MILANO a parola magica «miracolo economico» non lo incantò mai. Avverso com'era alla retorica, alla demagogia e all'ottimismo superficiale, preferiva affrontare la diagnosi dell'economia con lucido realismo, non senza un pizzico di ironico e aristocratico distacco. Il «punto sulla situazione» andava fatto senza compiacimenti, ma recuperando — diceva — «l'originario senso nautico dell'espressione: ossia l'accertamento di quante miglia abbiamo percorso, e a quanti nodi, sotto l'influsso di quali costellazioni procediamo, e verso quali porti, prossimi e remoti, abbiamo indirizzato la nostra rotta». Con questa prosa elegante e sobria Raffaele Mattioli apriva la relazione al consiglio di amministrazione della Banca Commerciale Italiana per l'esercizio 1960. La crescita dell'economia italiana era esaminata con equilibrio, le cause e la natura del «miracolo» ricondotte alle loro giuste dimensioni, il futuro visto con critico realismo. «Non bisogna farsi illusioni» concludeva in una pagina rimasta giustamente famosa. «I problemi che ancora assillano l'Italia sono tanti e tali che le risorse disponibili vanno inventariate e utilizzate secondo una ben graduata e concatenata scala di priorità. Solo in tal modo si arriverà a far sì che la nostra capacità di produrre e di consumare cresca senza interruzione, ossia, nel linguaggio corrente, che il "miracolo" continui e diventi tanto normale e quotidiano che a nessuno venga più in mente di chiamarlo "miracolo"». Raffaele Mattioli, rara figura di «uomo integrale», come pochi altri ha lasciato segni profondi in tutti i campi fondamentali della vita italiana di questo secolo. Ci si trova un po' smarriti di fronte a tanta poliedrica complessità: il banchiere, l'economista, l'umanista, il politico, l'editore, l'organizzatore di cultura, il collezionista formano in lui una inestricabile unità, che è possibile scindere solo artificiosamente, nel difficile tentativo di analizzarla e descriverla. Nato a Vasto, in Abruzzo, nel 1895, partecipò alla guerra tra gli interventisti democratici. Ferito e decorato, fu poi a Fiume con D'Annunzio. Laureatosi in economia a Genova nel 1920, due anni dopo diventò segretario della camera di commercio di Milano, dove rimase fino al 1925. Nello stesso periodo insegnò economia politica e politica economica all'università Bocconi. Nel 1925 entra alla Banca Commerciale Italiana (Comit) come segretario particolare del presidente Giuseppe Toeplitz. Nel 1931 diventerà direttore centrale e nel 1933 amministratore delegato, contribuendo personalmente nello stesso tempo a costituire l'Iri, risposta italiana alla crisi economica dei primi anni trenta. Tutta la sua vita è legata a quella del grande istituto di credito milanese che, nato nel 1894 con capitale straniero (soprattutto tedesco), fu uno dei centri propulsori dell'economia italiana e uno strumento decisivo per il decollo di una moderna struttura industriale. Nei lunghi anni trascorsi alla guida della Comit (nel 1960 lascia le cariche di direttore centrale e amministratore delegato per assumere quella di presidente, che manterrà fino al 1971, due anni prima della morte), Mattioli è uno dei protagonisti di maggior rilievo dell'economia italiana. Fondamentali le sue considerazioni sul ruolo e sulla natura del credito, all'interno di una concezione dell'economia che tendeva a privilegiarne gli aspetti strutturali ri- Nella foto: Raffaele Mattioll. Nato a Vasto nel 1895, entrò alla Banca Commerciale Italiana nel 1925 a ne fu alla guida fino al 1971. Il banchiere mori nel luglio 1973 spetto a quelli monetari. Era il credito e non la raccolta la ragione vitale dell'esistenza di una banca, e il rapporto impieghi/depositi doveva sempre mantenersi elevato, perché la vitalità del sistema economico dipendeva dalla capacità delle banche di esercitare nella maniera più efficace l'intermediazione finanziaria. Gli istituti di credito, insomma, non dovevano puntare alla rapida massimiz7a7ione dell'utile ma guardare oltre l'immediato, alla crescita complessiva del sistema, la sola condizione che avrebbe permesso alla banca il conseguimento di profitti non occasionali. Sulla base di questa filosofia nacque Mediobanca, istituto specializzato in finanziamenti a medio termine che Mattioli promosse nel 1946 riuscendo a coinvolgere nell'iniziativa, oltre alla Comit, le altre banche di interesse nazionale. Niente di più lontano dal gretto spirito bottegaio, dall'ingordigia di tanti industriali e finanzieri che facevano del «pochi, maledetti, subito» il loro motto. Mattioli guardava al sistema creditizio come alla base, al polmone della crescita industriale italiana, in grado di garantire quel credito a medio e lungo termine che a un più alto grado di rischio univa però un più alto tasso di ritorno sull'investimento, sia per le banche che per il sistema economico nel suo complesso. Questa filosofia faceva di Mattioli un capitalista «diverso», ammirato dalla finanze internazionale ma temuto, e forse poco amato, dal padronato italiano, di cui ben conosceva i vizi e verso il quale spesso non mancava di mostrare un aperto disprezzo. Mattioli è stato uno dei pochi veri capitalisti, uno dei pochi «grandi borghesi» che il nostro paese abbia avuto, un eretico in odore di sovversivismo nell'Italia della corruzione, del parassitismo e dell'assistenzialismo che ci hanno regalato prima il regime fascista e poi il sistema democristiano. Un'Italia priva di cultura industriale, dove Raffaele Mattioli (ma anche, su un piano diverso, Luigi Einaudi) rappresentava più l'eccezione che la regola. Se scorriamo i titoli degli articoli ap- In ricordo di Raffaele Mattioli, che fu presidente della Banca Commerciale, si tiene a Pavia una mostra di autografi di poeti e narratori del Novecento parsi in occasione della sua morte (avvenuta a Roma il 27 luglio 1973), le espressioni più ricorrenti che troviamo sono queste: «banchiere umanista», «banchiere mecenate», «banchiere letterato». In realtà non era di per sé un fatto straordinario che un banchere fosse anche un umanista. Ma — come scrisse Eugenio Montale — «resta raro e quasi incredibile che le due componenti, l'economia e l'humanitas, si siano integrate senza produrre un monstrum, un uomo più ammirabile che accostabile». Qualcuno ha detto che Mattioli fu uno degli ultimi appartenenti alla generaSi è inaugurata mercoledì scorso nel- zione cresciuta nel culto del Risorgil'aula foscoliana dell'università di Pa- mento. La sua formazione culturale è via una mostra di manoscritti autogra- infatti legata al laicismo combattivo e fi di poeti e prosatori del Novecento. tollerante dei grandi intellettuali napoLa preziosa raccolta, messa insieme in letani dell'Ottocento, come Silvio e 12 anni di lavoro dalla scrittrice e do- Bertrando Spaventa. La sua stessa parcente Maria Corti, comprende testi e tecipazione come volontario alla prilettere di molti dei nostri massimi au- ma guerra mondiale — che considerava tori contemporanei, da Montale a Mo- l'atto conclusivo del Risorgimento — è ravia a Calvino, Fenoglio, Piovene, Pa- una conferma degli umori che nutrisolini, Sereni, Volponi, Luzi. L'asse- rono la crescita intellettuale del giovagnazione del Premio Raffaele Mattioli ne Mattioli. al catalogo dei documenti conservati Umanista fu per scelta e connaturata nel «Fondo manoscritti di autori con- predisposizione, e la pratica delle lettemporanei» curato da Giampiero Fer- tere non fu per lui un semplice hobby, retti, Maria Antonietta Grignani e Ma- per quanto geniale potesse essere. Nel ria Pia Musatti (edito da Einaudi col 1925 rese possibile, con un adeguato contributo della Banca Commerciale I- finanziamento, l'uscita della «Fiera lettaliana) rappresenta una buona occa- teraria» di Umberto Fracchia e Giosione per rievocare la figura e l'opera vanni Titta Rosa; poi, negli anni trenta, contribuì a far rinascere «La Cultura», di Raffaele Mattioli. dopo la morte di Cesare De Lollis. Durante il periodo fascista continuò a stu»e›MAR diare i classici dell'economia, della storia, della filosofia e della letteratura, facendo della sua casa un polo di attrazione per quegli intellettuali laici che sarebbero stati i protagonisti della rinascita culturale italiana del dopoguerra. Legato da affinità elettive con l'intellighentsia laica napoletana raccolta intorno a Benedetto Croce, Mattioli si accollò il gravoso onere di salvare e valorizzare il grande patrimonio crociano assumendo la direzione dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli alla morte del fondatore nel 1952. Sempre a Napoli è legata la sua più importante esperienza editoriale, la direzione insieme ad Alfredo Schiaffini — dopo la morte di Pietro Pancrazi — della «Letteratura italiana. Storia e testi» della casa Ricciardi: 64 splendidi volumi divenuti celebri anche per la raffinata eleganza tipografica, ristampati da Einaudi alcuni anni fa. Mattioli fu collezionista e mecenate (si ricorda la sua predilezione per Morandi) e fondatore a Firenze della Fondazione Roberto Longhi per la storia dell'arte; e anche traduttore di Shakespeare e Coleridge, finanziatore del Vocabolario della Crusca, sostenitore del prestito internazionale per Venezia. La sua testimonianza forse più alta — esempio di cultura letteraria ed economica — sono le relazioni annuali alle assemblee generali della Comit: testi da antologia in cui l'analisi acuta e spregiudicata della situazione economica del paese è condotta con un'eleganza linguistica, un'esuberanza di umori intellettuali, una freschezza di intelligenza da lasciare stupiti ancor oggi. Mattioli «politico», infine. Non appartenne mai a un partito, ma la sua fu una delle figure principali della democrazia laica che si oppose al fascismo e tentò di dare all'Italia dell'immediato dopoguerra un volto più civile di quello che ebbe. Durante gli anni del fascismo — pur restando al suo posto e non scegliendo la strada dell'opposizione aperta — mantenne rapporti clandestini con la direzione estera del partito comunista tramite l'amico Piero Sraffa, professore di economia a Cambridge. Fu Mattioli che salvò — conservandoli nelle casseforti della Comit — i «Quaderni del carcere» di Antonio Gramsci, prima di farli arrivare, sempre per mezzo di Sraffa, a Togliatti in Francia. Di Togliatti fu amico e estimatore, ma rapporti di affinità ideologica particolarmente stretti lo legarono agli esponenti del partito d'azione (Ugo La Malfa, Adolfo Tino), di cui durante la Resistenza salvò documenti e pubblicazioni nascondendoli nelle stesse casseforti che avevano occultato i «Quaderni» gramsciani. La Comit di Mattioli fu, direttamente e indirettamente, un importante punto di riferimento (che spesso significò la salvezza) per ebrei, perseguitati politici, economisti «eretici» (come Ugo La Malfa) o di formazione troppo anglosassone (come Giovanni Malagodi) per essere graditi al fascismo. Come riconoscimento per il sostegno prestato alla Resistenza, all'indomani della liberazione Mattioli volò a Washington per trattare con gli alleati. Fu la prima di una serie di missioni economiche all'estero — alcune delle quali nei paesi comunisti — che ne confermarono la statura internazionale: tra le sue cariche vanno ricordate le vicepresidenze della Banque FranQoise et Italienne pour l'Amérique du Sud e della Banca della Svizzera Italiana, l'appartenenza alla Royal Economic Society di Londra e all'Arnerican Economie Associanon di Chicago, l'attività di consulente dell'International Finance Corporation di Washington. «Sono un liberale» dichiarò in un'intervista a Corrado Stajano, «con una tale dose di anarchia che mi consente di non essere necessariamente democratico. Sono un conservatore, ma con tale dose di senso storico che mi consente di non essere necessariamente anticomunista». Una figura del genere andrebbe studiata e rivalutata come merita. Se non altro per smentire quanti — in Italia e all'estero — credono che i nostri banchieri si chiamino tutti Calvi e Sindona. Francesco Bogliart echi° UXÇI Herrri 9040 tZ, 'no tEL m-g-rn ocol.tela e i.t~ tsQE, 21 S'OCSDI3it4 g t(Crz, 1P*44114-C,P