Didattica delle differenze e mediazione dei patrimoni culturali* Il museo è “un modo di vedere” (ALPERS 1995) e la visione – si è più volte detto nei dibattiti museografici degli ultimi anni - deve tornare a scaturire, com’era alle origini del museo moderno, dalla meraviglia e dallo stupore (BASSO PERESSUT 1997). Stupire, incantare, sbalordire, provocare meraviglia, scioccare: non solo cifre della rappresentazione museale, ma effetti propri dalla comunicazione interculturale. Quella che si consuma, tra gli altri luoghi del presente, anche nel museo storico ed etnografico contemporaneo, spazio privilegiato di un nuovo tipo di educazione al patrimonio, centrata sulla valorizzazione delle differenze piuttosto che delle identità. Idolo Taìno Roma, Museo “Pigorini”, Collezione del Kircheriano A proposito di stupore e di shock mi torna in mente una polemica connessa al recente conflitto iracheno. Mi pare utile richiamarla per le sue implicazioni antropologiche. In una lettera a “La Repubblica” del 26 marzo 2003, il giornalista inglese Stephen Jewkes si domandava come mai la stampa italiana traducesse l’espressione “shock and awe” – il nome dato dalle forze USA alla campagna contro Saddam Hussein - con “colpisci e terrorizza”. Il termine awe – egli puntualizzava – di per sé non ha nulla a che vedere con “terrorizzare”: «è un termine molto usato nella Bibbia, vuol dire “sbalordire” (come la bocca aperta di sbalordimento di fronte a Dio)». Il riferimento della polemica era il libro pubblicato nel 1996 da Harlan Ullman e J.P. Wade: Shock and Awe: achieving rapid dominance. Vi si teorizzava una strategia militare il cui primo esempio (XV secolo a.C.) stava nel libro L'arte della guerra del cinese Sun Tzu: deriso da due concubine, le aveva decapitate per ottenere il rispetto delle altre. Ultimo tragico esempio: l’atomica su Hiroshima. Stupire, incantare, sbalordire, provocare meraviglia e insieme scioccare. In che modo? Anzitutto con gli effetti speciali, minacciati e poi dispiegati da un esercito dove trovano un posto persino i delfini, vera partecipazione straordinaria da film holliwodiano. Sul “set” iracheno, del resto, anche il nemico è più immaginario che reale. Quando non veste gli abiti del disumano kamikaze, assume le sembianze stereotipate e un po’ patetiche dell’orientalismo costruito dall’Occidente a proprio uso e consumo, sempre negli studi cinematografici, dai Veli di Bagdad a Totò d’Arabia (GALLINI 2002). Copertina della rivista Antropologia Museale dedicata ai rapporti tra cinema e orientalismo Ancora visioni, questioni di sguardo e di prospettiva, circoscrizioni di appartenenza e di patria civile: dunque patrimoni culturali. Personalmente, sono rimasto stupefatto, e incantato, di fronte alla foto (pubblicata sulla prima pagina de “La Repubblica” dell’8 aprile 2003) di un gruppo di soldati americani del Settimo Reggimento, ripresi in una stanza delle residenze imperiali irachene dopo l’avvenuta conquista di Bagdad. Nella foto campeggia un militare che fuma una sigaretta seduto su una poltrona, nella postura un po’ scomposta e sfrontata che gli americani hanno diffuso un po’ ovunque come stile di libertà individuale. Sembra appagato dal sapore della vittoria. La scena mi è sembrata l’emblema di una guerra già stravinta (contro un esercito in mutande senz’altro più sbracato di quel soldato) e pure già vista al cinema, in tanti film da cui l’immagine poteva essere stata rubata. Quando si dice che l’immagine della realtà si trasfigura in realtà dell’immaginario! Soldati del 7° Reggimento di Fanteria USA in uno dei palazzi di Saddam Bagdad In quella foto-simbolo ho letto la storia intera dell’Occidente e del suo borioso etnocentrismo (quello che ogni buona etnografia sa di dover circoscrive e neutralizzare). Gli iracheni stanno agli Incas come gli angloamericani ai conquistadores di Cortez? L’interpretazione che della conquista dell’America ha dato T. Todorov (1984), per estensione, ci autorizza a crederlo. La superiorità, se è lecito, è ancora una volta semiologica, cioè da valutare in termini di comunicazione mediatica: Shock and awe! Che poi sarebbe come dire: Fascinans e Tremendum. Se qualcuno mi chiede cosa sia il “numinoso” di Rudolfph Otto, che Clara Gallini opportunamente ha richiamato in un articolo scritto per “il manifesto” a proposito dell’espressione qui in gioco, risponderei che coincide con quell’immagine. Come si può non rimanere scioccati e al tempo stesso stupefatti di fronte a quel soldato? In quell’icona c’è la forza simbolica di chi detiene il potere delle immagini e pretende di estenderlo all’altrui immaginazione. Tutto ciò sembra non avere molto a che fare con i musei. Ma non è esatto. Dietro quell’icona, c’è il patrimonio antropologico di una cultura (l’Occidente) costruita sulle ceneri di Babilonia. Questa cultura, nel bene e nel male, incorpora ottomila anni di storia, tra l’Eufrate e la West Coast, tra Gilgamesh e Bush; e dunque si preoccupa della vulnerabilità del Museo Archeologico Nazionale di Bagdad ma sembra disinteressarsi, perché non li “riconosce” ancora, di quei beni “etnografici” che sono sparsi tra il Kurdistan e le paludi di Bassora. Magazzini del Museo Nazionale di Bagdad dopo la razzia dell’aprile 2003 Antico pugnale Bagdad, Museo Nazionale Ecco di cosa parliamo, a volte, quando parliamo di patrimoni culturali. Ed è per evitare certi strabismi che nei nostri musei, in quelli storici ed etnografici in particolare, sembra essenziale, a noi antropologi, promuovere una didattica centrata sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle differenze. Bisogna approfondire le politiche del riconoscimento per cogliere le ragioni antropologiche di tante tradizioni, della violenza, della guerra, e dunque per trovare i presupposti di ogni eventuale pace. Mentre in Occidente si plaude al punto conquistato a favore della democrazia, ci ritroviamo infatti ad assistere stupefatti ai “flagellanti” sciiti che festeggiano la fine della dittatura postsocialista del partito di Saddam Hussein. Scopriamo un ponte tra Kerbela e Guardia Sanframondi. Solo la comparazione antropologica ci aiuterà a dire qualcosa di intelligente a proposito di comprensione e di rispetto delle differenze. “Flagellanti” al pellegrinaggio annuale in memoria di Hussein, nipote di Maometto, il cui martirio è all’origine dell’islamismo sciita Kerbala Madonna dell’Assunta, processione dei “Battenti” Guardia Sanframondi Il campionario di "stranezze" offerto dalle popolazioni umane e registrato dalla letteratura etnologica è impressionante: uomini che sacrificano i loro beni più preziosi; che accumulano ricchezze per ostentarle e poi, in particolari occasioni, vogliono distruggerle; che schiaffeggiano i loro re almeno una volta all' anno; che periodicamente si ritirano in luoghi isolati per incontrare gli spiriti degli antenati; che deformano o mutilano il proprio corpo e quello dei loro figli; che si flagellano a sangue o si danno ad orge sfrenate assumendo droghe potentissime Il “cardo” utilizzato dai flagellanti durante la settimana santa Nocera Tirinese (CZ) Giovane “vattiente” Nocera Tirinese (CZ) e comportamenti dissacranti; che uccidono i propri bambini e violentano le proprie mogli. In uno spiazzante commento sul conflitto iracheno, un’antropologa raccontava di una famiglia siriana conosciuta durante una sua personale ricerca sul campo e di un suo membro finito tra i kamikaze. Nell’articolo provava a richiamare l’attenzione su aspetti che implicano una seria riflessione comparativa sulla relatività di tanti concetti e stili di vita: cos’è il corpo per noi e per gli altri? o la vita e la morte, l’individuo e la società? Relativismo uguale antiamericanismo? Sarebbe un bel paradosso. Un concetto, inventato dagli antropologi statunitensi, dopo oltre cinquant’anni gli torna indietro come un boomerang. Che si trattasse di uno strumento insidioso ben lo comprendeva il nostro Ernesto de Martino, che vedeva l’etnologia, figlia del relativismo, carica tanto di promesse quanto di minacce (DE MARTINO 1962). Tuttavia gli americani, soprattutto quelli che hanno sposato le ragioni della guerra dichiarata da Bush in risposta all’attacco alle torri gemelle, farebbero bene a interrogarsi almeno sulla relatività del loro concetto di frontiera. Preparazione cerimonia di ospitalità nelle capanne palustri Territorio di Bassora Festa di cristiani iracheni Vincere significa sempre saper progettare la pace su un’idea civile di frontiera. Ma per il modernismo conservatore statunitense frontiera non è boundary. Frontier è “il punto più avanzato dell’onda, il confine tra barbarie e civiltà”. Lo diceva alla fine dell’Ottocento Frederick J. Turner, che è stato uno dei più autorevoli interpreti di questa idea ai tempi dell’epopea western (FABIETTI 1995). È lui che ha fondato quel nesso tra civiltà e cresta dell’onda avanzante rimasto tipico delle politiche “imperialistiche” americane. Per la tradizione europea, viceversa, frontiera evoca l’idea di una zona franca, un’area aperta al contatto culturale e alla negoziazione di sistemi di valori. Per una certa antropologia continentale, l’idea stessa di pace è infatti pratica della frontiera, riconoscimento e valorizzazione dell’altro entro un sistema di reciproca compatibilità, garantito dal dispositivo giuridico che mantiene in equilibrio i rapporti di uguaglianza e differenza. Da questo punto di vista il conflitto è stato (ed è), prima ancora che con gli arabi, all’interno stesso dell’Occidente. E non vede schierati semplicemente americani da una parte ed europei dall’altra. Ma all’interno dei due fronti occidentali oppone le diverse anime del liberalismo politico. Di cose, in quest’ultima guerra, ne abbiamo viste e sentite tante. Abbastanza da rimanere - appunto - sbalorditi e stupefatti. Persino il Papa ha sentito il dovere di intervenire, per dire che il Dio condiviso dalle religioni del Vecchio Testamento, dunque il Dio di tutte le forze in campo, di fronte a tanto “macello” avrebbe sospeso il suo sguardo sugli uomini in conflitto. Per girarsi dall’altra parte e fare un passo indietro, così da non legittimare il fondamentalismo religioso delle parti in causa e lasciare spazio alle ragioni della politica. La posta in gioco ha però una natura squisitamente antropologica oltre che politica. L’incontro con la diversità è sempre un incontro al limite dell’identità e di certi particolari parametri di giudizio. In questo senso è un incontro che produce scandalo, “impedimento”, e dà luogo ad azioni e a reazioni di tipo morale. Gli atteggiamenti, i comportamenti, i detti e i fatti degli altri possono urtare o insidiare la nostra coscienza e dunque provocare sdegno, rifiuto od ostilità. Per arrivare al dialogo e al confronto bisogna anzitutto riguadagnare in positivo lo shock dell’inconsueto e rimuovere gli impedimenti causati dal sentimento di estraneità, spesso inquietante, che l’altro ci provoca (KRISTEVA 1990). Il presupposto perché tale processo si compia è l’accettazione dell’idea di multiculturalismo. Il concetto è stato inventato proprio negli Stati Uniti (TAYLOR 1993), ma è scaturito, come il relativismo culturale, dall’umanesimo etnografico che contraddistingue la nostra cultura, cioè da quell’atteggiamento che ci induce a mediare sempre la nostra presa di coscienza dell’umano attraverso l’ethos del confronto con altri modi di essere uomini in società (DE MARTINO 1977). Il multiculturalismo è divenuto parte essenziale della struttura stessa dei moderni sistemi politici occidentali, i quali possono sperare di accrescere il loro grado di civiltà solo rivendicando il valore delle differenze culturali, solo praticando una politica del riconoscimento, indispensabile perché sia fatto salvo, nell’interesse della collettività, il principio dell' uguaglianza universale degli uomini (HABERMAS 1998). Si tratta di una necessità, questa del riconoscimento, che nell’attuale società multiculturale viene reclamata in primo luogo dalla scuola, dove ai problemi della cosiddettà interculturalità oggi si tenta di rispondere con quella che si dice educazione interculturale (NIGRIS 1996; GOBBO 2000; CALLARI GALLI 2000). A suo modo, il museo antropologico oggi consente alla scuola di programmare un "viaggio” alla scoperta di mondi che sono "altri-da-noi" sia dal punto di vista storico che geografico. Il pubblico scolastico, in questi anni, ha per esempio trovato nel Museo “L. Pigorini” uno spazio per l’incontro con l’alterità, un’occasione di conoscenza e di problematizzazione della propria cultura in rapporto a quella degli altri, poiché gli oggetti del Museo si riferiscono a storie e a mappe culturali tra le più varie. A questo tipo di offerta didattica, il Museo “L. Pigorini” è giunto in seguito alla riflessione critica sui contenuti del museo evoluzionista di origine ottocentesca (PIGORINI 1881) e attraverso la valorizzazione di una tradizione presente nella storia stessa dell’Istituto. Il punto di riferimento per una strategia nuova, che conservasse vivo il connubio tra archeologia ed etnoantropologia, è stato offerto dal comparativismo storico e dal relativismo culturale, prospettive metodologiche legate ai nomi di due personaggi che con il Museo “L. Pigorini” hanno avuto un rapporto diretto e costruttivo: Raffaele Pettazzoni e Tullio Tentori (LATTANZI 2003). Decorazione corporale Masai per la cerimonia d’addio alla condizione di guerriero Piercing e decorazioni di una giovane punk occidentale Su questa strada, al pubblico è stata proposta la sperimentazione di percorsi tematici come l’abitare, il viaggio, il rito, la comunicazione simbolica, e si è dato vita a una didattica delle differenze che ha funzionato da medium per pensare l’attualità con i suoi diversi problemi e le sue molteplici esperienze multiculturali. Sul piano comunicativo, la didattica delle differenze è stata dunque uno strumento di interpretazione riflessiva, una chiave di lettura in grado di attraversare i processi della rappresentazione museografica contemporanea. E ha dato sostanza al museo come modo di vedere le cose, di “transitare” o “passare attaverso” gli spazi multiculturali del passato e del presente, secondo un approccio conoscitivo ed esperenziale in cui gli oggetti sono “segni” inscritti in un “testo”, il documento è una “traccia” e l’osservazione è “visione”. Vito LATTANZI, Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini”, Responsabile per i Servizi Educativi Riferimenti bibliografici S. ALPERS, Il museo come modo di vedere, in I. Karp, e S. D. Lavine, Culture in mostra, Milano, Clueb, 1995. L. BASSO PERESSUT, (1997), a cura di, Stanze della meraviglia. I musei della natura tra storia e progetto, Bologna, Clueb, 1995. M. CALLARI GALLI, Antropologia per insegnare, Milano, Bruno Mondatori, 2000. E. DE MARTINO, Furore, simbolo, valore, Milano, Il Saggiatore, 1962. E. DE MARTINO, La fine del mondo, Torino, Einaudi, 1977. U. FABIETTI, L’identità etnica, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995. C. GALLINI, Kasbah mia…kasbah mia…, “Am – Antropologia museale”, n. 2, pp. 28-33, 2002. F. GOBBO, Pedagogia interculturale, Roma, Carocci, 2000. J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998. J.KRISTEVA, Stranieri a se stessi, Milano, Feltrinelli, 1990. V. LATTANZI, Dieci anni di didattica delle differenze al museo preistorico etnografico, “AM. Antropologia Museale”, n. 4, pp. 47-52, 2003. E. NIGRIS, a cura di Educazione interculturale, Milano, Mondatori, 1996. L.PIGORINI, Il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico, Prima Relazione a S.E. il Ministro della Pubblica Istruzione, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1881. C.TAYLOR, Multiculturalismo, Milano, Anabasi, 1993. T. TODOROV, La conquista dell’America, Torino, Einaudi, 1984. * Le immagini di questo testo sono state riprodotte per scopi esclusivamente didattici nel corso delle attività promosse dai Servizi Educativi del Museo Preistorico Etnografico “L. Pigorini”