PROGETTO INTERCULTURE
Linee guida per la progettazione degli interventi delle
scuole
A cura del Comitato Scientifico
Ottobre 2007
Guida Intercultura
(finale)
1. INDICE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Indice .......................................................................................... 2
Premessa ...................................................................................... 3
Aspetti metodologici ........................................................................ 4
3.1 La progettazione in ambito formativo .............................................. 4
3.2 L’intervento socio-educativo ......................................................... 7
Analisi del contesto ........................................................................ 10
Criteri di qualità dei progetti ............................................................ 13
5.1 Integrazione ........................................................................... 15
5.2 Interazione interculturale........................................................... 17
5.3 Gli attori e le risorse ................................................................. 20
Relazioni con le famiglie.................................................................. 23
Glossario ..................................................................................... 28
Bibliografia .................................................................................. 35
2
2. PREMESSA
Questo documento, redatto dal Comitato scientifico del Progetto Interculture della
Fondazione Cariplo, propone alcune linee-guida e criteri qualitativi che dovrebbero
caratterizzare
un
“buon”
intervento
educativo/didattico
nell’ambito
dell’intercultura. Gli orientamenti proposti sono diretti a sostenere il Comitato di
progetto, le équipes degli operatori e le scuole selezionate nelle tre province di
Milano, Brescia e Mantova, nelle diverse fasi dei Progetti Pilota: la progettazione
partecipata dei percorsi, la sperimentazione e la riflessione critica sulla sua
realizzazione.
Principi e criteri qui indicati, condivisi dal Comitato, presentano alcune linee unitarie
sul significato delle azioni interculturali in campo educativo, i loro obiettivi e
metodi. Questi vanno tuttavia messi in relazione con la complessità della
progettazione educativa in ambito scolastico, che deve tener conto dei diversi
contesti, gradi di scuola, livelli di responsabilità, culture degli operatori. Per offrire
materiali e indicazioni il più aderenti possibili alla dinamicità delle situazioni in cui i
Progetti Pilota verranno svolti, il Documento si articola nei seguenti punti:
gli aspetti metodologici (di Maddalena Colombo) canalizzano l’iter, le fasi, le
logiche e le modalità di intervento di un progetto in ambito scolastico con le
specificità derivanti dalla prospettiva interculturale;
l’analisi del contesto (di Susanna Mantovani) mette a fuoco le problematiche
specifiche dell’applicazione della logica progettuale interculturale;
i criteri di qualità dei progetti (di Milena Santerini) evidenziano le linee guida
sulla cui base qualificare i progetti pilota sui tre assi dell’integrazione,
dell’interazione interculturale e degli attori/risorse.
gli aspetti relativi alla relazione con le famiglie straniere vengono approfonditi da
Paolo Branca;
il glossario (di Agostino Portera) permette infine di condividere i significati di
alcuni termini la cui apparente chiarezza nasconde spesso diverse interpretazioni.
3
3. ASPETTI METODOLOGICI1
3.1
La progettazione in ambito formativo
Come si colloca il metodo progettuale nell’ambito scolastico? E’ opportuno ricordare
che il modus operandi dell’azione scolastica poggia su una lunga e solida tradizione
di programmazione didattica ed educativa, ossia sulla definizione di obiettivi
specifici coerenti con indicazioni generali relative ai piani di studio (una volta i
Programmi ministeriali, oggi le Indicazioni nazionali e le Linee guida). Nella logica
programmatoria, la definizione delle metodologie didattiche, degli approcci alla
persona, delle risorse da investire e dei risultati attesi è per lo più assente. La
verifica dei risultati è demandata all’acquisizione di conoscenze/abilità da parte
dello studente, con prove di accertamento in varie tappe del percorso. La
programmazione definisce in gran parte il funzionamento delle organizzazioni
didattiche garantendo stabilità e continuità all’azione; d‘altra parte sempre di più si
mostra inadeguata di fronte a compiti complessi e dinamici richiesti alla scuola,
poiché: richiede procedure di ispezione e certificazione che possono risultare rigide
in taluni casi e deboli in tal altri; comporta ripetizione (a volte acritica) delle
procedure; di rado è creata ex novo da chi la svolge ma l’insegnante si limita ad
adeguare le indicazioni ad alcuni parametri contestuali e personali.
Lo sviluppo di progetti – che storicamente si deve all’esperienza dell’autonomia
scolastica - vuole introdurre un elemento di novità rispetto alla precedente logica,
per almeno tre motivi; intanto gli obiettivi progettuali solo in parte sono
sovrapponibili a quelli della programmazione didattico-educativa, bensì possono
essere definiti su scale non omogenee: obiettivi di scuola; di classe; di gruppo;
individuali, secondo una struttura di rimandi ‘a scatole cinesi’. Inoltre la
progettazione richiede l’utilizzo di risorse aggiuntive al funzionamento ordinario: si
pone dunque il problema di dove reperirle, come usarle, come evitare il ‘drenaggio’
delle risorse destinate al funzionamento ordinario, come assicurare il gettito delle
risorse nelle fasi di sviluppo del progetto, ecc. Infine, rispetto alla programmazione,
si colloca in maniera più aleatoria nel complesso delle attività della scuola (sia dal
punto di vista gestionale sia didattico): un progetto può nascere ma può anche
arenarsi; può essere condiviso da più attori oppure gestito da singoli e ignorato dal
resto della comunità; può rappresentare una caratteristica qualificante di un intero
istituto oppure una proposta di eccellenza che tocca solo alcuni, ecc.
Pertanto la filosofia progettuale contiene elementi di forte attrazione per chi è
desideroso di uscire dalla logica programmatoria e ne ha sperimentato i limiti; ma
nello stesso tempo implica l’assunzione di maggiori rischi ed imprevedibilità sia per
chi propone il progetto, sia per chi lo realizza, e più ancora per chi si trova ad
osservarlo dall’esterno con il timore di ‘subirlo’. Esso va continuamente collocato in
rapporto alla programmazione, e legittimato attraverso il dialogo con i vari comparti
dell’organizzazione didattica, facendo leva sui beneficiari diretti, e esplicitando le
ricadute indirette sulla programmazione ordinaria.
1
Di Maddalena Colombo, Università Cattolica di Brescia.
4
Per ridurre i rischi di impatto negativo, di caduta della motivazione, ecc. da parte
degli attori scolastici variamente coinvolti, la metodologia della co-progettazione è
senz’altro efficace. La progettazione stessa, infatti, rispetto alla programmazione si
propone come azione:
discorsiva;
formativa;
decisionale;
localizzata;
che può coinvolgere un numero illimitato di attori, proprio per la possibilità di
ampliare-restringere gli obiettivi in ragione di bisogni in crescita. Anzi, la presenza di
più attori scolastici ed extrascolastici comporta l’ingresso di nuove fonti da cui
mobilitare le risorse.
Un iter progettuale-tipo prevede quattro fasi distinte:
a) istruttoria generale (analisi dei bisogni, analisi del contesto e delle risorse,
verifica delle condizioni di fattibilità);
b) progettazione (definizione obiettivi, aree di intervento, metodi e approcci,
destinatari, operatori, strumenti, tempi, costi e fonti di finanziamento);
c) realizzazione (sviluppo azioni, monitoraggio azioni, documentazione);
d) valutazione (verifica dei risultati e valutazione del processo).
Una parte importante della fase preliminare (istruttoria) è costituita dalla analisi
delle condizioni di fattibilità. Questa segue logicamente e temporalmente l’analisi
del contesto/dei bisogni (v. oltre), che mira innanzitutto a stabilire la direttrice
lungo la quale impostare il cambiamento desiderato.
Una volta conosciuta questa traiettoria, nel nostro caso in riferimento a obiettivi
specifici e generali del progetto interculturale, occorre valutare se esistono
condizioni favorevoli alla partenza del progetto e al suo sviluppo nell’arco temporale
stabilito. Esse sono determinate da una serie di fattori predittivi, elencati anche
nella Guida ai progetti di educazione interculturale (Colombo, 2007).
Il primo fattore chiave sono le risorse umane a disposizione dell’organizzazione
scolastica; non solo un team di lavoro con obiettivi dichiarati (gruppo progettuale e
gruppo operativo possono essere distinti), ma anche la presenza entro questo team di
persone competenti nell’area interculturale, che abbiano una motivazione esplicita e
se possibile una formazione specifica o abbiano intenzione di svolgerla in vista del
progetto. Questo team solitamente prende il nome di Commissione Intercultura o
Integrazione o Alunni stranieri. Anche lo stile di lavoro comune è fondamentale:
l’abitudine ad interagire nei gruppi produttivi implica la capacità di accettare la
suddivisione dei ruoli, l’assunzione di incarichi specifici e differenziati, la capacità
decisionale per lavorare in relativa autonomia sia dagli altri team sia dalla dirigenza
scolastica, la capacità di mediazione per affrontare eventuali conflitti. In questo
quadro risulta condizione favorevole l’esistenza di una figura dirigente che indirizza
5
e supporta, non solo in vista di un controllo ma anche in funzione promozionale, la
cui leadership – sia istituzionale che ‘trasformazionale’2 - è per lo più riconosciuta.
Il secondo fattore chiave è l’esistenza di rapporti di collaborazione con enti esterni
alla scuola, che si possa configurare come lavoro in rete: dagli accordi per il
regolamento di iscrizione/accoglienza, ai patti di reciprocità per interventi
occasionali (es. laboratori linguistici in condivisione), alle convenzioni per la
realizzazione di azioni/servizi strutturati. Il lavoro in rete si può anche differenziare
per livelli di intensità dello scambio (raccordo, collaborazione, cooperazione), e
secondo la natura dei beni scambiati (informazioni, risorse umane, servizi, strutture,
infrastrutture, tecnologie). La rete infine può essere tematica, cioè dedicata a un
progetto mirato, oppure essere ricompresa in un più ampio livello di raccordo (es.
Piano di zona); può essere indipendente ovvero intersecata ad altre reti di intervento
sul territorio. Fanno parte, in genere, di reti che realizzano progetti nell’area
dell’intercultura enti come:
scuole (istituti singoli o in rete, centri di formazione e di alfabetizzazione, istituti
statali, non statali - paritari e privati);
università (statali, non statali, private);
enti locali (Regioni, Province, Comuni – singoli o associati, Comunità montane,
Aziende sanitarie locali);
enti nonprofit (onlus, associazioni e reti – di italiani e stranieri, organizzazioni
non governative, cooperative, agenzie del tempo libero, agenzie internazionali,
fondazioni);
enti privati (imprese, associazioni).
Il terzo elemento decisivo per la fattibilità del progetto è la possibilità di accedere a
fonti aggiornate per la lettura del territorio e ai materiali prodotti da interventi
analoghi nel medesimo territorio/ambito. Questi costituiscono la “memoria storica”
di tutta la comunità che sta intorno alla scuola o ente educativo e fa da spinta al
nuovo progetto: poiché la composizione demografica dei nostri territori è in continuo
cambiamento, è fondamentale ricordare sempre da quale punto si è cominciato,
come si stanno evolvendo i contesti e imparare dalle precedenti sperimentazioni.
Attraverso tali dati, fonti e materiali, si potrà ricostruire l’identikit del contesto
attuale, i suoi problemi ricorrenti e contingenti e progettare linee di intervento con
diverse prospettive temporali (breve-medio-lungo termine) in base ai cambiamenti
locali prevedibili (flussi, domande in crescita di servizi o interventi, ecc.). Non si
opera mai in un vacuum sociale, formativo e informativo, pertanto un’attenzione
particolare sarà da dedicarsi ai fattori di resistenza (prevedibili o certi) al progetto:
opinioni contrarie, pregiudizi, incompatibilità tra correnti culturali o politiche,
eventi pregressi di chiusura e intolleranza, ecc.
2
Si può distinguere la leadership istituzionale da quella trasformazionale facendo riferimento allo
schema di Weber: mentre la prima deve la sua legittimazione alla posizione/ruolo nell’istituzione, cioè
alla sua base tecnico-razionale, la seconda forma di leadership trova legittimazione nel carisma della
persona che la esercita. In pratica un leader istituzionale assicura continuità e razionalizzazione delle
azioni nel gruppo, il leader trasformazionale trasforma se stesso e gli altri membri incarnando valori,
istanze etiche e progettualità a lungo termine.
6
Un servizio efficace per non partire da zero è costituito dagli archivi locali delle
progettazioni socio-educative e didattiche nella medesima area di intervento: ne
esistono a livello provinciale e comunale (grandi comuni); sul territorio lombardo
opera dal 1999 la Banca dati dell’educazione interculturale della Fondazione ISMUOsservatorio regionale per l’integrazione e la multetnicità, che ha raccolto,
classificato e indicizzato i progetti avanzati da scuole ed enti extrascolastici.
Consultando l’archivio è possibile non solo ricostruire percorsi e tendenze progettuali
degli enti affini e prossimi a quello in cui si opera ma anche costruire nuove intese,
aprire piste di lavoro innovative in continuità con quelle precedenti, nella direzione
di una costruzione collettiva dell’operare che è sempre auspicabile in aree così
complesse e mutevoli.
3.2
L’intervento socio-educativo
La progettazione entra nel vivo dell’intervento con la definizione degli obiettivi e la
scelta di una più aree specifiche di azione. L’esame della situazione di partenza
facilita la formazione di una scala di priorità, mettendo in gerarchia i bisogni e gli
obiettivi, in modo da evitare interventi eccessivamente generici o eccessivamente
circoscritti. Relativamente all’ambito interculturale possono essere individuate
diverse aree (es. accoglienza/integrazione; pedagogia/interazione interculturale;
formazione; ecc.), anche da coprire simultaneamente con una pluralità di azioni, ma
in questo caso occorrerà tener conto della necessità di un bilanciamento fra azioni
rivolte ai cittadini stranieri e azioni rivolte alla comunità locale. La definizione
dell’area o delle aree di intervento porta immediatamente alla scelta dei destinatari,
interni o esterni alla scuola, diretti (es. studenti) o indiretti (es. comunità
scolastica). Poiché gli obiettivi della sperimentazione riguardano sempre
un
cambiamento, i destinatari sono il principale bersaglio (target) di tale cambiamento;
in prospettiva, coloro che in una prima fase del progetto sono i destinatari (es.
genitori o studenti) possono diventare in una fase successiva gli operatori del
progetto stesso, avendo sperimentato su di sé atteggiamenti culturali, esperienze di
contatto, tecniche comunicative, utili da trasferire ad altri destinatari.
Un elemento forte del progetto è costituito dagli operatori (coloro che abbiamo
denominato sopra risorse umane) e dalla loro capacità di stabilire un approccio
adeguato nel proporre le azioni, sia riguardo al contatto con i destinatari
(rispettandone ad esempio aspettative, stili, timori, ecc.), sia come forza di
coinvolgimento/convincimento verso l’elemento di novità che verrà introdotto
mediante il progetto. Poiché la relazione formativa è influenzata di fatto dalla
personalità e dalla cultura degli attori, oltre che dai vincoli contestuali e dalla
tenuta metodologica, occorrerà verificare le risorse professionali degli operatori
(motivazione, competenze di ruolo, conoscenze specifiche). Il progetto stesso sarà
occasione di verificare il livello di partenza di queste risorse, perché possa essere
eventualmente potenziato mediante le azioni del progetto. Infatti, la ‘pratica
trasformativa’ dell’educazione interculturale porta necessariamente gli attori a fare i
conti con i propri assunti di base (valoriali, motivazionali, tecnico-professionali)
nell’interazione con gli altri, sia nel team (colleghi) sia nella situazione operativa
(destinatari); esplicitando e riconoscendo tali assunti – sottoforma di schemi di
pensiero, regole implicite, presupposizioni, miti e generalizzazioni culturali – si fa
esperienza della diversità, da cui sorge inevitabilmente un incremento di
professionalità nel senso richiesto dagli obiettivi di questo tipo di intervento.
7
L’approccio da suggerire è quello della comunicazione interculturale, che parte dal
riconoscimento paritetico degli interlocutori, passa dal distacco nei confronti della
propria cultura (vedere la propria cultura dall’esterno, cioè come la vedono gli altri,
percepire se stessi come membri di una società non necessariamente ‘pura’),
sperimenta la comprensione dell’altro (comprendere ciò che non possiamo accettare)
e tenta di raggiungere un adattamento reciproco. Per facilitare questo itinerario di
sviluppo personale e professionale è opportuno offrire agli operatori la possibilità di
lavorare in gruppi inter-professionali, affiancando insegnanti, educatori, volontari,
assistenti sociali, animatori, mediatori, ecc., ciascuno portatore di una propria
specificità culturale in merito alle pratiche educative.
Un’attenzione particolare è da dedicare alla scelta dei metodi e degli strumenti
operativi, che saranno non solo in linea con gli obiettivi scelti e con le condizioni
poste dalla struttura/infrastruttura di lavoro, ma anche miranti a aggiungere valore
di innovazione alla proposta. Anche metodi tradizionali o comunque più diffusi –
come lezioni basate su testi, presentazioni frontali, compiti individuali, ecc. –
possono essere utilizzati con funzione innovativa, rivisitandoli riguardo a tempi e
spazi di realizzazione, o riguardo a contenuti straordinari. L’interesse e la curiosità
derivati dall’incontro con l’Altro sono una fondamentale risorsa di apprendimento,
che va coltivata e non dissipata mirando solo a ‘stupire’ (approccio folkloristico) o a
‘normalizzare’ (approccio assimilativo), ma occorre stimolare percorsi di
elaborazione critica e approfondimento tenendo conto anche di atteggiamenti e
reazioni delle persone italiane e straniere di fronte alle proposte. In questo senso, il
laboratorio, come spazio di esperienza e di riflessione sull’esperienza, rappresenta
una proposta metodologica più efficace della lezione in aula. L’uso di artefatti
(oggetti ed elementi visuali), di qualunque tipo e linguaggio, è un’altra indicazione
preferenziale: dando forma ai nostri atteggiamenti, sentimenti, pregiudizi, ecc. è più
facile prenderne distacco e facilitare una razionalizzazione; rispetto ai procedimenti
astratti, la concretizzazione imposta dagli artefatti è anche più stimolante
indipendentemente dall’età per la comunicazione e l’espressione.
La durata dell’intervento impone poi un piano di azioni per il monitoraggio
sistematico delle attività e delle ricadute immediate (reazioni, difficoltà, tendenze
scaturite dal progetto stesso, ecc.). Alla base di questa funzione vi è senz’altro la
messa in opera di competenze specifiche di osservazione: ossia quell’attività basata
sul “guardare” e sull’”ascoltare” che ci permette di descrivere un oggetto
utilizzando necessariamente una tecnica di scrittura e di fornire un’interpretazione.
L’osservazione può essere:
focalizzata o generica (in base all’ampiezza del raggio osservativo, da
osservazione di individui a osservazione di collettivi/spazi);
partecipante o distante (in base alla posizione dell’osservatore);
di tipo medico (osservazione di sintomi); psicologico (osservazione di
comportamenti); etnografico (osservazione di interazioni sociali e scambi di
significato) in base all’interesse preminente dell’osservatore;
naturale o di laboratorio (in base al contesto in cui si svolge l’attività osservata).
Dall’osservazione durante lo svolgimento del progetto derivano informazioni
indispensabili per l’orientamento operativo ed eventualmente per il suo
riorientamento; non solo, aumenta progressivamente la capacità diagnostica e
l’intensità della partecipazione degli operatori, si raffina la sensibilità per ciò che è
8
‘visibile’ e per ciò che ‘rimane invisibile’ malgrado la volontà di comprendere; in
altre parole l’osservatore mette alla prova il suo ‘campo cognitivo’ sperimentandone
la relatività e i limiti, nonché maturando un più forte desiderio di allargarlo per
arrivare a comprendere l’Altro negli aspetti indecifrabili. Nel caso delle attività che
riguardano direttamente le dinamiche interculturali, vi sono alcuni focus di
attenzione che l’osservatore non potrà ignorare: i linguaggi usati e le modalità di
comunicazione e presa di parola tra persone di diversa cultura; gli scambi
interculturali (chi apprende da chi? Cosa e come ci si scambia i tratti delle reciproche
culture?); i processi di inclusione ed esclusione su base culturale, religiosa o etnica;
le immagini o aspettative di integrazione di cui sono portatori i membri del gruppo di
maggioranza e quelli del gruppo di minoranza (chi vuole integrarsi? Come ? perché?
Cosa ci si aspetta che l’altro faccia per integrare? ecc.).
Aspetto fondamentale della metodologia dell’intervento socio-educativo è infine la
documentazione, un modo per poter lasciare tracce e poterle riguardare. Ogni
attività va documentata se si vuole garantire la sua continuità e la circolazione
sociale delle idee e dei prodotti che ne derivano. La documentazione delle
esperienze educative, infatti, è fondamentale perché queste possano condurre un
“ciclo di vita” superiore all’occasionalità e all’estemporaneità, perché siano stimolo
e riferimento per diversi tipi di operatore, divenendo anche materiale ricchissimo per
la formazione e la creatività dei formatori. Si possono raccogliere e ordinare i
materiali prodotti in tutte le fasi del progetto (progettazione, aggiornamento
insegnanti, fase sperimentale, fase di verifica) con più o meno unitarietà nelle
modalità di registrazione e nella scelta dei documenti prodotti, contemplando sia
materiali “soggettivi” cioè emersi dalla creatività dei singoli, sia oggettivi cioè
scaturiti da un reporting esterno. Le funzioni della documentazione sono varie: di
memoria e ricostruzione storica degli eventi; di riflessività e di apprendimento
dall’esperienza; di comunicazione all’esterno e tra i membri della stessa rete di
progetto.
9
4. ANALISI DEL CONTESTO3
Il processo di verifica approfondita e a mente aperta, che si interroghi non soltanto
sugli aspetti che caratterizzano le situazioni studiate tradizionalmente presi in esame
dalla ricerca (ad esempio, nel nostro caso, le caratteristiche socio-culturali delle
famiglie e degli insegnanti, gli aspetti organizzativi e le tradizioni di ciascuna
istituzione scolastica, le tradizioni culturali e religiose alle quali i diversi soggetti
fanno riferimento, ecc.) è essenziale per approfondire e comprendere i processi
culturali (Tobin, Wu e Davidson, 1989, Rogoff, 2003) e a maggior ragione per studiare
quel complesso processo culturale che è l’esperienza scolastica per tutti i soggetti
che ne sono coinvolti.
Si tratta, da un lato, di analizzare e descrivere gli elementi che caratterizzano ogni
situazione studiata (nel nostro caso il contesto di ciascuna scuola partecipante al
progetto) per evidenziare sia gli aspetti comuni e la loro declinazione specifica, al
fine di raggiungere un certo livello di generalizzabilità dei risultati, o per lo meno
indicare quali sono le caratteristiche di tipicità, dall’altro di descrivere e tenere
conto degli elementi specifici di ogni situazione all’interno della nicchia ecologica
che la caratterizza e dei significati che essi assumono per i diversi attori (Mantovani,
2007). Che significato ha/può assumere ad esempio l’esperienza di gruppo per i
bambini, gli insegnanti e i loro genitori? Che significato ha/può assumere la
valutazione? Che significato hanno/possono assumere gli incontri tra genitori e
insegnanti?
In generale, per analisi del contesto si intende quel processo conoscitivo che le
organizzazioni compiono o dovrebbero compiere prima di accingersi a realizzare
interventi/cambiamenti che possono avere un impatto sia sul contesto organizzativo
al quale si fa riferimento , sia sull’ambiente circostante alla situazione/istituzione
studiata. Questa conoscenza infatti, secondo è un elemento cruciale per
comprendere i mutamenti che si produrranno e sostenerne gli effetti se questi si
riveleranno congruenti con le aspettative. La possibilità di disporre di informazioni
complete e ben organizzate sul contesto nel quale si intende promuovere la
progettazione consente di rendere più significativo il progetto, di metterne in luce la
rilevanza possibile per i soggetti che vi partecipano ed è quindi una delle condizioni
per il suo successo
Le finalità dell’analisi del contesto, in generale sono :
delineare una visione integrata della situazione nella quale si renda conto delle
connessioni tra la microsituazione studiata e meso e macro-livelli
(Bronfenbrenner, 1985);
formulare delle ipotesi sulle potenziali interazioni e sinergie tra i soggetti e le
organizzazioni/istituzioni coinvolte nel progetto in modo diretto o indiretto;
valutare i punti di forza e le risorse umane e ambientali alle quali appoggiarsi per
innescare l’intervento che mira a processi di cambiamento;
3
Di Susanna Mantovani, Università di Milano – Bicocca.
10
valutare gli elementi di debolezza dei quali tenere conto nella progettazione
dell’intervento pena l’inefficacia dello stesso e che possono essere essi stessi
elementi sui quali orientare parte dell’intervento preliminare o successivo (ad
esempio la stabilità di una coppia di insegnanti in una classe a tempo pieno in una
scuola primaria può essere una condizione per l’intervento e al tempo stesso una
finalità da raggiungere stabilmente);
verificare i vincoli e le opportunità offerte dall’ambiente di apprendimento.
In un progetto di ricerca/intervento è essenziale che, al fine di individuare indicatori
e informazioni al tempo stesso rilevanti e confrontabili, si riesca in qualche modo a
delimitare il campo di indagine alle condizioni e ai fenomeni più rilevanti , pur nella
consapevolezza
della
possibilità
pressoché
infinita
di
approfondire
l’analisi/conoscenza di ciascun contesto. Preliminarmente alla definizione precisa
del progetto di intervento è in particolare necessario valutare la disponibilità dei
soggetti e la loro oggettiva raggiungibilità e accessibilità e il tempo a disposizione
per perseguire gli obiettivi del progetto medesimo in modo da definire, in modo
realistico, il livello di approfondimento possibile.
Si fa riferimento, in genere, sia all’analisi del contesto interno, che è formato dagli
elementi che compongono la struttura interna della situazione studiata (classe,
scuola,ecc.), sia al contesto esterno costituito sia dal livello intermedio e cioè dagli
elementi che compongono la comunità nella quale la situazione studiata è inserita,
sia ad elementi, forze, tendenze più generali che possono avere natura politica,
sociale, valoriale, ideologica e che possono influenzare le idee, le rappresentazioni e
i comportamenti di tutti gli attori coinvolti.
In un approccio interculturale è altresì essenziale prendere in esame non solo gli
elementi del contesto interno ed esterno, ma anche i significati che i diversi attori vi
attribuiscono. Evitando un approccio etico imposto nel quale il ricercatore imponga i
propri assunti culturali a favore di un approccio emico o etico derivato nel quale si
cerca non solo di rappresentare il punto di vista culturale degli appartenenti a una
specifica comunità (nel nostro caso una classe o una comunità scolastica e di
ciascuno dei suoi attori portatore di una propria cultura) ma anche di trovare metodi
e attivare situazioni nelle quali sia possibile osservare, interpretare e negoziare tra
tutti gli attori le prospettive di tutti i partecipanti e i significati che essi
attribuiscono alle situazioni nelle quali vivono o vengono coinvolti (Rogoff, 2003;
Mantovani 2007).
Sono dunque necessarie, e vanno previste nel progetto, procedure, modalità
interpretative , ma anche conoscenze e teorie condivise per riflettere sui modelli
significativi osservati e pervenire a interpretarli in modo condiviso. La condivisione
almeno parziale dei significati è finalità essenziale in un processo di
ricerca/intervento in generale e in particolare di ricerca interculturale, ma - alla
luce delle considerazione che precedono – è necessario delimitarne necessariamente
l’approfondimento mantenendo consapevolezza del valore comunque parziale dei
dati ottenuti ed esercitando dunque estrema cautela nel generalizzarne i significati
pena il ricadere nella stereotipizzazione e nel pregiudizio che costituiscono il primo
ostacolo che la ricerca medesima intende superare. La tensione tra generalizzabilità
– di dati e delle azioni - e validità ecologica è sempre presente infatti nella ricerca
interculturale (Caronia, 1997, 2004).
11
Il processo di analisi/interpretazione/condivisione dei significati del contesto è reso
complesso dalle diverse culture di provenienza - ma diverse sono anche le “culture”
dei bambini, dei genitori e degli insegnanti (Corsaro, 2003) – e richiede non solo
consapevolezza e delicatezza metodologica (Mantovani, 2001; Mortari, 2007), ma
anche la ricerca di strumenti metodologici adeguati, sia nella raccolta dei dati sia
nella loro analisi. Ad esempio, per rendere possibile la condivisione con i genitori
immigrati (senza utilizzare esclusivamente il filtro del mediatore/interprete) è
necessario essere consapevoli dei limiti costituiti da situazioni/contesti solo di parola
(incontri individuali, incontri di gruppo nella scuola) e, al fine di dare voce e di
sentire le voci (Bachtin) può essere utile utilizzare anche strumenti di tipo diverso
quali ad esempio l’utilizzazione della documentazione attraverso immagini (Tobin,
Mantovani, Bove, 2007).
12
5. CRITERI DI QUALITÀ DEI PROGETTI4
Il momento attuale è caratterizzato da un forte aumento del numero degli alunni
immigrati, (anche nella scuola secondaria) e da una tendenza alla loro
concentrazione in alcune scuole. Tale popolazione è però variegata, in quanto
comprende sia alunni neo-arrivati che non padroneggiano l’italiano, sia alunni nati o
cresciuti in Italia, italofoni e con un senso di appartenenza al nostro paese.
Numerose altre differenze sono relative ai paesi di provenienza, al progetto
migratorio della famiglia, alla lingua. Le strategie di integrazione e, più in generale,
la qualificazione in senso interculturale delle scuole ad alta percentuale di immigrati
di cui si occuperanno i Progetti Pilota devono, quindi, tener conto di tale varietà di
situazioni e dei diversi obiettivi da individuare.
Si tratta cioè, in base a quanto proposto dal Progetto Interculture della Fondazione
Cariplo, di:
a) aumentare il rendimento
dell’“integrazione”);
scolastico
degli
alunni
immigrati
(dimensione
b) migliorare le politiche di accoglienza potenziando la qualità interculturale
(“azioni interculturali”).
I due obiettivi devono essere visti come distinti ma, allo stesso tempo,
complementari; ne consegue che le strategie da implementare e da sostenere nel
processo di accompagnamento delle scuole prescelte devono poter essere elaborate
nella sinergia tra questi due elementi.
Il primo obiettivo, infatti, sarebbe limitato se rivolto solo ad un rapido e pieno
inserimento dei bambini e dei ragazzi stranieri, soprattutto se non italofoni,
attraverso misure di insegnamento di Italiano L2, attività di tipo compensativo e di
recupero. Questa prospettiva, che chiameremo di integrazione, corre il rischio di
considerare solo gli elementi relativi all’adattamento degli alunni al sistema scuola,
la trasmissione degli apprendimenti necessari e il raggiungimento di un livello
adeguato di rendimento.
Per questo motivo, tale obiettivo va visto in sinergia col secondo, e cioè le azioni
interculturali (miglioramento delle relazioni, prospettiva interculturale nelle
discipline, attività contro le discriminazioni, qualificazione dei rapporti con le
famiglie, conservazione della lingua di origine). Porterebbe fuori strada, come è
avvenuto, pensare queste finalità come un’opzione puramente aggiuntiva di tipo
“simbolico-culturale”. Questo equivoco è nato anche dalle caratteristiche di molte
azioni cosiddette “interculturali” diffuse finora nelle scuole, che hanno accentuato la
dimensione culturalista nella relazione coi ragazzi immigrati, ricorrendo a visioni
stereotipate e folkloriche della cultura d’origine, spesso “sovrapposta” più che
vissuta dagli alunni, soprattutto se da vario tempo in Italia.
In realtà, la dimensione interculturale deve essere vista in stretto rapporto con la
questione del rendimento scolastico. Ambedue gli elementi devono fare perno sulla
valorizzazione delle caratteristiche personali e specifiche di ogni alunno, con la sua
4
Di Milena Santerini, Università Cattolica di Milano.
13
storia, la sua carriera scolastica, i suoi atteggiamenti verso lo studio, la qualità delle
sue relazioni con gli insegnanti e i compagni. Una visione personalista della cultura
rende ogni bambino/ragazzo un soggetto unico con le sue particolarità, dove cultura
d’origine, provenienza e le caratteristiche del presente si fondono in un profilo
irripetibile. Ciò significa darsi come obiettivo la complementarità tra le attività di
integrazione (accrescimento del rendimento, delle modalità di accoglienza,
insegnamento Italiano L2) e quelle di azione interculturale (miglioramento delle
relazioni, azioni contro i pregiudizi, rispetto della lingua e cultura d’origine).
Il primo modo per monitorare la qualità dei progetti, quindi, è quello di verificare
che le azioni promosse dalla scuola corrispondano alla complementarietà delle due
dimensioni. In questo modo, le attività di inserimento e incremento dei risultati non
rischieranno di essere realizzate meramente nell’ottica funzionalistica
dell’assimilazione e del rapido assorbimento degli “stranieri” nel sistema scuola del
paese, per farli adattare il più velocemente possibile al profilo del buon alunno.
Ancora, si potrà tener fede all’impostazione di tipo universalistico e di apertura che
caratterizza la scuola italiana se la didattica anche - ma non necessariamente - in
presenza di alunni immigrati risponderà a quell’esigenza di differenziazione e di
flessibilità che permette il rispetto dei percorsi di apprendimento degli alunni.
In questo senso, una seconda direzione che può guidare l’individuazione dei criteri
qualitativi è quella di sostenere quei progetti e iniziative che portino a una
interculturalità attenta ai problemi della coesione sociale e non solo a valorizzare le
differenze in modo esotico. La “nuova intercultura” che alcune scuole già praticano
deve essere considerata una vera e propria educazione alla cittadinanza, che ha
come prima caratteristica quella di essere rivolta a tutti gli alunni e non solo a
quelli immigrati, attenta a valorizzare la diversità nell’ottica della coesione sociale.
Le attività che hanno come oggetto esclusivamente la promozione della “cultura” o
la relazione tra “culture”, invece, rischiano di rendere statici e stereotipati tratti
che devono essere sempre visti come vissuti in modo soggettivo dalle persone. I
progetti impostati in questo modo possono rendere le scuole capaci di lavorare
sull’eterogeneità e sul pluralismo, a partire dalla varietà di situazioni (non solo
etniche) presenti in essa.
Da questa premessa è possibile costruire una serie di criteri qualitativi più precisi che
potranno essere utilizzati nell’analisi dei progetti, da suddividere (per meri motivi di
analisi e chiarezza) nei due assi portanti dell’integrazione e dell’interazione
interculturale (vedi aree di intervento per le candidature), cui aggiungere l’asse
organizzativo e delle risorse, per verificare la capacità della scuola di adeguare
l’impianto strutturale (leadership, democrazia interna, coinvolgimento del territorio,
reti di scuole) agli obiettivi pedagogico-didattici e sociali che si è data.
Integrazione:
Pratiche di accoglienza e di inserimento nella scuola;
Italiano come seconda lingua;
Valorizzazione del plurilinguismo.
Interazione interculturale:
Relazioni a scuola e nel tempo extrascolastico;
Interventi sulle discriminazioni ed i pregiudizi;
Prospettive interculturali nei saperi e nelle competenze.
14
Gli attori e le risorse:
Organizzazione della scuola;
L’autonomia e le reti tra istituzioni scolastiche,società civile e territorio;
La formazione dei docenti, del personale non docente, dei dirigenti scolastici;
Relazione con le famiglie straniere e orientamento.
5.1
Integrazione
5.1.1 Pratiche di accoglienza e di inserimento nella scuola
I progetti centrati sulle pratiche di accoglienza e inserimento sono tra i più diffusi
nella scuola italiana, poiché hanno costituito la prima risposta all’arrivo degli alunni
immigrati. In un certo senso, essi costituiscono il biglietto da visita della scuola, nella
sua apertura a bambini e ragazzi di altrove.
Il ripensamento di tali pratiche deve però confrontarsi con i cambiamenti attuali
della società e della scuola. Da un lato, i progetti mirati all’accoglienza si misurano
con il problema della distribuzione degli immigrati negli istituti e nelle classi;
dall’altro, occorre vengano pensati alla luce di una popolazione scolastica sempre più
eterogenea, dai tempi e modi di inserimento tra i più vari.
Per quanto riguarda il primo punto, la normativa italiana prevede la
settorializzazione, per cui le famiglie hanno il diritto-dovere di iscrivere i loro figli
nelle scuole di zona. La concentrazione degli immigrati in alcune aree e quartieri di
alcune città e paesi, quindi, rende ineguale tale distribuzione. L’area geografica del
paese con la percentuale più alta di alunni stranieri si conferma anche quest’anno il
Nord Est. La regione con l’incidenza più alta è ancora l’Emilia Romagna con il 9,5% .
La Lombardia è, invece, la regione con il maggior numero di alunni stranieri, poco
più di centomila. Tra i comuni capoluogo è Milano ad avere l’incidenza più alta con il
12,7%, mentre tra le province è invece al primo posto Mantova con l’11,9%. Alcune
scuole hanno una percentuale di alunni senza cittadinanza italiana del 40-50%. Ciò ha
portato ad un allarme sociale e mediatico che ha avuto echi anche nella
presentazione di varie proposte di legge alla Camera.
Attualmente, le iscrizioni vengono regolate secondo il DPR 349/99, sulla base delle
Linee Guida del Ministero della Pubblica Istruzione del marzo 2006 e della C.M.
93/2006 che prevede che i minori stranieri vengano inseriti in qualunque periodo, in
classi corrispondenti all’età anagrafica, equamente distribuiti nelle classi.
Tuttavia, nelle zone di alta presenza di famiglie straniere, gli alunni sono concentrati
in alcune scuole (alcune tendono a “dirottarli”), o all’interno dei plessi in una sede,
o in alcune classi. Sempre di più le famiglie italiane tendono a evitare le “scuole
degli stranieri” tanto da dover fronteggiare il fenomeno della differenza tra “scuole
forti” e “scuole deboli”. In queste ultime vi è la tendenza ad rendere più indulgenti
le valutazioni, con la conseguente amplificazione delle disuguaglianze.
Un progetto di accoglienza deve quindi tener presente queste dinamiche,
affrontando la problematica della distribuzione non tanto in un’ottica compensativa,
quanto di valorizzazione delle risorse esistenti. Le esperienze più innovative
realizzate in Italia prevedono di stabilire protocolli di accoglienza e inserimento a
livello territoriale mediante patti tra scuole e Enti locali, convogliare risorse
15
aggiuntive alle scuole con maggiori necessità, porre attenzione alla distribuzione
nelle classi, realizzare il coinvolgimento dei genitori italiani.
Tra i criteri qualitativi vanno, quindi, tenuti presenti:
capacità della scuola di gestire la distribuzione a livello di istituti, plessi, classi
(con patti territoriali e accordi di rete), soprattutto mediante protocolli comuni
e criteri condivisi;
finalità dell’accoglienza, mirata all’inserimento individualizzato più che al
rapido adattamento dell’alunno a tempi e modalità di organizzazione
dell’istituto;
attenzione specifica all’accoglienza graduata secondo i tempi di arrivo degli
alunni;
presenza di insegnanti incaricati e non solo insegnanti di classe. Materiali ad hoc
– tradotti nelle varie lingue, guide di orientamento, informazioni per la famiglie
etc., anziché generici;
capacità di gestire e pensare l’immagine della scuola come luogo della pluralità
anziché del disagio (soprattutto tenendo conto che sempre di più gli alunni
“immigrati” sono nati in Italia o cresciuti qui).
5.1.2 Italiano come seconda lingua
L’insegnamento dell’Italiano L2 è ancora uno dei punti-base dell’integrazione, su cui
tendono a concentrarsi i progetti delle scuole. In un certo senso, la percezione
dell’insegnante resta ancorata all’idea di una “emergenza linguistica” da tamponare
rapidamente per poter permettere all’alunno di seguire il passo degli altri. Occorre
però sempre di più pensare la qualità dei progetti alla luce di occasioni formative
differenziate supplementari, ma non speciali (laboratori linguistici, presenza di
facilitatori e mediatori culturali) integrando questo sforzo in un più ampio
programma di educazione interculturale, coinvolgente tutta la classe, impostata
secondo la logica della pluralità. In questo senso, l’insegnamento della L2 dovrebbe
uscire dall’impostazione episodica, per acquisire la logica del percorso disciplinare
vero e proprio, strutturato e stabile nel tempo. I modelli consolidati attualmente
diffusi in Italia prevedono l’insegnamento dell’Italiano L2 ad alunni neo-arrivati e non
ancora italofoni con un congruo orario settimanale, in piccoli gruppi, avvalendosi di
insegnanti specializzati; tale organizzazione va svolta in forma sistematica e
progressiva, con un’articolazione didattica puntuale. Inoltre, deve qualificare il
progetto l’utilizzo di strumenti per la definizione dei diversi livelli di competenza di
“Italiano-base” e “Italiano per lo studio” che tengano conto del Quadro comune
europeo; modelli organizzativi integrati nel lavoro di classe; personalizzazione del
curricolo.
Oltre alla quantità sufficiente di figure impegnate nell’organico funzionale, un
progetto deve poter impostare la qualità sulla competenza e formazione degli
insegnanti e dei facilitatori linguistici e sul loro coordinamento, in stretta
collaborazione con i docenti dell’area linguistica.
I punti di qualificazione del progetto si presentano quindi nel seguente modo:
articolazione dell’intervento a livello sistematico anziché “a progetto”, con
adeguata strutturazione nel percorso scolastico;
16
utilizzo di strumenti per la definizione dei diversi livelli di competenza di
Italiano-base e Italiano-per-lo-studio che tengano conto del Quadro comune
europeo;
interventi integrati nella vita della classe, essa stessa un “laboratorio”;
metodologie specifiche e materiali mirati (modelli di test di accesso, strumenti
didattici);
insegnanti specialisti e/o formati adeguatamente, coordinati al loro interno.
5.1.3 Valorizzazione del plurilinguismo
La scuola italiana è attualmente plurilingue, sia in quanto prevede l’insegnamento di
lingue comunitarie, sia per la presenza del plurilinguismo degli alunni immigrati. La
diffusione di quest’ultimo è un’opportunità per tutti, qualificante i progetti
interculturali, che trova la sua ragione anzi tutto nei diritti della persona, in
particolare attraverso il mantenimento della Lingua e Cultura d’origine (LCO). Esso
valorizza, inoltre, il Piano di Offerta Formativa delle scuole, poiché evidenzia il
rapporto stretto esistente tra lingua e cultura, contribuendo ad arricchire ed aprire
gli orizzonti mentali e culturali degli alunni. Il plurilinguismo rende coscienti
dell’esistenza di altre modalità di comunicazione , aumentando la capacità di
decentramento e sviluppo cognitivo di tutti gli alunni. L’insegnamento della lingua
d’origine, tuttavia, trova notevoli ostacoli di realizzazione a causa soprattutto
dell’elevato numero di gruppi linguistici presenti nelle scuole italiane (circa 60) e
delle difficoltà nell’inserire l’insegnamento all’interno del curricolo e del calendario
scolastico.
Criteri qualificanti potrebbero essere considerati:
valorizzazione del plurilinguismo attraverso l’insegnamento, con relativa
visibilità nella scuola;
capacità da parte della scuola di effettuare, attraverso l’insegnamento di LCO,
un riconoscimento della cultura delle famiglie immigrate, specie in situazioni di
“conflitti” culturali;
coinvolgimento di gruppi e comunità di appartenenza e associazioni italiane e
straniere;
presenza di insegnanti madrelingua;
metodologie innovative nella trasmissione del patrimonio delle lingue e degli
alfabeti.
5.2
Interazione interculturale
5.2.1 Relazioni a scuola e nel tempo extrascolastico
L’intercultura in classe assume il significato di un paradigma per l’intero sistemascuola. In questo senso, non significa concentrare l’attenzione sul recupero degli
immigrati come “alunni-problema”, ma integrare questo sforzo in un più ampio
programma di educazione interculturale, coinvolgente tutta la classe. Tale approccio
interculturale è fondato su una concezione dinamica della cultura, espressa
17
soprattutto nell’ambito delle relazioni tra l’insegnante e gli alunni e tra gli alunni
stessi.
In passato, da parte di molti insegnanti è stata assunta una concezione culturalista,
che tende a confrontarsi con le “culture d’origine” in quanto tali, e che rischia di
assolutizzare l’appartenenza etnica degli alunni, predeterminando i loro
comportamenti e le loro scelte. Una concezione personalista della cultura, invece,
valorizza le persone nella loro singolarità e nel modo irripetibile con cui vivono gli
aspetti identitari, l’appartenenza, il percorso migratorio. La relazione interculturale
opera il riconoscimento dell’alunno con la sua storia e la sua identità, evitando,
tuttavia, ogni fissazione rigida di appartenenza culturale e ogni etichettamento.
Si tratta, quindi, di fare della classe e della scuola un luogo di comunicazione e
cooperazione. In questo senso, sono da sviluppare le strategie di apprendimento
cooperativo che, in un contesto di pluralismo, possono favorire la partecipazione di
tutti ai processi di costruzione delle conoscenze.
Alcuni criteri qualificanti i progetti, i questa prospettiva, potrebbero essere:
realizzare in tutto l’assetto scolastico (relazioni, clima della scuola, attività
didattiche etc.) una comunicazione interculturale basata sul confronto e sullo
scambio;
svolgere attività interculturali e strategie centrate sull’alunno e sulla
promozione della soggettività individuale anziché basate sul mantenimento
dell’identità culturale intesa come oggettiva e statica (i “cinesi” gli “albanesi”);
attività interculturali rivolte a tutti anziché specifiche per gli immigrati
(evitando folklore o esotismo);
scelte consapevoli da parte degli insegnanti rispetto alle differenze di valori in
senso universalistico (ogni cultura ricondotta a un principio unico) o relativistico
(ogni cultura valida ma difficoltà nel dialogo tra di esse);
considerazione di tutte le diversità presenti nella scuola, non solo etniche
(sociali, età, di genere etc.);
didattiche differenziate basate sulla cooperazione e sul “fare con gli altri”.
5.2.2 Interventi sulle discriminazioni e i pregiudizi
Stereotipi, pregiudizi, forme di etnocentrismo possono fare da elemento scatenante
della xenofobia o del vero e proprio razzismo, nelle sue varie forme e livelli (da
quello scientifico a quello non teorizzato ma ugualmente pericoloso). La scuola,
anziché tacere o sottovalutare questi fenomeni, deve considerare l'educazione
antirazzista come uno degli obiettivi all'interno dell'intercultura, anche se non
coincide interamente con essa. Respingere il razzismo significa, dunque, contrastare
la costruzione dell’altro come nemico e una visione essenzializzata e stereotipata di
esso. Per fare ciò è necessario che gli educatori si interroghino sulle forme assunte
dai pregiudizi e dagli stereotipi verso la diversità (etnica, sociale etc.), con relativi
comportamenti xenofobi e razzisti (e nello specifico anche di antisemitismo,
islamofobia, antiziganismo), sulle condizioni per affrontarli e sulle strategie da porre
in atto.
Un progetto di educazione interculturale che abbia tra gli obiettivi la prevenzione
delle discriminazioni e la promozione della comprensione reciproca deve tendere a
18
svilupparsi su due dimensioni complementari: da un lato ampliare il campo cognitivo,
fornire informazioni, promuovendo la capacità di decentramento, con l’obiettivo di
mostrare la varietà di punti di vista da cui osservare una situazione, organizzandone
lo scambio; dall’altro agire anche sul piano affettivo e relazionale, attraverso il
contatto, la condivisione di esperienze, il lavoro per scopi comuni, la cooperazione.
La scelta delle strategie dovrà soprattutto essere fatta nel senso della "convergenza",
mirando cioè maggiormente alla ricerca dell'inclusione, di ciò che unisce.
Possono essere considerati criteri qualificanti di un progetto sul pregiudizio e sulla
costruzione della cittadinanza, le dimensioni seguenti:
prevedere e configurare il ruolo attivo del docente e dell’educatore come
animatore di convivenza, affrontando i meccanismi di esclusione e
discriminazione che si creano nei gruppi, soprattutto di adolescenti;
integrare la dimensione cognitiva (il sapere), affettiva (atteggiamenti ed
emozioni..) e di azione (comportamenti e impegno);
basare le azioni sulla percezione della complessità decostruendo una visione
“essenzializzata” dell’altro come “nemico”;
formulare le caratteristiche delle strategie : partecipative e di coinvolgimento
anziché frontali o declaratorie, organiche anziché estemporanee;
evitare l’accentuazione della diversità, privilegiando invece ciò che crea
convergenza e inclusione nei gruppi e tra le persone.
5.2.3 Prospettive interculturali nei saperi e nelle competenze
Non esistono oggetti intrinsecamente interculturali, ma ogni argomento o dato può
essere visto in una prospettiva interculturale. L’approccio alle discipline scolastiche
(storia, letteratura, geografia, scienze etc.) deve essere quindi rivisto in senso
interculturale, per rendere consapevoli gli alunni degli apporti e degli intrecci delle
diverse culture allo sviluppo umano. Tutte le discipline possono offrire la possibilità
di un’integrazione sia nei contenuti (diritti umani, fenomeno delle migrazioni) sia del
potenziale critico. In particolare, la prospettiva interculturale può essere collocata
all’interno di una nuova “Educazione alla cittadinanza” in senso attivo, sia nelle
forme previste dal vigente curricolo, sia negli spazi offerti all’autonomia delle scuole
per elaborare una coesione sociale messa alla prova dalle differenze. Si vuole, di
conseguenza, esaminare la capacità della scuola e dei singoli insegnanti nell’inserire
uno “sguardo interculturale” all’interno dei saperi trasmessi.
In particolare, va sottolineato che l’educazione interculturale, entrata di diritto nella
programmazione scolastica con la diffusione di vari documenti e circolari ministeriali,
resta tuttora un tema extra-curricolare. Le soluzioni messe in atto finora nelle scuole
italiane restano nella maggior parte dei casi estemporanee (attività interculturali
inserite in determinati periodi nella programmazione scolastica) o specifiche
(aggiunta di una materia ad hoc – come Lingua e cultura d’origine (LCO) – da affidare
ad un insegnante già in organico o specializzato) o viene adottata la soluzione “delle
materie ospitanti” (individuazione di contenuti interculturali all’interno di discipline
(storia, geografia, educazione civica, etc.). Pur non sottovalutando questo tipo di
iniziative, va considerato criterio di qualità la realizzazione di un impianto diffuso
che implica la revisione di tutto l’impianto curricolare.
Vanno quindi analizzati come criteri:
19
la scelta di svolgere approcci all’insegnamento di tipo “inter” anziché “mono”;
l’introduzione degli approcci all’apprendimento per “infusione” anziché in modo
aggiuntivo;
la collocazione organica della prospettiva interculturale nel curricolo, anziché
estemporanea o episodica;
la realizzazione, anche nei contenuti di insegnamento, di una vera e propria
educazione alla cittadinanza mirante alla convivenza nella complessità per
creare coesione sociale - pur nella diversità culturale, sociale, religiosa - e non
solo alla costruzione dell’identità nazionale.
5.3
Gli attori e le risorse
5.3.1 Organizzazione della scuola
La scuola è un’organizzazione complessa che eroga formazione. Sotto questo profilo
l’organizzazione del servizio scolastico acquista un rilievo decisivo nella traduzione
operativa quotidiana delle dichiarazioni presenti nel Piano dell’Offerta Formativa. Si
possono prendere in considerazione alcuni snodi dell’organizzazione scolastica per
individuare quali strategie organizzative possano essere più favorevoli alla
promozione di scuole per il successo scolastico di tutti, a partire da alti tassi di
diversità culturale. Uno degli aspetti più importanti è quello relativo
all’organizzazione delle Commissioni, ed in particolare alla loro integrazione
nell’Istituto (interazione dei membri del Team, capacità decisionale e altro). La
qualità organizzativa è infatti incrementata dalla coesione interna all’Istituto che
non delega il “problema intercultura” come aggiuntivo o marginale ad un gruppo o a
singoli docenti, ma riesca a renderlo dimensione e prospettiva stabile della scuola.
La Commissione può e deve elaborare proposte che esprimono una matura riflessività
pedagogica ed educativa.
Nella stessa direzione, la leadership (dirigenza e staff) può rendere l’intercultura
fattore di innovazione, stimolando il corpo insegnante a ripensare in senso inclusivo
tutte le attività pedagogico-didattiche. Inoltre, fattore importante dal punto di vista
organizzativo saranno i raccordi con l’esterno, nella forma di reti, intese e
formazione di gruppi interprofessionali con gli operatori del territorio.
Tra i criteri di qualità avremo quindi:
organizzazione della Commissione Intercultura d’Istituto composta con criteri
oggettivi oltre che sulla base di interessi personali, con compiti di innovazione
anziché gestione dell’emergenza;
funzioni della/e Commissione/i, oltre che organizzativo, di tipo propositivo e
riflessivo, integrati nell’azione complessiva dell’Istituto;
leadership educativa a rete nella prospettiva di trasformazione della scuola
secondo criteri inclusivi e non di successo di alcuni.
formazione di gruppi interprofessionali con operatori del territorio.
20
5.3.2 L’autonomia e le reti tra istituzioni scolastiche,società civile e territorio
L’autonomia delle scuole permette di far fronte in modo mirato alla grande varietà di
situazioni presenti nelle scuole (numero degli immigrati, paesi di provenienza,
risorse, contesto del territorio…). La collaborazione tra scuola e territorio può, allo
stesso tempo, fornire le risorse per affrontare i problemi in modo integrato
(distribuzione, rapporti con le famiglie, problematiche sociali etc.). Un progetto
pilota avrà tra i suoi obiettivi quelli di potenziare e portare a sistema sia le buone
pratiche esistenti nelle scuole sia gli esempi di collaborazione interistituzionale nel
territorio. La progettualità della scuola dovrà essere quindi considerata su linee di
innovazione, e non soltanto di risposta a bisogni, e valutata sulla base della
sistematicità della collaborazione interistituzionale: Particolare importanza va data
alla composizione di reti di scuole, non solo su problemi ma anche per scambio e
diffusione delle risorse.
Tra i criteri qualitativi avremo:
progettualità innovativa della scuola, in cui i bisogni specifici degli alunni
immigrati vengono affrontati a livello sistemico;
presenza di esperienze stabili e non solo temporanee di collaborazioni con Enti
locali, istituzioni, volontariato etc.;
utilizzo delle reti tra scuole a partire da bisogni specifici per affrontare una
progettualità complessiva.
5.3.3 La formazione dei docenti, del personale non docente, dei dirigenti
scolastici
L’intercultura così prospettata necessita di una nuova formazione degli insegnanti
come “sensibili alle culture”. Ciò significa una formazione critica e riflessiva anziché
prevalentemente conoscitiva o di tipo informativo-culturale. I criteri qualitativi
investiranno, quindi, la capacità della scuola di integrare la formazione nella
progettualità complessiva, in collaborazione anche con esterni, su alcuni punti
centrali,
quali l’impianto teorico-critico sulle tematiche fondamentali
dell’intercultura, il sostegno all’autoriflessività e all’interpretazione della cultura
soggettiva degli alunni, le competenze relative all’inserimento della prospettiva
interculturale nelle discipline, una formazione specifica sul pregiudizio e gli
stereotipi.
In sintesi:
formazione considerata parte integrante del progetto della scuola in campo
interculturale, realizzata anche in collaborazione con esterni;
contenuti della formazione non solo conoscitivo- informativi ma centrati su
questioni di fondo interculturali, sulla lettura dinamica dei cambiamenti
culturali degli alunni e della società;
competenze fornite dalla formazione di tipo riflessivo-esperienziali anziché
applicative.
5.3.4 Relazione con le famiglie straniere e orientamento
La relazione con le famiglie immigrate pone l’attenzione a tre livelli: coinvolgimento
al momento dell’accoglienza, partecipazione attiva durante il percorso scolastico,
orientamento nella scelta della scuola. Tale rapporto può essere concepito in modi
21
molto diversi, sia in senso di problema da risolvere, sia di risorsa da sfruttare. Nel
primo caso, le famiglie immigrate sono destinatarie di informazioni e sollecitazioni
volte a favorire l’adattamento alla istituzione scuola, superando gli ostacoli posti
dalle differenze culturali e dai problemi di comunicazione; nel secondo, tutte le
famiglie sono spinte a divenire protagoniste di una comunicazione scuola-famiglia
centrata sulla personalità dell’alunno, i suoi atteggiamenti e la sua storia, superando
il mero rapporto basato sul rendimento scolastico. In questo senso va anche la
promozione della partecipazione delle famiglie immigrate, spesso ostacolata da
mancanza di tempo e di strumenti culturali.
La scuola accogliente può creare nuove modalità di incontro con le famiglie, di tipo
flessibile, centrate sullo scambio educativo e non solo sulla comunicazione monodirezionale. L’alunno può essere considerato il go-between tra la famiglia e la
scuola, realizzando una comunicazione anche di tipo indiretto. Attraverso i figli è
possibile modificare un’immagine della scuola a volte di tipo istituzionale, aprendo
nuove possibilità di partecipazione
La mediazione culturale è una risorsa importante per la relazione scuola-famiglia.
L’uso dei mediatori risponde però a criteri qualitativi non sempre seguiti dalle
scuole. Il mediatore può essere impiegato per la traduzione delle comunicazioni
scolastiche, la partecipazione a momenti di educazione interculturale, in modo
integrata con gli altri servizi territoriali. In realtà, copre a volte funzioni improprie
(quali l’insegnamento Italiano L2 o la gestione situazioni di disagio) o assume compiti
sostitutivi dell’insegnante, anziché integrativi.
Tra i criteri qualitativi dei progetti troveremo:
presenza di elementi facilitanti la partecipazione delle famiglie immigrate
attraverso informazioni pertinenti e accessibili e misure di accompagnamento;
condivisione del progetto pedagogico della scuola;
orientamento delle famiglie nella scelta della scuola;
funzioni dei mediatori nell’ambito delle relazioni e accompagnamento anziché
per compiti impropri.
22
6. RELAZIONI CON LE FAMIGLIE5
Una realtà nuova
Agli inizi della sua manifestazione, il fenomeno migratorio è stato caratterizzato da
vari elementi che ne accentuavano la natura intrinsecamente temporanea, episodica
o semi-nomade, che aveva tra le sue conseguenze uno scarso radicamento nei paesi
ospitanti. Nel caso dell’immigrazione maghrebina o africana prevalevano, infatti,
soggetti maschi adulti e soli; in altri, invece, donne che hanno successivamente
attuato ricongiungimenti familiari. Anche nei casi in cui non fossero dediti a lavori di
tipo stagionale, gli uomini immigrati concepivano comunque la loro presenza come
un’esperienza limitata nel tempo e mantenevano affetti e legami principalmente nei
paesi d’origine. La stessa destinazione dei guadagni percepiti era orientata in tal
senso: poter metter su casa al ritorno, mantenere una famiglia laggiù, intraprendere
in terra d’origine qualche attività finanziata dai risparmi via via messi da parte.
Con i ricongiungimenti familiari, tale prospettiva non è del tutto sfumata, ma si è
notevolmente modificata: vi sono certamente ancora parenti rimasti in patria da
sostenere, ma la presenza accanto all’immigrato della moglie e dei figli distoglie
parte del reddito e delle attenzioni dal mai definitivamente tramontato sogno del
ritorno a casa, che inevitabilmente viene sempre procrastinato e virtualmente
escluso dalla maggioranza, complici non soltanto le condizioni politiche ed
economiche del luogo di provenienza - spesso immutate, talvolta persino peggiorate ma anche un senso di appartenenza meno aleatorio rispetto al paese in cui ci si
trova.
L’arrivo di mogli e figli, o le famiglie costituitesi addirittura qui, hanno un notevole
peso nel determinare tale mutamento di prospettiva. Ovviamente non si tratta
soltanto di un diverso utilizzo delle risorse economiche. Raggiungendo i mariti, le
donne si trovano nella possibilità e talvolta nella necessità di contribuire al bilancio
domestico con qualche attività lavorativa, ma anche quando restano a casa per
occuparsi della famiglia, ricevono stimoli a concepire il proprio ruolo diversamente
da come lo avrebbero giocato in patria. I figli, poi, nascendo o arrivando in un altro
paese fin dalla più tenera età, fatalmente si trovano in una posizione differente
rispetto ai genitori. Essi non sono immigrati, non hanno mai fatto tale scelta né
hanno vissuto consapevolmente quella dei genitori. Tanto meno ne condividono
nostalgie o progetti a lungo termine. Il radicamento nella società ospitante con essi
fa un passo decisivo verso l’integrazione. Fin dal livello primario della lingua.
Conosciuta poco e male dai padri, spesso occupati in lavori manuali e quindi poco
interessati a svilupparne l’apprendimento, la lingua locale non può più restare per
essi al livello della mera sopravvivenza.
Occuparsi di molte questioni relative all’alloggio, alla salute e all’istruzione costringe
anche i genitori a cercare di allargare le proprie competenze linguistiche. Nel
momento della scolarizzazione dei figli, poi, una serie di delicate mediazioni sono
operate giorno per giorno: l’età e l’impegno scolastico di questi ultimi da un lato
favoriscono e dall’altro esigono un ulteriore passo in avanti al quale il resto della
5
Di Paolo Branca, Università Cattolica di Milano.
23
famiglia non può rimanere indifferente. Quale lingua parlare in casa? A quale dare la
priorità nell’apprendimento di lettura e scrittura? Nel giro di poco tempo, anche i
bambini più piccoli diventano più competenti dei loro stessi genitori nella lingua
locale, con esiti talvolta imbarazzanti e/o divertenti a proposito della pronuncia
scorretta di suoni o espressioni destinati a rimanere esotici e mal padroneggiati dai
‘grandi’, mentre i ‘piccoli’ li utilizzano con perfetta disinvoltura.
I sentimenti con cui tali trasformazioni vengono percepite sono connotati da una
forte ambiguità: l’orgoglio verso un figlio tanto abile convive con il timore che
appartenga ormai a un mondo non completamente sotto controllo. Il ruolo autorevole
dei genitori può subire qualche scossone, non tanto nell’età infantile, ma soprattutto
nella delicata fase dell’adolescenza. Ritenuto comunque ‘straniero’ dalla società
ospitante, il giovane dovrà anche gestire la scomoda posizione di chi lo vedrà
inevitabilmente (specie tra i parenti rimasti in terra d’origine) come un connazionale
a mezzo servizio, magari ammirato per le migliori condizioni economiche, ma
deprivato di una parte dell’identità originaria. Cosa che avrà il suo peso
specialmente in alcuni passaggi delicati, come la scelta del partner. Laddove, per
ragioni culturali e/o religiose, prevalga il timore di un progressivo annacquamento
dell’identità originaria, al momento del matrimonio - oltre che le consuete reti - la
stessa famiglia emigrata può esercitare varie forme di condizionamento, se non di
pressione, affinché la scelta del futuro coniuge sia fatta tra quanti sono rimasti in
patria e garantirebbero quindi un apporto di ‘sangue’ genuino a chi, almeno in parte,
viene considerato deficitario rispetto a una ipotetica identità originaria.
Una realtà da conoscere
Molte di queste dinamiche restano spesso poco accessibili anche agli osservatori più
attenti. A parte la barriera linguistico-culturale, occorre tenere presente che tali
famiglie provengono da luoghi ove le istituzioni sono assenti o prepotenti, per cui
d’istinto cercano di evitare ogni contatto con esse che non sia indispensabile. Anche
in assenza di un simile vissuto negativo, la situazione non sarebbe probabilmente
diversa da quella dell’Italia di non molti anni fa, quando prevalevano comunque reti
informali di mutua assistenza e il contatto con enti pubblici si limitava a questioni
amministrative o a casi d’emergenza. Lo stato di bisogno, in senso lato, dei nuovi
arrivati li mette tuttavia in una posizione potenzialmente favorevole.
Iniziative di informazione e di ascolto possono dunque trovare accoglienza, partendo
da esigenze di base ma non senza l’ambizione di una formazione alla partecipazione
come obiettivo a medio-lungo termine. Le ricadute più significative sono quelle che
si riflettono sulle donne e sulle giovani generazioni. Da un lato, la loro dipendenza
economica dovuta al genere e all’età, oltre che alle non codificate gerarchie sociali
delle culture d’origine ove il ruolo del maschio adulto è ancora prevalente, ne
limitano lo spazio d’azione, ma dall’altro è proprio a loro che l’innesto in una società
moderna, libera e secolarizzata offre più immediate chances di ridefinizione dei
propri ruoli. L’attivismo nella sfera pubblica di molte donne, spesso al servizio di
altre donne di analoga estrazione, è già una realtà, così come non sfugge che le
studentesse sono generalmente più motivate e attive dei compagni maschi
nell’impegno scolastico e in quello sociale.
Quando possono permetterselo, negli studi - sia i ragazzi che le ragazze - spesso
scelgono specializzazioni di tipo tecnico-scientifico (medicina, ingegneria...) e
rimangono pertanto sguarniti sul versante umanistico, il che li rende facili vittime di
24
due fenomeni: un’appartenenza alla cultura italiana da ‘parenti poveri’ da un lato e
dall’altro una scarsa consapevolezza della stessa civiltà d’origine, della quale
resterebbero paradossalmente i legittimi rappresentanti quanti (spesso altrettanto
sprovveduti) che con meno disponibilità, impegno e successo si sono inseriti nel
paese che li ospita (il caso è evidente per quanto riguarda ad esempio la leadership
dei centri islamici). Se non adeguatamente accompagnato, il fenomeno rischia di
sviluppare nei giovani una doppia morale, in casa formalmente rispettosa di
tradizioni ataviche mai messe in discussione, fuori varie forme di compromesso delle
quali quelle assimilazioniste non sono sempre necessariamente migliori di quelle
conservatrici: portarsi nella borsa abiti con cui cambiarsi appena fuori dalla portata
dello sguardo paterno può preludere a esiti peggiori che un velo autonomamente
indossato, per convinzione o per far piacere ai genitori. Anzi, in questo caso, dover
affrontare le non poche riserve dei coetanei e dell’ambiente in un’età delicata dove
prevale lo spirito del branco e l’acritico uniformarsi all’ultima moda (per quanto
idiota possa essere) può perfino produrre effetti positivi sulla formazione di un
carattere indipendente più di qualsiasi micro-gonna portata con falsa naturalezza o
con autentica incoscienza. Il coraggio di essere diversi, diversi davvero e per questo
magari dileggiati, accettare di essere minoranza (etnica, linguistica, religiosa...) non
è cosa da poco: tingersi i capelli di verde, mettersi un piercing o tatuarsi come un
aborigeno è in fondo molto più semplice.
Casi limite, come le violenze contro figlie ribelli, sono solamente la punta di un
iceberg che attira di quando in quando l’attenzione dei media, pronti a gridare allo
scandalo per poi distrarsi fino al prossimo fatto di cronaca eclatante. Com’è noto, gli
iceberg emergono dall’acqua solo con una percentuale risibile della loro massa. Un
monitoraggio in profondità della situazione porterebbe a una conoscenza più
complessiva delle dinamiche in atto, col vantaggio di consentire forme di
prevenzione rispetto a possibili degenerazioni, ma soprattutto una visione più globale
del fenomeno che consentirebbe l’elaborazione di progetti d’intervento complessivi e
di maggiore efficacia.
Una realtà da approfondire
Non sono tuttavia questi i problemi che appaiono immediatamente agli occhi di chi
osserva le cose in forma affrettata e superficiale. Intervenire sul fenomeno delle
migrazioni, significa - in un primo tempo - avere prevalentemente a che fare con
necessità di base: alloggio, lavoro, salute. Le numerose e lodevoli iniziative che
cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati sono tuttavia, nella maggior
parte dei casi, carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le
supporti e le sappia orientare. Si fa, cioè, semplicemente quel che c’è da fare, senza
domandarsi troppo dove si stia andando. Si rimane in altre parole indifferenti, e
quindi passivi, rispetto all’esito globale di quanto si intraprende, con una ingenua
fiducia che, spontaneamente, le cose si aggiusteranno da sé cammin facendo,
pretendendo che le buone intenzioni bastino a produrre in definitiva anche buoni
frutti. Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al
basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è
portatore anche di altre domande che non sappiamo interpretare principalmente
perché noi stessi siamo i primi a non porcele più.
Insieme ad altri paesi dell’Europa meridionale (ma non solo, se pensiamo al caso
dell’Irlanda), l’Italia ha inoltre un proprio vissuto di non poco conto a proposito del
25
fenomeno migratorio. Italiani (e irlandesi), in quanto cattolici e quindi papisti,
provenienti da zone rurali e dunque analfabeti, superstiziosi e maschilisti erano visti
con sospetto, se non con disprezzo, nei civili paesi del nord Europa o negli Stati
Uniti, fino non proprio a moltissimi anni or sono. Ci volle del tempo perché si
superassero molti pregiudizi nei loro confronti. Talvolta la diffidenza che
incontrarono non fu del tutto ingiustificata: forme di criminalità organizzata si
diffusero tramite alcuni di essi anche oltreoceano. Questo significa forse che le
discriminazioni di cui furono oggetto siano state legittime? Ciò che è comprensibile in
taluni casi non può mai diventare giustificabile in generale. E’ una lezione che
avremmo dovuto imparare sulla nostra pelle, ma si fa presto a dimenticare. Certe
parentele scomode si finisce per cancellarle, specialmente dopo che si è raggiunto un
determinato grado di benessere. La vita sacrificata di intere generazioni che hanno
contribuito allo sviluppo di tanti paesi diventerebbe così solo un imbarazzante
incidente di percorso, un danno collaterale che sembra fastidioso e di cattivo gusto
riportare alla mente. D’altra parte, le cose sono cambiate troppo in fretta: nel giro
di pochi decenni, da paese di emigrazione siamo diventati meta di una crescente
immigrazione. E’ del tutto naturale che la cosa ci spaventi. Il modo in cui tale
fenomeno si sta sviluppando non è certo sempre il migliore. Più che realmente
gestito, ci sembra una specie di evento atmosferico che ci ritroviamo a dover subire
passivamente. E’ giusto pretendere che chi deve regolamentarlo lo faccia con
saggezza e con rigore. Ma ricordare che non molto tempo fa eravamo dall’altra parte
della ‘barricata’ potrebbe stimolarci a considerare soprattutto la dimensione umana
di quanti approdano sulle nostre sponde. Al di là delle differenze di lingua, mentalità
e fede religiosa (che si sono e non vanno sottovalutate) si tratta nella maggior parte
dei casi di persone che cercano soprattutto condizioni di vita migliori, un lavoro
dignitoso, la libertà di poter decidere del proprio futuro… Non sempre trovano quello
che cercano. Ma quando ci riescono provano in genere un profondo senso di
gratitudine. Alla parte migliore di loro, che condivide con noi i medesimi timori e le
stesse speranze, dovremmo dare maggiore attenzione, nel nostro stesso interesse.
Una volta che avremo fatto gli uni verso gli altri almeno qualche passo, molti ostacoli
che ora ci sembrano insormontabili probabilmente si ridimensioneranno. Resteranno
sicuramente alla fine differenze irriducibili. Anche queste fanno parte della vita. Se
pensassimo soltanto a queste, i nostri stessi rapporti familiari diventerebbero
insopportabili.
Una realtà su cui intervenire
Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l’iniziativa, è la
condanna a subire quella altrui. Potremo anche rispondere negativamente alle
richieste che ci verranno poste - quando fossero delle assurde pretese - ma se
continueremo a non fare il primo passo, avremo giocato solo “di rimessa” e
resteremo fatalmente vittime dell’intraprendenza dei nostri interlocutori. Tra questi,
oltretutto, finiranno per farsi avanti non necessariamente i più ragionevoli o
rappresentativi, ma - com’è accaduto di recente nella polemica relativa al crocefisso
- quelli che sapranno con maggiore scaltrezza insinuarsi nelle pieghe delle nostre
contraddizioni, senza alcun rispetto per i valori autentici delle grandi tradizioni
religiose che avranno buon gioco a strumentalizzare in una sconfortante sceneggiata
in cui ciascuno darà il peggio di se stesso: una partita meschina fatta di ricatti e
basata sull’ambiguità.
26
Come abbiamo già detto, quando - dopo la prima fase del processo migratorio che ha
visto prevalere giovani maschi soli - si passa alle problematiche dell’educazione,
significa che un sottile ma decisivo confine è stato superato. A porsi il problema della
scuola per i propri figli non sono ormai più singoli individui in condizioni precarie.
Poter mandare i propri figli a scuola significa aver prima creato una situazione di
relativa stabilità di affetti, di lavoro, di posizione sociale ed economica. Una società
matura e responsabile non può trascurare i bisogni di questi nuclei familiari, anche
perché essi rappresentano la parte più evoluta e stabile della gran massa degli
immigrati e persino il più efficace anticorpo contro le possibili derive in fenomeni di
marginalità e di devianza, compresa la criminalità e persino la militanza in gruppi
eversivi. Offrire risposte adeguate alla richiesta di formazione e di educazione non è
quindi affatto un lusso, ma primariamente opera di promozione umana e prevenzione
sociale. L’ideale è certo che ciò possa avvenire nelle istituzioni scolastiche
pubbliche, che dalla valorizzazione dei patrimoni culturali dei nuovi arrivati
potrebbero addirittura trarre motivo di arricchimento, prendendo spunto, ad
esempio, per ripensare insegnamenti e metodologie nel quadro della realtà sempre
più pluralistica in cui sono inserite. In mancanza di simili alternative, qualcuno può
intraprendere la discutibile via del “fai da te”, fuori dagli ordinamenti vigenti e
creando una sorta di società parallela o addirittura di corpo estraneo rispetto al
Paese ospitante. La filosofia che ispira tali scelte, quand’anche fossero fatte in
buona fede, rappresenta un pericolo per gli utenti di simili imprese e rafforza in essi
la già troppo diffusa mentalità secondo la quale in Italia si può fare un po’ quel che si
vuole, in attesa di qualche sanatoria.
27
7. GLOSSARIO6
Accettazione
L’accettazione comprende l'esperienza basilare di essere preso in considerazione in
maniera positiva, di ricevere attenzione, amore, di essere protetti e curati. Tale
concetto, assieme a quelli di empatia e di congruenza, sono stati individuati da C.
Rogers (1970) come elementi indispensabili per la riuscita di una terapia. In base ai
risultati di una ricerca di Portera (2005), si sono rivelati come bisogni fondamentali
per il sano sviluppo della personalità: nessun soggetto può rinunciare al loro
appagamento.
Il bisogno di essere accettato a prescindere dalle proprie modalità comportamentali
o da aspetti esteriori (come colore della pelle, religione, lingua, idee), in maniera
appunto incondizionata, è un'esperienza indispensabile per ogni soggetto ed assume
una significanza ancora superiore in contesto migratorio o multiculturale. Nel settore
educativo spesso si confonde l’accettazione, che è incondizionata, va sempre data
alla persona, all’essere umano, con l’essere d’accordo: che dipende di volta in volta.
La persona di riferimento (educatrice o insegnante) dovrebbe riuscire a soddisfare
tali bisogni del bambino, anche nei casi in cui non condivide alcune sue idee o
modalità comportamentali: dovrebbe dare accettazione e riconoscimento in modo
gratuito, senza condizioni o ricatti. La mancanza o l’insufficiente accettazione da
parte degli educatori principali (nel senso anche di “amore condizionato”), possono
causare lo sviluppo di personalità nevrotiche, con gravi disturbi psicologici a livello
cognitivo, emotivo o comportamentale. I disturbi possono riguardare il settore
dell’autostima e manifestarsi sia come mancanza di autonomia, e ricerca di
approvazione da parte dell'ambiente sociale circostante (piegandosi alle opinioni e
alle decisioni degli altri), sia mediante lo sviluppo di impulsi aggressivi, distruttivi
(distruzione di oggetti, aggressione a persone) o autodistruttivi (anche in forma di
dipendenza da droghe).
Appartenenza
L’appartenenza potrebbe essere considerata un bisogno fondamentale dell’essere
umano (Maslow 1954; Portera, 2005). La donna e l’uomo hanno bisogno di sentirsi
parte costituente di un determinato gruppo di persone, di percepirsi come simili agli
altri e di interagire con loro. A tale scopo vanno ricordati anche il significato dello
status sociale o dei mezzi economici di sussistenza (non essere troppo al di sotto
degli altri: è più facile accettare la condizione di povero tra poveri che fra ricchi).
Nel settore migratorio spesso l’appartenenza è resa più difficile in seguito alle
differenze linguistiche, religiose, assiologiche, comportamentali.
Choc culturale
Lo choc culturale, concetto legato alla reazione nostalgica, si riferisce ad un vero (o
presunto) choc che subentrerebbe dopo l’emigrazione, con il confronto con i diversi
modelli di riferimento della società ospitante. Scientificamente tale concetto è
6
Di Agostino Portera, Università di Verona.
28
alquanto contrastato. Nell'ambito di una indagine effettuata in Canada, Tyhurst
[1995], ha riscontrato dei periodi caratteristici per la reazione psichica al
cambiamento del luogo di residenza. Inizialmente prevarrebbe un sentimento di
benessere. Dopo circa sei mesi si sarebbe maggiormente coscienti dei problemi
quotidiani; il paese di emigrazione verrebbe idealizzato ed apparirebbero alcuni
sintomi psichici (come elevata sfiducia, reazioni paranoiche, depressione e
aggressività), scaturiti soprattutto in seguito a sentimenti di insicurezza e di paura.
Tietze e coll. [1942] e Kantor [1966] hanno constatato una correlazione inversa tra
l'insorgere dei disturbi psichici (soprattutto psicosi, nevrosi degli adulti e disturbi
comportamentali dei bambini) e durata di abitazione nella stessa casa. Al contrario,
Pederson e Sullivan [1964] non hanno riscontrato alcuna correlazione tra il
cambiamento di abitazione e i disturbi psichici, mentre molto significativo è risultato
l'atteggiamento dei genitori (specialmente della madre) per attenuare i conflitti che
scaturiscono in seguito al cambiamento di alloggio.
Lo choc culturale potrebbe essere riferito anche al rapporto interpersonale, fra
soggetti culturalmente differenti (non solo rispetto alla nazionalità o all’esperienza
migratoria, ma per tutte le caratteristiche: status, ruolo sociale, religione, ecc.) che
ha come risultato l’incomprensione. In tale contesto ci si riferisce anche al “metodo
pedagogico dell’incidente critico”, elaborato da Margalit Cohen-Emerique, metodo
creato per sviluppare presso il professionista della mediazione culturale la capacità
di “decentrazione”, ossia la presa di coscienza dei propri quadri di riferimento,
attraverso i quali egli concepisce il soggetto “culturalmente differente”, decodifica
le situazioni e analizza il problema.
Congruenza
Per C. Rogers una «persona completamente sana» (fully functioning person) sarebbe
quella che si trova «in perfetta armonia o corrispondenza» tra il proprio Sé e le
esperienze quotidiane, in congruenza, appunto: ossia integrata, completa e
autentica.
La congruenza, ossia la fedeltà interiore, costituisce un elemento fondante della
pedagogia interculturale. Da un’analisi biografica di giovani con esperienze
migratorie si può comprendere che gli atteggiamenti contrari - cioè di incongruenza,
ambivalenza, discontinuità (anche nel senso del cambiamento della persona di
riferimento) e la mancanza di presenza personale - possono ingenerare grave disagio
evolutivo con negative conseguenze psichiche e comportamentali. Bambini e giovani
di origine straniera molto spesso entrano in contatto con educatori che assumono
atteggiamenti incongruenti o ambivalenti, passando dal rifiuto (xenofobia)
all’accettazione acritica (xenofilia) di tutto ciò che è diverso. Nel settore scolastico,
la congruenza rimanda anche alla capacità dell’insegnante di assumere atteggiamenti
coerenti fra i vissuti interiori e le proprie idee e i comportamenti nei confronti degli
alunni e colleghi.
Cultura - Identità
Sin dall’antichità con cultura si intendeva “il bene più prezioso che sia dato agli
uomini”. Il significato originario di cultura deriva dal greco paidéia, che indica, sia
l’azione educativa sia il suo risultato; in latino è stato tradotto con Humanitas,
limitandone l’ambito e suscitando anche delle ambiguità. Esiste una disciplina che si
è interamente dedicata alla ricerca ed alla definizione di tale termine:
29
l’antropologia culturale. Sia per l’antropologia sia per la pedagogia con la parola
cultura, non si intende quella degli studi classici (o umanistici), bensì tutto ciò che
concerne l’uomo e tutto ciò che egli ha prodotto: conoscenze, codici, regole, lingue,
rappresentazioni, valori, costumi, comportamenti, interessi, aspirazioni, credenze,
miti, pratiche religiose.
In contesto interculturale le culture sono da considerarsi come delle entità
altamente dinamiche ed in continua evoluzione. Per tale motivo M. Pretceille (1986)
propone di sostituire la parola cultura con «culturalità». Nel momento in cui si
descrivono differenze culturali, si effettuano delle “fotografie”, sicuramente vere,
valide ed importanti, ma che permettono solo una visione parziale e statica di una
realtà complessa. Spesso si commette l’errore di identificare dei confini politici (ad
es. quelli di uno stato nazionale) con l’identità culturale: la cultura non si lascia
contenere all’interno di un filo spinato. Un successivo errore scaturisce dal credere
di poter conservare (o perdere) la propria cultura. La cultura, come l’identità, non si
può né acquisire da un momento all’altro, né tanto meno perdere: si tratta di un
processo di continua trasformazione, mediante il quale, lungo tutto il corso della
vita, più o meno consciamente, si abbandona qualcosa per interiorizzarne un’altra
(Portera, 2002a).
Didattica interculturale
L’educazione necessità sempre di un obiettivo (non è possibile educare se non si
chiarisce il fine), di mezzi (o strumenti) e di un metodo (ossia di una riflessione sul
“modo”, il cammino da percorrere; tenendo conto del punto di partenza degli
ostacoli da superare e degli obiettivi da raggiungere). La didattica rappresenta, in
concreto, ossia in riferimento alla situazione reale, il percorso che si intende seguire.
Riflettere sulla didattica in prospettiva interculturale vuol dire riflettere sulla
modalità più idonea alla divulgazione dei principi interculturali. Il fatto che a
tutt’oggi esistano solo pochi modelli di didattica interculturale, non scaturisce dallo
scarso interesse suscitato dall’argomento, quanto, soprattutto, dalla difficoltà di
individuare delle modalità come “tipicamente interculturali”. Se, come accennato,
la pedagogia interculturale non può essere divisa nettamente da quella generale
(l’oggetto resta lo stesso: l’educando a prescindere da lingua, cultura o religione),
anche la didattica generale difficilmente potrà essere nettamente differenziata da
quella interculturale. Importante risulta invece aggiungere e sottolineare quei
concetti maggiormente presenti in contesto migratorio o di pluralità etnico-culturale,
come il rispetto, l’accettazione, il dialogo, la gestione nonviolenta dei conflitti.
Discriminazione
Semanticamente, discriminare significa riuscire a discernere e distinguere fra cose o
persone, ha una valenza neutra o positiva. In contesto multiculturale, invece, si
intende negare a dei soggetti o delle comunità dei diritti o l’accesso a delle risorse,
per motivi di carattere etnico, linguistico, religioso o culturale. Pur essendo meno
forte, il concetto di discriminazione si avvicina a quello di Xenofobia, al quale si
rimanda per conoscerne i risvolti negativi per i soggetti destinatari.
30
Discriminazione positiva
La discriminazione positiva, a differenza della negativa, generalmente ha dei risvolti
positivi (si pensi ad esempio all’importanza dell’effetto Pigmalione, in cui
l’insegnante nutre aspettative positive verso l’alunno). Ogni essere umano per un
sano sviluppo della propria personalità, necessita di essere accettato, amato e
stimato. Se l’educatore nutre delle aspettative positive, questo generalmente
favorisce la fiducia e la stima anche nell’educando. Specialmente in contesto
migratorio o multiculturale, in cui sono frequenti i casi di insicurezza e di paura, un
tale atteggiamento non può non giovare all’educando ed al rapporto con l’educatore.
Sul piano politico-amministrativo il concetto di discriminazione positiva riguarda
tutte le misure (introdotte soprattutto in ambienti anglosassoni) che le autorità
pubbliche prendono al fine di proteggere certe categorie di persone svantaggiate (ad
esempio, cittadini immigrati), allo scopo di realizzare una uguaglianza di fatto che la
semplice uguaglianza di diritto non riesce ad assicurare (misure che favoriscono la
formazione, l’alloggio, l’occupazione ecc.).
Empatia
A differenza della simpatia o dell'antipatia, l'empatia si riferisce alla capacità di
comprensione profonda della persona con la quale si sta interagendo, al tentativo di
immedesimarsi, di mettersi nei panni degli altri, di calarsi nell'altro possibilmente
senza atteggiamenti preconcetti o stereotipi. Ma, a differenza di ciò che si crede nel
settore pedagogico, essere empatici significa anche “mantenere una certa distanza”,
non perdere il contatto con i propri sentimenti, le proprie idee e le proprie emozioni.
In sintesi si tratta di avvicinarsi il più possibile all’altro per conoscerlo da vicino,
cercando anche di non perdersi nell’altro, di rimanere fedeli a se stessi. Il modo
migliore per realizzare il bisogno di empatia potrebbe consistere in un confronto
interpersonale aperto e senza preconcetti (come quello "io e tu" postulato da M.
Buber), in cui entrambi i soggetti cercano di entrare in contatto fra loro, senza paura
di estraniazione e senza la pretesa di costringere l'altro a pensarla allo stesso modo.
Nel settore migratorio o di pluralismo culturale si assiste sempre più frequentemente
a casi in cui è difficile soddisfare tale basilare bisogno. Nonostante tale principio sia
fra i più fondanti della pedagogia interculturale, nonostante la comprensione
empatica di tipo interattivo con l'ambiente sociale circostante (Mitwelt) in
emigrazione assuma una importanza particolare, essa è molto più difficile da
realizzare poiché molti dei vissuti, sentimenti e modalità comportamentali dei
soggetti stranieri non possono essere compresi mediante categorie prestabilite,
stereotipe e culturalmente rigide. Da ciò possono scaturire disagi evolutivi e disturbi
comportamentali. Nel caso in cui gli educatori trasmettono messaggi del tipo: «noi
riusciamo a capirti meglio di te stesso» e «solo ciò che noi proviamo e sentiamo è
giusto», si assiste ad un impedimento nel riconoscimento dei propri sentimenti e
emozioni: il modo migliore per divenire stranieri anche a se stessi.
Integrazione
Il concetto di integrazione è forse uno dei più impiegati anche nel settore educativo
e nel mondo della scuola. Ma spesso non si conoscono bene il reale significato (e le
trappole) di tale termine, molto amato dai politici (e molto presente nelle
legislazioni scolastiche) ma ambiguo sul piano semantico. A livello sociologico, A. J.
31
Copley (1979) distingue due livelli di integrazione: l’integrazione primaria e
l’integrazione secondaria. L’integrazione primaria è la fase in cui il soggetto
immigrato, pur avvertendo ancora nostalgia dell’ambiente di provenienza, comincia
ad interiorizzare i valori del nuovo ambiente e ad adattarsi alla vita nel paese di
immigrazione. Nell’integrazione secondaria, invece, l’individuo si estranea
completamente dalla sua cultura di provenienza ed interiorizza lingua, valori, norme
e modelli di comportamento della società che lo ospita. Inoltre l’integrazione, può
essere intesa in quattro modi sostanzialmente diversi:
1. integrazione monistica, quando la cultura, normalmente la più forte, non lascia
spazio alla diversità, inglobandola nel proprio sistema di organizzazione: in questi
casi si tratta di vera e propria assimilazione;
2. integrazione dualistica o pluralistica, quando due o più gruppi di persone con
cultura diverse vivono assieme, nel rispetto reciproco, cercando però di evitare i
contatti, per paura di perdere la propria identità: in questi casi si tratta di una
confederazione, una sorta di legittimazione delle diversità;
3. integrazione come fusione delle diversità, nel senso modello del melting pot
adottato dall’America del Nord, in cui un certo territorio si circa di realizzare un
“crogiolo” delle molte culture, mediante la creazione di un ethos comune:
modello altamente utopico, che nella realtà dell’America stessa è fallito dando
vita al fenomeno del salad bowl (insalatiera);
4. integrazione interazionistica, nel caso in cui persone, appartenenti a gruppi
etnici e culturali diversi, cercano non solo di vivere gli uni accanto agli altri, ma
anche di interagire assieme (nel senso psicologico di attività nell’attività),
tramite un costante scambio di idee, norme, valori e significati.
Pedagogia interculturale
Laddove la multi e la pluricultura richiamano a fenomeni di tipo descrittivo,
l’aggiunta del prefisso “inter” presuppone la messa in relazione, l’interazione, lo
scambio di due o più elementi (Pretceille, 1986). Sono le società ad essere definite
come “multiculturali”, nel senso che si rileva la presenza di soggetti portatori di usi,
costumi, religioni, modalità di pensiero differenti, mentre la strategia d’intervento
educativo è di tipo interculturale: si cerca di mettere in contatto, in interazione, le
differenze (Portera, 2003).
La pedagogia interculturale rifiuta espressamente la staticità e la gerarchizzazione e
può essere intesa nel senso di possibilità di dialogo, di confronto paritetico, senza la
costrizione per i soggetti coinvolti di dover rinunciare a priori a parti significative
della propria identità. La pedagogia interculturale si fonda sul confronto del
pensiero, dei concetti e dei preconcetti, divenendo una pedagogia dell’essere, dove
al centro è posto il soggetto nella propria interezza, a prescindere dalla cultura di
provenienza. L’approccio interculturale tiene conto sia delle opportunità sia dei
limiti degli approcci precedenti, «si colloca tra universalismo e relativismo, ma
supera ambedue in una nuova sintesi» (Santerini, 1994; 2003). Movendo dal rispetto
dell’identità culturale altrui, si passa dalla valorizzazione delle peculiarità (strategia
multiculturale) e degli elementi comuni (strategia transculturale), al dialogo, al
confronto e all’interazione (strategia interculturale).
32
Tale cambiamento di paradigma pedagogico, sviluppato in Europa dalla fine degli
anni Settanta, è da definire rivoluzionario (Portera, 2006a) nella misura in cui ha
permesso di superare le strategie educative a carattere compensatorio, dove
l’emigrazione, lo sviluppo e la vita in contesto multiculturale erano intesi solamente
in termini di rischio di disagio o di malattia: si prende atto della continua evoluzione,
della dinamicità delle singole culture e delle singole identità; l’alunno straniero è
considerato in termini di risorsa e si riconosce ufficialmente l’opportunità di
arricchimento e di crescita personale che può scaturire dalla presenza di soggetti
culturalmente ed etnicamente differenti.
Mentre la pedagogia richiama alla riflessione teorica su tutto ciò che concerne
l’educabilità e l’educazione dell’essere umano, l’educazione (in questo caso
interculturale) è l’atto pratico, l’azione che l’educatore compie nei confronti
dell’educando per dare un proprio apporto sul piano culturale e dei valori, per
aiutarlo ad estrinsecare le proprie potenzialità ed a raggiungere la propria forma
migliore di vita. In questo caso significa, pertanto, realizzare praticamente i principi
della pedagogia interculturale: educazione alla pace, ai sentimenti, all’ascolto, al
dialogo, alla gestione dei conflitti, alla legalità ed al rispetto dei limiti.
Razza
Il termine “razze umane” è scientificamente privo di fondamento e pedagogicamente
improponibile. La storia dell'umanità è una storia di migrazioni. In base agli studi più
recenti di paleontologia, genetica, archeologia e linguistica storica, l'origine unica di
tutti gli uomini (dell'unica “razza” esistente: quella umana) si localizzerebbe fra
l'Africa meridionale, l'Africa orientale ed il vicino Oriente. Sono infatti l'Etiopia e la
Palestina a fornire i resti dei nostri antenati più antichi, dell'Homo sapiens sapiens,
databili a circa 100.000 anni fa. La forma dei continenti, eventi climatici e necessità
alimentari, hanno poi spinto l'essere umano ad occupare aree sempre più vaste del
pianeta: circa 20.000 anni fa, il raffreddamento dei poli ha creato una barriera di
ghiacciai tra l'Europa e l'Asia del Nord, limitando i contatti; il prosciugamento del
Sahara e dell'Africa orientale hanno impedito le migrazioni fra l'Africa ed il vicino
Oriente; l'abbassamento del livello del mare ha facilitato il passaggio tra l'Asia e
l'America attraverso lo stretto di Bering. Nel corso degli ultimi 10.000 anni, le
migrazioni sono state favorite dalla crescita demografica, al momento del passaggio
all'agricoltura (neolitico); specialmente negli ultimi due secoli, la fame, le guerre, le
persecuzioni politiche ed etniche, la ricerca di lavoro, la voglia di esperienze nuove
hanno trasformato il “volto europeo”. Se è vero che gli esseri umani sono tutti
parenti ed appartengono ad un’unica razza, è altrettanto vero che sono tutti
differenti: esistono evidenti differenze etniche, linguistiche, religiose e culturali
che, specialmente in contesto educativo, non possono non essere considerate.
Attualmente la categoria interpretativa che tende a sostituire il concetto di “razza”
è “etnia”. Come al meglio spiega A.L. Epstein (1983), mentre la prima pretende di
indicare una realtà oggettiva, scientificamente dimostrabile, la seconda costituisce
un dato empirico che generalmente indica un’appartenenza comune, non definibile a
priori, l’uniformità di gruppi umani che soggettivamente si riconoscono come distinti
dagli “altri”. Alcuni autori, per sottolineare la dinamicità, preferiscono utilizzare il
concetto di popoli.
Il Consiglio d’Europa (Gazzetta ufficiale del 30.01.1997) indica espressamente di
vietarne l’utilizzo, poiché, suggerendo l’errata concezione che esistono “razze”
33
precostituite e gerarchicamente ordinate, potrebbe alimentare discriminazioni
basate soprattutto su caratteristiche esteriori come il colore della pelle. A mio
parere, a scuola sarebbe opportuno non impiegare neanche concetti come
“educazione antirazzista”.
Tolleranza
Comunemente con tolleranza si intende il “sopportare con pazienza, senza
lamentarsi” cose spiacevoli o dolorose. In contesto pedagogico il concetto di
tolleranza è stato utilizzato con valenza positiva, anche nei confronti di soggetti
stranieri. Esso è fortemente legato a tutti gli studiosi, in particolare pedagogisti, che
in passato hanno ribadito l’importanza dell’educazione alla pace (Comenio, Kant,
Locke, Rousseau, Montessori).
Nel settore interculturale il termine tolleranza è da ritenere meno indicato di quello
di rispetto o di accettazione. Infatti, la tolleranza, prescindendo dalla suddetta
definizione, rimanda ad un rapporto asimmetrico, in cui una persona posta ad un
livello superiore “tollera” un’altra situata più in basso (per cultura, status sociale,
ricchezza). Al contrario, nel rispetto (e nell’accettazione) i soggetti si trovano ed
interagiscono sullo steso piano. Pertanto tali concetti sono da ritenere più consoni
con gli assunti di base della pedagogia interculturale.
Xenofobia
La fobia, una delle nevrosi individuate dalla psicoanalisi classica che spesso paralizza
o ostacola fortemente il contatto, si riferisce alla paura eccessiva ed immotivata nei
confronti di un elemento neutro (es. animale, luoghi chiusi) che, a livello inconscio,
richiama delle problematiche o dei traumi rimossi. La xenofobia, pertanto, può
essere tradotta come “la fobia dello straniero” (Portera, 2002b).
Da studi significativi emerge che insegnanti ed educatori spesso non detengono
abbastanza conoscenze in riferimento al retroterra culturale dei bambini e giovani
stranieri e sembrano anche essere poco motivati ad un vero contatto con l'alterità.
Sostanzialmente, invece di dare ai soggetti provenienti da paesi diversi la possibilità
di essere se stessi, ossia di interiorizzare le norme ed i valori più consoni allo
sviluppo della propria personalità, assumono atteggiamenti distanziati, ostili,
discriminatori, fino a raggiungere una posizione di tipo razzista o xenofoba.
La sensazione di non essere presi in considerazione, capiti o rispettati dagli
insegnanti, può ingenerare nei soggetti con esperienze multiculturale delle crisi, che
spesso accentuano e consolidano ulteriormente il loro ruolo marginale in classe e
peggiorano tanto la loro situazione scolastica, quanto quella psichica generale.
In base ai risultati di una ricerca (Portera, 2005) emerge come a scuola alcuni
insegnanti assumano atteggiamenti opposti: di iperidentificazione con i bambini
stranieri e con i loro problemi. L'identificazione eccessiva, l’atteggiamento
cosiddetto "wohlwollend" (voler far bene), definito con il termine “xenofilia”, pur
implicando interazioni positive noti in pedagogia (si pensi all’effetto pigmalione), se
assunto in maniera eccessiva presenta dei risvolti sfavorevoli o dannosi, soprattutto
nel caso in cui gli scolari si sentano costretti a «rimanere piccoli e sfortunati» o
reprimere parte del proprio Sé per continuare ad essere «amati» o accettati.
34
8. BIBLIOGRAFIA
Abdallah-Pretceille M., Vers une pédagogie interculturelle, INRP, La Sorbonne, Paris,
1986.
Albanese O. (a cura di), Disabilità, integrazione e formazione degli insegnanti.
Esperienze e riflessioni, Junior, Bergamo, 2006.
Bailey K.D., Metodologia della ricerca sociale, Mulino, Bologna, 1995.
Besozzi E., Colombo M., La scuola, in Osservatorio regionale per l’integrazione e la
multietnicità (a cura di), Rapporto 2003. Gli immigrati in Lombardia,
Fondazione ISMU, Milano, 2004.
Besozzi E. (a cura di), I progetti di educazione interculturale in Lombardia. Dal
monitoraggio alle buone pratiche, Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità-Fondazione ISMU, Milano, 2/2005.
Cardano M., Tecniche di ricerca qualitativa, Carocci, Roma, 2003.
Castiglioni I., La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Carocci,
Roma, 2005.
Cavalli Sforza L. e F., Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano,
1993.
Claris S., A scuola di intercultura. Proposte educative e didattiche, La Scuola,
Brescia, 2002.
Colombo M., Besozzi E., Metodologia della
socioeducativi, Guerini, Milano, 1998.
ricerca
sociale
nei
contesti
Colombo M., Scuola e comunità locali, Carocci, Roma, 2001.
Colombo M., Relazioni interetniche fuori e dentro la scuola. I progetti di
integrazione degli alunni stranieri e nomadi del Comune di Brescia, Angeli,
Milano, 2004.
Colombo M., Una risorsa per la rete scuola-territorio. La banca dati dei progetti di
educazione interculturale in Lombardia, in Besozzi E. (a cura di),
L’educazione interculturale in Lombardia. Dal monitoraggio alle buone
pratiche, Quaderni dell’Osservatorio regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 02/2005.
Colombo M., Guida ai progetti di educazione interculturale. Come costruire buone
pratiche, Fondazione ISMU, Milano, 2007.
Damiano E. (a cura di), Homo Migrans. Discipline e concetti per un curricolo di
educazione interculturale a prova di scuola, Franco Angeli, Milano, 1998.
Favaro G., Insegnare l’italiano agli alunni stranieri, La Nuova Italia, Milano, 2002.
Giovannini G. (a cura di), Allievi in classe, stranieri in città, Franco Angeli, Milano,
1998.
Ladri P., Queirolo Palmas L. (a cura di), Scuole in tensione. Un’indagine sulle
micropolitiche della scuola dell’autonomia, Angeli, Milano, 2004.
35
Maggioni G., Vincenti A. (a cura di), Nella scuola multiculturale. Una ricerca
sociologica in ambito educativo, Donzelli Editore, Roma, 2007.
Mc Burney D.H., Metodologia della ricerca in psicologia, Mulino, Bologna, 1986.
Perotti A., La via obbligata dell’interculturalità, EMI, Bologna, 1994.
Portera A., Xenofobia, in Enciclopedia pedagogica- Appendice AZ, La Scuola, Brescia,
2002.
Portera A., Identità culturale, in Enciclopedia pedagogica- Appendice AZ, La Scuola,
Brescia, 2002.
Portera, A. Tesori sommersi. Emigrazione, identità, bisogni educativi interculturali,
Franco Angeli, Milano, 2003.
Portera A. (a cura di), Pedagogia interculturale in Italia e in Europa, Vita e Pensiero,
Milano, 2003.
Portera A., (a cura di), Educazione interculturale nel confronto internazionale,
Guerini, Milano, 2006.
Portera, A., Globalizzazione e pedagogia interculturale. Erickson, Trento, 2006.
Quaglino G.P., Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo, Cortina, Milano, 1995.
Rogers, C.R., A theory of Therapy, Personality and Interpersonal Relationships, in
Koch, S. (Ed.) A Study of a Science, Vol. III. New York, 1959.
Santerini M., Educare alla cittadinanza.
globalizzazione, Carocci, Roma, 2001.
La
pedagogia
e
le
sfide
della
Santerini M., Intercultura, La scuola, Brescia, 2003.
Santerini M., L’educazione alla cittadinanza tra locale e globale, in L.Luatti (a cura
di), Il mondo in classe. Educare alla cittadinanza nella scuola multiculturale,
UCODEP, Arezzo, 2006.
Santerini M., Bambini immigrati a scuola: tutti uguali, tutti diversi in C.Fundarò, “La
Pediatria entra in classe”, Vita e Pensiero, Milano, 2006.
Santerini M., Esperienze di didattica interculturale in Italia: quale modello per la
scuola, in “Africa e Mediterraneo”, 4, 2006.
Santerini M., Reggio P. (a cura di), Formazione interculturale: teoria e pratica,
Unicopli, Milano, 2007.
Sidoli R. (a cura di ), Star bene a Babele. Pedagogia della comunicazione e proposte
didattiche per la classe multilingue, La Scuola, Brescia, 2002.
Speltini G., Stare in gruppo, Mulino, Bologna, 2002.
Surian A. (a cura di), Lavorare con la diversità culturale. Attività per facilitare
l’apprendimento e la comunicazione interculturale, Erikson, Trento, 2006.
Weick K., Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, in M. Colombo
(a cura di), E come educazione. Autori e parole-chiave della sociologia.
Zappalà S., Decidere nelle organizzazioni, Carocci, Roma, 1998.
36