’impresa è, come abbiamo detto, determinato dalla sommatoria dei flussi di cassa attesi futuri, attualizzati. Una prima necessità è quella di individuare la natura di tali flussi finanziari. Una premessa è fondamentale: i flussi sono stimati al loro valore nominale o reale e non contengono in alcun caso correzioni necessarie per tenere in considerazione il rischio di errore nella stima. Il rischio, infatti, sarà inserito nella formula del valore allorquando si andrà a determinare il tasso con cui attualizzare i flussi nominali o reali ora identificati. Natura ed entità dei flussi finanziari generati dall’impresa. A seconda della prospettiva dalla quale si affronta con metodi finanziari la valutazione dell’impresa è necessario introdurre e poi definire concetti sostanzialmente diversi di flussi finanziari. Se l’ottica dalla quale si osserva il valore è quello dell’impresa nel suo complesso, i flussi che saranno oggetto di analisi sono tutti quelli generati per dalla stessa con le operazioni di gestione ordinaria e straordinaria e disponibili per i finanziatori. Poco importa la destinazione che essi prenderanno, se saranno appannaggio dei portatori di capitale di rischio o dei creditori. L’impresa vale per la sua capacità di generare flussi finanziari netti considerati nel loro valore assoluto. Se l’obiettivo è quello di valutare il valore del capitale economico d’impresa nella prospettiva degli azionisti, i flussi considerati saranno quelli disponibili per tale categoria di soggetti. Quali sono le possibili misurazioni di tali flussi? Il Free Cash Flow to Firm nella valutazione assets-side. La dottrina (Damodaran 1994, 2001 e 2006; Massari 1998) individua nel Free Cash Flow to Firm (Flusso di cassa disponibile per l’impresa o FCFF), il principale strumento tecnico di stima dei flussi generati complessivamente dall’impresa e lo definisce come: “il flusso di cassa disponibile per la remunerazione di tutti i soggetti portatori di risorse monetarie al netto delle sole spese in conto capitale, delle variazioni del Capitale Circolante Netto e delle poste non monetarie” (Damodaran 2001, p. 600). Il FCFF è determinabile tanto direttamente che indirettamente, ovvero partendo dal Free Cash Flow to Equity (FCFE). Non abbiamo ancora parlato del flusso di cassa disponibile per l’azionista quindi definiremo il FCFF solo nella prospettiva diretta come: FCFF = Earning before interests & tax (1 – t) + Cosi non monetari + – Spese in conto capitale – Variazioni del capitale circolante non cash 134 Si tratta di una configurazione particolare di un flusso finanziario generato della gestione operativa. La base è costituita dall’EBIT (Earning Before interest and Taxes) un reddito operativo al lordo degli oneri finanziari generati dal debito contratto dalla società e delle imposte. Da esso viene sottratta indirettamente la parte relativa all’imposizione fiscale e ciò è fatto moltiplicando il tutto per (1 – tc). Dove tc rappresenta l’aliquota fiscale a cui l’impresa è soggetta. EBIT (1 – tc) è quindi il reddito operativo al lordo delle imposte e al netto delle imposte. Tale configurazione di reddito operativo è particolarmente adatta alle esigenze di calcolo, in quanto comprende i flussi di cassa destinati ai creditori e allo Stato. Essendo, però, l’EBIT calcolato con il criterio della competenza si rende necessario aggiungervi i costi non monetari.20 Otterremo così un EBIT che potremmo chiamare finanziario e che risulta essere il reddito operativo distribuibile ai finanziatori in assenza di uscite finanziarie per investimenti, previste nel piano industriale. Al contrario qualora il piano industriale preveda degli investimenti in attività fisse o circolanti che abbiano manifestazione finanziaria nell’esercizio, per arrivare al FCFF, sarà necessario sommare algebricamente il saldo dell’area degli investimenti e del capitale circolante. In questo modo è possibile avere ragionevole certezza dei flussi di cassa disponibili per remunerare i fornitori di capitale presenti in impresa a qualunque titolo, dopo che si sono garantiti gli investimenti inseriti nel piano industriale. L’attualizzazione dei FCFFt annuali porterà alla stima dell’intero valore dell’impresa, e non del solo patrimonio netto, secondo la formula che, nella sua semplificazione estrema, potrebbe essere la seguente: Il potenziale di creazione di valore di un’impresa è stimato analiticamente per i T anni successivi a quello della valutazione e i flussi sono opportunamente attualizzati a un tasso pari al rendimento richiesto da tutti i finanziatori dell’impresa e cioè al costo medio ponderato del capitale (Wacc). Ai FCFF analitici stimati per T anni deve essere aggiunto il Valore 20 Si tratta di tutti quei costi che non hanno avuto manifestazione finanziaria nel momento di valutazione dell’impresa. Damodaran A. (2006), Finanza aziendale, II ed., Apogeo, Milano, aggiunge all’EBIT i soli ammortamenti che, sicuramente, costituiscono i principali costi non monetari inseriti in bilancio, ma certo non sono i soli. È per questo che ci sembra più opportuno estendere il calcolo a tutta la categoria dei costi non monetari. 135 Terminale (VTo) determinato come valore attuale dei FCFF generati dall’anno T fino all’infinito. Tale valore, così come il valore finale utilizzato nel metodo reddituale, è generalmente calcolato con l’ausilio delle rendite perpetue. Il flusso di cassa che dovrà essere inserito al numeratore della rendita perpetua è il “FCFF steady state” (Perrini 2000) detto anche “no growth” (Fanni Duemila), ovvero il flusso di cassa disponibile per l’impresa al netto delle componenti straordinarie e di crescita che possono modificarne temporaneamente il valore. in caso di flussi costanti perpetui; • FCFFT +1 in caso di flussi distribuiti che crescono con un fattore g. Wacc − g In conclusione, il valore totale dell’impresa con il metodo finanziario basato sui free cash flow to firm è rappresentato da: • VTT = La valutazione equity-side e i flussi finanziari per gli azionisti. Il metodo finanziario può essere applicato anche nella stima del valore dell’impresa per azionisti e quindi nella valutazione dell’impresa detta equityside (Massari 1998; Perrini 2000). La prassi e la teoria hanno sviluppato moltissime configurazioni di flussi di cassa disponibili per gli azionisti. I più noti e utilizzati sono: il free cash flow to equity (FCFE) e il flusso di dividendo (DIV) o, nella sua versione unitaria, il Dividend per Share (DPS). Il free cash flow to equity è il flusso di cassa “che un’impresa può permettersi di distribuire agli azionisti sotto forma di dividendi” (Damodaran 2006). Esso è in sostanza il flusso disponibile per gli azionisti dopo che sono stati garantiti gli investimenti inseriti nel piano industriale (Area A), il pagamento della quota capitale sul debito contratto dall’impresa, al netto di nuove emissioni, nonché gli interessi maturati su tale debito (Area B). Anche la gestione del circolante va a incidere sul FCFE, diminuendolo, ogni volta che la variazione del “CCN non-cash” è positiva (Area C) aumentandolo in caso contrario. Sempre positivo, invece, il contributo dell’ammortamento (Area D), in quanto recupero di un costo non monetario. Al pari del FCFF in quest’ultima area si possono inserire anche gli altri costi non monetari dell’impresa quali, per esempio, gli accantonamenti, le svalutazioni di crediti ecc. 136 Sinteticamente quindi il free cash flow to equity può essere determinato come la somma algebrica fra l’utile netto e il saldo delle 4 aree sopra menzionate. FCFE = Utile netto ± A ± B ± C + D dove: • A = spese in conto capitale per gli investimenti inseriti nel piano industriale; • B = saldo delle operazioni di accensione/rimborso di finanziamenti di terzi; • C = variazione del Capitale circolante netto non cash; • D = ammortamenti. Utilizzando il FCFE il valore del capitale netto dell’impresa sarà dato, al pari del FCFF, dalla somma dei flussi analitici attualizzati e del valore finale o terminale al tempo T, anch’esso attualizzato alla data della valutazione: dove FCFEt sono i free cash flow to equity stimati analiticamente nel primo periodo; re è il tasso di attualizzazione per progetti di investimento dal profilo di rischio simile a quelli dell’impresa valutata; FCFE steady è il flusso di free cash flow utilizzato nel calcolo del valore terminale (VT0) che si ipotizza disponibile perpetuamente dall’anno T fino all’infinito. Un’altra configurazione di flussi di cassa disponibili all’azionista, per la verità più restrittiva rispetto a quella del FCFE, è quella presentata nel Dividend Discount Model. Ai FCFE si sostituiscono i flussi di dividendo, mentre il tasso di attualizzazione che deve incorporare il rischio sopportato dall’azionista resterà re, ovvero il costo del capitale azionario. Il tasso di attualizzazione dei flussi finanziari e il rischio. Nell’ambito della valutazione con il DCF, l’operazione di attualizzazione è necessaria per rendere omogenei i flussi di cassa naturalmente distribuiti sull’asse temporale del periodo di osservazione. Il tempo non è un variabile neutra nei confronti del valore dell’impresa in quanto colui che ha disponibilità di un capitale al tempo 0 può impiegarlo e ottenere, alla fine del periodo, il capitale stesso aumentato almeno degli interessi per la rinuncia al consumo se non anche un indennizzo per il rischio dell’investimento. È quindi necessario comprendere come spostare i flussi di cassa nel tempo e soprattutto quale tasso di attualizzazione utilizzare. In generale colui che dispone del capitale e lo investe temporaneamente 137 sarà disposto a farlo solo se adeguatamente compensato. Quantomeno, il soggetto richiederà una remunerazione per la rinuncia alla disponibilità del proprio denaro, e quindi al potenziale consumo, oltre chiaramente alla restituzione del capitale iniziale. La dottrina ha utilizzato per stimare il tasso di attualizzazione il concetto di costo-opportunità andando a indagare quali impieghi alternativi possa avere il capitale prestato all’impresa. Nel caso in cui si operi in condizioni di certezza il costo opportunità nel cedere del capitale è costituito dal rendimento di investimenti il cui risultato sia certo. La prassi è solita stimare questo tasso con il risk free rate (rf), ovvero il saggio di remunerazione di titoli di Stato a breve termine. Se invece l’investimento presenta aspetti di incertezza sia nella restituzione del capitale, sia dei flussi di rendimento ottenuti come compenso, il costo opportunità, e quindi il tasso di attualizzazione, dovrà tenere conto di questa nuova variabile: l’incertezza appunto. Quest’ultima nasce dall’incapacità di prevedere correttamente quello che succederà in futuro. È una condizione naturale di ogni soggetto economico, anche razionale, che si trovi a operare con grandezze che hanno una loro manifestazione futura. L’impossibilità di prevedere che cosa accadrà in futuro genera il rischio (Damodaran 2001, p. 49; Brealey, Myers e Sandri 2003)21. Questo non ha, per sua natura un’accezione solo negativa, ma è conseguenza dello scostamento tra l’accaduto e il previsto. 21 Il rischio si manifesta per cause esterne e interne all’investimento stesso. In finanza aziendale si distinguono due categorie di rischio: • sistematico; • specifico. Il primo è dovuto a variabili non controllabili dal singolo investitore ma che influenzano in modo determinate il risultato atteso. Nel caso specifico dell’impresa il rischio sistematico può essere la variazione delle condizioni di mercato vigenti, l’incremento generalizzato dei prezzi delle materie prime, la variazione del tasso di interesse vigente sul mercato dei capitali. Esiste poi un rischio specifico dell’impresa principalmente imputabile a circostanze operative o finanziare tipiche dell’impresa e che impediscono all’investitore di raggiunge il risultato sperato. Nell’ottica dell’investitore finanziario però il rischio specifico può essere abbattuto e quindi eliminato avvalendosi delle tecniche di diversificazione del rischio. Per questo motivo gli studiosi di finanza non sono propensi a riconoscere alcun premio per il rischio specifico sostenuto in un certo investimento, nel caso in cui l’investitore possa diversificare le fonti di rischio specifico, abbattendolo. Nell’ambito della valutazione delle imprese e nei panni di un qualunque investitore interessato all’investimento nel capitale, la differenza tra risultato atteso ed effettivo può essere imputata a diversi fattori o fonti di rischio. Per esempio un risultato può essere disatteso a causa di improvvise modificazioni del mercato, della situazione politica, della congiuntura economica ecc. Inoltre vi possono essere cause interne all’impresa di cui si sta valutando il capitale che in qualche modo possono allontanare il risultato atteso da quello effettivo. Normalmente la dottrina le raccoglie in due classi: operativo, finanziario. Per un approfondimento sulle fonti di rischio si veda Cattaneo M. (1999), Manuale di finanza aziendale, Il Mulino, Bologna. 138 Il costo opportunità, da utilizzare come tasso per l’attualizzazione dei flussi di cassa provenienti da investimenti rischiosi, dipende dalla natura della valutazione: • nel caso in cui si stia valutando quel particolare investimento che è l’intera impresa, il costo-opportunità sarà costituito dal massimo tra i rendimenti medi ponderati richiesti dai soggetti che apportano le fonti di finanziamento. In finanza tale rendimento è stimato prevalentemente dal costo medio ponderato del capitale di cui parleremo diffusamente più sotto; • nel caso si stia determinando, invece, il valore del solo capitale economico, il costo-opportunità è stimabile dal massimo tra i rendimenti ottenibili dal prestatore del capitale per investimenti che hanno profilo di rischio simile a quello dell’impresa valutata. Proprio per tenere conto di queste diversità, la dottrina ha sviluppato due configurazioni di tasso di attualizzazione, che si utilizzano nella prospettiva assets o equity side della valutazione: il costo del capitale aziendale e il costo del capitale netto. Il costo medio ponderato del capitale nella valutazione assets-side. Se i flussi che si debbono scontare sono relativi all’impresa nel suo complesso, in altre parole se stiamo stimando i FCFF, sarà necessario attualizzarli con il tasso di rendimento richiesto da tutti i soggetti portatori di risorse all’impresa. Tecnicamente si tratterà di calcolare il rendimento delle singole fonti di finanziamento dell’impresa e ponderarlo con l’importanza che tali fonti hanno all’interno della sua struttura finanziaria. Ciò porterà come abbiamo già visto in precedenza alla determinazione del costo medio ponderato del capitale, Weighted Average Cost of Capital (Wacc). In termini formalizzati e nell’ipotesi semplificata di una struttura finanziaria composta da azioni ordinarie e debiti: Wacc = re E D + rdr D+E D+E dove re è il rendimento richiesto dagli azionisti di cui parleremo in seguito, rdr è il rendimento richiesto dai portatori di capitale di debito, al netto del beneficio fiscale22 e i due rapporti esprimono i pesi, ovvero le percentuali di 22 Il costo reale del debito per l’impresa è inferiore a quello pagato nominalmente alla banca o agli obbligazionisti in quanto gli interessi passivi costituiscono oneri deducibili almeno ai fini dell’Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche. In verità l’impresa si troverà a pagare un costo del debito reale pari a Rdn (1 – Tc) = Rdr. Per approfondimenti sull’impatto della 139 incidenza dei mezzi propri, E / (D + E), e delle fonti di debito D / (D + E) sulla struttura finanziaria. Per le ragioni illustrate sopra il costo del capitale è tendenzialmente inferiore al costo del capitale netto. Ciò è dovuto al minore rischio a cui sono sottoposti i creditori dell’impresa in quanto essi hanno un privilegio sui flussi di cassa rispetto agli azionisti e allo Stato. Il minor rischio giustifica un minor rendimento richiesto, ciò porta rdr a essere sistematicamente inferiore a re e quindi Wacc a essere minore o uguale a re. Implicitamente abbiamo enunciato una relazione di tipo crescente che lega il rischio al rendimento di un titolo. Secondo questa relazione per sopportare rischi maggiori l’investitore razionale richiederà rendimenti più alti e viceversa. Il costo del capitale azionario nella valutazione equity-side. La seconda configurazione di tasso di attualizzazione impiegata nella determinazione del valore del capitale proprio di un’impresa è quella del costo del capitale azionario (ke o re). Tale costo è stimato servendosi di alcuni modelli creati dagli studiosi fin dagli anni Sessanta. Questi studiano la relazione rischiorendimento e sono conosciuti con gli acronimi di CAPM (Capital Asset Pricing Model, Sharpe 1964, Lintner 1965) e APM (Arbitrage Pricing Model). Secondo Sharpe (1964) e Lintner (1965), nel CAPM, il costo del capitale azionario è legato al rischio sostenuto da una relazione lineare crescente che risponde alla seguente equazione: re = k e = rf + β ( rm − rf ) dove rf è il rendimento per i titoli privi di rischio (risk-free), il beta23 (β) è normativa fiscale sul valore del capitale si confrontino Modigliani F., Miller M. H. (1963), “Corporate Income Taxes and the Cost of Capital: A Correction”, American Economic Review, 53, 3; Miller M. H. (1977), “Debt and Taxes”, Journal of Finance, n. 32; Damodaran A. (2001), Finanza aziendale, Apogeo, Milano. 23 Nella sua misurazione più comune il Beta di un titolo può essere definito come il rapporto tra la covarianza del rendimento del titolo con il rendimento del mercato e la varianza dei rendimenti del mercato stesso. Formalizzando: Covim σ iσ m β= = Varm σ m2 Abbiamo già incontrato il Beta in occasione della presentazione degli strumetni comuni alla misurazione del rischio nel Capitolo 1. Adesso però la sua utilità risulta evidente nella stima della componente di costo del capitale proprio dell’impresa. La letteratura identifica tre metodi principali per la determinazione del Beta: il regression beta (quello presentato più sopra), il bottom-up beta (basato sulle grandezze fondamentali d’impresa e sulla leva finan- 140 l’indice di sensibilità del rendimento del singolo titolo alle variazioni del rendimento del mercato azionario nel suo complesso e (rm – rf) è il premio richiesto dall’investitore per l’impiego in azioni invece che in titoli non rischiosi. In altre parole il rendimento del capitale azionario sarà legato alla remunerazione del titolo privo di rischio, al premio per il maggior rischio connesso all’investimento nel portafoglio azionario (rischio sistematico) e anche al rischio specifico, operativo e finanziario, dell’impresa valutata. Conclusa anche la stima del tasso di attualizzazione, abbiamo adesso tutti gli elementi per individuare il valore dell’impresa e/o del suo capitale proprio. Sono stati scelti, infatti, i flussi da analizzare (FCFF vs. FCFE), sono stati stimati i flussi prospettici (quanto), ne è stata determinata la struttura temporale (quando). Abbiamo inoltre individuato il metodo per spostare i flussi nel tempo servendosi, ora del costo del capitale azionario ora di quello totale. Per quanto riguarda l’applicabilità del metodo, a prescindere dai limiti che abbiamo evidenziato nel corso di questo lungo paragrafo, il metodo finanziario resta quello a nostro avviso più adeguato per unire il rigore logico e metodologico delle applicazioni al pragmatismo delle informazioni che se ne traggono per la stima del valore intrinseco. 5.5. La valutazione delle operazioni di M&A. L’impatto delle sinergie sul valore intrinseco delle imprese coinvolte Il metodo finanziario costituisce, a oggi, il principale strumento di valutazione delle imprese sottoposte a operazioni di finanza straordinaria per le caratteristiche di modularità di applicazione che lo contraddistinguono. Grazie alla legge di conservazione del valore è possibile esprimere il valore del complesso originato dall’operazione in funzione: del valore intrinseco delle imprese coinvolte in una operazione di M&A e di quello creato dall’operazione. Wbidder + target = Wbidder + Wtarget + Wacq dove: • Wbidder + target = è il valore del complesso post-operazione di M&A; • Wbidder = è il valore stand-alone dell’impresa acquirente (bidder); ziaria e operativa della stessa); l’accounting beta (nel quale gli utili d’impresa sono inseriti in una regressione insieme a quelli ottenuti dalle imprese quotate o a realtà appartenenti allo stesso settore). Per una disamina esaustiva sul tema della determinazione del beta confronta fra tutti Caparrelli F. (1995), Il mercato azionario, McGraw-Hill, Milano; e Damodaran A. (2001), Finanza aziendale, Apogeo, Milano, pp. 49-158. 141 • • Wtarget = è il valore stand alone delle imprese acquisita (target); Wacq = è il valore generato con l’operazione di acquisizione. In dottrina (Massari 1998; Zanetti 2000) la stima del valore dell’operazione è effettuata servendosi degli strumenti per la valorizzazione degli investimenti. In quest’ottica l’operazione straordinaria è vista come un progetto di investimento indipendente capace di generare risultati in termini di flussi di cassa incrementali. Per questo si è soliti riferirsi al valore di acquisizione come alla sommatoria dei flussi di cassa incrementali generati a seguito dell’operazione di M&A sia dalla bidder che dalla target. Ricavando dalla precedente: Wacq = Wbidder + target – Wbidder – Wtarget Massari (1998, p. 164) cita tra i flussi incrementali originati con l’operazione: • flussi derivanti da fenomeni di collusione tra bidder e target postM&A; • flussi incrementali riferibili alla gestione più efficace di talune funzioni aziendali (principalmente basati su economie di scale e di scopo); • flussi incrementali riferibili allo sfruttamento di elementi di carattere incrementale. Si tratta di flussi incrementali originati dallo sfruttamento di economie di integrazione, di scala, o semplicemente attraverso la razionalizzazione del complesso organizzativo post-M&A. Nell’economia di questo scritto però l’acquisizione è vista come una operazione che incide profondamente sulle imprese che ne sono interessate andando a modificarne il valore intrinseco. Per questo motivo richiameremo la dottrina solo in quelle parti che riteniamo funzionali alla stima del valore intrinseco delle imprese coinvolte nella M&A e rinviamo invece a Massari e Zanetti (Zanetti 2000) per la trattazione teorica completa del valore delle acquisizioni e del prezzo di acquisizione. Il nuovo valore generato è alla base del calcolo del prezzo massimo sostenibile nell’acquisizione della target. Il prezzo massimo che il compratore sarà disposto a pagare per l’impresa target (Pmax_target) sarà quindi determinato da due componenti: il valore stand-alone dell’impresa (Wtarget) acquisita e quello generato dall’acquisizione (Wacq). Pmax target = Wtarget + Wacq Nella pratica il prezzo di acquisizione sarà determinato dalla forza re- 142 lativa di acquirente e venditore ed eventualmente dall’influenza esercitata dagli operatori professionale che prendono parte a titolo di consulenti all’operazione. L’operazione di stima del valore intrinseco delle imprese partecipanti alle operazioni di M&A è più complessa di quella di determinazione del prezzo di acquisizione a causa dell’incertezza nell’attribuzione del maggior valore creato dall’operazione alla bidder o alla target. Il problema non si pone nel caso in cui a seguito dell’operazione di acquisizione le due imprese si fondano dando luogo a un unico organismo che si apprezzerà dell’intero valore differenziale generato dall’operazione. Nel caso, però, le due imprese non decidano la fusione e comunque nel corso dell’operazione di acquisizione, gli analisti dovranno stimare il valore intrinseco della bidder e della target cercando di comprendere ad appannaggio di quale delle due imprese andrà il maggior valore creato. Numerosi studi empirici dimostrano che anche precedentemente all’annuncio formale dell’operazione il prezzo dell’impresa target aumenta. Ciò farebbe intendere che il maggior valore creato dalla M&A venga di fatto attribuito alla target tanto da far scindere gli elementi di valutazione in due parti: Wtarget post = Wtarget + x × Wacq dove: • Wtarget_post = è il valore intrinseco della target durante o dopo l’operazione di M&A; • Wtarget = è il valore iniziale della target; • x = è la quota di valore generato dall’acquisizione di cui usufruirà la target; • Wacq = è il valore generato con l’operazione. È tuttavia logico presupporre che alcuni vantaggi indiretti ricadano anche sulla bidder e che quindi il valore intrinseco di quest’ultima muti a seguito dell’operazione divenendo: Wbidder post = Wbidder + (1 – x) × Wacq dove: • Wtarget post = è il valore intriseco della bidder durante/dopo l’operazione di M&A; • Wbidder = è il valore iniziale della bidder; • (1 – x) = è la quota di valore generato dall’acquisizione di cui usufruirà la bidder; • Wacq = è il valore generato con l’operazione. 143 6. I metodi indiretti di valutazione del capitale economico delle imprese Nel corso degli ultimi anni si sono sviluppate alcune tecniche di stima del valore intrinseco dell’impresa basate sul valore di imprese terze, simili a quella oggetto di quotazione. Si tratta dei metodi di relative valuation (Damodaran 2002; Guatri e Bini 2001, 2002; Guatri 1998), impiegati intensamente alla fine degli anni Novanta per la valutazione di un numero crescente di imprese. In essi il valore dell’impresa è stimato attraverso un processo di comparazione con imprese simili quotate o con negoziazioni che hanno avuto per oggetto aziende simili. Figura 3 – I metodi di relative-valuation Metodi indiretti Criteri empirici Multipli di mercato Approccio delle società comparabili Approccio delle transazioni comparabili Fonte: nostra elaborazione Alcuni fattori esterni tra cui il boom di nuove tecnologie e l’istituzione di mercati regolamentati24, creati ad hoc per realtà imprenditoriali con alte potenzialità di sviluppo, hanno favorito la diffusione di questi metodi, che uniscono la praticità di calcolo al fatto che non necessitano di dati storici di mercato e fondamentali sull’impresa valutanda. Come già accennato nel corso del capitolo, questi metodi hanno trovato principale applicazione nell’ambito delle operazioni di finanza straordinaria, nei casi in cui i metodi tradizionali hanno mostrato limiti evidenti di determinazione del valore e, infine, come metodi di controllo di metodi diretti quali per esempio il DCF con il quale condividono i drivers di valore25. Infine molti operatori della finanza applicata (Livian 2000), 24 Borsa Italiana SpA, Regolamento dei mercati organizzati da Borsa Italiana SpA del 16 dicembre 2002 approvato dalla Consob con delibera n. 14032 del 15 aprile 2003; inoltre confronta l’art. 67 del D.lgs. 58/1998. 25 È possibile infatti ricavare da ogni singolo multiplo di mercato o degli utili la relazione con le grandezze fondamentali che sono alla base del calcolo del DCF. In particolare è possibile esprimere i multipli in funzione dei flussi di cassa, del saggio di crescita degli stessi e 144 prevalentemente investment bankers americani o londinesi, ne hanno abusato per risolvere il problema di indeterminabilità del valore per le imprese sprovviste di dati storici, e/o dalla formula di business non tradizionale. La principale ragione del successo resta, però, la facilità di utilizzo unita al fatto di essersi dimostrata utile strumento nelle fasi di valutazione legate a operazioni di Leverage Buy Out (LBO) o Management Buy Out (MBO)26 (Kaplan e Ruback 1995, 1996) e nel sanity check27 (Guatri e Bini 2002) operato da sponsor e global coordinator prima della definizione del prezzo di collocamento. Grazie alla relative valuation infatti è possibile stimare il prezzo massimo sostenibile da un investitore per sottoscrivere, in primo collocamento, le azioni di un’impresa. 6.1. I multipli di mercato e delle transazioni comparabili. Una definizione Per multiplo o moltiplicatore si intende il rapporto tra due grandezze di natura diversa: il prezzo di mercato del capitale o dell’impresa (Enterprise Value) al numeratore, e una grandezza fondamentale al denominatore. del tempo nel quale tali flussi si manifestano (tasso di attualizzazione Re o Wacc). Per la relazione tra multipli e fondamentali d’impresa si confronti: Damodaran A. (2002), Valutazione delle aziende, Apogeo, Milano. 26 Per Leverage Buy Out si intende una operazione di acquisizione di un’impresa target resa possibile da un ricorso accentuato alla leva finanziaria del soggetto acquirente. Per Management Buy Out si intende invece l’operazione di finanza straordinaria nella quale il management, assistito da finanziatori esterni o solo confidando sulla leva finanziaria di una newco appositamente costituita per l’operazione, assume il controllo dell’impresa target. Il management buy out può essere realizzato sia con risorse finanziarie proprie sia con mezzi di terzi. In questo ultimo caso si parla di MLBO. Per una disamina completa sull’argomento nella prospettiva manageriale si confrontino Wright M. (1994), Management buy-outs: Issues and Evidence, Dartmouth, Aldershot; e Wright M., Thompson S., Robbie K. (1992), “Venture Capital and Management Led-leverage Buy-out: A European Perspective”, Journal of Business Venturing, n. 7, pp. 47-71. Per la letteratura squisitamente finanziaria si vedano Kaplan S. N., Ruback R. S. (1995), “The Evaluation of Cash Flow Forecasts: An Empirical Analysis”, Journal of Finance, n. 50, pp. 1059-1093; e Kaplan S. N. (1989) “The Effects of Management Buyouts on Operating Performance and Value”, Journal of Financial Economics, n. 24, pp. 217-254. 27 Si tratta di una procedura applicata prevalentemente nell’ambito dei processi di valutazione per la quale si utilizzano un metodo principale, generalmente il DCF e uno o più metodi di controllo. In particolar modo nella quotazione di nuove azioni e nelle acquisizioni, strumento di controllo del metodo principale è spesso quello dei multipli, poiché esso permette di associare a una valutazione totalmente interna, come quella del DCF, una mista con valori di mercato e fondamentali. Nella quotazione il sanity check viene eseguito immediatamente prima della fissazione definitiva del prezzo di emissione al fine di stimare qual è il prezzo massimo sostenibile dal mercato, in funzione delle caratteristiche di congiunturali, per l’impresa che viene proposta. 145 L’applicabilità del metodo dei multipli si fonda sull’ipotesi che i rapporti calcolati su imprese selezionate in un determinato campione omogeneo siano adeguati anche all’impresa oggetto di valutazione. In letteratura (Guatri e Bini 2002) si distinguono due principali metodi di determinazione dei prezzi probabili secondo la teoria della relative valuation: • il metodo dei multipli di mercato; • il metodo dei “criteri empirici”. In questo paragrafo ci occuperemo solamente del primo e lo faremo distinguendo i seguenti metodi di calcolo: • l’approccio delle società comparabili; • l’approccio delle transazioni comparabili. Una scelta così restrittiva nell’esposizione è giustificata dall’obiettivo di illustrare sommariamente quelle tecniche di valutazione che permettono la stima del valore intrinseco delle imprese, rinviamo pertanto a Guatri e Bini (2002) e Massari (1998) per l’esame dettagliato di ciò che non tratteremo di seguito. Al pari degli altri metodi di valutazione anche quello basato sui multipli può essere applicato in una prospettiva assets side o in una equity-side. Come vedremo nel par. 6.4, le valutazioni dell’impresa nel suo complesso utilizzeranno prevalentemente l’enterprise value rapportandolo alle grandezze fondamentali dell’impresa, mentre nel caso di valutazione del capitale proprio la variabile utilizzata sarà il prezzo dell’azione che sarà rapportato ora all’utile netto per azione, ora al cash flow per azione ecc. 6.2. Il Processo di calcolo di un multiplo generico Prima di procedere è necessario comprendere quale sia la logica implicita nell’uso dei multipli. Il processo con cui si arriva alla determinazione del relative value, attraverso l’applicazione a una grandezza d’impresa di un multiplo calcolato su imprese comparabili, è rappresentabile come segue (Damodaran 2002 e 2006; Massari 1998; Guatri e Bini 2002 e 2005): 1. si selezionano le società quotate, confrontabili con quella che stiamo valutando, di cui siano noti i prezzi di mercato (Pc); 2. si sceglie una variabile Xc (di solito una misura di performance: Utile Netto, Reddito Operativo, EBIT, EBITDA), che si ritiene probabile variabile esplicativa dei prezzi di mercato; 3. si calcola per ogni impresa del gruppo il rapporto tra il prezzo Pc e la grandezza Xc; 4. si determina il valore medio dei singoli rapporti all’interno del gruppo; 146 5. si rileva la grandezza (Xj) prescelta per il confronto tra valutanda e comparables; 6. si determina, supponendo che la relazione Pc / Xc valga anche per la società oggetto di stima, il valore dell’impresa moltiplicando il multiplo ottenuto dai comparables per la grandezza desunta dai dati dell’azienda oggetto di valutazione. È sufficiente, infatti, risolvere la seguente proporzione matematica per ottenere l’enterprise value o l’equity value dell’impresa oggetto di valutazione: Pc : Xc = Pj : Xj Il prezzo/enterprise value dell’impresa j si ottiene ricavando Pj dalla proporzione sopra citata, ovvero: Pj = Xj × Pc / Xc In questo modo è possibile calcolare ogni tipo di multiplo, provenga esso da società comparabili o da negoziazioni omogenee a quella per la quale si realizza la valutazione. 6.3. Come si scelgono le imprese comparabili Rifacendosi ai lavori pubblicato da Guatri e Bini (2002 e 2005), a cui peraltro rinviamo per maggiori dettagli, il grado di comparabilità viene determinato secondo i criteri illustrati di seguito28: • l’appartenenza allo stesso settore; • la dimensione; • il rischio finanziario (grado di indebitamento); • l’omogeneità effettiva, e non solo apparente, delle grandezze assunte a base dei multipli; • la governance; • la trasparenza; • lo stadio di vita dell’impresa; • i modelli di business ecc. È possibile notare come il settore sia considerato ancora il primo dei criteri con cui selezionare le imprese simili. Un’altra grandezza tradizionale, la dimensione, si affianca al settore per ridurre il numero delle imprese considerate 28 Per un’analisi approfondita dei criteri di confrontabilità si veda Guatri L., Bini M. (2002), I moltiplicatori nella valutazione delle aziende, Università Bocconi Editore, Milano, pp. 27 e ss. 147 comparabili. Altri criteri selezionano ulteriormente le imprese in base al profilo di rischio, alla struttura di governance e alla trasparenza nei confronti dei mercati finanziari. Queste ultime due caratteristiche sono complementari in quanto permettono di valutare imprese che hanno una reputazione simile tra gli operatori dei mercati. Non meno importanti risultano poi essere l’omogeneità nel ciclo di vita dell’impresa o la condivisione del modello di business. A proposito della rilevanza degli uni o degli altri elementi, è possibile notare come negli ultimi anni si sia accentuata l’attenzione agli aspetti legati ai mercati finanziari ovvero il profilo di rischio, la trasparenza e la governance, mentre siano divenuti meno rilevanti l’appartenenza allo stesso settore e la dimensione. Ciò è in parte dovuto alla rivoluzione informatica di fine millennio che ha reso possibile fornire beni e servizi fungibili con strutture aziendali e modelli di business molto diversi. 6.4. “Il valore dei propri simili”. La scelta del multiplo di mercato più adatto per il confronto con imprese simili I multipli o moltiplicatori necessari alla determinazione del valore sono scelti tra i molti disponibili innanzitutto in funzione dell’oggetto di valutazione. Essi possono essere infatti moltiplicatori adatti per la valutazione dell’impresa in un’ottica equity-side, oppure possono permettere la valutazione in una prospettiva assets-side. Nel primo caso al numeratore dei rapporti figurerà il prezzo di borsa o la capitalizzazione, In altre parole il valore corrente del capitale (Guatri e Bini 2002). Nel secondo caso al numeratore del rapporto troveremo l’investimento nell’attivo lordo (somma della capitalizzazione di borsa e del debito finanziario netto) ovvero quello che nel linguaggio finanziario è definito enterprise value29. La scelta del multiplo è influenzata anche dalla rilevanza nell’attività dell’impresa di alcune variabili fondamentali piuttosto che di altre. Gli studiosi (Guatri e Bini 2002 e 2005; Damodaran 2002 e 2006) distinguono generalmente tre o quattro gruppi di rapporti proprio in funzione degli aspetti fondamentali che ogni gruppo di multipli mette in rilievo: • multipli degli utili; • multipli del valore di libro o di rimpiazzo; 29 Come ricordano Guatri L., Bini M. (2002), I moltiplicatori nella valutazione delle aziende, Università Bocconi Editore, Milano, pp. 84 e ss., non esiste uniformità di vedute circa la definizione di enterprise value ed equity value (prezzo). Per il primo si contano quattro diverse configurazioni di calcolo, il secondo è stimato oltre che dal prezzo di mercato, da altre due variabili. 148 • • multipli dei ricavi; multipli specifici di settore. Ognuno di questi gruppi permette la valutazione di imprese dalle caratteristiche fondamentali implicite diverse. Per esempio si utilizzerà un multiplo degli utili come il P/E quando l’impresa di cui si vuole stimare il valore ha nel pay out, nel saggio di crescita (g) nel rendimento per l’azionista (Re) i principali drivers per il confronto con le comparables. La scelta delle imprese comparables è fortemente influenzata dalle variabili fondamentali che restano latenti in ognuno dei moltiplicatori. Ecco perché quando gli aspetti caratterizzanti dell’impresa da valutare sono i ricavi delle vendite sarà possibile misurare il valore della stessa misurando l’EV/sales, e ciò sulla base di variabili latenti quali: il ROS, la tassazione societaria tc, il costo medio ponderato del capitale (Wacc) e le variazioni del circolante. Analogamente è possibile scomporre qualsiasi multiplo per verificarne il rapporto con le grandezze fondamentali rilevanti per la valorizzazione dell’impresa. Un’avvertenza è opportuna: essendo basata prevalentemente sui prezzi di mercato di aziende comparabili, l’efficacia dei metodi in oggetto è fortemente influenzata dal grado di efficienza del mercato finanziario all’interno del quale i prezzi si formano. In occasione dell’elencazione dei limiti del metodo torneremo sull’argomento. Di seguito presentiamo succintamente i multipli più utilizzati e conosciuti in dottrina e nella pratica. Il multiplo price/earning. Al gruppo dei multipli degli utili appartiene il multiplo Price/Earning, o P/E, sicuramente il rapporto più “usato e abusato” nella valutazione relativa. Esso permette di stimare il valore di un’impresa tenendo in considerazione gli aspetti di crescita, delle politiche di dividendo e del rischio d’impresa. Esso è determinato dal rapporto tra il prezzo di mercato di un titolo e l’utile per azione. Indirettamente il P/E esprime il cut-off period di un investimento azionario, in quanto il risultato può essere interpretato come il numero di anni necessari a recuperare l’importo impiegato nell’attività valutata. Premesso che il prezzo teorico di mercato di una attività finanziaria è determinabile attraverso l’attualizzazione dei flussi di cassa ritraibili dal titolo come azionista della società, ovvero algebricamente e nella forma più sintetica del modello di Gordon: 149 dove: Po è il prezzo di mercato dell’azione al tempo zero; DPSt è il dividendo per azione distribuito nel periodo t; re è il tasso di attualizzazione che, come abbiamo visto nella valutazione con il metodo finanziario, deve essere pari al costo del capitale netto. In ipotesi di assenza di arbitraggio, tale prezzo teorico corrisponde a quello applicato nelle negoziazioni, il prezzo effettivo di mercato. Premesso ancora che il denominatore (E) è costituito dalla grandezza denominata Earning per Share (EPS), l’utile netto per azione, possiamo rilevare che il valore del P/E dipende dal modello di crescita dei dividendi e in particolare: • in caso di assenza di crescita, il multiplo P/E corrisponde al reciproco del costo del capitale di rischio per l’impresa; • in presenza di opportunità di crescita, la formula sarà invece: P Payout(1 + g ) = E re − g Osservando questa uguaglianza e cercando di giustificare un valore anomalo di un’impresa rispetto alle altre, esso può dipendere dal fattore g, cioè dalla crescita attesa di utili e dividendi, dal pay-out, ossia dal tasso di distribuzione degli utili, oppure dal costo del capitale azionario re. Se, nell’ambito di un’operazione di quotazione o di negoziazione si ritengono importanti le politiche di pay-out, il saggio di crescita del dividendo e il rischio, misurato da re, sarà adeguato valutare l’impresa servendosi di questo multipli degli utili. Nel confronto con l’indice medio dei comparables, il P/E di un’impresa permette la valutazione delle capacità del manager finanziario della stessa. La valutazione sarà positiva quando le azioni della sua azienda sono vendute a un rapporto prezzo/utili maggiore di quello dei comparables. In questo caso infatti gli investitori riterranno che la società presenti opportunità di crescita maggiori della media o che distribuisca maggiori quote di ricchezza creata. Tuttavia il P/E può essere alto anche a causa di utili molto bassi; al limite, una società che in un determinato periodo non ha utili (EPS = 0), presenterà un rapporto P/E infinito. La duplice, e per alcuni versi contrapposta, interpretazione del perché il P/E di un’impresa è superiore a quello medio dei comparables, permette di evidenziare un chiaro limite nel suo utilizzo, quello di una interpretazione non univoca delle ragioni di tale diversità e, nel caso limite, addirittura dell’impossibilità di applicazione a imprese in fase di start-up e/o di imprese in perdita. 150 • • • Altri limiti importanti30 nella stima del P/E sono relativi: all’omogenea individuazione del numero delle azioni emesse (esistenza di piani stock options o altri derivati che possano far variare il numero totale delle azioni emesse); al fatto che gli utili per azione dipendono dal metodo di contabilizzazione delle acquisizioni (pooling/purchase). Per cui imprese che hanno realizzato acquisizioni e le hanno contabilizzate in modo non omogeneo introducono elementi di errore nella determinazione del multiplo medio; al non omogeneo trattamento dei costi capitalizzati (fra tutti la R&D) che modificano sostanzialmente i risultati netti soprattutto di imprese in fase di crescita e/o ad alta intensità di intangibles. Il multiplo EV/EBIT e la valutazione asset-side. L’omologo del P/E nella valutazione dell’impresa nel suo complesso è il mutiplo EV/EBIT (per la verità talvolta il P/E si contrappone al più ampio EV/EBITDA). Il moltiplicatore esprime il rapporto tra il valore del capitale operativo dell’impresa (Enterprise Value, EV) e il reddito operativo prima degli interessi passivi e delle tasse (Earning Before Interest and Tax, EBIT). Implicitamente esso indica il moltiplicatore da applicare al reddito industriale puro per ottenere il valore corrente dell’azienda. L’utilizzo del multiplo può generare risultati non attendibili nel caso in cui l’impresa da valutare sia significativamente diversa dai comparables nei rapporti di composizione della struttura finanziaria o goda di un trattamento fiscale speciale e diverso dalle imprese prescelte per il calcolo dell’indice medio. In ipotesi di crescita zero, l’EBIT misura il flusso di cassa della gestione operativa. Infatti, si può assumere che gli ammortamenti tendano a uguagliare gli investimenti di rinnovo e che non si verifichino variazioni del capitale circolante commerciale. Con queste ipotesi possiamo scrivere la seguente espressione: EV = EBIT (1 − tc ) Wacc dove tc è l’aliquota fiscale mentre le altre variabili sono già note. Per ottenere il multiplo analizzato sarà sufficiente dividere entrambi i membri per EBIT, ottenendo: 1 − tc EV = EBIT Wacc 30 Per un approfondimento si confronti: Damodaran A. (2002), Valutazione delle aziende, Apogeo, Milano, pp. 233 e ss. 151 Dall’espressione sopra riportata si evince che, a parità di aliquota fiscale, le differenze dei valori assunti dal multiplo EV/EBIT dipendono dal costo medio ponderato del capitale inserito al denominatore del rapporto. Nel caso si assuma che il rischio operativo sia uniforme, le differenze tra i valori del multiplo dovrebbero riflettere esclusivamente i livelli di rischio finanziario, ossia i diversi gradi di indebitamento dell’impresa. In presenza di crescita la formula si complica molto per accogliere g e altre variabili legate alla crescita di alcune grandezze aziendali. L’utilizzo di questo indice nella valutazione pre-quotazione o in sede di acquisizione è consigliabile quando la struttura finanziaria, il trattamento fiscale dell’impresa, il saggio di crescita dei dividendi e le variazioni del capitale circolante sono variabili importanti nella determinazione del valore dell’impresa. Una variante all’EV/EBIT è quella costituita dal EV/EBITDA. Quest’ultimo, forse più utilizzato del precedente, è determinato dal rapporto tra i valori di mercato di capitale proprio e debito al netto della liquidità (EV) e l’Earning Before Interests Tax Depreciation and Amortization (EBITDA). Le liquidità vengono sottratte dal numeratore poiché nel calcolo dell’EBITDA al denominatore non figurano gli interessi attivi da esse generate. Il multiplo Price/Book Value (P/BV). Al gruppo dei multipli del valore di libro o di rimpiazzo appartiene un moltiplicatore conosciuto come Market to Book Value (patrimonio netto) o Price to book value. Tale multiplo è il rapporto tra capitalizzazione di borsa dell’impresa (Prezzo × Numero delle azioni emesse) e il valore di libro del patrimonio netto. Esso viene utilizzato nella valutazione delle imprese nelle quali il contributo degli intangibles al valore totale dell’impresa è alto. Infatti l’identificazione del multiplo medio per i comparables e poi il confronto con l’indice della società valutata permette di interpretare eventuali diversità in funzione di una maggiore redditività netta dell’impresa, oppure di una minore onerosità del capitale azionario o di comprendere la temporanea sopra-sottovaluzione degli assets d’impresa. Infatti se il rapporto è inferiore a 1, il multiplo indica lo sconto che l’investitore ottiene nell’investire sul titolo; se è maggiore di 1 indica invece il premio che l’investitore paga per acquistare un titolo della società. Il multiplo EV/Sales. Se volessimo valutare l’impresa servendosi di un moltiplicatore dei ricavi potremmo utilizzare il moltiplicatore EV/sales. Esso vuole stimare il valore d’impresa partendo dalla quota di mercato della società oggetto di valutazione. 152 In assenza di crescita l’indice sarà: ROS × (1 − tc ) EV = Sales Wacc In questo modo il risultato dipenderà direttamente dalla redditività sulle vendite (ROS), dalla tassazione societaria (tc) e dal costo medio ponderato del capitale (Wacc). In presenza di crescita sarà invece rappresentato dall’uguaglianza che segue. 1 ΔCC ROS × (1 − tc ) EV = − Sales − Sales Sales Wacc − g Wacc − g Wacc − g Il rapporto EV/Sales è di uso frequente tra gli operatori poiché è difficilmente negativo, in quanto calcolato sulla più ampia grandezza del conto economico. Questa caratteristica ne permette l’utilizzazione anche per la valutazione di imprese in crisi o in ristrutturazione, o che al contrario si trovano nelle fasi di start-up. Inoltre il rapporto non risente, al contrario degli indici presentati finora, di eventuali manipolazioni contabili sugli ammortamenti e sulle rimanenze. 6.5. I multipli delle transazioni di imprese simili. Il valore d’impresa e i multipli impliciti Il secondo approccio utilizzabile nella stima del valore intrinseco di un’impresa con il metodo dei multipli è quello delle transazioni comparabili o deal multiples. In questo caso il valore dell’impresa viene stimato attraverso quello negoziato, in occasione di operazioni di finanza straordinaria, tra compratori e venditori di imprese simili a quella oggetto di valutazione. Operativamente il metodo non si discosta molto dal precedente. Infatti è necessario prima individuare le caratteristiche dell’impresa e le grandezze fondamentali che meglio ne descrivono il valore (drivers di valore). Una volta stabilito quale multiplo esprime al meglio queste caratteristiche è necessario ricavare il multiplo implicito negoziato in ognuna delle transazioni di imprese comparabili. Per esempio nella valutazione di un’impresa del settore energia ricaviamo il EV/Megawatt. Se l’entrerprise value dell’impresa venduta era 1,2 Mil €€ e il numero dei megawatt di produzione 153 dell’impresa era 120.000 megawatt di fatto la transazione era avvenuta con un multiplo EV/Megawatt pari a 10, ovvero a 10 €€ di valore per Megawatt di potenza disponibile. Calcolando il multiplo implicito e facendone la media è possibile ottenere il multiplo medio delle transazioni che hanno avuto per oggetto imprese simili. Moltiplicando quest’ultimo per il potenziale di megawatt prodotti dall’impresa oggetto di valutazione otterremo il suo enterprise value. L’utilizzo di alcuni dei multipli, principalmente quelli degli utili impliciti nelle transazioni di imprese, è fortemente osteggiato dalla dottrina in considerazione del fatto che essi risentono, come affermano Guatri e Bini (2002), di alcuni fattori esogeni all’impresa quali: la contingenza di mercato finanziario al momento della transazione, la modalità di negoziazione in borsa o fuori borsa, con titoli o in contanti. Anche premi di maggioranza e sinergie bidder-target possono influire sul prezzo finale e quindi rendere quest’ultimo molto lontano dal valore intrinseco stimabile dai fondamentali. Quanto detto fa in modo che, il più delle volte, i prezzi delle transazioni siano statisticamente indipendenti dai risultati (utili e FC ecc.) conseguiti dalle imprese oggetto di valutazione e anche di quelle inserite nel campione delle imprese comparabili, con grave danno all’attendibilità della stima. Questa circostanza non si verifica, però, se i multipli delle negoziazioni comparabili sono costruiti con indicatori che esprimono la “rarità” di alcuni assets disponibili alle imprese; per esempio citiamo: la raccolta di una banca, le camere di una struttura alberghiera, il portafoglio clienti di un’impresa di servizi. Guatri e Bini (2002) definiscono queste attività strategiche core assets e affermano che: “I multipli fondati su prezzi desunti da transazioni comparabili non dovrebbero assumere a denominatore misure di performance reddituali, ma misure di struttura: quali misure di capacità (per esempio megawatt per un’impresa elettrica) o di top line di conto economico (fatturato ecc.) o patrimoniale (portafoglio premi per un’assicurazione)” (Guatri e Bini 2002b, p. 373). Alla luce di quanto detto l’applicazione dei multipli costruiti seguendo l’approccio delle transazioni comparabili introduce elementi fortemente problematici nella valutazione e, spesso, finisce per renderne impossibile l’applicazione anche come metodo di controllo. 6.6. Vantaggi e svantaggi nell’utilizzo del metodo dei multipli Volendo tracciare un bilancio fra elementi a favore e contrari all’applicazione del metodo dei multipli, possiamo affermare quanto segue. 154 Tra gli elementi che ne consigliano l’applicazione rileviamo il fatto che questi: • forniscono grandezze di riferimento di immediato utilizzo e di rilievo pratico, soprattutto nel caso vi sia una serie consistente di dati disponibili per il confronto e quindi la possibilità di effettuare paragoni immediati anche tra aziende appartenenti a diversi settori; • permettono di ovviare a situazioni di scarsa informativa societaria o di alta variabilità dei flussi futuri; • sono applicabili anche ad aziende sprovviste di concorrenti diretti nel settore, a condizione che vi siano dei comparables; Tra gli elementi che ne limitano l’applicazione possiamo citare: • l’inefficienza temporanea (anomalia) o permanente di un mercato che può rendere il prezzo misura inaffidabile del valore intrinseco di un’impresa; • il fatto che il denominatore del multiplo è calcolato su grandezze spesso desunte dal bilancio d’esercizio o infrannuale, mentre il numeratore è un prezzo rilevato con cadenza giornaliera. Ne consegue una mancanza di omogeneità fra numeratore e denominatore. Tale circostanza costituisce elemento di potenziale errore nel calcolo; • la difficoltà e la discrezionalità nella selezione delle imprese comparabili. Esiste infatti un trade-off tra numerosità del campione e omogeneità che costituisce elemento di possibile deviazione dei valori del multiplo. Concludendo vogliamo sottolineare come da quanto detto nel corso di questo lavoro emerge chiaramente la varietà e variabilità degli strumenti per la stima del valore d’impresa. Ciò sottolinea la natura ineliminabilmente soggettiva dell’attività del valutatore, un’attività comunque discrezionale a prescindere dal rispetto dei principi di razionalità, dimostrabilità, neutralità e stabilità della valutazione. Per superare le difficoltà l’incaricato della stima dovrà applicare le proprie conoscenze e professionalità in modo da restituire un valore il più coerente possibile con le caratteristiche intrinseche dell’impresa. Così facendo egli si adoperà per raggiungere quel true-value che costituisce l’unico, astratto, valore certo dell’organismo chiamato impresa. 155 4. LA LEVA FISCALE NELLA VALUTAZIONE DELLA STRUTTURA FINANZIARIA E DEL RISCHIO DI DEFAULT di Valentina Cioli 1. Premessa La capacità di un’impresa di creare valore economico dipende non solo dall’allocazione efficiente degli investimenti e dall’identificazione dei segmenti di mercato strategicamente più rilevanti, ma anche da un attento governo della propria struttura finanziaria. In effetti, come è già stato ampiamente discusso nei capitoli precedenti, le decisioni finanziarie sono generalmente tese alla ricerca di una combinazione ottimale tra investimenti e finanziamenti in grado di aumentare il valore dell’impresa sul mercato. In particolare, mentre sul fronte degli investimenti si cercherà di individuare le scelte strategiche più idonee a conseguire quote di mercato e vantaggi competitivi durevoli, sul fronte dei finanziamenti l’obiettivo principale sarà quello di creare un mix di mezzi propri e mezzi di terzi in grado di coprire gli investimenti effettuati e contemporaneamente di assicurare uno sviluppo sostenibile dell’impresa, nel rispetto dell’obiettivo di minimizzare il costo del capitale aziendale (Wacc). Se da un lato, quindi, il problema principale del management è quello di individuare gli investimenti più “redditizi” e più “capaci” di creare valore, dall’altro è importante, ai fini della sopravvivenza dell’impresa stessa, che sia predisposta una struttura finanziaria capace di non deprimere eccessivamente i risultati aziendali a causa degli oneri finanziari e consona a trarre massimo vantaggio dalle possibilità di crescita attraverso il ricorso al solo finanziamento con mezzi propri. Ne consegue che uno dei problemi principali affrontati negli studi di Finanza Aziendale è quello dell’individuazione della struttura finanziaria ottimale di ciascuna realtà di impresa, struttura che risulta strettamente correlata a numerosi fattori, sia endogeni che esogeni, con particolare riferimento al contesto istituzionale all’interno del quale ciascuna impresa opera. Con il termine contesto istituzionale, vogliamo riferirci principalmente 157 al panorama normativo esistente, e in particolare alla regolamentazione, soprattutto di carattere tributario, che può influire sulle decisioni di copertura dei fabbisogni finanziari. Il presente capitolo affronta il tema della progettazione della struttura finanziaria ottimale alla luce dell’impatto della variabile fiscale sul valore dell’impresa. In effetti, come dimostrato da numerosi studiosi a partire da Modigliani e Miller, la deducibilità degli oneri finanziari diventa, per l’impresa che li sostiene, una leva di valore in termini dello scudo fiscale a essi collegato. Tuttavia, la presenza del beneficio fiscale non dovrebbe indurre l’imprenditore a indebitarsi oltre livelli ritenuti economicamente vantaggiosi e capaci di garantire una sufficiente elasticità finanziaria. Infatti, come dimostrato anche dai teorici del trade off1, esiste un limite all’indebitamento rappresentato dai costi del dissesto e dalla probabilità di fallimento che aumentano al crescere del rapporto di leva finanziaria per la maggiore percezione del rischio di insolvenza dell’impresa finanziata. Di conseguenza questo scritto si lega ai precedenti in quanto analizza l’impatto della variabile fiscale sulle scelte di struttura finanziaria e sulla determinazione del livello ottimale di indebitamento dell’impresa, ma se ne differenzia in quanto non tratta il tema della rischiosità dell’impresa o della sua gestione, ma esamina piuttosto le implicazioni del rischio finanziario sulle scelte di finanziamento, anche alla luce della specifica politica fiscale del Paese in cui l’impresa opera. In particolare verranno esaminati gli effetti che le innovazioni fiscali dell’ultimo decennio producono sulle politiche finanziarie delle imprese, prevedendo che esista una probabilità di fallimento positiva e che sia possibile quantificare i costi del dissesto sia in termini di maggiore costo del capitale di terzi (costi diretti), sia in termini di perdita di valore aziendale (costi indiretti). Prima di approfondire nello specifico l’analisi dell’attuale disciplina fiscale esamineremo brevemente le differenti posizioni della dottrina sul rapporto ottimale che dovrebbe legare debito e capitale proprio, tenuto conto sia del rischio finanziario legato a un eccessivo indebitamento, sia dei vantaggi del debito visto come la fonte di finanziamento meno onerosa. In effetti, fin dai primi studi di finanza aziendale, l’individuazione di un rapporto ottimale tra mezzi propri e mezzi di terzi ha interessato numerosi autori, che hanno formulato tesi differenti anche alla luce di specifici modelli di struttura tributaria. 1 Myers S. C. (1974), “Interactions of Corporate Financing and Investment Decisions. Implications for Capital Budgeting”, Journal of Finance, vol. 29, e scritti successivi. 158 Modigliani e Miller nel saggio del 19582 ipotizzano un mondo senza imposte e un mercato perfettamente efficiente con assenza di asimmetrie informative e di costi di transazione. In questo scenario la struttura finanziaria adottata, fatta propria l’assunzione di costanza degli investimenti, non ha impatto sul valore dell’impresa e il rischio finanziario dell’impresa, nella sua componente di rischio di default, viene annullato dall’impossibilità di fallimento e dalla certezza dell’informazione. In un saggio successivo del 19633, gli autori, pur mantenendo l’ipotesi di assenza di default risk, modificano la loro impostazione iniziale sull’irrilevanza della struttura finanziaria anche in presenza di imposte sul reddito prodotto e di oneri finanziari deducibili, arrivando a determinare il valore dello scudo fiscale, con inevitabili e considerevoli ripercussioni sulla scelta tra capitale proprio e capitale di debito. Infatti il ricorso all’indebitamento diviene tanto più conveniente quanto maggiore è la quota deducibile degli oneri finanziari e quanto più elevata è l’aliquota fiscale, mentre il vantaggio fiscale del debito si annulla in presenza di oneri fiscalmente non deducibili. In tal caso, la permanenza dell’ipotesi di non fallibilità e di certezza informativa annulla il rischio finanziario, fissando il costo del debito al tasso privo di rischio. Ciò porta all’affermazione, valida solo a livello teorico, che la struttura finanziaria ottimale è rappresentata da investimenti finanziati solo con debito. Nella realtà, invece, in presenza di rischio di default, il ricorso al capitale di terzi comporta, per l’impresa, un costo crescente all’aumentare del rapporto di leva finanziaria rappresentato dal confronto tra l’ammontare di debito e l’ammontare del patrimonio netto (D/E). Tale onere deve essere coperto dal risultato della gestione operativa, per cui il beneficio fiscale della deducibilità degli oneri finanziari cessa nel momento in cui non esiste più un imponibile fiscale. Ne consegue che il meccanismo della leva finanziaria, nonché i vantaggi dello “scudo fiscale” del debito vengono meno in presenza di una perdita di esercizio correlata a situazioni di squilibrio finanziario4. 2 Modigliani F., Miller M. H. (1958), “The Cost of Capital, Corporation Finance and the Theory of Investment”, American Economic Review, 48, 3, pp. 261-297. 3 Modigliani F., Miller M. H. (1963), “Corporate Income Taxes and the Cost of Capital: A Correction”, American Economic Review, 53, 3, pp. 433-443. 4 L’operatività della leva finanziaria deve essere valutata tenendo conto anche dell’aumento del rischio che comporta una politica finanziaria aggressiva, favorevole a un elevato livello di indebitamento. Lo sfruttamento dell’effetto leva comporta un aumento del rischio finanziario degli investitori che può innalzare l’onerosità del capitale di debito e ridurre il valore globale del beneficio fiscale. Insieme al rischio finanziario il manager deve valutare anche il rischio economico legato alla variabilità dei risultati, per cui di fronte a mercati instabili o a 159 In generale, dall’analisi del comportamento delle imprese alla luce della specifica politica fiscale nazionale è emerso che, nella maggior parte dei casi, specie in passato, il livello di indebitamento ritenuto ottimale per la massimizzazione del valore dell’impresa è risultato piuttosto elevato e quasi sempre superiore all’ammontare dei mezzi propri. Ciò era imputabile a un corpus normativo che prevedeva da un lato la tassazione del patrimonio dell’impresa e, dall’altro, la piena deducibilità degli oneri finanziari, rendendo più conveniente il ricorso al credito rispetto ai mezzi propri. Si favoriva, cioè, un sistema finanziario di tipo banco-centrico fondato più sugli intermediari finanziari che sull’approvvigionamento diretto sui mercati mobiliari. Di conseguenza le imprese italiane sono attualmente fortemente sottocapitalizzate e proprio per la bassa capitalizzazione spesso sono state limitate la crescita e la competitività, specie sul piano dell’internazionalizzazione e dello sviluppo tecnologico. Questa situazione ha fatto emergere in modo rilevante il problema della relazione tra scudo fiscale e rischio finanziario, legame già ampiamente sottolineato da tutti i teorici del trade-off. Nel presente lavoro esamineremo come in Italia dopo il 1997 sia stata portata avanti una politica di profondi cambiamenti sul piano fiscale che hanno avuto un impatto rilevante sulle scelte e sulle strategie aziendali, nonché sui calcoli di convenienza economica legati all’uso di numerosi strumenti e tecniche di ottimizzazione finanziaria e fiscale. In particolare verranno esaminate le novità tributarie che hanno influito più direttamente, anche se per vie diverse, sulle scelte di struttura finanziaria, accennando allo strumento della dual income tax (Dit), già in vigore dal 1997 e adesso abolita, per soffermarsi sull’operatività dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), ancora in vigore, e concludere con le recenti disposizioni che limitano la deducibilità degli oneri finanziari in presenza di indici di copertura inferiori a dei benchmark prestabiliti, ritenuti capaci di garantire la sopravvivenza e lo sviluppo dell’impresa. 2. La posizione della dottrina sul rapporto debito/capitale proprio Sin dal 1952 con i primi scritti di Durand e dei tradizionalisti e poi con i lavori di Modigliani e Miller del 1958 e del 1963, gli studiosi si sono occupati del tema della creazione di valore nelle scelte di finanziamento e della ricerca della struttura finanziaria ottimale. Anche i contributi di Myers (1974) e di Miller (1977) hanno fatto luce imprese con strutture di costi più rigide sarebbe preferibile ricorrere a una struttura finanziaria caratterizzata da una maggiore presenza di mezzi propri. 160 sul rapporto tra fonti di finanziamento e valore introducendo i concetti di beneficio fiscale del debito e di costi del dissesto. In tali studi viene così evidenziato il legame tra finanziamenti di impresa, valore e ambiente all’interno del quale la stessa opera. In ciascuno dei lavori esaminati si parte dalla consapevolezza che le decisioni di finanziamento possono essere analizzate con riferimento a tre specifici contesti: • l’impresa, estrapolata dall’ambiente in cui opera, senza considerare quindi alcun tipo di sinergie interne ed esterne; • l’impresa nei mercati, intesi come luogo di scambio, di beni materiali e di beni capitali, facendo particolare riferimento al luogo in cui quest’ultima reperisce mezzi finanziari, ovvero al mercato finanziario; • l’impresa come parte di un ambiente economico e sociale complesso e mutevole, considerando tutti gli stakeholders che gravitano intorno a essa e anche l’insieme di norme più o meno codificate che regolano i rapporti tra detti soggetti e che vanno sotto il nome di corporate governance. Indipendentemente dal contesto di analisi la domanda di ricerca rimane comunque identica e sintetizzabile nei seguenti aspetti: • verificare l’esistenza di una particolare combinazione di fonti di finanziamento che, a parità di condizioni, risulti preferibile; • individuare i fattori che contribuiscono a determinare questa particolare combinazione di fonti di finanziamento. A oggi, grazie anche ai numerosi studi condotti sull’argomento, si può affermare che: • per ogni impresa esiste una struttura finanziaria ottimale specifica; • l’individuazione di questa struttura richiede la considerazione congiunta di numerosi fattori: risparmio fiscale, rischio finanziario, asimmetrie informative, esigenze di controllo, ruolo dei mercati finanziari, i cui effetti sulla scelta del rapporto di indebitamento sono articolati e spesso contrapposti. L’alternativa debt versus equity, ovvero la scelta tra la capitalizzazione di un’impresa contrapposta al finanziamento in senso proprio con l’obiettivo della massimizzazione del valore dell’impresa, rappresenta pertanto una fase importante della pianificazione finanziaria, direttamente collegata alla più complessa pianificazione strategica. Sin dalla metà degli anni Cinquanta, gli studiosi si sono chiesti se esistesse un nesso causale fra struttura finanziaria, percezione di rischio rilevata dai finanziatori e valore di mercato delle azioni di un’impresa indebitata. Tra i principali autori ricordiamo Modigliani e Miller (M&M) che, nel citato saggio del 1958, ipotizzano un mercato perfetto in un mondo privo di 161 imposte, rischio di default e in assenza di crescita degli investimenti e sulla base di queste ipotesi arrivano a formulare la ben nota proposizione che il valore di un’impresa è determinato solo dalle sue attività, ovvero dalle sue scelte di investimento (reali o finanziarie), mentre è irrilevante la forma di copertura finanziaria scelta per quegli investimenti. In effetti, date le ipotesi enunciate, un investitore che si trovasse di fronte due imprese con le medesime caratteristiche in termini di attivo patrimoniale, ma con struttura finanziaria differente, una delle quali totalmente finanziata con mezzi propri (unlevered) e l’altra, in parte finanziata con mezzi di terzi (levered), conseguirebbe lo stesso valore attuale complessivo sia investendo direttamente nell’impresa non indebitata, sia comprando, per lo stesso ammontare, titoli di capitale e titoli di credito (debito) dell’impresa levered. Ciò a dimostrazione del fatto che il valore è rappresentato dai flussi operativi generati dall’impresa e che in questa prospettiva non esiste una struttura finanziaria ottimale. Le conclusioni di M&M, invece, mutano nel 19635 quando gli studiosi esaminano gli effetti dell’introduzione della variabile fiscale e dei correlati scudi fiscali sugli oneri finanziari, che originano un valore incrementale rappresentato dal valore attuale dei risparmi di imposta. Tale premio di valore è infatti diretta conseguenza della possibilità di detrarre gli oneri finanziari dal reddito imponibile, riducendo conseguentemente il loro costo reale a vantaggio di una maggiore redditività netta dell’esercizio e di un minor costo del capitale aziendale. Limite a un indebitamento pari al 100% del valore delle fonti è tuttavia rappresentato dall’emergere della stima del rischio di default dell’impresa finanziata. La contrazione di nuovo debito avviene infatti a tassi crescenti, come conseguenza di un deterioramento progressivo del rating. Ciò comporta un decremento del valore dell’impresa poiché esso è stimato attualizzando gli FCFF operativi a un costo del capitale maggiore (conseguenza di tassi di interesse più elevati) e sottraendo dal valore unlevered il valore attuale dei costi del dissesto (funzione crescente della probabilità di default). Di conseguenza, la questione della struttura finanziaria ottimale deve essere affrontata considerando che le imprese, in presenza di oneri finanziari deducibili, possono godere di uno scudo fiscale legato al debito. Un eccessivo indebitamento tuttavia incrementa il rischio di default che è una componente del rischio finanziario. Nel par. 3, sebbene consapevoli della molteplicità dei fattori che incidono 5 Modigliani F., Miller M. H. (1963), “Corporate Income Taxes and the Cost of Capital: A Correction”, American Economic Review, 53, 3, pp. 433-443. 162 sulle scelte di struttura finanziaria, approfondiremo l’impatto combinato della variabile fiscale e dell’indebitamento sulla redditività del capitale proprio per verificare se esiste sempre un incentivo all’indebitamento. L’analisi sarà effettuata ipotizzando di operare in un mondo reale dove esiste rischio di fallimento e dove è possibile un comportamento opportunistico degli operatori. 3. La criticità della variabile fiscale nella determinazione della leva finanziaria In generale come si evince dalla tab. 1 il sistema tributario può esercitare molteplici interferenze nelle scelte aziendali, attraverso numerose direttrici che impattano su aree aziendali specifiche. Nell’esaminare la relazione esistente tra la variabile impositiva e la struttura finanziaria dell’impresa è necessario premettere che i costi e i benefici determinati da tale variabile devono essere considerati congiuntamente ai costi e benefici determinati da un insieme più ampio e articolato di elementi. Talune variabili, infatti, possono avere un effetto disincentivante nei confronti del ricorso all’indebitamento, come i costi del dissesto finanziario; mentre altre variabili, al contrario, possono aumentarne la convenienza. Limitando l’oggetto del nostro studio alle sole aliquote societarie6 si rileva che in presenza di imposte sul reddito di impresa, il valore di un’impresa levered cioè indebitata, equivale alla somma tra il valore di un’impresa unlevered e il valore attuale dei benefici fiscali derivanti dalla deducibilità degli oneri finanziari dal reddito imponibile. Conseguentemente una modifica nella forma della struttura finanziaria incide sul valore dell’impresa, come vi incide anche una modifica del grado di deducibilità fiscale degli oneri finanziari. In particolare il peso della variabile fiscale emerge analizzando la formula del costo medio ponderato del capitale, dalla quale è possibile estrapolare l’equazione della leva finanziaria sia in presenza sia in assenza di imposte. 6 In effetti se analizziamo anche le aliquote personali, a parità di aliquota societaria sugli utili realizzati dalla società, si determina: • un aumento del valore dello scudo fiscale del debito qualora l’aliquota di tassazione a livello personale dei dividendi sia superiore all’aliquota di tassazione personale degli interessi corrisposti dall’impresa; • una diminuzione del valore dello scudo fiscale, e quindi del vantaggio fiscale collegato al ricorso all’indebitamento qualora il livello di tassazione dei dividendi sia inferiore rispetto all’aliquota di tassazione degli interessi; cfr., Miller M. H. (1977), “Debt and Taxes”, Journal of Finance, n. 32. 163 Tabella 1 – L’influenza della normativa fiscale sulle scelte gestionali Contenuti della normativa fiscale Aree aziendali interessate Decisioni aziendali connesse Oneri fiscali su fattori produttivi e su output Logistica Produzione Produzione Localizzazione Incentivi alla produzione Agevolazioni all’occupazione Organizzazione Personale Livello di occupazione Finanza Politica dei dividendi o della distribuzione di utili Finanza Decisioni di finanziamento Finanza Decisioni di capital budgeting Riduzione del costo del lavoro Forme di lavoro alternative Imposizione sul capital gain Tassazione dividendi o utili distribuiti Tassazione riserve Agevolazioni per autofinanziamento Deducibilità oneri finanziari Finanziamenti agevolati Contributi in c/esercizio o in c/capitale Agevolazione investimenti Riduzione del costo del capitale Fonte: nostra elaborazione Secondo la nota formula del Wacc textbook il costo del capitale aziendale è pari a: E D Wacc = k e + k d (1 − T ) E+D E+D dove • ke = indica il rendimento atteso dai detentori del capitale di rischio; • ka = indica il rendimento delle attività in cui l’impresa ha investito; • kd = indica il costo dei mezzi di terzi che si esprime mediante il tasso di interesse passivo; • D = indica l’ammontare del debito contratto; • E = indica l’ammontare del capitale netto aziendale; • T = indica l’aliquota media di imposta sul reddito d’impresa. 164 In assenza di crescita, quando l’impresa non crea nuovo valore, il VAN dei progetti è 0 con la conseguenza che il TIR e il costo del capitale coincidono. In tal caso la formula precedente coincide con la formula del rendimento delle attività. E D Wacc = ra = re + rd (1 − T ) E+D E+D • • • re = indica il rendimento atteso dai detentori del capitale di rischio; ra = indica il rendimento delle attività in cui l’impresa ha investito; rd = indica il costo dei mezzi di terzi che si esprime mediante il tasso di interesse passivo Da questa ultima si ricava la formula della leva finanziaria7: Questa equazione può anche essere espressa mediante gli indici utilizzati per l’analisi finanziaria e in questo caso abbiamo: In cui se T > 0 abbiamo un risparmio di imposta sull’ammontare degli oneri finanziari sostenuti che hanno un costo percentuale al netto dei benefici fiscali pari a i × (1 – T). Tuttavia l’incremento del livello di debito deve essere pianificato alla luce della percezione di rischiosità finanziaria del finanziatore marginale. Infatti il nuovo debito potrebbe essere giudicato più rischioso e avere un costo i1 > i0. La formula della leva, sopra riportata può però subire alcune modificazioni in relazione allo specifico modello di prelievo tributario adottato e 7 Il termine leva finanziaria indica l’aumento della redditività del capitale proprio, rappresentata dal ROE al crescere del livello di indebitamenti (D) in presenza di un reddito operativo in grado di coprire gli oneri finanziari. Tale fenomeno deriva dalla natura dei finanziatori a titolo di capitale proprio che si configurano come residual clamers sui flussi dell’impresa e che sopportano quindi completamente sia i rischi operativi, sia i rischi finanziari di un eccessivo indebitamento. Secondo la relazione diretta tra rischio e rendimento consegue che tali soggetti richiederanno una remunerazione superiore per investire in un’impresa levered e questa tenderà a crescere all’aumentare del livello di debito, sempre che esista una copertura degli oneri finanziari. Infatti, in caso di mancata copertura anche gli stessi obbligazionisti non troveranno più un reddito operativo in grado di soddisfarli e l’impresa, se priva di nuove fonti finanziarie, si troverà in stato di default. 165 alle relative previsioni di deducibilità degli oneri finanziari. In particolare possiamo avere due casi limite: 1. Ipotesi di imposizione sul reddito di impresa e oneri finanziari indeducibili dall’imponibile: ROE =ROI (1 − T ) + [ ROI (1 − T ) − i ] D E In questo caso, l’imposta non riduce l’importo degli oneri finanziari sostenuti, ma soltanto la redditività netta, di conseguenza non esiste alcuno scudo fiscale e un aumento del tasso di indebitamento ha solo l’effetto di peggiorare il rischio finanziario dell’impresa. 2. Ipotesi di assenza di imposizione sul reddito di impresa, ovvero T = 0: ROE =ROI + D ( ROI − i ) E La redditività aziendale non è gravata dalla presenza del prelievo tributario, ma l’impresa sostiene completamente il peso degli oneri finanziari. Non si realizza alcuno “scudo fiscale”. Si tratta di una situazione migliore della precedente in termine di flussi di cassa residuali e di rischio finanziario, ma viene totalmente annullato l’incentivo fiscale all’indebitamento. Le stesse considerazioni espresse in termini analitici possono essere riassunte anche nella figura sottostante dalla quale emerge che la presenza delle imposte tende sempre ad abbattere il reddito degli azionisti rispetto a un sistema privo di imposte. Tuttavia la situazione individuata nell’ipotesi di indeducibilità degli oneri finanziari rende il ricorso all’indebitamento con il conseguente sostenimento degli oneri stessi molto più costoso che nel caso in cui siano completamente deducibili. Possiamo dire che in presenza di imposte e oneri finanziari deducibili il debito “costa meno” di quanto non avvenga in assenza di imposte o con oneri finanziari indeducibili; in termini più tecnici abbiamo un risparmio fiscale. Il costo degli oneri stessi, pari all’interesse sul capitale di debito, in realtà viene pagato solo per l’ammontare i × D (1 – T), per cui nel caso, semplificato, di applicazione della formula di rendita perpetua per la stima dei benefici fiscali derivanti dalla deducibilità degli interessi passivi avremo un valore attuale del risparmio fiscale sul costo del debito pari a T × D8. 8 Il valore T × D si ottiene applicando la formula di rendita perpetua al flusso di risparmio fiscale sugli oneri (T × i × D) che una volta diviso per i viene pari a T × D, ne consegue che il costo netto del debito in ipotesi di rendita perpetua sarà pari a [i × D (1 – T)] diviso per i, ovvero D (1 – T). 166 Figura 1 – Il rapporto tra ROE e grado di indebitamento in diversi scenari di deducibilità fiscale degli oneri finanziari ROE In assenza di imposte ROENoTax ROETax-Dedux ROE = ROI ROETax-Indedux ROE = ROI + (1 – t) Con imposte e oneri finanziari deducibili (ROI – i) Con imposte, ma oneri finanziari indeducibili (ROI – i) × (1 – T) (ROI × (1 – T) – i) D*/E* Rapporto di leva D/E Fonte: nostra elaborazione Questa situazione favorisce il ricorso ai capitali esterni piuttosto che ai mezzi propri fino al punto in cui gli oneri finanziari rimangono inferiori al reddito operativo. L’ipotesi in cui si prevede la presenza di oneri totalmente indeducibili annulla completamente il risparmio fiscale conseguente al sostenimento degli oneri finanziari, riducendo sensibilmente l’utilità del ricorso alla tecnica del leverage. In tal caso scomparirebbe del tutto il valore attuale del beneficio fiscale e anche l’operatività della leva finanziaria sarebbe ridotta, in quanto si avrebbe leva solo quando il reddito operativo al netto delle imposte ROI × (1 – T) fosse superiore al costo complessivo del debito. Il tutto con la conseguenza di accrescere la percezione di rischio finanziario per i nuovi finanziatori di un’impresa già sufficientemente indebitata, ricadendo nell’ambito delle obiezioni sollevate sia dai tradizionalisti sia dai sostenitori delle teorie del trade off o dell’ordine di scelta9. Di conseguenza, prima di esaminare l’impatto sulle decisioni finanzia9 Myers S. C. (1984), “The Capital Structure Puzzle”, Journal of Finance, 39, 3, pp. 572592; Baskin J. (1989), “An Empirical Investigation of the Pecking Order Hypothesis”, Financial Management, primavera, pp. 26-35. 167 rie delle imprese della normativa vigente, premesso che gli operatori razionali, destinatari delle nostre analisi, sono soggetti avversi al rischio, è necessario soffermarsi brevemente anche sul concetto di rischio e sulle sue determinanti in relazione alla stima del costo del debito. 4. Il rischio di default nella stima del costo del capitale di debito Riprendendo i concetti dei primi capitoli ricordiamo come i rischi finanziari siano originati dagli “scostamenti dei risultati effettivi dai risultati attesi a causa di cambiamenti nelle variabili finanziarie”. Il rischio di insolvenza o di default, legato a un eccessivo indebitamento, rappresenta una tipologia di rischio finanziario per l’impresa che si somma alla rischiosità del business e ne aumenta il costo del capitale. In effetti gli oneri finanziari sono un elemento di rigidità all’interno del conto economico perché devono trovare adeguata copertura nella redditività operativa. Ne consegue che spesso un alto livello di indebitamento, nonostante i vantaggi fiscali relativi, finisce per elevare la probabilità di insolvenza, cosa che interviene se l’impresa non riesce a fronteggiare nel lungo periodo le proprie obbligazioni, anche in presenza di business redditizi. Da ciò deriva anche l’impatto dell’indebitamento sulla liquidità aziendale; in quanto viene progressivamente ridotta la capacità di debito dell’impresa cui è collegata la stessa flessibilità finanziaria. Infatti il management generalmente accantona una riserva di liquidità sia per fronteggiare squilibri imprevisti tra flussi monetari in entrata e in uscita, sia per finanziare nuove opportunità di investimento, non programmate. Le imprese che sfruttano tutta la capacità di debito sostenibile, spesso spinte solo dai benefici fiscali, sono invece fortemente esposte alle fluttuazioni finanziarie e troveranno notevoli difficoltà a ottenere ulteriori finanziamenti in caso di necessità. Tutto ciò contribuisce ad aumentare la probabilità di insolvenza nota come probability of default che impatta direttamente sul costo del debito per il finanziato o sul rendimento richiesto sui capitali concessi a titolo di finanziamento. Di conseguenza, la mitigazione del rischio è diventata sempre più una variabile fondamentale nella gestione finanziaria; tanto che in ogni istituzione finanziaria gli analisti ritengono indispensabile un apposito ufficio di corporate risk management, deputato alla determinazione, al controllo e alla gestione delle esposizioni rischiose. Nell’economia del presente lavoro faremo essenzialmente riferimento al rischio di default dal lato del debitore in rapporto ai benefici fiscali go- 168 duti. Tale situazione come già sviluppato nel Capitolo 3 si riflette sul pricing del debito, specialmente dopo l’adozione delle disposizioni del Nuovo Accordo sul Capitale delle Banche (NAC) noto come Basilea 2 sulla base del quale dal 2007 le istituzioni finanziarie devono determinare il proprio requisito patrimoniale anche in funzione dell’esposizione al rischio di insolvenza del finanziato. Tale variabile viene, misurata sulla base di un rating10 che stima appunto la probabilità di fallimento del soggetto (PD) e la perdita attesa al momento del verificarsi dell’evento, nota come loss given default (LGD) e della quale abbiamo trattato nei capitoli precedenti. A ogni classe di rating corrisponde una diversa probabilità di fallimento e una più elevata PD si traduce in uno spread più elevato da aggiungere al tasso base, rappresentato dalla remunerazione di investimenti privi di rischio di insolvenza. La valutazione comporta la realizzazione di una scala di giudizi di rating, non sempre uguali tra le banche, che attribuiscono al debito contratto11 una specifica classe di merito creditizio. Un rating peggiore indica una minore probabilità che l’azienda emittente rimborsi il debito e quindi un rischio di insolvenza più elevato, con la conseguenza che gli investitori richiederanno un rendimento più alto. Per quanto riguarda le modalità di stima del merito creditizio tramite il rating, l’accordo di Basilea 2 prevede che le banche non devono fare ricorso esclusivamente ad analisi di rating esterno, operato dalle agenzie12, ma possono predisporre anche sistemi di rating interno13, con i quali le grandi esposizioni vengono valutate facendo attenzione anche alla variabile quali10 Il rating è un giudizio sintetico espresso con caratteri alfanumerici o numerici, che esprime la probabilità di insolvenza. 11 Il rating può essere riferito e quindi attribuito a un’impresa debitrice in generale, in questo caso parliamo di borrower rating, oppure può riferirsi a una specifica operazione di emissione di debito e in questo caso parliamo di facility rating. 12 Le due principali agenzie di rating sono Standard&Poor e Moody e i loro giudizi sono sintetizzati da sigle (per esempio da AAA a D); gli investimenti vengono così suddivisi in: investment grade (quelli più sicuri), fino a BBB e speculative grade (junk bond). La differenza tra le due agenzie risiede nella diversità di valutazione: • S&P stima la probability of default di un’emittente; • Moody stima la loss given default (perdita attesa sul titolo). 13 Esistono due approcci per valutare il rating internamente: • at-the-point-in-time-approach, che adotta un orizzonte temporale a breve (massimo un anno). Il limite è la grande volatilità, infatti, guardando solo il breve periodo, durante le recessioni dà punteggi bassi e viceversa; • trough-the-cycle-approach, che ha invece un orizzonte temporale maggiore considerando quindi l’impatto dei cicli economici. 169 tativa (internal rating), mentre per le esposizioni più modeste si ricorre a sistemi più semplici (scoring model). L’obiettivo finale rimane comunque quello di determinare lo spread da aggiungere al rendimento privo di rischio, senza considerare in alcun modo lo scudo fiscale, che assume soltanto un valore marginale, e che viene considerato positivamente solo in presenza di giudizi di merito up investment grade. In effetti in tali fattispecie la posizione finanziaria dell’impresa è ritenuta sufficientemente solida e tale da poter godere pienamente dei vantaggi di una minore fiscalità sull’imponibile finale. Una volta stimata la probability of default del finanziato, come ricordato nel Capitolo 1 è possibile “prezzare” il debito contratto, uguagliando il montante di un investimento risk free al montante di un investimento rischioso moltiplicato per un valore inferiore all’unità, che sconta il tasso di perdita attesa. 1 + iRF = (1 + iρ ) × (1 − ELR ) Dove il tasso di perdita attesa ELR (Expected Lost Rate) è pari a: ELR = PD × LGD con: • iρ che indica costo del debito lordo; • PD (Probability of Default) che indica la probabilità di insolvenza; legata al rating; • LGD (Loss Given Default) che indica il tasso di perdita attesa in caso di insolvenza; influenzato dalla presenza di garanzie (legato al facility rating); Di conseguenza la probability of default e la loss given default sono strettamente legate alla valutazione del merito creditizio e alla stima del costo del debito, indipendentemente dalla variabile fiscale, che continua a mantenere il suo effetto di scudo in presenza di un imponibile positivo. Tuttavia, specialmente con riferimento alla recente normativa tributaria, l’attenzione dei legislatore si sta spostando a premiare solo quelle imprese che si indebitano principalmente per sostenere lo sviluppo aziendale e non tanto per sfruttare l’effetto scudo o per favorire i propri azionisti grazie a differenziali fiscali positivi. A tale proposito una variabile molto importante, considerata di recente anche dal Legislatore nazionale, è rappresentata dal rapporto di copertura degli oneri finanziari, nelle varie forme conosciute. Tale rapporto infatti mostra la capacità dell’impresa di sostenere il costo del debito con le risorse prodotte dalla gestione operativa. L’indice può assumere differenti con- 170 figurazioni sia nelle voci al denominatore, sia in quelle al numeratore; in particolare se si considera un tipico indicatore economico nel numeratore verranno utilizzati l’EBIT o l’EBITDA, mentre nel denominatore gli Oneri Finanziari (OF), se invece l’analisi è di carattere più finanziario e vuole individuare la reale capacità dell’impresa di fronteggiare l’indebitamento finanziario, allora al numeratore saranno indicati i flussi prodotti e al denominatore la somma tra quota capitale annua e quota interessi riconducibile all’indebitamento oneroso contratto. Indicatori poco superiori all’unità o addirittura inferiori mostrano un’impresa fortemente esposta al rischio finanziario che quindi dovrebbe ridurre il suo tasso di indebitamento, anche se ciò può comportare la rinuncia a una quota di valore creato con lo scudo fiscale. L’impresa infatti deve scongiurare situazioni di effetto leva negativo, nelle quali non esiste alcun beneficio fiscale legato all’indebitamento. Nei paragrafi successivi analizzeremo le scelte di struttura finanziaria seguite dalle imprese italiane, differenziando il loro comportamento in relazione alla specifiche norme tributarie che si sono susseguite fino a oggi, focalizzandoci in particolare sui cambiamenti avvenuti dopo il 1997. 5. La situazione prima della riforma fiscale 1997 e le opportunità offerte dalla normativa fiscale vigente Dall’esame dei risultati di un’indagine statistica del Comit14 sulle scelte di struttura finanziaria di un campione di imprese industriali, di piccola e media dimensione, si rileva che prima del 1997: • le imprese di maggiori dimensioni generalmente finanziavano i loro progetti o con l’autofinanziamento o con risorse di terzi, evitando qualsiasi operazione sul capitale. Così facendo esse rinunciavano a intraprendere progetti con valore attuale netto positivo provocando un rallentamento della crescita economica del Paese; • le imprese preferivano spesso finanziarsi con mezzi di terzi anche per poter usufruire del vantaggio fiscale della deducibilità degli interessi passivi. In tal caso il problema era quello di riuscire a individuare il livello di leverage tale da evitare i costi legati al dissesto, consentendo anche il mantenimento di un certo grado di capacità di debito inutilizzata; • l’aggiustamento della leva finanziaria al livello ottimale di lungo perio14 Cfr. Bonato L., Hamaui R., Ratti M. (1991), Come spiegare la struttura finanziaria delle imprese italiane?, Roma, Comit – Ufficio Studi e Programmazione, Quaderno R91-18. 171 do risultava lento e complesso per cui era necessario concentrare l’attenzione sulla dinamica dell’indebitamento, oltre che sul suo livello, cercando di evitare che si creassero tensioni finanziarie. Questa situazione era la diretta conseguenza della politica tributaria attuata fino a quel momento la quale prevedeva una doppia tassazione sul reddito di impresa, esplicata mediante un’imposta proporzionale sul reddito delle persone giuridiche (Irpeg) con aliquota al 37% e un’imposta locale sul reddito (Ilor) anche essa proporzionale e con aliquota del 16,2%; portando la tassazione globale intorno al 53,2%. Gli oneri finanziari risultavano completamente deducibili, tranne in presenza di proventi esenti dall’imposizione (nel qual caso doveva essere calcolato un pro rata di indeducibilità), per cui il ricorso all’indebitamento provocava un risparmio di imposta pari al 53,2% sul costo del debito. Questa forma di imposizione, unitamente a un’imposta patrimoniale calcolata sul valore complessivo del patrimonio netto di una società (ovvero la somma rettificata del capitale sociale e delle riserve di utili accantonate), era espressiva di un sistema fiscale che penalizzava e disincentivava la capitalizzazione a favore dell’indebitamento. Per rispondere sia alla complessità dell’intero sistema, sia alla preoccupante e diffusa sottocapitalizzazione delle imprese, era necessario procedere a un’incisiva riforma del richiamato sistema impositivo. Potevano essere contemplate le seguenti alternative: • disporre la totale indeducibilità degli oneri finanziari, con l’immediata conseguenza di aggravare le condizioni delle imprese fortemente indebitate, che si sarebbero trovate a dover pagare elevate imposte, senza disporre degli utili necessari; • detassare gli utili reinvestiti, avvantaggiando le imprese esistenti sul mercato rispetto a quelle nuove o a quelle che avevano scelto di finanziare i propri investimenti con nuovi apporti di capitale, piuttosto che con utili trattenuti e reimpiegati nella gestione. La scelta seguita dal Legislatore del 1997 fu quella di realizzare il duplice obiettivo di disincentivare l’indebitamento favorendo al contempo la ricapitalizzazione, verso un maggiore riequilibrio della struttura finanziaria attraverso gli aumenti di capitale e l’autofinanziamento.15 15 La prima regolamentazione secondo questo orientamento era contenuta nella legge delega sulla “semplificazione e razionalizzazione degli adempimenti dei contribuenti” e sul “riordino delle imposte personali sul reddito al fine di favorire la capitalizzazione delle imprese”, nel presupposto di provvedere, attraverso questo nuovo sistema, a un generale “rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo”. Il tutto finalizzato alla ricerca di un meccanismo per riequilibrare la struttura finanziaria delle imprese a favore di un maggiore 172 Furono istituite con D.lgs. n. 446 del 15.12.1997, successivamente corretto dal D.lgs. 137 del 10.04.1998 e con D.lgs. 466 del 18.12.1997 rispettivamente: • l’IRAP o imposta regionale sulle attività produttive; • la DIT o dual income tax16, che prevedeva un’aliquota calmierata per i redditi derivanti da autofinanziamento da reddito o da ricapitalizzazione. Nonostante il successo della normativa, la DIT venne abolita con la riforma fiscale del 2004, che ridusse ulteriormente il carico fiscale introducendo nuove regole sulla deducibilità degli interessi passivi. Dopo queste norme si sono susseguite varie regolamentazioni che hanno in parte modificato in parte ampliato le disposizioni del 1998, ma che essenzialmente sono state tutte strutturate in modo da orientare le imprese verso nuove scelte sia sul piano finanziario sia su quello organizzativo. Analizzando con maggiore dettaglio la normativa vigente al momento della scrittura del presente lavoro17, una volta premesso che la stessa è costantemente soggetta a cambiamenti e revisioni, specie in occasione delle Manovre Finanziarie di fine anno, emerge che le disposizioni che possono influenzare le scelte finanziarie delle imprese sono quelle collegate all’Irap ricorso a forme di autofinanziamento o di capitalizzazione vera e propria, riducendo i casi di insolvenza e i conseguenti fallimenti a vantaggio di un livello più stabile dell’occupazione e di una progressiva crescita economica del Paese. (Cfr. art. 3, comma 143 e 144 della legge 662/1996 collegata alla Manovra Finanziaria 1997 concernente le “Misure di razionalizzazione della Finanza Pubblica”). 16 Per quanto relativo alla DIT (operativa dal 1997 al 2003) è difficile collocarla nell’ambito di una specifica definizione di tributo, in quanto si tratta piuttosto di un procedimento di determinazione della base imponibile sia ai fini Irpeg che ai fini Irpef. La sua finalità era quella di agevolare qualunque forma di investimento di risorse proprie, apportate esternamente o prodotte nel corso della gestione aziendale, all’interno di una struttura produttiva, indipendentemente dalla sua forma giuridica. Il meccanismo, infatti, prevedeva, che il reddito complessivo venisse suddiviso in due tranches, la prima, stimata sulla base del reinvestimento degli utili, soggetta ad aliquota agevolata del 19% e la seconda soggetta ad aliquota ordinaria. È importante evidenziare inoltre l’effetto cumulativo della Dit, in quanto l’incremento di capitale preso a base per l’applicazione del coefficiente di remunerazione ordinaria, salvo eventuali riduzioni di carattere straordinario, doveva subire un progressivo aumento in quanto veniva mantenuto costante il termine di riferimento iniziale (il 30 settembre 1996), mentre veniva fatto variare quello finale (la fine dell’esercizio di riferimento). Ne consegue che ogni anno potevano essere sfruttati, oltre che gli aumenti verificatisi nell’anno stesso, anche quelli realizzati in passato secondo una logica di cumulatività fino a raggiungere l’obiettivo limite dell’aliquota di imposta media minima del 27%. 17 Come data di riferimento prendiamo il giugno 2009, nel quale sono operative le disposizioni fiscali della Finanziaria 2007 e 2008. 173 e alle nuove regole sulla detraibilità degli interessi e degli oneri finanziari assimilati. In particolare, in termini di Irap18, le imprese devono determinare l’imponibile rappresentato dal valore aggiunto della produzione derivante dalla differenza tra la somma delle voci del valore della produzione (art 2425 c.c., voci A.1 A.5) e la somma delle voci del costo della produzione (art. 2425 c.c., voci B.6, B.8, B.10a, B.10b, 11, 14.). Vengono pertanto escluse dalla deducibilità tutti i costi di carattere finanziario, comprese anche le perdite su crediti e tutti i costi relativi al personale impiegato con alcune esclusioni e alle altre forme assimilabili al lavoro dipendente, come per esempio le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro autonomo occasionale. Conseguentemente nella quantificazione dell’imponibile e nella scelta della strategia di allocazione dei fattori produttivi capitale e lavoro, assumono maggiore rilevanza i componenti negativi di reddito divenuti indeducibili, con particolare riferimento agli oneri finanziari e ai costi del personale. Tralasciando di esaminare questi ultimi in quanto irrilevanti nella composizione della struttura finanziaria di un’impresa, è evidente che l’attuale indeducibilità degli oneri finanziari ai fini Irap impatta in modo rilevante sulle scelte finanziarie aziendali, poiché rende più conveniente lo spostamento dell’indice di leva finanziaria a favore di un maggiore utilizzo dei mezzi propri, anche se l’aliquota di riferimento è relativamente modesta e attualmente si attesta al 3,9%. Molto più importanti sono tuttavia le previsioni della finanziaria per il 2008, nelle quali si rileva una completa riscrittura dell’art. 96 del TUIR, in cui dopo aver abrogato le disposizioni che regolavano la deducibilità degli interessi passivi sulla base della thin capitalization19 (art. 18 L’IRAP è un’imposta dovuta, su base territoriale e a livello delle singole Regioni, su un presupposto applicativo costituito dall’esercizio abituale di un’attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o di prestazioni di servizi. Dalla definizione risulta evidente che l’ambito applicativo della nuova imposta risulta notevolmente ampliato rispetto ad alcune delle imposte che è andata a sostituire. In effetti, i soggetti passivi colpiti costituiscono una categoria molto più ampia ed eterogenea che in passato, comprendendo anche le categorie professionali di lavoratori autonomi, precedentemente non assoggettati a Ilor. È un’imposta a carattere reale, non deducibile ai fini delle imposte sui redditi, il cui ammontare prescinde dall’esistenza di un utile di esercizio, in modo che a tale carico tributario può essere assoggettata anche una società in perdita, nonché una società che disponga di perdite fiscali pregresse riportabili a nuovo ai fini Irpeg. L’introduzione dell’Irap ha comportato la contemporanea abolizione dei contributi per il Servizio Sanitario Nazionale, dell’Ilor, dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese, della tassa di concessione governativa sulla Partita Iva, dell’Iciap e delle tasse di concessione comunale, consentendo una notevole semplificazione del sistema. 19 Si trattava di una norma che impediva la deduzione degli interessi passivi sui finanzia- 174 98) e del pro rata patrimoniale20 (art. 97), vengono modificate integralmente le regole di deducibilità degli interessi passivi in ambito IRES, a partire dal 1º gennaio 2008. menti fruttiferi effettuati da parte di soci qualificati o garantiti dagli stessi, se ricorrevano determinate condizioni che comportassero un rilevante differenziale di imposta a favore del finanziatore a titolo di debito invece che di capitale proprio. Del resto, se non si ipotizzano intenti elusivi della tassazione, non si capisce come mai, se il finanziatore è proprio lo stesso socio, quest’ultimo non dovrebbe apportare immediatamente mezzi finanziari a titolo di capitale proprio. In un certo senso con questa disposizione si passava da una normativa a favore degli apporti di capitali propri (la Dit) a una norma che puniva gli apporti a titolo di capitali di prestito in luogo dei mezzi propri. La disciplina colpiva in particolare le situazioni in cui gli interessi pagati dalla società e deducibili per la stessa non concorrevano a formare il reddito imponibile dei soci in quanto soggetti a ritenuta separata di imposta del 12,5% (caso di interessi su prestiti di durata superiore ai 18 mesi). La norma prevedeva per la sua applicazione che ricorressero le seguenti condizioni: • la società avesse superato una specifica soglia di ricavi; • la remunerazione dei “prestiti” non confluisse nel reddito imponibile dei soci; • il rapporto tra finanziamento fruttifero erogato dal socio qualificato e netto di pertinenza del socio stesso fosse fortemente sbilanciato indicando una soglia di sottocapitalizzazione (finanziamento del socio superiore a 4 volte la quota del netto imputata al socio). Prevedendo il limite dimensionale dei ricavi minimi, venivano escluse le società di modeste dimensioni dove il ricorso al finanziamento da parte dei soci potrebbe risultare una delle poche soluzioni per superare il vincolo finanziario allo sviluppo. 20 Si tratta delle norme relative alla partecipation exemption non più operative che si applicano quando un’impresa acquista una quota rilevante (qualificata) del patrimonio netto di un’altra e successivamente la cede realizzando una plusvalenza in esenzione di imposta. Infatti, se il valore di libro di tale partecipazione eccede il valore del netto contabile, si presume che la stessa possa essere stata acquistata anche con finanziamenti esterni onerosi per cui gli interessi passivi pagati dall’impresa, al netto degli interessi attivi, collegati alla quota attribuibile al finanziamento della partecipazione, sono indeducibili. In pratica se, tramite un finanziamento esterno, una società acquista delle partecipazioni da cui derivano redditi esenti, sia a livello di dividendi che di profitti da plusvalenze, il contribuente non ha diritto al beneficio fiscale della deducibilità degli interessi passivi sul finanziamento stesso, in quanto ha coperto un investimento che ha permesso nel tempo di realizzare redditi esenti da imposta. Va infatti confrontato il valore di libro delle partecipazioni con quello del patrimonio netto per cui si ottiene un pro rata di indeducibilità dato dal rapporto tra il valore contabile della partecipazione meno il patrimonio netto al numeratore (che coincide con il finanziamento preso per acquisire la partecipazione) e il totale dell’attivo ridotto di alcune voci. In particolare vengono sottratti lo stesso patrimonio netto, i debiti commerciali in modo da evidenziare il complesso delle passività consolidate. In tal modo il numeratore indica la parte del valore di acquisto non finanziata dai mezzi propri della partecipante, mentre il denominatore è un indicatore dell’indebitamento finanziario. Ne consegue che se l’intero acquisto della partecipazione è finanziato con mezzi propri in quanto di valore inferiore al netto della partecipante, non si profila la fattispecie dell’indeducibilità. In caso contrario, si ritiene invece che parte dell’acquisto sia stato effettuato proprio ricorrendo a finanziamenti esterni della stessa partecipata e quindi gli oneri finanziari sostenuti sono deducibili solo per la parte eccedente tale pro rata. 175 In particolare viene stabilito un collegamento tra oneri finanziari deducibili e risultato operativo lordo (ROL), fatta eccezione per alcune esclusioni di particolari investimenti per i quali viene sempre prevista la deducibilità del costo del debito contratto a copertura21. Sono inoltre sempre deducibili gli interessi passivi e gli oneri assimilati (commissioni max scoperto, disaggio su prestiti obbligazionari ecc.) risultanti dal conto economico fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi a essi assimilabili iscritti nel conto economico stesso. Tale collegamento comporta la deducibilità degli interessi passivi eccedenti il valore degli interessi attivi solo per un importo non superiore al 30% del Risultato Operativo Lordo (ROL) della gestione caratteristica, aumentato per il 2008 di 10.000 euro e per il 2009 di 5.000 euro. Si tratta pertanto della previsione di deducibilità solo in presenza di un rapporto di copertura ROL / OF superiore a 3,33 che dista notevolmente dal rapporto EBIT / OF = 1 necessario per il funzionamento della leva finanziaria in presenza di oneri deducibili. Risulta evidente pertanto la finalità del legislatore di favorire le imprese con un ROL elevato, permettendo loro di detrarre una maggior quantità di interessi passivi dal reddito d’esercizio, in quanto si ritiene che il ricorso all’indebitamento sia motivato più da esigenze di sviluppo che dalla volontà di sfruttare l’effetto leva finanziaria e fiscale. La stessa volontà di favorire la crescita aziendale limitando intenti meramente elusivi è dimostrata anche dalle previsioni in ordine al riporto negli esercizi successivi degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati, che non è stato possibile dedurre in un esercizio per incapienza rispetto al 30% del ROL. Analogamente la quota del 30% di ROL prodotto a partire dal 2010 e non utilizzata per dedurre gli interessi passivi del periodo di competenza, può essere portata a incremento del 30% del ROL dei successivi periodi d’imposta. Ai fini dell’applicazione della norma si considerano oneri finanziari quelli derivanti da contratti di mutuo, dall’emissione di obbligazioni e titoli similari e da ogni altro rapporto di natura finanziaria (voce C.17 del conto economico, OIC 11/2005), con esclusione degli interessi “impliciti” di na21 Tra le esclusioni oggettive dal limite di deducibilità rientrano gli interessi che, secondo le disposizioni del TUIR, sono capitalizzabili (ovvero non concorrono alla formazione dei costi d’esercizio); si tratta di quegli interessi passivi relativi a prestiti contratti per la fabbricazione o acquisizione di beni che, in deroga alla regola generale e come stabilito dall’art. 110, comma 1, lett. b, del TUIR, possono essere iscritti in bilancio ad aumento del costo, ma dei soli beni materiali e immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa, fino al momento della loro entrata in funzione. 176 tura commerciale e di quelli già elencati nelle esclusioni oggettive di cui al primo punto e con l’aggiunta di quelli derivanti da contratti di leasing (compresi nella voce B.8). Si tratta pertanto di tutti gli oneri direttamente connessi all’indebitamento diretto sia di natura bancaria, che finanziaria (obbligazioni), e alle forme indirette mediante accensione di un leasing, proprio quei valori sui quali viene calcolato lo scudo fiscale. Tali valori mostrano la dipendenza dell’impresa da fonti di terzi e devono essere adeguatamente coperti con la redditività prodotta dal core business, che viene appunto rappresentata dall’aggregato del ROL assimilabile al più noto EBITDA (ebit before interest tax, depreciation and amortizations) che rappresenta la figura reddituale più vicina al flusso di cassa operativo. A questo punto, appare lecito domandarsi se anche la disciplina contenuta nell’art. 96, così come modificato dalla legge Finanziaria 2008, risulti uno strumento di incentivo alla capitalizzazione delle imprese, Infatti legare la deducibilità degli interessi passivi a un’elevata redditività lorda non necessariamente sta a significare che l’impresa presenta una struttura finanziaria adeguatamente capitalizzata. La deducibilità degli interessi passivi sarebbe anche possibile qualora, per motivi di asimmetrie informative, fosse possibile ottenere credito a basso costo pur non essendo in presenza di un’elevata redditività, e trovandosi anzi in una situazione di dissesto finanziario. Naturalmente tale situazione non potrebbe continuare nel lungo periodo, per cui in orizzonti medio lunghi è plausibile ritenere un effetto positivo della norma in termini di riequilibrio della struttura finanziaria. La mancanza di limiti dimensionali che ne escludano l’applicazione per alcune tipologie di imprese differenzia tale normativa dalle precedenti e fa sì che coinvolga tutte le realtà aziendali operanti nel Paese. Non deve essere tuttavia trascurato il ruolo svolto dagli interessi di mora di carattere commerciale che in questa ottica potrebbero diventare particolarmente appetibili in quanto ancora assoggettati allo scudo fiscale con la conseguenza, a seconda del potere contrattuale verso clienti e fornitori, dell’allungamento dei tempi di pagamento ai propri fornitori, ma anche di incasso dai clienti. Ciò, specie nelle PMI, comporterebbe un deterioramento del portafoglio portato allo sconto a seguito del peggioramento degli indici andamentali rilevati dalle banche affidatarie. In conclusione, con queste disposizioni il Legislatore vuole spingere le imprese ad adottare livelli di indebitamento più equilibrati, adeguati alla redditività operativa media conseguibile, ma anche alla sua volatilità, in modo da ridurre sul fronte dei finanziamenti il rischio di tensioni finanzia- 177 rie, costruendo al contempo una struttura di investimenti operativi basata su logiche di esternalizzazione anche parziale di alcune fasi produttive. Entrambe queste politiche dovrebbero rendere l’impresa più flessibile e meno esposta alle congiunture economiche negative22. 6. L’equazione della leva finanziaria sotto specifici scenari tributari Fatte queste considerazioni, analizzeremo gli effetti di specifiche politiche fiscali sulla gestione finanziaria dell’impresa e sull’utilizzo dello strumento della leva finanziaria. La nostra analisi si focalizzerà sugli effetti dell’Irap rispetto alla normativa passata e sul ridimensionamento dell’operatività della leva finanziaria e del vantaggio fiscale in presenza di oneri finanziari parzialmente deducibili. Ipotizzeremo che i rapporti di copertura degli oneri finanziari siano soddisfatti e che pertanto questi ultimi siano interamente deducibili ai fini Ires. Per comprendere meglio i benefici, può essere utile fare un confronto tra le diverse equazioni della leva finanziaria prima della riforma e successivamente utilizzando l’attuale aliquota societaria Ires del 27,5%: 1. situazione precedente, in presenza di oneri finanziari deducibili dal reddito e imposta patrimoniale sul totale del patrimonio netto calcolato ai fini della Legge, che in questa formula per semplicità coincide con lo stesso valore contabile E: ROE = ROI (1 − 53,2%) + D [( ROI − i ) × (1 − 53,2%)] − 0,75% ; E 2. situazione attuale in presenza dell’imposta Irap (non si considera la Dit in quanto già abolita), con oneri finanziari parzialmente deducibili dal reddito (rispetto del rapporto OF/ROL < 30%), assenza di un’imposta patrimoniale sul totale del patrimonio netto: ROE = ROI (1 − 27,5%) + D 3,90% VAP [( ROI − i ) × (1 − 27,5%)] − . E E dove: • ROE = utile netto/capitale netto; • ROI = reddito operativo/totale investimenti; • i = costo del capitale; 22 Per tutti vedasi Lorenzoni G. (1980), “Le strategie di impresa fondate su sinergie esterne”, L’impresa, n. 1; e Grandinetti R. (1993), Reti di Marketing, Etas, Milano. 178 • VAP = valore aggiunto della produzione corretto per le deduzioni forfettarie e quelle relative al personale. Per chiarire meglio il differente impatto del nuovo modello tributario, possiamo fare riferimento a un esempio numerico e a tale proposito si segnala al lettore che per semplicità non verranno considerate le detrazioni forfettarie previste per il calcolo dell’Irap. Supponiamo che un manager finanziario si trovi di fronte all’esigenza di coprire un fabbisogno di 2 milioni di euro e che possa ricorrere ai mezzi propri o a un finanziamento esterno con un costo pari al 5%. Viene fatta salva l’ipotesi di assenza di rischio finanziario al variare del tasso di indebitamento e viene ipotizzato un rendimento della gestione operativa pari al 20% e quindi superiore al costo degli oneri finanziari. Si possono allora presentare tre tipologie di alternative: • la copertura del fabbisogno ricorrendo totalmente e unicamente ai mezzi propri; • la copertura del fabbisogno ricorrendo totalmente e unicamente a mezzi di terzi; • la copertura del fabbisogno con un’uguale combinazione di mezzi propri e mezzi esterni. Tabella 2 – Copertura totalmente con mezzi propri Passivo (dati in migliaia di euro) Debiti Capitale netto Apporto 0 3.000 2.000 Totale passivo 5.000 Costi (dati in migliaia di euro) Costi per materie prime, servizi e altri costi Ricavi (dati in migliaia di euro) Ricavi di vendita 10.000 Spese del personale EBITDA Ammortamenti EBIT 4.000 6.000 5.000 1.000 Utile ante imposte EBIT 1.000 • Imposizione con la passata disciplina: – Irpeg + Ilor = 53,2% × 1000 = 532; – Patrimoniale = 0,0075 × 5.000 = 37,5; – Utile netto = 1000 – (532 + 37,5) = 430,5. 179 20.000 • Imposizione con l’attuale disciplina: – Ires = 27,5% × (1.000) = 275; – Irap = 3,90% × (20.000 – 15.000) = 195; – Utile netto = 1.000 – (275 + 195) = 530. Tabella 3 – Copertura totalmente con mezzi di terzi Passivo (dati in migliaia di euro) Debiti 2.000 Capitale netto 3.000 Apporto 0 Totale passivo 5.000 Costi (dati in migliaia di euro) Ricavi (dati in migliaia di euro) Costi per materie prime, servizi e altri costi Ricavi di vendita Spese del personale 4.000 EBITDA 6.000 Ammortamenti 5.000 EBIT 1.000 Oneri finanziari 100 Utile ante imposte EBIT 900 • • 20.000 10.000 Imposizione con la passata disciplina: – Irpeg + Ilor = 53,2% × 900 = 478,8; – Patrimoniale = 0,0075 × 3.000 = 22,5; – Utile netto = 900 – (478,8 + 22,5) = 398,7. Imposizione con l’attuale disciplina: – Ires = 27,5% × 900 = 247,5; – Irap = 3,9% × (20.000 – 15.000) = 195; – Utile netto = 900 – (247,5 + 195) = 457,5. Tabella 4 – Forma di copertura mista Passivo (dati in migliaia di euro) Debiti 1.000 Capitale netto 3.000 Apporto 1.000 Totale passivo 5.000 180 Costi (dati in migliaia di euro) Costi per materie prime, servizi e altri costi Ricavi (dati in migliaia di euro) Ricavi di vendita Spese del personale 4.000 EBITDA 6.000 Ammortamenti 5.000 EBIT 1.000 Oneri finanziari 20.000 10.000 50 Utile ante imposte EBIT 950 • Imposizione con la passata disciplina – Irpeg + Ilor = 53,2% × 950 = 505,4; – Patrimoniale = 0,0075 × 4.000 = 30; – Utile netto = 950 – (505,4 + 30) = 414,6. • Imposizione con l’attuale disciplina: – Irpeg = 27,5% × 950 = 261,25; – Irap = 4,25% × (20.000 – 15.000) = 195; – Utile netto = 950 – (261,25 + 195) = 493,75. Per cui riassumendo possiamo evidenziare uno schema delle variazioni del ROE in presenza delle differenti discipline fiscali. Tabella 5 – Schema delle variazioni del ROE e del relativo effetto leva Ipotesi Strutture finanziarie Copertura Non levered Con copertura con debiti mista D/E = 2/3 D/E = 1/4 (1.000 / 4.000) (2.000 / 3.000) Vecchia norma Ires ridotta + Irap Effetto leva con copertura mista D/E = 1/4 Effetto leva con copertura con debiti D/E = 2/3 8,61% 10,37% 13,29% 1,76% 4,68% 10,60% 12,34% 15,25% 1,74% 4,65% Fonte: nostra elaborazione Mantenendo costante il ROI% e il costo del capitale di credito i% si nota come al variare della deducibilità degli oneri finanziari e della tassazione dei mezzi propri conferiti conseguente l’applicazione della nuova normativa, l’effetto leva subisca un sensibile ridimensionamento. Nella fig. 2 sono riprodotte le rette che indicano l’andamento del ROE% al variare del rapporto di indebitamento e sono state prese in considerazioni due differenti situazioni: una retta indica l’andamento considerando che venga applicata la precedente normativa, l’altra indica l’andamento con la nuova normativa e VAP = 5.000, in presenza di oneri finanziari interamente deducibili ai soli fini Ires. 181 Figura 2 – Il rapporto di leva: un confronto tra la nuova e la vecchia normativa ROE Nuova normativa 15,25% Vecchia normativa 13,29% 12,34% 10,60% 10,37% 8,61% D/E = 1/4 D/E = 2/3 D*/E* Rapporto di leva D/E Fonte: nostra elaborazione Il punto D*/E* indica un particolare valore del rapporto di indebitamento in presenza del quale c’è coincidenza tra il ROE% delle due normative, in quanto l’effetto agevolativo introdotto dall’abolizione dell’ILOR al 16,2% e della patrimoniale e dalla minore imposizione conseguente all’abbassamento dell’aliquota Ires viene esattamente controbilanciato dalla contestuale indeducibilità degli oneri finanziari e dei costi del personale ai fini Irap. Passato questo punto si nota come, al crescere del rapporto di indebitamento, l’effetto leva subisca un sensibile ridimensionamento rispetto al passato. Naturalmente in presenza di rapporti di copertura che non soddisfano i limiti per la deducibilità, viene a ridursi l’operatività della leva fiscale anche ai fini Ires con conseguente aumento del costo del debito per l’impresa e peggioramento del correlato effetto di leva finanziaria. 6. Conclusioni Da quanto esposto si possono trarre alcune considerazioni riassuntive, riepilogate nel quadro sottostante, che per lo più confermano che di fronte a 182 un sistema tributario con oneri finanziari deducibili si verifica un elevato ricorso ai finanziamenti esterni che tende a ridursi (in modo meno che proporzionale) se tale deducibilità viene limitata e se si cerca al contempo di agevolare le forme di finanziamento con mezzi interni. La leva della tassazione del reddito di impresa e quella della tassazione dei proventi finanziari conseguiti dagli apportatori di capitale di debito determinano il valore dello scudo fiscale secondo le modalità già esaminate da Modigliani e Miller nel 1963 e da Miller nel 1977. In presenza di oneri finanziari indeducibili, invece, la riduzione dello scudo fiscale si rivela un importante deterrente a un eccessivo indebitamento, ma al contempo può privare l’impresa dei mezzi finanziari necessari per sostenerne lo sviluppo o anche solo la sopravvivenza sui mercati. Nella tab. 6 viene riassunto il legame tra politiche fiscali, struttura del capitale e variazione dei rischi finanziari. Tabella 6 – Un quadro riassuntivo del legame tra scelte di politica fiscale e decisioni di finanziamento Scelte di politica fiscale Scelte di finanziamento Rischio finanziario Deducibilità totale degli one- Ricorso a elevati capitali di Crescita del debito e possiri finanziari credito bile peggioramento del rating Deducibilità limitata Aumento del costo dell’inde- Aumento del rischio finanziabitamento rio a causa dei minori flussi residuali Capitali di credito ridotti Ricorso a forme di copertura Ricorso a forme di copertura alternative che riducano l’o- alternative o limitazione degli investimenti nere dell’investimento Agevolazione per gli apporti Struttura più capitalizzata Riduzione del rischio finandi mezzi propri Nuovi capitali + autofinan- ziario ziamento Incremento autonomia e flessibilità finanziaria Fonte: nostra elaborazione Lo scenario che prevede una piena deducibilità degli oneri finanziari ovvvero il pieno sfruttamento della leva fiscale è compatibile con il principio di massimizzazione del valore generalmente utilizzato in dottrina. La recente normativa tributaria italiana si è spostata progressivamente verso un sistema che prevede la parziale deducibilità degli oneri finanziari; con aliquote d’imposta minori che hanno ulteriormente ridotto la convenienza dello scudo fiscale del debito. Ciò al fine di ridurre la preoccupante sottocapitalizzazione delle imprese, specie di piccola dimensione, generata dal 183 sistema fiscale anteriore al 1997 che favoriva l’indebitamento rispetto all’autofinanziamento e all’apporto di nuovo capitale di rischio. Nonostante la diversità delle disposizioni e delle logiche utilizzate, le varie previsioni di intervento risultano tra loro complementari e i rispettivi punti di contatto sono sintetizzabili nei seguenti termini: • l’Ires comporta per tutte le imprese un abbassamento dell’aliquota societaria fino all’attuale 27,5% con un’evidente riduzione del vantaggio fiscale del debito rispetto alle aliquote precedenti; • le imprese che utilizzano il debito per ridurre l’onere impositivo sono maggiormente penalizzate dall’introduzione dell’Irap e dalle previsioni sulla deducibilità degli interessi legata al rapporto di copertura del ROL. Considerando che l’eccessivo indebitamento è stato visto generalmente come fonte di svantaggio competitivo, in tutte le riforme l’obiettivo comune è stato quello di incentivare il ricorso al capitale proprio istituendo agevolazioni (vedi l’abrogata Dual Income Tax) e penalizzando le imprese eccessivamente indebitate per mezzo dell’IRAP. Certamente la minore deducibilità degli oneri finanziari che è passata dal 53,2% al 27,5%, ha spostato il livello di indebitamento ottimale verso tassi inferiori rispetto al passato attenuando i benefici correlati ai risparmi di imposta; e a livello generale è possibile affermare che sia la Riforma Visco che le Finanziarie successive hanno raggiunto almeno a livello teorico i propri obiettivi. Questo fatto ci ha spinto a riconsiderare il valore dello scudo fiscale alla luce della normativa vigente e al contempo ha spostato sempre più l’attenzione degli operatori e dei manager sull’analisi delle reali performance operative delle imprese finanziate. A ciò si aggiunga anche una maggiore attenzione ai flussi di cassa che devono essere in grado di coprire sia il servizio del debito sia l’imposizione fiscale. Si prevede infatti che la mutata politica fiscale possa produrre effetti positivi anche in termini di riduzione del rischio finanziario e di miglioramento del merito creditizio degli affidati, nella misura in cui stimolerà i manager a sviluppare un’adeguata programmazione finanziaria volta a sviluppare progetti a VAN positivo con strutture di finanziamento sostenibili. Tuttavia se è vero che l’indice di autonomia finanziaria legato ai mezzi propri definisce il sentiero auto sostenibile della crescita è vero anche che la necessità di una misura maggiore di mezzi propri talvolta può risultare un forte limite allo sviluppo. I risultati raggiunti in questo studio inducono a ritenere però che la riforma potrà raggiungere solo in parte gli obiettivi dichiarati. Infatti dalle analisi di convenienza svolte emerge ancora che l’indebitamento (specie 184 tramite l’accensione di un prestito sottoscritto dagli stessi soci) risulta più conveniente del finanziamento tramite capitale proprio, anche se questa convenienza si è andata sensibilmente riducendo in conseguenza delle previsioni legate al limite del rapporto di copertura. In ogni caso si rileva che, sebbene non sia possibile portare il sistema verso un piano di assoluta neutralità fiscale rispetto alle scelte di finanziamento, l’attuale riforma è riuscita ad attenuare le distorsioni della disciplina precedente al 1997, con risultati positivi in termini reali oltre che finanziari. In effetti, il riequilibrio delle diverse fonti di finanziamento alternative dovrebbe non solo rafforzare la struttura finanziaria delle imprese, limitando i casi di incaglio finanziario o le ancor più gravi situazioni di dissesto, ma anche favorire l’attività di investimento e il conseguente sviluppo economico. 185 5. CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI E CRISI DEI MERCATI FINANZIARI di Francesco Ferragina Negli ultimi anni il panorama finanziario del nostro Paese si è evoluto con notevole rapidità. Il manifestarsi di alcuni importanti fenomeni, infatti, ha reso sempre più pressante l’esigenza di adeguare la disciplina del mercato finanziario alle mutate necessità dell’economia contemporanea: da una parte, il mercato europeo, unificato anche grazie all’introduzione dell’euro, è diventato sempre più un luogo di scambio delle merci e di circolazione dei capitali il cui funzionamento travalica ormai i confini nazionali. Dall’altra parte, l’evoluzione della tecnologia informatica e di Internet hanno favorito l’avvicinamento di un gran numero di investitori, non soltanto professionali, al mercato finanziario con la conseguente necessità, da parte delle imprese e degli operatori specializzati, di consentire un più ampio e agevole accesso all’informazione. Il complesso scenario che si è delineato ha favorito l’introduzione e la diffusione di nuovi strumenti per il finanziamento dell’impresa: in questo contesto si è inserita la cartolarizzazione. La cartolarizzazione, omologo italiano del termine anglosassone securitization1, è uno strumento finanziario, ampiamente utilizzato in Italia e all’estero. Le opportunità offerte dalla securitization sono molteplici: questa, infatti, consente all’impresa di diversificare le fonti di finanziamento, di conseguire benefici effetti sulla struttura finanziaria e di ridurre il costo dei finanziamenti. Tali vantaggi, si ribadisce, potrebbero essere particolarmente apprezzati dalle imprese italiane, poiché offrirebbero una possibile soluzione ad alcune delle tipiche problematiche di natura finanziaria: l’accesso a fonti di finanziamento non sempre coerenti con le caratteristiche dell’impresa e le relazioni con un numero di interlocutori fi1 Il termine securitization è utilizzato prevalentemente nella prassi americana. Gli operatori inglesi utilizzano il termine securitisation. 187 nanziari limitato e talvolta non attento alle reali esigenze di finanziamento dell’attività produttiva2. L’utilizzazione di una tecnica così evoluta ha portato notevoli benefici anche non esclusivamente finanziari. Questa, infatti, induce nelle imprese che desiderano porla in essere, un’evoluzione culturale che origina dalla necessità di confrontarsi continuamente con operatori specializzati. Tale cambiamento si potrebbe tradurre nell’adozione e nell’implementazione di strumenti di rilevazione e di valutazione oggettiva delle proprie performances che siano utili per fornire informazioni esaurienti, chiare e attendibili, sia in chiave storica sia prospettica, al mercato finanziario. In generale, indipendentemente dalla tipologia di asset oggetto di cessione, il processo di securitization può essere applicato a qualsiasi attivo che presenti un valore ragionevolmente individuabile o che produca un flusso di cassa futuro prevedibile. Tuttavia, dopo un decennio di applicazione della legge istitutiva in Italia e dopo la pesante crisi che ha investito tutti i mercati finanziari, è possibile tracciare un quadro di quanto avvenuto individuando l’eventuale legame intercorrente tra essa e il fenomeno della securitization. La recente crisi finanziaria è una delle più serie e impegnative della storia contemporanea. Tale crisi, interessando drammaticamente l’economia mondiale nella sua interezza, ha suscitato molte considerazioni sulle cause della sua origine. Se, infatti, le cause principali della situazione patologica si rilegano al malfunzionamento del libero mercato e alle carenze dei sistemi di regolamentazione è universalmente riconosciuto che l’origine della crisi sia legata all’introduzione su larga scala dei derivati del credito quali i CDO nell’ambito della cartolarizzazione. Tale pratica ha dato origine alla prassi di accorpare, “impacchettare” e rivendere agli investitori rischi finanziari di vario tipo. In verità già con l’accordo di Basilea3, nella sua prima stesura del 1988, si introdussero norme rigide per garantire maggiore stabilità al sistema bancario e in particolare si mise in evidenza l’esigenza per le le banche di istituire un capitale di sicurezza qualora esse avessero investito in attività rischiose quali gli stessi mutui attivi o i titoli da essi derivati. Le banche, tuttavia, al fine di alleggerire la portata e gli effetti della disciplina iniziarono a utilizzare le operazioni di cartolarizzazione per eliminare parte del rischio 2 Nelle imprese di piccole e medie dimensioni i principali “fornitori” di capitale sono le banche, spesso quelle locali, che mettono a disposizione delle imprese strumenti di finanziamento tradizionali. 3 Per approfondimenti cfr. Il Rapporto di Moody’s inerente l’analisi dell’origine del mercato della securitization. 188 di credito dai propri bilanci. Successivamente, le nuove norme hanno incentivato le banche ad aumentare notevolmente le operazioni di cartolarizzazione non solo per ridurre il rischio connesso al proprio attivo ma anche per aumentare la disponibilità finanziaria necessaria a effettuare nuovi investimenti trasferendo il “peso” delle proprie scelte precedenti sul mercato finanziario. Questo meccanismo, che successivamente analizzeremo nel dettaglio, immette una notevole quantità di risorse nel sistema finanziario favorendo, nel tempo, l’effettuazione di operazioni collegate ad asset di scarsa qualità. L’insolvenza dei creditori sottostanti alle operazioni di cartolarizzazione, connessa a sua volta ad altre motivazioni, è stata una delle cause della crisi finanziaria. Nonostante ciò non si ritiene che la cartolarizzazione debba essere accantonata poiché è uno strumento finanziario valido e utile se utilizzato in modo corretto e appropriato. La securitization ha assunto nel corso dell’ultimo trentennio un’importanza sempre crescente tra le innovazioni che hanno interessato i mercati finanziari e le modalità di diffusione degli strumenti negoziabili. La nascita di questo tipo di operazioni è relativamente recente: i primi casi di securitization si possono rilevare negli USA all’inizio degli anni Settanta4. Questi sono nati dall’esigenza di attivare e rendere liquido il mercato secondario dei mutui ipotecari assicurati dagli enti governativi o paragovernativi. In quegli anni erano state create dal governo degli USA alcune agenzie che avevano lo scopo di agevolare l’erogazione di mutui a famiglie disagiate per favorire lo sviluppo del mercato secondario dei mutui ipotecari. Per potersi finanziare, queste agenzie iniziarono a emettere titoli a fronte dei mutui ipotecari detenuti in portafoglio dando corso al processo di securitization. I titoli emessi furono definiti mortgage backed securities (MBS) e riscossero un notevole successo tra gli investitori tanto che gli operatori finanziari iniziarono a pensare di applicare la stessa tecnica anche su altre classi di attivo. I motivi del successo erano dovuti al fatto che, vista la garanzia fornita dalle agenzie federali, i crediti risultavano facilmente esigibili, e inoltre, visto che i mutui erano erogati a condizioni fortemente standardizzate, era agevole aggregare i crediti in “pacchetti” omogenei con conseguenti maggiori possibilità di collocazione sul mercato. Verso la metà degli anni Ottanta si sono sviluppate le “asset backed securities (ABS)”, collegate ad altre categorie di attività quali i crediti derivanti da contratti di leasing, carte di credito ecc. Il mercato europeo delle securitization è ancora più recente. 4 Cfr. Ferri G. (1998), “La cartolarizzazione dei crediti. Vantaggi per le banche e accesso ai mercati finanziari per le imprese italiane”, Studi e note di economia, n. 3. 189 L’introduzione di questo tipo di operazioni risale, infatti, alla metà degli anni Ottanta. La Gran Bretagna è stata il primo Paese a utilizzare tale tecnica e le prime operazioni si sono concluse già nel 1987. L’inserimento della securitization nel mercato finanziario anglosassone è stata agevolata dal sistema legislativo fondato sulla Common law5, che ha semplificato l’adattamento del modello americano dell’operazione al quadro normativo britannico, e dalla forte dinamicità del sistema finanziario e degli operatori del mercato. Il primo tra gli Stati europei che hanno favorito lo sviluppo della securitization attraverso l’approvazione di una legge specifica che ne disciplinasse le modalità operative, è stata la Francia6 che nel 1988 ha promulgato la prima legge sulla “titrisation”. Tale disposizione è stata modificata in modo sostanziale nel 1993 al fine di renderla più adeguata alle esigenze del mercato finanziario. Tuttavia, la securitization è stata introdotta nell’ordinamento francese con modalità differenti rispetto al modello anglosassone: in Francia, infatti, la “titrisation” è caratterizzata dalla presenza dei “fondi comuni di crediti”, in luogo degli intermediari specializzati costituiti ad hoc. L’operazione si realizza attraverso l’emissione, da parte di una società di gestione, di certificati di partecipazione del fondo abilitato a investire in crediti7. 1. La crisi dei mercati finanziari e la cartolarizzazione La recente evoluzione dei mercati finanziari e la situazione di profonda crisi che li attraversa in questo momento sembra abbiano messo in dubbio la capacità della finanza contemporanea di riuscire a rispondere alle esigen5 Questo sistema legislativo, come noto, fissa soltanto i principi generali e lascia alla prassi il compito di introdurre delle regole specifiche che, in ossequio ai principi, adattino la disciplina ai casi di specie. 6 Il sistema legislativo francese, fondato sul codice napoleonico, presuppone che esista una disciplina specifica per ciascuna fattispecie. La mancanza di un corpus legis in talune materie può pertanto, essere un limite alla diffusione di alcuni strumenti o un incentivo a superare gli ostacoli che si pongono attraverso la realizzazione di operazioni off shore. 7 L’art. 8 del decreto istitutivo della titrisation (décret n. 89-158 del 9 marzo 1989 e successive modifiche) individua le principali modalità operative dei FCC: “i FCC non possono acquistare che crediti della stessa natura sia non immobilizzati, sia di dubbia esigibilità o in contenzioso. Il pagamento del capitale e degli interessi di questi crediti deve essere effettuato in una soluzione, o in più volte, attraverso versamenti, periodici o a date prefissate, in cui è prestabilito un montante minimo”. Per un approfondimento sulla titrisation si veda Aa. Vv. (1997), “Dossier titrisation”, Banque, n. 581, maggio. 190 ze di ottimizzazione delle risorse finalizzate al supporto delle iniziative industriali: le cartolarizzazioni che pure hanno avuto un ruolo molto importante negli ultimi anni nel migliorare la circolazione delle risorse finanziarie e nell’aumentare la liquidità disponibile, devono essere “ripensate” alla luce della possibile evoluzione della crisi del mercato finanziario. Esaminiamo con maggiore grado di approfondimento la recentissima situazione di crisi, quella registrata nel corso del 2008 tentando, per quanto possibile, di fornire un quadro più ampio dello scenario internazionale. Il quarto trimestre del 2008, in conformità alla tendenza registrata nell’anno, è stato caratterizzato dallo sforzo volto alla riduzione a livello sistematico dell’indebitamento, dalla carenza di liquidità, dalla stretta del mercato del credito e dalla riduzione alla propensione al rischio. Secondo Eurostat, il quarto trimestre 2008 segna l’entrata ufficiale dell’Eurozona in una fase di recessione, già preannunciata, per altro, dai due trimestri precedenti caratterizzati da una crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo) tendenzialmente negativa. Per quanto concerne l’andamento dei tassi d’interesse, le Banche Centrali continuano le loro politiche di abbattimento. Sia la Banca Centrale Europea (BCE) che la Banca of England (BOE) hanno, nel rispetto della tendenza accennata, ridotto i tassi nei primi mesi del 2009 arrivando, rispettivamente, al 2 e all’1%. Per quanto concerne l’occupazione, secondo i dati Eurostat, il tasso di disoccupazione nell’Unione Europea, nel mese di dicembre, è stata pari al 7,4%. I “picchi” negativi si sono registrati in Spagna (14,4%)8 e in Lettonia (10,4%). Il prezzo degli immobili è in continua riduzione. Tendenza caratterizzante l’Eurozona nel suo complesso e che in particolare nel Regno Unito trova un esempio paradigmatico: nel quarto trimestre del 2008 tale prezzo è sceso del 4,4% facendo registrare una riduzione annua pari al 14,7%. La qualità del credito, nell’Eurozona, continua a peggiorare, sospinta dall’incertezza derivante dalla fase economica congiunturale. La fase di recessione della quale non si comprende l’entità e la durata provoca oscillazioni nella fiducia delle parti, aggravata dalla tendenza perseverata dalle agenzie di rating di continuare a declassare i tiloli europei. Le Collateralised Debt Obligations (CDO) rimangono la classe di attività più deboli seguita da Residential Mortgage-Backed Security (RMBS), sia performing che non performing. Secondo la BCE, i prestiti al settore privato sono diminuiti bruscamente 8 Il dato è in controtendenza rispetto a quanto registrato negli scorsi anni che sono stati caratterizzati da una fase di espansione e crescita del Paese. 191 nel quarto trimestre dell’anno: la riduzione registrata tra i mesi di dicembre e novembre è pari a 47 miliardi di euro. Le cause di questa tendenza sono da ricercarsi nel maggior rigore nello standard creditizio e nell’aumento del tasso di disoccupazione. Le nuove emissioni di titoli cartolarizzati sono soggette alla diminuzione dei volumi negoziati. La tendenza Europea al maggior rigore dello standard creditizio, alla riduzione di prestiti e alla diminuzione della domanda consumer trova riscontro anche negli Stati Uniti come risulta dall’indagine sul mercato primario del prestito condotta della Federal Reserve relativa al quarto trimestre 2008. Le negoziazioni degli Asset-Backed Commercial Paper (ABCP) sono diminuite significativamente in Europa, nel 2008, anche a causa del minore numero di investitori disposti a porre in essere questa tipologia di transazione9. Alla luce della sommaria rappresentazione proposta si evince che è proprio la finanza creativa a essere stata additata come “tossica” dal mercato fin dal momento in cui è iniziata la crisi, nell’estate del 2007, con i default dei titoli legati ai mutui subprime americani e anche successivamente con il collasso di storiche banche d’investimento10. I timori hanno interessato in modo crescente sia le banche d’affari11 sia le banche commerciali12. Il mercato ha compreso che non sono più le sole banche d’investimento, a preoccupare ma anche i grandi gruppi creditizi a essere in difficoltà sia per la qualità di alcuni assets originati dalle operazioni finanziarie sopra accennate sia dalla qualità del credito che con l’economia reale in frenata e la disoccupazione in aumento prospettano l’aumento dei crediti in sofferenza nei bilanci delle banche. L’intervento pubblico a salvaguardia e rilancio del sistema rischia di non essere sufficiente: le banche irlandesi, per esempio, hanno un passivo che ammonta a 9 volte il PIL del Paese; analogamente in Francia, Olanda e Belgio in cui i passivi ammontano a 4 volte i rispettivi PIL nazionali. Italia e Austria hanno un rapporto rispettivamente pari al 2,5 e 3,5 volte. L’Ufficio Ricerca Macroeconomica di Intesa Sanpaolo denuncia che il rischio in oggetto (relativo alle banche) sta diventando rischio sovrano. Il mercato sembra avvalorare questa tesi, infatti, i credit default swap (CDS), 9 Secondo la società di ricerca Dealogic, le negoziazioni degli ABCP che alla fine del 2008 ammontano a 14,3 milioni di euro, hanno subito una drastica riduzione quantificabile in un terzo nel periodo compeso tra il 2007 e l’ultimo trimestre del 2008. 10 Si fa riferimento al caso Lehman Brother. 11 Nei primi mesi del 2009 MorganStanley ha guadagnato il 22% e Goldman Sashs l’8%. 12 Nei primi mesi del 2009 le grandi banche d’affari hanno registrato perdite importanti pari al: 72% per Bank of America; 78% per Citigroup; 59% per Wells Fargo; 37% per Ubs e 25% per Deutsche Bank. 192 le polizze che servono per assicurarsi contro l’insolvenza di qualunque emittente obbligazionario, sono saliti vertiginosamente13. A questo punto è necessario un chiarimento terminologico. Spesso si associano i termini tossicità, nelle sue innumerevoli espressioni “toxic paper” o “toxic asset”, ai bond strutturati. Tuttavia è necessario, ai fini di contestualizzare la crisi e circoscrivere le reazioni spesso ingiustificate, quale sia il reale peso dei titoli non performing e, dove effettivamente, questi siano iscritti. Le cartolarizzazioni e le obbligazioni strutturate in circolazione hanno un valore nominale che supera gli 8.500 miliardi di euro, mentre il volume nozionale dei CDS14 è pari a 45.000 miliardi di euro. Se tutti i prodotti della finanza strutturata, swap, CDS fossero considerati tossici, sarebbe necessario un progetto di “bonifica”15 di ampia portata quantificabile in oltre 53.000 miliardi di euro. Tali dimensioni sono del tutto teoriche, in quanto per poter avere una visione analitica occorre definire la tossicità che non può e non deve essere confusa con la totalità dei titoli cartolarizzati, i CDS e i bond illiquidi. Tabella 1 – Fonte Esf, Securitisation data Report, Banca dei regolamenti internazionali Cartolarizzazioni in Europa USA Asset Backed securities* 176 1.984 CDO (Collateralized Debt Obligation) 284 n.d. RMBS** 848 4.573 CMBS*** 139 401 Al 30 settembre 2008 in miliardi di euro. Legenda: * Cartolarizzazioni di credito al consumo, carte di credito; ** Cartolarizzazioni di mutui residenziali; *** Cartolarizzazioni di mutui commerciali. Il mercato, intanto, ha elaborato una sua definizione di “tossico”. In prima battuta, sono etichettati come “tossici”, ovvero danneggiano il bilan13 Il mercato stima che la probabilità di default per l’Inghilterra nei prossimi 5 anni sia pari all’11%; per l’Italia al 13%; per gli USA, Francia e Germania al 6%. C’è da precisare che le previsioni finanziarie devono essere considerate per l’informativa di massima che forniscono in merito all’umore dei mercati e non anche come indicazione di carattere assoluto in quanto sottoposte all’influenza di diversi fattori (anche aleatori). 14 Come precedentemente introdotto, inerentemente al rischio sovrano, l’acronimo sta per Credit Default Swap, si tratta di derivati sul credito che funzionano come un’assicurazione contro il default dei debitori. 15 Tale progetto trova riscontro nella realtà nella pionieristica volontà di istituire la Bad Bank che consiste in un’istituzione finanziaria realizzata per ospitare, previo trasferimento dalle banche titolari, i titoli a elevato rischio. 193 cio della banca, tutti gli strumenti finanziari difficili da valutare a causa della struttura troppo complessa o delle caratteristiche di estrema rischiosità dell’operazione sottostante che li ha generati. In tale categoria rientrano le cartolarizzazioni dei mutui subprime americani nonché i CDO collegati agli stessi, si tratta in quest’ultimo caso di cartolarizzazioni. La tossicità deriva dall’errata valutazione del rischio subprime e dal fatto che il tasso di default potenziale dei subprime è stato ridotto da prodotti strutturati molto complessi come i CDO alle quali le agenzie di rating attribuivano un rating molto elevato (spesso AAA). La potenziale tossicità di questa particolare tipologia di operazioni contestualizzate alla realtà statunitense, ha contagiato tutte le cartolarizzazioni anche quelle europee costruite sui mutui residenziali caratterizzati da tassi di insolvenza molto bassi (2%). la medesima situazione ha caratterizzato anche le cartolarizzazioni effettuate su crediti al consumo. Analogamente per i CDO, soprattutto quelli sintetici costruiti con credit default swap. L’illiquidità intrinseca di questi bond ha contribuito a far precipitare le quotazioni. Pertanto, con il termine bond tossico si intende, in definitiva, il più generico bond illiquido che ha un prezzo di mercato secondario sotto la pari che non è necessariamente il suo vero valore. Così rientrano nella definizione molte obbligazioni di società che potrebbero subire gli effetti della crisi economica in atto. Quella che si è prospettata è una crisi che riguarda oltre che la finanza anche l’economia reale, pertanto, le associazioni di categoria, gli organismi nazionali pubblici competenti stanno lavorando con le autorità di vigilanza al fine di individuare le modalità più opportune di soluzione dei problemi che si sono manifestati. Relativamente al mercato della cartolarizzazione, fortemente stressato dagli eventi, si segnala l’iniziativa intrapresa dall’Australian Securitisation Forum (AusSF), dall’American Securitisation Forum (ASF), dallo European Securitisation Forum (FSE) e dalla SIFMA che hanno organizzato una serie di incontri con l’obiettivo di ristabilire la fiducia degli operatori su questi strumenti finanziari. Il risultato degli incontri è sintetizzato in una relazione contenente una serie di best practices e raccomandazioni volte a ripristinare la fiducia sulle operazioni di cartolarizzazioni a livello mondiale in cui si individuano quattro azioni prioritarie d’intervento: • migliorare la diffusione di informazioni inerente i titoli da cartolarizzazione; • aumentare la trasparenza con la predisposizione di best practices operative; 194 • • ripristinare la credibilità del rating; rafforzare la fiducia nelle valutazioni, le metodologie e le ipotesi. Sia in Europa che negli Stati Uniti, particolare attenzione è rivolta all’aumento della trasparenza delle operazioni finanziarie e di quelle rivenienti da cartolarizzazione in particolare. In Europa, sono state elaborate dieci iniziative16. 1. La prima, giunta a completamento, consiste nell’incrementare la trasparenza nei rapporti riguardanti le cartolarizzazioni al fine di promuovere la corretta attuazione delle stesse. 2. La seconda, giunta a completamento, è la realizzazione di uno strumento che permetta di ottenere dati globali, aggiornati e comprensibili. A tal fine è stata introdotta la relazione trimestrale che fornisce informazioni in merito all’emissione dei titoli, a eventuali sospensioni, ai prezzi e tipo di investitori e luogo. L’obiettivo è quello di garantire la trasparenza alle autorità di vigilanza che saranno supportate da un valido strumento nella loro attività di monitoraggio sul mercato. 3. La terza, giunta a completamento, consiste nello sviluppare e monitorare l’implementazione di Asset Backed Commercial Paper divulgandone gli elementi caratteristici. La finalità è quella di promuovere una reportistica periodica che fornisca un’informativa coerente e completa agli investitori che operano sul mercato ABCP. 4. La quarta, giunta a completamento solo parzialmente17, consiste nello sviluppare e monitorare l’implementazione delle emissioni di cartolarizzazioni e la loro trasparenza. L’obiettivo è incoraggiare la trasparenza così da poter ottenere un flusso di informazioni riguardanti Residential Mortgage Backed Securities, Commercial Mortgage Backed Securities, Collateral Debt Obligation, Asset Backed Securities e altre classi di attività. 5. La quinta, giunta a completamento, consiste nel garantire il libero accesso alle informazioni riguardati le transazioni passate e in corso al fine di facilitare, mettendo a disposizione informazioni da fonti illimitate e l’accesso agli strumenti informativi. 6. La sesta, in corso di esecuzione, consiste nello sviluppo di portali internet al fine di consentire l’accesso on-line degli investitori e dei soggetti a diverso titolo interessati in modo da poter avere informazioni senza alcun costo (o a costo irrilevante). 7. La settima, giunta a completamento, consiste nel centralizzare l’accesso ai RMBS, CDO attraverso il sito dell’ESF al fine di permettere l’accesso on-line agli emittenti e ai gestori di prodotti cartolarizzati. 16 17 Per maggiore dettaglio si rimanda a: www.europeansecuritisation.com. L’iniziativa è giunta a completamento per i soli MBS. 195 8. L’ottava, giunta a completamento solo parzialmente18, consiste nel migliorare la standardizzazione e la digitalizzazione dei modelli di Reporting. L’obiettivo è da ricercarsi nello sviluppo di standard che riguardino le varie fasi del processo, dall’emissione alla sorveglianza, che passa per la realizzazione di formati documentali e informativi condivisi. 9. La nona, in corso di realizzazione, consiste nello standardizzare le definizioni al fine di sviluppare una terminologia non equivocabile all’interno dell’Unione Europea. 10. La decima consiste nello sviluppare la valutazione del merito di credito per gli investitori e di valutazione il cui scopo è garantire agli investitori una modalità per valutare autonomamente il credito di una transazione. Negli Stati Uniti, tra le altre, è stato avviato dall’ASF un'iniziativa riguardante un progetto restart per lo sviluppo dettagliato di standard di mercato per i titoli cartolarizzati. L’iniziativa riguarda i RMBS sotto una pluralità di punti di vista: dalla standardizzazione e l’ampliamento dell’informativa relativa all’emissione e la successiva negoziazione dei titoli, all’offrire agli investitori una maggiore accessibilità alle informazioni relative alle transazioni19. Lo scenario attuale si caratterizza per la visione pessimistica dei portatori di interesse delle cartolarizzazioni. Il grafico riportato indaga in merito al ripristino della fiducia nel mercato delle cartolarizzazioni nel breve periodo che deve essere intesa come una priorità. L’ipotesi di partenza è la divisione dei fattori che possono riportare tale fiducia in quattro classi che consistono nella: capacità di divulgazione dell’informativa, capacità di poter valutare scientemente il Collateral e attibuirvi un prezzo, capacità di elaborare un sistema incentivante, capacità di rappresentare l’operazione. A tali fattori viene attribuito un rating che ne decreta l’importanza relativa. Tale importanza viene quasi parimenti attribuita alla divulgazione di informazioni riguardanti gli assets sottostanti e alla fiducia nei dati e nelle assunzioni derivanti dall’applicazione dei metodi di valutazione. In un contesto caratterizzato da forte sfiducia nel sistema si assiste alla ricerca di misure volte a contrastare la crisi che spesso si sostanziano in imponenti interventi pubblici. Ecco che la soluzione al problema prospettato sembra la realizzazione di un’istituzione finanziaria (probabilmente a matrice pubblica) che sia in grado di poter dividere i titoli in base al loro reale valore e permettendo, così all’investitore di ritrovare la capacità di scegliere consciamente e la consequenziale fiducia nel sistema. 18 La fase è giunta a completamento per i soli RMBS e CMBS. Per maggiore dettaglio in merito all’iniziativa si rimanda al sito www.americansecuriti zation.com. 19 196 Figura 1 – Fonte SIFGA/ASF/ESF/AusSF Report: Restoring Confidence in the Securitisation Markets 2. Gli elementi caratteristici di un’operazione di asset securitization20 La securitization è: “The process whereby loans, receivables and other financial assets are pooled together, with their cash flows or eco20 Per approfondimenti si vedano: Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano; Aa. Vv. (1997), “Dossier titrisation”, Banque, n. 581, maggio; Gambaro M. (1995), “La titolarizzazione dei crediti: come realizzare un’operazione in Italia”, in Lo sviluppo della securitization in Italia, Bancaria, Roma; Colagrande F., Fiore L. F., Grimaldi M., Grandina D. (1999), Le operazioni di securitization. Caratteristiche, vantaggi e opportunità. Aspetti operativi, giuridici e contabili, Il Sole 24 Ore, Milano; Pini G. (1995), “La securitisation: rischi e ruolo del rating”, in Lo sviluppo della securitisation in Italia, Bancaria, Roma; Ferri G. (1998), “La cartolarizzazione dei crediti. Vantaggi per le banche e accesso ai mercati finanziari per le imprese italiane”, Studi e note di economia, n. 3; Stupazzini G. (1997), “I titoli garantiti da crediti”, Amministrazione e Finanza, 12; Girino E. (1998), “Securitization, i crediti diventano titoli”, Amministrazione e Finanza, n. 5; Girino E. (1999), “Securitization, le nuove regole”, Amministrazione e finanza, n. 11; Artina V. (1998), “Cessione dei crediti: le norme e le opportunità”, Amministrazione e Finanza, n. 19; Rocca E. (1999), “Securitization e rappresentazione in bilancio”, Amministrazione e finanza, n. 11. Si veda inoltre il sito internet dell’European Securitization Forum: www.Europeansecuritization.com e il sito www.securitization.it. 197 nomic values redirect to support payments on related securities. These securities […], are issued and sold to investors in the public and private markets by or on behalf of issuers, who utilize securitization to finance their business activities”21. Questa definizione mette in luce, in sintesi, uno dei principali elementi della cartolarizzazione la cui struttura è tale che il valore delle attività cedute non è legato alle caratteristiche dell’impresa, bensì alla capacità del portafoglio stesso (collateral) di generare cash flow stabili e certi che siano in grado di offrire una remunerazione adeguata all’investitore22. In secondo luogo, la gestione dell’operazione è affidata a un soggetto creato appositamente allo scopo, giuridicamente distinto dall’impresa cedente. Attraverso una securitization si realizza, pertanto, l’obiettivo di rendere autonomamente negoziabili determinate classi di attività e ciò avviene utilizzando un soggetto finanziario “più efficiente” rispetto all’impresa titolare delle attività in esame23. Gli assets che possono essere oggetto di una cartolarizzazione sono molteplici, ma devono possedere requisiti comuni: devono essere idonei a generare cash flow significativi e stabili, tali da essere coerenti con posizioni rischio-rendimento correnti sul mercato per attività finanziarie similari e, nell’ambito di una singola operazione, devono essere caratterizzati da omogeneizzazione e standardizzazione in ordine alla durata, al rimborso e al grado di rischio. A seconda del tipo di attività cartolarizzate sono solitamente individuate due tipologie di titoli: le mortgage backed securities 21 “La securitization può essere definita come il processo con cui i prestiti, i crediti e altri assets finanziari sono aggregati, e i flussi di cassa o i valori economici da essi generati sono reindirizzati a sostenere i pagamenti dei titoli emessi a seguito del processo. Tali titoli […], sono emessi e venduti agli investitori sia sul mercato finanziario sia attraverso collocamenti privati, direttamente o indirettamente dall’emittente, che utilizza la securitization per finanziare la propria attività” (cfr. European Securitization Forum, forum permanente costituito appositamente per favorire la conoscenza e lo sviluppo della securitization in Europa. Per quanto riportato cfr. European Securitisation Forum (1999), “European Securitization: A Resource Guide”, www.europeansecuritization.net). 22 L’elemento suddetto potrebbe essere particolarmente apprezzato sul mercato italiano in cui le imprese sono fortemente indebitate e hanno dimensioni tali da non essere “interessanti” per il mercato dei capitali. Allo stato attuale non è possibile tuttavia stimare quale potrà essere l’impatto della cartolarizzazione sulle imprese di piccole e medie dimensioni poiché la complessità dell’operazione e i costi da essa generati sono molto elevati. 23 Si veda in proposito anche, Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano. L’autore propone un’ulteriore definizione dell’operazione di cartolarizzazione: “le banche d’affari in genere definiscono la securitization come una transazione nella quale il cash flow futuro che deriva da un portafoglio di assets è riconfezionato nella forma di titoli classati presso gli investitori”. 198 (MBS) per le operazioni che hanno per oggetto dei mutui e le asset backed securities (ABS) per quelle che sono riferite ad altre classi di attività. La prassi del mondo finanziario ha poi favorito il sorgere di moltissime altre denominazioni e acronimi che spesso indicano delle varianti alle operazioni principali o servono per individuare immediatamente il tipo di asset che è stato cartolarizzato o il tipo di struttura di cartolarizzazione che si pone in essere (si veda per esempio WBS, whole business securitization, ABCP, asset backed comercial paper, CDO-CBO ecc.). 2.1. La struttura dell’operazione La cartolarizzazione è un’operazione molto complessa che coinvolge una pluralità di soggetti ciascuno dei quali ha una funzione ben definita. Nonostante tale complessità, dovuta alla possibilità infinita di varianti, le securitization, sia sotto il profilo della struttura delle operazioni sia per ciò che concerne la tipologia e il ruolo dei soggetti coinvolti, sono sostanzialmente omogenee24. La prassi internazionale riconduce le operazioni di securitization “tradizionali” in due strutture principali: • pay-through: è il modello adottato in Italia con la legge 130/1999 e consiste nell’emissione di titoli da parte di un soggetto giuridicamente autonomo dall’originator (normalmente definito Special purpose vehicle) il cui cash flow è destinato ad acquisire gli assets cartolarizzati; • pass-through: questo modello è caratterizzato dall’emissione di titoli che attribuiscono all’investitore la proprietà di una parte del portafoglio di assets cartolarizzati. I titoli emessi sono denominati pass-through certificates. Da quanto brevemente descritto in precedenza, si desume che il legislatore nazionale ha inteso disciplinare la securitization con struttura pay-through. A titolo meramente esemplificativo, è possibile individuare le fasi di un’operazione tipo (si veda fig. 2)25: 24 Per tale motivo, la struttura dell’operazione descritta nel presente lavoro, pur se riferiti in maniera specifica alla cartolarizzazione dei crediti commerciali, sono agevolmente utilizzabili anche per securitization riferite ad altre classi di attivo. 25 Si veda in proposito anche, Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano. Alle fasi citate che presuppongono che l’originator imposti e realizzi autonomamente un’operazione di cartolarizzazione, nella prassi nel sono aggiunte altre due: la prima consiste nella scelta dell’advisor indipendente nazionale e internazionale (a seconda delle caratteristiche dell’emissione) che assisterà l’originator in ogni fase dell’operazione. La seconda consiste nella scelta dell’arranger che, solitamente, è una banca d’affari o una primaria banca 199 selezione, da parte dell’originator, degli assets da cartolarizzare26; costituzione dello special purpose vehicle, società di scopo costituita sotto forma di società di capitali, autonoma rispetto all’originator, che deve acquisire da quest’ultimo gli assets finanziando l’operazione attraverso l’emissione di titoli sul mercato27; • cessione allo special purpose vehicle degli assets individuati dall’originator; • definizione delle caratteristiche dei titoli che saranno emessi e individuazione delle modalità ottimali di collocamento sul mercato in funzione delle caratteristiche del portafoglio di assets e in considerazione della domanda corrente sul mercato finanziario; • individuazione dell’eventuale credit enhancer28; • individuazione della società di rating che deve valutare l’emissione29; • emissione e collocamento dei titoli presso gli investitori. in questa fase può essere necessario avvalersi di un operatore specializzato; • gestione e amministrazione degli assets e dei pagamenti effettuati dalla clientela (attraverso il servicer30). • rimborso dei titoli ABS31. La fig. 2 rappresenta schematicamente lo svolgimento dell’operazione ed evidenzia, ove esistenti, i flussi finanziari connessi alle singole fasi32. • • internazionale, che si occupa della strutturazione dell’operazione finanziaria sul mercato e del collocamento dei titoli. Talvolta l’arranger svolge anche il ruolo di advisor. Per il collocamento dei titoli ABS sul mercato, come avremo modo di ribadire nel proseguio, ci si può avvalere anche di un soggetto ad hoc. 26 In questa operazione l’impresa deve tener conto non del valore nominale dei crediti bensì del loro valore di realizzo cui è commisurato il valore dei titoli che saranno emessi sul mercato. Il credit rating degli strumenti mobiliari oggetto di emissione, infatti, dipende dalla qualità del collateral dell’emissione stessa. 27 Si veda in proposito anche il par. 2.3. 28 Il credit enhancement è la garanzia fornita da soggetti terzi specializzati sulla possibilità di rimborso dei titoli. 29 Sulla funzione della società di rating si veda il par. 2.6. 30 Il servicer è il soggetto che si occupa della gestione del patrimonio cartolarizzato. 31 Il rimborso delle ABS avviene sulla base di un piano finanziario definito in funzione dei cash flow generato dal collateral. Questo piano può avere una duplice struttura: può prevedere un rapporto diretto tra le scadenze dei titoli ABS e gli attivi che maturano e generano cash flow. Oppure si può dare luogo a operazioni rotative (revolving) in cui gli assets oggetto di cartolarizzazione vengono ceduti e portati a scadenza periodicamente via via che si formano nel bilancio dell’originator per un certo periodo di tempo. 32 Le linee tratteggiate indicano che l’operazione può essere strutturata anche non individuando in modo specifico i soggetti indicati. 200 201 Altri partecipanti Originator n (asset seller) Originator 1 (asset seller) Rating Agency Cash flow Credit enhancement Special Purpose Vehicle (SPV o SCC) Servicer • Rapporti con debitori • Centralizza gli incassi Emissione del rating Prezzo di vendita Flussi di cassa correntil port. Vendita del portafoglio Cessione degli assets allo SPV Figura 2 – Struttura dell’operazione di cartolarizzazione debitori debitori investitori Titoli emessi: • senior (AA) • mezzanine (A) • subordinated (BB) • equity (unrated) Pagamento interessi Prezzo di vendita collocamento Pagamento degli interessi Consorzio di collocamen to Gestore fiduciario (trustee – eventuale) Prezzo di vendita collocamento Emissione titoli ABS I principali soggetti coinvolti in un’operazione di cartolarizzazione sono quindi i seguenti: l’originator (impresa cedente) o gli originators in caso di operazione multiseller, lo special purpose vehicle (cessionario ed emittente titoli33), la società di rating, il credit enhancer, il servicer. Ciascuno di questi svolge, come accennato in precedenza, un ruolo ben definito nell’operazione e persegue finalità differenti. Assieme a questi protagonisti, esistono altre figure che svolgono ruoli di rilievo, ma che sono meramente strumentali al buon esito dell’operazione. 2.2. I rischi connessi a un’operazione di securitization Alle operazioni di securitization sono connessi dei rischi, insiti nella tecnica stessa dell’operazione, che si riflettono sul funding e sul costo complessivo delle stesse. Le tipologie di rischio più diffuse sono le seguenti34. Rischio di credito. Il rischio di credito (default ratio) può essere definito come la probabilità che si verifichi un ritardato pagamento da parte del debitore. Generalmente il credito ceduto si considera insolvente a fronte di ritardi di pagamento che superano una determinata soglia critica desunta sulla base di rilevazioni statistiche. Uno dei vincoli più stringenti all’emissione di ABS è la capacità dell’attivo sottostante di rispettare determinati indici di perfomance (esempio default ratio inferiore al 3%). A sua volta la qualità del collaterale unitamente alle diverse forme di credit enhancement determina il rating del titolo ABS, che poi identifica la probabilità di inadempimento attribuitogli dalle agenzie di rating. Rischio di liquidità. Il rischio di liquidità consiste nella probabilità che divenga impossibile vendere sul mercato un particolare ABS (in qualsiasi momento) a un prezzo che si avvicina ragionevolmente al suo valore intrinseco. Il livello di liquidità per ogni singolo ABS dipende da molti fattori, 33 Lo Special purpose vehicle potrebbe anche non essere il soggetto che emette i titoli sul mercato. 34 Si veda in proposito Lanteri L., Scura E. (2001), “La cartolarizzazione dei crediti e le politiche di bilancio nelle imprese corporate”, in La cartolarizzazione nelle imprese non finanziarie: aspetti teorici, strategici ed operativi, Progetto Fin.Te.Ma., Quaderno n. 3, dicembre, Egea, Milano.; De Angeli S., Oriani M. (a cura di) (2000), La securitization dei crediti bancari, FrancoAngeli, Milano. 202 incluse le caratteristiche percepite della domanda e dell’offerta, la dimensione del mercato, le performance dell’attivo sottostante, l’andamento dei tassi d’interesse. Una delle più importanti unità di misura della liquidità è la differenza tra il prezzo di domanda e il prezzo d’offerta quotati da un dealer per gli ABS: all’aumentare dello spread, si accresce il rischio di liquidità percepito. Rischio di pagamento anticipato. Il rischio di pagamento anticipato consiste nella probabilità di ricevere tutto o parte del capitale dell’attivo sottostante prima del termine dovuto (attivi ammortizzabili) o previsto (attivi non ammortizzabili). La raccolta dei pagamenti prima del previsto cash out a servizio del collaterale comporta un rischio di re-investimento. Dalla valutazione di tale tipologia di rischio discende la determinazione della durata degli ABS e in ultima analisi del relativo rendimento. Per determinate tipologie di attivi (per esempio mutui fondiari), l’aumento dei pagamenti anticipati è direttamente correlato all’andamento dei tassi d’interesse sul mercato. Rischio di tasso d’interesse. Il rischio di tasso di interesse è legato alla trasformazione delle scadenze e dei tassi che normalmente caratterizzano le emissioni ABS. In particolare le modalità di produrre interessi degli attivi sottostanti difficilmente possono coincidere in maniera puntuale con i pagamenti a servizio dei titoli obbligazionari. Inoltre, qualora i titoli ABS siano emessi a reddito fisso, i relativi prezzi fluttuano in relazione alle variazioni dei tassi di interesse e della situazione economica generale. Viceversa i prezzi di ABS a tasso variabile, ovviamente sono molto meno reattivi rispetto al mercato, dal momento che l’indice a fronte del quale si ridefinisce periodicamente il tasso corrente riflette le variazioni di mercato. Rischio di ammortamento anticipato. La maggior parte delle emissioni revolving sono soggette meccanismi di ammortamento anticipato denominati anche “payout events” o “early calls”. Esistono dunque tipologie di eventi prefissati tassativamente (per esempio pagamenti insufficienti da parte dei debitori ceduti; aumento del defaul ratio sull’attivo ceduto al di sopra di una determinata soglia; contrazione del livello di overcollateralisation al di sotto di un dato valore) che innescano anticipatamente il piano di ammortamento, il quale una volta innescato non può essere revocato, né interrotto. Con l’ammortamento anticipato, il periodo revolving si chiude così come il periodo di ammortamento controllato, oppure, se del caso, quello di accumulazione. Il rimborso accelerato dunque funge da ulteriore 203 protezione per gli investitori e, proprio per questo, è richiesto espressamente dalle agenzie di rating. 2.3. L’originator L’originator è il soggetto che avvia l’operazione di cartolarizzazione. Gli obiettivi più rilevanti che l’originator si propone di conseguire attraverso la cartolarizzazione possono essere raggruppati nel modo seguente: operazioni di “sistemazione” del bilancio, ricorso a nuove fonti di finanziamento e riequilibrio della struttura finanziaria, riduzione dei costi di finanziamento e riduzione del profilo di rischio a essa connesso. Per ciò che concerne l’utilizzo della cartolarizzazione per “sistemazioni” di bilancio, è necessario distinguere due aspetti: da un lato, infatti, l’operazione di securitization configura una cessione dei crediti iscritti in bilancio con la conseguente eliminazione di tali crediti dai prospetti contabili. Dall’altro lato, consente di migliorare i quozienti di solvibilità e il rapporto di indebitamento con benefici effetti sulla possibilità di utilizzo della leva finanziaria e sulla redditività complessiva della gestione35. Questo aspetto è, però, soltanto il risultato esteriore dell’operazione di cartolarizzazione. I maggiori vantaggi sono, infatti, conseguiti in termini di: • riequilibrio della struttura finanziaria. Attraverso la cessione degli assets l’originator realizza risorse liquide che può utilizzare per estinguere fonti troppo onerose o finanziamenti contratti a condizioni non convenienti; • diversificazione delle fonti di finanziamento. Le risorse liberate attraverso la cartolarizzazione possono essere utilizzate per effettuare nuovi investimenti produttivi36; • riduzione dei costi di finanziamento. Il costo delle operazioni di securitization è connesso, infatti, alla qualità degli assets ceduti e alla tipologia dell’operazione che si intende realizzare e non ai comuni parametri di determinazione dell’affidabilità di un’impresa. Il costo complessivo di un’operazione potrebbe, pertanto, essere inferiore per un’impresa a quello di un’altra fonte di finanziamento tradizionale; 35 Il miglioramento degli indicatori finanziari, e in particolare di quello di indebitamento, è connesso più che all’operazione di cartolarizzazione in sé, all’utilizzo delle risorse finanziarie che sono acquisite con la sua realizzazione. 36 Nel caso di imprese con elevato profilo di rischio o con scarse possibilità di accesso ulteriore al credito o, ancora, con crediti non performing in portafoglio, la cartolarizzazione costituisce una fonte di finanziamento alternativa svincolata dalle caratteristiche dell’impresa. 204 • miglioramento del profilo rischio connesso. La realizzazione di un’operazione di cartolarizzazione riduce infatti: – il rischio di liquidità, dovuto alla necessità di finanziare gli assets in oggetto per tutta la loro vita utile; – il rischio legato all’andamento dei tassi di interesse, poiché tale rischio viene trasferito ai titolari delle securities37; – il rischio di portafoglio, attraverso la “dismissione selettiva” degli assets che contribuisce a un miglioramento del merito creditizio38. L’attività più importante che l’originator pone in essere è quella di individuazione degli assets che saranno oggetto di securitization. Nel progettare l’operazione è necessario tenere in adeguata considerazione sia le caratteristiche del mercato finanziario su cui si procederà a negoziare i titoli, sia le caratteristiche della domanda sul medesimo mercato39. In questa attività l’originator deve valutare, quindi, una pluralità di elementi tra cui: le caratteristiche degli assets, particolarmente in ordine alla natura, diversificazione e liquidabilità, i vincoli di natura legislativa e fiscale40 alla cessione e, più in generale, la fattibilità e la convenienza complessiva dell’operazione nonché i tempi di effettuazione della stessa. I requisiti principali che un portafoglio di assets deve possedere al fine di essere oggetto di una securitization possono essere sintetizzati come segue41: • stabilità dei flussi di cassa associati; • elevata trasparenza al fine di ridurre al minimo il rischio di asimmetrie informative; • livello di diversificazione coerente con il rischio-rendimento atteso dai possibili investitori; • elevata affidabilità dei terzi coinvolti: credit enhancers, società di rating, servicers; • scadenze di pagamento frequenti e flessibilità nella loro gestione42. 37 Salvo particolari forme di garanzia che devono essere prestate su specifiche tranches di cartolarizzazioni. 38 Si veda in proposito Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano. 39 Spesso, per progettare e seguire la cartolarizzazione, l’originator conferisce l’incarico a un soggetto specializzato denominato Arranger. Questo opera secondo un mandato contenente gli elementi generali dell’operazione e gli obiettivi minimi che l’originator intende conseguire. 40 Si veda in proposito il par. 5. 41 Si veda in proposito Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano. 42 Questo requisito è molto utile, per esempio, nei casi di elevata stagionalità del settore di riferimento dell’originator. 205 Viste le sue caratteristiche, la cartolarizzazione sembrerebbe offrire una rilevante opportunità di accesso al mercato dei capitali anche per imprese di medie dimensioni e in particolare per quelle in fase di start-up e con notevoli tassi di crescita43. A queste ultime, infatti, è spesso associato un elevato livello di rischio che limita notevolmente la possibilità e la capacità di accedere a fonti di finanziamento di tipo tradizionale. L’attuazione di un’operazione di cartolarizzazione potrebbe, invece, consentire alle imprese di reperire risorse finanziarie indipendentemente dal profilo di rischio connesso all’impresa e quindi in modo più agevole e più conveniente. Purtroppo, queste imprese non sono sempre in grado di selezionare nel proprio attivo degli assets tali da rendere conveniente un’operazione di securitization. Gli operatori specializzati hanno superato il problema costituendo delle società ad hoc con l’obiettivo di costituire portafogli omogenei rispetto ai requisiti individuati, ma con assets provenienti da differenti originator44. Un’importante opportunità di finanziamento è offerta alle imprese appartenenti a un medesimo settore/comparto industriale o a uno stesso distretto: in questi casi, infatti, nonostante la ridotta dimensione dei singoli originators, l’insieme delle imprese risponde a quelle caratteristiche di stabilità dei flussi di cassa e di massa critica che consentono la realizzazione dell’operazione. Con particolare riguardo alla legge 130/1999, il nostro legislatore ha stabilito che le disposizioni di cui all’art. 1 si applicano “alle operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti che futuri, individuabili anche in blocco”, a una società specializzata nel compimento di tali operazioni (art. 1 lett. a) alla quale si impone il vincolo di destinazione delle somme corrisposte dal debitore o dai debitori ceduti al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi nonché al pagamento dei costi dell’operazione (art. 1 lett. b). In ordine alle caratteristiche dei crediti ceduti, la norma lascia ampio spazio agli operatori: non si esclude, infatti, la possibilità di cartolarizzare crediti di difficile esigibilità (non performing). 43 Tra le imprese con elevati tassi di crescita vi sono per esempio, quelle operanti nei settori ad alta tecnologia, come telecomunicazioni, informatica, Internet. 44 Questo tipo di cartolarizzazione, applicabile attraverso una particolare struttura alla realtà italiana, è in corso di studio da parte dello scrivente che la ha provvisoriamente definita “cartolarizzazione cooperativa” o “cartolarizzazione distrettuale”. Si tratta di una cartolarizzazione multiseller fondata su una struttura ABCP in cui è previsto l’intervento di particolari operatori strettamente connesso con l’economia locale. Attualmente se ne sta testando la fattibilità su un settore dell’economia Toscana in collaborazione con l’Associazione degli industriali della Provincia di Firenze e di alcune banche internazionali specializzate. Questo tipo di operazione e i risultati della ricerca sul campo saranno oggetto di una prossima pubblicazione. 206 La legge 130/1999 ha previsto che la cartolarizzazione riguardi la cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti che futuri, individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti. Con questa ultima espressione il legislatore ha voluto fare un esplicito rinvio all’art. 58 TUB e alle istruzioni di vigilanza (aggiornamento n. 132 del 5 dicembre 1996) nelle quali si definiscono le cessioni in blocco come un’operazione unitaria di trasferimento che comporti il trapasso in un unico contesto temporale, di una pluralità di crediti che presentano un comune elemento distintivo. È evidente che, per esigenze di tutela dei terzi, i crediti ceduti in blocco devono essere chiaramente individuati anche nell’avviso da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale45. Tuttavia, in ordine alle modalità di individuazione dei crediti ceduti in blocco, la legge 130/1999 non è chiara e quindi i criteri con cui procedere sono rimessi alla prassi. Tale incertezza legislativa potrebbe avere effetti di rilievo nel caso di cessione di crediti futuri o di operazioni revolving in cui l’individuazione dei crediti è ancora meno agevole. Relativamente alle modalità di cessione, la ratio della norma, nonostante che il testo di legge (art. 4 L. 130/1999) non preveda un’esplicita disciplina circa il trasferimento dei crediti allo special purpose vehicle (pro soluto oppure pro solvendo), sembra voler favorire quei contratti di cessione che configurano la definitiva uscita dei crediti dal patrimonio del cedente in considerazione del fatto che i crediti stessi sono legati all’emissione dei titoli che devono finanziare l’intera operazione. Un’eventuale cessione pro solvendo, oltre a essere non conforme allo spirito della norma, sarebbe penalizzata dal punto di vista fiscale: l’amministrazione finanziaria potrebbe, infatti, contestare la deducibilità delle eventuali perdite realizzate su crediti poiché mancherebbero i requisiti previsti dall’art. 66 TUIR46. 2.4. Special purpose vehicle Lo special purpose vehicle (società per la cartolarizzazione dei crediti – SCC – secondo la normativa italiana) è il soggetto che è costituito appositamente per l’acquisto dei crediti dell’originator. Questo soggetto ha, quin45 Si veda in proposito Pardolesi R. (1999), “La cartolarizzazione dei crediti in Italia: commentario alla legge 130/99”, Quaderni di giurisprudenza commerciale. 46 L’art. 66 del TUIR dispone che le perdite su crediti, affinché siano deducibili, devono risultare da elementi certi e precisi. In generale, la deduzione della perdita realizzata su crediti, è consentita solo quando assume caratteri di inevitabilità e risponde a una scelta di convenienza oggettiva dell’imprenditore (Ris. Min. 9 aprile 1980 n. 9/557). Nel caso specifico di cessione del credito a prezzo inferiore a quello nominale, la differenza è ammessa in deduzione solo nel caso di cessione pro soluto (Ris. Min. 13 marzo 1983 n. 9/634). 207 di, la funzione di separare gli assets ceduti dai valori di bilancio della cedente. Per questo motivo, lo special purpose vehicle non deve avere alcun legame di natura giuridica con l’originator e deve limitare la sua attività al solo acquisto di uno o più portafogli di crediti47. L’attività e le caratteristiche della società per la cartolarizzazione sono specificate nell’art. 3 della legge 130/1999. Questa disposizione individua l’oggetto sociale esclusivo dello Special purpose vehicle nella “realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei crediti” e ne circoscrive la funzione istituzionale. Il veicolo è caratterizzato inoltre, da durata limitata, costi di gestione ridotti, e operatività ridotta al ruolo di parte attiva nella cessione dei crediti e solo eventualmente all’emissione dei titoli48. L’analisi del contenuto della norma ci consente di esprimere due considerazioni: con opportuni accorgimenti organizzativi che garantiscano la separazione patrimoniale, è possibile realizzare con un medesimo special purpose vehicle, molteplici operazioni di cartolarizzazione. Inoltre, non è necessario che vi sia identità tra lo special purpose vehicle e l’emittente titoli: nel caso in cui si verifichi una situazione del genere solo lo special purpose vehicle dovrà avere i requisiti previsti dalla normativa in esame e in particolare quelli previsti per l’oggetto sociale. Per ciò che concerne la forma societaria e la dotazione patrimoniale, la L. 130/1999 rinvia espressamente al TUB – Titolo V e cioè alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario. Le società per la cartolarizzazione dovranno pertanto essere iscritte nell’elenco speciale tenuto presso l’UIC e i suoi esponenti devono possedere i requisiti di onorabilità e professionalità previsti dalla legge 147/1998. Lo special purpose vehicle è generalmente thin capitalized49. La ragione della thin capitalisation risiede nella funzione stessa del soggetto, costituito unicamente per realizzare l’operazione, nel fatto che la garanzia offerta ai terzi sottoscrittori dei titoli emessi dallo special purpose vehicle non è il patrimonio dell’impresa bensì gli assets a essi sottostanti, eccetto eventuali meccanismi di credit enhancement. 47 Cfr. Gambaro M. (1995), “La titolarizzazione dei crediti: come realizzare un’operazione in Italia”, in Lo sviluppo della securitization in Italia, Bancaria, Roma. Si veda inoltre nel proseguio del lavoro quanto si dirà sulle società per la cartolarizzazione dei crediti di cui alla legge 130/1999. 48 Si veda in proposito Napolitano G. (1999), “Commento alla l. 30 aprile 1999, n. 130, recante ‘disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti’”, Impresa comm. ind., p. 1297; e Pardolesi R. (1999), “La cartolarizzazione dei crediti in Italia: commentario alla legge 130/99”, Quaderni di giurisprudenza commerciale. 49 Cioè con basso livello di capitalizzazione. È da valutare l’eventuale impatto della recente riforma fiscale sulla struttura e sull’operatività delle cartolarizzazioni. 208 Il reperimento delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento dell’attività dello Special purpose vehicle avviene mediante emissione di titoli. La società per la cartolarizzazione, cessionaria dei crediti, può anche non coincidere con il soggetto emittente i titoli ABS50. Al fine di comprendere quali siano le modalità con cui le Special purpose vehicle possono svolgere la propria attività nel rispetto delle norme vigenti sul mercato domestico, è necessario analizzare il provvedimento della Banca d’Italia del 23 agosto 2000: in tale disposizione vengono individuati dei criteri-guida sia per ciò che concerne l’operatività delle Special purpose vehicle sia per quanto riguarda gli adempimenti di carattere informativo-contabile cui le stesse devono attenersi. Le Special purpose vehicle, oltre alle caratteristiche già evidenziate, hanno l’obbligo di porre in essere soltanto attività compatibili con l’interesse dei portatori dei titoli. A tale fine devono porre particolare attenzione alla “separatezza patrimoniale”, alla trasparenza delle operazioni effettuate e alla realizzazione di operazioni finalizzate solo al raggiungimento degli obiettivi della cartolarizzazione in essere. In particolare, l’elemento che caratterizza la cartolarizzazione è il principio della segregazione patrimoniale evidenziato nel combinato disposto dell’art. 1 lett. b) e dell’art. 3 comma 2: secondo tale principio, ciascuna emissione di titoli è funzionale al gruppo di crediti acquistati dalla società veicolo e il titolo emesso dalla società cessionaria o dalla società emittente non è garantito dal patrimonio della società, ma dai soli crediti relativi all’operazione. Una analisi approfondita della disposizione citata ci consente di ribadire che solo i titolari dei diritti sui titoli emessi possono compiere azioni sul patrimonio “segregato”, mentre, i creditori particolari della società possono rivalersi, per il soddisfacimento delle obbligazioni contratte dalla società per la cartolarizzazione, solo sul patrimonio di quest’ultima. Ai titoli emessi dalla società per la cartolarizzazione si applicano le disposizioni del TU dell’intermediazione finanziaria (D.lgs. 58 del 1998). L’art. 5 della L. 130/1999 dispone che i titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti sono soggetti al controllo della Banca d’Italia con applicazione delle relative sanzioni in caso di inosservanza delle prescrizioni della stessa. All’emissione di titoli non si applicano: • il divieto di raccolta diretta di risparmio tra il pubblico previsto dall’art. 11 del TUB; • i limiti quantitativi alla raccolta previsti dalla normativa in vigore; 50 La Special purpose company se diversa dalla Special purpose vehicle si occupa soltanto di emettere i titoli ABS sul mercato al momento del closing dell’operazione. 209 • gli artt. dal 2410 al 2420 c.c., aventi a oggetto i limiti all’emissione di obbligazioni, il deposito e l’iscrizione della deliberazione, la riduzione del capitale sociale, il contenuto delle obbligazioni, la costituzione delle garanzie, l’assemblea degli obbligazionisti, il rappresentante comune degli obbligazionisti, l’azione individuale degli obbligazionisti e il sorteggio delle obbligazioni. In tale modo, il legislatore ha voluto eliminare molte delle limitazioni che fino a ora hanno impedito lo sviluppo della securitization in Italia. L’inapplicabilità dei limiti suddetti e l’esclusione dall’art. 11 del TUB trovano fondamento logico nella stessa struttura dell’operazione di cartolarizzazione e in particolare nel principio di segregazione patrimoniale; poiché, infatti, lo special purpose vehicle non è responsabile patrimonialmente per il rimborso dei titoli emessi, che sono garantiti unicamente dai crediti ceduti o dal credit enhancer51, non è necessario imporre le cautele proprie degli emittenti responsabili di cui all’art 2740 CC ai quali, in carenza di adeguata patrimonializzazione, è inibito il ricorso al prestito obbligazionario52. 2.5. Tecniche di Credit enhancement La presenza di garanzie ovvero di terzi soggetti che garantiscano il buon esito dell’operazione, il cosiddetto credit enhancement, non è obbligatoria per la realizzazione della stessa, ma è importante per il suo classamento. Nel corso del tempo infatti, le operazioni di securitization, sono diventate sempre più complesse e caratterizzate da assets sempre più eterogenei; ogni qualvolta la struttura dell’operazione presenta profili di rischio troppo elevati, è necessario ricorrere a meccanismi di garanzia, per favorirne un buon accoglimento dei titoli da parte del mercato. A fini meramente classificatori, gli strumenti di credit enhancement più diffusi possono essere distinti in interni ed esterni in base alle proprie caratteristiche53: 51 Il credit enhancement è la garanzia fornita da soggetti terzi specializzati sulla possibilità di rimborso dei titoli. Per maggiori dettagli si veda quanto già esposto in precedenza. 52 Cfr. Napolitano G. (1999), “Commento alla l. 30 aprile 1999, n. 130, recante ‘disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti’”, Impresa comm. ind., p. 1297. 53 Si veda in proposito Colagrande F., Fiore L. F., Grimaldi M., Grandina D. (1999), Le operazioni di securitization. Caratteristiche, vantaggi e opportunità. Aspetti operativi, giuridici e contabili, Il Sole 24 Ore, Milano; Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano. Si veda inoltre European Securitization Forum (2002), “European Securitization: A Resource Guide”, www.europeansecuritization.net. 210 Tecniche di credit enhancement interno. La maggior parte delle emissioni di titoli ABS sono assistite da forme di credit enhancement interno. Le più diffuse sul mercato internazionale sono le seguenti. • Subordinazione. Una tipologia estremamente diffusa di credit enhancement è la struttura senior/subordinated (o A/B). Tecnicamente la stessa richiama la figura dell’overcollateralization. È caratterizzata da una tranche di rischio di titoli senior (o A) e da una o più fasce di rischio subordinate (B, C ecc.) che forniscono protezione alla tranche A. Eventuali perdite di asset inclusi nel collateral vengono in primo luogo assorbite dai titoli subordinati. Gli ABS della tranche senior (A) non vengono intaccati fintanto che le perdite gravanti sul veicolo emittente non eccedano l’ammontare delle tranche subordinate. La tranche senior grazie al meccanismo di subordinazione rappresenta la quota dell’emissione ABS valutata con il rating più elevato (esempio AAA), mentre le fasce di rischio subordinate presentano qualità inferiore (ma presumibilmente a rendimento maggiore) ricevendo un rating minore ovvero risultando unrated. Queste tranche sono spesso sottoscritte dallo stesso originator. • Overcollateralization. In questo caso l’ammontare nominale del financial asset pool oggetto di cessione è maggiore di quello del titolo che sostiene. In definitiva l’outstanding dell’emissione risulta superiore al controvalore nominale della stessa. • Yield Spread (Excess Spread). La “gestione per eccesso”, costituisce la prima difesa contro le perdite. È l’ammontare netto del pagamento (corresponsione) degli interessi dagli attivi dopo che sono stati pagati i detentori delle obbligazioni e le spese. Lo spread mensile per eccesso è impiegato per coprire le perdite del periodo corrente e può essere versato in un fondo di riserva per aumentare il credit enhancement. • Reserve Fund è un fondo separato, creato dall’emittente per rimborsare eventuali perdite, sino all’ammontare della riserva. Tecniche di credit enhancement esterno. In alternativa alle tecniche di credit enhancement interno o, sempre più spesso, in modo complementare a queste, il mercato ha sviluppato un elevato numero di tecniche definite “esterne”. Queste forme di garanzia hanno il pregio di fornire, al contrario di quelle interne, un sostegno “indipendente” rispetto ai soggetti che pongono in essere le operazioni di cartolarizzazione. Tale caratteristica genera solitamente un maggior apprezzamento del mercato che si traduce in una riduzione del costo complessivo dell’operazione. Le principali tecniche di credit enhancement esterno sono le seguenti. 211 • Cauzioni (garanzie/fideiussioni). Una cauzione è una polizza assicurativa fornita da una compagnia assicurativa quotata a protezione di una più tranche di una particolare emissione ABS. La protezione garantisce la copertura di qualsiasi perdita nella quale il veicolo possa incorrere (sia capitale sia interesse). Nel caso in cui i titoli ABS in oggetto presentino requisiti minimi per gli investitori (cioè rating BBB/Baa o equivalenti), la garanzia può essere fornita da parte dello stesso originator (se dotato di rating elevato). Normalmente ciò comporta uno o più livelli di credit enhancement, che copriranno le perdite prima della polizza assicurativa. A evidenza un ABS assicurato ha la stessa valutazione dei rating claimspaying delle compagnie di assicurazione, generalmente tripla-A, in quanto la compagnia di assicurazione garantisce il pagamento. • Garanzie di terzi o società del gruppo. Un terzo – per esempio una compagnia assicurativa quotata o una società del gruppo – si impegna a rimborsare il trust delle perdite sino a un ammontare prestabilito massimo. Può anche concordare di anticipare il capitale e l’interesse, ove necessario, e riacquistare i prestiti non onorati. • Lettere di credito. Sono emesse da istituti finanziari, solitamente banche, cui è corrisposta una commissione; consentono di avere la liquidità necessaria a rimborsare il trust di qualsiasi perdita realmente subita, sino all’ammontare del credit enhancement richiesto. • Conto corrente collaterale (aggiuntivo). In questo caso l’emittente si fa prestare la quantità di credit enhancement necessaria da una banca commerciale e successivamente investe quella somma in titoli a breve termine (un mese) a tassi maggiori. Poiché si tratta di un vero e proprio deposito in contanti – a differenza della lettera di credito che rappresenta una promessa di pagamento – un eventuale downgrading del fornitore di conto corrente collaterale non comporta un downgrading dell’emissione. • Collateral Invested Amount. È simile a una tranche subordinata e può essere acquistato su base negoziale da un terzo garante o cartolarizzato con un collocamento privato. Il ruolo di credit enhancer esterno è svolto principalmente da istituti di credito, da compagnie di assicurazione e da agenzie specializzate. 2.6. Società di rating Il rating è uno strumento che negli attuali mercati finanziari assume un rilievo sempre maggiore. In genere, mediante il rating il potenziale investito- 212 re acquisisce una valutazione della rischiosità dell’investimento e può agevolmente confrontare le diverse opportunità che gli sono offerte dal mercato finanziario. Proprio questa funzione rappresenta il motivo principale per cui anche il legislatore ha previsto l’obbligo di sottoporre a rating le operazioni di cartolarizzazione. Infatti, “la complessità di un’operazione di cartolarizzazione e della struttura di garanzie che a questa si collegano, può rendere difficile a un investitore la valutazione diretta della validità del titolo”54. È, pertanto, necessario, per gli investitori, poter disporre di un giudizio sintetico con cui valutare la coerenza tra il rischio e il rendimento connessi all’operazione; tale giudizio è espresso dalle società di rating55. La legge 130/1999, tuttavia, prevede l’obbligo di rating solo per le operazioni per le quali è previsto un collocamento presso il pubblico56. Proprio il particolare ruolo di garanzia degli investitori non professionali che la legge assegna alle società di rating, ha spinto la Consob a emanare uno specifico provvedimento in cui si precisano i requisiti di professionalità e di indipendenza che devono essere posseduti dai soggetti in argomento57. I punti principali della delibera Consob possono essere sintetizzati come segue. • Requisiti di professionalità: gli operatori di rating devono essere costituiti in forma societaria e devono assicurare, nella formulazione del giudizio, esperienza58, riservatezza, adeguatezza della struttura di valutazione. Tali requisiti si considerano posseduti da operatori attivi sul mercato europeo da almeno tre anni nel campo delle valutazioni del merito del credito. • Requisiti di indipendenza: la delibera Consob pone particolare attenzione all’argomento. L’organismo di vigilanza dei mercati dispone infatti che la valutazione del merito del credito non può essere effettuata da società che si trovino a essere controllati o controllanti o collegate, direttamente o indirettamente, a soggetti che partecipano all’operazione59. Al fine di individuare le ipotesi di controllo e collegamento si 54 Cfr. Gambaro M. (1995), “La titolarizzazione dei crediti: come realizzare un’operazione in Italia”, in Lo sviluppo della securitization in Italia, Bancaria, Roma. 55 L’attendibilità del rating dipende dalla professionalità e dall’affidabilità delle società che lo effettuano. A tale proposito la Consob ha emanato un proprio regolamento con cui dovrebbe individuare i requisiti di professionalità e di indipendenza delle società di rating. 56 Si veda art. 2, comma 4, della legge 130/1999. 57 Cfr. delibera Consob 12175 del 2 novembre 1999. 58 L’esperienza professionale è assicurata quando il giudizio è formulato con il concorso di soggetti che per almeno tre anni abbiano esercitato una attività di valutazione dei crediti. 59 Per soggetti che partecipano all’operazione si intendono il soggetto cedente, lo special purpose vehicle, i servicers, i credit enhancers. 213 deve fare riferimento alle disposizioni del TUF art. 93, e del Codice Civile art. 2359. Qualsiasi rapporto di partecipazione tra la società di rating e altri soggetti che partecipano all’operazione di cartolarizzazione deve essere indicato nel prospetto informativo. Il provvedimento della Consob non pare sufficiente ad assicurare una soddisfacente risoluzione dei problemi in essere. Innanzitutto, pare che si sia voluto restringere il campo dei soggetti coinvolti nell’operazione: non sembrerebbero pertanto applicabili le disposizioni viste in precedenza, per esempio, alle operazioni in cui il cessionario sia diverso dallo Special purpose company (emittente titoli). Inoltre, la mancanza di una qualsiasi forma di vigilanza sull’operato delle società di rating60 riduce, nella pratica, la portata giuridica della disposizione Consob. Tale considerazione potrebbe, per esempio, trovare conforto nel fatto che la Borsa Italiana ha ristretto il numero delle società di rating ammesse alla valutazione del merito del credito ai fini della quotazione delle ABS all’Euromot alle tre società internazionali più note (Moody’s Investors Service LTD, Standard & Poor’s rating group e Fitch IBCA Inc.) e nel fatto che lo stesso regolamento fissa dei requisiti minimi di valutazione del merito del credito per l’ammissione alle quotazioni61. L’oggetto principale di analisi della società di rating è costituito dalla verifica della “qualità” del portafoglio con lo scopo di valutare la congruità dei rendimenti promessi con le aspettative di incasso dei crediti costituenti la massa ceduta. Il portafoglio crediti viene quindi frazionato in “pacchetti” omogenei in relazione alla durata e alla rischiosità dei crediti. Le modalità con cui ciascuna società procede all’attribuzione del rating sono differenti. Nelle operazioni di cartolarizzazione dei crediti, però, tutte le società valutano almeno tre aspetti essenziali: i flussi di cassa rinvenienti dall’operazione, la loro distribuzione tra le varie classi di investitori, la struttura legale dell’operazione62. I rischi analizzati dalle società di rating in una operazione di cartolarizzazione sono principalmente i seguenti63: • il basis risk che è strettamente connesso alla natura stessa dei crediti 60 Non ci sono infatti obblighi di iscrizione ad albi o registri di alcun tipo. Si veda in proposito il par. 3. 62 Si veda in proposito Pini G. (1995), “La securitisation: rischi e ruolo del rating”, in Lo sviluppo della securitisation in Italia, Bancaria, Roma. 63 Si veda in proposito Rumi G. (2000), “Securitisation in Italia. La legge n. 130/99 sulla cartolarizzazione dei crediti”, Giurisprudenza Commerciale, n. 3; Colagrande F., Fiore L. F., Grimaldi M., Grandina D. (1999), Le operazioni di securitization. Caratteristiche, vantaggi e opportunità. Aspetti operativi, giuridici e contabili, Il Sole 24 Ore, Milano; Dossena G. (1995), Asset securitization e project financing, Egea, Milano; Bontempi P., Scagliarini G. (1999), La securitization, Giuffrè, Milano. 61 214 oggetto di cessione e alle loro caratteristiche di base (scadenze, debitori ecc.); • il credito collateral risk legato alla possibilità che parte degli assets cartolarizzati originino delle perdite per mancato incasso; • i rischi legati a ciascuno dei soggetti coinvolti a vario titolo nell’operazione e la loro eventuale incapacità a fare fronte agli impegni assunti. Generalmente solo una parte del portafoglio riceve un rating di tipo investment grade che viene ulteriormente suddiviso in classi di rischio (minimo, intermedio, massimo) cui è assegnato un rendimento connesso (rispettivamente basso, medio, alto). Gli altri titoli cartolarizzabili sono caratterizzati da un rating non investment grade, con elevato profilo di rischio connesso poiché emessi a fronte di crediti non performing. Successivamente all’assegnazione del rating, la società incaricata ha il compito di monitorare le performances degli assets ceduti che devono essere coerenti con le aspettative individuate in fase di prima istruttoria. Il rating può, quindi, essere aumentato (upgrade) o diminuito (downgrade) durante la vita dell’emissione, a discrezione della società di rating, qualora si vengano a modificare le condizioni che hanno consentito di esprimere la valutazione originaria. Tale attività ha evidenti ripercussioni sui titoli emessi sul mercato secondario poiché influenza la formazione dei prezzi. 2.7. Servicer Il servicer è il soggetto che si occupa della gestione del portafoglio ceduto dall’originator. Nelle operazioni con struttura anglosassone il ruolo del servicer è svolto spesso dallo stesso originator in virtù della maggiore conoscenza dei debitori ceduti. Tuttavia, l’ordinamento italiano pone notevoli limiti alla figura del servicer: la legge, infatti, prevede che ci sia l’obbligo di indicare nel prospetto, informazioni circa le generalità dei soggetti incaricati della riscossione dei crediti ceduti e dei servizi di cassa e di pagamento, ma prevede anche che tali attività siano svolte da soggetti iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del TUB. Non pare possibile, pertanto, che l’originator ricopra anche l’incarico di servicer nel caso in cui non sia iscritto nel suddetto elenco. Questa previsione di legge, in palese contrasto con la pratica dell’operazione realizzata “fuori confine” potrebbe porre un notevole ostacolo allo sviluppo della cartolarizzazione in Italia, soprattutto per origi- 215 nators non “finanziari”. Nella pratica, infatti, la coincidenza tra l’originator e il servicer nasce da una duplice esigenza: • da un lato l’originator può mantenere “riservata” l’operazione finanziaria continuando a tenere un rapporto diretto con i propri clienti; • dall’altro, la conoscenza del cliente da parte dell’originator e l’eventuale continuità dei rapporti commerciali esistenti tra i due soggetti, dovrebbero essere elementi a favore del buon esito dell’operazione. Non si riesce pertanto a comprendere il motivo per cui il legislatore non abbia voluto estendere anche a operatori non iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del TUB la possibilità di assumere la qualifica di servicers. La Banca d’Italia, infine, ha emanato un provvedimento64 in cui si precisano le regole cui devono attenersi i soggetti in esame. I servicer hanno il compito di verificare che: • le somme che provengono dalla riscossione dei crediti affluiscano alla special purpose vehicle nel pieno rispetto del principio di separazione patrimoniale; • siano sempre tutelati e curati da parte della special purpose vehicle e di altri soggetti coinvolti nell’operazione, gli interessi dei portatori dei titoli; • gli incassi avvengano nel rispetto delle scadenze programmate. Per assolvere ai propri compiti in modo continuo ed efficace sono previsti taluni obblighi per i servicers65. Questi, infatti, devono: • dotarsi di strutture tecniche e organizzative adeguate al corretto e continuo esame delle operazioni di cartolarizzazione. In tale ambito devono predisporre sistemi di gestione dei flussi finanziari di incasso dei crediti, di monitoraggio continuo delle operazioni di incasso e di recupero dei crediti in sofferenza; • disporre di una dotazione patrimoniale idonea ad assicurare la continuità nello svolgimento delle proprie funzioni66. Il capitale sociale versato non deve comunque essere inferiore a un miliardo di lire in base all’originario dettato normativo (è stato oggetto di conversione in euro); 64 Cfr. Provvedimento del Governatore del 23 agosto 2000 recante “Disposizioni per le società di cartolarizzazione”. 65 I servicers possono delegare talune proprie funzioni ad alcuni soggetti specializzati solo se rimane inalterata la possibilità di verificare il corretto svolgimento delle operazioni di cartolarizzazione per le quali il servicer è comunque responsabile. 66 Il provvedimento del 23 agosto 2000 del Governatore della Banca d’Italia, stabilisce anche delle regole di vigilanza prudenziale e fissa alcuni limiti minimi di patrimonio utile ai fini di vigilanza in connessione con le attività svolte dal servicer. 216 • • informare la Banca d’Italia ogni qualvolta si verifichino delle anomalie nello svolgimento delle operazioni; predisporre un sistema informativo e contabile che consenta in qualsiasi momento di ricostruire con certezza il complesso delle operazioni poste in essere relativamente a ciascuna operazione di cartolarizzazione. A tale fine i servicers devono realizzare e inviare periodicamente alle società emittenti dei rendiconti da cui risultino informazioni circa i dati contabili, le posizioni dei debitori e ogni altra circostanza rilevante al fine del recupero dei crediti e dell’escussione delle garanzie67. 3. Alcuni esempi di strutture di cartolarizzazione Prendendo spunto da quanto precede, si è tentato di esaminare in maniera critica le varie strutture di cartolarizzazione finora utilizzate nella prassi finanziaria tentando di approfondire l’analisi di quelle forme, che potrebbero contribuire allo sviluppo del sistema industriale senza provocare stravolgimenti nella normale operatività delle imprese e senza causare un aggravio dei costi informativi e di ottenimento del credito da parte del sistema medesimo. L’esame della prassi internazionale, è emerso che la struttura paythrough è quella più utilizzata. Il motivo di questa scelta probabilmente risiede nel fatto che tale tipo di struttura offre molteplici varianti che le consentono di adattare lo schema di base a ogni esigenza di finanziamento. L’ingegneria finanziaria applicata alle operazioni di securitization, pur senza considerare la struttura della Synthetic securitization, ha prodotto una estrema sofisticazione delle strutture di base consentendone l’utilizzo per il finanziamento di singole imprese e di interi settori industriali. Nonostante ciò, o forse proprio per questo motivo, l’impossibilità di standardizzare la securitization può rappresentare una opportunità per individuare e costruire nuove strutture che siano utili a tale scopo. Nel seguito della trattazione verranno, quindi, analizzate alcune delle opzioni strutturali maggiormente utilizzabili per il finanziamento delle imprese anche di piccola e media dimensione e, in particolare, sarà approfondito l’esame delle Collaterized obligations (CO) e delle Asset backed commercial paper program (ABCP). 67 Si veda in proposito Rumi G. (2000), “Securitisation in Italia. La legge n. 130/99 sulla cartolarizzazione dei crediti”, Giurisprudenza Commerciale, n. 3 e la bibliografia ivi citata. 217 3.1. Le Collateralised Obligations (CO) Nella loro pluriennale presenza sui mercati finanziari, le ABS si sono evolute allo scopo di migliorare il rapporto rischio/rendimento sia per gli emittenti che per i prenditori di titoli. Un primo filone di sviluppo di questa tecnica finanziaria ha tentato di rispondere a questa esigenza cercando di svincolare il rendimento e la struttura delle scadenze delle ABS emesse dalle caratteristiche delle attività sottostanti attraverso la trasformazione del rischio di portafoglio sottostante e si è concretizzato con l’emissione di titoli complessi denominati Collateralised Obligations (CO). In base alle caratteristiche del collaterale possono essere suddivisi in Collateralised Mortgage Obligations (CMO), e Collateralised Debt Obligations (CDO) a loro volta ulteriormente in suddivisibili in Collateralised Bond Obligations (CBO) e Collateralised Loan Obligations (CLO). In particolare, vista l’esperienza nazionale e internazionale in tema di finanziamento delle imprese di piccole e medie dimensioni, si ritiene opportuno concentrare l’analisi sulle CDO. Le Collateralised Debt Obligations (CDO). Negli ultimi anni i mercati sono stati caratterizzati da un elevato numero di operazioni di securitization strutturate nella forma di Collateralised Debt Obligations (CDO). È chiamata CDO qualsiasi cartolarizzazione di tipo ABS nella quale il portafoglio sottostante è composto da titoli obbligazionari (Collateralised Bond Obligation, CBO) o da prestiti (Collateralised Loan Obligation, CLO) o eventualmente un mix di titoli e prestiti. Assieme alle Collaterized Mortgage Obligations (CMO) i CDO sono le categorie di ABS che si stanno sviluppando maggiormente in Europa. Mentre però le prime sono operazioni molto standardizzate e facili da confrontare, di contro è più difficile l’analisi dei CDO in quanto vi sono moltitudini di strutture, tipologie di collaterali e strumenti di gestione. La maggior parte degli assets dei CDO provengono dal sistema bancario: portafogli di obbligazioni o di finanziamenti i cui debitori sono le imprese68 clienti degli istituti di credito stessi. 68 Data la tipologia di attività a garanzia, la società originator è comunemente una istituzione finanziaria. Gli obiettivi che una banca può realizzare attraverso questo strumento di finanziamento sono molteplici: riduzione del patrimonio di vigilanza con conseguente aumento del rendimento del capitale (ROE), riduzione dei costi finanziari, miglioramento nella gestione e nel profilo di rischio dell’attivo di bilancio. Nel caso dei CLO ciò che rende ancora più appetibile è la possibilità per la banca di mantenere la relazione con il cliente attraverso il ruolo di “amministratrice” che svolge nella transazione. Inoltre quest’ultimo ruolo permette alla banca una maggiore e più efficace disciplina nello svolgimento della propria funzione di gestione del credito. 218 219 Altri partecipanti Originator n (istituzione finanziaria “aggregante”) Rating Agency Cash flow L’ultima tranche E è sottoscritta da originator e garantita e garantita Per le senior notes (class A, B, C, D) gli investitori sono istituzionali Titoli emessi: • senior (A) • mezzanine (B) • mezzanine (C) • mezzanine (D) • junior o equity (unrated E) Pagamento interessi Prezzo di vendita collocamento Pagamento degli interessi Consorzio di collocamen to Emissione titoli CLO Gestore fiduciario (trustee – eventuale) Prezzo di vendita collocamento Credit enhancement Special Purpose Vehicle Servicer • Rapporti con debitori • Centralizza gli incassi Emissione del rating Prezzo di vendita Flussi di cassa correntil port. Vendita del portafoglio Cessione degli asset allo SPV Figura 3 – Struttura dell’operazione di cartolarizzazione distrettuale tramite CDO debitori debitori Come già illustrato nei paragrafi precedenti, anche nel caso di CDO, l’originator cede un portafoglio omogeneo di assets a una società veicolo costituita appositamente per la realizzazione dell’operazione. La struttura dell’operazione è quindi quella rappresentata nella fig. 3. L’originator spesso mantiene la relazione commerciale con il cliente debitore (acquisendo la qualifica di servicer se ne ha i requisiti) e gestisce il portafoglio ceduto e i relativi incassi per conto della società veicolo. Questa ultima procede all’emissione e al collocamento dei titoli, spesso in tranche con differente grado di privilegio, per raccogliere le risorse finanziarie necessarie ad assicurare all’acquisto del portafoglio. La tranche senior (AAA) è quella di maggiore dimensione e quindi quella che garantisce la percentuale più alta di finanziamento e che contribuisce a ridurre il costo medio ponderato dell’operazione. Il classamento dell’operazione prosegue fino all’emissione di tranche junior: queste sono quelle con il livello di subordinazione più basso, e conseguentemente sono le prime a sopportare eventuali perdite di portafoglio. Tra queste, la tranche denominata equity è spesso sottoscritta dallo stesso originator. Molto spesso l’operazione prevede anche un periodo di reinvestimento durante il quale l’originator può aggiungere nuovi assets al portafoglio esistente avendo cura però che tali incrementi siano coerenti con le caratteristiche complessive dell’intero portafoglio. A seconda dell’obiettivo che si intende realizzare, un CDO può definirsi come operazione di arbitraggio, nel caso in cui la società cedente voglia sfruttare opportunità di mercato al fine di ridurre il costo di finanziamento (Arbitrage CDO), oppure come operazione patrimoniale nel caso in cui quest’ultima intenda rendere più efficiente la gestione del proprio capitale (Balance Sheet CDO). Con i Balance Sheet CDO (o CDO di bilancio), l’impresa originator persegue l’obiettivo di ottimizzare il bilancio: generalmente si tratta di una istituzione finanziaria che cerca di “deconsolidare” un portafoglio di crediti. Questo tipo di transazione è in forte sviluppo, principalmente grazie alle banche che cercano di ridurre il loro capitale regolamentare per soddisfare le esigenze crescenti in termini di ROE69. L’interesse di un Arbitrage CDO si analizza, indipendentemente da qualsiasi considerazione sul cedente, l’obiettivo dell’originator che è quello di effettuare un arbitrato di mercato comprando un portafoglio che verrà diviso in diversi livelli di rischio, più adatto ai profili ricercati dagli investito- 69 Nella maggior parte dei casi, i portafogli ceduti sono dei prestiti, così il termine CLO è spesso assimilato ai Balance Sheet CDO. 220 ri in modo che il costo all-in di rifinanziamento del CDO (cioè il prezzo di vendita di tutte le tranche compresa la più subordinata) sia più vantaggioso del prezzo di acquisto dell’attivo sottostante70. In genere gli Arbitrage CDO sono dotati di un gestore, il quale ha il compito di gestire il portafoglio per conto dello Spv secondo criteri definiti nell’Investment Management Agreement. All’interno del quale, tra l’altro, viene stabilita la frequenza e la forma dei reportings che il gestore deve fornire allo Spv e alle agenzie di rating. I Balance Sheet CDO sono solitamente operazioni di ammontare rilevante in quanto il portafoglio smobilizzato deve essere sufficientemente ampio per avere un impatto significativo sul ROE dell’impresa cedente. Al contrario, gli Arbitrage CDO sono spesso delle transazioni private che vertono su portafogli di limitate dimensioni. Così, benché vi siano numerose transazioni, gli Arbitrage CDO rappresentano, per volume delle operazioni, un segmento di mercato molto inferiore rispetto a quello relativo ai Balance Sheet CDO71. 3.2. Le Asset Backed Commercial Paper (ABCP) Un programma di Asset backed commercial paper (ABCP) è composto da un conduit che emette titoli normalmente a breve termine (commercial paper o CP) e utilizza le risorse finanziarie ottenute per acquistare varie tipologie di asset da uno o più originators. L’operazione è in grado di fornire una valida e flessibile alternativa di finanziamento a quelle imprese o aggregati di esse che cercano di finanziare la propria attività a breve termine. Un programma ABCP coinvolge molteplici soggetti che intervengono a vario titolo nell’operazione; molti di questi coincidono con le figure già viste nei capitoli precedenti, altri sono completamente nuovi (per esempio fornitori di liquidity facilities per assistere i rimborsi degli effetti commerciali). Gli asset che vengono cartolarizzati possono essere a lunga, media o breve scadenza; tuttavia, in funzione della natura a breve termine dei titoli emessi, le asset-backed commercial paper (ABCP) hanno prevalentemente a oggetto crediti commerciali a breve termine. 70 Per natura il sottostante di un CDO di arbitrato è un attivo che è stato comprato, e si tratta dunque di un attivo negoziabile. Spesso si tratta di titoli così il termine CBO viene spesso assimilato agli arbitrage CDO. 71 Questo scarto è amplificato in Europa, dove molti operatori emettono dei Balance sheet CDO, mentre la maggior parte degli Arbitrage CDO è costituita da attivi americani (HighYield per esempio). 221 I titoli vengono emessi dal veicolo nella forma di commercial paper72: si tratta di asset-backed securities, cioè titoli garantiti esclusivamente dal pool di crediti acquisiti dal veicolo. Generalmente le asset-backed commercial paper (ABCP) hanno scadenza compresa tra i 3 e i 12 mesi e vengono emesse su base revolving73. A ogni scadenza dei titoli, il veicolo ne rimborsa il valore nominale ed emette nuove commercial papers (roll-over) per un importo nominale pari all’ammontare dei crediti outstanding. Ciò permette di collegare il piano di ammortamento dei crediti in portafoglio (per esempio a medio termine) a quello di rimborso delle ABCP (a breve termine). Al closing dell’operazione, il veicolo ha quindi finanziato l’acquisizione dell’interesse economico nel portafoglio crediti dell’originator attraverso l’emissione e il collocamento presso gli investitori delle commercial paper notes. Il collocamento, in genere avviene tramite dealers o placement agents, normalmente investment o commercial bank. I dealers, previa deduzione delle loro spettanze sotto forma di commissioni, trasferiranno i fondi raccolti presso un account in nome del veicolo, tenuto dall’issuing and paying agent (generalmente funzione svolta da una banca commerciale). Il veicolo preleverà poi i fondi e li trasferirà, attraverso il servicer, all’originator come prezzo per l’acquisizione del pool di asset. Il veicolo provvede inoltre al rimborso delle ABCP che giungono a scadenza attraverso l’emissione di nuove ABCP74. 72 Le commercial papers non sono titoli di credito, ma “semplici dichiarazioni ricognitive del debito rilasciate dall’impresa finanziata”. Cfr. Treccani (2008), Enciclopedia Giuridica. Le polizze sono liberamente trasferibili e spesso beneficiano di una garanzia di elevato standing. Le polizze non sono titoli cambiari, ma documenti privi dei requisiti di astrattezza, letteralità ed esecutività e circolanti secondo le norme di diritto comune. Il debitore oltre a riconoscere l’esistenza del debito, dichiara di rinunciare a opporre al portatore qualsiasi eccezione non risultante dalla polizza. Le polizze di credito commerciale non scontano l’imposta di bollo cambiaria. Possono anche essere emesse da società a responsabilità limitata. Per approfondimenti si rinvia a Troiano V. (1994), Le polizze di credito commerciale, Cacucci, Bari; e Capriglione F. (1992), “Le polizze di credito commerciale”, in Il Contratto, Cedam, Padova. 73 In genere la durata delle commercial paper non supera i tre mesi, ma nulla vieta che al fine di una loro più efficace utilizzo in una securitization possano presentare scadenza più lontane. In Italia, peraltro la scelta di emettere dei titoli a più lunga scadenza – oltre i 18 mesi – è originata da esigenze fiscali. 74 Durante la transazione il valore outstanding dei titoli asset-backed eguaglia sempre il credito residuo del pool di crediti. 222 223 Rating Agency Emissione del rating Prezzo di vendita Flussi di cassa correnti port. Vendita del portafoglio Special Purpose Vehicle Prezzo di vendita Emissione Servicer • Rapporti con debitori • Centralizza gli incassi Cash flow Titoli emessi: • senior (A) • mezzanine (B) • mezzanine (C) • mezzanine (D) • equity (unrated E) Pagamento interessi Prezzo di vendita Collocamento Pagamento degli interessi Consorzio di collocamen to x Insurance company x Gestore fiduciario (trustee – eventuale) x Issuing & payng agent Credit enhancement – Liquidity support Cessione degli asset allo SPV Emissione Mercato Italia/ estero Italia Estero Legenda: nella figura sono indicati tutti i soggetti coivolti nell’operazione: quelli tipici della securitization sono indicati con colore blu, gli altri soggetti con colore bianco. Le aree in grigio servono a evidenziare le differenti fasi dell’operazione. Le relazioni tra i soggetti coinvolti e il tipo di attività svolta da ciascuno di essi nelle singole fasi è rappresentata dalle linee di collegamento. le linee tratteggiate in colore verde servono per delineare i luoghi fisici in cui si svolgono le attività. Altri partecipanti Originator n Originator 2 Originator 1 Conduit Emissione titoli ABCP Figura 4 – Struttura dell’operazione di cartolarizzazione distrettuale tramite ABCP debitori debitori I fondi occorrenti per l’emissione delle nuove ABCP derivano dal pool cartolarizzato: in particolare, i flussi di cassa per capitale e interessi, generati periodicamente dai titolari dei crediti inclusi nel portafoglio cartolarizzato, sono raccolti dall’originator e trasferiti al servicing agent, dove andranno ad alimentare un collection account, intestato al veicolo. Dal collection account tutti i flussi vengono poi trasferiti in un segregated account tenuto presso l’issuing and paying agent il quale li userà per pagare gli investitori al momento della presentazione delle commercial paper in scadenza. In seguito si procederà similmente; l’issuing and paying agent, utilizzerà i fondi derivanti dalle nuove emissioni di commercial paper, per ripagare quelle giunte a scadenza. A tutela degli interessi degli investitori, la struttura deve prevedere adeguate forme di garanzia. Gli originator coinvolti nell’operazione devono rispettare certi livelli minimi di credit quality e operatori specializzati (banche o compagnie di assicurazione) devono provvedere a fornire le necessarie garanzie all’operazione. Inoltre, a maggiore garanzia, i credit enhancers o gli stessi originators coinvolti possono intervenire tramite la formula del prestito subordinato. Nelle asset-backed commercial paper il costo del funding con cui il veicolo finanzia i propri investimenti nel pool è legato alle commercial paper. Se il costo del debito varia, il veicolo dovrà assicurarsi che l’investimento nel pool cartolarizzato supporti sempre le proprie obbligazioni di pagamento. In caso di crediti commerciali o di altri crediti che non producono interessi ciò è relativamente semplice: il veicolo tratta tutti i flussi rivenienti dalle collections e stanzia quanto necessario a pagare il costo delle passività emesse. Se non si ottengono flussi di cassa sufficienti ad assicurare il servizio del debito e ripagare l’investimento effettuato dal veicolo, normalmente ha inizio la fase di liquidazione dell’operazione. Generalmente, al closing dell’operazione, viene costituita una riserva di liquidità (liquidity reserve) con il finanziamento subordinato concesso dall’originator (o dalla Banca). Il veicolo ha la possibilità, durante l’operazione, di utilizzare la riserva, nel caso la somma tra l’ammontare dei ricavi generati dal portafoglio e depositati su un apposito conto (collection account), e i ricavi di sottoscrizione delle ABCP non siano sufficienti a coprire le spese senior dell’Spv e il rimborso dei titoli asset-backed giunte a scadenza. Scopo principale della liquidity reserve è quello di garantire agli investitori il servizio del debito anche nella situazione in cui la performance del portafoglio risulti peggiore di quella attesa. 224 Inoltre, il receivable purchase agreement può contenere la previsione di trigger commencing liquidation dell’investimento del veicolo se il tasso delle commercial paper, insieme alle spese di servicing e simili, ecceda quello degli interessi legato al pool di crediti contenuto nel portafoglio ceduto. Nel momento in cui inizia la liquidazione dell’interesse del veicolo75, i flussi di pagamenti seguono la stessa sequenza, con l’unica differenza che l’originator trasferirà i flussi ottenuti dalle receivable al servicing agent, e questi all’issuing and paying agent per consentire il pagamento delle commercial paper in scadenza senza attendere i proventi derivanti da nuove emissioni. Nel caso in cui non si sia in fase di liquidazione dell’investimento e il veicolo non sia in grado di emettere nuove commercial paper, l’issuing and paying agent deve ottenere la liquidità necessaria ricorrendo alle credit enhancement facilities precedentemente stipulate. Infine, il veicolo può impegnare presso un collateral agent tutti i suoi diritti nel pool di receivables nel quale ha investito in modo da assicurare il rimborso di tutte le proprie obbligazioni verso i creditori, inclusi il credit and liquidity enhancers e i titolari delle commercial paper. Negli ultimi anni è cresciuto il numero delle commercial bank, che sono intervenute, in qualità di sponsor, per la costituzione di conduit da utilizzare nell’ambito di strutture multiseller. La presenza del conduit, riduce sostanzialmente i costi dell’operazione, eliminando la necessità, a livello di singola operazione, della valutazione da parte delle agenzie di rating, e delle richieste relative alle forme di garanzia da attuare a supporto dell’operazione. Il rating viene quindi emesso sull’intero ammontare dei titoli collocati. Il giudizio viene proposto direttamente sul conduit e concerne l’intera struttura. Nel caso di multiseller conduit, in cui vengono cartolarizzati gli asset generati da più società distinte, la struttura dell’operazione può prevedere la presenza di più special purpose vehicle, ognuna attinente uno specifico originator, che trasferiscono pool di asset al conduit per la successiva cartolarizzazione. Normalmente, i conduit, emettono commercial paper ad alto rating (A1 secondo la scala Standard & Poor’s), grazie all’ottenimento di credit enhancement da terze controparti garanti, di stand by lines of credit per bisogni di liquidità a breve e diversificando gli asset acquistati. 75 In caso di operazione multiseller, ovviamente, la liquidazione può riguardare anche solo un pool di receivable facenti capo a un originator. In tal caso l’operazione resta in essere, relativamente agli altri seller intervenuti nel programma. 225 I programmi ABCP hanno molti aspetti in comune con quelli di securitization, di cui costituiscono una particolare articolazione, tuttavia differiscono nei seguenti aspetti: • gli investimenti in asset del conduit possono aumentare di dimensione con il passare del tempo. La struttura del portafoglio del conduit è infatti sostanzialmente aperta e quindi è sempre pronta ad accogliere un ampliamento dei portafogli esistenti o nuovi portafogli derivanti da ulteriori operazioni. • i conduit possono effettuare investimenti in varie tipologie di asset al fine di ottenere una diversificazione del portafoglio. Ciò è strumentale all’assegnazione del rating alle emissioni di ABCP. 4. Conclusioni Dopo quasi un decennio dall’emanazione della legge 130/1999, la cartolarizzazione dei crediti è divenuta una operazione finanziaria diffusa anche sul mercato italiano. Il numero crescente delle operazioni concluse in questi anni e la riduzione progressiva del taglio medio delle stesse evidenzia una maturazione del mercato della cartolarizzazione e una maggiore attenzione degli operatori rispetto alla natura e ai reali obiettivi che con la securitization si possono perseguire. Nelle ultime operazioni infatti, le imprese hanno utilizzato la cartolarizzazione come strumento di finanziamento dell’attività e non come mezzo per attuare politiche di “pulizia” dei bilanci. Nonostante ciò, è necessario che il mercato domestico si sviluppi ulteriormente accogliendo tutte quelle operazioni, comuni nella prassi dei Paesi di stampo anglosassone, che al momento non sono realizzate in Italia: a tale fine potrebbe essere opportuno, pur senza imbrigliare la materia, apportare dei correttivi alla legge 130/1999 con l’obiettivo di ridurre le incertezze in ordine ad alcuni aspetti e favorire ulteriormente l’utilizzo di questo strumento da parte delle imprese non finanziarie che possono trovare nella cartolarizzazione uno strumento di finanziamento stabile e conveniente. Alla luce della recente stretta del credito (credit crunch) che ha interessato l’economia a livello globale, modifiche all’apparato regolamentare vigente risultano ancor più necessarie per ripristinare, iniettando la fiducia necessaria, un virtuoso funzionamento del sistema finanziario e degli operatori del mercato creditizio. 226 BIBLIOGRAFIA Aa. Vv. (1997), “Dossier titrisation”, Banque, n. 581, maggio. Aa. Vv. (1999), Atti del convegno “Le novità legislative in materia di cartolarizzazione dei crediti”, Il Sole 24 Ore, Milano Aa. Vv. (1999), La cartolarizzazione dei crediti in Italia. Caratteristiche tecniche, aspetti legali e fiscali e vantaggi per le banche e per le imprese, Bancaria, Roma. Aa. Vv. (2000a), “Modelli per la gestione del rischio di credito. I ratings interni”, Tematiche istituzionali, Banca d’Italia, Roma. Aa. Vv. (2000b), Atti del convegno Business International: II incontro sulla securitisation in Italia, Roma Aa. Vv. 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