Discorso Reggi

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Comune di Piacenza
Gabinetto del Sindaco
Ufficio Stampa
Piacenza, 27 gennaio 2011
Oggetto: Giorno della Memoria
In un’epoca che con troppa facilità tende a rimuovere il fardello di una memoria che
annichilisce e scuote le coscienze, onorare il ricordo di coloro che hanno subito la
la tragedia immane dell’Olocausto, significa riconoscere che quello stesso dolore
del passato, per quanto gravoso sulle nostre spalle, può essere allo stesso tempo
maestro nel preservarci dagli atroci crimini contro l’umanità già commessi.
Un Paese che non è custode della propria storia, anche nei suoi risvolti più duri e
difficili da ripercorrere, non può avere futuro. Ed è con questa consapevolezza che
oggi tributiamo il nostro omaggio commosso a tutte le vittime – furono 44 mila solo i
deportati italiani – della follia, violenta e priva di qualsiasi giustificazione, del
nazifascismo. Donne, uomini e bambini privati della loro dignità, della loro essenza
stessa di persone, ridotte a numeri marchiati sulla pelle perché di religione ebraica,
perché disabili, perché omossessuali, perché di radici etniche diverse da quelle
della maggioranza della popolazione. O, semplicemente, perché non allineate al
regime totalitario.
Gli alberi di questo giardino, spogliati dal rigore dell’inverno, portano alla mente di
ciascuno di noi la stessa, fragile condizione degli internati nei campi di
concentramento, teatri spettrali ma terribilmente veri di una sofferenza che si è
consumata nel logorio del freddo, della fame, di insostenibili condizioni di lavoro
forzato, ma anche nella crudezza del tormento psicologico e dell’accanimento.
Sono simbolo e immagine forte, gli alberi, che in quegli anni di efferate violenze
hanno esposto, come macabro trofeo tra i rami, i corpi dei partigiani uccisi nelle
Piazza Cavalli ,2 - 29100 Piacenza – Web : www.comune.piacenza.it
tel 0523 492018 – fax 0523 492085
rappresaglie, quadro desolante di una natura in lotta contro se stessa, destinata a
essere cornice delle umiliazioni che spesso si accompagnavano alle vessazioni
fisiche.
Così commemoriamo, nell’anniversario dell’apertura dei cancelli di Auschwitz,
coloro che si opposero al nazismo a rischio della loro stessa vita, e quanti furono
calpestati, violati, offesi e umiliati da quell’insana ideologia di morte. Perché i
racconti dei sopravvissuti non esauriscono il nostro bisogno di dare voce a
quell’orrenda realtà, e perché nei campi di concentramento nemmeno quello era
possibile, come scrive Primo Levi tra le pagine di “Se questo è un uomo”:
“Avevamo deciso di trovarci, noi italiani – narra – ogni domenica sera in un angolo
del lager, ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci e trovarci
ogni volta in meno. E poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era
meglio non farlo”.
Mai Primo Levi uscì da Auschwitz: la sua morte, un suicidio pesante come un
macigno, avvenuta nell’aprile del 1987, ne è la conferma. Un tarlo che lo perseguitò
per una vita intera, fino a quando la rivoltella tedesca non gli si presentò davanti
trent’anni dopo, nel momento in cui, forse, la morte gli apparve persino desiderabile
a paragone di quell’atroce ricordo.
Oggi più che mai, invece, il non dimenticare è un dovere morale collettivo, che ci
vede vicini non solo alla figura di coloro che non ci sono più, ma anche e
soprattutto ai loro cari: figli che non hanno mai conosciuto i propri genitori, inghiottiti
dal buio del filo spinato e delle ciminiere, fratelli e sorelle divisi per sempre, amicizie
e amori infrantisi contro il muro della discriminazione e dell’oppressione. Anche nei
loro confronti, è imbarazzante e inaccettabile sentir parlare – ancor più se avviene
tra i giovani – di un fascismo “buono”: un ossimoro che spaventa e sconvolge,
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come se il mito di illusorie bonifiche verbali e revisionismi politici potesse bilanciare,
persino cancellare, gli errori e gli orrori di quegli anni.
Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, che ricorre in questo 2011 iniziato da poche
settimane, sia allora l’occasione per celebrare quegli stessi ideali che, dal
Risorgimento al cammino per la Liberazione, hanno dato al nostro Paese la forza e
la comunanza di intenti necessarie per reagire alle barbarie dell’ideologia
nazifascista, segnando nettamente il confine tra il bene e il male, tra ciò che era
giusto e ciò che era sbagliato.
Voglio citare, a questo proposito, il monito di Tullia Zevi, scomparsa pochi giorni fa
e levatasi, per tanti anni, come una delle voci più attente e sensibili al valore del
rispetto e della civile convivenza tra le diversità: “Bisogna ricordare – ha detto – che
insieme ai sei milioni di ebrei sono morti anche centinaia di migliaia di zingari, di
omosessuali, di intellettuali e oppositori politici del regime nazista. Sia religiosi, sia
laici. Ci si deve rendere conto di cosa rappresenta la presa di potere di un regime
dittatoriale, e si deve amare e conservare questa democrazia, che con tanta fatica
abbiamo riconquistato”.
Perché la memoria è un patrimonio condiviso, sul quale costruire il nostro presente.
Una memoria che in questi tempi latita, è vaga, frastornata, presa a calci e
vituperata da un potere che tende a cancellare, in virtù di un’effimera apparenza, il
senso del passato e il senso della storia. Che sono, poi, la rappresentazione
concreta del senso della vita.
Grazie.
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