Emilio Reyneri OCCUPAZIONE, LAVORO E DISEGUAGLIANZE SOCIALI NELLA SOCIETÀ DEI SERVIZI in corso di pubblicazione (non citare) 1. Apogeo e caduta della classe operaia della grande industria A metà anni Settanta in Europa e negli altri paesi dell’Occidente sviluppato si concluse un trentennio di crescita economica senza precedenti (la golden age) e di grandi miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita (les trente glorieuses). Nonostante il forte esodo agricolo, vi fu una costante crescita dell’occupazione e il tasso di disoccupazione dei paesi europei scese fino all’1,5% a metà anni Sessanta. Nei paesi first comers dello sviluppo capitalistico, come Gran Bretagna e Olanda, si completò la transizione industriale e cominciò a decollare quella terziaria; in altri, come Francia e Germania, esplose il processo di industrializzazione; in altri ancora, i late comers, come l’Italia, i tempi furono un po’ ritardati, ma la rapidità del mutamento fu ancor maggiore. La forte mobilità settoriale si realizzò in poco più di una generazione grazie a un profondo ricambio della forza lavoro. Imponenti immigrazioni interne e internazionali sostituirono le donne, che si dedicarono in maggior misura al lavoro familiare, i più giovani, che proseguirono negli studi, e gli anziani, che cominciarono a godere di un migliore sistema pensionistico (Reyneri 2000). Il sistema economico e sociale si trovava in un circolo virtuoso. Grazie a un boom degli investimenti industriali la produttività del lavoro cresceva a un ritmo inusitato; anche il volume della produzione cresceva rapidamente e trovava facile sbocco nella sempre maggiore capacità di consumo di beni durevoli da parte delle famiglie; i salari dei lavoratori aumentavano in misura cospicua senza causare inflazione né contrazione dei profitti delle imprese, poiché la loro dinamica restava entro quella della produttività del lavoro; infine si affermava il welfare state o état providence, che, pur con notevoli differenze nazionali, ridusse le insicurezze nel mercato del lavoro con le indennità di disoccupazione e le pensioni e contribuì ad accrescere il benessere delle famiglie dei lavoratori fornendo gratuitamente un crescente volume di servizi sanitari, educativi e sociali. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale la metà degli anni Settanta segna il massimo assoluto dell’occupazione industriale con percentuali tra il 37% e il 44%, mentre nei paesi, come Gran Bretagna, Olanda e Svezia, in cui l’esodo agricolo era avvenuto prima della guerra, il terziario diventa il settore dominante già a metà anni Settanta con percentuali tra il 55% e il 65%. La Germania seguì una dinamica simile, anche se il declino dell’industria fu più lento, così come l’avvio della terziarizzazione. L’occupazione è caratterizzata anche da un forte processo di salarizzazione. La percentuale di piccoli imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in qualche paese raggiunge livelli così bassi (neppure il 7% in Gran Bretagna e ancor meno in Svezia) da far pensare a un’imminente scomparsa del lavoro indipendente. Solo 1 i liberi professionisti aumentano, ma il loro numero resta ancora esiguo. Parallelamente cresce la dimensione media delle imprese, in particolare nell’industria manifatturiera. Gli anni Sessanta e i primi anni Settanta segnano l’irrepetibile stagione del gigantismo industriale. In alcuni paesi europei questo processo fu incentivato dall’intervento dello stato, che nazionalizzò settori in crisi o ne promosse altri ove l’iniziativa privata era carente. L’occupazione in grandi organizzazioni aumentò anche per la diffusione dei servizi pubblici (soprattutto sanità e scuola): a fine anni Settanta, nei paesi europei i dipendenti pubblici avevano quasi raddoppiato il loro peso in meno di trent’anni. Tra la fine degli anni Sessanta (in Gran Bretagna, Olanda, Belgio) e i primi anni Settanta (in Germania, Italia, Francia, Spagna) si raggiunse la massima diffusione del sistema di produzione taylorista e fordista, che prevede la standardizzazione del lavoro operaio in compiti ripetitivi da affidare a lavoratori cui si richiedono solo disciplina e resistenza psicofisica. Ciò consentì l’inserimento di manodopera senza esperienza né socializzazione al lavoro industriale. Nelle grandi imprese si afferma la logica del job o «posto» che promette di garantire l’occupazione sino alla pensione, almeno ai lavoratori nazionali. La burocratizzazione delle imprese industriali e dei servizi pubblici e la diffusione delle macchine per ufficio e dei centri di elaborazione dati provocarono la parcellizzazione anche di molte mansioni non manuali e una forte crescita di impiegati esecutivi addetti a lavori altrettanto monotoni e ripetitivi di quelli svolti dagli addetti alla catena di montaggio. Si parlò di proletarizzazione del lavoro non manuale e si mise in discussione il tradizionale confine tra lavoro operaio e impiegatizio. Ancora più che per la sua diffusione (che in nessun paese europeo occidentale può aver superato un quinto dell’occupazione) la figura dell’operaio comune (semiskilled o ouvrier spécialisé) della grande impresa manifatturiera acquisì un ruolo dominante nel sistema di relazioni industriali e sulla scena sociale grazie alla sua concentrazione e alla capacità di mobilitazione. Alla nuova classe operaia, di origine rurale e senza tradizioni sindacali, si era attribuito un comportamento deferente verso l’autorità e la disciplina imposta dalla grande impresa, che li ricambiava con salari relativamente elevati e con la sicurezza del posto di lavoro. Questa era la prima generazione di lavoratori manuali che riusciva ad accedere ai consumi di massa e a un sicuro benessere economico, avendo ancora fresco il ricordo di una condizione misera e incerta e di attività lavorative ben più faticose e penose. Negli anni Sessanta i sociologi parlarono di «operaio affluente» per descrivere i giovani operai che adottavano stili di vita simili a quelli dei giovani del ceto medio e si mostravano poco propensi alla conflittualità e alla militanza sindacale. La mobilitazione individualistica parve sostituire quella collettiva. Ma la profezia della fine del conflitto industriale fu clamorosamente smentita dal più acceso ciclo di lotte operaie del dopoguerra. Mentre negli Stati Uniti la disaffezione dei giovani operai verso il lavoro dequalificato e ripetitivo provocò una forte crescita dell’assenteismo, in Europa dal 1969 scoppiò un movimento di scioperi che sorprese le organizzazioni sindacali. La sicurezza del lavoro, assicurata da una situazione di pieno impiego, aveva avuto senza dubbio un ruolo importante nel ridurre la remora al conflitto dovuta al timore del licenziamento, profondamente diffuso tra lavoratori privi di risorse professionali e quindi con scarso potere di contrattazione individuale. E la rigida organizzazione del lavoro della grande impresa taylorista si rivelò fragile di fronte alle asprezze conflittuali di una forza lavoro non socializzata alla «cultura del produttore» della vecchia classe operaia. Anche se la conflittualità rimase elevata sino a metà anni Settanta solo in Italia, ove gli operai delle catene di montaggio erano tutti nazionali, il modello della golden age si era ormai incrinato. 2 Le conquiste sindacali e politiche furono importanti in tutti i paesi europei. Si consolidò il modello di occupazione caratterizzato da un contratto a tempo pieno e indeterminato e dall’integrazione organizzativa nell’impresa. Sia il diritto del lavoro sia la contrattazione collettiva mirarono a porre forti vincoli alla libertà delle imprese di fare licenziamenti, non soltanto individuali, ma anche collettivi. E in caso di perdita del lavoro l’intervento pubblico offriva ampie tutele, inserendo i disoccupati in generosi programmi di sostegno del reddito. La percentuale di sussidi e di trasferimenti alle famiglie sul prodotto interno lordo raddoppiò da metà anni Cinquanta a metà anni Settanta. Infine, il forte aumento delle retribuzioni del lavoro dipendente e in particolare della fascia meno qualificata fece sì che nei primi anni Settanta la distribuzione del reddito divenne la più favorevole ai lavoratori e le differenze retributive le più ridotte dell’epoca moderna (Oecd 2007). Il sistema economico dell’Europa occidentale non fu più in grado di far fronte alla crescente rigidità e al maggior costo del lavoro anche per i due choc petroliferi del 1974 e del 1979, che causarono un forte aumento dei costi dell’energia. La recessione provocò un aumento della disoccupazione e si avviò un circolo vizioso: caduta dei profitti e degli investimenti, rallentamento della dinamica della produttività del lavoro e dei salari reali, riduzione dell’occupazione, alta inflazione nonostante la stagnazione produttiva. Inoltre, la crescente concorrenza dei paesi in via di sviluppo e i nuovi comportamenti dei consumatori, più orientati alla qualità, avevano reso saturi e/o incerti i mercati dei beni di consumo, mostrando i limiti del sistema di produzione fordista. La fine delle trente glorieuses fu segnata dalla caduta del suo protagonista: la classe operaia della grande industria. 2. Deindustrializzazione e terziarizzazione Il passaggio dall’agricoltura all’industria fu vissuto favorevolmente perché consentì un netto miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, nonostante i costi psicologici dell’inurbamento o dell’immigrazione. Inoltre, la disoccupazione diminuì perché le donne ridussero la loro partecipazione al mercato del lavoro e il pieno impiego dei maschi breadwinner fu facilmente raggiunto. Decisamente traumatico fu invece il processo di deindustrializzazione e terziarizzazione, non solo perché la chiusura delle grandi fabbriche precedette il decollo dell’occupazione nei servizi, ma anche perché le nuove occasioni di lavoro nei servizi non erano adatte alle caratteristiche personali e alle qualificazioni professionali degli ex-operai industriali. Pertanto, mentre tornava a crescere l’offerta di lavoro femminile, la disoccupazione tornò a dominare la scena dell’Europa occidentale: il tasso di disoccupazione crebbe sino superare il 10% negli anni Novanta e non è sceso sotto il 7% neppure nella congiuntura favorevole dei primi anni Duemila. E nell’Europa orientale la transizione all’economia di mercato provocò una drammatica esplosione della disoccupazione, con tassi oltre il 15% per parecchi anni. Poiché le imprese destinate alla chiusura erano la roccaforte dei sindacati, prima in Gran Bretagna e poi negli altri paesi dell’Europa occidentale la deindustrializzazione provocò la ripresa di un’accesa conflittualità, inevitabilmente destinata a «gloriose sconfitte». Cospicui pre-pensionamenti in Germania, Italia, Belgio e Francia e costose politiche attive di reinserimento al lavoro nei paesi scandinavi riuscirono ad attenuare le tensioni sociali, mentre in Gran Bretagna il trionfante tatcherismo riuscì a vincere le resistenze dei lavoratori licenziati. Ancor più drammatica fu la de-industrializzazione 3 nei paesi dell’Europa orientale, ove l’occupazione industriale negli anni Ottanta aveva raggiunto un livello altissimo, poiché concise con il crollo del sistema comunista. Nella ex-Germania Est dal 1989 al 1992 sparì un terzo dei posti di lavoro. Al di là delle diverse connotazioni ideologiche, un evidente parallelismo tra grande industria, classe operaia e organizzazione accentrata dell’attività economica e della vita sociale aveva caratterizzato un trentennio di storia europea, sia all’Est, sia all’Ovest, e ora si esaurisce con l’avvento della società dei servizi (Therborn 1995). La percentuale di occupati nelle imprese manifatturiere nei paesi dell’Europa occidentale, che a metà anni Settanta oscillava tra il 25% e il 35%, trenta anni dopo va dal 13% al 22%. Il paese più industrializzato rimane la Germania, seguita dall’Italia, su livelli prossimi a quelli di quasi tutta l’Europa orientale dopo il crollo dell’economia pianificata. Ma la contrazione della classe operaia delle grandi fabbriche è ancor più rilevante. Per ridurre i costi del lavoro e/o aumentare la flessibilità, le grandi imprese cominciarono ad affidare parte del proprio ciclo produttivo a piccole unità, che operano spesso al di fuori del sistema delle garanzie consolidatosi nell’«età dell’oro». Inoltre, nelle poche grandi imprese manifatturiere sfuggite al processo di downsizing le funzioni di produzione diretta si riducono a favore di quelle indirette di gestione, innovazione e distribuzione sia per il ricorso a tecnologie labour saving, sia per il decentramento in paesi meno sviluppati. Nelle imprese industriali dell’Europea occidentale i lavoratori manuali si riducono a poco più della metà degli occupati e superano il 65% solo in Spagna, Italia e nell’Europa orientale, ove prevalgono imprese piccole con tecnologie arretrate. Ormai in Francia, Gran Bretagna e Olanda la maggioranza del lavoro manuale non sta più nei tradizionali settori dell’agricoltura, dell’industria e nelle costruzioni, ma nei servizi e negli altri paesi dell’Europa occidentale siamo comunque oltre il 40%. Solo nell’Europa orientale il lavoro manuale è ancora prevalentemente industriale. Ridotta a un ruolo marginale l’occupazione agricola (meno del 4% nell’Europa occidentale, ma ancora oltre il 10% in quella orientale), all’inizio del nuovo millennio la domanda di lavoro si concentra sempre più nel terziario: oltre il 77% in Gran Bretagna, Olanda e paesi scandinavi, poco meno in Francia, mentre la soglia del 70% non è stata raggiunta soltanto in Germania, Italia e Spagna e quella del 60% nell’Europa orientale. In buona parte dell’Europa il divario rispetto agli Stati Uniti, ove l’occupazione terziaria sfiora l’80%, appare ormai quasi colmato. Se la tendenza è comune, tuttavia, i processi di terziarizzazione sono diversi da un paese all’altro, pur essendo condizionati da un cambiamento tecnologico e una crescita economica simili. Infatti, solo la minor parte dei lavoratori del terziario fornisce servizi alle imprese (da quelli finanziari a quelli informatici, dalla consulenza alla commercializzazione), perché la componente di gran lunga maggioritaria è quella dei servizi alle persone: dalla sanità all’istruzione, dalla sicurezza al divertimento, dalla distribuzione commerciale alla ristorazione. E volume e composizione dell’occupazione in questi servizi dipendono dai modelli di welfare state e di famiglia di un paese. Nei paesi scandinavi, caratterizzati da una forte pressione fiscale e da famiglie che tendono a esternalizzare le funzioni di cura, si è consolidato un cospicuo settore pubblico nella sanità, nell’istruzione e nei servizi sociali, mentre nei paesi anglosassoni, ove le famiglie tendono egualmente a esternalizzare le funzioni di cura, ma la pressione fiscale è bassa, l’occupazione nei servizi alla persona è altrettanto alta, ma più privata. Invece, nei paesi dell’Europa continentale e meridionale, ove a una pressione fiscale medio-alta si accompagna la tendenza delle famiglie a internalizzare le funzioni di cura, l’occupazione nei servizi alla persona è più ridotta (Esping-Andersen 1991). Poiché ora 4 il volume complessivo dell’occupazione nei paesi occidentali dipende in larghissima misura proprio dall’occupazione nei servizi per la persona, si comprende perché in paesi come la Danimarca e la Gran Bretagna il tasso di occupazione della popolazione da 15 a 64 anni sfiora il 75% grazie a percentuali di occupazione nei servizi alla persona superiori al 30%, mentre Francia e Germania, ove le persone occupate in questi servizi sono intorno al 25%, il tasso di occupazione non arriva al 70% e Italia e Spagna, ove appena il 20% delle persone lavora nei servizi alla persona, non arriva neppure al 60%. Gran parte dei servizi alla persona sono forniti da dipendenti pubblici, che nell’Europa occidentale sono in forte crescita da fine anni Settanta perché l’accresciuto peso politico della classe operaia aveva provocato uno sviluppo della cittadinanza sociale e l’aumento della spesa pubblica (Crouch 2001). La percentuale di occupati nel settore pubblico, che a fine anni Settanta aveva raggiunto il 15%, all’inizio del nuovo secolo sfiorava il 25%, sia pur con forti differenze nazionali secondo il livello di reddito e il modello di welfare state (dal 16% della Spagna e dal 22% della Gran Bretagna al 24-26% di Germania e Italia e al 37% della Danimarca). E, poiché sia in famiglia sia in strutture pubbliche o private i servizi alla persona sono per lo più prestati da donne, nella società dei servizi quel che fa la differenza nel livello dell’occupazione è proprio la posizione delle donne. 3. La femminilizzazione del mercato del lavoro Quando la classe operaia dell’Europa occidentale raggiunse il suo maggior peso sociale e politico le donne erano al minimo della partecipazione al mercato del lavoro. Sia pure con un’anticipazione nei paesi scandinavi e in Gran Bretagna, nell’Europa occidentale la crescita dei tassi di attività femminili decolla solo negli anni Settanta e prosegue più lentamente negli anni Ottanta e Novanta, per poi accelerare nuovamente all’inizio del nuovo secolo. Fanno eccezione Spagna e Olanda, ove la partecipazione al lavoro delle donne, che partiva da un livello molto basso, è cresciuta sempre a ritmi elevati. Al contrario, la transizione dall’economia pianificata a quella di mercato ha provocato un crollo dell’alta occupazione femminile, che solo in parte si è poi ripresa, sicché buona parte dei paesi dell’Europa orientale attualmente appartiene, insieme a Grecia, Italia e Spagna, al gruppo dei paesi a bassa partecipazione delle donne al lavoro (con tassi di occupazione inferiori al 55%), mentre i paesi scandinavi, l’Olanda e la Gran Bretagna sono quelli a più alta partecipazione (con tassi di occupazione oltre il 65%). Perciò, la percentuale delle donne tra gli occupati oscilla dal 40% dell’Italia al 47% della Svezia, per i paesi dell’Europa occidentale ben 10-12 punti percentuali più che nei primi anni Settanta. Le attuali differenze nel tasso di occupazione delle donne in paesi con tenori di vita e strutture tecnologiche simili dipendono principalmente dalla possibilità di fruire di servizi di cura, pubblici o privati, perché sono concentrate nella fascia di età adulta sulla quale le norme sociali prevalenti fanno gravare il compito di svolgere lavori di cura nella famiglia. D’altro canto, questi servizi occupano per lo più donne, sicché l’elevata occupazione femminile è frutto di un «circolo virtuoso» tra domanda e offerta di lavoro, innescato dalla spesa pubblica nei paesi scandinavi e da quella privata in Gran Bretagna. Altrettanto importante è stato il ruolo del part time: nei paesi dell’Europa occidentale (con l’eccezione dell’Italia sino ai primi anni Novanta) l’occupazione delle donne è cresciuta per lo più grazie all’aumento della componente a tempo parziale e il tasso di occupazione femminile è più alto nei paesi in cui il part time è più diffuso. Tuttavia, in alcuni paesi dell’Europa settentrionale l’altissima percentuale di donne 5 occupate a tempo parziale da qualche anno si sta riducendo. Si può pensare che, ormai consolidata la propria posizione nel mercato del lavoro, le donne sono riuscite a imporre situazioni in famiglia, sul lavoro e nella società che sempre più consentono loro di conciliare i (più ridotti) impegni familiari con un’attività a tempo pieno. La maggiore partecipazione al lavoro delle donne si deve anche al crescente livello di istruzione delle nuove generazioni, poiché in ogni paese europeo le donne più istruite sono più inserite nel mercato del lavoro, vuoi perché vogliono far rendere il loro più alto capitale umano, vuoi perché sono più emancipate dai valori familisti, vuoi perché sono più coinvolte in lavori più gratificanti. Solo nei paesi europei a più alta occupazione femminile non vi sono quasi differenze secondo i livelli di istruzione, mentre negli altri la minore partecipazione al lavoro si deve alle donne meno istruite, che restano ancora largamente escluse dal lavoro extra-familiare. Perciò, l’offerta di lavoro femminile è più istruita di quella maschile, soprattutto nei paesi europei in cui la partecipazione al lavoro delle donne è minore. In questi paesi le donne sopportano rischi di disoccupazione molto più alti dei maschi, mentre ove la presenza femminile nel mercato del lavoro si è consolidata e un’esplicita penalizzazione non sarebbe socialmente tollerata, i tassi di disoccupazione delle donne sono di poco superiori o addirittura inferiori a quelli dei maschi. Tuttavia, nei paesi all’avanguardia per l’occupazione femminile (Svezia, Danimarca, Finlandia) le donne soffrono una maggiore segregazione occupazionale rispetto a quelli più bassa occupazione femminile (Grecia e Italia). Nella società dei servizi la presenza delle donne nel mercato del lavoro sembra caratterizzata da un contrappasso tra occupazione e segregazione orizzontale, che, peraltro, è in aumento ovunque. Infatti, l’espansione dell’occupazione femminile avviene per lo più grazie a una crescente domanda per attività considerate tipicamente femminili: insegnanti, infermiere, cameriere, commesse, impiegate. Ne consegue una crescente concentrazione delle donne in occupazioni ove sono dominanti, senza che sia seriamente intaccata la loro quasi esclusione da quelle «maschili». Quanto alla segregazione verticale, le donne sono molto sovra-rappresentate tra gli impiegati esecutivi, gli addetti ai servizi e alla vendita, e anche tra le occupazioni elementari (ma molto meno di quanto accada nel modello americano); per contro sono molto sottorappresentate in tutte le attività manuali legate alla produzione industriale e, sia pure in misura minore, nel livello più alto del lavoro intellettuale, quello direttivo. Ai livelli medio-alti delle attività intellettuali (quelli del lavoro professionale e tecnico) la presenza delle donne è di poco superiore alla media nazionale. Tuttavia, considerando il loro maggior livello di istruzione, le donne risultano fortemente penalizzate: laureate e diplomate raggiungono le posizioni più qualificate nell’area del lavoro non manuale molto meno frequentemente dei maschi con lo stesso titolo di studio. Inoltre, le donne con un ruolo di supervisione, pur in aumento, non raggiungono il 25%. Il soffitto di cristallo» caratterizza tutti i paesi dell’Europa occidentale senza serie differenze e senza recenti mutamenti: ciò significa che anche una maggiore presenza femminile non riesce a infrangerlo. Solo nei paesi dell’Europa orientale le donne istruite sembrano un poco meno penalizzate per l’accesso alle posizione lavorative più elevate. Invece, in tutti i paesi europei le donne sono molto meno penalizzate quanto alla stabilità occupazionale, perché, se sono più spesso occupate a tempo determinato, sono anche più inserite nel settore pubblico, ove le garanzie di stabilità sono molto maggiori che in quello privato, sia pur con qualche eccezione (Gran Bretagna e Danimarca). 6 4. Flessibilità produttiva, fine del lavoro standard ed esplosione della precarietà? Contrariamente all’enfasi italiana sulle piccole imprese, in Europa il processo di deindustrializzazione e l’avvento della società dei servizi hanno segnato non tanto il declino delle grandi organizzazioni, che si sono diffuse nel terziario pubblico e privato (sino a raggiungere anche dimensioni multinazionali), quanto l’esaurimento del modello su cui si era a lungo fondata l’industria manifatturiera, cioè la divisione del lavoro in mansioni ripetitive e la produzione in serie di beni standard destinati a soddisfare un consumo stabile e orientato al prezzo. La crescente concorrenza internazionale da parte dei paesi emergenti a basso costo del lavoro, ma soprattutto il maggior potere di acquisto e la crescente sofisticazione del gusto dei consumatori hanno imposto non solo di puntare sulla qualità dei prodotti, ma anche di accelerarne il ritmo di innovazione e di ampliarne la differenziazione per cogliere le diverse nicchie di mercato con strategie che mirano a personalizzare il bene o il servizio. Al posto delle economie di scala si sono affermati i principi dell’economia dell’appropriatezza, secondo i quali, più che ridurre i costi di produzione, è importante produrre i beni e i servizi «appropriati» nel tempo e nel luogo in cui sono richiesti dal mercato (Butera 1987). L’enorme sviluppo delle tecnologie informatiche e la disponibilità di una forza lavoro più istruita hanno molto contribuito ad affrontare mercati sempre più sofisticati e instabili, ma l’imperativo dei nuovi assetti produttivi è diventato la flessibilità, intesa come capacità di un’impresa di rispondere prontamente agli impulsi dei mercati, quando non addirittura di anticiparli. Ciò comporta un uso flessibile delle risorse umane da parte delle imprese private e delle organizzazioni pubbliche, ma la flessibilità del lavoro può essere perseguita in modi diversi. A parte la possibilità di variare le retribuzioni e gli orari di lavoro, si può far fronte all’incertezza ricorrendo alla flessibilità numerica oppure a quella funzionale. La flessibilità numerica, che riguarda i gradi di libertà con cui un’impresa può adeguare volume e caratteristiche professionali dell’occupazione all’andamento della produzione, interessa tre aspetti: le norme che regolano licenziamenti e assunzioni, la possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro non a tempo indeterminato e quella di affidare fasi o funzioni del ciclo produttivo in subappalto ad altre imprese o con contratti d’opera a collaboratori. La flessibilità funzionale, che concerne invece la possibilità di spostare i lavoratori da un posto all’altro all’interno dell’impresa o di variarne il contenuto della prestazione, non richiede soltanto assenza di vincoli, ma anche un’elevata polivalenza professionale e la disponibilità dei lavoratori ad accettare processi di riqualificazione, condizioni che presuppongono un saldo attaccamento e un elevato coinvolgimento nei fini produttivi dell’organizzazione; ma per avere dei dipendenti fedeli e motivati occorre garantire loro un’occupazione stabile. Quindi i due tipi di flessibilità tendono ad avere conseguenze opposte sulla struttura dell’occupazione. La prima conseguenza dei processi di esternalizzazione e destrutturazione delle attività produttive dovrebbe essere la forte crescita delle piccole imprese e del lavoro in proprio. Tuttavia, la «fuga dal diritto del lavoro», inteso ovviamente come dipendente, è stata molto meno irresistibile di quanto si creda. Infatti, interrottosi a metà anni Settanta il lungo processo di salarizzazione, negli anni Ottanta la percentuale di occupazione indipendente risale nettamente nell’Europa occidentale, soprattutto nei paesi in cui era scesa sotto il 10%, ma poi ovunque si stabilizza o addirittura si riduce, sicché all’inizio del XXI secolo è di poco superiore al 16%, tre punti percentuali meno di venti anni prima. Le differenze nazionali tendono a ridursi, ma restano forti (da poco più del 7% di Francia e Danimarca a oltre il 26% di Italia e Grecia) e si spiegano principalmente con i 7 diversi livelli di capitale sociale familiare che la piccola borghesia trasmette da una generazione all’altra (Arum, Müller 2004). Se tralasciamo l’Europa orientale, ove una percentuale di lavoro indipendente oltre il 20% è frutto della traumatica transizione all’economia di mercato, non siamo di fronte a una crisi della società salariale per l’esplosione di micro-imprenditori e lavoratori in proprio. Tuttavia l’occupazione indipendente, se non è cresciuta, è profondamente mutata nella sua composizione. Al declino dell’artigianato e soprattutto del piccolo commercio, largamente sostituito dalla grande distribuzione, si è contrapposta la crescita delle attività professionali. Nella società dei servizi è aumentata la domanda di prestazioni richieste alle libere professioni (tradizionali o nuove, in forma individuale o associata) da parte sia delle imprese sia delle famiglie, come rivela anche il forte aumento tra gli indipendenti dei laureati. Tra quelli giuridicamente e statisticamente classificati come indipendenti sono aumentati anche lavoratori che non hanno una vasta clientela, ma un rapporto di collaborazione con uno o pochissimi committenti. La figura del lavoratore parasubordinato o dependent self-employed è stata codificata solo in pochi paesi europei (Italia, Austria, Grecia e Portogallo), ma la sua diffusione di fatto è stata rilevata anche in parecchi altri, sicché si è stimato che possano costituire l’1% dell’occupazione totale (Pedersini 2005). Per l’Italia si giunge al 5% includendo i falsi lavoratori indipendenti in quanto pienamente inseriti nell’organizzazione del committente. Le più interessate sono le attività tradizionalmente coinvolte nel sub-appalto, ma anche quelle colpite dai processi di esternalizzazione e quelle, in forte crescita, ove è diffuso il lavoro freelance. Prevalgono le mansioni intellettuali e tecniche, anche se non mancano quelle manuali qualificate. Pur numericamente esigua, la figura del lavoratore parasubordinato, comparsa anche negli Stati Uniti a metà anni Novanta, rappresenta un caso estremo di instabilità e flessibilità del lavoro. Anche nell’occupazione indipendente sono cresciute le situazioni lavorative di breve durata (Arum, Müller 2004), perché, mentre per i veri indipendenti il lavoro si interrompe raramente (perché alle riduzioni di attività si fa fronte riducendo i guadagni), per i dependent self-employed i contratti hanno una scadenza e i periodi di disoccupazione sono frequenti. Stipulando un mero contratto d’opera, l’impresa scarica tutti i rischi economici sul lavoratore, mentre si difende dal rischio di comportamenti opportunistici contando sulle reti di relazioni che i collaboratori usano per cercare nuove commesse: infatti, chi non adempiesse con zelo alle proprie prestazioni, quasi sempre qualificate, perderebbe reputazione e sarebbe escluso da queste reti. Le organizzazioni riescono così a godere dei vantaggi dell’esternalizzazione senza rischiare di sopportarne i costi. Il lavoro dipendente, se non si riduce, ma anzi esporta alcune sue caratteristiche al lavoro giuridicamente indipendente (gran parte dei collaboratori rispettano istruzioni, luoghi e orari di lavoro dettati dal committente), tuttavia vede affievolirsi la sua maggior conquista nell’«età dell’oro»: la protezione normativa del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Infatti, dalla fine degli anni Ottanta in tutti i paesi europei la legislazione per la protezione dell’occupazione diventa meno rigida, poiché vengono ridotti i vincoli e i costi che le imprese devono sostenere per liberarsi dei lavoratori assunti a tempo indeterminato e sono ampliate le possibilità di far ricorso a rapporti di lavoro a termine, anche attraverso le agenzie di somministrazione di lavoratori interinali, che negli anni Novanta sono riconosciute ovunque (Oecd 2004). Nei paesi europei ove la protezione dei lavoratori aveva raggiunto livelli più alti questa tendenza è più accentuata e interessa la riduzione dei vincoli più per il lavoro a termine che per quello a tempo indeterminato. 8 Questa «deregolazione al margine» ha contribuito a segmentare il mercato del lavoro tra insider, adulti occupati a tempo indeterminato che conservano le tradizionali protezioni, e outsider, giovani che alternano disoccupazione e lavori temporanei. La riduzione dei vincoli ha indubbiamente contribuito all’aumento del lavoro a termine, anche se la sua diffusione era cominciata a fine anni Sessanta ed era proseguita sino a metà anni Ottanta, suscitando grande preoccupazione nonostante il livello ancora basso. Poi, dopo qualche anno di stabilità e in qualche paese di riduzione, la diffusione dei lavoratori temporanei ha ripreso a crescere, sia pur con un leggero calo all’inizio del XXI secolo. Considerando i 12 paesi dell’Europa occidentale per cui sono disponibili i dati, il 30% dell’occupazione creata negli ultimi venti anni è a termine e la percentuale di lavoratori temporanei sull’occupazione alle dipendenze è cresciuta dal 9% a quasi il 15%, ma con notevoli differenze nazionali. Da un lato, nei paesi in cui l’occupazione a tempo indeterminato è poco o nulla protetta contro il licenziamento (Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda) il lavoro a termine resta poco diffuso (non oltre il 5-6%); dall’altro, in Spagna, dopo il boom della seconda metà degli anni Ottanta a eseguito del processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, la percentuale di lavoro a termine è rimasta stabile intorno al 33%. Quindi, sono i paesi dell’Europa continentale e l’Italia ad aver segnato la crescita dei lavoratori a tempo determinato, che peraltro costituiscono una categoria eterogenea e interessano essenzialmente i giovani. Tra i lavoratori a termine vi sono quelli assunti a scopo formativo, che in paesi come la Germania raggiungono percentuali molto elevate, e gli stagionali, numerosi soprattutto in paesi come l’Italia ove sono importanti le attività agricole e turistiche. In entrambi i casi sono posizioni lavorative che hanno poco a che fare con le esigenze di flessibilità delle imprese. D’altro canto, sono comprese anche situazioni che per la loro anomalia hanno attirato l’attenzione al di là della loro diffusione: il lavoro a chiamata, il lavoro interinale, lo staff leasing. Il «contratto a zero-ore» o job on call prevede che il lavoratore sia disponibile a svolgere una prestazione saltuaria solo quando sia richiesta dal datore di lavoro. Lo staff leasing o appalto di manodopera prevede che gruppi di lavoratori siano assunti da agenzie e inviati a svolgere funzioni pienamente integrate nell’organizzazione dell’impresa committente anche senza alcuna scadenza, mentre i lavoratori interinali sono assunti a termine dalle agenzie e sono poi inviati in missione per qualche giorno o qualche mese presso imprese che li utilizzano come fossero propri dipendenti. Staff leasing e lavoro interinale costituiscono il caso più flessibile di lavoro atipico, poiché comportano una dissociazione tra datore di lavoro e organizzazione che utilizza il lavoratore. Il lavoro tramite agenzia, introdotto in Gran Bretagna, Olanda e Francia già negli anni Ottanta, si è diffuso negli altri paesi dell’Europa occidentale solo negli anni Novanta e in quelli dell’Europa orientale nel nuovo secolo. Nonostante la forte crescita, il suo peso rimane marginale: 1,5% dell’occupazione totale e 14% del tradizionale lavoro a tempo determinato, a spese del quale è per lo più avvenuta la sua diffusione. Il fatto che il lavoro interinale sia più diffuso nei paesi europei in cui esiste da più tempo potrebbe far pensare che sia destinato a crescere ancora, ma un recente arresto non soltanto ove è più diffuso fa piuttosto supporre una sua saturazione, come, sia pur su livelli superiori, è accaduto negli Stati Uniti. La crescita dei lavori instabili non significa che in Europa stia scomparendo l’occupazione di lungo periodo, come è stato profetizzato da molti studiosi ricorrendo ad aneddoti e impressioni personali. Se consideriamo il numero di persone con la stessa occupazione da almeno 10 anni come un indicatore pur imperfetto della diffusione del lavoro stabile, risulta che per i 12 paesi dell’Europa occidentale per cui sono disponibili 9 i dati dal 1992 al 2002 la loro percentuale sull’occupazione totale addirittura aumenta da poco meno del 38% a oltre il 40% (Doogan 2005). Nel 2007 la percentuale di occupati di lungo periodo scende al 39%, ma, benché la forte crescita dell’occupazione totale avrebbe dovuto accrescere la quota dei lavoratori occupati da poco tempo, rimane oltre il livello di 15 anni prima, soprattutto perché la partecipazione delle donne al lavoro non solo aumenta, ma diventa molto più permanente grazie anche alla diffusione del part time che consente a molte donne poco istruite di restare al lavoro in età adulta e matura. Persino nei paesi dell’Europa orientale la percentuale di occupati di lunga durata negli anni Duemila si aggira sul 40%. L’occupazione di lunga durata concerne soprattutto i lavoratori professionalmente più qualificati, ma anche parecchi settori in espansione della nuova economia, come i servizi alle imprese, mentre declina in quelli colpiti dalle politiche pubbliche di privatizzazione e deregolazione. Poiché la percentuale di occupati di lunga durata in Europa è oltre una volta e mezza quella degli Stati Uniti, l’esplosione dei contingent workers risulta propria del modello americano, mentre quello europeo pare più orientato a «tesaurizzare» le risorse professionali dei lavoratori, anche perché soggetto a regole normative e contrattuali più rigorose, come dimostrano Gran Bretagna e Irlanda ove la percentuale di occupati di lunga durata è simile a quella degli Stati Uniti. Se nei paesi anglosassoni si è largamente affermata la flessibilità numerica, anche al di là dello status giuridico dei lavoratori, negli altri paesi europei sembra prevalere quella funzionale,che mira al coinvolgimento dei lavoratori, benché la fase di ingresso al lavoro sia diventata molto più precaria. Infatti, le imprese e le organizzazioni pubbliche tendono sempre più a usare rapporti di lavoro instabili, a fini formativi o no, per le assunzioni non solo di giovani, ma anche di lavoratori adulti, riservandosi di stabilizzarli dopo un periodo molto più lungo di quello di prova previsto per il lavoro a tempo indeterminato. Un aumento dei lavori di breve durata per i giovani e i maschi è stato in parte compensato da un aumento dei lavori di lunga durata per gli adulti e le donne, cosicché si è assestato un nuovo equilibrio tra lavori instabili e stabili a spese di questi ultimi (Auer 2005) e il problema più serio diventa quello del rischio di intrappolamento nelle attività precarie, in particolare per i giovani. La diffusione del sentimento di insicurezza dell’occupazione va ben oltre quanto questo scenario farebbe supporre, almeno secondo gli studiosi che hanno enfatizzato la società del rischio (Beck 2000). Ovviamente la sensazione di insicurezza del lavoro può dipendere dal generale sentimento di insicurezza che pervade la società contemporanea molto più di quella del recente passato (ma se il confronto fosse con quella pre-moderna il giudizio dovrebbe essere ben diverso). Tuttavia, dai tentativi di stimare la percezione dell’insicurezza del lavoro emerge un quadro più articolato. Innanzi tutto, il sentimento di insicurezza del lavoro dal 1985 al 1997 cresce in tutti i paesi europei e in particolare in Italia e Francia (Oecd 1997, 2003), ma dal 1995 al 2005 diminuisce o rimane stabile in tutti i paesi europei, compresi quelli orientali, con l’eccezione dell’Italia ove aumenta ancora (Maurin, Postel-Vinay 2005; Paugam, Zhou 2007). Esiste una evidente relazione con il livello della disoccupazione che nell’Europa a 15 è cresciuto da metà anni Ottanta sino al 1994-1996 e poi è diminuito sino al 2007, mentre non ve ne è alcuna con la diffusione del lavoro temporaneo (Fevre 2007). D’altronde, il sentimento di insicurezza è più diffuso non nei paesi ove la regolazione della protezione del lavoro dipendente è meno rigida o l’occupazione più instabile, ma in quelli ove la disoccupazione è minore e la spesa per le politiche del lavoro maggiore (Erlinghagen 2008). La Danimarca è il paese della flexicurity, perché diffuso sentimento di sicurezza dell’occupazione e bassa 10 disoccupazione si accompagnano a una regolazione dell’occupazione molto flessibile e a una grande mobilità del lavoro, grazie a politiche del lavoro molto costose. A livello individuale l’insicurezza del lavoro è maggiore, oltre che ovviamente per gli occupati temporanei, per chi ha vissuto periodi di disoccupazione, per le donne e per i lavoratori poco istruiti e poco qualificati. La relazione tra bassa sicurezza e scarsa qualità del lavoro, forte soprattutto nell’Europa continentale e meridionale, rischia di polarizzare l’occupazione tra un cuore protetto e una periferia gravemente penalizzata. 5. Crescita o polarizzazione della qualità del lavoro? Alla terziarizzazione settoriale se ne accompagna una professionale, nel senso che si riduce il lavoro manuale, perché in gran parte dei servizi prevalgono mansioni non manuali e anche nell’industria gli operai diminuiscono a favore di impiegati e tecnici. Nell’Europa occidentale i lavoratori manuali, che a fine anni Settanta superavano ancora la metà dell’occupazione, nel 2007 ne costituiscono appena un terzo e si concentrano nelle costruzioni, nelle piccole fabbriche e soprattutto nei servizi alle persone (dalla custodia alla sicurezza, dai trasporti alla manutenzione domestica, dalla cura della persona all’assistenza, dalla preparazione e offerta di cibi alla pulizia). Una figura nuova compare nel mercato del lavoro: quella dell’operaio dei servizi. Rispetto alla condizione dell’operaio industriale poco qualificato numerose sono le consonanze, ma anche le differenze. In entrambi i casi la prestazione richiesta è semplice e non richiede abilità nel leggere, scrivere e far di conto, né sapere tecnico specifico. Invece alla manualità non si accompagna per gli operai dei servizi uno sforzo fisico altrettanto intenso, ma piuttosto la capacità di resistere ad orari e condizioni di lavoro disagiati: turni asociali, ambienti isolati o esposti a intemperie, rapporti servili, ecc. Tuttavia, anche se il loro status è all’ultimo posto nella valutazione sociale delle occupazioni, i bad jobs dei servizi richiedono una delle competenze trasversali richieste ai professionisti: la piena e intelligente dedizione alle funzioni svolte, per pesanti, noiose e sporche che siano. Ma il più rilevante mutamento nella struttura dell’occupazione è frutto della diffusione della «società della conoscenza»: secondo le stime di Aoyama e Castells (2002), nei paesi europei i lavoratori che trattano informazioni, che negli anni Settanta costituivano solo da un quarto a un terzo dell’occupazione, all’inizio del nuovo secolo sfiorano la metà, un livello non inferiore a quello degli Stati Uniti. Poiché le nuove tecnologie informatiche hanno un impatto molto positivo sulla qualificazione del lavoro, sono in forte crescita dirigenti e lavoratori professionali e tecnici, che nell’EU12 già all’inizio degli anni Novanta superavano un terzo dell’occupazione e nel 2007 sfiorano il 40%, mentre, oltre agli operai specializzati e semi-qualificati, diminuiscono gli impiegati addetti a mansioni semplici. I paesi dell’Europa orientale seguono un percorso simile, benché su livelli più arretrati. Sembra, dunque, che in Europa vi sia una tendenza all’innalzamento professionale della struttura dell’occupazione, contrariamente agli Stati Uniti, ove la grande crescita dei lavoratori più qualificati è stata in parte bilanciata da una minore espansione di quelli meno qualificati, alimentata dall’ampia disponibilità di forza lavoro immigrata, sicché si è avuta una polarizzazione asimmetrica (Wright, Dwyer 2003). Tuttavia, negli anni Duemila anche nell’Europa occidentale è aumentata la percentuale dei lavoratori addetti a occupazioni elementari, grazie anche alle nuove immigrazioni, e la distanza dal modello americano si è ridotta. Poiché una tendenza alla polarizzazione caratterizzava la Gran Bretagna anche prima, si conferma che questa tendenza è propria delle economie di mercato liberali, mentre in quelle in cui lo stato 11 esercita un maggiore ruolo nel mercato del lavoro l’espansione del lavoro dequalificato nei servizi è minore, almeno finché tale ruolo non entra in crisi e si afferma un regime di occupazione dualistico (Gallie 2007b). Le differenze nazionali sono, però, notevoli. In Gran Bretagna, Svezia e Olanda è altissima la proporzione delle professioni intellettuali ed è elevata anche quella delle attività non manuali non qualificate, mentre è molto bassa la presenza delle occupazioni manuali, persino di quelle specializzate. Al contrario, in Spagna, Portogallo e nei paesi dell’Europa orientale all’elevata percentuale delle occupazioni manuali, soprattutto non qualificate, si contrappongono basse percentuali di quelle non manuali. Tra questi estremi stanno Italia e Germania, che presentano percentuali delle categorie di lavoro manuale simili, mentre è diversa la ripartizione dell’occupazione non manuale: in Germania prevalgono le professioni intellettuali, in Italia quelle poco qualificate. In posizione intermedia vi sono anche Francia e Irlanda, mentre Finlandia e Danimarca sono più vicine all’Europa centro-settentrionale per l’elevata presenza di professioni intellettuali, e la Grecia è più vicina agli altri paesi dell’Europa meridionale per l’alta percentuale di occupazioni manuali specializzate. Queste differenze nella struttura dell’occupazione riflettono quelle nell’organizzazione del lavoro (Gallie 2007b). Infatti, nei paesi scandinavi, in Gran Bretagna, Olanda e Francia prevalgono forme avanzate di organizzazione, fondate sull’apprendimento, la soluzione dei problemi, elevati livelli di autonomia e di lavoro di gruppo, mentre le forme tradizionali sono ancora le più diffuse nei paesi mediterranei e nella maggior parte di quelli orientali (ma sempre meno) e conservano un ruolo importante in Germania a causa delle regioni orientali (Valeyre et al. 2008). Le più importanti innovazioni nei processi organizzativi sono avvenute tra metà anni Ottanta e metà anni Novanta, poi, secondo le indagini sulle condizioni di lavoro, sono proseguite solo nell’Europa orientale, mentre in quella occidentale si sono arrestate e il grado di complessità del lavoro è diminuito dal 1995 al 2000, mentre è aumentato quello di intensità, perché il ritmo di lavoro è sempre più dipendente dalle richieste di clienti e committenti (European Commission 2007). Poiché, invece, è proseguita la tendenza all’aumento delle professioni qualificate, va crescendo lo sfasamento tra i requisiti, per cui competenze più elevate sono richieste per affrontare compiti anche meno complessi, ma da svolgere «sotto pressione». A un maggior livello di autonomia e responsabilità si accompagna un più penetrante controllo sui risultati e sul rispetto delle scadenze, che implica un aumento dello stress e del senso di mancanza di controllo sulla propria vita lavorativa (Edwards 2005) e un maggior impegno di tempo, anche fuori dell’orario di lavoro formale, per cui sono sempre più i lavoratori della conoscenza che non «staccano» mai dalle reti sociali e virtuali in cui sono inseriti (Barbieri et al. 2007). Tuttavia, le imprese possono aumentare il livello di qualificazione oltre le competenze richieste nel tentativo di procurarsi i lavoratori migliori o semplicemente perché è aumentata l’offerta di forza lavoro istruita. La sovra-qualificazione, cioè lo sfasamento, oggettivo o percepito, tra livello di istruzione o conoscenze possedute e categoria di inquadramento o competenze richieste, è diffusa in tutti i paesi europei, sia pur in diversa misura (Brynin 2002). I più colpiti sono i giovani, soprattutto quelli con lavori temporanei, e il fenomeno si sta accentuando in quasi tutti i paesi europei (Quintini, Martin 2006). Come per i mutamenti nella struttura dell’occupazione per livelli professionali, anche per quelli nella distribuzione dei redditi quasi tutti i paesi europei presentano una minore tendenza all’aumento delle diseguaglianze rispetto agli Stati Uniti. Dopo che a 12 metà anni Settanta la quota dei salari sul reddito aveva raggiunto il suo massimo e le differenze retributive il loro minimo, entrambe le tendenze si invertono nettamente (Oecd 2007): le diseguaglianze nei redditi, infatti, aumentano in quanto la quota dei salari si riduce maggiormente nei settori ove prevalgono i lavoratori poco qualificati. La causa principale è la globalizzazione, perché sia l’aumento degli investimenti nei paesi meno sviluppati e delle importazioni da questi paesi, sia la crescente immigrazione accelerano la deindustrializzazione, riducono la domanda di lavoratori non qualificati, rendono la forza lavoro più eterogenea, ne indeboliscono la posizione contrattuale e modificano la distribuzione del reddito a sfavore del lavoro. La riduzione della quota dei salari e l’aumento delle loro diseguaglianze si spiega inoltre con fattori istituzionali quali l’indebolimento dei sindacati, anch’esso dovuto in larga misura all’immigrazione e alla delocalizzazione degli investimenti (Lee 2005), e la crisi dello stato sociale, che genera più occasioni di lavoro poco remunerate nei servizi e costringe disoccupati sempre meno protetti ad accettarle. Ma, poiché l’aumento delle differenze retributive si deve principalmente all’enorme crescita dei guadagni percepiti dalle superstar del jet set e della finanza, si deve anche pensare, più che alla necessità di gestire tecnologie e organizzazioni sempre più sofisticate, a profondi mutamenti nelle norme sociali che regolano le ricompense (Atkinson 2007). Nella maggior parte dei paesi europei le differenze retributive sono cresciute solo moderatamente e sono addirittura diminuite in Francia, nonostante la gravissima debolezza dei sindacati. Ciò non vuol dire, però, che le diseguaglianze nel mercato del lavoro non siano aumentate. Infatti, in questi paesi è aumentata la dispersione nel grado di stabilità dell’occupazione con la diffusione dei rapporti di lavoro a termine e atipici. Di fronte alle pressioni della globalizzazione volte ad aumentare le diseguaglianze, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno differenziato le retribuzioni, mentre i paesi dell’Europa continentale hanno invece differenziato lo status dei rapporti di lavoro (Maurin, PostelVinay 2005). Retribuzioni e stabilità del lavoro hanno costituito due sostituti funzionali per rispondere alle esigenze di flessibilità imposte dai mutamenti economici. Peculiare è il caso dell’Italia, ove sono cresciute sia le differenze nei redditi, sino a sfiorare l’alto livello degli Stati Uniti, sia quelle nello status dei rapporti di lavoro, soprattutto per la gran diffusione dei lavori parasubordinati. 6. Mobilità occupazionale e fluidità sociale Come nel processo di industrializzazione, anche in quello di terziarizzazione i grandi e rapidi mutamenti nella struttura dell’occupazione hanno provocato un’elevata mobilità inter-generazionale. In entrambi i casi da una generazione all’altra diminuì nettamente la percentuale di coloro che svolgevano lo stesso lavoro del padre. Nel processo di industrializzazione moltissimi figli di contadini o braccianti diventarono operai e molti figli di operai ebbero accesso a lavori non manuali. Ciò venne vissuto come promozione sociale, per dequalificate che fossero le nuove mansioni, poiché il lavoro operaio nella grande fabbrica assicurava livelli e garanzie di reddito inimmaginabili nelle campagne e le occupazioni impiegatizie consentivano di soddisfare quelle aspettative di stile di vita che le maggiori retribuzioni avevano già sollecitato nelle famiglie della nuova classe operaia. Nel processo di terziarizzazione la promozione sociale fu ancora più evidente, poiché la grande maggioranza delle nuove occasioni di lavoro nei servizi erano di alto o buon livello di qualificazione professionale, sicché nuove generazioni sempre più 13 istruite vi trovarono ampie soddisfazioni, sia pure dopo un ingresso nel mercato del lavoro spesso più difficile. Secondo una ricerca su 9 paesi dell’Europa occidentale e orientale (Breen 2004), grazie al forte aumento delle posizioni lavorative più elevate (dirigenti, professionisti, tecnici), la mobilità ascendente ha interessato più di un quarto delle persone negli anni Settanta, circa un terzo negli anni Ottanta e poco più negli anni Novanta. Tuttavia, il netto rallentamento della crescita delle occupazioni più qualificate professionalmente e socialmente negli anni Duemila fa supporre che la mobilità assoluta ascendente tra le generazioni si stia riducendo, con il rischio di frustrare le aspettative crescenti dei ceti medi e popolari per la prima volta dopo mezzo secolo. D’altro canto, le disuguaglianze di classe si sono solo un poco attenuate, poiché l’associazione tra la professione dei padri e il destino occupazionale dei figli si è ridotta negli anni Ottanta in parecchi paesi europei, ma è rimasta stabile negli anni Novanta. Infatti, secondo la stessa ricerca, la fluidità sociale, che misura le differenti possibilità di accedere a un certo status da parte di individui di origine sociale diversa, se dagli anni Settanta agli anni Ottanta è cresciuta in Francia, Svezia, Olanda, Polonia e Ungheria, ma non in Gran Bretagna e Germania, dagli anni Ottanta agli anni Novanta non presenta segni di mutamento in nessun paese europeo. Inoltre, non risulta alcuna tendenza alla convergenza, sicché restano forti le differenze tra i paesi ad alta (Svezia, Polonia, Ungheria) e quelli a bassa (Germania, Francia, Italia) fluidità sociale. Solo i paesi social-democratici e quelli del socialismo di stato sono riusciti per qualche tempo a incrinare le diseguaglianze nella trasmissione delle posizioni sociali da una generazione all’altra persino in un periodo di forte aumento della mobilità assoluta. Negli altri paesi, nonostante la forte crescita dell’istruzione superiore, le probabilità di raggiungere i livelli più alti sono restate strettamente legate all’istruzione dei genitori (Shavit, Blossfeld 1993; Gabriele, Raitano 2008). Le differenze tra i paesi a regime social-democratico e quelli liberali o conservatori sono evidenti anche considerando la trasmissione intergenerazionale dei redditi da lavoro: infatti, in Italia e Gran Bretagna il 50% della differenza relativa nei guadagni dei genitori è trasmesso ai loro figli contro il 15% Danimarca e meno del 20% in Austria, Norvegia e Finlandia (Oecd 2008). Se la mobilità intergenerazionale ha indubbiamente attenuato i confini di classe e in particolare quelli che definivano la classe operaia, l’avvento della società dei servizi ha segnato una grande espansione della classe impiegatizia, tecnica e professionale e la nascita di due nuovi gruppi sociali. Manager di società multinazionali, funzionari di agenzie pubbliche, artisti e intellettuali costituiscono un gruppo ormai vasto di persone che si muovono da un paese all’altro restando all’interno degli stessi modi di vita e relazioni sociali: sono le superstar della società globale. Ben diverse sono le condizione di lavoro e di vita dei lavoratori dei servizi, per i quali si è pensato alla nascita di una underclass. Le loro possibilità di carriera professionale, infatti, sono quasi inesistenti, poiché vi è una cesura con le posizioni qualificate dei servizi, cui si accede solo grazie ad un’elevata istruzione formale e non con la permanenza in attività che non consentono di accumulare esperienze. Tuttavia, le caratteristiche di chi svolge questi lavori (giovani, donne di mezza età, immigrati) impedirebbero che si formi un ghetto di proletari dei servizi (Esping-Andersen 1993). Giovani e donne adulte vivono tale condizione come transitoria per la propria esperienza di vita e chi vi resta intrappolato se ne accorge troppo tardi, quando ormai si è assuefatto e la capacità di reagire si è affievolita. Quanto agli immigrati, la condizione di temporaneità e di estraneità è connaturata alla loro situazione, almeno per la prima generazione. Questa ipotesi, però, contrasta con quanto 14 accade nell’Europa meridionale ove da queste occupazioni in grande espansione non si esce facilmente (Bernardi, Garrido 2008). Benché le diseguaglianze sociali non siano scomparse e anzi si riproducano di generazione in generazione, nella società dei servizi si parla poco di classi e si è diffusa l’ipotesi che i rischi si distribuiscano su base individuale (Beck 2000). È vero che nei welfare states più incisivi (ma non in quelli residuali e conservatori) i correlati di classe si sono attenuati, perché l’intervento pubblico si è assunto il compito di far fronte a gran parte dei tradizionali rischi dei lavoratori e gli stili di vita sono diventati meno diseguali. Ma in quasi tutti i paesi europei le differenze retributive sono tornate ad ampliarsi, gli stati sociali vanno riducendo la loro azione, le appartenenze ascritte restano molto importanti, come rivela la riscoperta delle relazioni personali e familiari come «capitale sociale» che si può far fruttare per trovare un buon posto di lavoro (Barbieri 1998), e la disoccupazione in età adulta continua a essere un’esperienza riservata ai lavoratori manuali, bloccandone le possibilità di accesso a posizioni più qualificate. Cospicue sono le evidenze empiriche sulla persistenza dell’importanza delle classi sociali nel modellare opportunità e vincoli degli individui nel mercato del lavoro anche nell’epoca della globalizzazione (Mills, Blossfeld, Bernardi 2006), benché siano emerse anche altre linee di frattura. 7. Le nuove fratture generazionali ed etniche Alla crescente partecipazione al lavoro delle donne, che sono diventate un soggetto autonomo con interessi e comportamenti spesso in contrasto con quelli dei maschi, si sono aggiunte le diseguaglianze fondate sull’età e sulla nazionalità o sulla connotazione etnica. Giovani e immigrati, di prima o seconda generazione, sono sempre più diventati i soggetti deboli, sui quali si «scaricano» le criticità e le tensioni del mercato del lavoro praticamente in tutti i paesi europei, sia pure in modi differenti. A metà anni Settanta comparve per la prima volta in Europa il fenomeno della disoccupazione giovanile, che colpì in modo particolarmente acuto Francia e Italia, ma anche Gran Bretagna e Germania, dove però fu riassorbita molto presto. Contrariamente alle generazioni nate prima degli anni Sessanta, da allora i giovani incontrano grandi difficoltà quando entrano nel mercato del lavoro e risultano molto penalizzati rispetto agli adulti. Dai primi anni Ottanta nell’Unione europea il tasso di disoccupazione dei giovani (15-24 anni) è sempre poco più del doppio di quello degli adulti (25-49 anni), benché le nuove generazioni siano sempre meno numerose per il continuo calo della natalità in quasi tutti i paesi europei. Le differenze nazionali non sono rilevanti, anche se alla Germania, ove il tasso di disoccupazione dei giovani è di pochissimo superiore a quello degli adulti, si contrappongono Italia, Grecia e recentemente Gran Bretagna, ove il tasso di disoccupazione dei giovani è almeno triplo di quello degli adulti. Cercando di identificare i fattori che spiegano queste differenze si è tentato di spiegare il motivo del fenomeno. Da sola l’ipotesi che contrappone i giovani outsider agli adulti insider, superprotetti da una legislazione del lavoro eccessivamente rigida, si è rivelata inconsistente, perché non vi è alcuna relazione tra grado di protezione dell’occupazione e rapporto tra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli adulti, come ben illustrano il caso della Germania (elevata protezione degli occupati e nessuna penalizzazione dei giovani) e quello della Gran Bretagna (minima protezione e severa penalizzazione dei giovani). Invece, il ruolo svolto dal grado di protezione dell’occupazione risulta significativo se è accompagnato da quello svolto dal sistema formativo, per cui i giovani corrono minori 15 rischi di disoccupazione nei paesi, come la Germania, in cui prevale un orientamento professionale, che fornisce alle imprese precisi segnali sulle abilità e le competenze dei giovani (Wolbers 2008). Tuttavia, poiché le differenze nella disoccupazione dei giovani riguardano quasi soltanto quelli più istruiti e in alcuni paesi, come l’Italia, sono stati soprattutto i giovani istruiti a veder peggiorata la propria situazione nel corso del tempo, la disoccupazione giovanile si può spiegare anche con la diversa composizione della domanda di lavoro, più o meno orientata alle occupazioni più qualificate, e con il crescente sfasamento tra aspirazioni professionali dei giovani e capacità del sistema economico di soddisfarle. Inoltre, occorre considerare le differenze nei sistemi di protezione del reddito, poiché i giovani sono più penalizzati soprattutto nei paesi in cui la protezione del reddito dei disoccupati da parte dello stato è poco generosa e chi è senza lavoro può contare solo sull’aiuto della famiglia. In Europa si contrappongono due modelli di disoccupazione. Quello familista, proprio dei paesi mediterranei, si fonda sulla solidarietà familiare, per cui i disoccupati sono per lo più giovani che vivono con i genitori anche oltre i 30 anni; mentre quello assistenziale, rappresentato dai paesi scandinavi, si fonda su un cospicuo sostegno pubblico, che consente agli adulti di reggere lunghi periodi di disoccupazione e ai giovani di uscire dalla famiglia di origine anche prima di aver trovato un lavoro. Il primo modello attribuisce eccessivi compiti alla famiglia, limitando l’autonomia dei giovani e provocando la caduta della natalità, mentre il secondo comporta un importante aggravio della spesa pubblica. Ma per i disoccupati e in particolare per quelli giovani la situazione peggiore è quella dei paesi, come la Gran Bretagna e la Francia, in cui la solidarietà familiare si è ormai molto indebolita e la spesa pubblica per le politiche del lavoro è modesta (Gallie, Paugam 2000). Da metà anni Novanta la disoccupazione giovanile, come quella complessiva, si riduce, ma nella maggior parte dei paesi europei, quelli in cui si diffondono i rapporti di lavoro instabili, i giovani sono colpiti da un’altra penalizzazione rispetto agli adulti. In Germania, Francia, Olanda, Svezia, Finlandia, Portogallo e Italia tra il 1995 e il 2005 la percentuale di occupati a tempo determinato tra i giovani sino a 25 anni è da 4 a 6 volte quella degli adulti e in Spagna e Polonia è soltanto doppia perché è altissima anche tra gli adulti. Sembra quasi una regola in Europa che il primo lavoro dei giovani finiti gli studi sia instabile. Poiché la percentuale di lavori temporanei diminuisce con il crescere dell’età, secondo i paesi da un terzo a due terzi dei giovani con un’attività temporanea riescono a trovare un’occupazione permanente nell’arco di due anni (Oecd 2002), ma non pochi restano intrappolati in una successione di lavori precari e di disoccupazione: nel 2005 nella maggior parte dei paesi europei a 27 anni ancora più di un lavoratore su cinque aveva un’occupazione temporanea e la transizione verso il lavoro permanente se in alcuni paesi è in via di miglioramento, in altri va peggiorando (Quintini, Martin 2006). In Italia, ove entrano sempre più tardi nel mercato del lavoro, la condizione dei giovani è ancora peggiore ed è degradata più gravemente da una generazione all’altra: si è stimato che a 35 anni erano ancora in una situazione instabile poco più del 28% dei nati negli anni Cinquanta e quasi il 39% dei nati negli anni Sessanta (Barbieri, Scherer 2005). Disoccupazione e precarietà non colpiscono nella stessa misura tutti i giovani. In quasi tutti i paesi europei i giovani meno istruiti e le giovani donne corrono rischi molto più elevati sia di essere disoccupati, sia di entrare in una posizione di lavoro instabile e di non riuscire a uscirne. Più complessa è la situazione dell’Italia, poiché i giovani più istruiti corrono quasi gli stessi rischi dei meno istruiti sia di restare senza lavoro, sia di trovare lavori instabili, dalle quali però riescono a uscire più facilmente. 16 Oltre all’incertezza, che rende più difficile compiere scelte cruciali come quella di avere dei figli, e al maggior rischio di disoccupazione, i lavori instabili penalizzano i giovani perché, a parità di altre condizioni, sono meno remunerati (in media del 15%) e in molti paesi consentono un minore accesso a prestazioni accessorie e/o previdenziali (Oecd 2006). Considerando anche le più rigide regole introdotte dalle riforme avviate fin dagli anni Novanta, gran parte dei giovani contemporanei sono perciò destinati a ritirarsi dal lavoro non soltanto in età più avanzata di quanto è accaduto o accadrà ad almeno due generazioni precedenti, ma anche con pensioni molto meno generose. Alla segmentazione tra adulti stabilmente occupati e giovani disoccupati o precari, quindi, si accompagnano forti diseguaglianze intergenerazionali nell’accesso alle pensioni. Se le generazioni entrate nel mercato del lavoro da metà anni Sessanta a metà anni Ottanta hanno avuto la fortuna di trovare subito un lavoro stabile e di accedere a una buona pensione anche prima di 60 anni, quelle entrate successivamente non potranno usufruire di facili prepensionamenti e rischieranno una vecchiaia povera se il declino demografico continuerà a depauperare la popolazione in età attiva, quella su cui grava il compito di mantenere i bambini, ma soprattutto i sempre più numerosi anziani. Alla frattura generazionale, che non genera conflitti come negli anni Sessanta probabilmente perché i giovani sono sempre meno numerosi, si aggiunge quella etnica, che invece rischia di essere foriera di crescenti tensioni e conflitti, perché le persone con una origine nazionale diversa da quella del paese in cui vivono sono un gruppo sociale che è ovunque più o meno gravemente penalizzato ed è destinato a crescere ben oltre l’attuale 8% della forza lavoro nella vecchia Europa a 15. Nei paesi dell’Europa centrosettentrionale la vecchia immigrazione dal dopoguerra sino a metà anni Settanta segnò una mobilità sociale ascendente per milioni di lavoratori provenienti dalle campagne dei paesi delle rive del Mediterraneo, anche se furono addetti ai compiti più dequalificati. Infatti, grazie anche alle procedure di reclutamento messe in atto da alcuni paesi, questi immigrati erano pochissimo istruiti e avevano avuto ben peggiori esperienze di lavoro e di disoccupazione. Erano immigrati «a tempo e scopo definiti», cioè con la prospettiva di guadagnare il più possibile nell’arco di qualche anno per ritornare poi al paese di origine, ma molti si stabilirono con la famiglia. Da qualche tempo costoro si sono ritirati dal lavoro, spesso grazie ai programmi di prepensionamento che hanno accompagnato i processi di deindustrializzazione, e nel mercato del lavoro sono entrati i loro figli e le loro figlie, nati o comunque cresciuti nel paese di arrivo e quindi con aspirazioni in tutto simili a quelle dei loro coetanei figli di famiglie nazionali. I cosiddetti «immigrati di seconda generazione» vivono in una condizione di esclusione e inferiorità sociale, perché nel mercato del lavoro di tutti i paesi europei di vecchia immigrazione vi è una chiara stratificazione su base etnica o nazionale (Heath 2007). La situazione migliore è quella di chi è originario di un paese dell’Europa nordoccidentale, poi vengono gli originari di un paese dell’Europa meridionale od orientale, mentre al livello più basso vi sono gli originari di un paese non europeo. La gerarchia è simile in tutti i paesi per quanto riguarda sia il rischio di disoccupazione, sia l’accesso alle occupazioni più qualificate, nonostante qualche peculiarità: ad esempio, quelli con un’origine italiana in Germania hanno un tasso di disoccupazione doppio di quello dei tedeschi, mentre quelli con un’origine indiana o cinese hanno tassi di disoccupazione relativamente bassi. Le disuguaglianze di classe si riproducono attraverso due processi. Soprattutto i figli degli immigrati reclutati come guestworkers per lavorare come operai comuni nell’Europa centrale raggiungono livelli di istruzione poco superiori a quelli molto bassi dei loro genitori. Ma anche coloro che raggiungono livelli elevati riescono 17 ad accedere a posti di lavoro qualificati molto meno dei compagni di scuola di origine locale. Alla penalizzazione nel sistema educativo si aggiunge una penalizzazione, ancor più iniqua, nel mercato del lavoro, che si può attribuire alla carenza di quelle relazioni sociali esterne alla propria comunità che consentono di conoscere le occasioni di lavoro qualificate, ma anche a orientamenti discriminatori mai scomparsi in Europa neppure verso i «diversi» più inseriti. Inoltre, dalla fine degli anni Ottanta nuovi flussi immigratori hanno interessato tutta l’Europa occidentale e in particolare i paesi, un tempo di emigrazione, dell’Europa meridionale, che hanno ricevuto ben oltre la metà dei nuovi arrivi, pur costituendo solo un terzo della popolazione dell’Europa a 15. Nei paesi di vecchia immigrazione i nuovi arrivati provengono quasi tutti da paesi diversi da quelli dei vecchi, così nel mercato del lavoro e nella società può nascere una nuova gerarchia secondo il modello americano delle successive ondate immigratorie; mentre quelli di nuova immigrazione si trovano ad affrontare un fenomeno sconosciuto senza trovare alcun aiuto nella memoria, ormai affievolita, dell’esperienza di emigrazione. Oltre a una cospicua presenza di donne che emigrano da sole per motivi di lavoro, una caratteristica accomuna questi nuovi flussi. Contrariamente al passato, la presenza di persone con livelli di istruzione medio-alti è cospicua per tre motivi: l’istruzione superiore è diffusa nell’Europa Orientale, da cui molti provengono, ed è notevolmente cresciuta in parecchi paesi del Terzo Mondo, inoltre un’emigrazione spontanea in un contesto in cui le frontiere dei paesi di arrivo sono formalmente quasi del tutto chiuse comporta una forte selezione positiva, poiché occorrono buone risorse umane, cognitive ed economiche per riuscire ad aggirare tutti gli ostacoli. Tuttavia, il più alto livello di istruzione e la maggiore intraprendenza dei nuovi immigrati non assicura loro un migliore inserimento nel mercato del lavoro rispetto ai vecchi, sia pure con significative differenze. Nell’Europa centro-settentrionale i nuovi immigrati sono molto penalizzati per il tasso di disoccupazione, che è oltre il doppio di quello dei nativi, mentre sono relativamente poco penalizzati rispetto ai nativi con le stesse caratteristiche personali per l’accesso alle occupazioni qualificate. Al contrario, in Italia e Spagna gli immigrati hanno tassi di disoccupazione poco superiori a quelli dei nativi, mentre la loro penalizzazione quanto all’accesso ai lavori qualificati è enorme: pochi laureati e pochissimi diplomati svolgono mansioni non manuali anche dopo alcuni anni di presenza (Reyneri, Fullin 2008). Se nel primo caso si può parlare di brain drain, in questo caso dobbiamo parlare di brain waste, benché occorra tener presenti tutti gli ostacoli oggettivi che rendono molti difficile la trasferibilità delle competenze da un paese all’altro (dalla conoscenza delle lingua alla certificazione dei titoli di studio, alla natura stessa delle competenze). Questo esito contrapposto può essere spiegato con la diversa combinazione tra status degli immigrati e caratteristiche del welfare state. Nei paesi dell’Europa centro-settentrionale una larga percentuale di immigrati è costituita da richiedenti asilo, che ricevono adeguati sostegni di reddito e possono vivere anche senza lavorare in attesa di un lavoro adeguato alle proprie competenze; per contro nei paesi dell’Europa meridionale la stragrande maggioranza degli immigrati è entrata senza un appropriato permesso di soggiorno, ottenuto poi grazie alle numerose regolarizzazioni, e non ha altra alternativa che lavorare anche nelle mansioni meno qualificate, perché non può usufruire del sostegno familiare come per i disoccupati nativi. Ma occorre tener conto anche della diversa composizione della domanda di lavoro. Nei paesi dell’Europa centro-settentrionale prevale una domanda orientata verso occupazioni molto qualificate cui gli immigrati istruiti possono accedere solo dopo un periodo di apprendimento della 18 lingua e di altri aspetti specifici, mentre nei paesi dell’Europea meridionale prevale una domanda orientata verso mansioni elementari o poco qualificate, cui tutti gli immigrati possono accedere immediatamente. Anche se diverse sono le modalità, importanti linee di frattura su base etnica si aggiungono alle diseguaglianze di condizione di lavoro, di genere e di generazione che hanno origine nel mercato del lavoro. Secondo un tradizionale approccio pluralista si potrebbe dire che proprio il non sovrapporsi, ma l’incrociarsi di queste fratture fanno sì che i conflitti sociali restino a bassa intensità e non si sommino. Ma ci si può chiedere quale ruolo abbia avuto anche la lunga crescita economica, interrottasi soltanto per brevi periodi, e cosa potrà accadere se la crisi economica iniziata con quella finanziaria nel 2008 sarà lunga e grave. 19 Aoyama Y., Castells M. (2002), An empirical assessment of the informational society: Employment and occupational structures of G-7 countries, 1920-2000, in «International Labour Review», n. 1-2. Arum R., Müller W. (2004), The Re-emergence of Self-employment: Comparative Findings and Empirical Propositions, in W. Müller, R. Arum (a cura di), Selfemployment Dynamics and Social Inequality: a Cross-national Study of Selfemployment in Advanced Economies, Princeton University Press, Princeton. Atkinson A. B. (2007), The distribution of earnings in Oecd countries, in «International Labour Review», n. 1-2. Auer P. 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