L’arte del prendersi cura ...perché la Grande Musica divenga sempre più uno Strumento di importante aiuto alle cure mediche in ogni reparto di oncologia… Gian Andrea Lodovici Quaderno della Fondazione Alexander Langer Stiftung nr. 2 - dicembre 2013 Il premio di questo 2013 ai Donatori di Musica ci è parso inizialmente di un segno diverso rispetto alle problematiche più Perché le note fanno bene alla vita politiche, di prevenzione dei conflitti, di (di Marina Sereni) 2 dialogo e convivenza tra popoli dei premi La buona politica di Alexander Langer precedenti. Un premio che sembrava par(di Laura Boldrini) 3 lare più alla nostra interiorità, alla necesL’arte del prendersi cura sità di trasformare il nostro quotidiano e (di E. Nicolodi, F. Levi e A. Bravo) 4 i nostri stili di vita. L’abbiamo chiamata Tutti i giorni dopo “l’arte del prendesi cura”, la ricerca che (di Maurizio Cantore) 5 abbiamo avviato nelle giornate di “EuroIn sala d’attesa mediterranea” a Bolzano, all’inizio di luIntervista a Claudio Graiff glio. (a cura di B. Bertoncin e E. Rabini) 6 E ci è venuto naturale ripensare agli inseLa cultura della cura gnamenti di Gandhi e poi di Ivan Illich e (di Claudio Graiff) 8 della sua allieva Barbara Duden, così cari Un pubblico speciale ad Alexander Langer. Nei loro interventi Intervista a Roberto Prosseda denunciavano gli effetti potenzialmente (a cura di B. Bertoncin e E. Rabini) 10 patogeni della medicina moderna, di una vita medicalizzata, nonché di relazioni Per una storia dei Donatori di Musica distorte dalle disparità di conoscenze e di (di Giorgio De Martino) 12 potere tra chi soffre e chi cura. La musica Creatrice Indice (di Antonio Osnato) 13 Era il segno che avevo reagito Intervista a Roberto Dall’Olio (a cura di Barbara Bertoncin) 14 Per questo sono rinato Poesie di Roberto Dall’Olio 16 Parlare fa bene Intervista ad Andrea Martoni (a cura di Barbara Bertoncin) 18 La difesa della normalità Intervista ad Anna Segre (a cura di Gianni Saporetti) 20 Anna e la malattia (di Anna Bravo) 20 La malattia e la persona Intervista a Gemma Martino (a cura di Paola Sabbatani) 22 I limiti del medico Intervista a Marco Bobbio (a cura di Enzo Ferrara) 24 Salute? No, grazie! (di Barbara Duden) 26 Infermiere e pianeta, elogio della gratuità (di Alexander Langer) 30 La malattia ha cambiato la mia vita (di Martin Berkofky) 32 Con il premio ai Donatori di Musica, il Comitato scientifico della Fondazione ha voluto segnalare e incoraggiare la diffusione di questa esperienza adottata sistematicamente in alcuni ospedali italiani. La grande musica entra nei reparti e favorisce la creazione di un spazio liberato dalla rigidità dei ruoli e dall’isolamento del malato -insieme a medici e infermieriin una enclave istituzionalizzata. Il bel libro che la Presidenza della Camera ci ha voluto donare a conclusione della scorsa legislatura sui Premi Langer dal 1997 al 2012, racconta come anche altri premi, pur con sfaccettature diverse, ci avevano obbligati a pensare al tema della salute. Così è stato nel 2003 con l’Associa- zione Gabriele Bortolozzo per il suo impegno contro le emissioni nocive di Porto Marghera; o il premio del 2005 alla psichiatra bosniaca Irfanka Pasagic, che cura le vittime del genocidio di Srebrenica dai traumi ancora evidenti. Infine quello del 2006 all’ostetrica dai piedi scalzi di Bali, Ibu Robin Lim, e il premio del 2007 al sudafricano Zackie Achmat, che nel suo paese conduce una difficile battaglia per garantire ai malati di Aids la somministrazione dei farmaci attraverso il servizio pubblico. Senza dimenticare il premio 2010 alla Fondazione Stava1985, che ha vissuto una tragedia così simile a quella del Vajont, di cui ricorre quest’anno il 50° anniversario. Ora ci rendiamo conto che l’“Arte del prendersi cura” li attraversa tutti e che anche gli altri premi chiedono sostanzialmente la stessa qualità di relazioni alla quale i Donatori di musica aspirano e ci propongono. Li sentiamo così in sintonia con le conclusioni di una relazione di Alexander Langer del novembre 1990 al Congresso nazionale dell’Associazione infermieri di area critica: “Sviluppare la gratuità vorrebbe dire difendere e valorizzare tutti i luoghi in cui ci si può ritrovare, si può sostare, ci si può parlare, senza dover fare parte di una struttura, senza dover pagare il biglietto di ingresso, senza essere abbonato a un circuito, senza avere poi un contratto di assistenza tecnica che dopo cura la manutenzione”. Un bel programma per tutti noi. Perché le note fanno bene alla vita Bettina Foa, Enzo Nicolodi di Marina Sereni* Bellissimo questo nome di “Donatori di Musica” che regalano alle ammalate e agli ammalati di alcuni reparti oncologici -e non solo- la bellezza della musica. Lo spirito con cui offrono il loro dono è riassunto molto bene nelle motivazioni forniteci dal Comitato scientifico della Fondazione Alexander Langer, che ci consente ogni anno -dal 1997- di conoscere le esperienze e le pratiche più coraggiose e innovative sul piano della tutela e della promozione dei diritti umani messe in atto a livello globale. Il libro curato da Grazia Barbiero: “Il Premio Alexander Langer alla Camera dei deputati / 1997-2012”, pubblicato nel 2012, raccoglie e documenta questi percorsi coraggiosi di solidarietà ai quali sono appese le nostre speranze migliori. Aver cura del prossimo non è cosa facile in un’epoca di passioni tristi e frammentazione sociale, di solitudini ed egoismi. Quest’anno il Premio valorizza una buona pratica italiana nel nome di Alexander Langer, l’uomo che più di tanti altri, ha illuminato “l’importanza dei mediatori, dei costruttori di ponti, dei saltatori di muri, di esploratrici di frontiera” per affermare un mondo di pace. *Marina Sereni è vicepresidente della Camera dei Deputati 2 Laura Boldrini La buona politica di Alexander Langer Il Premio Internazionale Alexander Langer giunge quest’anno alla diciassettesima edizione. è un evento ormai tradizionale che la Camera dei Deputati ospita con grande piacere. Tra le particolarità del Premio c’è il fatto che fin dalla sua prima edizione, nel 1997, a promuoverlo e organizzarlo sono sempre state le deputate dell’Ufficio di Presidenza della Camera. Altrettanto significativo è che la maggioranza dei premiati nei precedenti sedici appuntamenti siano state donne. Mi piace ricordare a questo proposito che nella prima edizione, nel 1997, il Premio andò a Khalida Toumi Messaudi, una donna che con estremo coraggio si è battuta da protagonista per i diritti delle donne e per le libertà civili nel suo Paese, l’Algeria. Per me, lo comprendete bene, si tratta di fatti molto importanti e ricchi di valore. L’istituzione di questo Premio Internazionale, per le sue finalità, è un modo certamente efficace di ricordare Alexander Langer e di rinnovare gli ideali che hanno ispirato la sua vita e la sua azione politica. Di lui è stato detto e scritto molto: del suo impegno a difesa dell’ambiente, per la pace nella ex-Yugoslavia, per la convivenza in Alto Adige; del suo ruolo di promotore del movimento politico dei Verdi in Italia e in Europa e di membro del Parlamento Europeo. In ciascuno di questi ambiti ha lasciato un segno del tutto particolare. Io vorrei oggi parlare dei suoi modi corretti e rispettosi. Un tratto del carattere, certo, ma anche una visione della politica e delle relazioni con le persone. Una politica intesa, e praticata, come dialogo, convincimento, ascolto delle verità altrui. Il contrario dell’idea che sembra prevalere oggi della politica come puro esercizio del potere, come sopraffazione, come delegittimazione dell’avversario. Nella cultura di persone come Alexander Langer la nonviolenza non è assenza di conflitto: è ripudio di ogni intolleranza e di ogni pregiudizio, è costruzione di ponti tra le culture, le identità, le appartenenze. Rispettare gli altri, allora, non significa rinuncia, rassegnazione, arrendevolezza: le sue battaglie, quasi sempre controcorrente, Alexander Langer le ha condotte con coraggio e a viso aperto. Oggi il confronto politico è troppo spesso gridato, sopra le righe, si eccede nei toni e giudizi sulle persone, si appare sordi alle ragioni dell’interlocutore. Proprio oggi, in un tempo come questo, abbiamo un grande bisogno di non dimenticare quella lezione di buona politica che Alexander Langer ci ha lasciato con il suo esempio e con la sua esperienza nei movimenti e nelle istituzioni. Li ritroviamo pienamente, questi valori, nelle motivazioni che accompagnano il conferimento dei Premi. Ricorrono, nelle motivazioni, alcune parole: libertà, uguaglianza, convivenza, tolleranza religiosa, parità tra i sessi, tutela della natura, diritti umani. Sono le tessere di un mosaico che ben rappresenta una moderna cultura democratica e una sensibilità nuova verso il destino del nostro pianeta. Al centro di tutto questo ci sono la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti. Della dignità umana, parla anche l’esperienza dei “Donatori di Musica” ai quali va il Premio Langer di quest’anno. Si tratta di un gruppo di medici, artisti, infermieri, volontari che organizzano eventi musicali soprattutto nei reparti oncologici. Nella motivazione del conferimento del Premio si spiega bene che donare concerti a persone che vivono una condizione di dolore e di estremo disagio, non è un atto di semplice carità o un puro tentativo di svago. L’obiettivo dei “Donatori di musica” è quello, si dice nella motivazione, di “contrastare un modello di medicina che ancora tende a sequestrare il paziente in una enclave istituzionalizzata, a rinchiuderlo nell’identità esclusiva di malato di cancro… Rompere la segregazione per dare spazio alle molte cose che un malato continua a essere… costruire legami fra i degenti, i loro familiari e amici, gli artisti, gli operatori sanitari”. Rompere la segregazione, costruire legami. In queste parole ci sono le ragioni che spiegano perché va ai “Donatori di Musica” un Premio che fino ad oggi è andato a personalità e ad associazioni impegnate per la pace, per la tutela dei diritti umani, per le libertà civili e politiche in ogni parte del mondo. Perché si tratta comunque, lo dicevo poc’anzi, dell’impegno per la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti. Valori ai quali tutti noi teniamo molto. Per questo ai “Donatori di musica” e alla “Fondazione Alexander Langer Stiftung” va il ringraziamento e la sincera stima della Camera dei Deputati. Grazie ancora di essere qui e buon lavoro a tutte e a tutti voi. Mercoledì, 9 ottobre 2013, Sala del Cavaliere 3 Motivazioni del Premio Alexander Langer ai Donatori di Musica L’arte del prendersi cura La decisione di premiare i “Donatori di Musica” -una rete di artisti, medici, infermieri e volontari che prende il nome dall’impegno a organizzare, prevalentemente in reparti oncologici, stagioni di concerti- può sembrare una rottura con la tradizione che per anni ha visto la Fondazione Langer privilegiare l’opera di pacificazione e di soccorso in luoghi di conflitto e di crisi umanitaria. Più che una rottura, però, è uno spostamento: dal lontano al vicino, dall’emergenza alla quotidianità, dalla cura della vita offesa alla cura della vita pericolante. E non solo: se c’è un tratto che accomuna i nostri premiati è la scelta nonviolenta, e di nonviolenza la pratica medica ha un profondo bisogno. Quando Gandhi, e dopo di lui Illich, denunciavano gli effetti patogeni della moderna medicina, il bersaglio erano sia lo specialismo, sia la violenza potenziale legata alla disparità di conoscenze, padronanza, potere fra chi soffre e chi cura. A maggior ragione nella malattia oncologica, in cui il malato può vivere momenti di vulnerabilità estrema, in cui il corpo può ridursi a un groviglio di sofferenza nelle mani di chi ha la facoltà (e l’onere) di decidere le terapie, i tempi, i modi e i luoghi in cui applicarle. Oggi la medicina ha imparato a riflettere su se stessa, sulla propria vocazione, sul proprio ambiente; da anni in molti ospedali c’è chi si sforza di “umanizzare” la degenza promuovendo iniziative per lo svago e la socializzazione. Giusto, ammirevole. Ma i Donatori puntano a qualcosa di diverso: a contrastare un modello di medicina che ancora tende a sequestrare il paziente in una enclave istituzionalizzata, a rinchiuderlo nell’identità esclusiva di “malato di cancro” – e qui viene spontanea un’analogia con gli interventi in situazioni di guerra civile o di catastrofe naturale, dove i colpiti sono vittime, certamente, ma non vittime soltanto, e amerebbero avere rapporti da persona a persona, non da bisognosi a soccorritori. Per rompere la segregazione, per dare spazio alle molte cose che un malato continua a essere, la via maestra è costruire legami fra i degenti, i loro familiari e amici, gli artisti, gli operatori sanitari. Un lavoro che non può accontentarsi della performance isolata perché vuole tempi lunghi, continuità, sapienza sedimentata, un contorno coerente. è in questa prospettiva che il concerto prende senso come strumento e simbolo di condivisione: si discute, lo si prepara insieme, insieme si vive la beatitudine che la musica sa dare, si gusta il cibo che accompagna l’incontro. E insieme si cambia. La presenza nel reparto dei musicisti, un pezzo di mondo dal quale i pazienti sono stati esclusi o si sono lasciati escludere, ha consentito -dicono i Donatori- una “rivoluzione imbarazzante” per la sua semplicità: iniziata dalla consapevolezza che ognuno è nello stesso tempo sano e malato, spesso in 4 transito da una condizione all’altra, la rivoluzione è approdata alla scoperta che non necessariamente il paziente è la figura che chiede e riceve, può altrettanto bene essere quella che offre e dà. In questa logica di scambio, l’artista porta la sua musica, gli operatori le proprie conoscenze, i malati il proprio sapere: esperienza del dolore, ma non soltanto, anche storia della vita che si è vissuta e si spera di tornare a vivere. è un insieme che protegge dal rischio di diventare, proprio malgrado, “malati professionali”. Ed è una critica pratica alla nostra cultura, in cui il cancro è avvolto da un’aura perturbante che rende difficile persino nominarlo e che può falsare i rapporti e le parole. L’esperienza dice che ci si può opporre. è proprio dall’esperienza nascono i Donatori. Nel 2007 un musicologo e direttore artistico, degente all’ospedale di Carrara, propone al suo primario di organizzare un concerto -quel che faceva prima e vuol continuare a fare nel modo in cui gli è possibile. L’esperimento ha una ricaduta bella e fattiva oltre le previsioni, tanto che l’evento si trasforma in sistema, e invoglia altre persone, altre istituzioni -gli ospedali di Bolzano, Brescia, Saronno, Sondrio, Vicenza, il San Camillo Forlanini di Roma. Un progetto così semplice e così ambizioso esige regole e patti. Agli artisti chiede, insieme all’eccellenza professionale, sensibilità e riserbo: nessun turismo umanitario, nessuna autopromozione o ritorno di immagine. Agli operatori chiede un lavoro costante di informazione calibrato sul livello diffuso di conoscenza della malattia e delle opzioni terapeutiche. A tutti si chiede empatia, rispetto reciproco, messa in discussione dei ruoli: nel setting del concerto, nessuno ha un abbigliamento “di funzione”, a significare che si tratta di una performance diversa da ogni altra. Ma nella cura il medico non abdica al suo ruolo. Lo svolge con più consapevolezza del punto di vista del malato, ma anche dei propri disagi, difficoltà, debolezze, da affrontare insieme. A differenza che nella direttiva “il malato è al centro”, che lascia spesso la decisione nelle mani del medico, qui al centro è il rapporto. E quel rapporto è la condizione per una buona alleanza e una modalità di cura non accanita e non bellicosa -come avviene invece nella diffusa tendenza a concepire la terapia come guerra, duello, prova di forza. La priorità delle relazioni è l’altra faccia della “rivoluzione imbarazzante”: mentre ancora oggi l’“umanità” del curante è considerata dagli stessi pazienti un (pregevolissimo) di più, per i Donatori è parte integrante dell’eccellenza professionale. Senza la quale non c’è buona medicina né buona terapia. Questo impegno complessivo non è materia per un progetto di riforma sanitaria; è materia per un lavoro di riforma interiore, la stessa strada che porta a scegliere la nonviolenza e a decidere consapevolmente della propria vita. Enzo Nicolodi (presidente Fondazione), Fabio Levi (presidente Comitato scientifico) Anna Bravo (relatrice) La scultrice sudtirolese Sieglinde Taz Borgogno ha inserito nel suo “Giardino delle statue” a Pochi di Salorno (BZ) un bronzo dedicato ai Donatori di Musica, accanto ad altre opere che ricordano Alexander Langer e tutti i premi a lui dedicati. Maurizio Cantore Tutti i giorni dopo Sono onorato di essere qui con voi e felice di raccontarvi una bella storia che nasce in Italia, in quell’Italia che in queste settimane di tragedie umane ha dimostrato che concetti come solidarietà e amore appartengono alla maggior parte dei suoi figli. è la storia di “Donatori di Musica”. La storia di persone che rimangono tali o addirittura scoprono di essere persone migliori nel momento più difficile della loro vita, quello della diagnosi di cancro. La storia di 8.000 pigiami lasciati negli armadi dei reparti di oncologia negli oltre 200 concerti che si sono svolti in questi cinque anni perché al concerto si va ben vestiti anche se è in ospedale. La storia di volontari che con gioia cambiano volto e attraverso nuove azioni trovano sempre più forti motivazioni. La storia di musicisti che si tolgono il frac e suonano nell’abbraccio di persone che ascoltano con il cuore prima che con l’orecchio. La storia di medici che si tolgono il camice, vivono nelle stanze della quotidianità oncologica, prima ascoltano e poi parlano per una condivisione più vera. La storia di luoghi dove il dialogo è orizzontale e non dall’alto verso il basso, dove anche le paure più nascoste hanno modo e forza di essere dette, dove i desideri cancellati da qualche etto di tumore possono riaffacciarsi, dove insomma la speranza viene ripescata e rianimata. La storia di luoghi dove il malato con tumore non ha soltanto diritti, ma anche doveri, principalmente verso se stesso, il primo dei quali non diventare malato di professione, persona cioè che parla solo al passato, cancella il futuro dal suo immaginario e si trasforma nella sua malattia. La storia di un nuovo tipo di relazione tra medico e malato in cui l’obiettivo di cura diventa un obiettivo comune e la strada per raggiungerlo diventa una strada mai percorsa da soli. La musica è un fertilizzante magico di questo nuovo terreno d’incontro. E proprio dall’occasione di un incontro nel giugno 2007 nell’Oncologia di Carrara, nasceva l’idea di Donatori di Musica. Gian Andrea Lodovici, uomo della musica, critico musicale famoso e importante produttore di musica classica, entrava nel mio studio di Carrara per fare l’ultimo piacere alla moglie Caterina e al piccolissimo figlio Giorgio. Sentire un’ulteriore opinione sul trattamento del proprio cancro allo stomaco. Erano 12 mesi che eseguiva chemioterapie, perdeva capelli, faceva esami, stava sempre peggio e la musica era stata cancellata nei suoi pensieri. Quella musica che per lui era stata sempre motivo e ispirazione di vita. In quel primo incontro, che poteva essere anche l’ultimo, non ho parlato di nuove chemioterapie, di armi più potenti o mirate per combattere il suo cancro, ho chiesto il suo aiuto per fare dei concerti nel mio reparto. I suoi occhi subito hanno cambiato orizzonte, prima mi passavano attraverso con indifferenza, ora si posavano sui miei, accesi però da un dubbio: “Perché lui, mio possibile salvatore chiede a me aiuto, a me che ho il cancro?”. Proprio in quel momento, la luce si è riaccesa in lui e gli ultimi mesi della sua vita sono stati percorsi con gioia a creare concerti e poi stagioni musicali nella nostra Oncologia. Gian Andrea con serenità e profonda stima ha quindi ceduto il testimone a chi, lui ne era certo, avrebbe proseguito il suo cammino, Roberto Prosseda, uno Attualmente sei oncologie italiane sono attive; a gennaio prossimo entreranno l’Oncologia pediatrica di Parma e il Servizio di Igiene Mentale di Castelfranco Veneto. Nella filiera del dono dei Donatori di Musica ci sono oltre 200 musicisti di altissima qualità sia musicale (debbono essere professionisti con esperienza documentata nazionale e internazionale) che empatica. dei più noti pianisti italiani che da subito lo ha raccolto con entusiasmo e fortissime motivazioni. Nasceva così l’idea di creare una rete di musicisti, medici, volontari, malati, familiari, infermieri, psicologi per portare la grande musica non episodicamente ma continuativamente nelle oncologie italiane. E dopo Carrara ecco che Claudio Graiff, primario oncologo di Bolzano, costruiva il secondo punto della rete delineando una retta e quindi la direzione da seguire. E poi ecco le Oncologie di Brescia, Vicenza, Roma, Sondrio e Saronno con oltre 200 concerti suonati in questi anni. E arriviamo ai giorni d’oggi. L’incontro con la Fondazione Alexander Langer e le motivazioni che hanno premiato DdM, sono state per noi rivelatrici di obiettivi da raggiungere e non di mete già colte: il concetto di non violenza di una medicina che attualmente tende ancora a istituzionalizzare il malato e di fatto a spegnere il suo essere persona. Porlo al centro della nostra attenzione significa che lui può solo chiedere e ricevere, non dare e offrire. Donatori di Musica è una semplice, imbarazzante rivoluzione che quotidianamente pone al centro non il malato, ma la costruzione di una relazione con lui come persona che può anche dare e offrire. è nel momento del concerto che il musicista è chiamato a dare una musica diversa da quella che suona di fronte a platee anche di migliaia di persone, protetto dal palco e dalla irraggiungibilità del “grande maestro”. Qui suona in mezzo a persone che sentono il suo respiro e vedono le vene delle sue mani. Non può nascondersi e deve donare la sua musica più intima perché chi lo ascolta lo fa con il cuore e con la pelle. E quindi deve scoprire la sua musica più innamorata che, a volte è capitato, lui stesso non aveva mai sentito prima. Ma di tutte le fasi dei concerti di Donatori di Musica quelle più importanti sono tutti i giorni dopo: non servirebbe a niente avere assistito al più grande ed emozionante concerto del secolo se tutti i giorni successivi non venisse mantenuta quella magica relazione che si è creata durante il concerto. Ecco perché la bellezza e la grandezza della rivoluzione di Donatori di Musica si vede ancora di più in tutti i giorni dopo: proprio nella quotidianità ospedaliera fatta di vittorie e di sconfitte, fatta di lacrime e abbracci. Fatta di carne, di scienza e di cuore. (Intervento del dott. Maurizio Cantore alla Camera dei Deputati, 9 ottobre 2013) 5 In sala d’attesa Stagioni di concerti nei reparti di oncologia, in cui sono coinvolti tutti e alla fine anche il musicista ringrazia; la diffusione della medicina “difensiva” che scarica tutte le responsabilità sul malato; l’eccellenza dell’accoglienza e quel sogno di comprare il pianoforte. Intervista al dott. Claudio Graiff. Claudio Graiff, oncologo presso l’ospedale di Bolzano, è tra i fondatori di “Donatori di Musica” (www.donatoridimusica.it). Da alcuni anni, assieme ad altri, ha dato vita a “Donatori di Musica”, una rete di musicisti, medici e volontari che organizza stagioni di concerti negli ospedali. Può raccontare? La storia dei Donatori di Musica è cominciata nel 2007 dall’incontro di due persone: Gian Andrea Lodovici, un musicologo, direttore artistico di un’importante casa discografica, che si trova a frequentare, come degente, il reparto di Oncologia dell’ospedale di Carrara, con una malattia purtroppo molto avanzata e ben consapevole della sua aspettativa di vita; l’altra persona è Maurizio Cantore, il primario di quel reparto, un medico da sempre capace di instaurare delle relazioni forti e credibili con le altre persone. Gian Andrea Lodovici a un certo punto butta là una proposta: “Perché non proviamo a organizzare un concerto? In fin dei conti questo è il mio mestiere, mi piacerebbe molto...”. Il medico accetta volentieri. Non è la prima volta che si fanno delle attività diverse da quelle strettamente cliniche in quel reparto, però questa si dimostra subito molto coinvolgente e quindi si decide di ripeterla. Così, finché Lodovici ha le energie, ogni tanto organizza una serata, un concerto, invitando alcuni musicisti che sono anche amici suoi. Nel frattempo capita che Maurizio e io ci incontriamo a un convegno. Ci conoscevamo già, eravamo amici, essendo uniti anche da una condivisione sul senso del nostro mestiere. Lui mi racconta questa cosa e vede -me l’ha detto dopo- un luccichio nei miei occhi, che lui imputa al mio interesse per la musica... in realtà io mi ero commosso per il senso che intravedevo in questa possibilità. non ci deve essere distanza tra il musicista e gli altri, quindi lo strumento è in mezzo alla sala Nel frattempo, Lodovici, a soli 48 anni, purtroppo se ne va, ma prima di morire esprime l’auspicio che la “Grande Musica divenga sempre più strumento di importante aiuto alle cure mediche in ogni reparto di oncologia”. Teniamo presente che sono le parole di un ammalato che ha sperimentato su di sé cosa poteva significare organizzare e seguire questi concerti. Ecco, Lodovici lascia queste parole e passa il testimone a Roberto Prosseda, uno dei più importanti pianisti italiani, che lo raccoglie con entusiasmo, coinvolgendo anche sua moglie, pure lei pianista, che è poi l’ideatrice del nome dell’Associazione. Nasce così l’idea di costruire una rete di musicisti, medici, volontari, infermieri, psicologi, ammalati, familiari, insomma di tutte 6 le persone coinvolte, con l’obiettivo di darci una maggiore sistematicità. Diceva che i concerti in reparto non sono un’iniziativa benefica o ricreativa. C’è dell’altro e ci sono anche delle regole... A marzo 2009 nasce la rete. Raccolte le adesioni dei primi musicisti, si comincia a predisporre una serie di regole di base. Vengono stabiliti alcuni piccoli paletti: intanto le iniziative non devono essere episodiche ma continuative, altrimenti si perde il senso. Non ci deve essere distanza tra il musicista e gli altri, quindi lo strumento è in mezzo alla sala. Sia da noi che a Carrara il concerto si svolge nella sala d’attesa del reparto. Il musicista poi è pregato di non indossare un abbigliamento “di funzione” e così tutti gli operatori sanitari e gli ammalati. La totale indistinguibilità è uno degli elementi del progetto: significa che in quel momento nessuno ricopre un ruolo istituzionale. Questo non è un concerto per gli ammalati, non è un’iniziativa benefica, è qualcosa che si fa tutti assieme e da cui trae beneficio lo stesso musicista. La particolare sensibilità e l’esperienza di vita degli ammalati e dei familiari, ma anche degli operatori sanitari, sono infatti uno stimolo poderoso alla maturazione del musicista che quindi dona e riceve, tant’è vero che spesso ci dicono di avere più ricevuto che dato. Questo ritorno molto forte ha fatto sì che la rete raccogliesse molto velocemente adesioni di un gran numero di musicisti. E qui interviene un altro criterio, nel senso che non tutti quelli che si propongono vengono invitati. Ci sono dei requisiti necessari: si deve trattare di musicisti professionisti con una carriera internazionale di un certo livello. Insomma, non accettiamo tutti, o meglio, visto che sarebbe sciocco non accettare una persona che, pur essendo un dilettante, desidera dare il suo contributo, facciamo delle manifestazioni a latere, che però non rientrano nel progetto. Infine c’è la gratuità, che è fondamentale, ma non va intesa in senso esclusivamente economico (in realtà grazie a qualche sponsor riusciamo almeno a rimborsare le spese vive). Gratuità significa che il musicista non deve attendersi alcun compenso e nemmeno un ritorno in notorietà. Questo serve anche a noi per essere certi dello spirito con cui il musicista si propone. Molti ci chiedono: “Se ne sa così poco... Perché quando fate concerti non lo annunciate nei giornali?”. Perché è una cosa tra di noi. Nel 2009, con questo minimo di teorizzazione alle spalle, attraverso la rete del Collegio italiano primari e oncologi medici ospedalieri (Cipomo) abbiamo scritto una breve lettera presentandoci agli ospedale interessati. Nella primavera dello stesso anno siamo partiti, inizialmente in due, Bolzano e Car- rara. Si sono poi uniti l’ospedale di Sondrio e quello di San Bonifacio di Verona, dove l’iniziativa, successivamente interrotta, aveva coinvolto un reparto chirurgico. D’altra parte, organizzare non uno, ma venti concerti all’anno non è così semplice, bisogna crederci. In seguito si sono aggiunti il San Camillo Forlanini di Roma e, più recentemente, Brescia e Vicenza. L’ultimo in ordine di arrivo è Saronno. Voi pretendete anche che sia garantita l’eccellenza medica dei reparti coinvolti. Quello che per noi è davvero un requisito fondamentale è l’eccellenza nell’accoglienza. D’altra parte non esiste eccellenza clinica senza relazione. se è vero che il compito della terapia compete ai tecnici, il compito della “cura” compete a tutti Uno studio pubblicato recentemente ha dimostrato che gli ammalati seguiti da medici “empatici” presentano meno complicanze acute e una migliore aspettativa quantitativa di vita. Un risultato clinico positivo può venire in pari misura dal migliorare la tua capacità empatica o dall’utilizzare l’ultimo nuovissimo farmaco, si figuri cosa possiamo ottenere se mettiamo insieme le due cose! Io, poi, quando parlo di eccellenza intendo una cosa precisa, cioè far bene il proprio mestiere. L’eccellenza per me è il piastrellista che alla fine del lavoro passa la mano ed è contento del risultato; l’eccellenza non è la cosa straordinaria, è la cosa normale fatta come meglio si può. Perché questi concerti sono un momento importante nella vita degli ammalati, dei medici e degli infermieri? Per gli ammalati e gli operatori questo progetto significa il coinvolgimento della società nelle attività di cura degli ammalati. È importante che questa società, che ha deciso di costruire gli ospedali fuori dalle città, si riappropri della cura dei suoi ammalati, perché se è vero che il compito della terapia compete ai tecnici, il compito della “cura” compete a tutti. A volte pretestuosamente si tirano fuori motivazioni di carattere tecnico, di accessibilità, ma sappiamo benissimo che esistono strutture molto frequentate che sono ubicate nel cuore delle città. Basti pensare all’Hôtel Dieu di Parigi che è sotto la chiesa di Notre Dame. La realtà è che oggi la malattia in qualche modo “stona”. Lei dice che l’attuale organizzazione sanitaria rischia di far sì che l’essere ammalati diventi un mestiere. Può spiegare? Oggi molte persone vivono la loro malattia come un continuo dentro e fuori, perché certe cose si possono fare solo in ospedale, se poi ci aggiungiamo la dislocazione geografica, di cui dicevamo, e una sorta di apar- Bolzano, 5 luglio: Concerto di Gemma Bertagnolli e Giovanni Bietti theid che si viene a creare tra i malati e i sani si arriva a quella che ho chiamato la “condizione professionale” dell’ammalato. Un signore, che dopo aver fatto il giro delle sette chiese era venuto anche da me in cerca di un’improbabile risposta, alla domanda su quale fosse il suo mestiere mi ha risposto: “Io facevo...”. Al che ho iniziato a chiedere: “Perché facevo? Non ce la fa più? Le manca la forza?”. “No, no, ce la farei”. “Ah, è perché ora le sue priorità sono altre, non le interessa più...”. “Scherza? Il mio lavoro me lo sogno di notte!”. “E allora?”. “Ma dottore, per forza non lo faccio...”. Ecco, “per forza” non lavorava più, doveva fare l’ammalato! Perché ormai si è creata questa spaccatura tra il sano e il malato che ci impedisce di vivere come prima, anche se potremmo. Questo concetto della malattia, che è prettamente culturale, ci cambia la vita, ci cambia il concetto dello spazio, del tempo, ci fa coniugare i verbi al passato. Ecco, l’irruzione dei musicisti nella vita di ammalati che dal mondo sono stati buttati fuori (o si sono autoesclusi) è qualcosa di fondamentale per rompere questo isolamento. Per questo noi la definiamo una rivoluzione, imbarazzante nella sua semplicità, perché vuole riportare al concetto che ognuno di noi è a un tempo sano e ammalato. Molti malati di oggi saranno i sani di domani e sicuramente quasi tutti i sani di oggi saranno i malati di domani. Insomma, siamo tutti sani e malati. La condizione della malattia, nel momento in cui diventa dominante e totalizzante al punto da obbligarti a rinunciare a tutto quello che eri, fa sì che tu non sia più il signor pinco pallino che oggi ha un problema, bensì tu diventi il tuo problema. Allora, per gli ammalati, al di là dell’intensità emotiva con cui ognuno di loro può vivere il momento del concerto, credo che questo sia un aspetto che conta. Non è la solidarie- tà o la beneficenza. È il musicista che arriva e alla fine ringrazia di aver condiviso dei momenti con persone che attraverso la loro esperienza hanno comunque acquisito un sapere che lui può giusto intravedere. Ma soprattutto è una cosa che si fa assieme, in cui anche l’ammalato e i familiari svolgono una parte attiva. Il progetto prevede che alla fine ci sia un buffet in cui il malato fa qualcosa di pratico, ma soprattutto di simbolico perché il malato non è al centro. Nell’idea di porre il malato al centro, a suo avviso, si sono commessi anche degli errori... Sicuramente la medicina per troppo tempo ha perso di vista il malato. Nei primi anni Ottanta sembrava che gli ospedali avrebbero potuto funzionare molto bene operando solo su organi isolati, senza il corollario delle cose che fanno “perdere tempo”. Quante volte le persone mi dicono: “Mi scusi dottore se le faccio perdere tempo, vorrei sapere quali sono le condizioni di salute di mio papà”. Ecco, nel momento in cui io medico non ho in mano uno strumento, ma sto interagendo con una persona, nell’immaginario sto perdendo del tempo, perché io sono un tecnico. Tutto questo non è vero. Negli ultimi anni molto si è fatto per rivedere questa impostazione. I sistemi sanitari hanno recuperato una visione olistica (anche se adesso si abusa di questa parola) mettendo al centro l’ammalato... e quella è stata la frittata! Perché si è riacquistato interesse e attenzione ai bisogni del malato, ma sempre nella posizione in cui io corrispondo ai tuoi bisogni, punto. Se l’obiettivo è la bidirezionalità, beh, questa non è rispettata dalla posizione centrale del malato. In più così si mette l’ammalato in una condizione di passività che lo professionalizza ancora di più: lo metti fuori dalla città, lo consegni nelle mani dei medici e delle infermiere e intanto tu, società, aspetti che torni. Ma magari non c’era bisogno che smettesse di lavorare... L’ammalato al centro non solo viene quindi temporaneamente espulso dalla società, ma anche rispetto agli operatori sanitari si trova in una posizione del tipo: “Io chiedo, se qualcuno ha qualcosa da darmi, grazie”. Non io chiedo e do. Ecco, da noi l’ammalato sta attorno al tavolo, si dà da fare come gli altri; il simbolo del buffet è questo. Diceva che alcuni malati riscontrano anche dei benefici fisici, misurabili... Sì, con il tempo abbiamo scoperto che questa esperienza induce dei cambiamenti anche in alcuni aspetti di qualità della loro vita. Abbiamo raccolto dei dati sia a Carrara che a Bolzano. per me è sempre molto commovente quando qualcuno ci viene a trovare pur non avendo più bisogno Per ora quello che emerge è che grazie a queste iniziative diminuisce il livello di stress legato all’ospedalizzazione, vengono facilitate le relazioni tra operatori e pazienti, per alcuni addirittura migliora la qualità e la durata del sonno, diminuiscono gli episodi di nausea e vomito. E per gli operatori cosa significa? Parlo per me. Vedere una persona che torna in ospedale, dove magari è stata la mattina o una settimana prima, e si siede magari sulla stessa sedia dov’era rimasta in attesa di una terapia sgradevole o di una notizia a volte non buona; ecco, vedere una persona che senza averne alcun bisogno torna in questo luogo e si siede su quella stessa sedia per fare qualcosa di diverso, di bello, mi fa pensare che forse abbiamo instaurato una relazione buona, credibile; che abbiamo crea- Fare musica significa dare senso alle cose. Rendere ricco un momento dell’esistenza, forse un’intera esistenza. Condividere delle emozioni, forse le più intime, quelle che non si possono dire. Da queste premesse nasce l’esigenza dei Donatori di Musica. Non diversamente dai donatori di sangue, i musicisti possono dare qualcosa che hanno, sapendo che quella cosa sarà altrettanto essenziale per chi l’ascolta. Ma ci sono due peculiarità in questo modo di donare: l’idea che volontariamente essi scelgono di condividere la musica al di fuori della situazione “protetta” della sala da concerto, dove sono normalmente su un palcoscenico e in una posizione privilegiata; e, in secondo luogo, il fatto che ad ascoltarli saranno persone dall’esistenza speciale, con un diverso sguardo sulla vita, sulla sofferenza, sull’affettività. Per questo ogni musicista sa che non può restare “sul palcoscenico”, non può risparmiarsi. Deve mettersi in gioco, a disposizione, mettere in campo la sua generosità. Ecco le condizioni grazie alle quali la donazione si realizza appieno: un darsi che è anche un ricevere, scoperta di sé e ritorno all’essenza della musica, dare senso alla cose attraverso le emozioni di chi suona e di chi ascolta. Luigi Attademo 7 to un luogo dove si può venire anche quando non si ha bisogno. Per me è sempre molto commovente quando qualcuno ci viene trovare pur non avendo più bisogno, oltre alla strumentalità del rapporto; è un’attestazione importante e una grande gioia. I medici oncologi, così come gli specialisti che hanno a che fare con malattie importanti, sono quotidianamente a contatto con storie di sofferenza e talvolta con esiti infausti. Diceva che queste iniziative aumentano il senso di condivisione. Sappiamo della sofferenza del malato, ma la sofferenza del medico? Il contatto con la sofferenza, con la malattia, fa parte della scelta di fare il medico. Chi sceglie questa strada deve sapere che la sua vita sarà coinvolta in maniera totalizzante da questa esperienza. Chi fa il medico ospedaliero in determinati reparti è meglio sappia da prima che non avrà una vita sociale normale né una vita familiare normale. Dovrà essere disposto a queste rinunce. Se lavora in un’unità di terapia intensiva, coronarica, o in un’ematologia con bambini con la leucemia, non potrà pensare che tutto questo non abbia un impatto fondamentale sulla sua vita extra professionale, saremmo degli schizofrenici, dei dissociati. A volte a noi medici sembra che il mondo sia tutto un grande ospedale, c’è anche un’alterazione della percezione. In questo però non c’è sofferenza perché prevale il senso di dedizione, di missione se vuole. Se in tutto questo provi anche una profonda gioia, allora funziona. Anche perché il ritorno è clamoroso. L’importante è che tutto questo non diventi una condivisione che ti mette alla pari con l’ammalato. quante volte si vede l’ammalato arreso e il medico combattivo. Non va bene Tu devi sempre rimanere altro. A un corso per infermiere ho usato questa espressione: “Non permettete all’ammalato di entrare nel vostro letto, perché altrimenti si impadronirà di voi e non sarete più credibili. Siate voi a entrare nel letto dell’ammalato”. È fondamentale mantenere la propria alterità, non identificarsi, anche proprio per il malato. Il momento dell’identificazione, che può sembrare il più alto nella nostra professio- La cultura della cura I Musicisti “colti”, interpreti della “grande Musica” di Gian Andrea Lodovici, con questa iniziativa sono entrati a pieno titolo nell’universo della malattia e della medicina, il pensiero nobile e alto di Alex Langer e dei suoi epigoni oggi trova nuove corrispondenze culturali con DdM e con la medicina moderna. Le parole nel segno delle quali si è sviluppata la profonda intesa tra Musicisti e Medici sono infatti proprio “cultura” e “armonia”. Armonia non è solo un concetto musicale, basti pensare all’uso che se ne fa nella parlata comune e alla sua derivazione etimologica. Armonia può significare “riconciliazione degli opposti, concerto di elementi diversi o anche discordanti, in ogni ambito, anche quello del corpo umano”. Per questo, oltre a “cultura”, anche “armonia” può forse essere uno degli elementi di collegamento non solo tra la medicina e DdM, ma anche tra queste e il pensiero al quale si ispira la Fondazione Langer. Anche attraverso esperienze come DdM, la medicina del futuro, vorrei dire del presente, persegue infatti l’armonizzazione tra Uomo e ambiente, tra curato e curante in una dinamica di continui scambi di ruolo oltre la cristallizzazione dell’iconografia consueta di camici e pigiami, ma soprattutto l'armonizzazione tra l’Uomo e la malattia, in questo senso configurandosi come una pratica che si preoccupa e occupa delle persone, sul confine indefinito tra malattia e salute nel senso più ampio e integrale di questi termini. L’esercizio della medicina, in questa nuova relazione di cura, si compie nel recupero di quella dimensione umana e culturale che negli ultimi decenni sembrava talvolta aver smarrito o relegato in secondo piano. Il ritrovato concetto di cura, richiamando il significato originario della parola (mi riferisco al mito), comprende in sé le pratiche terapeutiche ma non si esaurisce in esse. La cura così intesa, la cura globale della persona, è un concetto trasversale, coinvolge l’intera società umana, ed è evidente che la 8 medicina non può averne il monopolio, ma è altrettanto chiaro che la pratica medica non può più limitarsi all’esercizio della terapia. La nuova medicina, quella che apre le porte della cura, pur mantenendo la prerogativa esclusiva dell’esercizio della terapia medica, si propone quale protagonista nel gestire il passaggio dalla tecnica della cura alla cultura della cura, per dirla con Dietrich von Engelhardt. Infatti l’acquisizione della dimensione culturale della sofferenza e della cura è indispensabile per riuscire a intercettare i bisogni emergenti degli ammalati, in particolare quelli oncologici, tenendo conto del fatto che solo una parte di loro può oggi guarire, che la persona guarita dal cancro esprime ancora bisogni importanti per tutto il resto della propria vita e che coloro che non guariscono possono oggi vivere a lungo, presentando certamente importanti problematiche cliniche, ma anche bisogni diversi, i quali devono pur’essi trovare modo di esprimersi e di essere oggetto di cura. Non si può ignorare tutto questo nel contesto attuale, nel quale la transizione epidemiologica dalla prevalenza delle malattie acute a favore di quelle croniche, degenerative, invalidanti, persistenti, è ormai compiuta. Una medicina che sappia rinnovarsi deve interrogarsi sui modi possibili di intercettare questo cambiamento, non depotenziando il suo arsenale scientifico-tecnologico, ma divenendo una pratica più critica e consapevole, partecipativa e aperta, inserita nel dibattito culturale e non chiusa nella torre d’avorio della scienza. Percorso difficile, ma forse indispensabile per riuscire a ricollegare un senso a quella sofferenza che non può essere eliminata, ma anche a riconoscere al dolore le sue dimensioni non biologiche. Questo è il significato del passaggio dalla tecnica alla cultura della cura. Claudio Graiff (Bolzano, 5 luglio 2013, cerimonia di consegna del Premio) ne, è quello in cui annulli il tuo ruolo perché a quel punto il malato ha bisogno di qualcun altro in grado di reggere il timone. Al di là di tutti i discorsi che facciamo, l’ammalato infatti spera anche di avere un buon timoniere, di andare nella giusta direzione. Ovviamente, quando qualcosa va male c’è dolore. Quando un paziente mi dice di aver avuto degli episodi di vomito, io per prima cosa dico: “Mi dispiace”, e mi dispiace sinceramente. Però l’episodio negativo non deve assumere il sapore della sconfitta. Non mi piace l’immaginario bellico che ruota attorno al tumore, la “lotta”, la “vittoria”. Questa visione militaresca a volte diventa una maniera di non condividere. Quante volte si vede l’ammalato arreso e il medico combattivo. Non va bene. Noi non lottiamo contro le malattie, noi lottiamo per noi. Il cancro non è qualcosa di alieno, è una parte di noi. Una volta, in caso di prognosi infausta, i medici tendevano a parlarne con i familiari anziché con il malato. Oggi le cose sono cambiate, ma molti medici, nell’incapacità di gestire una comunicazione così delicata, finiscono per essere brutali o si rifugiano in formule asettiche e poco chiare. Diceva nel 1982 lo scrittore Norman Cousins: “Essere capaci di diagnosticare con esattezza è una buona dimostrazione di competenza medica. Essere capaci di dire al malato ciò che egli deve sapere è una buona prova di arte medica”. La medicina resta sempre una pratica dove l’arte individuale si sovrappone alle conoscenze della scienza. La medicina, pertanto, non è una scienza, ma una pratica che coniuga appunto arte e scienza. Io non credo si possa insegnare la comunicazione, anche se la si può perfezionare, affinare. Dopodiché contano anche le qualità individuali, perché le insidie sono forti. Da un lato c’è l’inadeguatezza umana di ognuno di noi, che quando si trova a comunicare cose così grandi come quelle che attengono alla vita e alla morte dovrebbe aver risolto i suoi problemi con la vita e con la morte. Dall’altro c’è l’aspetto più deteriore che è la tendenza alla deresponsabilizzazione, all’esercizio della medicina cosiddetta difensiva, in cui l’informazione diventa lo strumento per tutelarsi: “Tu sai quello che hai, io te l’ho detto”. Con l’aumentare della conflittualità che c’è un po’ in tutti i settori, sta diventando un approccio diffuso: ti dico come stanno le cose e buonanotte. In quel momento non c’è più alleanza, c’è contrapposizione. È un po’ come quando si fa scegliere il malato mettendogli davanti due foglietti: “Può fare l’intervento chirurgico o una radioterapia, qui ci sono tutti gli elementi per scegliere. Quando ha deciso me lo dica”. Questo succede sempre di più. E l’ammalato rimane lì: “Ma come, devo scegliere io? Da solo?”. Li lasciamo sempre più soli questi ammalati. Però un po’ se la sono voluta perché si parla sempre di etica e deontologia medica ma... e l’etica del paziente? I pazienti sono sempre leali con i loro curanti? Ci sono pazienti che sono anche sleali. Io vedo sempre l’aspetto reciproco: è vero, i medici devono fare questo, gli infermieri devono fare quello, e i pazienti? Devono fare anche loro la propria parte. Calma, ce n’è per tutti! Ma torniamo alla sua domanda: come si dà una cattiva notizia? Quando capita che una persona arriva e mi dice: “Sto bene, però mi sono accorto che da qualche giorno mi è cresciuta una cosa...”, lui sa già cosa sta succedendo, perché è stato operato, ne abbiamo parlato, spera di sentirsi dire che non è niente, ma ha capito che non va bene e l’ho capito anch’io. In quel momento cosa devo fare? La pratica medica prevede che io dica: “Adesso facciamo qualche accertamento e se dovesse esserci qualcosa ci rivediamo”. Io credo invece di poter tranquillamente manifestare il mio sgomento e la mia amarezza, far capire cioè che ci sono rimasto male anch’io perché così è. Possiamo essere tristi assieme. Dopodiché dirò: “Adesso le possibili strade gliele indico io”. Io ho il dovere di intervenire con qualcosa di propositivo perché questo è il mio mestiere. riuscire a instaurare un dialogo franco, improntato sulla fiducia, può riuscire a evitare i rischi di accanimento I Donatori di Musica ci aiutano anche in questo, perché avere una relazione forte, consolidata anche dalla condivisione di quel momento conviviale, permette di dar vita a un’alleanza vera e di prendere delle decisioni più condivise nei momenti difficili. A quel punto il “facciamo ancora qualcosa”, oppure il “non facciamo più niente” diventano più credibili. Il paziente non è così stupido da pensare che qualunque esperto ne sappia più di lui, in fondo non si parla solo del suo cancro, si tratta di decidere anche della sua vita. Riuscire a instaurare un dialogo franco, improntato sulla fiducia, può riuscire a evitare i rischi di accanimento. L’accanimento è qualcosa che nasce con un fine positivo, quello di non chiudere una porta, ma che poi degenera a causa di una valutazione errata. Qui non si parla ovviamente della macchina, dei tubi, dell’accanimento del rianimatore. Io definisco l’accanimento in oncologia come il perseguimento di un bene parziale dell’individuo a scapito del suo bene complessivo. Tu valuti gli aspetti che ti sembrano importanti, ma non necessariamente lo sono anche per il paziente, così, perseguendo un bene parziale, alla fine rischi di essere di danno alla persona. Faccio un esempio banale. Mettiamo che mi portino una persona immobilizzata sul letto per dolori intensi legati a metastasi ossee; una persona che ha solo il dolore come sintomo. Ora, io so che non si può modificare l’aspettativa di vita e che, però, esistono diverse terapie che possono dargli sollievo. Gli prescrivo una chemioterapia o una radioterapia che sortisce un ottimo effetto. Dopo un mese la persona si muove. Il medico è soddisfatto: “Ma questo è un risultato splendido!”. Ebbene, l’ammalato potrebbe rispondere: “Si sono molto contento” e allora avremmo centrato l’obiettivo. Ma l’ammalato potrebbe anche dire: “Dottore, se lei mi chiede se ho dolore, le devo dire di no, ma va peggio tutto il resto: ho perso tutti i capelli, non riesco a farmi vedere da nessuno, non mi guardo neanche allo specchio. Poi sono così debole, ho sempre la nausea, episodi di vomito, le gambe gonfie. Insomma, se mi chiede se la mia vita è migliorata non so cosa rispondere, non vorrei che fosse addirittura peggiorata”. Ecco, io con questa persona ho fatto un atto di accanimento perché avevo un’alternativa. Sarebbe stata più opportuna una terapia antidolorifica. L’accanimento moderno è quello di scegliere lo strumento che non è il più idoneo. Ma la scelta dello strumento più idoneo viene anche dal conoscersi, dal parlarsi. Grazie alle nuove cure, il cancro è diventato sempre più una malattia cronica. Non c’è dubbio che i trattamenti oggi disponibili consentono di controllare la malattia. Il cancro è come il diabete, l’ipertensione, le cardiopatie. È una malattia cronica. Tra l’altro ha una forte probabilità di guarigione, mediamente circa il 60%, quindi paradossalmente è una delle più guaribili tra le malattie croniche. Perché (almeno per ora) non si guarisce dalla bronchite cronica, dal diabete o da una malattia neurologica, mentre di tumore si guarisce. Certo, se non si guarisce, è una malattia cronica caratterizzata, da un lato, da una particolare durezza degli atti terapeutici e, dall’altro, da quest’aura quasi metafisica che ha assunto per cui sembra sia la più brutta malattia del mondo. Ora, proprio perché il percorso è lungo, per me l’importante è saper gestire questa situazione ricordando sempre che noi non dobbiamo curare la malattia, ma l’ammalato. Quindi anche gli strumenti e le terapie che via via adotteremo saranno scelti assieme all’ammalato. Avete avuto anche manifestazioni di solidarietà inattese... Poco dopo l’inizio della stagione ricevo una telefonata: “Buongiorno, sono Roberto Furcht”. Conoscevo quel nome, Furcht è un importante grossista di pianoforti e una persona con una grandissima competenza musicale spesso coinvolta in giurie di concorsi. Mi dice: “Siete sicuri di avere uno strumento idoneo per i vostri concerti?”. Effettivamente c’era un pianoforte verticale lasciato all’ospedale, non uno strumento da concerto. il cancro, paradossalmente, è una delle più guaribili tra le malattie croniche Rispondo: “Facciamo quello che possiamo”. “Mi dica un po’, si offenderebbe se mandassi un pianoforte?”. Insomma, per farla breve, ci fornisce un pianoforte in comodato d’uso che tuttora è lì e che io spero piano piano di riuscire a comperare. Perché vuole comprare il pianoforte? Perché prima della mia pensione vorrei riuscire a lasciare questo strumento con il numero di inventario. Furcht ha fatto capire che per lui è donato, però non è la stessa cosa: fino a quando non sarà di proprietà dell’azienda sanitaria, rimarrà una cosa che non è censita da nessuna parte, che oggi c’è e domani non c’è più... Se invece diventa di proprietà dell’ospedale, chi verrà dopo di me, se non lo vuole dovrà farlo scaricare dall’inventario, insomma dovrà marcare una discontinuità. Ecco perché ci vogliamo mettere la targhetta. La targhetta significa che è inventariato, che è una delle “apparecchiature” del reparto. (a cura di Barbara Bertoncin e Edi Rabini, Una città n° 200, febbraio 2013) 9 Un pubblico speciale Una passione per la musica nata da bambino, l’incontro con Gian Andrea Lodovici, la sua intuizione su Mendelssohn e quell’invito ad andare in ospedale, ma non a trovarlo, bensì a fare un concerto... Intervista a Roberto Prosseda. Roberto Prosseda, pianista, è noto soprattutto per le incisioni dedicate a musiche inedite di Felix Mendelssohn. È presidente del Comitato artistico dei Donatori di Musica. Da dove viene la tua passione per la musica? Mio padre, che è mancato nel 2010, era un insegnante di inglese, molto appassionato di musica, quindi a casa c’erano molti strumenti, che io fin da piccolo avevo considerato un po’ dei giocattoli. Il più grande era il pianoforte, quindi quello che mi attraeva di più. Ecco, il mio rapporto con il pianoforte è cominciato cercando di piallargli un angolo con una pialla giocattolo che mi avevano regalato. Non sono neanche stato rimproverato; anzi, l’idea che questo pianoforte avesse attratto la mia attenzione -anche se non esattamente come i miei genitori speravano- è stata presa positivamente. Ma non sono mai stato forzato a suonarlo. Da solo ho scoperto le note; come tanti bambini che hanno un buon orecchio riuscivo a riprodurre delle melodie, delle canzoncine. Ho imparato a scrivere la musica prima di imparare a scrivere le lettere. Sono stato fortunato da questo punto di vista, perché non è stata una difficoltà. Molto spontaneamente e gradualmente ho capito che poteva diventare la mia attività principale -non voglio dire professione, perché sarebbe riduttivo. Noi musicisti abbiamo questa fortuna di unire la passione con ciò che dobbiamo fare per vivere. A posteriori dico che per me è stato importante fare concorsi senza vincerli. Non ho mai vinto un primo premio in un concorso molto importante; questo mi ha spinto a cercare il motivo vero del perché faccio musica e a scoprire che il senso per me sta nello spirito della condivisione. La condivisione è centrale nella mia ricerca; condivisione per me vuol dire comunicare le cose belle che scopriamo grazie alla musica. La musica esiste quando viene vissuta insieme, quando diventa occasione di scambio, il che, per accadere, necessita evidentemente di almeno due persone; questa dimensione dello scambio può avvenire in un concerto, quando si parla di musica, in una lezione tra insegnante e allievo; per me avviene soprattutto nei concerti dei Donatori di Musica. All’origine del tuo rapporto con i Donatori di Musica c’è l’incontro con Gian Andrea Lodovici. Proprio nel momento in cui avevo deciso di non fare più concorsi, avendo capito che non era quella la mia strada, ho incontrato Lodovici. Parliamo del 2002-2003: l’occasione fu un disco di musiche di Muzio Clementi prodotto per la Arts, l’incisione completa degli studi per pianoforte “Gradus ad Parnassum”. Io ero uno dei dieci pianisti coinvolti e così, grazie a questa operazione, lo conobbi e poi rimanemmo in contatto per lo più 10 telefonicamente. Ogni tanto lo chiamavo: avevo capito che a lui piaceva condividere le sue riflessioni con giovani artisti; per me era un privilegio, visto che da lui c’era molto da imparare. In una di queste telefonate, mi disse: “Secondo me, potresti dedicarti a Mendelssohn”. Io, all’epoca, lo consideravo un autore abbastanza noioso, scomodo da suonare. Gli risposi: “Ma Mendelssohn non lo suona nessuno, è difficile, accademico...”. Lui aveva insistito: “Ma no, guarda che ci sono delle cose interessanti, degli inediti...”. Alla parola “inedito” mi si è accesa una scintilla. Ho sempre avuto la passione di fare qualcosa che avesse un minimo di utilità, diciamo così. Spesso noi musicisti classici siamo molto autoreferenziali e tendiamo a fare ciò che già si fa: non solo a riprodurre musica preesistente, che è ovvio, ma anche interpretazioni preesistenti. Avevo proprio voglia di fare qualcosa di non preesistente e, avendo saputo che c’erano degli inediti, mi sono messo alla caccia. Lodovici non mi aveva detto molto di più, ma mi aveva dato qualche dritta, quasi come in una caccia al tesoro. Da lì sono riuscito, grazie all’aiuto suo e di altri musicisti e musicologi, a trovare dei manoscritti e quindi anche gli stimoli per seguirli, studiarli. Una cosa che spero ci sia sempre nel mio percorso è proprio questa gioia della scoperta. La musica va riscoperta continuamente. Pensiamo a cosa dev’essere stata la prima esecuzione di una sonata di Beethoven! Sarebbe bello anche oggi riproporre quell’atmosfera di sorpresa, entusiasmo, o anche delusione: insomma, che il pubblico non sappia già cosa ascolterà e come verrà suonato. Comunque è stato così che ho conosciuto Lodovici. Poi lui si ammalò. Quando capì la gravità del tumore, mandò una lettera a tutti gli amici, una lettera di addio. Era la primavera del 2007 e lo scritto suonava più o meno così: cari amici, vi saluto, adesso io sparisco, mi mancano pochi mesi, non ho speranze di guarigione... Insomma, un congedo, anche piuttosto triste. Dopo due mesi venne ricoverato in Oncologia a Carrara. Lì successe qualcosa. Il primario, Maurizio Cantore, gli chiese: “Cosa fai nella vita?”, e lui: “Facevo il produttore discografico, organizzavo concerti...”. “No, non facevi, fai, mica sei morto”. “Eh, ma ormai sono qui, cosa posso fare?”. “Puoi organizzare una stagione di concerti in reparto!”. La cosa è nata così. Dopodiché Gian Andrea chiamò me e mia moglie chiedendo se avevamo voglia di andare in ospedale e noi: “Certo, veniamo a trovarti”. “No, no, intendevo a suonare, a fare un concerto”. E così andammo e suonammo, proprio della musica di Mendelssohn, tra l’altro. Suonai anche un inedito di Mendelssohn in prima esecuzione mondiale. Per dieci pazienti! Noi capimmo molte cose in quel concerto, così come nei successivi: cioè che lì veramente vai al cuore della musica e del senso che ha per noi dedicare la vita alla musica, che è appunto di suonare per gli altri. Quando suoni per dei pazienti, alcuni dei quali probabilmente non ascolteranno altri concerti, evidentemente cambia anche l’approccio. Lì la musica diventa davvero un dono reciproco. Donatori di Musica è nato così, quando alcuni di noi, che erano andati ai primi concerti, ma anche i pazienti e gli stessi dottori, si resero conto che attorno a quel concerto succedeva qualcosa di magico: non era un concerto come un altro, non era neanche un’attività ricreativa per distrarli. Un concerto, infatti, facilmente ti porta a riflettere su questioni esistenziali, anche sulla morte. Non è vietato suonare una marcia funebre. In generale i pazienti non dicono molto. Sicuramente si avverte della gratitudine. Una riconoscenza che è reciproca. Ovviamente che il concerto si tenga in un ospedale resta una cosa abbastanza spiazzante e insolita. suonai anche un inedito di Mendelssohn in prima esecuzione mondiale. Per dieci pazienti! Quanto a quel pubblico così speciale, da un lato verrebbe da dire che è veramente un pubblico ideale, ma, per certi versi, non lo è affatto, perché non ti mette a tuo agio, nel senso che ti carica di grandi responsabilità suscitando un senso di impotenza, di frustrazione: cosa posso fare per loro? Però ti aiuta anche a dare le giuste priorità alle cose. Avere l’occasione di parlare con queste persone che magari proprio nella sofferenza hanno trovato una felicità... è un grande stimolo, un privilegio. State discutendo su come allargare questa esperienza ad altri luoghi di cura... Ci stiamo interrogando su come far sì che le stagioni di Donatori di Musica possano essere presenti anche in altri ospedali, preservando però le caratteristiche peculiari di questa esperienza. Il rischio è che rimanga l’involucro, il contenitore, e vengano meno i principi, la sostanza. Oggi sono coinvolti sette ospedali e vorremmo che diventasse qualcosa di più stabile, strutturato. Intanto abbiamo creato un piccolo comitato artistico per selezionare i musicisti dal punto di vista musicale ma anche umano. Esiste anche un protocollo medico che indica le varie fasi necessarie affinché un ospedale possa chiedere di far parte di Donatori di Musica. Ci vuole intanto una richiesta da parte dell’ospedale. Non è giusto andare a bussare alla porta, chiedere a un ospedale di poter ospitare una stagione. È qualcosa che deve nascere da un bisogno sentito. La richiesta deve essere sottoscritta anche dal direttore sanitario: abbiamo sperimentato che non basta la buona volontà del singolo per far funzionare il tutto. Senza l’appoggio anche formale e ufficiale della struttura si rischia di creare conflitti, anziché armonizzare. È importante far capire che i concerti di Donatori di Musica non sono solo concerti negli ospedali, ma qualcosa di più. Il concerto è una leva, un’occasione per provare a cambiare i rapporti tra le persone. I concerti di Donatori di Musica hanno luogo dove c’è già un’eccellenza nell’attenzione alle persone, nel rapporto tra medici e infermieri con i pazienti. Se tutto questo non c’è, evidentemente si può lavorare per predisporlo; in questo senso, conoscere Donatori di Musica può essere forse uno sprone, un pretesto per iniziare a cambiare le cose. È importante che chi viene a conoscere l’esperienza di Donatori di Musica capisca esattamente di cosa si tratta: è un progetto che porta i medici e gli operatori sanitari a mettersi in discussione. Alcuni, quando capiscono questo, tornano indietro. A volte ci sono pure dei problemi pratici: in alcuni ospedali l’esperimento si è concluso perché gli infermieri non volevano fare gli straordinari, o perché il primario non voleva che l’accesso al reparto ai familiari fosse prolungato oltre l’orario, cosa che invece il concerto presuppone. È chiaro che Donatori di Musica va un po’ a invadere degli spazi, a creare “scompiglio”. Per questo è fondamentale che ci sia un’unità di intenti. Quando i concerti di Donatori di Musica entrano in un ospedale, succede qualcosa... Dovreste vedere il reparto di Maurizio Cantore a Carrara. Non è più un reparto, è un centro culturale! Ci sono mostre fotografiche, corsi di pittura, di recitazione, letture di poesie. È un reparto aperto a tutti, anche visivamente è un luogo ospitale, è tutto colorato, non c’è una parete bianca, non c’è puzza di medicinali, non c’è l’odore dell’ospedale. C’è anche un giardino, perché una volta c’è stato un giardiniere a curarsi e Maurizio Cantore, come al solito, gli ha chiesto: “Cosa fai?”, e alla risposta canonica: “Facevo il giardiniere...”, non se l’è fatto ripetere: “No, lo fai ancora!”, “E dove?”. “Qui!”. È un reparto impresso dalla presenza delle persone che ci sono passate perché ognuno ha lasciato qualcosa. Gli altri musicisti che coinvolgete come reagiscono? Quasi tutti dopo la prima volta ringraziano. Ovviamente quando metti piede in un ospedale vedi barelle, persone tristi e pensi che può accadere anche a te, quindi l’impatto è sempre un po’ difficile. Quando però arrivi in reparto, nel luogo del concerto... beh, già vedere un pianoforte in un day hospital è qualcosa che apre il cuore. Noi poi siamo sempre accolti molto bene. Sarebbe bello che tutti fossero accolti come veniamo accolti noi. Per me è sempre una festa. Cosa che spesso non succede quando vai a suonare in qualche teatro, dove magari se chiedi di entrare mezz’ora prima per studiare storcono il naso... Dipende sempre dallo spirito con cui fai le cose. Ai concerti dei Donatori di Musica, ci sono anche gli “imbucati”. nei grandi ospedali ci sono maggiori problemi di gestione. Le stagioni attive adesso sono in ospedali piccoli A Carrara succede spesso che musicisti che abitano in zona, che magari hanno già suonato, abbiano piacere a tornare. Io sono tra questi. Ma quel che è più importante è che tornano anche gli ex malati o i familiari del paziente che non c’è più; alcuni tornano per tenere in vita il ricordo, altri forse per essere parte attiva di una cosa bella. Spesso a Carrara le torte che vengono servite dopo il concerto le fanno le signore che magari han- no avuto l’intervento al seno qualche anno prima. C’è anche l’ex paziente che viene per dire agli altri malati: “Guardate, io sto bene, potete tornare a star bene anche voi”. I musicisti comunque rimangono contenti e colpiti e subito dicono: “Io sono disponibile a farne altri”. Sono situazioni in cui tutti ringraziano tutti. È curioso, fa anche sorridere. All’inizio, quando non c’era un gruppo consolidato, alcuni li invitavo io, ma ho visto che l’invito forzato non funziona. I musicisti che davvero si affezionano all’esperienza sono quelli che si sono fatti avanti spontaneamente. Adesso c’è una lista d’attesa di oltre quattrocento richieste! E siamo già in oltre cento ad aver tenuto almeno un concerto. Calcolando che ci sono sette stagioni attive, siamo già quasi troppi. Sarebbe bello che aumentassero le stagioni, quindi gli ospedali, così da coinvolgere anche altri musicisti. Stiamo tentando di sondare anche al Sud. Abbiamo organizzato un concerto all’ospedale Garibaldi di Catania per far conoscere alla cittadinanza questa esperienza. È venuto proprio Martin Berkofsky. Negli ospedali grandi ci sono maggiori problemi di gestione. Non a caso le stagioni attive adesso sono in ospedali piccoli, di provincia, dove forse è più facile superare certi intoppi burocratici, c’è più autonomia e spesso c’è anche l’eccellenza. È chiaro che in un ospedale dove bisogna aspettare un anno per fare un esame e i medici sono pochi, sottopagati, con contratti precari, è difficile che un progetto del genere possa attecchire. Ma nulla è impossibile. A Brescia, a curare la stagione, è Mauro Tagliani, uno psico-oncologo con un contratto a termine, che a volte paga di tasca propria per proseguire Donatori di Musica! (a cura di Barbara Bertoncin e Edi Rabini) 11 Giorgio De Martino Per una storia dei Donatori di Musica Uno: questa storia vuole poche parole. Due: le parole sono medicine, dunque, potenzialmente, veleno. Tre: la documentazione abbonda, le testimonianze pure, tante morti, tante vite... Farne un reportage equivarrebbe a fallire. Quattro: qui la prosa è perdente, gli aggettivi appestano, solo la poesia, senza vergogna, avrebbe la forza di dire ciò che col resto suonerebbe maldestro: in rima persino, senza vergogna, anche se per certo è strada non percorribile, per ovvi motivi. Cinque: la retorica in questa storia è più d’un rischio, è una disastrosa eventualità, una criminale deriva (ecco: “criminale deriva”, il puzzo di retorica già fa capolino), ed è un attimo svoltarcisi dentro bel bello; un barocchismo può far vomitare più della “chemio”. Sei: sono attratto dall’opzione di scorta e la tengo idealmente davanti al foglio elettronico bianco: quella che nessuno è indispensabile, che improrogabili impegni, che magari il prossimo anno, che perdio lasciatemi in pace. Suona il telefono rispondo sdraiato, ignaro della tegola che mentre squilla s’è già staccata ed è in volo, e io sotto. È l’amico editore, e col vivavoce c’è pure il fratello più grande, parimenti editore e amico. Fanno un nome che ho letto più volte, sulla rivista che fanno, la stessa alla quale collaboro da una dozzina di anni. Il nome è quello di Gian Andrea Lodovici, morto di cancro nel 2009. E riassumono in qualche minuto l’avventura d’un uomo che è vissuto di musica fino all’ultimo istante. E l’avventura inizia, nella sua parte che ci riguarda, quando sembra finita. Perché sfinito -svuotato, sfibrato- sulla poltroncina dello studio del primario di Oncologia, al quarto piano dell’ospedale civico di Carrara, quest’uomo s’innamora della strana allegra, euforica, eccentrica poesia per la vita che scorre in reparto e di ciò che chiede avidamente e giustamente questo reparto, musica di qualità, arte. Un luogo dove ogni paziente è un compagno d’avventura, dove in ogni manciata di letti c’era il desiderio di un pianoforte (e oggi ce ne sono ben tre), dove le pareti trasudano musica e ovunque si posino gli occhi ci sono porte aperte e colori e fotografie in bianco e nero, dove i pigiami son bestie rare e all’inverso è una staffetta continua di sorrisi e di indaffaratissimi amici. Dove le barriere le vedi perché cadono, e nuove emozioni, relazioni, rivoluzioni, quotidianamente fioriscono. Un posto d’altronde, dove si pretende di curare cosachessia, o è “casa” o è l’inferno: e oncologia, persino nel nome, già puzza di zolfo. Non a Carrara, però. Non a Bolzano, non a Brescia, Saronno, Sondrio, Vicenza. Ma è da Carrara, dove l’idea era semenza e Lodovici la terra che l’ha germogliata, a Carrara, “casa” casa seppure amara, languida, casa amata di chi l’ha percorsa, casa di vetro con le macchinette per il caffè e la vista sul mare lontano, sotto le cime innevate 12 dal marmo... È a Carrara che avrei dovuto andare, per conoscere, intervistare, annotare, sbobinare. C’è un primario mi dicono, c’è Cantore (Maurizio) e il suo vice Mambrini (Andrea), che sono la corrente a due e venti che illumina quel quarto piano con vista mare. Il tutto, da avvicinare, per farne una storia. Grazie alla rivoluzione relazionale di Cantore e Mambrini e degli altri colleghi, rivoluzione che comprende la musica e l’opera dei Donatori di Musica (perché la musica è il grimaldello che spacca i chiavistelli della Bastiglia, in questa rivoluzione), in oncologia da qualche parte è stato certo nascosto un “acceleratore di emotività”, un intensificatore di passioni, meraviglioso e parimenti faticoso, perché non prevede distrazioni. Qui la penna che disegna la vita, del paziente ma anche dei medici, degli operatori, dei familiari e dei volontari, preme sul foglio lasciando una traccia forte, netta, inequivocabile d’inchiostro e la vita acquista una nuova coscienza di sé: non sfugge, anzi si sente il suo misterioso, miracoloso procedere, istante dopo istante. Al quarto piano dell’ospedale di Carrara, capita di ascoltare una volontaria-paziente dire: “Quando morirò mio marito è già d’accordo con Maurizio, andranno insieme a festeggiare, col vestito elegante, usciranno a mangiare una pizza”. E per com’era detta, era una frase onesta e gioiosa, senza retrogusti, senza aggressività, senza la mascherata volontà d’esorcizzare alcunché. Qui che il tempo si accorcia, e la tentazione è guardare indietro e difendersi dalla fine più o meno imminente negando il futuro, qui sembra misteriosamente che sia -per ciascuno- una startup rampante per una nuova percezione dell’esistenza. A volte, l’energia che si respira in oncologia, tra le macchinette del caffè e le foto appese, i pianoforti e la vista mare e la finta neve di marmo, si fa irrespirabile. Perché, a raccontarla con una banalità a effetto (ma vera), in quella corsia ci si ammala perdutamente della vita: un amore travolgente, letterario, di quelli d’una volta, dove è l’intensità che conta e non l’inutile privilegio di molti calendari da trascorrere insieme, distrattamente. Qui una stretta di mano è una promessa, un bacio sulla guancia significa che si mette in atto uno scambio chimico, di quelli che fan saltare le provette. Ecco perché, dopo il primo bacio sulla guancia, non ho più potuto, e mi son dovuto astenere, dall’offrire questo casto saluto alla volontaria psicologa che in camice bianco sorride e ascolta gli ospiti ricoverati in reparto. Giorgio De Martino, giornalista e critico musicale, sta lavorando alla pubblicazione di un libro divulgativo che racconti l’esperienza dei Donatori di Musica, frutto di un’idea e di una sfida lanciata dai fratelli Zecchini, editori di “Musica”, Per questo quaderno ci ha gentilmente messo a disposizione un breve estratto, tratto dal primo capitolo del volume. La musica innamorata Alcuni mesi fa, una zia di mio padre, novantenne e ammalata gravemente di tumore, espresse il desiderio di vedermi e di sentirmi suonare. Amava tanto la musica, il pianoforte, e lei era poco più che moribonda e trafitta da dolori indicibili. Eppure voleva ascoltare musica, ma non una musica qualsiasi, la musica suonata da me. Non ho compreso il messaggio d’amore che mi stava porgendo. Mi sono recato nella sua villetta e ho suonato il suo pianoforte. Uno, due, tre brani. Ma invece di stare in quella relazione d’amore, sapete dove scappavano i miei pensieri? Mi ritrovavo a pensare che quello strumento era un orrore. Tutto scordato, con i tasti che spesso non tornavano più neanche al loro posto, insomma, una schifezza di strumento, immaginate l’esecuzione. E quasi mi vergognavo di suonare. E non ho pensato che lei, in quel momento supremo della sua vita, in quegli ultimi suoi giorni, voleva ascoltare una musica innamorata, non una musica perfetta. che forse io, con le mie paure inutili da musicista perbenista non ho saputo donarle. In quel momento il mio cuore non era certamente pervaso da quello sguardo innamorato che il mio amico Cantore mi aveva trasmesso. Insomma, in me il sentimento dell’istituzione e del palcoscenico, le smanie di perfezione avevano inquinato quel “qualcosa di bello” al quale ero stato chiamato. Ora ho capito che non ho amato abbastanza quell’attimo di vita. (Stefano) Solo un lampo Caro Maurizio, l’esperienza di ieri è stata davvero emozionante. Concordiamo sul fatto che è superfluo ringraziare, da ambo le parti, ma credo sia invece importante trasmetterci con forza l’entusiasmo di condividere un così grande progetto. L’obiettivo ci era chiaro -portare la gioia della musica- ma la sorpresa è stata comunque grande. Sorpresa di scoprire come un ospedale, sempre pensato come luogo della sofferenza, possa farsi anche luogo dell’accoglienza. Sorpresa di scoprire che i medici non sono necessariamente dall’altra parte, ma possono essere da questa parte. Sorpresa di scoprire che le persone sofferenti riescono non soltanto ad ascoltare la musica, ma attraverso questa anche a ricompattare il proprio corpo con il proprio animo. Sorpresa, per noi esecutori, di scoprire noi stessi non tanto come semplici vettori di comunicazione, ma come possibili disvelatori di trame interiori, e da ultimo come amici. L’ultima sorpresa è proprio questa: come si possa creare, sulla base di un incontro, un’immediata atmosfera di amicizia. Per voi che “restate sul campo” le relazioni si prolungano e si arricchiscono; ma anche noi, che rappresentiamo solo un “lampo”, abbiamo l’occasione di partecipare a questo grande scambio di umanità. (Mara) Antonio Osnato La musica Creatrice Ovunque e sempre l’uomo si è espresso con la musica, ha creato musica. La musica è una vibrazione che penetra direttamente nelle cellule, le stimola, le invita a rispondere con la matrice sonora dell’armonia della vita. Esistono numerosi livelli, valori e qualità di musica che corrispondono alle dimensioni interiori individuali vissute, percepite e poi portate in atto dai compositori. A ogni musica corrisponde una valenza qualitativa di chi l’ha composta. Potremmo definire questa nostra società monocorde. La società omologata, la voce monocorde dell’umanità, fa comodo e gioco a chi manovra la stanza dei bottoni da cui partono le direttive sui destini del genere umano. L’omologazione, l’appiattimento degli individui, la globalizzazione dei consumi e del pensiero, rappresentano un insulto al suono della vita. Omologare un individuo significa far tacere una nota umana preziosa, significa produrre non più un suono, ma un rumore superficiale. Daniel Levy osservò: “Esistono miliardi di suoni in un unico Suono, che ci sfiorano soltanto, perché non trovano che gabbie dentro le quali sta chi si è quasi volontariamente creato un destino”. Da sempre l’essere umano ha nutrito la sua anima con la musica. Attraverso la musica da sempre viaggiano sentimenti e stati d’animo. Occorre distinguere la musica udita dalla musica ascoltata. La prima è quella che andrebbe definita baccano, che imperversa nei supermercati, nei locali pubblici o nelle case dove il rumore televisivo travalica ogni parete. La musica ascoltata è quella dei concerti, quella che si sceglie e si ascolta nel silenzio della propria casa. L’ascolto della musica vera fa parte del risultato di un’educazione a vivere, a percepire, a coltivare la propria interiorità, a non perdere il contatto tra noi e il nostro suono di provenienza. La musica ha avuto da sempre una proprietà terapeutica. L’ascolto dei suoni adatti serve a riequilibrare le diverse dimensioni energetiche della persona che ascolta. La musica diviene una vera e propria cura, perché permette il ripristino di uno stato di salute dell’anima che si riflette anche sul corpo. è parecchio interessante osservare le proprietà vibratorie ed energetiche del suono: il suono è vibrazione che provoca una risposta della materia che viene colpita e che può addirittura modificare la sua forma. A uno scultore fu chiesto in che modo si predisponesse prima di iniziare un’opera ed egli così rispose: “Prima di metter mano ai ferri guardo e riguardo la materia, le do una bottarella, cerco di afferrare il canto che esce da quel sasso!”. Solo la sensibilità di un artista poteva esprimersi così: “Il canto che esce dal sasso!”. Ogni espressione della natura ha in sé un canto, un suono individuale. Qualunque oggetto, qualunque sostanza materiale, se sollecitata, rimanda una voce: la sua voce. Gli strumenti musicali sono nati nel tempo dall’osservazione della risposta sonora che era possibile ottenere cambiando forme e qualità di materia degli oggetti. Ogni oggetto ha una voce, una tonalità sua propria che varia con la qualità della sostanza di cui è composta, con la sua densità e forma. Ogni oggetto è vivo e non inerte come a noi sembra. Non esiste nulla di inerte. Esistono oggetti fermi, privi di moto proprio, ma non di voce, quindi di vita. Noi non ci accorgiamo che la realtà è ondulatoria, ogni cosa si definisce dalla sua vibrazione specifica, cioè dal suo ritmo animatore; l’essenza delle cose è la loro musica. Il musicista la coglie e la riproduce, dunque tutto nasce, ha origine dal l’elemento primordiale comune a tutti i fenomeni cosmici. Soltanto la quantità e l’intensità del suono primordiale varia di caso in caso. Secondo i riferimenti delle antiche cosmologie, il mondo avrebbe avuto origine da una parola creatrice, sarebbe cioè stato creato per mezzo di un ritmo sonoro che scaturì dal centro dell’universo. Questo suono fu il primo sacrificio, il primo atto evocativo. Suono, rito e ritmo sono identiche espressioni della fonte della vita e non a caso spesso viaggiano insieme. La vita si esprime con il movimento e la legge del moto è il ritmo. Il ritmo consente alla vita di scandire il suo esprimersi armonioso, di darle un tempo e una sonorità. suono ed è in ultima analisi timbro e ritmo. Gli archetipi, cioè le forme essenziali della realtà sono i timbri-ritmi fondamentali. La fusione dell’udito e della vista dagli antichi cinesi veniva definita luce degli orecchi. Per le culture superiori orientali e per la mistica medievale europea questa fusione era conosciuta; ma l’uomo moderno ha una percezione minima e superficiale della grande imperscrutabilità del mondo acustico, la policromia, la poliritmia e la forza lineare del suono, da cui le antiche leggende cosmogoniche facevano procedere il mondo visibile e tangibile. Della musica nascosta nella natura parla la mistica spagnola. Secondo Giovanni della Croce, non soltanto i fiumi risonanti e il sibilare del vento, ma anche la musica non udita sono una manifestazione della voce di Dio che giunge nella profondità dell’anima. Secondo l’antica concezione indiana, anche nella pura materia il vero e proprio substrato è, e rimane, acustico. Il suono costituisce Ogni stagione ha il suo suono. C’è il suono pacato e dolcissimo dell’autunno, uno caldo e avvolgente dell’estate, uno sommesso e discreto dell’inverno. Vivaldi si è sforzato di riportare tutto ciò alle orecchie umane con le sue famose “Quattro stagioni”. Nella natura esistono suoni udibili dalle orecchie umane e suoni percepibili nel silenzio dell’anima. Ma la più semplice e nello stesso tempo la più grande scoperta che possiamo fare nel tempo è quella di avere la consapevolezza che noi siamo strumento, musicista, accordatore e musica stessa. Noi siamo gli interpreti, i direttori d’orchestra, il coro e la voce solista. Noi possiamo ri-suonare il suono della vita in modo meraviglioso o violentare questo stesso suono creando rumore e confusione che offendono l’armonia della vita. (Per gentile concessione del poeta e magistrato siciliano Antonio Osnato. Tratto dal libro Silenzio, rumore, suono, Carlo Saladino editore, 2010) 13 Era il segno che avevo reagito La scoperta per caso, dopo una caduta e un’ecografia, di avere un cancro forse fatale; le operazioni, la chemio forte, la voglia di vivere, l’angoscia che rimane... Intervista a Roberto Dall’Olio. Roberto Dall’Olio, insegnante, vive a Bentivoglio, Bologna. Sull’esperienza della malattia ha pubblicato una raccolta di poesie Per questo sono rinato, Pendragon, 2005. Mi sono ammalato di tumore nel marzo del 1995, avevo 30 anni. All’epoca lavoravo in Trentino, facevo supplenze piuttosto lunghe come insegnante e quindi risiedevo là. Un pomeriggio, con colleghi e tecnici, avevamo pensato di andare a sciare. Era una giornata piuttosto grigia ed era nevicato di fresco, la pista era vuota e così abbiamo deciso di fare una gara. Loro ovviamente erano più bravi di me e io, non so, devo aver spinto un po’ troppo e lì ho sentito un dolore che, secondo me, era all’inguine. Ho pensato fosse uno strappo, uno stiramento. Qualche giorno dopo, all’indomani di un’altra nevicata, siamo andati a Madonna di Campiglio. La sera a cena ero nel parcheggio della baita, c’erano due signori di Genova che non riuscivano a muovere la macchina, allora con un collega ci siamo messi a spingere. Insomma, spingi spingi, la macchina è riuscita a partire, ma io sono scivolato di netto e sono caduto a 180 gradi, piatto, sul ghiaccio, sbattendo dappertutto. La notte ho fatto fatica a dormire dal mal di schiena e anche il giorno dopo è stato segnato dal dolore, tra l’altro mi sono accorto che mi si era gonfiato un testicolo. Ho pensato fosse stata la botta, però il dolore alla schiena mi preoccupava. A quel punto ho pregato il padrone di casa da cui ero in affitto di farmi visitare dal suo medico, anche se non ero un suo mutuato. Dai primi esami non risultava nulla, ma io ho insistito per fare anche un’ecografia. L’ecografo mi ha diagnosticato il tumore, l’ha visto subito. Ero all’ospedale di Tione, in provincia di Trento, mi ha detto: “Guardi, questa è una cosa abbastanza grave, secondo me, però io non le so dire di più”. Così sono tornato a Bologna per fare una visita specialistica e lì il responso si è ulteriormente precisato: “Questo è sicuramente un carcinoma”. In pochi giorni, intanto, ero già molto peggiorato. Il medico lì per lì l’ha messa sulle battute: “Lei non ha le pantofole, quindi aspettiamo il fine settimana, però entra lunedì”. E poi quella frase: “Si ricordi che di queste cose si può anche guarire”. mi hanno tolto tutti i linfonodi di destra e una parte di quelli di sinistra. Un’operazione difficilissima Sono stato operato quasi subito e mi sono anche rimesso in sesto abbastanza velocemente. Fino a trent’anni fa non si sapeva come intervenire; in pratica non c’era scampo, perché dai linfonodi genitali il cancro risale fino al polmone, quindi intervenendo sul testicolo direttamente si spargeva tutto e non c’era più niente da fare. Invece adesso l’intervento viene fatto in tutt’altra maniera. 14 Il fatto è che all’epoca la Tac non era in grado di fare una completa perlustrazione dell’area retroperitoneale. Ricordo che il professor Armando Maver, l’allora primario, mi chiamò nel suo ufficio e mi disse che secondo lui c’erano metastasi. La Tac non le rilevava però -mi disse- considerata la gravità del carcinoma, la mia giovane età e l’accelerazione che in genere ha questa malattia… Insomma, lui aveva questo sospetto. Aggiunse che avrebbe potuto mandarmi anche a Milano, che non c’erano problemi. Ma io gli dissi che mi fidavo di quello che pensava e che ero disponibile a questo secondo intervento piuttosto pesante. Così, appena mi sono ristabilito dalla prima operazione, nel giro di un mese, a fine aprile, inizio maggio, è stata programmata la seconda. Il secondo intervento è durato sette ore. Mi hanno fatto un taglio che va grosso modo dalla bocca dello stomaco fino all’inguine. In più mi si è rotto un vaso linfatico, quindi ho dovuto prendere antibiotici e albumina. È incredibile come un boccettino che costava all’epoca 600.000 lire, in flebo, resusciti letteralmente un morto. Tecnicamente hanno dovuto spostare l’intestino perché i linfonodi genitali sono dietro il peritoneo e dovevano vederli per valutare se eventualmente toglierli -c’era il rischio di sterilità, ma quello era il meno. Devo dire che il professor Maver ci aveva azzeccato, ci aveva proprio visto giusto, quindi mi hanno tolto tutti i linfonodi di destra e una parte di quelli di sinistra. Un’operazione difficilissima, un po’ come disfare una maglia. Poi è arrivato il dolore. Dopo l’intervento è stato tremendo, perché anche solo a toccarlo l’intestino si irrita, poi deve rimettersi a posto… Per non parlare della sete… è stato terrificante. Io ero intubato, alimentato con flebo, costantemente sedato e tuttavia mi ricordo che sognavo sempre di essere in un deserto. Avevo una sete terribile. Poi pensavo di dormire per ore invece mi svegliavo circa ogni 20 secondi. Alla fine non ce la facevo più, allora finalmente mi è stata iniettata la morfina; lì ho smesso di sognare queste situazioni così angoscianti e sono cominciati i panorami verdi... tutto era verde, e mi sono addormentato. Ho fatto la chemioterapia. Ho preferito il bombardamento. Mi sono sottoposto a tre cicli intensivi di cinque ore l’uno, ogni giorno, per cinque giorni: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì, dalle 9 alle 14, con la flebo attaccata. I primi due sono andati discretamente. Come antiemetici prendevo dei farmaci che all’epoca costavano 250.000 lire alla scatola e che erano in commercio solo a San Marino, a Città del Vaticano e in Svizzera. Adesso vengono utilizzati normalmente. Credo che nella nausea ci sia anche un elemento psicologico, di rifiuto. Io, a un certo punto, mi ricordo che bevevo solo delle bibite gasatissime, la cedrata, per esempio, perché il gas inibisce la percezione della lingua, che è quella da cui parte la nausea... E io sono uno che ha tenuto, avevo un’ottima fibra, anche a livello del midollo osseo, che è quello che poi conta... Comunque non mangiavo quasi più niente, tranne la carne di vitello, che doveva essere tenerissima, non so perché il vitello, certo è che si faceva fatica a mangiare... In quel periodo ho avuto anche un abbassamento notevole dei globuli bianchi. È stata dura. Dopo la chemio i miei mi portavano a casa, e ricordo che il pomeriggio cercavo di riposare, sdraiato nel letto al buio per cercare di tener ferma la nausea. Lì i miei amici mi hanno molto aiutato. a volte le relazioni si rafforzano, una relazione sentimentale invece si è interrotta Quando non c’erano i miei, di solito venivo accompagnato dal taxi della Ant, l’Associazione Nazionale dei Tumori Solidi, fondata dal professor Pannuti, uno dei primari del Malpighi. È un’associazione che fa un servizio domiciliare importante, tra l’altro solleva i pazienti dai disagi degli spostamenti. I malati che escono dalle cure chemioterapiche mal sopportano il freddo in inverno e il caldo dell’estate. Tu esci, con questo sole che ti spacca la testa, e magari non hai nessuno che può venirti a prendere. Ecco, al posto dell’autobus, loro ti offrono la possibilità di fare il viaggio in taxi, col condizionatore... L’ultima seduta di chemioterapia è stata la più dura. Gli intervalli erano di circa una ventina di giorni, io però ho dovuto aspettare un mese prima che l’organismo si riequilibrasse un po’, sennò, con un bombardamento troppo forte, va a finire che c’è una depressione immunologica. Arrivato a casa, l’ultimo giorno, sono riuscito a malapena a correre in bagno e ho vomitato tutto. Questa condizione scatena una reazione forte nelle persone che hai attorno. Le cose non sono più come prima. A volte le relazioni si rafforzano, come mi è accaduto per molte amicizie, una relazione sentimentale invece si è interrotta. Per incapacità di entrambi, è inutile stare qui a fare il dosaggio delle responsabilità. Devo anche dire che dopo gli interventi sentivo molto il bisogno di stare da solo. Nel corso delle cure la mia reazione è stata un po’ una via di mezzo tra l’abbandono agli specialisti e il bisogno di dialogare, di capire. Internet era ancora agli esordi, comunque no, non sono andato a vedere. Mi sono documentato sul vocabolario e poi sulle Scienze, tramite un mio amico, un collega che era stato anche lui malato e aveva un po’ di documentazione, anche in inglese. Della malattia io ho sempre voluto sapere tutto e ho fatto della mia reazione razionale uno dei punti di forza. Pur essendo la situazione gravissima, ho avuto l’enorme fortuna di accorgermene in tempo. Perché se non ci fosse stata quella caduta, beh, anche dieci giorni dopo non sarebbe stata la stessa cosa. Della malattia poi ho sempre parlato e continuo a parlarne. è un po’ come coi reduci che hanno sempre voglia di parlare della guerra. Forse perché sono momenti estremi in cui vedi la morte, e però c’è anche molto la vita. Vita e morte si intrecciano in una maniera forse irripetibile, quindi c’è sempre un ritorno a questa esperienza, cosa che per gli altri è poco comprensibile. Alla fine dell’estate mi sentivo di ricominciare a lavorare. La chemioterapia, se incassata bene, ti permette di riprenderti abbastanza velocemente, tanto più se sei giovane. Io poi morivo dalla voglia di fare qualcosa, di uscire… Insomma, ho pensato: “Piglio, ci vado, poi vedrò...”. Tanto era visibile a tutti la mia condizione, a parte il fatto che ogni forma di peluria era scomparsa (e pure questo è pericoloso, perché vengono meno alcune protezioni), anche il colorito era giallognolo, per cui se non fossi entrato subito a regime la gente avrebbe capito. Comunque piano piano mi sono rimesso in pista. Purtroppo la malattia mi ha lasciato dei segni. Mi si è molto accentuata l’attenzione verso me stesso, non nel senso narcisistico, però, come dire, non vivo molto bene le malattie. Purtroppo questo è un paradosso incredibile... c’è quest’angoscia da cui non riesco a liberarmi. Faccio una vita “normale”, però... C’è quest’angoscia da cui non riesco a liberarmi. Faccio una vita “normale”, però, c’è questa cosa che sto molto attento a me stesso... In che senso? Mah, per esempio, io sono un po’ allergico, ecco, basta un mal di gola o qualsiasi cosa provochi un po’ di difficoltà respiratorie per farmi scattare una reazione emotiva di grande preoccupazione. Non è una cosa proprio patologica, a livello di ipocondria, è specifico di alcuni disturbi, soprattutto respiratori. E ovviamente coinvolge anche le persone che mi sono care, in primis i miei figli. Io provo a controllarmi, però faccio in fretta a preoccuparmi. D’altra parte, considera anche che rischiavo la sterilità. Oggi ho due figli. Il primo, puoi immaginare, è stata un’esperienza straordinaria una cosa fortissima, anche perché è stato il segno che in qualche modo avevo reagito, che potevo addirittura dare la vita. Certo, è bizzarro. Io pensavo sarebbe accaduto il contrario, cioè che, passata quella, nulla più mi avrebbe toccato e invece... Per certi versi è vero, perché l’energia che sento, e anche la capacità di sdrammatizzare, sono notevoli, ma non su di me o sui miei cari... Mia moglie fa quello che può. Fortunatamente lei ha un altro carattere. Comunque mi è stato spiegato che questa mia reazione ha una sua razionalità. Me lo spiegò pure il dottor Vitali, che è anche psicanalista, disse: “Beh, quest’ansia super- ficiale è un modo per distogliere l’attenzione da un’ansia profonda”. È un meccanismo psichico di difesa, che può essere fastidioso, ma in realtà mi difende dal rivivere l’evento in modo ben più angosciante. Era da tempo che coltivavo l’idea di scrivere qualcosa su quanto mi era capitato, perché rimanesse, per me. Ci avevo anche provato, in prosa, in forma di diario, ricordi, frammenti, però mi sembrava sempre o di esagerare o di sminuire e non mi andava mai bene quello che veniva fuori. Poi, sempre a proposito di malattie, mi capita di prendere un virus allo stomaco, di quelli tremendi che non riesci a mandar giù niente. Così sono stato costretto al digiuno. Come si sa un digiuno prolungato crea uno stato di grande lucidità. Insomma, era da qualche giorno che non mangiavo e fatto sta che una mattina, ero a casa da lavorare, mi metto al computer e comincio a scrivere, e scrivo scrivo… i ricordi uscivano uno dopo l’altro. In due o tre giorni ho scritto novanta poesie, in forma di diario, che partono dal primo momento in cui mi è stata annunciata la malattia. Erano tutte cose che avevo ben presenti, ma era riemerso tutto secondo una concatenazione ben precisa, un percorso. Ho così vagheggiato l’idea di farne qualche copia per gli amici e anche per ringraziare i medici. Le ho fatte leggere anche al dottor Martoni, il primario, che dopo qualche giorno mi ha chiamato: “Ascolta, ti va di venir da me, in ospedale?”. Mi ha detto che a sua moglie erano piaciute e questo gli aveva fatto balenare l’idea: “Noi abbiamo un bisogno assoluto di entrare in questa questione della comunicazione medico-paziente. E anche di uscire all’esterno…”. Insomma, mi ha proposto di farne un libro, che inaspettatamente ha messo in moto tutta una serie di iniziative. Intanto si è creato, nell’ospedale, un luogo di incontro tra pazienti e anche familiari che è diventato una piccola associa- zione. Grazie all’azienda sanitaria, che si è dimostrata molto sensibile, ha visto la luce qualche numero di una rivista “Se ne parli”, che è anche il titolo di una delle mie poesie. Di questo invito a parlare abbiamo fatto un po’ un manifesto dell’iniziativa. Il gruppo è venuto fuori spontaneamente, evidentemente c’era un bisogno diffuso, soprattutto di uno scambio tra persone nelle stesse condizioni, con l’agio di essere tra pari, perché con le altre figure, per quanto uno possa essere vicino, è sempre il medico, è lo psicologo, lo specialista, il prete, il pastore evangelico, quello che è… Oggi le persone si incontrano regolarmente. Come dicevo, ci sono pazienti e familiari, si è creata una piccola rete. La reazione del paziente è decisiva per la sua salvezza. Nessuno sa cosa avviene a livello intracellulare, però, da un raffreddore a un tumore, tutti dicono che conta molto come reagisci e come reagisci dipende molto da chi hai accanto: le amicizie, la famiglia, ecc. Se si è soli si fa poca strada, temo. Anche per questo i gruppi sono importanti. Purtroppo, infatti, per quanto le cose stiano cambiando, questa malattia resta ancora il “brutto male” (in dialetto bolognese si dice “al brot mel”) perché è immediatamente legata alla morte. Questo, per certi versi, resta vero, ma non con le percentuali di un tempo. Allora la dimensione del gruppo aiuta un po’ anche a sfatarne il mito. Anche questa idea eccessivamente agonistica, per cui si “vince” contro la malattia. Non so, a me non ha mai convinto molto. Tanto più che, grazie alla medicina, si sta ingrandendo la categoria di chi convive con questa malattia. Conosco persone malate da trent’anni. La malattia va e viene e non guarisci, e non muori… (a cura di Barbara Bertoncin. La versione integrale è uscita su Una città n° 157, giu./lug. 2008) 15 Poesie di Roberto Dall’Olio Per questo sono rinato Di queste cose si può anche guarire erano le diciassette di venerdì diciassette marzo millenovecentonovantacinque non era primavera Si può guarire da certi mali e tutta la vita si spandeva liquida nella mente mi ero fatto piccolo infinitamente Gli amici mi hanno portato di peso sul letto operatorio il resto è stato un volto vedrà -mi disseandrà tutto bene Lo sai cosa mi pesa? Questa testa a ciuffi di calvizie e questi venti chili di pancia tesa che non vanno giù sono guarita e offesa mi guardo non mi riconosco più e non l’accetto mi diceva la signora dal bel viso accanto al mio solito letto La Simona quando venivano portavano le robe di sempre da ospedale… ciccioli secchi crescenta e vino mentre io andavo a flebo era il loro modo di reagire al male Vinc e la Wilma venivano tutti i giorni sono stati assidui e cari quasi fuori tempo un cofanetto di Sperlari Ma la debbo fare la chemioterapia? Chiedevo al dottore con la confidenza delle ore spese tra visite chiacchiere e diagnosi a ventre aperto Se non vuoi andare a Lourdes fu la sua risposta Non opporti al male lascialo entrare nel canyon della tua mente solo lì se va bene puoi pazientemente tramutarlo in vita A 10 anni dalla diagnosi di un cancro e dall’esito positivo delle terapie, Roberto Dall’Olio, ha raccontato la sua esperienza in forma poetica, nel libro Per questo sono rinato, edizioni Pendragon, dal quale sono tratte queste poesie. L’Associazione “Se ne parli”, ispirata nel nome a una delle poesie di Dall’Olio, è nata per approfondire i bisogni dei pazienti oncologici, per ampliare confronto e comunicazione tra i malati, i loro familiari, i medici e il personale paramedico. Onlus senza fini di lucro, l’Associazione è diretta dal dottor Andrea Angelo Martoni, già primario dell’Unità operativa di Oncologia medica del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna. 16 Eubiosia? Eutanasia? La buona vita? La buona morte? Sono possibili entrambe io credo che chi non ce la fa più lentamente di franare abbia il diritto di precipitare Perché? Me lo sono chiesto tante volte perché proprio a me Sto provando dopo il tumore a vivere con amore Era caldo sul letto di casa dopo la chemio arriva una telefonata fuori orario infatti è una sassata Matteo di là dalla cornetta mi dice alterato È morto Langer si è impiccato Mancava il pianista ho suonato io pelato come un bimbo appena nato ricordavamo Nagasaki cinquant’anni dopo quel buco nero che risucchiò milioni di vite segnò per sempre un solco col passato Dopo anni riesco a dire a nitrire in versi il mio desiderio perfino di impazzire stanando tutta la vita di questo mondo nei luoghi persi in dubbi e affanni di quel tritolo che mi portavo giù sigillato in fondo al molo Almeno questo mi sento di poter dire che il cancro come ogni malattia grave non è una colpa un crudo castigo o il segno di un peccato È un terremoto che sconvolge tutto ma proprio tutto il tuo privato e si fa emergenza di una civiltà che ha bisogno di sapere Se ne parli perché di ciò di cui si può parlare non si abbia a tacere Caro Claudio medico di famiglia amico e terapeuta non me lo cavo dalla testa che la cosa più dura se ne esci è fare i conti con ciò che resta La paura Il sonno è fatto per chi sta bene quando ti crivellano la mente i colpi del dolore non vorresti altro che sparire volere insieme vivere e morire 17 Parlare fa bene La massima trasparenza, la capacità di comunicare, condizione del rapporto di fiducia fra medico e paziente. Un ospedale che, inevitabilmente, è sempre più organizzato come una fabbrica e un’esigenza, in gran parte insoddisfatta, di “personalizzazione”. Intervista ad Andrea Martoni. Andrea Martoni è stato Direttore dell’unità operativa di Oncologia Medica presso il Policlinico S. Orsola-Malpighi a Bologna. Quello della comunicazione fra paziente e medico, in particolare in ospedale, resta un problema o le cose sono cambiate? Quando ci sono di mezzo malattie gravi, all’inizio almeno, il medico si trova in difficoltà perché le conseguenze sullo stato psichico, emotivo, di una malattia grave, sono enormi, fino al punto da condizionare le stesse decisioni che il medico prende. Non solo, un paziente può anche rifiutare di fare quello che il medico dice. Di fronte a una malattia grave, che mina profondamente la persona, che mette a repentaglio la vita, o anche solo alla paura di una tale malattia, il medico non può non tener conto dei sentimenti perché la sua relazione col paziente dipenderà da questo e così le decisioni che verranno prese. Allo stato attuale succede che se uno ha già una sua propensione a stabilire delle relazioni, una sua sensibilità, che casomai è quello che l’ha spinto a scegliere medicina (e che appunto non gli viene dagli studi di medicina), bene, perché questo aiuta. Però la maggioranza di chi si iscrive a medicina non parte con questo background e l’insegnamento non ne tiene molto conto. Quindi, alla fine, chi ce l’ha già di suo riesce a sopperire, chi non ce l’ha... Ovviamente non esiste un medico che non abbia avuto un paziente con cui non ha legato. Questo fa parte della vita. Però è indubbio che tutti vorremmo avere a che fare con un medico che ha più facilità a comunicare, che ha meno problemi relazionali, che è capace di prendere in carico anche aspetti della vita del paziente che non siano strettamente professionali. La necessità di efficienza dell’ospedale va contro questo aspetto di “personalizzazione”, se così si può dire.... Queste malattie gravi, in particolare il tumore, vengono curate in ospedale. Le terapie diventano sempre più forti, sempre più efficaci, e anche più complesse. Farle bene tecnicamente, farle in maniera corretta, significa inevitabilmente accentuare sempre di più l’aspetto organizzativo, per cui, ad esempio, un day hospital di oncologia, dove si fanno le chemioterapie, assomiglia sempre di più a una catena di montaggio, perché non è un atto solo, è un processo dove intervengono molti operatori e le fasi da concatenare sono diverse. Non lo dico in maniera negativa: è giusto fare così. Solo che sarebbe altrettanto giusto avere degli spazi, dei momenti in cui ci si ferma, ci si confronta, si dice qualche parola, si ha uno scambio tra le persone, anche a partire da ruoli diversi, uno è un professio- 18 nista, l’altro è “il cliente”, se vogliamo usare questa parola. Purtroppo, questo tempo, queste possibilità stanno sempre più diminuendo, pur nella consapevolezza, ormai abbastanza acquisita, dell’importanza del rapporto umano. Anche il medico sensibile si accorge di avere sempre meno tempo da dedicare a questo aspetto. Dall’altra parte il cliente, il paziente, ha un crescente bisogno di avere più tempo perché conosce sempre di più quello che gli sta succedendo, quindi, giustamente, è pieno di dubbi e interrogativi. A questo punto non c’è il rischio che le risposte se le vada a cercare da solo? Infatti si arrangia un po’ da solo e cerca delle strade di informazione che sono pericolosissime: internet, i giornali, la televisione, che solitamente lanciano messaggi non realistici. Colpa del giornalista che intervista, ma anche di chi si fa intervistare, perché ormai esiste la promozione anche della ricerca, la promozione dello scienziato, la promozione del libero professionista. più sei trasparente, nei dubbi, nelle certezze, più sei capito e vieni considerato meritevole di fiducia Le informazioni raramente sono corrette, quasi sempre vengono distorte. Se pensiamo poi che chi ha la malattia è portato lui stesso a distorcere le notizie, se l’informazione è minimamente ambigua, nel senso di creare delle attese, ecco che il danno è fatto. Qual è il modo per instaurare un rapporto di fiducia con il malato? La trasparenza. La mia esperienza è questa: più sei trasparente, nei dubbi, nelle certezze, più sei capito e vieni compreso, più vieni considerato meritevole di fiducia. Questo è fondamentale, perché il rapporto medicopaziente è un rapporto di fiducia. La fiducia la si conquista in tanti modi, ma certamente bisogna essere chiari, trasparenti, non ambigui, e veramente interessati alla persona che hai di fronte. Certo, se sei oberato dall’orario, dai turni, ecco, rischi di perdere tutto questo, che è anche un’opportunità. Del resto a essere pagate sono le prestazioni, non certo questi tempi “vuoti”... Le parole chiave sono “efficienza”, “efficacia”. Se poi parli con i direttori generali, almeno quelli che io ho conosciuto, che sono dei buoni dirigenti, ti diranno sicuramente: “Ma no, non è vero, non c’è solo questo...”. Casomai loro apprezzano l’impegno anche sul versante comunicativo, però, alla fine, se gli vai a dire che hai bisogno di più persone per dedicare più tempo al paziente, ti risponderanno immancabilmente di no. Per un problema di bilancio. Quindi a parole il problema viene compreso, ma nei fatti... D’altra parte è chiaro che l’amministratore deve occuparsi degli aspetti economici, quin- di l’aziendalizzazione deriva dalla necessità di essere più efficienti, che è una necessità ineludibile. Abbiamo uno Stato che investe nella Sanità una quota del proprio Pil più bassa delle altre nazioni, seppur di poco, ma in presenza di uno spreco enorme. Se poi aggiungiamo a questo che il sistema sanitario da Firenze in su funziona abbastanza bene, e da Firenze in giù funziona abbastanza male… Capita ancora che l’interessato non venga informato della gravità della cosa e venga informata la famiglia. Questo non è legale. Punto. Se capita qualcosa, se c’è un procedimento penale per qualche motivo, la prima cosa che il giudice va a cercare è il consenso del paziente di fronte a un atto sanitario, se c’è o non c’è. E se anche c’è, ma il paziente dice: “Io non avevo capito che lì fosse scritto così”, il giudice può dar torto al medico. Allora, rispetto al consenso, c’è un aspetto legale che a me interessa, naturalmente, ma un po’ meno dell’altro, che sta nella sostanza delle cose, cioè nella relazione e nella comunicazione fra medico e paziente, in particolare nel nostro campo dell’oncologia. Qui, a fronte di una diagnosi molto seria, io ormai sono sicuro che il 90% delle persone che si presentano e che hanno avuto o hanno un tumore, hanno una buona informazione sulla loro diagnosi, anche sul grado di gravità. Sulla diagnosi, direi che non c’è più alcun problema. Il consenso informato ormai è un atto dovuto, che vale per tutte le indagini diagnostiche e per le varie terapie. Oggi tutte le cartelle contengono almeno una pagina dove c’è scritto che il paziente è informato. Non è solo un atto formale, perché più che il foglio di carta conta il colloquio, che viene gestito dal medico, secondo quella sensibilità e quelle capacità comunicative che ha o che dovrebbe avere e di cui dicevo prima. E qui è chiaro che le parole sono molto importanti. Una sfumatura nell’uso delle parole, pur dicendo la stessa cosa, può cambiare molto. Ci sono delle persone con cui si può parlare chiaramente di tumore, con altre si possono usare delle parole magari più tecniche, che possono risultare meno traumatiche. Si possono adottare delle perifrasi: si può dire che le cellule crescono, che vanno in giro (che è poi una descrizione esatta di ciò che accade), prendono le vie linfatiche, senza dire casomai la parola “metastasi”. Al che spesso è il paziente che alla fine dice: “Ma sono metastasi?”, “Eh, sì, sono metastasi...”. Capita ancora una situazione tipica, che per un verso fa sorridere. Qui da noi vengono molte persone anche dal Sud e nel Sud vige ancora quello che era il comportamento dei parenti venti o trent’anni fa da noi: “Mi raccomando, eh, lui non sa niente, poi vengo io a parlare con lei...”. Al che, più di una vol- ta, mi è successo di chiedere al malato, in genere anziano, proprio per rompere questa situazione: “Lei, cos’ha?”. E spesso la risposta è stata: “Ho un tumore”. Allora vedi i parenti quasi svenire. La cosa ha poi un effetto di sollievo enorme per il paziente e alla fine anche per i parenti, perché tenere nascosta una cosa è un dramma per tutti. Insomma, è inutile prendersi in giro, se uno fa una Tac, un’endoscopia, un esame complicato, capisce che c’è qualcosa e se gli si dice: “Non è niente” , lui sente che non gli si dice la verità. Ma anche per i parenti è un gran sollievo, perché gli si toglie il peso di dover tener nascosta la verità. Devo dire che è un sollievo anche per il medico. Avere a che fare con persone informate, con cui si parla in maniera trasparente, chiara, con le parole giuste e ispirate dalla giusta sensibilità, dà molte più soddisfazioni. È la soddisfazione di un rapporto di reciproca sincerità e di pienezza del ruolo di entrambi, io medico e tu paziente. Ma sulla prognosi si può essere altrettanto chiari? Sulla prognosi, cioè su come andrà a finire, è un po’ diverso. C’è un aspetto di delicatezza, anche di umanità, che fa sì che questo aspetto dell’informazione vada valutato con attenzione. Dopo aver parlato chiaramente della diagnosi, la domanda che viene sempre più posta (e anche questo una volta non succedeva) è: “Ce la farò?”, che è la domanda più vera, più sincera, e alla quale è difficile dare una risposta. A volte instillare delle speranze eccessive è un errore, ispirare speranza in maniera sfumata forse è la cosa giusta da fare. Quindi dare dei messaggi di complicità, di serietà, però anche di speranza. la paura di non farcela a guarire, il tragitto della cura come la maratona: uno solo vince, ma nessuno perde Credo che la risposta più veritiera e anche corretta in fondo sia: “Speriamo di sì”, perché anche il medico deve sperare. Perché il medico ha delle certezze, però, qualche volta, soprattutto se le cose sono complicate... Ecco, la prima persona plurale “speriamo”, ha proprio questo senso e, nello stesso tempo, è un messaggio utile a far sentire che “siamo sulla stessa barca”. Il discorso di “stare sulla stessa barca” pone però un altro problema comunicativo. Sulla stessa barca i pazienti ci stanno se, durante il percorso, che può essere anche lungo, le cose vanno abbastanza bene. Perché il sistema qualche volta può avere una falla, quindi la barca può anche essere abbandonata. Oppure può essere abbandonata perché anche se tu, medico, ce l’hai messa tutta, le richieste, le esigenze, le aspettative che il paziente si è creato dentro di sé sono maggiori delle possibilità che tu gli offri, per cui se ne va, quasi sempre cercando delle altre soluzioni cosiddette alternative... Infine, può anche succedere, seppur raramente, che ci siano delle possibilità che tu non sei in grado di dare e che altrove esistono. Questo bisogna riconoscerlo. È raro, perché parliamo di una realtà, Bologna, in grado di fare quasi tutto, però qualcosa ci può essere, e allora non bisogna avere la presunzione di dare risposte a tutto. Qualche volta il medico deve anche attenuare il proprio orgoglio, l’ambizione di essere in grado di risolvere tutto. Anche rispetto a tutto questo la trasparenza è la scelta migliore. Capitano persone che dicono di non voler sapere niente? Ci sono anche quelle, sono rare, ma ci sono, non solo gli anziani. Ci sono persone che dicono: “Faccia lei, io non voglio saper niente”. Gli anziani spesso sono quelli che rimangono un po’ nella posizione di incertezza, che sanno, quasi sempre e però... L’anziano, poi, in genere sta bene a casa sua, bisognerebbe tenerlo lontano dall’ospedale, lasciarlo il più possibile nel suo ambiente. Purtroppo oggi sempre di più sono da soli, spesso con i figli lontani... Con gli anziani comunque non bisogna “strologare” tanto su come comportarsi, bisogna essere disponibili, perché per l’anziano il massimo è vedere che c’è una persona più giovane di lui, che è un medico, cioè uno con il camice bianco, che gli presta attenzione, che è gentile nei modi, che si sta preoccupando... Può raccontare un po’ di questi gruppi di discussione... Questi incontri sono nati due anni fa. Devo dire che l’esca di questa iniziativa è stato un ex paziente, Roberto Dall’Olio. Io sentivo il bisogno di creare delle occasioni in cui si potesse dedicare un po’ di tempo alla comunicazione. Lui aveva fatto questo libro di poesie sulla sua esperienza della malattia e una di queste si intitolava “Se ne parli”, che toccava il tema dell’informazione, dell’importanza di tirare su il velo, di non aver paura di parlarne. L’esperimento è nato da lì, sostanzialmente. è un gruppo che non è sempre lo stesso. C’è un nucleo storico, di tre o quattro persone, poi ci sono altre quindici-venti persone che girano. Le tematiche prevalenti all’inizio erano quelle dell’informazione, delle nuove terapie, poi pian piano sono diventate quelle di carattere più personale, del vissuto della malattia, di quello che succede dentro le persone. La malattia come colpa, come punizione, il sentirsi un perdente, la paura di non farcela a guarire, il tragitto della cura come la maratona: uno solo vince, ma nessuno perde, l’alterazione dell’immagine corporea, come ci vedono gli altri, l’assenza di chi non viene più all’incontro... Poi ovviamente si discute delle relazioni con i medici e gli infermieri dell’ospedale, delle strategie per affrontare la malattia, delle relazioni con gli altri, i parenti innanzitutto. Abbiamo una persona che viene quasi tutte le volte e parla di sua figlia. L’ammalata è la figlia, non la mamma, e la mamma parla come se fosse lei. Lì c’è un problema di rapporti, per cui la ragazza non è mai venuta, invece viene questa madre che parla pensando di riferire il pensiero della figlia, ma in realtà è il suo pensiero, è il suo vissuto. Ecco, c’è anche il vissuto dei parenti. La comunicazione può evitare che si crei diffidenza e, nel caso, a prevenire azioni di rivalsa contro l’ospedale? Oggi si parla molto della sanità e uno dei temi più vivi, in questi ultimi mesi, è come gestire il rischio di creare dei danni in corso di assistenza sanitaria. Ovviamente si tratta di un rischio che non potrà mai essere azzerato, questo deve essere chiaro. Gli episodi di malasanità di cui ormai si parla tutti i giorni, con un’enfasi devo dire eccessiva, ci saranno sempre. Si tratta di prevenire al massimo l’incidente e anche di preparare il personale alla gestione del rischio. Oggi si investe moltissimo in quest’ambito. Ci si sta muovendo per farlo diventare patrimonio della cultura di tutti gli operatori sanitari, medici e non medici. In effetti questi incontri possono essere utili anche a prevenire il cosiddetto rischio clinico. per prevenire il rischio clinico, una “cura” della comunicazione è importantissima Se uno va a chiedere ai periti che fanno perizie per i tribunali, per le cause civili con richiesta di risarcimento danni a un’azienda ospedaliera, se uno va a vedere bene, nell’80-90% dei casi alla base c’è anche una cattiva comunicazione. Se questa fosse stata migliore non si sarebbe arrivati alla causa. Allora, per prevenire il rischio clinico, una “cura” della comunicazione è importantissima. In tal senso queste iniziative si muovono nella giusta direzione, anche se non è quella la loro ragion d’essere. Però mi rendo conto che molti frequentatori hanno dei “problemi”, interiori, certo, di rapporto con la stessa malattia, ma anche esteriori, di rapporto con l’ospedale. Avere uno spazio dove uno può dire quello che vuole può essere importante. Proprio stasera io ho spinto in questo senso, ad affrontare di più nei prossimi incontri, quello che non va. Da chi è formato il gruppo? Roberto sin dall’inizio ha usato questa parola “reduci”, che non è sbagliata perché in fondo si torna sul luogo della battaglia. Negli Stati Uniti, dove sono sempre di più quelli che si sono messi alle spalle la malattia, si chiamano “survivals”, sopravviventi, che in italiano non è molto bello. Comunque, seguendo i loro siti, ho visto che anche a loro il termine “survivals” comincia a non piacere tanto, perché l’idea del reduce, pensiamo alle tantissime associazioni, si porta dietro sempre un po’ di magone... Il nostro è un gruppo misto, che vuol dire che ci sono dei malati attuali, degli ex pazienti, dei reduci, dei parenti. Ovviamente l’eterogeneità rende la situazione particolarmente delicata, perché si tratta di condizioni psico-emotive molto diverse. Io ero un pochino preoccupato all’inizio e invece poi ho visto che le cose funzionano. Ho notato che ci sono perlopiù donne... è vero. Il problema è che l’uomo è più chiuso e la donna comunica più facilmente. Questo è poco ma è sicuro. Poi c’è da dire che in prevalenza sono tumori della mammella, una problematica che si trascina dietro problemi di identità. Se uno non ha più un rene, a causa di un tumore, non ha un problema di identità, ha solo paura che gli torni la malattia, invece una donna che ha avuto un tumore al seno soffre per entrambi i problemi... (a cura di Barbara Bertoncin. La versione integrale è uscita su Una città n° 152, dic./gen. 2008) 19 La difesa della normalità Il cancro da “male incurabile” sta trasformandosi, grazie all’avanzamento delle cure e alla loro personalizzazione, in un male cronico, che si può tenere a bada, impedendogli di impossessarsi della propria vita. Intervista ad Anna Segre. Anna Segre ha insegnato Geografia all’Università di Torino. è morta il 20 giugno 2004. Sì, a un dato momento ho pensato che fosse giusto, utile, parlare di questa cosa; credo siano passati i tempi in cui i malati di cancro si celavano dietro malattie varie, di solito dietro l’espressione “male incurabile”, e non ne parlavano, né con gli amici né tantomeno in pubblico. Di fatto si apprendeva sempre che qualcuno era stato malato di cancro dopo la sua morte, dal necrologio, che diceva: “Stroncato da male incurabile, il tal dei tali eccetera, eccetera”… Ecco, io credo che i malati di cancro che hanno la “fortuna” di sopravvivere a lungo abbiano il dovere di parlarne. E non per fornire facili illusioni, come quei saggi che si trovano in libreria o nelle erboristerie, intitolati “Come sono guarita dal cancro”, ma perché altri possano trovare magari nelle parole di una persona un aiuto, un modo di affrontare la malattia che a loro non è venuto in mente, non è venuto spontaneo. Teniamo presente che la stessa dizione “male incurabile” non è più appropriata, perché di fatto il cancro non è più un male Anna e la malattia incurabile. Questo va detto. Ci sono cure e modi di affrontarlo che stanno trasformando il cancro in un “male cronico”. Non vorrei essere troppo ottimista, ma sono anche i miei medici che me ne parlano. Cure sempre più personalizzate, adattate ai diversi tipi di cancro, se non riescono ancora a far guarire, riescono però ad allungare la vita del malato, cronicizzando quindi la malattia, facendola durare. E siccome è aumentata molto anche la possibilità di salvaguardare la qualità della vita di chi ha questa malattia, la tendenza a cronicizzare il male è da vedere come un fatto positivo. tu vivi a casa tua, fai le tue cose, però le scadenze vere sono quelle della visita, degli esami, della cura Per questo penso che sia meglio parlarne, per raccontare come alcune persone riescono, nonostante la malattia, a vivere in modo discreto. Questo penso sia anche il mio caso. Il che non vuol dire, però, che non abbia subìto una rivoluzione totale della mia vita, del Sono parole di cui sento un’eco nei modi in cui Anna ha vissuto la malattia. Con smarrimento, paura, collera, tristezza infinita. Che le sono rimaste. Ma gradatamente le è sbocciata anche tanta voglia di vivere, e al meglio possibile nella situazione data. Aveva conquistato più fiducia in se stessa, più fermezza nelle decisioni, un’elasticità mentale che è di pochi -mi raccontava con che nuova facilità riusciva a intervenire nei dibattiti, di come il suo pensiero prendeva forma e fluiva spontaneamente mentre parlava, anche quando si trattava di temi nuovi. Continuava a fare lezione, a partecipare a convegni, metteva insieme persone, coordinava ricerche. Si concedeva più cose, oggetti per la casa, vestiti, viaggi, una scintillante auto blu, che aveva guidato in una sola tirata fino a Bolzano in occasione di una cerimonia per il Premio Langer; si era fatta costruire un caminetto nel soggiorno della bella casa ai piedi della collina. Spero che non vi sembrino divagazioni: in quei tocchi di leggerezza e “frivolezza”, in quel desiderio di agio, si esprimeva una Anna in parte nuova, meno doverista rispetto ai tempi in cui la nostra priorità era la politica, più dolce con se stessa, più ragazzina, mi verrebbe da dire. E più creativa: sono certa che tutti riconoscono l’originalità dell’“Atlante”, a cominciare dall’immagine di copertina, quasi un simbolo della sua sensibilità. Sono stati anni pieni. Anna si crogiolava nel calore della nuova famiglia in cui l’aveva introdotta Claudio, si godeva Leah, e Ada in versione materna. Sperimentava cose nuove, la discesa di un fiume in canoa con tanto di caschetto protettivo, nuove terapie per l’emicrania, l’incontro in Canada con le balene, lo shiatsu, la scrittura narrativa -ricordo un suo breve racconto in cui fotografava i vari tipi di borse che i pazienti in attesa della chemioterapia portavano con sé a Candiolo, scegliendo la strada difficile di far parlare gli oggetti e i gesti invece di descrivere i sentimenti. Faceva progetti: una vacanza, una speciale sorpresa per Claudio, un giro in Provenza alla ricerca delle terracotte locali, un soggiorno in una beauty farm dove tutti i trattamenti erano a base di uva, un libro da scrivere insieme sulla storia di Nella, Renzo e Carlo Angela, un altro che avrebbe dovuto intitolarsi “Intanto vivo” e raccontare come la malattia (certe malat- 20 mio modo di pensare al tempo, al futuro. Ecco, una delle cose più fastidiose quando non si ha molto male, come nel mio caso, è questa continua ospedalizzazione, nel senso che tu vivi a casa tua, fai le tue cose, però le scadenze vere sono quelle della visita, degli esami, della cura, quindi sulla tua agenda prima segni queste e poi, eventualmente, aggiungi gli impegni di lavoro, se l’hai mantenuto. Tutto dipende da quello e non si può assolutamente fare diversamente… Bisogna però anche dire che in questi posti i medici, e ancor più gli infermieri, in genere sono meglio che negli ospedali comuni, nel senso che veramente svolgono un lavoro difficilissimo, di responsabilità e -non è una frase banale- sempre col sorriso sulle labbra, con la parola giusta, per otto ore di seguito. Io non ho mai capito come facciano. Ammiro tantissimo queste persone. Vedono passare i malati a migliaia e però si ricordano sempre il tuo nome, o, meglio, il tuo cognome, perché non è più il tempo in cui il paziente viene chiamato nonna, nonno, oppure per nome. Si ricordano il tuo cognome, come è giusto. Io, il primo mese di malattia, credevo di non tie con l’“aura”, il cancro, l’infarto) ridefiniscono le relazioni, certe amiche/i che si dileguano, persone meno intime che corrono a starti vicino, alcuni che neppure chiedono: “come stai?”, perché è faticoso cercare parole adatte, altri, che pur rischiando la goffaggine, provano e riprovano a comunicare. Progettava il matrimonio, che è avvenuto, e subito dopo un viaggio con Claudio ad Agrigento. Ma fino ad Agrigento non è potuta arrivare. Difficile non accorgersi di quanto Anna somigli a sua madre in questa determinazione a non disperdere il tempo che rimane, a capitalizzare le esperienze belle: “Amore per la vita”, lo ha definito Fabio Levi. Ricordo l’ammirazione che tutte e due avevamo per queste parole di un ex deportato: “Ero lì, e pensavo, Hitler può farmi di tutto, ma il fatto di aver vissuto bene, facendo quel che mi piaceva, divertendomi, quello non poteva togliermelo”. Credo che la forza di Anna venisse anche dalla sua capacità di fare propri messaggi fuggevoli. Non vorrei aver disegnato un’immagine eroicistica. Disperazione e ripiegamento su se stessa a volte prevalevano. Come avrebbe potuto essere diversamente? Anna non coltivava illusioni, solo speranze, non aveva un atteggiamento guerresco verso la malattia, nessuna sfida prometeica, nessuna scorciatoia psicologista; sulle orme di Susan Sontag, rifiutava l’ideologia che riconduce il male alla depressione e le guarigioni al pensiero positivo. Anna sapeva; ma voleva avere ancora bei giorni, passare tempo con le persone care, fare un’escursione in montagna, una nuotata al mare, un saggio, un corso. Questo e molto altro aveva raccontato in un’intervista a “Una città”, uno dei testi più coraggiosi e generosi fra i tanti usciti finora. Forse questo discorso sembra un’apologia, e non me ne dispiace. Anna la merita per molte ragioni, non ultimo un tratto cui mi affido per concludere, come mi sono affidata tante volte in passato per altre cose: la virtù quotidiana della cura. Essere intelligenti è facile, un po’ più, un po’ meno lo siamo tutti. La differenza sta nel cuore. Ricordo come Anna si era prodigata per un’amica argentina, il suo dolore per il dramma familiare di un’altra amica, la condivisione dei momenti difficili dei suoi cari; ricordo una sua visita notturna mentre ero in ospedale, e al mattino la aspettava la chemio. Anna Bravo Ebbene, per me, allora sedicenne, fu un anno terribile, che mi ha segnato per tutta la vita. Da allora ho vissuto proprio con la paura di queste malattie, di star male, di soffrire quanto ha sofferto lei. Ecco, la paura del dolore è ancora una cosa molto rilevante in queste malattie. Il fatto che il dolore oggi possa essere neutralizzato grazie a farmaci, a terapie apposite, mi sembra una conquista straordinaria. riuscire più a far niente, nemmeno a leggere il giornale o un libro. Avevo subìto un’operazione lunga e complicata, quindi può darsi che fosse anche la conseguenza di questo. Avevo il cervello completamente svuotato, mi sembrava di non ricordare più nulla, di dovermi focalizzare solo su quello, sul male che sentivo, sulla ferita fisica da guarire. è una malattia in cui tu devi essere seguita quotidianamente da chi ti vuol capire. E allora selezioni gli amici Poi, invece, piano piano, seppur con l’inizio della chemioterapia, tutto è un po’ cambiato, ma c’è voluto molto tempo; ed è cambiato con un lavoro su me stessa veramente lungo, confrontandomi anche con altre persone. Lì ho visto che l’unica soluzione era quella di continuare a svolgere il proprio lavoro, pur nelle difficoltà di programmazione che subentrano. Tu non sai mai se starai bene il tal giorno, se la terapia te la fissano di giovedì o di venerdì o chissà quando… Sì, penso che vada difesa la normalità. E la normalità è innanzitutto riuscire a fare il proprio lavoro. Io sono stata fortunata perché ho un lavoro, quello di docente universitario, in cui gli orari sono abbastanza gestibili. Però, ecco, già in questo il ruolo degli amici diventa indispensabile. Ad esempio, nella settimana successiva alla chemioterapia io non sono in grado di fare lezione, ma per fortuna ho un pool di amici-colleghi disposti a sostituirmi in qualunque momento; dico pool perché sono tanti e si dividono i ruoli, non tutti hanno le stesse competenze, per cui a seconda delle necessità va uno o va l’altro. E questa è una grande fortuna, che però si costruisce, anche raccontando via via agli amici le difficoltà. E selezionando, perché non tutti sono disponibili a fare questo percorso con te. Un po’ mi dispiace, ma io ho fatto una grande scelta all’inizio: ho visto subito gli amici che erano disposti, disponibili, capaci -perché anche di questo si tratta- di accompagnarmi in questo cammino, e quelli che invece non lo erano, per difficoltà proprie, magari di comprensione, perché è vero che il cancro non è più la malattia killer di una volta, ma resta pur sempre una malattia difficile da sopportare, da descrivere. è una malattia in cui tu devi essere seguita quotidianamente da chi ti vuol capire. E allora per forza selezioni gli amici. Gli amici che restano hanno però un ruolo fondamentale. Le persone che invece facevano finta di niente sono uscite dalla mia vita. Per i familiari vale lo stesso discorso degli amici: bisogna scegliere. Nel mio caso non ho dovuto neanche scegliere: avendo una famiglia minuscola ho visto subito chi c’era e chi non c’era. E chi c’era era un familiare nemmeno familiare perché era il mio compagno di vita, Claudio, che è stato in questi anni l’unica persona che mi ha accompagnato sempre a fare la terapia, dai medici, a ricevere i risultati. E io credo che abbiamo sofferto esattamente dello stesso stress, io malata e lui no. Deve essere terribile vedere una persona di famiglia stare male, sopportare cure e non poter fare assolutamente niente, per cui c’è questa dedizione, che nel mio caso è stata assoluta. Se riesco ad affrontare così la malattia, certamente per metà è merito suo. Ma questa dedizione assoluta il familiare o l’intera famiglia, quando c’è, quanto la paga? Certamente il prezzo è altissimo. Io lo so perché in altri tempi, quand’ero giovanissima, ho avuto una mamma malata di una malattia simile, che a quei tempi si curava poco, infatti resistette solo un anno. Già, la qualità della vita, come suol dirsi. Ecco, tutte queste persone, i medici, gli infermieri, gli psicologi, i familiari e poi le terapie, che sono fondamentali, insieme riescono a farti godere di una qualità accettabile della vita. Che tu sai che ha un termine. Ma ciascuno di noi lo sa. Il giorno in cui mi hanno comunicato al cellulare che una mia carissima amica aveva avuto un infarto, io stavo entrando in ospedale per una cura. Dove stava la differenza? Non c’era. Quella che gli statistici chiamerebbero speranza di vita, da un momento all’altro è diventata molto più breve per l’amica che fino all’altro giorno non aveva avuto niente e più lunga per te che da anni ti curi e soffri, portandoti dietro tutto il bagaglio di una malattia gravissima. Questa presa d’atto della non differenza, della non diversità, è per me molto recente e, in questo, lo psicologo mi ha aiutato molto. Voglio dire, anche tenendo conto della teoria delle probabilità, non so quanto sia maggiore quella di morire in un incidente automobilistico o per un male improvviso. Una mia collega di università qualche anno fa è andata a letto normalmente la sera e al mattino non si è risvegliata. Qual è la differenza tra me e lei? La mia scadenza non è più vicina di quella degli altri. Certo, io vivo più di altri con l’idea delle scadenza, ho più difficoltà a far programmi, non posso dire: “L’anno prossimo farò un viaggio in Australia…”. Sì, questo non lo dico più, però due settimane prima, se sto bene, mi organizzo il mio viaggio in Australia. vorrei che anche nel nostro paese ci fosse la possibilità di fare il testamento biologico, lo ritengo fondamentale Insomma, impari a vedere in modo diverso il male che può arrivare improvvisamente. Io ho avuto tante lezioni di vita in questo periodo. Ho avuto anche una collega che, col mio stesso male, è vissuta molto meno. A un certo punto ha saputo che le terapie non sarebbero state più utili e ha deciso di non farle più. Anche quella è una scelta. Una scelta in cui sai come va a finire. Sono comunque scelte che, finché stai bene di testa, puoi fare anche tu. Ecco, la mia vera preoccupazione è quella di arrivare a un momento in cui non sarò più capace, lucida, per fare le mie scelte. Per questo vorrei che anche nel nostro paese ci fosse la possibilità di fare il testamento biologico, perché la ritengo una cosa fondamentale, un indice di civiltà. (a cura di Gianni Saporetti. La versione integrale è uscita su Una città n° 117, nov./dic. 2003) 21 La malattia e la persona Le facili illusioni della prevenzione di massa nel caso del tumore al seno. Un tasso di guarigione pressoché invariato da decenni. Un approccio sempre più segmentato e standardizzato che non tiene conto della complessità della persona e dei contesti. Intervista a Gemma Martino. Gemma Martino è Direttore Scientifico di Metis, il Centro Studi in Oncologia Formazione e Terapia di Milano. Ha lavorato all’Istituto dei Tumori, ricoprendo il ruolo di direttore di Divisione. Si occupa della qualità di vita delle persone con tumore e della formazione degli operatori sanitari “per il loro ben-fare e il loro ben-essere”. Può darci un quadro dell’informazione sanitaria e della vostra attività? Potremmo definire la nostra attività sanitaria una militanza, che si organizza per aiutare le persone in crisi e rimane con i pori aperti della sensibilità e dell’intelletto per modificare i comportamenti della salute e della malattia e la cultura intorno a essa. Nel campo dei tumori, infatti, non sempre si è proceduto con grazia. L’immagine che diamo del cancro è che -se preso in tempo- lo possiamo curare. Come terapeuti siamo pronti all’azione e nel linguaggio usiamo ancora metafore di guerra che danno corpo alle nostre paure di avere nemici che attentano all’invulnerabilità: battaglie che si combattono, tumori che si bombardano, esplosioni che si prevengono, arruolamenti per lo screening. Una persona che ha ricevuto una diagnosi di tumore difficilmente fa sue queste metafore guerriere, piuttosto si prefigura immagini più naturali, più geologiche -all’atto della diagnosi è stato come un “terremoto” all’interno, un “sovvertimento”, una “tempesta inattesa”che arrivano dal profondo dell’anima. Un bisogno di ripararsi e capire prima di agire. L’uso dei simboli e del linguaggio espressi nella varie fasi di prevenzione, diagnosi e cura dei tumori la dice lunga sui diversi tempi e modi di pensare, agire, comunicare tra terapeuti e utenti/pazienti. già 50 anni fa, senza diagnosi precoce, almeno la metà delle donne con tumore al seno viveva a lungo Un esempio alla portata di tutti è quanto s’è mosso ed è stato promosso nel campo dei tumori al seno. Qui, un uomo carismatico con grandi capacità organizzative e relazionali, Umberto Veronesi, seguito da un gruppo di medici attivi e fedeli, ha impostato ricerche cliniche, creato movimenti di opinione, mobilitato il Parlamento. Del cancro al seno ne parlano quotidiani, settimanali, mensili, le radio e le televisioni, politici e politiche. Per attivare le donne a sottoporsi a indagini strumentali come mammografia ed ecografia e cercare tumori in fase iniziale che permettono di usufruire di trattamenti chirurgici più conservativi del seno e di ottenere dalle terapie complementari (radio e chemioterapie), oltre che maggiori successi di guarigione, molto materiale informativo gira negli ambulatori, nei negozi, nei mezzi 22 di trasporto. Grazie a questa eccessiva informazione di massa che illumina sui progressi della tecnologia medica, oggi si parla in maniera diversa di “noduli” mammari. Così, tuttavia, le donne mobilitate a partecipare agli screening sono portate a pensare che il tumore al seno sia la loro malattia preponderante, dalla quale guariscono se si sottopongono alle indagini richieste. In questa fase sanitaria pochi si preoccupano di quanto denaro si spende per mobilitare tante donne per diagnosticare precocemente il cancro in alcune di esse, di quali siano i loro disagi, le loro aspettative nell’accogliere l’invito a presentarsi nei centri di screening. Tra diecimila donne sottoposte a mammografia -se tutto va bene, se il sistema funziona bene, se le mammografie sono fatte bene, se i tecnici le sanno leggere correttamente- scopriremo cento donne con tumore, che nessuno aveva diagnosticato prima, e altre 400 a cui chiederemo di sottoporsi a un iter diagnostico più approfondito (ecografie, biopsie) per avere la sicurezza che il sospetto di cancro sia fasullo. Le cento donne con cancro accertato potranno usufruire di interventi conservativi, settanta di loro guariranno. Il messaggio occulto che diamo è che se arriviamo tardivamente alla diagnosi moriamo… Ma già 50 anni fa, senza diagnosi precoce, almeno la metà delle donne con tumore al seno viveva a lungo, anche se con esiti devastanti da chirurgia, radio e chemioterapia. Oggi queste terapie non comportano più mutilazioni ed effetti collaterali insopportabili, quindi parliamo di esiti e disagi diversi, ma l’efficacia è la stessa di 50 anni fa. E le donne di oggi non sono da meno delle loro madri e delle loro nonne nel mettere in campo le loro risorse di guarigione… Lei quindi mette in discussione lo screening? Io dico che continuare a proporre lo screening nelle modalità messe finora in atto non è più corretto: si può sfruttare meglio la mobilizzazione delle donne per interagire con loro, valutare altre proposte sia informative che organizzative. Sarebbe giusto setacciare solo le donne a rischio e non mobilitare quelle che mai nella vita (e sono tante) svilupperanno un cancro al seno, mentre, casomai, sono sotto tiro di altre malattie ed avrebbero bisogno di altre prevenzioni. Oggi, poi, molte donne che si trovano di fronte alla diagnosi di cancro e devono affrontare il percorso terapeutico, continuano a sentirsi dubbiose e sole, malgrado il flusso informativo e operativo che le campagne di screening mettono in atto. La malattia tumorale è comunque diversa in ciascuna persona, non solo perché è diversa in termini isto-patologici e biologici, ma anche perché essa si inserisce e si innesca in una struttura psichica, corporea e relazionale unica e non codificabile: c’è chi soffre del fatto che è stata intaccata la sua immagine (“Come? Sono stata sempre bene!”) e si arrabbia con se stessa e col mondo. C’è chi dice: “Mi è venuta, avrà un significato di cambiamento”. C’è chi si colpevolizza: “So perché mi è venuta e non posso cambiare”. C’è chi rimette il suo corpo affidandolo alla scienza e non si mette in discussione. Basterebbe già questo a indirizzarci sulla diversità di senso di una malattia nominata genericamente uguale per tutti: la malattia fa parte sia del sistema sanitario che del sistema personale, relazionale, culturale. Quindi lei concentrerebbe le energie anche su una “personalizzazione” della cura... Il sistema sanitario ha grosse possibilità di ricerca mirata, ma sbaglia se non dà senso ai suoi progressi comprendendone l’efficacia nella considerazione del sistema biodinamico della persona con le sue relazioni e i suoi valori. Partendo dagli stessi presupposti biologici e sottoponendo le persone alle stesse terapie sappiamo che alcune guariscono, altre si cronicizzano, altre vanno in progressione. a domande del tipo: “Ho questo tumore. Guarirò, vivrò?”, molti sanitari cambiano il livello logico di risposta Certamente molto dobbiamo ancora lavorare per trovare ulteriori specificazioni biologiche e arrivare a diversificare sottogruppi e terapie sempre più specifiche, ma saremo sempre carenti se non immettiamo il dato di valore: il senso che la persona dà alla sua vita e l’efficacia delle altre mille fonti terapeutiche, comprese quelle spirituali a cui essa ha attinto. Ad esempio, l’uso contemporaneo di altre terapie non convenzionali, come la realizzazione di sogni, la fuga dagli impegni e dalle relazioni pesanti; e, ancora, il ri-annodamento di nodi scorsoi, l’attivazione dei processi di individuazione o la decisione di lasciarsi andare e ritornare all’origine del tempo. Domande e risposte che devono rientrare nei dati statistici e riempirli di senso e di relatività. Pochi terapeuti condividono con i pazienti i loro sistemi di valore e di relazione, pochi individualizzano una terapia centrata sia sulla tipizzazione delle loro cellule neoplastiche sia sulla dinamica della loro vita. Pochi terapeuti, inoltre, accettano di dialogare con i loro pazienti sull’incertezza dell’andamento della loro malattia e della relativa risposta terapeutica. A domande del tipo: “Ho questo tumore. Guarirò, vivrò?”, molti sanitari cambiano il livello logico di risposta: “Un 60-70% di persone che hanno avuto il suo problema è sopravvissuto a cinque anni”. Risposta accettabile per chi usa la razionalità come modalità di restare den- tro i binari; non per chi usa l’intuito come base dell’esperienza umana. In questi casi l’insistenza della proposizione terapeutica in virtù di una possibile maggior risposta comporta danni e intrusività. E che dire del termine “sopravvivere” da noi usato in tutte le casistiche! è vero che stiamo sopravvivendo allo tsunami, alle guerre, ai genocidi, agli stupri in un’epoca che permette ad alcuni di godere con altrettanta facilità, intensità e brevità delle bellezze del creato e dei prodotti di consumo e di prestigio… Ma è questo malessere che vogliamo ripercorrere nel proporre le nostre terapie? La crisi per la malattia può essere l’occasione per riprenderci la vita, ritrovare l’essenzialità e il gusto dell’anima e non solo continuare a sopravvivere. le strutture di accoglienza sono necessarie in un mondo che non ci lascia il tempo di assistere i nostri cari Quando ci ammaliamo è un momento doloroso e ricco di riflessioni e riproposizioni, paure e speranze, semplicità e bisogni. Poco viene restituito alla scienza e al mondo rispetto alla passione che ciascun individuo esprime nei percorsi di diagnosi, cura, risposte e progressioni. Del resto, le persone a cui capita una malattia che comporta una crisi profonda, e quindi una rivisitazione del senso della vita, rappresentano una distonia dei sistemi valoriali attuali e non innescano processi di rinnovamento culturale. L’uso del linguaggio mediatico non ha sortito un’attiva partecipazione della popolazione nel processo di salute in oncologia: l’uso di alcune parole che svelano le nostre credenze profonde rispetto al cancro e l’indicazione a comportamenti rigidi e sottomessi, ci porta a una in-cultura sanitaria in un campo che pure è pieno di buone intenzioni e buone terapie. Mi sembra di capire che voi privilegiate una complessità del vivere la malattia e della cura... Quando viene diagnosticata la presenza del cancro, presi dal capire cosa succede in termini biologici, a noi terapeuti risulta difficile “ascoltare il corpo” dell’altro in termini biografici, relazionali, emozionali. Questa mancanza di ascolto del disagio crea uno iato nella scienza e nell’organizzazione. La scienza risulta parziale e artefatta se -una volta agita la scorporazione degli organi per focalizzarne il problema specifico- non lavora sulla riconnessione individuale e sistemica. Parlare di medicina d’organo (come appunto: tumori al seno) facilita la conversazione e l’indirizzo scientifico, ma allontana dalla complessità della cura e dalla possibilità di catturare la realtà da parte della scienza. Nella mia pratica medica poche volte ho assistito alla scorporazione del seno, del polmone, della laringe, del colon da parte dei pazienti, mentre assisto a un proliferare di pubblicazioni e di studi segmentari sia in ambito medico che psicologico. La focalizzazione d’organo è necessaria quanto l’incorporazione della dinamica sistemica. L’attenzione all’organo va messa a fuoco e poi allontanata per uno sguardo d’insieme che comprenda lo sfondo. Per ca- pire la complessità della realtà-malattia, di cui facciamo parte anche noi che prescriviamo, dobbiamo allertare tutti i sensi ed entrare nel vuoto prescrittivo per arrivare liberi alla decisione terapeutica condivisa e trascendentale. Nella scienza le zoommate tra l’obiettivo macro per la lettura del vetrino e l’obiettivo a distanza per la visione del contesto e della dinamica relazionale ed emozionale sono assolutamente necessarie. La scienza, quindi, sarebbe troppo dedita al segmento? Le definizioni specialistiche facilitano l’indirizzo del percorso, ma separano e disintegrano l’esperienza. L’esperienza di chi si ammala, d’altra parte, resta isolata e non riesce a diventare cambiamento e rinnovamento culturale. Faccio un esempio di indirizzo specialistico. Nel ’75, all’Istituto Tumori di Milano, mettemmo in piedi una divisione di Terapia del Dolore. Anche se sottolineava un problema trascurato nella cura oncologica, la definizione di terapia del dolore mi pareva già una stonatura. L’apertura di una Divisione di questo genere -facilitata dalla convinzione (spesso errata) che la malattia oncologica comporta dolore- ci permise di mettere a fuoco strategie anestesiologiche e farmacologiche, ma separò nel malato l’esperienza del dolore cronico e incoercibile dal resto delle cure e noi analgesisti dai sistemi sanitari oncologici. Nel tempo, più carica di esperienza clinica, libera da vincoli di ruoli e pastoie identitarie, mi adoperai per riorganizzare la scienza medica oncologica in maniera meno settoriale. Nei protocolli di cura d’eccellenza -come il protocollo della Forza Operativa Nazionale per il Carcinoma Mammario- abbiamo fatto scomparire il termine “terapia del dolore e riabilitazione” reimmettendo le procedure specialistiche in ogni atto curativo, con una visione anticipatoria del dolore cronico e del disagio fisico e psicologico, all’atto stesso dell’osservazione clinica oncologica. Oggi restano in piedi e sorgono nuovi centri di Terapia del Dolore che vengono sempre più associati a un’altra segmentazione dell’esperienza umana: a quella fase evolutiva che non risponde più alle terapie e che è stata definita terminale e della cura palliativa. Le strutture di accoglienza sono necessarie in un mondo che non ci lascia il tempo di assistere i nostri cari, pena l’esclusione sociale, tuttavia separa l’individuo dal contesto di cura esplicata in precedenza. La separazione e l’accoglienza riparatoria sono ormai insite nel nostro sistema sanitario. Il fiorire di tante associazioni di persone operate e la produzione di tanti libri che raccontano dell’esperienza individuale dopo la malattia fa dedurre che l’organo è curato e delegato agli ospedali e il corpo -con la sua emozione e le sue relazioni- rimasto in solitudine, richiede sostegno in luoghi di possibile dialogo tra simili, a dimostrazione che anche l’integrazione nei sistemi sociali e familiari a volte risulta difficile quando non impossibile. Per sollevare le persone nella fase di disagio per l’evolutività della malattia sono nate associazioni di “assistenza al malato terminale di cancro”. è un messaggio di preoccupazione da parte del mondo del volontariato per le persone che vengono poco assistite nelle strutture pubbliche e che restano spesso sole. Tuttavia, ancora una volta la strutturazione di luoghi e di azioni di accoglienza separata, perpetua le nostre credenze limitanti sul cancro. Solo i malati di cancro vanno in fase terminale? Che differenza c’è tra un terminale di cancro e un terminale di un’altra malattia? La struttura separata e ultraspecialistica conferma e non stempera il tabù (cancro uguale malattia dolorosa e portatrice di morte), oltre a inficiare le belle proposizioni da noi usate nella fase di prevenzione oncologica. Quindi, l’eliminazione del dolore è sacrosanta, sacrosante sono le crociate per togliere i vincoli alla somministrazione dei narcotici e a quant’altro sia utile alla buona morte. L’errore è quello di introdurre “unità/divisioni” ospedaliere specifiche separando il dolore dagli atti di cura oncologici e artificiosamente defininendo “terminale” il processo di avvicinamento alla morte. Ci dovrebbero essere al loro posto laboratori di ricerca, di verifica e di insegnamento del buon modo di procedere per la prevenzione e il sollievo del dolore, là dove questo si presenti con intensità prima che arrivi a essere cronico e intrattabile. Eviteremmo alcune induzioni del tipo: “Se vado in terapia del dolore vuol dire che sto morendo”, e agevoleremmo l’armonia del lasciarsi andare... Quindi, per concludere, come potrebbe descrivere il vostro modo di lavorare? Se le specificazioni possono diventare sovrastrutture e possono contravvenire alla regola della buona cura, l’astensione dalle definizioni può essere confusiva e disperdente. l’attenzione all’organo va messa a fuoco e poi allontanata per uno sguardo d’insieme che comprenda lo sfondo Quando sono uscita dall’Istituto dei Tumori e ho creato Metis con il gruppo di professionisti che mi ha seguito con entusiasmo, abbiamo fatto scomparire parole che definivano alcune nostre competenze in virtù di una modalità di attenzione alla persona e ai suoi sistemi di appartenenza: via dunque oncologia, senologia, riabilitazione, terapia del dolore, psicologia… Semplicemente Metis, una figura mitologica con i suoi significati profondi e nascosti. Cos’è successo? Al di là dei collegamenti di ricerca con strutture specialistiche (lo storico Int e il neonato Ieo di Milano) e al di là del passaparola e dei percorsi carsici di internet, non è facile individuarci. Restiamo la nicchia per pochi. Né è facile trovare fondi per la ricerca integrata. Ogni tanto ci offriamo l’opportunità di incontrare le persone che ci hanno comunque scovato, stimolandoci a incontri d’arte e d’amicizia. In queste occasioni le persone riconoscenti per questo modo di lavorare libero e complesso danno il loro contributo, anche con minime donazioni, a far sì che la nostra esperienza possa continuare a procedere fuori dalle luci della ribalta, ma dentro il cuore e lo spirito inquieto di ciascuno. (a cura di Paola Sabbatani, Una città n° 129, maggio 2005) 23 I limiti del medico Tornare a vedere il malato come persona usando la tecnologia e le conoscenze di oggi, evitare di affidarsi esclusivamente alle misurazioni e agli standard prestabiliti, porsi, insieme ai pazienti e ai parenti, il problema dei limiti della cura, in tanti casi chiedersi che tipo di speranza si dà. Intervista a Marco Bobbio. Marco Bobbio è primario della Cardiologia dell’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo. Il libro di cui si parla nell’intervista è Il malato immaginato. I rischi di una medicina senza limiti, Einaudi, 2010. Cosa intende con l’espressione “il malato immaginato”? Il vero problema del sapere medico contemporaneo, nascosto, latente, sono i limiti della medicina. Al giorno d’oggi si parla sempre dei traguardi futuri, si dice che si vivrà fino a 130 anni, che si curerà questa e quella malattia. Ma non si riflette abbastanza su che cosa tutto questo significhi. Quando a una riunione ho sentito affermare che si potrà arrivare fino a 130 anni non mi sono trattenuto dal commentare: “Non auguro a nessuno di vivere fino a cento anni per doversi occupare della madre di 130”. Purtroppo, un altro grande problema attuale è che tutta l’evoluzione tecnologica -che è indispensabile, fondamentale- viene però spesso utilizzata in modo non appropriato. C’è un ricorso alla tecnologia anche quando non è sufficientemente conosciuta e magari dopo anni ci si rende conto che i vantaggi prospettati non sono confermati. Nel frattempo i trattamenti sono entrati nella routine e non è più nemmeno facile tornare a farne a meno. Il termine “immaginato” si riferisce al malato per come viene rappresentato dai medici per dare forza e lustro alla medicina e al proprio lavoro. Allo stesso modo, si riferisce a come anche i malati arrivano a immaginare se stessi, ma al di là del malato immaginato c’è il malato reale. quello delle emozioni è un argomento che non viene quasi mai trattato nei libri di testo né nelle conferenze Nel libro introduco anche il concetto della medicina sostenibile, un termine che di solito viene utilizzato in ambito economico e riferito alla sostenibilità economica della medicina. In realtà, affermo che la medicina è sostenibile se è sostenibile da quel paziente, dal suo contesto affettivo, dalla sua vita, dal suo assetto emotivo. Certe volte alcuni pazienti non accettano un determinato trattamento in un momento in cui sono fragili, deboli, ma lo richiedono sei mesi dopo, ed è del tutto legittimo. Oppure accade il contrario, che i pazienti si pentano per aver accettato un trattamento, perché emotivamente erano stati trascinati. Quello delle emozioni è un argomento che non viene quasi mai trattato nei libri di testo né nelle conferenze mediche. Ma è un errore, perché questo è un po’ anche il nucleo della innegabile conflittualità che c’è fra medici e pazienti dovuta in gran parte al fatto che il paziente è spaventato, preoccupato, così come il medico è angosciato che il pa- 24 ziente non guarisca, che la procedura vada male. E certe volte fra queste due angosce si creano delle scintille, dei conflitti che diventano difficilmente gestibili. Com’è possibile superare questi limiti nella medicina contemporanea? Ci sono due punti secondo me importanti: il primo impone di tenere conto dell’importanza della ricerca scientifica, dell’evoluzione tecnologica, ma il secondo ci ricorda che non ne dobbiamo diventare schiavi. Non dobbiamo neppure ricadere nella situazione precedente, quella in cui ogni medico faceva quello che riteneva più importante, senza dover rispondere delle sue scelte. Il mio messaggio non è quello di ritornare ai “bei” tempi andati. Piuttosto, partendo dalle conoscenze che abbiamo adesso e da quelle che avremo in futuro, è necessario muoversi verso una personalizzazione, una individualizzazione della medicina in cui la tecnologia e le conoscenze derivanti dalle ricerche svolgono comunque un ruolo determinante. Se invece usiamo le misure solo come strumenti indiscutibili, perché le riteniamo oggettive, allora possiamo arrivare a commettere grossi errori. Quello che affronto tutti i giorni è, da un lato, un tentativo di smitizzazione della presunta oggettività della scienza, dall’altro, uno sforzo di re-indirizzamento delle ricerche verso le necessità particolari e personali di ogni malato. Vorrei specificare che in alcune situazioni, per esempio nel caso dei bambini, dei quali ho poca esperienza, alcuni dei ragionamenti che io faccio non si possono applicare. Per esempio, bisogna capire quando la medicina non può dare più molto o può dare qualcosa che è però irrilevante nella vita di un paziente. Ma un conto è il caso di un paziente di 85 anni che ha già avuto numerosi ricoveri e interventi chirurgici, per cui ci si può fermare a riflettere. Un conto è aver a che fare con un bambino con la leucemia, per il quale vale la pena di dedicare tutte le energie, compreso il farmaco sperimentale, per provare veramente di tutto. In questo caso si può salvare una vita che poi avrà un’estensione ulteriore di altri venti o trenta anni almeno. Il problema di cui parlo si pone per la gran parte dei pazienti, invece, che frequentano i nostri ospedali, ai quali diamo delle speranze di vita aggiuntiva di qualche settimana o al massimo di qualche mese. Allora ci dobbiamo porre il problema: che tipo di speranza di vita gli do? Questo mese che gli daremo in più, come lo passerà? Ne vale la pena, sì o no? Dobbiamo imparare a confrontarci tra medici e con pazienti e parenti. Bisogna sempre porsi il problema dei limiti. Questo per quanto riguarda la cura. Ma cosa pensa della possibilità di agire in difesa della salute anche con la prevenzione? Quando parlo di prevenzione, la intendo sempre in ambito strettamente medico, perché non conosco gli altri contesti, come la prevenzione ambientale, per esempio. Ma certamente questa visione ristretta della prevenzione è un limite della medicina in generale e mio in particolare. Perché limitando gli aspetti della prevenzione al solo ambito medico, va a finire che si pone l’accento solo sull’aspetto individuale, colpevolizzante, che non tiene conto degli aspetti sociali. la medicina non ha un grosso interesse per la prevenzione anche perché il risultato non è tangibile Io posso colpevolizzare una persona che non fa abbastanza moto o che compra cibi preconfezionati nei supermercati, ma se tutto il mondo gira così, se tutta la pubblicità gira così, l’unico risultato è che questa persona si sente in difetto tutte le volte che va al supermercato. La medicina non ha un grosso interesse per la prevenzione anche perché il risultato non è tangibile. Se opero un paziente moribondo ottengo un risultato immediato. Quando avvio un programma di prevenzione contro l’infarto, non si vede il risultato. La prevenzione è un investimento che non ha un ritorno quantificabile e quindi dà meno soddisfazione. Lei è perplesso su un certo uso delle linee guida. Io sono nato professionalmente come metodologo della ricerca e questo è stato il mio principale campo di lavoro. Anche negli Stati Uniti ho lavorato in questo settore. E sono stato un grande fautore sia della “medicina basata sulla prova di efficacia” sia delle linee guida, e mi rendo conto -non dico che sono pentito, né di averle abbandonate- che questi strumenti sono molto importanti, ma vanno utilizzati in un modo adeguato. Invece, proprio mentre si tende a farne un uso dogmatico, ci si accorge che la ricerca scientifica fornisce sì delle informazioni, ma non fornisce dei dati assoluti e quindi va interpretata e utilizzata in modo appropriato. Posso dire che c’è una sopravvalutazione della statistica soprattutto da parte di chi non conosce bene i problemi quotidiani della medicina. Non si possono stabilire delle regole assolute per decidere quali pazienti debbano essere trattati e quali no. Ho qui davanti le linee guida italiane per la diagnosi e il trattamento del diabete. Ci sono documenti analoghi della Scozia, di varie società americane ed europee che ripetono le stesse cose. Sono 150 pagine, doppia colonna, corpo otto, di definizioni, precisazioni, classificazioni, come se i pazienti potessero essere tagliati col coltello: questo ha bisogno di quel trattamento e quello no. C’è una tendenza scientista a pensare che la biologia possa essere confinata in numeri, cut off, categorie, per cui tutto quello che entra nello schema va trattato, tutto quello che non entra non va trattato. In realtà il mondo della biologia, e della medicina in particolare, è molto più sfumato. Dopo aver letto queste 150 pagine mi sono reso conto che gran parte dei pazienti che ho davanti sono diversi da quelli lì. È vero che potrei fare degli studi sempre più particolareggiati, ma non potrò mai avere dei dati che intercettino tutte le caratteristiche di ogni singolo paziente. Allora dovrei fare magari uno studio differenziando gli effetti che il farmaco ha sui giovani o sugli anziani, sugli uomini o sulle donne; dovrei poi fare uno studio di verifica sulle donne anziane diabetiche. Ma cosa potrei dire degli effetti sulle donne anziane diabetiche con più di 80 anni e su quelle con meno di 80 anni? Se porto questo discorso all’infinito non troverò mai alcuna soluzione. Allora tanto vale fermarsi prima, dire quali sono le indicazioni generali ottenute dallo studio e poi cercare di capire, caso per caso, se il trattamento può essere o meno favorevole al paziente. Inoltre, va detto che per introdurre un nuovo farmaco nel mio armamentario terapeutico devo disporre di vantaggi rilevanti, non solo dello zero virgola qualcosa, perché, anche se dal punto di vista statistico il dato sperimentale rispecchia i criteri della significatività statistica, magari dal punto di vista della rilevanza clinica è invece del tutto marginale e non giustifica la spesa per un nuovo trattamento. Lei denuncia una certa informazione scientifica e medica superficiale, ecla- tante oppure addirittura condizionata… C’è una ricerca indipendente, onesta, svolta da ricercatori che vogliono capire cosa succede. In altri casi, invece, la ricerca è condizionata e molto spesso per l’intervento delle industrie che producono farmaci e dispositivi, pur nell’ambito di procedure standard che vengono chiamate Good clinical practice. Ci sono, infatti, all’interno di queste Good clinical practice dei margini per fare in modo che le conclusioni della propria ricerca siano il più positive possibile. Su questa si sovrappone un’informazione a sua volta parziale: da una parte il ricercatore, comunicando i propri risultati, cercherà di sottolineare più gli aspetti positivi che quelli negativi, perché vuole dare la maggiore enfasi possibile al proprio lavoro, dall’altra parte anche l’industria, che ha dei grandi interessi economici, tenderà a far risaltare solo gli aspetti positivi e non quelli negativi dell’applicazione di un nuovo ritrovato. Attraverso tutta questa filiera del messaggio quello che arriva al lettore è un messaggio distorto. è difficile individuare chi sia disonesto; ognuno aggiunge un pezzetto di distorsione e quello che arriva al fondo non corrisponde al messaggio iniziale. Per ultimo, bisogna tenere conto di quello che capisce il lettore. Quanto contano gli interessi extra-lavorativi nelle decisioni sanitarie? Il conflitto di interessi dal mio punto di vista non consiste soltanto nella monetizzazione, nella corruzione, quella volgare di quando ti danno diecimila euro se prescrivi determinati farmaci. Il conflitto di interessi è il condizionamento del proprio lavoro dovuto a interessi che esulano dal rapporto fra il singolo medico e il singolo paziente. Immagini un centro specialistico dove si fanno determinate procedure diagnostiche; per mantenere la competenza bisogna farne un certo numero all’anno, ma se il numero diminuisce per condizioni epidemiologiche o anche solo perché hanno aperto un altro centro nell’ospedale vicino, cosa succede? Che nessuno dei due centri ha più le competenze sufficienti per rimanere al passo con l’evoluzione tecnologica, con la manualità, con l’esperienza. E tuttavia è difficile che uno dei due centri chiuda, è più facile che vengano fatte fare procedure anche a pazienti che non ne hanno così tanto bisogno. Su questo punto devo dire che la programmazione sanitaria è molto carente. Dovrebbe essere la Regione a stabilire quanti centri sono necessari per eseguire determinate procedure. E invece c’è una corsa ad acquisire tutte le competenze possibili. Il direttore generale dell’assessorato alla sanità in alcune conferenze ha dichiarato che con il numero dei laboratori di emodinamica attivi in Piemonte, tenendo conto del numero di operatori che ci devono essere in ogni centro e del numero di analisi che ogni operatore dove eseguire per mantenere un’adeguata competenza tecnica, mancano duemila infarti all’anno in Piemonte. Considerazione lodevolissima, ma all’obiezione “siete voi che le avete approvate”, la risposta è stata che è il sistema sociale che spinge per la moltiplicazione dei centri; l’ospedale, il sindaco, il direttore generale, gli stessi cardiologi di quella zona vogliono il loro centro e “noi non siamo in grado di opporci”. Però se non è in grado la Regione di regolare l’attività, francamente, non si sa chi possa farlo. Tornando ai medici, molti già oggi si rendono conto di un’eccessiva invadenza del proprio lavoro nelle vite private delle persone, imponendo trattamenti mediamente più efficaci e “per il bene del paziente”. dopo aver letto queste 150 pagine mi sono reso conto che gran parte dei pazienti che ho davanti sono diversi Costoro percepiscono il disagio di una medicina parcellizzata, riduzionista, che ha stabilito in modo dogmatico, cosa è meglio. La medicina si sta appiattendo ad applicare protocolli standard a chiunque. Giorgio Israel, storico della scienza e matematico, ha scritto Per una medicina umanistica (Lindau, 2010), con sottotitolo Apologia di una medicina che curi i malati come persone. Israel, proprio osservando che la medicina sta perdendo una delle sue caratteristiche peculiari rispetto a tutte le altre scienze, che è quella del rapporto umano, afferma che vi è una forte incongruenza: perché mai i medici si mettono a misurare tutto quando hanno accesso a una potenzialità così importante che è il rapporto umano, la conoscenza del singolo paziente, che va al di là di tutte le possibili misurazioni? è giusto utilizzare le misure per capire i fenomeni, ma poi il rapporto di cura bisogna giocarselo con il paziente. (a cura di Enzo Ferrara. La versione integrale è uscita su Una città n° 177, settembre 2010) 25 Barbara Duden Salute? No, grazie! Le coraggiose posizioni di Ivan Illich sulla medicalizzazione della vita. Mi propongo oggi di riflettere con voi sul motivo del risoluto “Danke nein!”, “No, grazie!”, che è stato anche l’elemento centrale delle aspre critiche di Ivan Illich alla medicalizzazione della vita. Nelle sue riflessioni sulla medicina, la malattia, il dolore e la ricerca di salute organizzata, si possono distinguere tre periodi: il saggio Nemesi medica negli anni Settanta; il “No, grazie!” alla sanità come sistema intorno agli anni Novanta; infine la critica a una medicina che si strutturava come una “roulette probabilistica” per la gestione dei rischi, in un discorso tenuto a Bologna nel 1998. Ciò che aveva scritto sulla medicina come simbolo istituzionale della modernità non gli bastava più poco dopo la pubblicazione del libro. Non perché avesse cambiato atteggiamento, ma perché sentiva che alla fine del ventesimo secolo la sua critica doveva essere argomentata in modo diverso. Nemesi medica In Nemesi medica, pubblicato nel 1976 -in un momento culminante della fede nel progresso e nello sviluppo- Ivan analizza l’impresa medica, come esempio specifico dell’inadeguatezza e contro-produttività dei servizi pubblici in un contesto industriale. Analizza la medicalizzazione della salute come un fenomeno presente in tutte le società industriali, in un mondo materiale pieno zeppo di beni, dove la persona diventa incapace di produrre da sé cose utili e utilizzabili. Questo valeva nello stesso modo per l’impresa educativa, con la scolarizzazione forzata di tutti i bambini, che blocca l’autonomo autoapprendimento, e per la congestione delle strade che rende il camminare senza senso e pericoloso. Ivan Illich riconosceva l’urgenza di strappare dalle mani degli esperti la valutazione del sistema medico-farmaceutico. Lo vedeva come un compito politico preminente, che rendeva necessari studi e sforzi personali propri di una ricerca che andava al di là della tutela professionale. Per trovare un’alternativa concreta al sistema che ci opprime, l’immaginazione doveva essere liberata dalle strettoie, in modo da rendere visibile l’enorme ricchezza dei modi di esserci l’uno per l’altro e per se stessi. I professionisti non sono in grado di vederla. Già di per sé questo ampliamento della visuale ci permetterebbe di comprendere come la colonizzazione della vita quotidiana attraverso la medicalizzazione della malattia, dell’invecchiamento e della morte ci allontani dalla capacità di prenderci cura con mezzi nostri, di metterci in gioco, che ci viene ostacolata dal monopolio degli esperti. Ivan sottoponeva la “medicina” -sistematicamente e in modo esemplare- a un’analisi su tre livelli: cosa compie il sistema medico tecnicamente, cosa compie socialmente e cosa strutturalmente? Cosa promette come istituzione e che effetti produce? Qual è dunque, nella società industriale, la sua specifica “controproduttività” iatrogena sul piano clinico, sociale, strutturale/culturale. Iatrogenesi clinica, sociale, strutturale/culturale Per quella medicina fortemente sviluppata nei decenni del 1960 e 1970 nel suo libro fu in grado di documentare che, oltre una certa soglia, i servizi organizzati da istituzioni e professionisti non solo non conseguono l’obiettivo proclamato, ma producono il contrario. Provocano cioè una nuova malattia, la malattia iatrogena, causata dalla stessa Bolzano 5 luglio, seminario su “Donne e tecnologie mediche: come viene cambiata la percezione di sé e del proprio corpo”. Con Barbara Duden e Olivia Fiorilli, autrice e ricercatrice. Dottorato di ricerca all’Università La sapienza di Roma su “La costruzione dell'infermiera moderna: genere, controllo dei corpi, immaginario 1900-1930” 26 medicina usata per combattere la malattia. Illich dimostrò che si verificavano proporzionalmente più incidenti negli ospedali rispetto agli altri settori industriali, a eccezione dell’industria estrattiva e di quella edilizia. Quanto più le più complesse tecnologie penetravano nelle routine degli ospedali, tanto più grotteschi e inevitabili diventavano gli incidenti. Tutti i successivi tentativi di limitare questa iatrogenesi clinica attraverso la stessa medicina hanno avuto un effetto paradossale: il sistema diventa ancora più dannoso quando gli specialisti stessi banalizzano gli effetti generatori di questo tipo di malattie definendoli “effetti collaterali”. La iatrogenesi sociale si riferisce invece alla distruzione del benessere personale che ognuno può creare da se stesso. Ivan sostiene che, paradossalmente, oltre una certa soglia il tasso di malattia di una popolazione cresce proporzionalmente alla quantità di servizi medici disponibili. La medicina rende la società più malata e paralizza la capacità personale di provvedere alla propria salute. Così il costo dei servizi medico-correlati occupa sempre più spazio nei bilanci delle società industrializzate. Questa sovrapproduzione che diventa sovra-consumo tocca anche altre istituzioni: il volume globale dell’educazione impedisce ai bambini di seguire la loro curiosità, blocca il loro coraggio intellettuale e la loro sensitività. Oggi è la sovrabbondanza di informazioni a creare confusione e caos. La soglia della iatrogenesi sociale si raggiunge quando si rompe l’equilibrio tra l’offerta di servizi medici e la reale possibilità di guarigione delle persone. Questa vera e propria invasione farmaceutica porta a ritenere che non esistano né guarigione, né benessere, al di là dei rituali, delle definizioni e delle normative mediche. Ivan Illich metteva in luce infine gli effetti della iatrogenesi strutturale/culturale. Guarire è un verbo che descrive in modo molto bello l’azione del malato. Non può essere messo in passivo: non posso “venire guarito”, come non posso “venire andato” o “venire morto”. All’origine della medicina come istituzione, che avrebbe portato a descrivere questa azione col verbo al passivo, vi era un sogno, simile al mito odierno secondo cui se l’ambiente migliora la malattia si dilegua. I malati hanno imparato che esistono entità ostili -malattie astratte- il cui debellamento è compito dei medici. Un nuovo linguaggio, elaborato nelle sfere sociali più elevate, penetra l’intera società fino alle sua fondamenta. Il dominio dei medici sulla lingua di coloro che soffrono diventa un baluardo che tutela l’esclusiva responsabilità della professione medica. Il continuo ricorso a un linguaggio specializzato ha impedito a sua volta che la medicina venisse de-professionalizzata. Alla fine di Nemesi medica, Ivan riassume: “In verità, il miracolo della medicina moderna è un inganno diabolico. Consiste nel portare, non solo individui ma intere popolazioni, a sopravvivere a un livello mostruosamente basso di salute personale. La nemesi medica è l’effetto negativo di un ordine sociale che in origine voleva offrire pari e Barbara Duden è una storica, docente emerita all’Università di Hannover. L’elemento centrale della sua ricerca e del suo insegnamento ruota intorno alla storia del corpo, del corpo vissuto, del corpo rappresentato. Così come la storia dei sensi, dello sguardo in primo luogo. Sono stati tradotti in Italia due suoi testi da Bollati Boringhieri: Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita (1994) e I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne (2006). In Germania, inoltre, sono stati pubblicati Geschichte unter der Haut, e un suo parere alla commissione d’inchiesta del Bundestag, Aspekte des Wandels des Verständnisses von Gesundheit, Krankheit, Behinderung als Folge der modernen Medizin. Dall’inizio degli anni Ottanta ha lavorato a stretto contatto con Ivan Illich. Negli anni Novanta, fino alla sua morte nel dicembre 2002, Illich ha insegnato spesso, nei semestri invernali, all’Università di Brema. La sua casa ospitale gli ha offerto in quel tempo la cornice ideale, tra piatti di spaghetti e buon vino, per il proseguimento delle discussioni suscitate dalle sue lezioni. Chi meglio di lei può riassumere e illuminare le posizioni di Ivan Illich sulla medicalizzazione della vita? Franz Tutzer migliori opportunità nella gestione autonoma della vita ed è giunta infine al punto di distruggerla”. Cercheremo invano un “No, grazie!” in Nemesi medica, perché in quel tempo si trattava del tentativo di porre dei limiti oggettivi alla medicina, attraverso una rigorosa analisi economica del sistema industriale e di sfatare il mito della promessa di guarigione attraverso il monopolio clinico e l’alta tecnologia. Conclude Illich: “La società in grado di ridurre al minimo l’intervento di esperti è quella che offrirà sempre le migliori condizioni di salute”. Sperava in questo modo di ridurre la dilagante dipendenza dalla medi- cina come istituzione, dalle sue tecniche e dalla sua diagnostica classificatoria. Sperava, soprattutto attraverso un indirizzo politico di auto-limitazione sociale, di contribuire a creare le condizioni per un incontro semplice e sobrio tra medico e paziente. Auto-integrazione nel sistema Nella prima edizione inglese, il libro Nemesi medica aveva il seguente sottotitolo: “L’espropriazione della salute”. Quindici anni dopo, Ivan ha dovuto constatare che tale titolo si era realizzato in un modo a suo tempo inimmaginabile e inquietante. Il suo monito di allora, che le persone prendessero in Ivan Illich e Alexander Langer “Sandra Mangini, la cantante di Venezia, e io, una storica del corpo vissuto. In realtà siamo però in quattro, un quartetto”. Cosí ha aperto il suo intervento Barbara Duden. “Pensiamo a due amici, Alexander Langer e Ivan Illich, per molti anni legati profondamente. Ho incontrato Alexander quando andò a trovare Ivan a Brema, a Firenze, a Bolzano. Ciò che mi è rimasto di questi incontri è un particolare comune a questi due uomini, il vecchio ebreo cattolico e il più giovane verde cristiano. Come posso parlarne senza banalizzare? Il modo miglior è farlo attraverso un racconto: quando nel dicembre 2002 Ivan morì, Madre Jerome, una monaca benedettina amica di Ivan, scelse una citazione dal Vangelo di Luca (12, 48): “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (ignem veni mittere in terram, et quid Volo nisi ut accendatur). Alexander Langer risplendeva di questa luce. La condivideva con quelli che gli stavano ac- canto, li illuminava e li rallegrava. Alexander brillava di una luce così bella, di certo dovuta al fatto che conosceva l’oscurità. Esattamente come Ivan. Ivan spesso raccontava di Helder Camara, il quale, nel bel mezzo delle torture che insanguinavano il Brasile, gli aveva detto: “Non arrenderti mai. Fin tanto che una persona è viva, da qualche parte sotto la cenere c’è un residuo di brace, e alimentarlo è il nostro totale compito”. E Ivan raccontava come Helder chiudeva le sue mani -delle mani magre, particolari- intorno alla sua bocca, e soffiava, e diceva: “Devi soffiare... con attenzione, con molta attenzione, e soffiare... Non devi preoccuparti se prende fuoco nuovamente o no. Ciò che devi fare è alimentarlo”. Oggi ricordiamo due “soffiatori” grandiosi. La loro amicizia nacque da questa speranza comune di accendere allegria, luce. Penso che i vincitori del Premio siano anch’essi dei simili “soffiatori”. B.D. 27 mano la responsabilità sulla propria salute, si adattava perfettamente alla programmatica politica degli anni Settanta. “Allora, non mi ero reso conto che quella morbosa bramosia di salute nell’era del System-Management si sarebbe trasformata in un’epidemia talmente complessa”. Da tempo ormai la salute non aveva più nulla a che fare con un benessere personale e una capacità di arrangiarsi concreti, ma era diventata una risorsa sempre più scarsa influenzata dalle esigenze economiche e dalle condizioni ambientali. Con la frase: “Salute sotto la propria responsabilità, no grazie!”, Illich rifiutava l’imposizione di adattarsi agli irresponsabili inviti della società industriale a investire nella propria salute, di migliorarla sotto la guida di esperti, consulenti e professionisti. “L’auto-limitazione -scriveva- è in contrasto con la moda dell’auto-aiuto, dell’auto-gestione o addirittura dell’auto-responsabilità; tutte e tre rendono l’auto-integrazione nel sistema mondiale un imperativo categorico”. In questo secondo periodo della sua critica, a Illich non interessavano tanto le conseguenze iatrogene della società industriale, bensì la distruzione del senso della realtà e la perdita di significato dell’esperienza corporea sensoriale e personale. “Questa salute -sostenevanon è più una cosa che viene vissuta come benessere. Viene intesa come adattamento ottimale nella cornice ecologica ed economica di singoli sottosistemi individuali. Il consenso a questo bisogno di adattamento si riduce all’estinzione della soggettività”. Negli anni Ottanta fu possibile constatare la diffusione di nuovi linguaggi derivati dal computer e dal pensiero cibernetico. Le persone parlavano del sistema cardiovasco- lare come di un computer, del numero dei Linfociti-T o della debolezza del loro sistema immunitario: punto finale di concetti che possono a malapena ancora essere considerati delle metafore o come passaggi sensoriali tra ambiti separati. Dicono certo ancora qualcosa di “corporeo”, ma non si riferiscono più a quasi niente di fisico o anche di percepibile. Riflettere su se stessi alla luce di questi concetti comporta una grave perdita del senso di realtà, un profondo disorientamento e una perdita del proprio sentire. A un’intervistatrice che gli chiedeva nel 1990 cosa fare contro il buco dell’ozono causato dall’industria, Ivan Illich spiegò ciò che gli stava veramente a cuore: “Io rinuncio alla salute. È terribile... Riconosco la mia impotenza, la sento profondamente. Questo compito non può essere svolto da soli, è necessario partire dall’amicizia, dalla vecchia ‘philia’. È possibile rinunciare. Una rinuncia da esercitare consapevolmente, criticamente, con disciplina, per la quale una volta c’era un nome: ‘ascesi’”. solo chi padroneggia l’arte di morire e di soffrire può coltivare un’arte del vivere “È un ‘No, grazie!’ alle ovvietà sulle quali è costruita la nostra società. Per esempio, la ‘propria responsabilità’ in un mondo dove non si può nemmeno consegnare decentemente una scheda elettorale, in un mondo in cui sempre più ciò che precedentemente si chiamava ‘libertà democratica’ diventa auto-integrazione simbolica, in un mondo in cui apparentemente vi viene offerta una scelta, ma in realtà sottoscrivete solamen- Sandra Mangini, attrice, cantante e regista veneziana Il cancro. E poi... (di Carlotta Nobile*) 29 agosto 2012 E poi mi sono accorta che quasi mi fa bene dire “ho il cancro”, quasi mi aiuta ad accettarlo, chiamando ogni cosa con il proprio nome di battesimo, traducendo in parole una condizione di malattia a cui ancora -dopo un anno- una parte di me non vuole e non può abituarsi. Pronunciando queste sei lettere è come se l’incubo prendesse forma concreta, come se quella patina che ormai vedo fra me e il mondo diventasse finalmente visibile anche agli altri. E la cosa, stranamente, mi aiuta. Ho capito fin dall’inizio che avrei dovuto convivere con la mia malattia per un tempo abbastanza lungo e che avevo davanti a me due sole possibili strade: fare finta che non ci fosse e lasciarla al di fuori della mia vita, oppure farla entrare dentro, lasciarla aderire ai bordi di me stessa per renderla mia alleata, per tramutarla in bagaglio di viaggio, in esperienza vissuta consapevolmente e profondamente. Ho sempre vissuto ogni cosa fin oltre i suoi limiti e con il cancro non potevo che fare lo stesso. In fondo è terribile restare chiusi dentro se stessi, ma restarne chiusi fuori lo è ancor di più. Non chiedo che il cancro sparisca dal mio corpo, non posso pretenderlo. Chiedo che divenga un nemico da addomesticare, un’ombra cronicizzata con cui poter convivere e continuare a vivere. Eppure a volte vorrei stare in silenzio senza sentirmi in dovere di ricominciare a vivere una normalità che ormai mi sembra solo la fiera del superficiale e dell’effimero. Vorrei stare zitta e muta per qualche giorno, senza dover spiegare questa stanchezza perenne che rende infinite le mie giornate, questo distacco dal mondo che sento crescere dentro di me ogni giorno di più. Vorrei non dover spiegare che forse all’esterno tutto può ricominciare, che fuori posso anche essere la stessa di un anno fa, con i capelli biondi, che la mia terapia non mi porterà via, e le guance rosa. Ma dentro ogni cosa è cambiata. Dentro ho tante metastasi che camminano, ormai lontane dal punto in cui tutto è cominciato. Dentro ho un’altra percezione di quello che sono sempre stata. E in giornate come questa mi sento un po’ più lontana dal mondo reale e molto più vicina a tutti voi. Il cancro? Un dono 21 marzo 2013 La cosa più importante di tutte non è quante metastasi abbiamo in corpo. La cosa più importante è sentirsi sane, nonostante tutti i referti dicano il contrario. Così con il cancro si convive, si cresce, si lotta. Così la vita diventa ancora più degna di essere vissuta. Con l’amore intorno e la disciplina dentro. E la certezza che la Vittoria è lì, da qualche parte, che mi aspetta. E la certezza che avere il cancro e poterlo combattere è in assoluto la cosa di cui sono più orgogliosa nella mia vita. Le medicine curano. Poi c’è l’anima, c’è il coraggio. C’è l’amore intorno e la disciplina dentro. E queste sono cose che guariscono. Un giorno tu arriverai, mio “E Poi”, piccola e bellissima. Di questo sono certa. E se tutto l’inferno che sto attraversando mi conduce a te, sono disposta a viverlo altre mille volte. * Violinista e scrittrice, aveva aperto, dall’ottobre 2011, una pagina (http://ilcancroepoi.com/ blog/) alla quale affidava periodicamente i suoi pensieri. Se ne è andata il 16 luglio 2013, a soli 24 anni. A lei verrà dedicata la Sala d’attesa del reparto di Oncologia dell’ospedale di Bolzano. 28 Ivan Illich a Brema te ciò che faranno con voi, ciò che una certa professione ha deciso di fare. Lo scenario di cui ho parlato, in cui, se vogliamo dare e mantenere un senso, ci ritroviamo molto soli, è anche una possibilità per coltivare un’intensa amicizia che non era concepibile in un mondo di legami ereditari, di cultura abitudinaria, di decoro borghese, di ricchezza e di sicurezza. La mia speranza è questa. Altre non ne ho”. L’eliminazione dell’“io” attraverso la statistica Alla fine degli anni Novanta, poco prima della fine del millennio, Ivan dovette verificare per la terza volta le ovvietà sulle quali pare poggiare la visione del mondo odierno. Nel settore dell’attività medica era comparso un nuovo termine: “il rischio”. Un termine che non definiva qualcosa di esistente, non era una metafora, bensì il simbolo per un atto costruttivo-matematico. A differenza del pensiero cibernetico, il rischio mina ogni rappresentazione collegata alla realtà e con essa la certezza di malattia e salute. Una delle prime volte che Ivan Illich parlò pubblicamente di “rischio” fu a Bologna. Lì menzionò la difficoltà rappresentata dal fatto che non è più sufficiente -com’è invece il caso del sistema immunitario- intendere storicamente il potere simbolico di questa parola, se riferita a se stessi, in una forma disincarnata. Perché il rischio, diceva Ivan, non è più la rappresentazione di un quadro realistico (come quello del circuito cardio- vascolare pensato come computer). Questo “spazio” viene creato attraverso un calcolo di probabilità matematico, con correlazioni e scenari futuri che prescindono da tutto ciò che rende identificabile una persona specifica. Nelle sessioni di consulenza genetica analizzate da Silja Samerski, questo spostamento si esprime, al di là della metafora, in un’estinzione della persona che dice “io” e parla di sé, in un ammutolire radicale della “cliente” rispetto all’esperto, alla quale comunque quest’ultimo si rivolge personalmente. A sua volta, per il medico che basa il proprio lavoro su valori di rischio, la prima verità del rischio significa che non può più agire in modo medico. In regime di rischio, malattia e salute non più sono concetti significativi. Il posto dei sintomi riconoscibili viene preso da mere probabilità, il posto dei giudizi motivati viene preso dalla correlazione dei fattori di rischio, il posto delle prognosi sul decorso della malattia viene preso da un futuro virtuale e calcolato a tavolino e il posto della pratica esperienziale viene preso da un poker di probabilità alternative. Trattare un probabile cancro al seno e operare un tumore evidente -calcolare un rischio o riconoscere un pericolo esistente- sono due attività non paragonabili, la distanza tra le quali è almeno pari a quella tra realtà e sogno. La critica di Ivan colpisce al cuore la colonizzazione del futuro e il rapimento della persona dal momento presente che determina la sua presenza piena e reale, qui e ora, e che è all’origine dell’amicizia, del dolore e della gioia. Il seme dell’amicizia Ivan richiamava l’attenzione, passo dopo passo, sulla potenza mitopoietica della medicina e dell’impresa-salute: la promessa di rimedi istituzionalizzati contro l’ammalarsi, l’invecchiare, il morire, come una privazione della capacità di accettare il proprio destino e della “conditio” umana. Ha rivelato le minacce associate a queste promesse: la cura personale viene scoraggiata; la ricerca del dovere personale viene estinta; l’ospitalità per il sofferente diventa apparentemente inutile. La responsabilità personale per il nostro prossimo viene affidata all’istituzione. Soprattutto, la terminologia dominante distrugge il senso della realtà e la possibilità di dire “io” e di parlare di sé con senso e verità. Solo chi padroneggia l’arte di morire e di soffrire può coltivare un’arte del vivere, sostenne Ivan in una conferenza. Solo coloro che, insieme ad altri, si fanno carico e hanno il coraggio dell’incerto procedere sul filo dell’amicizia, sono in grado di dire “No, grazie!” alla “salute sotto la propria responsabilità”. In fondo era questo che Ivan cercava di coltivare: la speranza di una reciproca fraterna vicinanza era quel seme di luce che egli emanava. (traduzione di Martina Salvadori) 29 Alexander Langer Infermiere e pianeta, elogio della gratuità II tema “Infermiere e pianeta” lascia riflettere su di una analogia: il “pianeta” è un paziente, un paziente forse di “Area critica”, come voi dite. E in tal senso, probabilmente, tutti quanti ci troviamo nella necessità di fare da infermieri o da medici, dal momento che la salute del pianeta oggi, per molte ragioni che io adesso qui non elenco, è spesso in “Area critica”. La sua condizione di paziente è forse dovuta ad alcuni fenomeni mai esistiti in epoche precedenti. Dalla Seconda guerra mondiale, ma soprattutto dagli anni Sessanta, il pianeta, non riuscendo più a vivere dei frutti, intacca ormai l’albero. La rigenerazione oggi è seriamente compromessa. La quantità di inquinamento chimico, ma anche radioattivo, causa l’appesantimento complessivo dei polmoni verdi della terra (le foreste, i boschi); non ha mai raggiunto i tassi di oggi e non può che crescere. L’effetto serra, di cui tanto si sente parlare, è destinato solo a crescere. Secondo gli esperti, dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, un quarto degli alberi della terra è sparito: è come se a ognuno di noi fosse stato tagliato un quarto dei suoi polmoni. La mutilazione è quindi molto forte. È stato calcolato, anche se non siamo in grado di controllarlo, che oggi sulla terra si brucia in un giorno una quantità di combustibili fossili (benzina, carbone, sostanza biologica depositata) per la cui formazione sono stati necessari mille anni. La sproporzione tra distruzione ed eventuale ricostruzione o salvaguardia è quindi enorme. Ed è interessante a tal proposito notare come la lista delle tecnologie ambientali sia lunga almeno quanto quella delle tecnologie sanitarie. Si discute se per salvare questo paziente occorra una forte autorità, un dirigismo che sostanzialmente e centralmente decida quanto si può prelevare dalla dispensa del pianeta, chi deve controllare il razionamento, a chi spetti eventualmente fare e consumare i prelievi e così via. Come succede anche nella vostra professione, molto spesso non si riesce a capire come mai un paziente, seppure avvertito e consapevole della gravità della sua malattia, della sua situazione, non abbia né la capacità né la forza necessarie ai cambiamenti. In tal senso è inutile parlargli della nocività del fumo, dell’alcol o dello stress, se essi non hanno già compromesso la sua salute; i meccanismi che spingono nella direzione distruttiva sembrano dunque più forti. Le norme, le tecniche e le burocrazie non riescono a dare una risposta adeguata alla malattia ma possono, a volte anche molto efficacemente, curare semmai dei sintomi, bloccare dei degradi e forse anche invertirli. Nell’insieme possiamo dire che la tenden- 30 za che porta al diffondersi così endemico di malattia non si corregge se non si lavora per una svolta, per una conversione, per un cambiamento. Il tipo di cambiamento che ritengo sia richiesto per la salute del pianeta mi pare che oggi consista essenzialmente nella individuazione e nell’accettazione di limiti. Se fosse qui, Ivan Illich probabilmente parlerebbe della soglia della controproduttività, superata la quale il progresso alla fine si ritorce contro se stesso. È come se si dicesse: “La macchina dà libertà di movimento a tutti, ma se tutti la usano c’è l’ingorgo”. Il vantaggio acquisito da questa promessa tecnologica di libertà viene così capovolto e conduce a paralisi e frustrazione. Saper scoprire, accettare, valorizzare i limiti, rendersi conto che molte volte il minimo può dare il massimo, ci ren- de consapevoli del fatto che nella difficile accettazione di un limite possiamo individuare aspetti positivi. La questione dei limiti e dei confini è quella che maggiormente ho visto collegata alla vostra professione. Mi sembrate un po’ come delle guardie di un confine molto delicato; che spesso lavorano per spostare un po’ più in là il confine tra la morte e la vita. C’è un secondo parallelo tra “infermiere e pianeta” che vorrei sottoporvi. L’arte sanitaria e quella agricola, fin dall’antichità, hanno entrambe operato per correggere e migliorare la natura. Gli specialisti delle due arti, cioè i contadini, i medici, gli infermieri, gli stregoni, i sanitari in genere, anche nelle loro versioni femminili, si sono sforzati di migliorare la natura rilevandone i limiti e hanno quindi senz’altro lavorato per spostare il confine. Si pensi, ad esempio, alla fertilità spontanea della terra, alla durata della vita, al dolore, alla sofferenza, alla riparabilità dei guasti e dei danni che possiamo provocare. Agricoltura e medicina, che dall’inizio dell’umanità intervengono per correggere la natura, oggi appaiono (ritornando alla riflessione di Ivan Illich) come un monumento alla controproduttività, dove è stata supera- ta cioè la soglia in cui i benefici superano in qualche modo i costi. Il progresso molte volte è potuto apparire tale perché è riuscito a distanziare sempre di più l’ottenimento dei vantaggi dal pagamento dei costi. Vantaggi subito quindi e sempre più grandi; costi rimandati sempre più lontano nello spazio, nel tempo, magari in altri paesi, soprattutto dei tanti Sud del mondo. È come se si lasciasse una bolletta da pagare -per l’inquinamento, la deforestazione, la distruzione di qualsiasi cosa- a chi verrà dopo di noi o agli strati sociali più deboli. Tutto può essere costruito sinteticamente: la vita, la specie vegetale o animale, attraverso macchine sofisticate, tecniche, grande professionalizzazione di esperti dei diversi settori. Tutto questo è stato certamente di grande aiuto, ma ha anche originato interrogativi sulla sofferenza e sull’importanza di vivere in buona salute. Anche nella vostra professione non mancheranno, anzi non mancano, coloro che su questo aspetto della cura lavorano, guadagnano, motivano le loro carriere e trovano la loro affermazione. Uno sforzo in qualche modo controcorrente può condurre alla riconciliazione, alla ricomposizione, al recupero di interezza, di riequilibrio, di pacificazione. Ciascuno può scegliere i termini che crede opportuni per comunicare un messaggio di semplicità. Una semplicità non da ingenui, da sempli- ciotti. È la semplicità di uno scalatore che, pur volendo affrontare la vetta, è pronto a rinunciarvi se si rende conto delle cattive condizioni meteorologiche, senza sfidare una forza più grande di lui, ma accettando così anche il suo fallimento. Non ci resta che cercare di difendere accanitamente, e possibilmente di sviluppare, soprattutto le occasioni di gratuità, di informalità. Dove lo stare insieme non avviene perché qualcuno fornisce una cornice ufficiale in cui questo deve verificarsi. Di difendere e valorizzare cioè tutti i luoghi in cui ci si può ritrovare, si può sostare, ci si può parlare, senza dover far parte di una struttura, senza dover pagare un biglietto di ingresso, senza essere abbonati a un circuito, senza avere un contratto di assistenza tecnica che dopo si candida a curare la manutenzione. Da sempre, e oggi più che mai, la separatezza delle professioni, la salvaguardia della parcellizzazione e della specializzazione si basano anche sul segreto dei “chierici”, sul fatto che gli addetti parlino nel linguaggio degli addetti e solo agli addetti, senza rompere il muro della comunicazione che li separa dai non addetti. L’eccessiva dipendenza dalle macchine è tale che la perdita dell’autonomia, la perdita di sapere, di capacità di modulazione, di adeguamento dell’intervento alla situa- zione reale, sono ormai tali da rendere necessaria l’introduzione di una voce controcorrente. Purtroppo, finché la nostra società è organizzata così com’è organizzata ora, è molto difficile che funzionino degli efficaci “temperamenti”, insomma, qualcosa che moderi la dinamica spontanea del denaro e del potere. Nemmeno la ricerca farmaceutica, la ricerca medica, la sperimentazione, condizionate dalle forti ragioni dell’industria, possono essere affidate solo all’èthos e alla coscienza dei limiti dello scienziato e del ricercatore. Gli esperti difficilmente ci sapranno guarire, sapranno forse aggiustare molti guasti, ma difficilmente sapranno guarire. Chi serve l’interezza, invece, forse non sempre vorrà spingersi al massimo nella ricerca e nel montaggio dei vari pezzi di ricambio, ma forse aiuterà meglio a guarire. Non si può rimuovere l’idea di malattia. Dobbiamo convivere con lei più serenamente possibile, anche con la prospettiva della morte. Inutile esorcizzarla, rinnegarla o rimuoverla, facendo finta che non ci sia. (Estratto dalla relazione di Alexander Langer al 9° Congresso Nazionale dell’Aniarti -Associazione nazionale infermieri di area critica- del novembre 1990, dove sostituì all’ultimo momento l’amico Ivan Illich) Quaderno della Fondazione Alexander Langer Stiftung, onlus dicembre 2013 Dedicato ad Anna Segre Responsabile: Enzo Nicolodi Hanno collaborato: Anna Bravo, Bettina Foa, Grazia Barbiero, Mohsen Farsad, Serena Rauzi, Edi Rabini (coordinamento), Franz Tutzer. Foto: di Fausto Fabbri. Reportage pagg. 16-17, tratte da Segni d’arte in Oncologia, a cura di Tiziana Tacconi e Maurizio Cantore, edito nel 2008 dal Reparto di Oncologia, Ospedale di Carrara, insieme all’Accademia di Belle Arti di Brera; a pag. 3, Luxardo; a pag. 9, di Max Guarnieri; a pag. 11, di Roberto Masotti; alle pagg. 21 e 30, archivio “Una città”; alle pagg. 4, 5, 7, 9, 26, 27, 28, di Andrea Rizza; a pag. 29, archivio Fondazione Alexander Langer. Archivio delle interviste di Una città: www.unacitta.it Grafica, impaginazione e realizzazione: Una Città soc. coop., Forlì (www.unacitta.it) Stampa: Galeati, Imola (BO) Fondazione Alexander Langer Stiftung, onlus via Bottai/Bindergasse 5 I-39100 Bolzano/Bozen Tel. + Fax 39 0471 977691 [email protected] www.alexanderlanger.org Cassa di Risparmio/Südtiroler Sparkasse, IBAN: IT91S0604511613000000555000 BIC: CRBZIT2B059 Realizzato con il contributo di: Provincia Autonoma di Bolzano, Regione Trentino Alto Adige-Südtirol, Comune di Bolzano, Azienda Energetica SpA l’altro Iran, diritti delle donne, diritti di tutti Quaderno nr. 1 della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus, ottobre 2012, con testi di Narges Muhammadi (Premio Langer 2009), Nasrin Sotoudeh e Ahmad Rafat: informazioni aggiornate e testimonianze vive di alcuni tra i protagonisti delle lotte per i diritti delle donne, la libertà e la democrazia che fanno onore al loro paese. Per avere copia cartacea: [email protected] 31 Martin Berkofsky La malattia ha cambiato la mia vita Ammalarmi di tumore è stata una delle cose più importanti della mia vita. Incontrare una persona ammalata di tumore era per me un’idea vaga, che non riuscivo a comprendere bene, che non mi toccava personalmente. Quando a 40 anni ho avuto un incidente in moto e sono rimasto a letto fermo per quattro mesi, con diverse fratture nelle ossa, i medici mi avevano diagnosticato l’impossibilità di riuscire a suonare nel futuro. Ammalarmi di tumore nel 2000 è stato il mio secondo incontro con la malattia. Le cure dell’Istituto per il trattamento del cancro della mia città, che devo ringraziare, sono state per me quella che chiamo una “Alma Mater”, un passaggio estremamente prezioso che mi ha portato a sopravvivere e alla mia meravigliosa posizione odierna: di dover in qualche modo restituire il miracolo che mi aveva salvato. Nel 2003, a 60 anni di età, ho deciso di celebrare la mia nuova vita, il mio ritorno alla vita, facendo due cose che non avevo mai fatto. Io sono un musicista, non sono un mago della finanza e nemmeno uno che correva. Ho deciso di mettere alla prova le mie capacità atletiche per una corsa di 800 miglia, raccogliendo fondi per sostenere l’Istituto americano per la ricerca sul cancro. Ho cominciato dall’ospedale di Tulsa, in Oklahoma, e ho corso fino a Chicago. Ho semplicemente suonato in concerti organizzati in sale, chiese, nelle strade. Molte persone si sono avvicinate lungo i 1.400 km del percorso e ho raccolto infine 80.000 dollari per la ricerca. La gente mi guardava in modo particolare, a volte mi seguiva o correva accanto a me per qualche tratto, veniva poi ai concerti, contribuiva alla raccolta di fondi. Ho incontrato persone che avevano storie come le mie: di famiglie perdute, di amici perduti, di amori perduti. Mi facevano capire quanto importante fosse il rapporto tra musica e guarigione. Una cosa che mi ha fatto molto piacere e che mi fatto dimenticare il dolore. Ma adesso basta parlare di me, vorrei solamente festeggiare insieme a voi, Donatori di Musica, che mi avere dato questa opportunità e avete portato gioia, conforto e guarigione a così tante persone. La vostra rete di musicisti di encomiabile valore, che si donano con il loro cuore e la loro umanità dove c’è dolore e sofferenza, deve diventare fonte di ispirazione e un bellissimo esempio per tutti. Mi ricorda la frase del musicista tedesco Max Bruch: “Musik ist die Sprache Gottes”, “La musica è la lingua di Dio”. (Intervento al convegno Donatori di Musica, Bolzano, 5 giugno 2010) La musica cura. Porta la pace allo spirito, gioia al cuore, conforto al corpo fisico. Trasforma l’umanità in fraternità, incoraggia a lottare con generosità per gli altri, per alti ideali. A dedicare se stessi e il nostro lavoro per quel che nobilita lo spirito umano, a superare e risolvere, anche le malattie e i conflitti più dolorosi, e tiene alto il piano dei valori per i quali c’impegniamo in prima persona. Il ruolo dell’interprete è di donare la bellezza e l’ispirazione agli altri, di farlo con la più onesta e umile ricerca di questi valori in noi stessi. Abbiamo la fortuna di essere parte di questo processo vitale che crea bellezza, che la dona agli altri, nella volontà di creare un mondo migliore. (M.B.) Suono solo per la mia “Alma Mater”: la medicina Nato a Washington nel 1943, di origini bielorusse, Martin Berkofsky ha dato i suoi primi concerti all’età di 8 anni. è diventato un importante pianista noto anche per le sue attività di ricerca musicale. Nel 2003, per festeggiare il suo sessantesimo compleanno e la guarigione da un cancro, intraprende un lungo tour concertistico a piedi, “Celebrate Life Run”, per raccogliere fondi destinati alla ricerca sul cancro. Roberto Prosseda entra in contatto con lui per puro caso, cercando un inedito di Mendelssohn. Gli scrive chiedendogli una copia del manoscritto e riceve inaspettatamente una risposta positiva nel giro di qualche ora. Gli chiede informazioni sulle date dei suoi concerti negli Stati Uniti e si sente rispondere: “Ma io non faccio più concerti dal 2000, ora suono solo per la mia Alma Mater, la medicina”. Prosseda gli racconta dei Donatori di Musica e gli parla del Primo convegno dell’Associazione che si sarebbe svolto il 5 giugno 2010 all’Accademia Europea di Bolzano. Lui si autoinvita e fa sapere che avrebbe pagato di persona le spese di viaggio (riportiamo qui a fianco la sintesi del suo intervento). Si ferma qualche giorno a Bolzano e a Carrara. “Questi giorni -scrive al ritorno- sono stati tra i più importanti di tutta la mia vita”. E organizza in ospedali americani una stagione di Donatori di Musica, mantenendo la dizione italiana, e diventandone autorevole testimone. Per sostenere e far conoscere Donatori di Musica in Europa e negli Stati Uniti, Martin Berkofsky ha contribuito a realizzare due Cd: “Visions”, Piano Works, con musiche di Franz Liszt, per l’etichetta Arts; e “Hope”, con musiche di Beethoven, suonate anche da Atakan Sari, Roberto Prosseda e altri, edito dalla “Fondazione Cristofori”. Supplemento al n. 200 di “Una Città”. Rotocalco culturale. Anno XXIII, Dir. resp. Gianni Saporetti. Aut. Trib. di Forlì n. 3/91 del 18/2/91. Stampa: Galeati (Imola). Redaz. e amministraz.: via Duca Valentino n.11, Forlì. Poste Italiane SpA - Sped. in A. P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/04 n.46) Art. 1 c.1 CN/FC. Tassa pagata