Conflitti sulla conoscenza - Dipartimento di Sociologia e Ricerca

Conflitti sulla conoscenza:
la Grande Contrapposizione fra scientismo e antiscienza
I conflitti più seri fra gli scienziati sociali non si verificano
fra coloro che vorrebbero osservare senza pensare e
coloro che vorrebbero pensare senza osservare; i conflitti
hanno piuttosto per oggetto il modo di pensare, il modo di
osservare, e i nessi fra il pensare e l’osservare, ammesso
che ve ne siano. Charles Wright Mills
È giudizio ormai diffuso che nella società moderna capitalistico-industriale non stiano
avvenendo solo cambiamenti significativi, ma si stia delineando all’orizzonte una vera e
propria nuova specie sociale, la società della conoscenza. A voler essere più espliciti,
potremmo definirla come una società tendenzialmente planetaria e democratica (società degli
individui)1 basata sulla scienza (science-based society o knowledge economy)2 (cfr. Cerroni
2006). Ecco che allora sorge subito un problema: questioni un tempo relegate alla filosofia
della scienza acquistano adesso un immediato rilievo sociale, politico, culturale.
A proposito del ruolo della scienza, infatti, ci imbattiamo ancora in un conflitto culturale che,
oggi, inibisce il cammino verso il nuovo assetto della società. Si tratta del conflitto fra le due
deformazioni nel modo di pensare proprio della modernità che vanno sotto il nome di due
culture e che prendono le forme di veri e propri miti contemporanei, diffusi tanto
nell’opinione pubblica quanto fra gli “addetti ai lavori”.
Le scienze sociali, in particolare, lungi dall’aver superato quella Grande Contrapposizione,
come qualcuno aveva auspicato (p.es. Snow, Lepenies), sembrano piuttosto averla introiettata
(Horkheimer, Adorno 1956, §VIII), fino al punto di amplificare il conflitto, volenti o nolenti,
consapevoli o inconsapevoli.
Certo, occuparsi di miti contemporanei è sempre operazione delicata, di sociologia riflessiva
(Bourdieu)3 e distacco razionale (Mannheim-Elias)4, ma operazione senz’altro non più
dilazionabile di fronte a una svolta nel processo di civilizzazione (Elias) quale quella che ci si
prospetta nel XXI secolo (Cerroni 2007). Stiamo vivendo un’epoca di frontiera, e proprio il
lavoro del sociologo in quanto cacciatore di miti (Elias) assume un’importanza capitale per
1 Il concetto di società degli individui, che traggo da Norbert Elias (1939/1987), non si riferisce tanto
al processo di individualizzazione del singolo individuo, ma al suo interagire con altri, individualizzati
al pari suo, ma in modi differenti da lui, a causa delle loro differenti storie pregresse e dei differenti
percorsi personali che essi intendono intraprendere.
2 Con il termine economia della conoscenza mi riferisco all’emersione di una specie sociale ove è
centrale la dinamica economico-sociale della produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza con
surplus di conoscenza, che trasforma sia i “vecchi” fattori produttivi (terra, capitale e lavoro) sia i
“vecchi” bisogni/interessi e pone la conoscenza come mezzo/fine immediato nelle interazioni umane
(cfr. Richta 1966, Stehr 1994, Rullani 2004).
3 Il concetto di riflessività è qui inteso metodologicamente come in Pierre Bourdieu (2001, p.111) a
proposito dei sociologi, e cioè come quella << disposizione costitutiva del loro habitus scientifico […]
una riflessività riflessa, capace di agire non ex post, sull’opus operatum, ma a priori, sul modus
operandi>>.
4 I due concetti collegati e contrapposti di coinvolgimento emotivo-affettivo e distacco razionale in
Norbert Elias (1983) si riferiscono a due polarità ideali sempre presenti in ciascun individuo, anche se
il processo di civilizzazione e, dunque, la conoscenza che viene via via elaborata, procedono nella
direzione di un crescente distacco (cfr. Tabboni 1993, p.223).
1
l’orientamento dei singoli, per la governance della complessità e per lo sviluppo della stessa
conoscenza scientifica.
È da tempo, invero, che si lamenta la separazione fra le “due culture”, cioè fra “gli umanisti”
(humies) e “gli scienziati” (techies). Ma sulle contrapposte sponde di questa profonda faglia
nella nostra cultura si sta oggi arenando l’analisi della società contemporanea. Da un lato, vi
sono quelle posizioni che possiamo denominare dell’Antiscienza (variamente collegate a
tendenze tecnofobiche) e, dall’altro, quelle riconducibili allo Scientismo (vari riduzionismi
collegati a tendenze tecnofreniche e più o meno espressamente tecnocratiche). Già molti
scienziati sociali hanno individuato queste patologie.5 Il conflitto in gioco è, in effetti,
risaputo. Riecheggia quello fra romanticismo e positivismo, fra Kultur e Zivilisation6, anche
nella versione della recente beffa del cosiddetto affaire Sokal7. Il superamento di questa
Grande Contrapposizione comporterà il superamento di due visioni che, egualmente anguste,
hanno egualmente caratterizzato quella modernità dalla quale dobbiamo mollare gli ormeggi
della nostra analisi.
1
Scientismo e tecnofrenia
Con il termine scientismo ci si riferirà ai <<disgraziati tentativi di indebita estensione ad altri
campi degli abiti intellettuali propri delle scienze fisiche e biologiche>> (Hayek 1952, p. 6).
A tal punto si spinge lo scientista, da arrivare, come nota ancora Hayek (ivi, pp. 43-4), a
negare il fondamento della scienza sociale, cioè l’esistenza nel mondo sociale di regolarità
maturate spontaneamente, al di fuori di ogni deliberazione programmatica, per logiche
autonome dai soggetti, e anzi, aggiungeremmo, tali da modulare oggettivamente l’espressione
della loro stessa soggettività.8 Il motivo di tale negazione risiede nel fatto che la scienza
sociale non è formulabile nei termini ai quali lo scientista riduce la scienza.9 Ciò che “sfugge”
– la soggettività – è, allora, concepito come soggetto soggettivistico, soggettività possibile10
5 Si rammentino p.es. gli attacchi di Hayek (1952) allo scientismo, di Ortega y Gasset (1923) al
terrorismo dei laboratori, di Elias (1986) sia allo scientismo sia al ritorno del pensiero magico-mitico,
di Lakoff e Johnson (1980) ai miti di una soggettività romantica e radicale e di una oggettività
positivistica e meccanicistica
6 Si vedano le ricostruzioni in Norbert Elias (1969/1980, Parte Prima §§I-II) e Horkheimer e Adorno
(1956, §VI).
7 Si tratta dell’accesa querelle sollevata dalla pubblicazione di un articolo provocatorio del fisico
statunitense Alan Sokal (1996), e sulla quale si rinvia anche a Sokal e Bricmont (1997). Volendo
semplificare, le science wars che ne sono scaturite possono esser lette come un conflitto fra una
scienza naturale concepita, da Sokal e molti altri che eccedono in positivismo, come una scienza “più
dura” di quanto non sia in realtà, e una certa scienza sociale che essi criticano, non sempre
irrealisticamente, per essere una scienza “troppo molle” di quanto sarebbe auspicabile (e noi sociologi
non siamo del tutto esenti da colpe).
8 Cfr. il tema dell’astrazione determinata nel giovane Marx contro l’ipostasi surrettizia propria
dell’ideologia hegeliana (cfr. della Volpe 1950/1969). Si noti come la scienza sociale venga
concordemente attaccata tanto dallo Scientismo quanto dall’Antiscienza, ancorché con motivazioni in
apparenza opposte.
9 La stessa scienza Novecentesca sfugge al suo tentativo: si pensi, p.es., al superamento del
meccanicismo con la teoria dei campi d’interazione, già in Maxwell ed Einstein e poi alle teorie
quantistiche, come pure al dibattito contemporaneo sulla teoria dell’evoluzione fra cosiddetti
“ultradarwinisti” e “neodarwinisti”.
10 Qui si allude alla necessità di superare l’esperienza possibile in Kant, cioè delle condizioni
meramente formali a priori dell’esperienza, nella concreta realtà dell’esperienza storica umana (a
posteriori storico-evolutivo), ovvero nella costruzione di una filosofia come scienza (cfr. della Volpe
1950/1969).
2
ovvero puramente pensata. Per paradossale che possa sembrare, lo scientismo nelle scienze
naturali è del tutto compatibile con l’antiscienza nelle scienze sociali.
Ma vediamo più da vicino qualche mito in cui si declina lo scientismo contemporaneo.
1.1 L’u-topismo della conoscenza
La conoscenza scientifica è sovente concepita, soprattutto in ambienti scientifici, in maniera
positivistica (neppure neo-positivistica, si badi), come una conoscenza senza soggetto
conoscente (Popper), come la visione da nessun luogo contestata da Nagel (1986).
Scrive ad esempio Popper (1967 in: Popper 1972, p. 150):
senza prendere le parole “mondo” o “universo” troppo seriamente, possiamo distinguere tre mondi
o universi: 1. il mondo degli oggetti fisici o degli stati fisici; 2. il mondo degli stati di coscienza o
degli stati mentali, o forse delle disposizioni del comportamento ad agire; 3. il mondo dei
“contenuti oggettivi di pensiero”, specialmente dei pensieri scientifici e poetici e delle opere
d’arte.
In questo Mondo 3 troviamo i sistemi teorici, i problemi e le situazioni problematiche, ma
soprattutto le argomentazioni critiche, ciò che può venir chiamato lo stato della discussione o
lo stato dell’argomentazione critica, i contenuti delle riviste, dei libri e delle biblioteche (ivi,
p. 151). Prendendolo, invece, seriamente, notiamo che l’attenzione epistemologica viene
distolta dal processo produttivo (il pensiero è inteso come mera attività soggettiva del
pensare-in-astratto) e rivolta esclusivamente al prodotto-in-sé (ciò che è oggettivo sarebbe,
infatti, soltanto il pensiero in quanto oggetto-puramente-pensato, oggetto del pensiero), ai
<<prodotti della coscienza umana, del tutto differenti dalle idee consce e dai pensieri intesi in
senso soggettivo>> (ivi, p. 174) grazie alla presunta mediazione “sociale” di una comunità
puramente razionale, senza traccia di struttura sociale. Rimane, così, consegnata
all’irrazionalità la genesi di una conoscenza oggettiva da parte di una mente intesa come
<<disposizioni innate e loro modificazioni acquisite>> (ivi, p. 169). Concezione curiosamente
poco scientifica (irrazionale) della scienza (razionalità) questa che si fonda su una intuizione
creatrice, una creatività intuitiva, una spiegazione senza spiegazioni (cfr. Newton-Smith
1981).
Versioni di questo utopismo più ingenue di quella di Popper arrivano a concepire che soltanto
quella dello scienziato è, propriamente, conoscenza, cioè la rappresentazione vera, mentre
quelle degli altri sono pregiudicate dalla loro prospettiva locale e parziale. E, dunque, non
sono che mera credenza, cioè falsa rappresentazione. La conoscenza vera è, allora, “soltanto”
il fedele rispecchiamento di uno stato di cose nel mondo.
Lo scorporamento della conoscenza, la sua decontestualizzazione, il concepirla come verità
assoluta, cioè non “viziata” da alcun punto di vista locale, da alcuna prospettiva storica,
produce una scienza angelicata, amputata proprio del suo ultimo fondamento esperenziale,
pragmatico e della sua prima funzione, la funzione critico-autocritica. È la fine dello spirito
scientifico, la marcia funebre del dialogo fra le scienze “del testo” (scienze naturali) e quelle
“del contesto” (scienze sociali) proprio oggi che non è più possibile neanche per un attimo
pensare la scienza in separazione dalla società (si pensi alla crescente ampiezza e rilevanza
dell’area tematica science and society) e neppure il viceversa (si pensi alla società
contemporanea come science-based society).
Se vogliamo, possiamo individuare un’ascendenza mitologica antichissima per questo mito
contemporaneo in quell’occhio di Horus/Zeus delle religioni del Mediterraneo orientale, il
quale, dall’alto, domina incontrastato in un colpo solo la realtà del mondo intero.
1.2 L’u-cronismo della conoscenza
Un tratto distintivo della scienza è una forma particolare di attenzione per lo stato presente
della conoscenza che piega sovente verso forme di attualismo costringendosi in un eterno
presente. Il carattere scettico e autocorrettivo della scienza suscita infatti un riduzionismo
della conoscenza scientifica alla sua ultima acquisizione, alla quale ci si aggrappa rimuovendo
quanto l’ha preceduta, che viene visto come eroica anticipazione o banale errore ormai
definitivamente corretto. Scrive p.es. Kuhn (1962, p. 169):
3
Perché dare un valore e una dignità a ciò che i migliori e più costanti sforzi della scienza hanno
reso possibile abbandonare? La svalutazione del fatto storico è profondamente radicata e ciò
probabilmente ha una sua funzionalità, nella ideologia della professione scientifica […] Whitehead
colse lo spirito antistorico della comunità scientifica quando scrisse: “una scienza che esita a
dimenticare i suoi fondatori è perduta”.
Lo scienziato, insomma, poiché vive la scienza come scienza in atto, concepisce il suo sapere
come nato bell’e fatto, proprio come nel mito greco di Atena, la dea dell’intelligenza, nata
bell’e fatta, tutta in armi e armatura dal cervello di Zeus. Ha, dunque, buon gioco Barbara
Adam (in: Leccardi 1999, p. 44) a sostenere che <<privato della propria fisicità, detemporalizzato e spogliato dei suoi sentimenti ed emozioni, il sé vivente e interattivo è
trasformato [dalla scienza] in un occhio distante>>.
Per altro, non è difficile comprendere l’origine di questa visione “fuori dal tempo”, ucronistica. La scienza si distingue da altre forme di conoscenza dalle quali si è dovuta
affrancare (p.es. l’astrologia e l’alchimia) proprio per questo suo diverso rapporto con il
tempo, il proprio tempo, la propria dimensione storica. Un astrologo anche oggi porterà come
credenziale delle proprie affermazioni il fatto che queste sono fondate sul sapere degli antichi
(quello criticato da Francesco Bacone, come si ricorderà), rinvierà al patrimonio iniziatico,
alla saggezza dei padri fondatori, all’autorità di testi sacralizzati mai contestati, un sapere che
sopravvive intatto allo scorrere del tempo. Un astrofisico, al contrario, porterà come
credenziale delle proprie affermazioni l’ultimo numero dell’Astrophysical Journal, il più
recente parere degli scienziati contemporanei, l’attuale frontiera della ricerca, e più in
generale difenderà il valore di un sapere che rifugge dalle incrostazioni del tempo e che si
rigenera eternamente, sempre giovane e senza gravami della tradizione. Dunque, appunto,
senza storia.
Merton (1949/1968, p. 25), andando più a fondo, aveva riflettuto sul diverso rapporto che le
varie scienze hanno con il tempo. Ne aveva dedotto, in particolare, una collocazione delle
scienze sociali a metà strada fra le scienze fisiche e le discipline umanistiche (humanities).11
Dunque, il tempo è effettivamente in rapporto complesso e delicato con la conoscenza
scientifica. D’altronde, la visione che sradica una disciplina dalla sua storia porta a rimuovere
dai curricula universitari degli scienziati la storia persino della propria specializzazione,
sterilizzando progressivamente proprio quell’autocritica che è risorsa chiave del suo
incessante progresso. Su questo crinale la scienza rischia la china ideologica
dell’autogiustificazione e la faglia sociocognitiva propria della modernità fra scienze naturali
e scienze storiche ne esce ratificata.
1.3 Varie forme di riduzionismo
Portata dai fisici nell‘ingegneria della comunicazione del Secondo Dopoguerra (Breton 1992),
la riduzione della conoscenza a mera informazione si è poi diffusa in tanta parte del pensiero
contemporaneo.12
Ma molti autori (p.es. David e Foray 2002) operano ormai una distinzione decisiva:
l’informazione è un <<insieme di dati strutturati e formattati che rimane passivo e inerte fino
a che non venga usato da coloro che sono in possesso della conoscenza necessaria per
interpretarla ed elaborarla>>. La conoscenza, quindi, andrebbe meglio concepita come quella
risorsa cognitiva che consente di attribuire significati (pratici e culturali) all’informazione, di
stimarne la fonte, prefigurare scenari per il suo uso finalizzato, mantenerla viva rafforzandola
11 Egli confrontava l’età media delle citazioni degli articoli di riviste professionali. Se per le scienze
fisiche il 60-70% delle citazioni era verso pubblicazioni dei 5 anni precedenti, per le discipline
umanistiche le stesse citazioni non erano più del 10-20%, e per le scienze sociali esse costituivano un
intermedio 30-50%.
12 Anche certa sociologia contemporanea non ne è rimasta al riparo, come appare, p.es., in Goldthorpe
(2000, p. 207).
4
attraverso l’uso. Se l’informazione è già presente in natura, la conoscenza è indubbiamente
prodotto caratteristico della specie umana.
Come anche Beck (1986) argomenta, la riduzione del problema epistemologico cardinale, la
costruzione cioè di una conoscenza condivisa, a un mero <<problema di informazione>> è un
grave errore, e porta gli scienziati a rinchiudersi nel dottrinarismo della propria expertise
disciplinare e ad avere idee molto approssimative sulla dimensione sociale della scienza. La
comunicazione della scienza, ad esempio, è ridotta allo scambio di informazioni: fra uno
scienziato-iniziato che le possiede e il suo pubblico “ingenuo” che le ignora.13
Un altro riduzionismo è quello giustamente contestato, p.es., da Barbara Adam (2000), ovvero
la <<concezione riduzionista e decontestualizzata dei meccanismi dei geni>> alimentata
dall’analogia DNA-programma informatico. Nelkin e Lindee (1995) così argomentano al
proposito: <<Alcuni scienziati prendono spesso a prestito le loro metafore dalla scienza dei
computer. Il corpo è meno un essere cosciente che un set di istruzioni, un “programma”
trasmesso da una generazione alla successiva>> (ivi, p. 6). Il genoma diviene, allora, un
“Oracolo di Delphi”, una “macchina del tempo”, un “viaggio nel futuro”, una “sfera di
cristallo medica”, il “nostro destino”. Mettendo capo a un diffuso essenzialismo genetico che
si propaga <<dai laboratori alla cultura di massa, dalle riviste professionali allo schermo
televisivo>> (ivi p. 198). La scienza medica, forse proprio per l’enorme accelerazione in
senso tecnico-scientifico, sembra particolarmente soggetta a questo riduzionismo che, essendo
di ordine cognitivo e in un ambito tanto pervasivo è, ovviamente, quanto mai contagioso. C’è
da aspettarsi reazioni estremizzate in visioni contrarie.14
2
Antiscienza e tecnofobia
L’interpretazione della tecnica, ma spesso anche della scienza, di gran lunga prevalente nella
riflessione filosofica del secolo scorso <<ne ha fatto il demiurgo onnipotente che può tutto in
ogni situazione. L’ha personificata, demonizzata, l’ha resa responsabile o complice di
totalitarismi, società oppressive, della massificazione dell’uomo e persino della fine della
civiltà occidentale>> (Nacci 1999, p. 13).15
Per portare un esempio significativo consideriamo Simmel (1900, pp. 633, 679):
Se si confronta la cultura attuale con quella di cento anni fa, allora – salvo molte eccezioni
individuali – si può dire che le cose che oggettivamente riempiono e circondano la nostra vita, gli
utensili, i mezzi di comunicazione, i prodotti della scienza, della tecnica, dell’arte, sono oltre ogni
dire “coltivate”; ma la cultura degli individui, perlomeno nei ceti più elevati, non è assolutamente
progredita nella stessa misura, anzi spesso è persino regredita. […] I fili, ai quali la tecnica
aggancia le forze e gli elementi della natura nella nostra vita, sono invece altrettante catene che ci
legano e che ci rendono indispensabili un’infinità di cose di cui si potrebbe, anzi si dovrebbe, fare
a meno in vista del fine essenziale della vita.
In seguito al doppio shock delle Guerre Mondiali del secolo scorso, questo diffuso sentire di
non pochi intellettuali europei è poi diventato una montante ondata di massa contro la
13 È questo il ben noto e ormai superato modello teorico del deficit model. Per la sua critica si
vedano, fra gli altri, Lewinstein (2003) e Cerroni (2006).
14 Molte sono le forme di riduzionismo oggi circolanti, e ad esse possiamo contrapporre delle
speculari forme di “olismo” altrettanto diffuse: le citiamo solo di sfuggita perché meritevoli di
approfondimenti in altra sede. Oltre a quelle bit-sapere e gene-persona, si pensi alla contrapposizione
atomismo-complessità, a quella neurone-mente o a quella, per fare un esempio a noi più vicino,
individuo-struttura nelle due tradizioni teoriche dell’individualismo metodologico e dell’olismo
metodologico (p.es. Benton e Craib 2001, Boudon e Bourricaud 1982, Cesareo 1993).
15 Dovrebbe essere anche a fondo considerata la difficoltà con la quale la cultura umanistica del
Novecento ha avuto a che fare con la democrazia, e dunque i due atteggiamenti possono non essere
indipendenti dalla struttura elitaria delle classi colte europee (Nacci 1999, p. 16).
5
scienza.16 Ai riduzionismi tecnofrenici e scientistici (affetti da un distacco razionale ingenuo)
appena esaminati, troviamo dunque contrapposta una reazione imbevuta di coinvolgimento
emotivo.
La scienza compare qui come fonte di destabilizzazione cognitiva del dato per scontato della
vita quotidiana, suscitando una <<reazione culturalmente standardizzata>> (Douglas) e
sollevando la porzione più culturale della componente <<oltraggiosa>> (Sandman) del rischio
percepito, il rischio simbolico (Cerroni 2003), ovvero l’intollerabile minaccia alla cultura e
all’umanità stessa.
Talvolta, una sorta di relativismo assoluto sembra garantire da dispotismi cognitivi e politici,
quando invece mina alla base quella conoscenza stabile e condivisa (epistéme, stabile perché
condivisa e condivisa perché resistente) che sola potrebbe reggere una società democratica
basata sulla scienza. Talaltra, riemergono miti arcaici che, sopravvissuti in tutta la modernità
(Sternhell), si stagliano nel vuoto colpevole della riflessione intellettuale. Vediamone
qualcuno.
2.1 L’organicismo di Gaia: la natura ambigua della Natura
Diffusa nel pensiero ambientalista, nel senso comune ma anche in certe riflessioni sociologiche, è
la concezione di una sorta di <<solidarietà delle cose viventi>>: il termine schutziano è ripreso, in
particolare, da Beck (1986, p. 98) per opporsi alla società del rischio che ci viene imposta
dall’industria capitalistica e dalla razionalità scientifica, viste come due facce della medesima
medaglia della modernità. Scrive ancora Beck (p. 92): <<La scienza è diventata l’agente di una
contaminazione globale di uomo e natura >> che ha infranto <<il semplice essere-così-come-siè>> (p. 96). Con la scienza, insomma, l’uomo perderebbe la sua “naturalezza” e, anzi,
produrrebbe <<il degrado delle basi naturali della vita>> (p. 67). Il valore della vita, insomma, si
contrappone ancora una volta all’economia e alla scienza, e a maggior ragione alla società della
conoscenza in cui esse si uniscono. Emerge, così, la violazione di una sacralità della natura che
richiama antiche mitizzazioni della natura.
Il riferimento principe è al mito di Gaia.17 Intendo qui riferirmi all’archetipo potente e
continuamente rivisitato, coacervo di vitalità primordiale ma anche di morte, simboleggiato da
una figura super-organismica femminile ambigua, materna e terribile, sorridente e ringhiosa,
16 Nel periodo 1900-1995 si sono contati in tutto il mondo 110 milioni di morti di guerra (militari e
soprattutto civili), ben il triplo dei quattro secoli precedenti (Emerson 1998); 74 milioni dei quali erano
cittadini europei caduti fra le due Guerre. Un contraccolpo culturale andava messo nel conto.
17 Nella Grecia classica Gaia (Ge, Gea) era la divinità arcaica della Madre Terra, che possiamo
considerare erede di quell’elemento femminile dominante nella Grecia pre-ellenica a differenza dalla
religione dei Greci invasori (Pohlenz 1962, p. 63). Anzi, quell’elemento è in realtà un complesso nodo
mitologico primordiale, dominante fra 7000 e 3000 a.C. in tutta l’Europa antica, comprensiva
dell’Anatolia, ove probabilmente una sola Dea era adorata in molte forme (Gimbutas). Preesistente,
dunque, alle tre migrazioni “Kurgan”, viene ricondotto generalmente al complesso concetto di Potnia,
una Grande Dea unica e onnipotente, la Grande Madre, appunto, signora delle bestie, madre degli dei,
dea della fertilità, dispensatrice delle messi, buia e luminosa, muta e loquace, che prenderà in epoca
più prossima le forme di Inanna-Ishtar (Sumeri, Mesopotamia), Astarte (Fenicia), Mater Matuta
(Etruria), Cibele (Anatolia), Bona Dea (Roma) e poi anche quelle (parziali) di Era, Ecate, Atena,
Artemide, Afrodite, Demetra (potnia polipotnia), Persefone, Proserpina e ancora altre (cfr. Kopaka e
Boelle in: Laffineur, Haegg 2000; Vernant 1970; Gimbutas 1999). Altro collegamento rilevante è alla
Dea Bianca (Graves 1961), trinità lunare composta da Luna Nuova (dea della nascita e della crescita),
Luna Piena (dell’amore e della battaglia), Luna Vecchia (della morte e della divinazione), diffusasi nel
II millennio in una vasta area peri-mediterranea e probabilmente anche oltre. Una Dea Madre una-etriplice, regnava dunque dall’India all’Irlanda, sovente associata a un Giovane Dio (cfr. Iside con
Horus, Era/Gaia con Zeus, Madonna col Bambino, le Madonne Nere ecc.), riflettendosi in infinite altre
divinità femminili (James 1957).
6
Signora del confine fra dolcezza e ferocia, legata alla struttura molto probabilmente
matrilineare delle società antico-europee pre-indoeuropee (Gimbutas 1999).
A livello intermedio fra il quotidiano senso comune e l’antropologia più remota, sotto il nome di
ipotesi Gaia è entrata prepotentemente nello scenario culturale degli ultimi trenta anni l’idea,
originatasi in un contesto di riflessione scientifica sull’ambiente, secondo la quale la biosfera
(suolo terrestre, bassi strati dell’atmosfera, oceani con l’esclusione delle estreme profondità)
costituisca un unico grande organismo vivente. Il sistema-vita, come un sistema dinamico
complesso in omeostasi biochimica, avrebbe il fine (!) di realizzare <<un ambiente chimico-fisico
ottimale per la vita sul pianeta>> (Lovelock). Questo grande organismo-Vita non è analizzabile in
termini riduzionistici, ma va affrontato da <<una scienza interdisciplinare e olistica>>
(Vernadsky). Neanche questa visione Novecentesca è, poi, del tutto nuova, affondando le sue
radici nell’ilozoismo antico (presocratici e stoici) e rinascimentale fino a Spinoza, e nel
vitalismo antimeccanicistico della seconda metà del Settecento fino a Bergson e Uexkuell. Ma
rinnovata ne è la permeazione nella cultura popolare attraverso il dibattito pubblico sulle
biotecnologie (cfr. Cerroni 2003). È alla luce di tale visione della natura che queste possono
apparire, infatti, come un reale ossimoro: in quanto bio- sono della “stessa pasta” della vita,
della natura vitale, dell’accogliente “ventre materno”; ma, in quanto -techne, invece, ne sono
l’invasione contaminatrice, la pervicace violazione “razionale”. Ecco che esse, allora,
divengono tecnologie di morte, necro-tecnologie (Berlan).
Questa forza primordiale, oggi evocata per reazione a uno sviluppo tecnico poco e male
governato politicamente e punto metabolizzato antropologicamente, fornisce la base implicita
di molto senso comune e di talune elaborazioni intellettuali molto diffuse. È una credenza
fondativa che reclama la nostra partecipazione simpatetica e senza mediazione scientificointellettuale alla natura e contemporaneamente – riflessivamente – alla comunità (Toennis). A
volte Gaia muta, infatti, da Madre Terra in Patria, e il popolo va così ad assumere il ruolo
mitico del bambino nelle sue grandi braccia, secondo il canone dell’iconografia antica.
Seguendo Toennies, perciò, il mito di Gaia ci aiuta a leggere parte cospicua delle ideologie
del XX secolo, ben superando le distinzioni tradizionali della politica fra “reazionari” e
“progressisti” (Maldonado 1979, p. 21).
Complessivamente, possiamo forse concludere che, per il “popolo di Gaia”, lo scienziato si
erge come una minaccia, non solo perché rompe il sacro confine naturale, ma, soprattutto,
perché rompe il sacro vincolo comunitario che in quello si riflette. D’altronde, una scienza
che viene presentata dai suoi sostenitori secondo la visione utopistica poco sopra incontrata,
dunque avulsa dalla dimensione umana (cultura, interessi, passioni, tempo, spazio ecc.), viene
facilmente letta dall’esterno come in-umana, dis-umana, anti-umana.
2.2 L’aureo dispotismo di Crono: l’ordine temporale
Già Toennies (1887, p. 158) aveva individuato che <<il potere più completo sulle cose e
specialmente sugli uomini, in un determinato senso, risulta dalla “scienza”>>. Non è solo la
tecnica, ma proprio la scienza, insomma, a simbolizzare l’istinto insurrezionale contro un
ordine crono-logico atavico. Anzi, è proprio la conoscenza all’origine del peccato.
Adam, per tornare alla sociologa che in tempi recenti più si è occupata del tempo, altrove
scrive che dobbiamo superare l’inquinamento temporale, onde riconquistare anche la
dimensione che mostra che siamo << totalmente inseriti nel battito silente della natura, che
l’alternarsi dell’attività e del riposo, le sensibilità stagionali e circadiane, le trasformazioni e
gli scambi ciclici sono legati ai ritmi della terra e del sistema solare>> (1995, p. 257).
L’attrito è, dunque, fra un tempo tecnologico, lineare, serializzato, artificiale e un tempo
naturale immaginato ciclico, organico, <<scandito dalla ripetizione ritmica del simile, dalle
stagioni e dalle trame contestuali della crescita e del decadimento>> (Adam, 2000).
Appena dimentichiamo che il contesto dell’essere umano è immediatamente sociale
(nasciamo entro rapporti che ci precedono, a cominciare da quello con nostra madre) ed è
naturale solo mediatamente (per il tramite cioè degli altri esseri umani e delle loro categorie
concettuali), appena dimentichiamo che il decorso delle forme naturali (specie) è scandito da
7
mutazioni casuali e selezioni deterministiche (Monod), in un habitat per di più
correlativamente dinamico, l’equilibrio organicistico di Gaia si sposa “naturalmente” con il
regime dispotico di Crono.18
È proprio da un fantomatico Eden pre-industriale (Snow) che prende corpo l’idea di un
pendio scivoloso, di una situazione che ci sta sfuggendo di mano per colpa nostra, e che ci
porterà alla perdizione. 19 Kant (1798 in: Kant 1989, p.283) lo chiamava terrorismo morale.
Il pericolo costituito dalla tecnica, in particolare dalle biotecnologie è che, come scrive ancora
Adam (in: Leccardi 1999, p. 49): <<ad essere minacciati sono milioni di anni di coevoluzione. Alcuni cicli riproduttivi sono enormemente accelerati, altri del tutto eliminati>>.
Alla luce del mito, le biotecnologie vengono, infatti, lette come un “meccano cosmico”, un
“taglia-e-cuci” non tanto di informazioni genetiche, quanto di “segmenti temporali”
cosmologicamente ordinati, a causa (finalistica) di interessi particolari che minacciano
l’interesse e la sopravvivenza stessa della comunità.
Ma il “bel tempo andato” non è che una rassicurante lettura per la chiamata di responsabilità
del cittadino contemporaneo nella governance della società della conoscenza, efficacemente
còlta dai più abili pubblicitari.
2.3 Il sacro essenzialismo della Chimera e la tentazione di Prometeo
Vi è, infine, un paio d’altri miti ai quali si fa esplicitamente riferimento.
Cominciamo dalla Chimera, creatura ambigua e perciò mostruosa che oggi rappresenta quella
conoscenza (biotecnologica, nanotecnologica, neurotecnologica) che altera la distinzione fra
umano e animale, mettendo così in discussione anche il riverbero della distinzione fra umano
e “divino”, e dunque evidenziando quello che viene definito un <<inquinamento genetico>>
(Rifkin 1998, p. 20). Una vera e propria hybris che attende la sua nemesis risolutiva. Ma la
continuità cosmologica fra tutti gli oggetti fisici e la continuità biologica di tutti gli organismi
evolutivi ci spingono a considerare che la divisione in specie e, più in generale, in classi di
oggetti non sia che il prodotto di una interazione fra le nostre esigenze teorico-pratiche e le
regolarità dei processi dinamico-evolutivi (doppia indicalità processuale delle nostre
categorie). Niente di simile a essenze, dunque.
Vi è poi Prometeo, il cui fuoco non è altro che una metafora della conoscenza e della civiltà
(Vernant). Gli esseri umani abbisognano, infatti, di un ordine emotivo e sociale, di un “fuoco
prometeico” col quale forgiare un comune ordine cognitivo basato su categorie ontologiche
fondamentali e stabili. Tipizzare (Schutz), ordinare e sistematizzare (Berger e Luckmann),
demarcare e punire le trasgressioni (Douglas) sono attività distintive degli esseri umani e
fondative delle loro organizzazioni sociali. La scienza, prima ancora che la tecnica, profana
però le distinzioni concettuali tradizionali con la sua incessante attività di de-nominazione
(dischiude le categorie ingenue mostrando i processi sottostanti) e ri-nominazione (produce
nuovi concetti, spesso rivoluzionari) e provoca, così, un costante terremoto cognitivo che
necessita metabolizzazione intellettuale e ridefinizione teoretica.
18 Crono, dio arcaico forse senza forme di culto, possiede un unico mito di rilievo, quello relativo alla
lotta con il padre Urano e il figlio Zeus (Eliade 1975). Ma è anche il sovrano dell’età dell’oro e proprio
a seguito della sua caduta quell’epoca paradisiaca terminò; iniziò così un progressivo degrado delle
condizioni di vita degli uomini. Ma Crono è anche un dio particolare, <<la personificazione del
“tempo che non invecchia mai”, il principio astratto da cui tutte le cose hanno origine e in cui sono
teleologicamente destinate ad avviarsi a una fine prestabilita>> (James 1957, p. 246). Vi è, dunque, un
ordine sociale dietro l’ordine temporale, che è anche la proiezione di quella che possiamo definire la
Grande Speranza umana, cioè l’esistenza di una “somma giustizia” in cui, prima o dopo, in questo
mondo o in “quell’altro”, i nostri comportamenti meritevoli saranno premiati, e i danni che abbiamo
immeritatatamente ricevuto, prima o poi, saranno risarciti.
19 L’opera di Rifkin (1998) ne è piena, e il suo successo, non solo fra il pubblico “ingenuo”,
testimonia persistenza e diffusione del mito arcaico nella società contemporanea.
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La tentazione di Prometeo, allora, incarna nell’immaginario mitico il peccato originale di Eva
di fronte all’albero della conoscenza (Landes), la caduta dal paradiso di Crono, la perdita di
armonia con Gaia per l’inserimento di nostre cause finali (interessi) in un mondo che, dopo
Darwin, ne è privo. Ma la critica alla scienza, ancor più di quella alla tecnica, ci appare allora,
non tanto una - condivisibile – critica alla retorica dell’Occidente (Wallerstein), al
turbocapitalismo (Luttwack) o allo scientismo (Hayek), quanto piuttosto l’autoconsunzione
della stessa civiltà umana.20
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Conclusioni: oltre la Grande Contrapposizione
Quali sono i rischi a cui siamo esposti se questo radicale conflitto fra Scientismo
(riduzionismo tecnofrenico) e Antiscienza (fondamentalismo tecnofobico) non verrà
prontamente ricomposto? Possiamo qui avanzare qualche previsione.
Da una parte, potrà facilmente aumentare la tentazione di un’autocrazia tecnocratica, avvitata
su interessi di parte e di breve termine, su poteri forti capaci di minare gli ulteriori sviluppi in
senso democratico e realmente planetario (non uso il termine “globalizzato” per la sua
ambiguità) della società della conoscenza. Ci sono segnali in tal senso in certe “stanze dei
bottoni” della politica della scienza (policy making).
Dall’altra, potrà montare ulteriormente e in forme ancor più virulente e pervasive la reazione
fondamentalistica contro la scienza, minando così ulteriori progressi del welfare e della stessa
ricerca intellettuale, contro la laicità delle istituzioni e la pacifica e prolifica convivenza civile
(die Kultur è pur sempre la mia cultura e non quella dello Straniero). Ci sono segnali in
questo senso (si pensi solo al <<caso Darwin>> e alla questione delle <<radici religiose
dell’Europa>>) in molte parti del mondo, sia negli ambienti del fondamentalismo islamico, sia
nel movimento teocons statunitense, sia nelle più recenti prese di posizione ufficiali della
chiesa cattolica e degli ambienti politico-intellettuali a essa contigui.
L’esito certo di una tale perdurante contrapposizione è, comunque, di non essere in grado di
governare gli attuali processi sociali per un decorso condiviso. Democrazia e scienza, infatti,
sono due valori storici universali che la nostra specie ha elaborato nel corso della sua storia
per mediare interessi nel mondo e punti di vista sul mondo. Deboli, se prese isolatamente,
esse si rafforzano reciprocamente neutralizzando le rispettive derive, demagogiche o
populistiche, scolastiche o tecnocratiche.
In conclusione, vi è forse una strada per uscire da questa Grande Contrapposizione?
Proveremo ad accennare a quella che può essere una strada da percorrere, riclassificando le
contrapposizioni esaminate in tre ordini di questioni.
Innanzi tutto vi è la questione epistemologica, articolata nella contrapposizione fra
conoscenza assoluta e conoscenza (puramente) relativa. A questo proposito potremmo
intraprendere una strada ancora piuttosto inesplorata, accennata da Pierre Bourdieu laddove
scrive che la particolarità delle scienze sociali ci impone di lavorare (2001, p.142):
a costruire una verità scientifica capace di integrare la visione dell’osservatore e la verità della
visione pratica dell’agente come punto di vista che si ignora in quanto tale e si mette alla prova
nell’illusione dell’assoluto.
20 È qui opportuno un pur fugace accenno al relativismo epistemico (molto vicino, quanto a commendevoli
motivazioni e inani esiti, al relativismo etico) che è uno dei leit motiv della cosiddetta nuova sociologia della
scienza. Su queste accezioni di relativismo si rinvia ad Harré e Krausz (1996). In nome dell’innegabile
costitutività della conoscenza scientifica come prodotto sociale, ma con il limite esiziale di coglierne soltanto la
componente “soggettiva” (astratta), si finisce in un soggettivismo che oscilla da varianti più linguisticocostruttivistiche (neo-wittgensteiniane o culturaliste) ad altre più decisional-costruttivistiche (p.es. le selections
di Knorr-Cetina 1981), passando per poco chiare (e punto responsabilizzanti) competizioni fra network di attanti
(Latour 1987). Così facendo si perde quella dimensione analitica (conoscenza con portata storico-universale)
nella quale è la nostra conoscenza, in quanto in parte sganciata dalla contingenza che l’ha costituita, a costituire,
a sua volta, risorsa e motore per il successivo sviluppo della società (della conoscenza). Su questo aspetto, oltre
al riferimento obbligato a Bourdieu (2001), rinvio anche al mio (2006).
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Ripartire di qui può consentire di rileggere (auto)criticamente la conoscenza scientifica come
prodotto storico-determinato di un certo campo sociale e, proprio per questo e non altrimenti,
dotata di un valore critico-riflessivo (storicamente universalizzante) in parte eccedente alle
stesse determinazioni che l’hanno generata.
Quindi, vi è la questione ontologica, articolata nella contrapposizione fra quelle variegate
forme di riduzionismo ad atomi, geni, bit, neuroni o, per le nostre discipline, individui, in cui
ciascuno di questi è assolutamente isolabile e tutti sono fra loro identicamente idealizzati, da
una parte, e forme di olismo che, rispettivamente, mitizzano complessità, essenze, saperi,
menti e strutture senza alcuna dinamica storico-evolutiva, dall’altra. Un superamento di tale
contrapposizione è possibile se partiamo dall’assunto che la nostra conoscenza non è mai altro
che quel modello che riusciamo a concepire, istituzionalizzare, utilizzare e socializzare per
venire a capo della realtà che viviamo e entro la quale viviamo. La conoscenza è, dunque,
sempre una certa parte della realtà (astrazioni determinate), anche se la realtà contingente
che ci troviamo di volta in volta di fronte ci appare sempre come una parte della conoscenza
più generale che riusciamo a produrre (ambizione all’universalità della legge scientifica). Il
livello ontologico per noi è costituito dai processi che viviamo, e di tempo in tempo dobbiamo
rivedere le categorie con le quali li ingessiamo al fine di venirne a capo. Al proposito, alcuni
spunti già in Bhaskar (1975, 1979) potrebbero essere utilmente riletti.
Infine vi è la questione etica. Il punto che qui abbiamo sollevato è, senz’altro, parziale (altri se
ne potrebbero tematizzare), ma è pur sempre quello radicale. Esso concerne il rapporto che
abbiamo col nostro tempo. A un profilo che potremmo definire “decadente” (e in effetti a
proposito della conoscenza umana si parla di declino oltre che di pendio scivoloso) si
contrappone un profilo in cui il tempo è sostanzialmente assente, l’orizzonte temporale è
schiacciato su di un presente sempre più veloce e ansiogeno, quasi si corresse in un tunnel
sempre più stretto mano a mano che si procede. Nel vano tentativo di inseguire le variazioni
dettagliate sempre più veloci, la vista si accorcia progressivamente e irrimediabilmente verso
il futuro e così, estirpato il passato, non sembra in alcun modo governabile la transizione al
futuro. Dovremmo riconquistarci la pienezza del tempo, inteso sia come espressione della
nostra progettualità “soggettiva” sia come esito di processi ricostruibili “oggettivamente”.
Sembra dunque possibile, e a questo punto decisivo, sviluppare una concezione decisamente
processuale (cfr. Elias 1986), in cui costituenti fisici e organismi, individui e strutture, e così
via, siano visti tutti come “istantanee” scattate all’interno di fasci di processi complessi e
parzialmente distinguibili solo analiticamente e non ontologicamente. Ogni nostra conoscenza
non è altro che il frutto della nostra esperienza storica (evolutiva, sociale, culturale). Ma,
proprio nella misura in cui riusciamo a evidenziarne la datità particolare, possiamo cercare di
rilanciarla in un’arena più generale.
Sarebbe questo un tentativo di elaborare una nuova visione della scienza che potrebbe essere
definita scientifica, in quanto critico-autocritica, perché tematizza la concreta determinatezza
dell’osservatore conservando l’ambizione a una generalizzazione che sia certa e condivisa
solo nella misura in cui venga nutrita dal libero confronto, dall’onere della prova, dal buon
senso e dal rigore di una costante, spietata revisione pubblica delle idee.
Ciò che va a costituire la nostra reale esperienza è, insomma, il frutto dell’incrociarsi di
processi naturali specifici della nostra specie biologica e di processi sociali di quello specifico
oggetto sociale che è il nostro essere (anche) soggetti liberamente creativi (però) a un certo
momento storico-evolutivo determinato.
Si può, dunque, avanzare l’idea che soltanto una riflessione storico-critica sul nostro modo di
pensare nella concreta determinatezza sociale del tempo presente, che lo veda, cioè, come
produzione storicamente determinata, possa consentirci di superare la Grande
Contrapposizione che qui abbiamo sommariamente descritto. Passa di qui - e ormai solo di
qui, forse - la transizione a un futuro in cui si coniughino democrazia e scienza in
un’articolazione storicamente progressiva della nostra speranza di civiltà.
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