NewsMagazine n. 10 - Dipartimenti

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Gruppo Interstizi & Intersezioni - Dipartimento di Sociologia
UNIVERSITÀ CATTOLICA – MILANO
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Inverno 2007/2008
Nel mezzo del cammin di nostra vita (Dante Alighieri)
Cari destinatari,
siamo arrivati al numero 10 della Newsletter, un numero simbolico che è per noi motivo di soddisfazione e ci consente di formulare
alcune considerazioni sugli Interstizi e le Intersezioni. La prima è che questo piccolo strumento è servito a segnalare e commentare
con uno stile conciso e puntuale una quantità di eventi, incontri e realtà creative che sarebbero probabilmente passate inosservate ad
un occhio “non interstiziale” e “non intersezionale”. I pezzi pubblicati finora sono più di 130, ad opera di oltre 60 autori di
provenienze assai diverse, e sono ripartiti tra le 4 sezioni che trovate anche in questo numero, alle quali si aggiunge ora la nuova
rubrica dedicata alle “Città interstiziali”. Contiamo di pubblicare altre rubriche e di dare spazio a discussioni attraverso i Forum,
come trovate anche in questo numero 10. Un’altra considerazione riguarda il consenso espresso da molti studiosi e intellettuali a
questa impresa atipica: ne testimonia tra l’altro la qualità e la gamma dei Corrispondenti della Newsletter, ai quali si aggiungono ora i
nomi di Giampaolo Azzoni, Maurizio Ferraris, Margherita Pieracci Harwell e Philippe Jaccottet, uno dei massimi poeti francofoni del
secondo Novecento che saluto qui con particolare gratitudine. Grazie a chi ci ha seguito sin qui, grazie a chi continuerà a scriverci e
interagire per discutere e sviluppare la scommessa teorica e umanistica che anima la nostra iniziativa.
Giovanni Gasparini
insieme ai membri del Gruppo
SSO
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11.. IInnccoonnttrrii
- Forum su “L’empatia, tra critica e scienze umane’’:
M. Colasanto, G. Salvioni, P. Aroldi, F. Introini, L. Bosio, M. Pieracci Harwell
- (H. L. Höger), Io sono un albero
- (G. Gasparini), Gli interstizi all’Académie française
- (F. Introini), Le provocazioni di un guru. Incontro con Francesco Alberoni
22 L
Liibbrrii &
& SSccrriittttii
- (F. Melzi d’Eril), Una trilogia di Rosie Pinhas- Delpuech
- (J. Bicocchi), Mario Aldo Toscano (a cura di), Homo Instabilis. Sociologia della precarietà
33.. A
Arrttee &
&C
Coom
muunniiccaazziioonnee
- (G. Gasparini), Giorni e nuvole
- (G. Azzoni), Ethica: il blog del Centro di Etica Generale e Applicata
44.. V
Viittaa qquuoottiiddiiaannaa
- (M. Ferraris), Barboni e telefonini
- (G. Azzoni), Il passante: via interstiziale alla persona
R
Ruubbrriiccaa “Le città interstiziali”
1.(G. Gasparini), Milano: gli ecoproblemi di una metropolìna
2. (C. Pasqualini), Urbino: una concentrato di interstizialità!
3. (N. Pavesi), Novara: città oscillante
PPuubbbblliiccaazziioonnii rreecceennttii
1. Incontri
Forum “L’empatia, tra critica e scienze umane” – In margine al volume Un folle volo. Note ed esercizi
di critica empatica di G. Gasparini (Mimesis ed., Milano 2006).
@ Che un sociologo si occupi di poesia e di letteratura è un segno dei tempi. Cadute le grandi narrazioni
sistemiche e i loro olismi rispetto ai quali gli individui, ultrasocializzati, sono ridotti a variabili dipendenti;
caduti anche gli approcci caratterizzati da un costruttivismo negoziale (la realtà è ciò che viene di volta in
volta contrattata), la riflessività sociologica è portata ad analizzare le relazioni sociali rispetto ai problemi di
senso e quindi rispetto al posto delle persone nella società. Qui scatta necessariamente una dilatazione
epistemologica, il ricorso all’apporto di altre conoscenze e altri approcci disciplinari. La categoria
dell’empatia del resto non è nuova, se appena si ricordano i mondi vitali di Achille Ardigò per restare agli
autori italiani. Giovanni Gasparini la riprende per farne un criterio di comprensione di una realtà che torna a
far posto all’umano. Altri stanno assumendo questa prospettiva che dà centralità alla soggettività del rapporto
intersoggettivo. Gasparini lo fa lungo il filo di una ricerca originale condotta da tempo in termini laterali, se
si vuole, rispetto agli apporti che derivano della tradizione sociologica, ma in grado in ogni caso di gettare
sguardi inediti su ciò che chiamiamo società.
Michele Colasanto, Università Cattolica, Milano
@ Per l’antropologia parlare di empatia, come Gianni Gasparini fa riferendosi a un tipo innovativo di critica
letteraria, è parlare della speciale natura della stessa conoscenza antropologica. Dall’inizio, la ricerca delle
ragioni della diversità ha comportato, prima in modo incerto poi in modo sempre più sicuro, un confronto
con concezioni della vita e del mondo diverse ma di cui via via si constatavano la completezza, la piena
razionalità e la forte creatività. Dunque, quando si sono visti i “primitivi” non come “mancanti” di qualcosa
ma come “portatori” di qualcosa, solo allora, proprio grazie alla “osservazione partecipante” equivalente alla
“empatia” di cui parla Gasparini, la vera conoscenza antropologica è decollata. Come collegare tutto ciò alla
critica letteraria? E’ molto semplice: empatia, nella accezione di Gasparini, non vuol dire esclusivamente che
solo un artista può esercitare una conoscenza critica su altri artisti, vuole dire anche in linea generale e ampia
che la critica come tale deve ritrovare la sua vera natura di approfondimento e di valorizzazione di ciò che
un’opera dell’ingegno “è” e comunica, lasciando a un passato pretenzioso e bacchettone quella critica che si
piccava arbitrariamente (e purtroppo ancora spesso si picca) di sapere e di indicare ciò che l’artista non aveva
espresso e avrebbe invece dovuto esprimere .
Giovanna Salvioni, Università Cattolica, Milano
@ La presentazione di Un folle volo, volume di critica letteraria “empatica” di Giovanni Gasparini, offre
l’occasione di riflettere sul ruolo che un simile approccio metodologico, teso a valorizzare la dimensione
dell’empatia tra il ricercatore e il proprio oggetto di studio, può rivendicare nell’ambito più vasto delle
scienze umane e, principalmente, in sociologia. Potremmo chiederci: esiste una “sociologia empatica”? E,
d’altra parte, ci si potrebbe anche chiedere se possa esistere oggi una sociologia che non sia, in qualche
modo, empatica. Dal punto di vista della tradizione disciplinare il primo, inevitabile, punto di riferimento è
ovviamente Weber, quando, come è noto, definisce la sociologia come “una scienza la quale si propone di
intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo
corso e nei suoi effetti”. La comprensione, il verstehen, si realizza nella possibilità di assumere lo sguardo
dell’altro, le sue ragioni, i procedimenti di senso attraverso i quali ciò che potrebbe apparire inspiegabile
acquista per l’attore un significato. La sociologia “comprendente” affronta l’azione umana penetrando i
significati soggettivi che gli attori attribuiscono al proprio comportamento e al comportamento degli altri. E
lo fa, potremmo aggiungere con un buon grado di semplificazione, sulla base di una comunanza
dell’esperienza che legittima l’osservatore a “porsi al posto” dell’osservato, di “mettersi nei suoi panni”. Da
questa posizione weberiana discende, mi sembra, anche la conseguenza che ciò che è considerato degno di
essere conosciuto dipende dalla prospettiva dello studioso che effettua la ricerca. Gasparini ricorda a sua
volta che la critica empatica “non può essere esercitata verso n’importe qui, dal momento che esige una sorta
di ideale affinità elettiva tra chi la formula e chi ne è fatto segno”. Solo di passaggio, in questa sede,
dovremmo peraltro aggiungere che buona parte di quella che recentemente si è voluta definire “sociologia
riflessiva” si basa su una svolta epistemologica di natura interpretativa e qualitativa che a buon diritto
potremmo chiamare anche empatica: si pensi solo alla nozione di doppia ermeneutica, che descrive la ricerca
2
come un processo di interpretazione di interpretazioni, o, come dice Melucci, “resoconti di senso di resoconti
di senso”, narrazioni di narrazioniche coinvolgono il ricercatore in una posizione sostanzialmente solidale
con e inseparabile dall’oggetto della propria ricerca. Il going native che regge la prassi antropologica o
etnografica richiede una identificazione dell’osservatore con l’osservato che ha carattere non solo
intellettuale ma anche emozionale, sentimentale, passionale, intuitiva. Ma, ovviamente, è anche rispetto ai
destinatari del discorso critico o scientifico, i lettori cui la riflessione si offre come uno sguardo aperto, una
pratica di avanscoperta o di scandaglio, che l’approccio empatico non possa e non voglia a sua volta essere
indifferente. Scoprire la sintonia con un autore e il suo mondo è anche condividerla con altri. L’orizzonte si
amplia così anche alle emozioni di chi sta attorno al critico e torna a suggerire possibili percorsi di studio e di
ricerca: come fa, per esempio, in modo innovativo uno storico dell’arte, James Elkins, quando –con metodo
eminentemente sociologico- raccoglie e analizza lettere e testimonianze di “di gente che ha pianto davanti a
un quadro”. Da questo punto di vista, non ci sorprenderà ritrovare nel libro di Gasparini, in modo solidale ed
empatico, tanti autori che risuonano anche nel nostro cuore.
Piermarco Aroldi, Università Cattolica, Milano
@ In queste brevi righe vorrei tornare sulla questione, già sollevata da P. Aroldi, della coerenza e della
continuità epistemologiche tra impegno poetico, critico e scientifico di G. Gasparini, senza tuttavia passare,
direttamente, per il nodo dell’empatia e riflettendo piuttosto sull’attenzione al quotidiano che costituisce una
costante della triplice produzione gaspariniana. Cercherò, in altri termini, di rendermi ragione della
sensazione che mi suggerisce – e che trova conferma proprio nella scrittura di Gasparini – che più si ha a
cuore l’indagine della quotidianità più si diventa, quasi necessariamente, poeti. Mi accompagnano in questa
riflessione i pensieri di de Certeau che non a caso al tema del quotidiano ha dedicato la sua più nota opera. A
mio modo di vedere, l’invenzione del quotidiano di cui parla il gesuita francese può essere interpretata in due
modi: il primo, più noto ed evidente, ci dice che il quotidiano vive delle piccole, inavvertite e spesso effimere
“trovate” della nostra metis che, come una personale modellista, cerca di conformare alle linee della nostra
identità e dei nostri bisogni le proposte preconfezionate della cultura attraverso un’operazione – ad un tempo
passiva e attiva – di uso creativo dei significati diffusi nella semiosfera. Ma proprio perché il quotidiano
possa apparire così e non come monotona, grigia e routinaria ripetizione dell’identico e delle necessità più
triviali è indispensabile una seconda invenzione del quotidiano, da collocarsi a livello epistemologico. Qui ad
essere inventato, o meglio reinventato, è il concetto stesso di quotidiano, mediante la metamorfosi dello
sguardo che lo osserva. Ed è a questo livello che la poesia può svolgere appieno il suo ruolo conoscitivo.
Policromia, originalità e creatività del quotidiano non possono constare a uno sguardo scientifico
logocentrico vincolato, per necessità, all’operazione di sussunzione, in base alla quale è proprio la materia
particolare della quotidianità ad essere scartata come non-pertinente. Il linguaggio poetico è invece il luogo
in cui il particolare trova piena cittadinanza e disponibilità di ascolto, accoglienza e valorizzazione, poiché
non forzosamente “sussunto” ma “incontrato” e per questo rispettosamente lasciato essere nel suo stesso
essere. Il linguaggio poetico è insomma libero di indugiare sul “materiale di scarto” della scienza,
rimettendone in gioco le infinite possibilità di significazione. Senza per questo doversi sostituire alla scienza,
o intrattenere con essa rapporti di necessaria e dialettica ancillarità, la poesia è, per tornare a de Certeau,
tattica rispetto alla scienza e al modo di procedere cristallizzato nel suo linguaggio. Con il suo sguardo
obliquo, non-sussumente e non obiettivante, il poeta applica al linguaggio e ai significati il modo di
procedere della metis, trasformando i presunti “veri significati” in metafore e tropi, spezzandone le usuali
concatenazioni semantiche e aprendo nuove vie al senso e alla comprensione. Ai garanti dei “sensi unici”
questa apparirà necessariamente come una nuova lingua, o forse solo un cacofonico balbettio. Del resto,
imparare a balbettare nella propria lingua è proprio ciò che per Deleuze è massimamente difficile ma anche
massimamente auspicabile. Qualcosa di analogo può riproporsi anche sul piano del rapporto tra la critica
empatica, così come Gasparini la definisce e la pratica, e una critica più aderente ai criteri e ai metodi resi
ufficiali dalle istituzioni accademiche e dalla tradizione. Così la critica empatica non si pone come semplice
dichiarazione di anarchia metodologica e non esaurisce il suo significato in una sorta di polemos
“antipositivista”, ma si pone in dialogo con la tradizione più consolidata riproponendo al suo stesso esame
contenuti e percorsi rimasti, al suo interno, sottotraccia.
Fabio Introini, Università Cattolica, Milano
@ Il Folle volo di Gianni Gasparini è un libro che richiede l’ascolto profondo a cui il suo originale e
affascinante approccio critico richiama. Un ascolto, appunto, “empatico”, fatto di echi, riverberi, soprassalti,
scoperte, e pronto ad andare incontro anche allo scacco o al fallimento, come Gasparini scrive in apertura:
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“la penetrazione interiore nei sentieri della poesia di un altro autore è aperta a esiti imprevedibili”. E’ un
aprire “ali, vele, cuori”, dicono i versi di Luzi citati nelle pagine iniziali, un “mettersi in movimento”
nell’incertezza sulla meta e il senso stesso del viaggio: “Verso dove? ‘Dove’ / non ce n’era. Luogo non
esisteva. / In quel punto di luce e di fusione / veniva meno il tempo / e ogni frontiera”. Vengono in mente le
parole che Stefano Mazzacurati ha dedicato, nel bel saggio uscito su “Città di vita”, ai Cento aquiloni di
Gasparini (Scheiwiller 2005): “Grazie alla loro struttura psicologica folle, gli aquiloni possono allora
permettersi di parlare in un altro linguaggio, allusivo e accattivante. Possono tentare il volo, detto folle per
l’Ulisse dantesco. Possono permettersi scorribande tra la prima e l’ultima pagina della loro vita, che coincide
col libro in cui sono contenuti”. E allora tentiamo una scorribanda in questo Folle volo. C’è molta natura, in
questo libro, l’”aperto” di cui parla Rilke; c’è il tema religioso caro a Gasparini, articolato nelle sue
declinazioni del silenzio, dell’oscurità, della vita mescolata alla morte; e c’è il tema del bambino. Splendide
le pagine su Pinocchio, dove si individuano due atti poetici, quello del suo creatore e quello della sua
creatura, di Pinocchio, che corre – la corsa come volo. E ci sono la “conoscenza per ardore” di cui dice Luzi,
e il “fremito”, il francese “jaillissement”, lo sgorgare o zampillare: “qualcosa che prima non c’era e ad un
certo punto sorge, si genera e a sua volta è generatore della poesia stessa, dell’opera d’arte”. Il viaggio è
vasto: si va dai provenzali agli stilnovisti, a Petrarca, fino a Baudelaire, a Rimbaud il veggente e oltre,
seguendo un desiderio di luce, l’aspirazione alla luce che attraversi l’oscurità. Mi chiedevo, leggendo, se la
gentilezza, la gentilezza di cui si nutrivano i provenzali, sia ancora possibile. La risposta, avvicinando
empaticamente questo Folle volo, è sì.
Laura Bosio, scrittrice
@ Con gioia si vede riemergere dal bel libro di Gianni Gasparini Un folle volo, un tipo di critica che fu, più
che teorizzata, praticata dai grandi saggisti della NRF: il Gide di Dostoïevski, il Rolland di Tolstoi, e in
particolare Charles Du Bos, di cui Maritain scrisse nel 1953 che era per lui «il più grande dei critici
francesi». Critici “empatici” avant la lettre, che cioè interpretavano a partire da una “identificazione” senza
la quale il “distacco” (la diade è rivisitata da Starobinski), che pure si richiede, non avrebbe mai permesso di
cogliere viva l’essenza di un poeta. Su questa via procede Gasparini, che ha coniato la pregnante definizione
di “critica empatica”. Il libro si articola in tre parti (II, III, IV), precedute e concluse dal “discorso sul
metodo” (I, V). La parte II, consacrata ai poeti, inizia con un saggio sul Mario Luzi maturo, che riconosce in
Nel magma il libro che segnò la sua svolta. Da quello il nostro critico riesce a passare senza contraddizione a
una poetessa che di Luzi fu amica, ma, appunto, non accettò quella svolta, Cristina Campo. Con una
citazione di “Diario Bizantino” che lo porta a evocare Eliot e Giuliana di Norwich, il nostro critico salda la
frattura: la materia imperfetta che corre verso la perfezione cantata dopo gli anni sessanta dal poeta
fiorentino, è in qualche modo fraterna all’esperienza di fuoco della morte che tutto separa − la rosa dal bacio
e dalla fiamma e dalle stelle le nevi nel Diario campiano – ma per ricomporre il mondo. Si giunge così a
Lorca, in cui Gasparini riconosce il suo primo maestro: «Para mi maestro de entonces y de ahora» dedica. Si
tratta qui di un Lorca giovanile, che canta le piccole cose con spirito d’infanzia. Da questo tema, da lui
privilegiato, il critico approda al grande tema a cui tutto il suo discorso puntava, quello religioso: «Cristo
appare qui come il garante dell’equilibrio tra poesia, condizione infantile e senso della vita». Il tema delle
piccole cose contemplate con “meraviglia”da cui si approda all’eterno ricompare nel saggio su Jaccottet,
altro spirito al nostro squisitamente fraterno: i fiorellini variopinti, i mandorli sulla collina, come una nebbia,
«devaient bien donner “sur autre chose”». Da queste immagini di lievità il passo è breve alla prosa tutta
intrisa di poesia studiata nella III parte: la prosa di Pinocchio e del Petit Prince. Il burattino e il fanciullo che
amava una rosa rispecchiano subito l’essenza “senza perché” della poesia. L’infanzia non dubita della
gratuità, non dubita che il valore del senso della vita prevalga sulla sua conservazione. È da essa che ci
giunge l’indicazione che illumina insieme il senso della vita e della poesia (e della critica): «Non si vede che
col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». Con l’elogio della ciclicità si apre la IV parte, impostata sul
rapporto di poesia e tempo, ripercorso, a partire da Petrarca, fino a Luzi, con una particolare meditazione su
Eliot: «Ma comprendere il punto d’intersezione del senza tempo col tempo è operazione da santi…» In
appendice, accanto a una lunga e sapiente intervista con Luzi condotta da Gasparini nel 1992 una lettera del
’91, con cui il grande poeta consacra il valore della critica empirica: “Gli effetti di quella che Lei chiama
empatia sono eccellenti e sopravanzano per intelligenza reale quelli che si possono talora sperare da
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un’analisi metodica preordinata con intelligenza. Davvero Lei è entrato nel “vivo”, cioè dove le vibrazioni
del testo espandono tutto il loro significato”.
Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois - Chicago
Io sono un albero
“Io sono un albero, sono molto solo. Quando piove, piango. Per amor di Dio, ascoltatemi. Bevetevi un caffè,
in modo da scacciare il sonno e aprire gli occhi, guardatemi attentamente, vi racconterò perché sono così
solo.” Inizia così uno dei capitoli del romanzo Il mio nome è rosso di Orhan Pamuk che contiene numerosi
rimandi per indagare e comprendere ciò che possiamo chiamare “Biografie degli oggetti” – titolo di un
convegno internazionale organizzato l’ottobre scorso dalla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di
Bolzano. Gli oggetti intorno a noi – di cui può far parte, perché no, anche un albero – vivono delle storie
proprie che li coinvolgono in percorsi di esistenza a volte tranquilli e ripetitivi, a volte burrascosi o
addirittura fatali (penso, con riferimento al nostro albero, per esempio alle piogge acide): percorsi
strettamente condizionati, in ogni caso, dalle azioni dell’uomo che esercita il ruolo di padrone della
Creazione con il diritto (e potere) di generare, vivere e distruggere a piacere qualsiasi “accessorio” del suo
habitat. Le vite di ciò che subisce tale destino contengono, quindi, preziose informazioni su moventi e
ambizioni dell’agire umano: informazioni reali, imparziali, non manipolate che raccontano – a chi le sa
leggere – storie vere, storie vissute. Due sono le domande fondamentali a questo proposito: 1) Quali tecniche
adottare per riuscire a cogliere (con sensibilità e correttezza) le informazioni contenute in quelle storie? 2)
Come interpretare e, in seguito, adoperare tali informazioni nel contesto di nuovi progetti del vivere?
L’albero di Pamuk (del quale abbiamo appreso, nel frattempo, che si tratta di un albero disegnato su un
foglio di carta) sottolinea quasi disperatamente l’importanza di queste domande:”Io non voglio essere un
vero albero ma il suo significato.” Una delle possibili risposte (e tecniche di indagine propositiva) consiste
nell’attività del cultural engineering1. Di quella tecnica e di alcune altre parlerà la documentazione del
convegno che la Facoltà di Bolzano sta preparando in questi mesi. Per ulteriori informazioni:
[email protected], [email protected], [email protected] oppure http://www.aiap.it/notizie/1/9518
Hans Leo Höger, Libera Università di Bolzano
Gli interstizi all’Académie française
Anche per chi abbia familiarità da lungo tempo con Parigi, l’essere accolti al 23 Quai de Conti, sede da
secoli della più prestigiosa istituzione culturale di Francia e forse d’Europa, l’Académie française, provoca
una certa emozione e intimidisce, per la consapevolezza di penetrare in un luogo carico di una storia fatta da
uomini fuori del comune. Sono stato ricevuto dapprima in un salone al piano terra ricco di quadri e
porcellane che non doveva essere molto mutato negli ultimi due secoli; poi François Cheng, che mi aveva
invitato, è venuto a prendermi e mi ha accompagnato di sopra, nel salone di ritrovo che ha una mirabile vista
sulla Senna e sul Louvre: qui abbiamo conversato per un paio d’ore con grande concentrazione e cordialità,
spaziando dalla letteratura alla spiritualità e alla filosofia, dal taoismo al cristianesimo e allo Spirito, che è
“ce qui fait la différence entre l’humain et le divin”. Cheng, cinese di nascita e francese di adozione, è
diventato uno degli immortels dell’Académie nel 2002, onore mai riservato prima ad un cinese. Studioso
della pittura e dell’estetica cinese, saggista, poeta, autore di romanzi di grande impatto emotivo (fra cui Le
Dit de Tianyi, straordinario affresco sulla Cina del Novecento che ha ricevuto il Prix Femina 1998), Cheng
ha posto al centro del suo approccio estetico e poetico l’idea del vide médian, quell’elemento intermedio di
vuoto che consente l’articolazione tra principi opposti, in particolare yin e yang. Si tratta di una prospettiva
che, mutatis mutandis, ha punti di contatto con la categoria di “interstizio” elaborata in chiave socioantropologica e con il lavoro di ricerca relativo: proprio questo è il motivo che mi aveva indotto, dopo aver
letto alcune opere di Cheng, a scrivergli al 23 Quai de Conti. Cheng mi ha risposto, e si è stabilito così un
1
Cfr. Hans Höger. Cultural Engineering: il design come progetto globale. In: Hans Höger (a cura di). Design Education. Editrice Abitare Segesta.
Milano 2006, pp. 140-148.
5
proficuo dialogo, prima per lettera e poi di persona. Non posso tacere qui, oltre alla profondità del pensiero
di Cheng - che spazia tra cultura cinese ed europea, tra lingua cinese e lingua francese nella quale scrive da
decenni, tra scrittura filosofica e scrittura poetica -, la profonda e semplice umanità dell’uomo, la sua
attenzione concentrata e quasi disarmante nei confronti del proprio interlocutore. E non posso dimenticare la
sintonia che Cheng ha affermato nei confronti della “prospettiva interstiziale” che anima la nostra
Newsletter, al punto tale da diventarne un Corrispondente: congedandosi, egli ha voluto dedicarmi la sua
silloge poetica intitolata Le livre du vide médian (2004) con una dedica “en toute empathie”. Gliene sono
particolarmente grato.
Giovanni Gasparini, Università Cattolica, Milano
Le provocazioni di un guru – Incontro con Francesco Alberoni in occasione della pubblicazione del
volume “Leader e masse” (Rizzoli, 2007), Università Cattolica, Milano, 22 ottobre 2007.
Anche visti da vicino, i personaggi che vivono nel mediascape sembrano essere fatti di quella sostanza
elettronica che caratterizza le loro epifanie mediali. L’effetto è un’impalpabilità e un distacco dal contesto
fisico che ne aumenta, inevitabilmente il carisma e li rende ancor più simili a guru. E proprio come guru
tecno-zen, avvolto nel suo soprabito nero à la Matrix è apparso Francesco Alberoni in occasione del suo
incontro con gli studenti della Cattolica di Milano tenutosi lo scorso 22 ottobre, su invito del prof. Vincenzo
Cesareo. Dopo un breve cenno ai temi della sua ultima opera, la discussione ha imboccato rapidamente la
strada dei i massimi sistemi. Del resto è proprio la tensione a uno sguardo totalizzante e a una teorizzazione
ambiziosa che Alberoni tiene a presentare come marchio di fabbrica del proprio pensiero. Soprattutto oggi, a
fronte di una sociologia descritta come vittima del suo stesso minimalismo e della sua passione per le
effimere mode culturali del presente , a partire da quella della “liquidità”. A questo punto Alberoni è un
fiume in piena. Lascia la sua posa ieratica per abbandonarsi alla più energica provocazione intellettuale, con
la grinta di chi si sente e si definisce, intellettualmente, ultimo tra i mohicani. Le invettive sono tutte per
Bauman e per la già citata retorica della liquidità. E per una sociologia che – preoccupata di registare, al
presente, le piccole sfumature dei micro-contesti – ha completamente smarrito la capacità di contestualizzare
le proprie osservazioni e di abbracciare con lo sguardo i grandi corsi e ricorsi della storia mondiale e delle
macro-trasformazioni sociali,. Che da questa critica possa poi derivare l’esortazione a non occuparsi delle
“piccole cose” non è del tutto condivisibile specie in materia di mutamento sociale dal momento che, come
anche la teoria dell’evoluzione insegna, i grandi mutamenti spesso nascono negli interstizi, proprio a partire
dai piccoli, marginali e nascosti germi di novità e di non-allineamento agli standard. Ma forse siamo caduti
nella trappola della referenzialità, dimenticando che la chiave ermeneutica corretta, quando parla un guru, è
sempre quella della provocazione intellettuale.
Fabio Introini
2. Libri & Scritti
Una trilogia di Rosie Pinhas-Delpuech
Rosie Pinhas- Delpuech, nata nel 1946 a Istanbul dove ha vissuto fino al 1965, data della sua partenza per la
Francia, ha compiuto studi di filosofia e letteratura. Per una quindicina di anni ha insegnato filosofia e
francese in licei e università di Israele. Attualmente vive a Parigi ed è una delle maggiori traduttrici di opere
contemporanee dall’ebraico. Fra l’altro ha tradotto alcuni dei romanzi di David Grossman. Dirige la collana
“Lettres Hebraiques” delle edizioni Actes Sud che nel 1998 hanno pubblicato la sua prima opera letteraria,
Insomnia, une traduction nocturne seguita da Suite Byzantine (2003) e Anna (2007). In Suite Byzantine,
Rosie Pinhas Delpuech si pone di fronte al problema di conoscere quale sia stata veramente la sua lingua
madre. dal momento che quella che viene chiamata “lingua madre” era la lingua di suo padre: il francese. La
bambina, al crocevia di più lingue, l’ebraico spagnolo, il tedesco della madre,s’innamora dell’Asia centrale e
della lingua turca che le diventa familiare man mano che impara a scriverla e che quelle misteriose lettere
dell’alfabeto e quei suoni sembrano offrirle immagini meravigliose. La sua esplorazione del mondo
attraverso il prisma delle lingue prosegue in Anna che chiude la trilogia. Nel suo ultimo libro Rosie PinhasDelpuech indaga su una figura enigmatica della sua infanzia, Anna, il cui destino ha avuto ripercussioni sulla
sua vita, deviazione necessaria per inserire la parte straniera di sé nella lingua che oggi abita: il francese.
Francesca Melzi d’Eril, Università degli Studi di Bergamo
6
Homo Instabilis. Sociologia della precarietà, a cura di Mario Aldo Toscano, Jaca Book, Milano, 2007.
Finalmente un punto fermo. Può sembrare un paradosso, se pensiamo di riferirci proprio all’ Homo
Instabilis, solingo protagonista di un equilibrio perduto; invece non solo bisogna constatare il
raggiungimento di un traguardo estremamente concreto (nonostante l’inafferrabilità dell’argomento), ma
ammirare in tutto questo un notevole monumento alla ratio della sociologia. Il Dipartimento di Scienze
Sociali dell’ Università di Pisa, attraverso un rigorosissimo lavoro nell’ambito di un Programma di Ricerca
di Rilevante Interesse Nazionale, colma la lacuna lasciata dalla pletora di contributi precedenti, spesso attenti
solo a singoli aspetti del poliedrico oggetto d’indagine: la precarietà. Il progetto, elaborato dal Professor
Mario Aldo Toscano e successivamente sviluppato dal Gruppo di Ricerca, indaga il regresso a quella
transitorietà del lavoro di cui la rivoluzione industriale ci aveva fatto perder memoria, spaziando nel tempo e
nello spazio, dal globale al locale, senza mai perdere di vista il necessario raccordo tra teoria e realtà
empirica. Un discorso definitivo sulla precarietà non è possibile, e senza alcun dubbio non è ciò a cui siffatto
lavoro intende approdare, per quanto la consistenza dell’ opera possa sollecitare nel lettore la convinzione di
essere giunti, se non alla soluzione dell’arcano, quantomeno molto vicini ad essa. Niente di tutto ciò. Alcune
questioni talora controverse vengono in effetti risolte ma, per quanto le nebbie possano essere state fino ad
ora estremamente fitte e dense, lo spiraglio di enorme respiro aperto dall’ Homo Instabilis lascia –
volutamente - molti interrogativi aperti. La flexicurity scandinava forse diverrà un modello da imitare ma, per
ora, l’unica risorsa disponibile per contrastare le patologie delle dinamiche occupazionali di un mercato del
lavoro in crisi sembra essere, specie nel contesto italiano, la famiglia. Probabilmente, solo un pensiero
“inflessibile” e “un’azione altrettanto decisa” – scrive in conclusione Mario Aldo Toscano, curatore del testo
- possono davvero ricondurre a una più opportuna centralità il tema della “solidarietà al di là della
competizione”, recuperando così quel deficit politico accumulato in decenni di conduzione solo parzialmente
responsabile della società. Al pubblico la scelta se raccogliere o meno la sfida.
Julie Bicocchi
3. Arte & Comunicazione
Giorni e nuvole (Film di Sergio Soldini, 2007, Italia/Svizzera)
Meglio di un libro di sociologia, il film racconta una storia di disoccupazione adulta e di caduta nella
precarietà, ambientata in una Genova suggestiva per i suoi squarci di case, cielo e mare. Elsa e Michele, una
coppia tra i 40 e i 50 anni, vive una condizione socio-economica borghese agiata: la casa lussuosa, la barca, i
viaggi in capo al mondo, un’occupazione redditizia per lui mentre lei, svolge un’attività quasi gratuita nel
restauro; e poi una figlia ventenne che vive fuori casa con un ragazzo inviso al padre. Improvvisamente, la
svolta: Michele viene messo fuori dagli altri due soci dell’azienda e si trova disoccupato; riesce a
nasconderlo ad Elsa per qualche mese, per consentirle di laurearsi in Storia dell’arte, ma poi entrambi
prendono atto degli eventi e reagiscono, riuscendovi più o meno bene. Cambiano casa, mettono in vendita la
barca e cercano un nuovo lavoro: Elsa trova dapprima in un call center e poi come segretaria, sostituta
temporanea di una dipendente in maternità; Michele, dopo aver rifiutato una prima possibilità di lavoro con
retribuzione ridotta rispetto a prima, si riduce progressivamente a cercare un qualunque tipo di attività
precaria, persino quella di pony express o di imbianchino. L’amara parabola discendente dello stile di vita
della coppia – che si riflette a tutti i livelli, in casa e fuori – incide soprattutto su Michele, che non trova più
neppure la forza di cercare un lavoro qualunque, e ha conseguenze dilaceranti sullo stesso rapporto con la
moglie. La precisione spietata con cui incede il racconto fa capire l’importanza che nella nostra società
mantiene il lavoro, ai fini dell’identità personale e della cittadinanza sociale: questo è, paradossalmente, il
limite della narrazione filmica di Soldini, che sconfina forse eccessivamente nel sociologico. Ma le
suggestioni della fotografia, la grazia apparentemente indecisa di Elsa (Margherita Buy) e soprattutto il finale
indicano qualcosa che va al di là di una inquietante fotografia della mobilità sociale discendente o di un
“perdere” che non si può più considerare oggi un fenomeno interstiziale nel senso dell’eccezionalità. La
conclusione è infatti che Michele ed Elsa decidono di riconciliarsi e affrontare insieme la nuova realtà, e lo
fanno mettendosi per terra a guardare dal basso in alto l’affresco di un’Annunciazione riscoperto in un antico
palazzo grazie all’intuizione di Elsa. Morale: l’arte aiuta ad alzare gli occhi al cielo, a guardare oltre la dura
dimensione economica della vita quotidiana. O anche: l’arte è un messaggio (annunciazione, annuncio) per
chi sta perdendo la speranza.
Giovanni Gasparini
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Ethica: il blog del Centro di Etica Generale e Applicata (http://blog.centrodietica.it/)
Se si pone mente alle domande di etica che salgono dai singoli e dalla comunità politica e civile e si guarda
alle elaborazioni scientifiche che dovrebbero contribuire a dare risposte a queste domande, ci si avvede di
certi ritardi della cultura etica a livello nazionale e internazionale. È come se la cultura di filosofia della
pratica, dopo la ricca stagione del dibattito politologico degli anni sessanta e settanta, e dopo la crisi degli
anni ottanta e novanta per via del declino del marxismo, non riuscisse ad attrezzarsi in modo adeguato alle
domande e alle attese del nuovo millennio, che indubbiamente sono rivolte, in maniera prevalente, allo
spazio teorico proprio dell'etica, anche quando si trovano a gestire i nodi irrisolti dell'economia, della società
civile e/o della comunità politica. Da questa inadeguatezza è sorto a Pavia il “Centro di Etica Generale e
Applicata” con l’obiettivo innanzitutto di mettere in rete quelle risorse (persone e iniziative) che possono
favorire una crescita dell’etica intesa come elaborazione teorica rilevante per i problemi delle società
contemporanee e, quindi, interessante non solo per lo studioso, ma anche per il cittadino. Da qualche mese il
“Centro” è anche un blog che, con cadenza quasi quotidiana, fa circolare notizie e prese di posizione in
campo etico.
Giampaolo Azzoni, Università di Pavia
4. Vita quotidiana
Barboni e telefonini
Una volta per riconoscere un barbone bastava la parola, adesso è più complicato, potrebbe essere tante cose.
Un lavoratore atipico in crisi di liquidità, uno che ha dato troppo retta al consulente finanziario della sua
banca, un separato già benestante che deve pagare il mutuo della ex-casa, gli alimenti, l’avvocato, la Bocconi
e le lezioni di violino dei figli. Una volta, poi, i barboni erano tutti italiani. Al massimo francesi. Ma adesso
ci sono barboni di ogni nazionalità comunitaria (l’integrazione avanza) e poi ci sono i sans papiers. Sono
barboni anche loro? Certo che no. Essere barboni, ma barboni per davvero, è una scelta, in molti casi
comprensibilissima: perché alienarsi tutto il giorno sul lavoro, e alla sera andare a cena da quei fessi di amici
della pubblicità tv che ti servono il Botticello Folonari, quando alla mattina ti puoi prendere il Botticello al
DìPerDì o al GS e trascorrere la giornata in santa pace? Essere sans papiers, invece, è un destino, tutt’altro
che perseguito, e l’ultima cosa che vorrebbe essere un sans papiers è un barbone. Come si fa a dirlo? C’è un
criterio semplicissimo. Visto che è ancora carico di speranze sociali, il sans papiers è sempre munito di
telefonino, che lo collega sia con altri sans papiers, sia con possibili datori di lavoro. Il barbone, invece, no,
fateci caso. Nessun barbone ha il telefonino, perché nessun barbone ha speranza. E il giorno in cui vedeste un
barbone con telefonino, non fidatevi, è un infiltrato.
Maurizio Ferraris, Università di Torino
Il passante: via interstiziale alla persona
“Nous sommes dans les mains du passant, à sa merci.”
Georges Bernanos
Il concetto di persona è ancora inadeguato rispetto al ruolo che è chiamato ad avere. Sembrerebbe che
proprio l’importanza attribuita alla persona abbia agito come quelle potenti luci che, invece di illuminare,
impediscono all’occhio di vedere. Si è verificata quindi una semplificazione che, contravvenendo anche al
dato etimologico (persona = maschera), ha appiattito i modi d’essere della persona sui registri alti e sublimi
del volto. Pertanto è urgente un pensiero della persona non moralistico, ma realistico. Solo così si potrà avere
una assiologia della persona che si presenti come proposta interessante per la società contemporanea. Per
ripensare il concetto di persona, penso sia utile partire da una figura tipicamente interstiziale: il passante.
Passante è colui che si incontra fuori di casa, che si dà senza qualità, senza volto, ma con l’unica
determinazione dell’essere umano. Passante è colui che non si differenzia dagli altri uomini (non è un
passante né l’amico, né il poliziotto in divisa), ma si differenzia da tutto ciò che non è umano. La
fenomenologia del passante ha come suo momento essenziale l’affidarsi del passante all’altro passante, anzi
l’affidarsi può essere pensato come momento genetico del passante: il passante si produce quando si ha
l’affidamento dei passanti gli uni verso gli altri. Si tratta di una fiducia generica: razionalmente eccessiva (in
quanto basata sull’incoercibile libertà dell’altro), ma esistenzialmente necessaria. L’interstizialità del
passante è evidenziata dalla compresenza in esso di necessario ed effimero. Il passante è necessario perché
elemento costitutivo di una molteplicità di situazioni sociali (ad es. non si può dare città senza passanti). Ma
il passante è anche effimero perché viene trasformato dall’attenzione selettiva. Questo paradosso è bene
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mostrato dalle statue di Duane Hanson, l’artista che più di ogni altro ha fatto dei passanti l’oggetto delle sue
opere. Infatti, grazie all’uso di particolari tecniche e materiali, ci ha lasciato una ricca galleria di passanti
(anonime presenze in supermercati, fermate dei bus e altri luoghi pubblici) in nulla distinguibili dal modello.
Ma le sculture di Hanson sono anche, in quanto oggetti su cui sosta selettivamente lo sguardo, esemplari
unici, non comuni, ma eccezionali.
Giampaolo Azzoni
Rubrica “Le città interstiziali”
@ Milano: gli ecoproblemi di una metropolìna
La locuzione “Città interstiziali”, a cui è dedicata questa nuova rubrica, è volutamente polivalente. Può
riferirsi a città che vivono in una situazione intermedia tra lingue e culture, come avviene nelle aree di
confine (Bolzano, Trieste, Gorizia); a città collocate al limitare di una penisola o di un continente (Gibilterra,
Tangeri, Reggio Calabria) e a città portuali (Genova, Rotterdam); o, come si vede negli esempi qui forniti di
Urbino e Novara, a casi che rispondono ad altri criteri. “Città in/terstizia/li” richiama per assonanza, e forse
non solo, le indimenticabili “Città in/visibi/li” di Italo Calvino (Einaudi 1972); la differenza, a parte altri
dettagli, è che qui le città vengono identificate con i loro nomi reali. Come nel caso di Milano, a cui per
motivi di appartenenza vorrei dedicare in apertura un affettuoso cenno di saluto: dopotutto MilanoMediolanum-Mailand è sin dalle origini etimologiche città intermedia, che sta in mezzo alla pianura del Po;
ed è sicuramente città italiana ed europea tra le più atte per la sua posizione a svolgere funzioni di
collegamento, non solo in termini di trasporti e commerci ma di comunicazioni e confronti interculturali.
Milano, pur essendo di modeste dimensioni (una “metropolìna” con i suoi abitanti che sono molto meno di
un milione e mezzo), aspira a giocare un ruolo di metropoli a tutti gli effetti. In questa logica mi sembra
rientri anche la contrastata adozione, dal gennaio 2008, dell’ecopass, tassa di entrata nella vasta area dei
Bastioni (6,2 kmq) che ha qualche sinistra corrispondenza con i dazi che venivano riscossi un tempo ai
caselli ancora esistenti in alcune Porte milanesi. Il Sindaco ha spiegato in una lettera ai milanesi i vantaggi
ecologici che ne deriverebbero: diminuzione del traffico (10%) e abbattimento delle polveri sottili (30%)
nell’area interessata. Al riguardo, chiunque può formulare due ovvie osservazioni: 1) alla diminuzione del
traffico interno ai Bastioni farà riscontro un pesante aumento del medesimo nelle zone a ridosso, già
duramente provate dal movimento diurno dei pendolari autotrasportati; 2) le polveri sottili non potranno
certo fermarsi al valico virtuale dei Bastioni, poichè nessuna “Porta di Mordor” di tolkieniana memoria potrà
arrestarle. Così, ai pedoni milanesi, che intensificheranno le loro nervose deambulazioni nel centro cittadino,
non resterà che camminare (attività tipicamente interstiziale), attendere i mezzi pubblici (idem) e respirare,
con le polveri sottili, le promesse di una eclatante ecobugia. E la metropolìna ambrosiana, se non provvederà
a potenziare radicalmente i trasporti pubblici, rischierà di diventare di fatto meno accessibile: una città da
evitare e da attraversare da lontano anziché da visitare e da gustare da vicino.
Giovanni Gasparini
@Urbino: un concentrato di interstizialità!
La città di Urbino rientra a pieno titolo tra le città interstiziali, per molte e diverse caratteristiche, che la
rendono così peculiare e per molti aspetti unica. Città di storia, di cultura, di arte, di studi universitari così
come di sapori eno-gastronomici, Urbino assomiglia per molti aspetti ad una sofisticata signora anziana che
ama vivere nella tranquillità e nel lusso dei suoi appartamenti, concedendosi talvolta fuggitivi sguardi
attraverso le ampie vetrate del salone dalle quali si possono scorgere poco lontani da un lato il mare e
dall’altro le montagne. Chi vive a Urbino ha imparato ad amare la città, a viverla dal di dentro, a godere di
quanto essa propone e dispone senza particolari aspirazioni a valicare le mura, senza insofferenza per un
tempo che scorre spesso lento e “sempre uguale”. Dentro c’è tutto quello che serve, tutto quello che piace.
Urbino è una città che vive con gli studenti universitari e per gli studenti, quasi tutto ruota intorno a loro, dal
business degli affitti, ai locali di intrattenimento, dalle tante librerie agli spazi interstiziali per studiare. Una
città sicuramente a misura d’uomo, ma soprattutto di studente. Chi viene a studiare a Urbino sa infatti di
poterlo fare con tranquillità se vuole, ma sa anche di potersi divertire, perché spostandosi solo di pochi
chilometri si può raggiungere una città di mare di tutto rispetto come Pesaro e una costellazione di città del
loisir per antonomasia come Cattolica, Riccione e Rimini. Urbino è una città in cui ci si riappropria
magicamente del tempo, del proprio tempo, del tempo naturale, del tempo del proprio corpo. I tanti sentieri
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alberati che costeggiano le strade conferiscono
allo spazio una certa umanità, ma soprattutto
riconnettono l’uomo alla natura, consentendogli
di accorgersi dell’alternarsi delle stagioni,
dell’inequivocabile arrivo della primavera così
come del sopraggiungere dell’autunno. A
Urbino non si può fare a meno di camminare
con passo lento…le tante salite, rallentando
l’andatura, aprono inimmaginabili quotidiani
spazi di socialità e di scoperta. Proprio durante
la sosta si ha occasione infatti di conoscere,
riconoscere e salutare persone, così come di
accorgersi di un particolare di un edificio a cui
mai prima si era prestato attenzione, di alzare lo
sguardo al cielo e veder volare tanti aquiloni
colorati di forma e colore diversi pensando per
un momento di stare sognando o di trovarsi
fuori dal mondo, in un tempo fantastico. La
realtà è che a Urbino ogni anno si svolge la
festa degli aquiloni, un omaggio a Giovanni
Pascoli e a tutti coloro che sanno mantenere
nella vita, a tutte le età, un animo da fanciullino.
Cristina Pasqualini, Università Cattolica, Milano
@Novara: città oscillante
Interstizi e intersezioni cittadine: tutte le città hanno nella loro storia dimensioni di confine o di intrecci.
Alcune, però, più di altre, soprattutto a causa della loro collocazione geografica. E’ il caso di Novara, terra
tra due fiumi (il Sesia e il Ticino), città piemontese da un punto di vista amministrativo, ma fortemente per
storia e cultura, alla Lombardia, e a Milano in particolare. Già le prime testimonianze del territorio novarese
(della provincia, in particolare) sono legate alla Lombardia: la necropoli di Glisente a Castelletto Ticino e
un’urna rinvenuta a Casalgiate vanno infatti riferite alla cultura di Canegrate, collegata con il mondo
palafitticolo e diffusa nella Lombardia nord-occidentale. L’oscillazione tuttavia fra Piemonte e Lombardia
rappresenta una costante della storia del territorio novarese. Pensiamo a San Gaudenzio, uno dei primi
vescovi della città, che la leggenda (ma quanto significato simbolico hanno le leggende!) vuole nativo di
Ivrea, compagno e scriba di San Martino a Milano per alcuni anni, “minister et comes” di Sant’Eusebio
(vescovo di Vercelli), amico di Sant’Ambrogio che gli preannunciò l’elezione a Vescovo e, infine,
consacrato vescovo di Novara da San Simpliciano, immediato successore di Ambrogio. Tale intreccio di
relazioni è storicamente poco credibile, non fosse altro per problemi di cronologia, ma è eloquente di una
novaresità vissuta sempre in modo interstiziale fra le due appartenenze. Se da una parte il carattere schivo e
un po’ calcolatore dei novaresi sembra più legato al rigore sabaudo e alle caratteristiche delle province più
agricole di Vercelli e Alessandria, è anche vero che il dialetto è assai più simile a quello milanese. Del resto,
Dino Campana, uscendo dal carcere di Novara nel 1917, scrisse la lirica “La dolce Lombardia coi suoi
giardini”, dimenticandosi di trovarsi in Piemonte! Venendo a tempi più recenti, non possiamo tacere che
Novara gravita anche culturalmente più verso Milano che verso Torino: il Teatro Coccia, uno dei teatri di
tradizione del nostro Paese, ha rappresentato fra Ottocento e Novecento l’anticamera del ben più noto e
prestigioso Teatro alla Scala. La vicinanza del capoluogo lombardo si fa sentire anche in molte scelte di
formazione e professionali dei novaresi. Piemontesi o Lombardi? Interstiziali, un po’ qui e un po’ là,
guardando anche un po’ alla Svizzera: a conclusione delle lotte tra i Francesi e gli Sforza per il possesso del
ducato di Milano, cui Novara era annessa, nei primi anni del Cinquecento divenne vescovo della diocesi
gaudenziana Mattia Schiner, vescovo di Lion. A seguito di una sanguinosa lotta fra Francesi e Svizzeri, che
controllavano in quegli annoi Novara per conto degli Sforza, molti territorio che erano novaresi passeranno
alla Confederazione (Lugano, Locarno e le terre dell’odierno Canton Ticino).
Nicoletta Pavesi, Università Cattolica, Milano
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Pubblicazioni recenti
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D. Demetrio, La vita schiva, R.Cortina, Milano 2007.
F. Introini, Comunicazione come partecipazione. Tecnologia, rete e mutamento socio-politico, Vita
e Pensiero, Milano 2007.
F. Johansonn, Effetto Medici, Innovare all’intersezione tra idee, concetti e culture, Etas, Milano
2006.
M. Minghetti, F. Cutrano, Nulla due volte. Il management attraverso le poesie di Wislawa
Szymborska, Scheiwiller, Milano 2006.
E. Morin, L’anno I dell’era ecologica, Armando, Roma 2007.
C. Visentin, Il Canton Ticino visto dagli altri, G.Casagrande, Lugano 2007.
I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
Tel. 02.7234.2547
Cristina Pasqualini e Fabio Introini
(Segreteria)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
[email protected]
Tel. 02.7234.3764
Il Gruppo “Interstizi & Intersezioni”:
Piermarco Aroldi, Giovanni Gasparini, Fabio Introini, Cristina Pasqualini,
Nicoletta Pavesi, Giovanna Salvioni, Paolo Volonté
Corrispondenti:
Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes
Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi
(Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara
(Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università
Cattolica – Milano (Teatro); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia);
Laura Bosio, scrittrice (Fiction); François Cheng, Académie Française – Parigi; Francesca D’Alessandro, Università
Cattolica – Milano (Letteratura italiana); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato,
Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e
formazione); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano
(Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare
Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture
delle Americhe); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril,
Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia);
Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi
(Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Alberto Ricciuti, Milano (Medicina);
Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Lucetta Scaraffia, Università La Sapienza
di Roma (Storia contemporanea); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà
Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Giorgio Simonelli, Università Cattolica – Milano (Cinema e
Televisione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica
– Milano (Economia)
Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia:
www.ais-sociologia.it
Numero chiuso il: 28 gennaio 2008
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