Comune di Piacenza
Gabinetto del Sindaco
Ufficio Stampa
Piacenza, 27 gennaio 2010
Oggetto: Discorso per Giorno della Memoria
Otto Weidt era il titolare di una piccola fabbrica per la produzione di scope e
spazzole, nel cuore di Berlino. Negli anni del nazismo, non esitò a rischiare tutto
per proteggere dalla deportazione i suoi dipendenti, gran parte dei quali erano ebrei
– molti non vedenti o affetti da handicap dell’udito – falsificandone i documenti,
tentando di corrompere gli ufficiali della Gestapo, arrivando a nascondere un’intera
famiglia in una stanza segreta del suo laboratorio artigianale.
Non riuscì a evitare, per alcuni di loro, il tragico destino della morte nei campi di
concentramento, ma il suo nome è scritto nel Giardino dei Giusti, in Israele, insieme
a quello delle donne e degli uomini che hanno lottato, in tutto il mondo, per salvare
altre persone dalla brutalità della persecuzione razziale e dei lager. Ricordare il loro
coraggio, il loro impegno civile e morale, nel giorno dedicato alla memoria delle
vittime dell’Olocausto, significa tracciare una linea netta tra il bene e il male, tra il
rifiuto di un’ideologia costruita sulla violenza e la prevaricazione, e l’adesione a
quello stesso, aberrante regime.
Perché, come ha scritto Hannah Arendt, “il male non ha profondità, né una
dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente
perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. Questa è la sua banalità.
Solo il bene ha profondità, e può essere radicale”. E’ per questo che le uccisioni di
massa nei campi di sterminio, i rastrellamenti nelle case di famiglie inermi e oneste,
l’accanimento feroce di chi è giunto ad attribuire un marchio alle persone, su base
etnica, religiosa o sessuale, non hanno rappresentato solo un crimine contro la
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popolazione ebraica, ma contro l’umanità intera. Che ancora oggi, a 65 anni di
distanza dall’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, non può restare indifferente
all’orrore di una lunga, dolorosa pagina di storia che deturpa, offende e annichilisce
la dignità e il rispetto della persona.
Ha ragione Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, quando afferma che dopo la seconda guerra mondiale “era indispensabile
stabilire con esattezza ciò che l’Europa non sarebbe stata”, perché Auschwitz “è la
negazione dei principi ispiratori dell’Europa coesa, economicamente, socialmente e
culturalmente avanzata, in cui viviamo oggi”. Riconoscere ciò che è stato,
assumendosi la responsabilità che non accadesse più, è il passo decisivo compiuto
dalle istituzioni politiche a livello internazionale, ma è anche un dovere cui ciascuno
di noi è chiamato – e non solo nel Giorno della memoria – come cittadino di un
Paese democratico, che crede nella libertà e nella tolleranza.
Sono dieci anni che celebriamo ufficialmente questa ricorrenza, da quando il
Parlamento italiano, votando all’unanimità, accolse la proposta di onorare la data
del 27 gennaio commemorando le vittime della Shoah, attuando iniziative rivolte
anche e soprattutto alle giovani generazioni, perché la ricerca storica, la
conoscenza e la formazione ci aiutassero a perpetuare il valore della
testimonianza.
Spesso ci si è interrogati sul modo più giusto per proporre questa riflessione,
domandandoci se fosse possibile farci interpreti di un dramma che la maggior parte
di noi non ha vissuto direttamente. La risposta è una sola: nei nostri discorsi, nei
pensieri che dedichiamo ogni anno alla tragedia dell’Olocausto e all’accezione più
autentica del ricordo, c’è la volontà di trasmettere il significato profondo
dell’insegnamento che la storia può darci, con la nostra coscienza di uomini liberi a
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racchiudere il senso di quel dramma, delle terribili vicende che hanno segnato il XX
secolo. Se è vero che vivere è anche ricordare, è altrettanto vero che ripercorrere
quanto accadde in Italia e in Europa, dalla promulgazione delle leggi razziali alla
caduta del nazifascismo, significa restituire una presenza nell’assenza, una parola
nel silenzio. E allora la memoria assume un significato che va oltre la storia,
facendosi consapevolezza di ciò che potè avvenire in quell’epoca, devastata dal
totalitarismo e da una follia collettiva che portò all’esasperazione, all’estremo, il
rifiuto della diversità.
Per questo è così importante che la memoria sia strumento critico, coscienza
partecipata e condivisa, elemento necessario per disinnescare le violenze
quotidiane. Ricordare, allora, non si esaurisce nel gesto di riprendere in mano testi
e documenti, cristallizzando i fatti e gli eventi, relegandoli a mera nozione. No, la
ragione vera per cui è stato istituito il Giorno della Memoria è quella di fornire, alla
società contemporanea e ancor più agli adulti di domani, gli strumenti per ripensare
a quanto è successo. Perché in futuro qualcuno non debba chiederci e chiedersi,
mai più, Se questo è un uomo.
Mi sia concesso di citare una lettera di Primo Levi, pubblicata proprio in questi
giorni su “la Repubblica”, quando il 6 giugno del 1945, appena liberato, per la prima
volta scrisse all’amica Bianca Guidetti Serra: “Porterò (spero) – dice Levi – in Italia
il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro (…) ma la maggior parte dei miei
compagni porta nelle carni più gravi segni delle sofferenze patite”.
In questa frase c’è – forse – tutto ciò che si può dire e tutto il non detto di quegli
anni. C’è la ragione per cui la memoria è un bene prezioso, che ognuno di noi è
chiamato a coltivare. Grazie.
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