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In copertina: disegno tratto da VIOLLET–DE–LUC, Encyclopedie Medievale.
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Leggere e scrivere Architettura
Linguaggi, modelli e tecniche
per il progetto dell’abitare
a cura di
Barbara Bogoni
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Copyright © MMVII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1356–4
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: settembre 2007
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Indice
Leggere e scrivere Architettura di Barbara Bogoni
Parte Prima
11
Leggere
Le Corbusier, aspetti della teoria e della pratica architettonica
di Fernanda Incoronato
24
Ludwig Mies van der Rohe, architettura e razionalità
di Emanuele Bugli
30
Adolf Loos, l’impegno teorico e la prassi progettuale nella costruzione di un rap36
porto semplice e autentico con le cose
di Michele Locatelli
Erik Gunnar Asplund, il nordico, il classico, il moderno
di Elena Montanari
42
Alvar Aalto, tra materia e natura
di Marco Caprini
48
Franco Albini, ordine e metodo come regole del fare architettura
di Marco Lucchini
52
Carlo Scarpa, il disegno del dettaglio tra passato, presente e natura
di Luca Schiaroli
56
Alvaro Siza Vieira, il disegno, il progetto e la poesia
di Francesco Sposito
60
Parte Seconda Scrivere
Il progetto didattico e il progetto architettonico
di Barbara Bogoni
67
1895,
FRANCISCO TERRACE APARTMENTS, di Frank Lloyd Wright,
76
Chicago, Illinois (USA)
1895,
FRANCIS APARTMENTS, di Frank Lloyd Wright, Chicago, Illinois
78
(USA)
1895,
WALLER APARTMENTS, di Frank Lloyd Wright, Chicago, Illinois
80
(USA)
1898–99, MAJOLIKHAUS, di Otto Wagner, Vienna (Austria)
82
1903,
CASA D’ABITAZIONE AL N. 25 BIS DI RUE FRANKLIN, di Auguste
84
Perret, Parigi (Francia)
1909,
IMMEUBLE TRÉMOIS, di Hector Guimard, Parigi (Francia)
86
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1911–13, BLOCCHI DI ABITAZIONI POPOLARI PER LA
ALGEMEENE WONINGBOULWVEREENIGING, di
Hendrik P. Berlage, Amsterdam (Olanda)
88
1913–15, EDIFICIO D’ABITAZIONE SU SPAARNDAMMERPLANTSOEN I, di Michel de Klerk, Amsterdam
(Olanda)
90
1916,
MUNKWITZ DUPLEX APARTMENTS, di Frank
Lloyd Wright, Milwaukee, Wisconsin (USA)
92
1923,
PROGETTO PER VENTI VILLE A TERRAZZA, di
Adolf Loos, Vienna (Austria)
94
1927,
CASE MINIME SPERIMENTALI ALLA WEISSENHOFSIEDLUNG, di J.J.P. Oud, Stoccarda (Germania) 96
1927–29, NOVOCOMUM, di Giuseppe Terragni, Como (Italia)
98
1929–30, SIEDLUNG SIEMENSTADT, di Walter Gropius, Berlino (Germania)
100
1930,
PADIGLIONE SVIZZERO ALLA CITÉ UNIVERSITAIRE, di Le Corbusier, Parigi (Francia)
102
1931–34, DOMUS JULIA, di Giò Ponti, Milano (Italia)
104
1933–36, DOMUS SERENA, di Giò Ponti, Milano (Italia)
106
1934–36, CASA RUSTICI COMOLLI, di Giuseppe Terragni,
Milano (Italia)
108
1936,
DORMITORI DEL CHRIST’S COLLEGE, di Walter
Gropius, Cambridge (Gran Bretagna)
110
1946–49, BAKER HOUSE DORMITORY, di Alvar Aalto, Massachussetts Institute of Thecnology, Cambridge, Massachusetts (USA)
112
1950–52, EDIFICI AD APPARTAMENTI NEL QUARTIERE
INA–CASA, di Franco Albini, Crescenzago, Milano
(Italia)
114
1952,
UNITÉ D’HABITATION, di Le Corbusier, Marsiglia
(Francia)
116
1956,
CASA ALLA WEISSENHOFSIEDLUNG, di Ludwig
Mies van der Rohe, Stoccarda (Germania)
118
1958–62, EDIFICIO AD APPARTAMENTI NEUE VAHR, di
Alvar Aalto, Bremen (Germania)
120
1960–66, GUID HOUSE, di Robert Venturi, Philadelphia, Pennsylvania (USA)
122
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1967–70, RESIDENZE PER ARTISTI WESTBETH GREENWICH VILLAGE, di Richard Meier, New York (USA) 124
1976,
CASA DELLO STUDENTE, di Giorgio Grassi, Chieti
(Italia)
126
1986–88, EDIFICIO D’ABITAZIONE KAGURAOKA, di Tadao
Ando, Kyoto (Giappone)
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A Gaia e a Leonardo
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Leggere e scrivere Architettura
Barbara Bogoni
“Leggere e scrivere Architettura” è un esperimento sul e con il linguaggio proprio della disciplina,
sulle possibilità di affinare un modello di approccio al progetto architettonico basato sulla curiosità,
sulla capacità, cioè, di porre e di porsi quesiti intorno all’opera di architettura.
Esso si basa su una domanda tanto importante quanto ricorrente: “perché?”.
Porsi domande, essere curiosi, esplorare come ricercatori le questioni più sottili del perché è stato
pensato e costruito quello e in quel modo e in quel luogo e...
Porsi domande per imparare e per acquisire un linguaggio progettuale personale articolato, elaborato sulla conoscenza della storia dell’architettura, della storia delle tecniche costruttive e dei diversi
metodi di approccio al progetto.
Porsi domande per confrontarsi umilmente con il passato, per contribuire a costruire un futuro coerente e cosciente.
In una parola, per imparare. Per imparare cos’è l’architettura.
L’architettura è un segno, meglio un insieme di segni che comunicano un contenuto spaziale.
Una scrittura. Un linguaggio.
E come nelle fasi di acquisizione del linguaggio parlato, che si riconoscono nello sviluppo del bambino dalla nascita fino ai tre anni di vita, e poi del linguaggio scritto, anche nell’apprendimento del linguaggio architettonico si individuano alcune fasi di sviluppo, che passano dall’ascolto superficiale
generico a un ascolto (o visione) più approfondito, all’affinamento di capacità cognitive proprie, che
consentono non solo di “guardare” ma anche di “vedere”, prima l’oggetto nella sua totalità, poi via via
una sempre più dettagliata quantità di caratteristiche, per giungere al riconoscimento delle ragioni e
delle strutture logiche e poetiche del progetto e, infine, alla definizione di una propria autonomia critica e progettuale.
Per questo il percorso delineato nell’esperimento consiste nel passaggio ragionato dalla lettura alla
scrittura: per parlare correttamente il linguaggio architettonico è importante conoscerne i codici espressivi, le regole e le eccezioni, la grammatica, la composizione, la tecnica espressiva, le tecniche costruttive, i principi di funzionamento, i sistemi impiantistici, i caratteri strutturali, le relazioni con l’ambiente, i significati simbolici e metaforici, ecc.
E la conoscenza del linguaggio architettonico avviene, come per il linguaggio verbale nel bambino,
con continue esperienze di ascolto passivo e fasi attive di sperimentazione individuale, raggiungendo la
conoscenza attraverso un processo di prove ed errori, di andate e ritorni.
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Architettura come struttura segnica.
Le Corbusier, Convento di Sainte
Marie de la Tourette, Eveux, 1953–60
Leggere un’opera architettonica non è cosa semplice. È necessario sviluppare una buona conoscenza e una elevata capacità critica (aiutate dall’interesse e dalla curiosità). Inoltre, come detto, è necessario apprenderne le regole sottese, capire l’autore, il suo metodo, la sua poetica, la sua sensibilità.
Anfione e Zeto
Anfione e Zeto, i mitici gemelli figli di Giove e Antiope, costruirono le solide mura di Tebe “specializzandosi” in compiti diversi: Anfione suonava la lira e cantava, mentre Zeto trasportava i massi sopra
le spalle.
Metafora di ogni costruzione architettonica, le mura di Tebe sono il frutto di una dualità originaria
e della compresenza di teoria e pratica, di pensiero e azione, di poesia e fatica. Nel mito esse si configurano in una unità, in una relazione interna di reciprocità. Così nell’architettura reale.
Il progetto comporta un sapere, un “saper cosa”, un “saper come” e un “sapere perché”, acquisibili tramite ricerca e pratica 1.
In realtà, come avviene nel bambino, anche chi si avvicina al mondo dell’architettura lo fa in modo
istintivo e l’apprendimento risulta essere un processo naturale, una sorta di progressivo “innamoramento” nei confronti della disciplina, tanto radicale e coinvolgente quanto più profonde ne sono la comprensione e la conoscenza.
Non solo.
Il dialogo con l’architettura non può né vuole essere univoco. La sola conoscenza del linguaggio e
delle regole del fare non bastano all’architetto, che è invece chiamato a dare un contributo suo proprio
alla società e alla disciplina attraverso il progetto. L’architetto deve saper parlare all’architettura. Attraverso linguaggi e tecniche che appartengono ad entrambi. Deve rendersi possibile lo scambio reciproco tra ciò che è progettato e colui che progetta, cioè pensa, immagina, descrive, disegna, controlla, verifica, realizza.
1
Si veda: C. SINI, Pensare il progetto, Tranchida, Milano 1992.
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Il disegno come strumento di indagine e di comunicazione. Le Corbusier, Schizzi “”Le pilon / le piton” e “Vue du Pilon ver
Aix” e Carlo Scarpa, Studio d’allestimento di una sala della Galleria dell’Accademia, Venezia, 1945–59
Questa figura di “amante” dell’architettura, impegnata nel “fare” ha un compito importante e ineliminabile: scrivere, cioè progettare 2.
Il progetto e il sapere sono pratiche di scrittura. Il progetto è una pratica. La pratica è sempre una
pratica di scrittura, su un foglio di carta o nella realtà fisica “vivente”.
Il vocabolario dell’architettura, tanto immediato nell’apprendimento quanto complesso nella elaborazione, richiede l’acquisizione dei principi e delle regole fondative del fare architettura. Tali principi
sono in continua trasformazione, e, forse, non è nemmeno chiaro il loro riconoscimento da parte di tutti.
Per noi sono comunque strumenti importanti per poter parlare una lingua comune e, quindi, la comprensione, e per rendere possibile l’interpretazione (la lettura) e la successiva progettazione (scrittura) dell’opera architettonica.
Nella lettura di un progetto o di un’opera realizzata è utile comprendere qual’è stato percorso di
approccio al progetto l’architetto ha seguito e/o ha formulato personalmente come “biglietto da visita”
del suo “fare architettura”.
Alcune “tappe” generali di questo percorso sono costanti e ineliminabili. Vediamole, attraverso
l’esplorazione delle “azioni” proprie dell’architetto 3.
Documentare–documentarsi
Il primo passo nello studio o nell’elaborazione di un progetto è l’ineliminabile fase di acquisizione di
informazioni relativamente al luogo, al periodo, al contesto culturale, sociale e ambientale in cui l’opera
si colloca o dovrà collocarsi. L’indagine viene condotta attraverso esplorazioni analitiche sullo stato
attuale dei luoghi, le loro configurazioni ambientali, topografiche e morfologiche, per evidenziare la presenza di un tessuto “artificiale” edificato o di un ambiente aperto e naturale, la vicinanza di situazioni
“eccezionali” come particolari edifici di rilevanza storica o eventi naturali significativi come mari,
2
Per un approfondimento si veda il sempre attuale testo di: L. QUARONI, Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, Mazzotta, Milano 1977.
3
Per un approfondimento si veda: A. FERRARI, Le azioni del progetto, Tre Lune, Mantova 2003.
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Architettura e contesto naturale. Alvar Aalto, Villa Mairea,
Noormarkku, Finlandia, Finlandia, 1938–39
fiumi, montagne, i caratteri del sistema di accessibilità, le caratteristiche dei materiali ricorrenti, dei
colori, delle textures, gli strumenti normativi e legislativi che danno le regole per l’insediamento, ecc.
Queste indagini consentono di acquisire tutte le informazioni indispensabili alla progettazione, al
fine di evitare di costruire traballanti “castelli in aria”, astratti e anacronistici, privi di concretezza e di
relazione con la specificità dei luoghi e privi, altresì, del senso di realtà che sarà in grado di trasformare un’idea in uno spazio abitabile dall’uomo.
Tra i molti, il disegno dal vero e lo schizzo rappresentano strumenti utili al fine dell’indagine conoscitiva. La mano attenta che, attraverso l’osservazione e la trascrizione, anche con continui passaggi di
scala, sa tradurre in segno il messaggio visivo è una fonte inesauribile di informazioni.
Importante, quindi, per l’architetto saper “tracciare” le immagini, anche in modo approssimativo e
istantaneo, come fa Siza nei sui schizzi, attraverso un segno scarno oppure saper “mettere su carta” il
proprio pensiero, in modo ideogrammatico, come fa Le Corbusier, che spesso arricchisce il segno grafico di informazioni programmatiche, o in modo quasi “esecutivo” e “di dettaglio”, come in molti disegni di Wright o Scarpa, di per se stessi opere d’arte grafica e programmi d’architettura completi.
Il rapporto con il contesto circostante dà la misura ai vincoli e alle potenzialità dell’intervento.
Aalto progetta e realizza Villa Mairea (1938–39) a Normarkku, in un bosco finlandese, in una natura incontaminata e selvaggia. Si confronta con gli alberi, con il vento e con la luce. Nient’altro. I materiali sono quelli offerti dalla tradizione, dai luoghi, e lavorati dalle mani dell’uomo, elementi semplici,
concreti: legno, pietra.
Wright progetta Casa Kaufmann, costruita sulla cascata di un ruscello a Mil Run in Pennsylvania
(1935), come fosse essa stessa parte di un corso d’acqua “animato” da dislivelli, terrazzamenti, cumuli di sassi e rocce. Più un rifugio nella foresta che una casa. Una integrazione con la natura piuttosto che
la denuncia esplicita di una costruzione artificiale prodotta dall’uomo.
I disegni di progetto di città lineare di Le Corbusier e Jeanneret per Algeri (1930) interpretano il contesto alla scala paesaggistica, e rappresentano l’edificio come un indefinitamente lungo “segno abitato”, come un tracciato scorto ad alta quota in un panorama illimitato.
Le analisi storiche condotte su un tessuto urbano ne mettono in luce la natura dinamica, la vocazione e la direzione di crescita. A seguito dell’acquisizione di questi dati è possibile stabilire la congruità
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Architettura e contesto naturale. Frank Lloyd Wright, Casa Kaufmann (Falling Water), Bear Run, Pennsylvania, USA, 1936
di un progetto, e la sua coerenza rispetto alle aspettative future, in conformità con i piani e le strutture
normative in essere.
Pro-gettare e com–porre
In ambito filosofico Martin Heidegger esplora (tra i molti) il tema del sapere. Porsi delle domande
sul sapere significa porsi in una condizione che destabilizza, mette in crisi. Crisi vuol dire critica, analisi, giudizio. Per conoscere.
Ai fini della conoscenza, chiediamoci il significato di due parole che utilizziamo (sovrautilizziamo)
nella prassi dell’architettura: com–porre/com–posizione, pro–gettare/pro–gettazione 4.
Parole composte, azioni e processi articolati.
Le Corbusier definisce il termine composizione come lo strumento dell’ordinare, come fenomeno
creativo: «L’architettura è un fenomeno creativo che segue un ordinamento; chi dice ordinare dice comporre».
Ernesto Nathan Rogers dice: «Comporre significa mettere insieme varie cose per farne una sola. Ma
diverse cose possono diventare, tutte insieme, una sola proprio perché tra le componenti si stabilisce
una relazione, dove esse si influenzano reciprocamente, stabilendo la sintesi attraverso un intero rapporto dialettico».
Composizione è quindi relazione e sintesi.
La parola stessa ci dice che l’azione è quella di “porre con” cioè far interagire tra loro, nello stesso
tempo e nello stesso spazio molti elementi, anche diversi tra loro, per creare una complessità come sintesi indissolubile di parti, riconoscibile e inscindibile nella sua unità.
Il progetto di Le Corbusier per la Cappella di Notre–Dame du Haut a Ronchamp (1950–55) esemplifica molto bene questo concetto, definendo una composizione organica e unitaria, nella quale le componenti si fondono nel tutto senza lasciare traccia della loro specificità e integrandosi l’una con l’altra,
il disegno, i materiali, la forma, la funzione, l’orientamento, l’articolazione volumetrica, la struttura “a
4
Si vedano i temi del “pro–getto” e del “soggetto gettato” esplorati da Martin Heidegger in: C. SINI, Pensare il progetto,
Tranchida, Milano 1992.
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Composizione, relazione e sintesi. Le Corbusier, Cappella di Notre–Dame du Haut, Ronchamp, Belfort, Francia, 1950–55
guscio”, il significato allegorico, la luce, i colori, gli arredi e le attrezzature, gli oggetti. Ogni dettaglio
ci parla del tutto e nulla del tutto riconduce al dettaglio. Più che in altri progetti di composizione “analitica” dello stesso autore, in questo la tensione del progettista è rivolta alla composizione nel senso
della creazione di un insieme organico e plastico, in seguito all’unione di diversi elementi.
Per contrappunto, la com–posizione miesiana è di altra natura, rispetto alla Chapelle di Ronchamp.
Le architetture di Mies sono fondate su principi analitici, sull’idea di scorgere la bellezza della forma
nella precisione matematica, nella modularità, nella proporzione, nella ripetizione, nell’uso dei materiali in tutta la loro purezza e rigore.
Pro–gettare è la trascrizione dell’idea originaria e l’anticipazione “astratta” dell’oggetto reale, è
anteporre alla realizzazione di un oggetto l’immagine dello stesso in una struttura di pensieri, note,
schizzi, schemi, disegni, in una parola nel progetto.
Da proiettare, il termine, sembra definire l’atto del “gettare avanti”, del trasferire il pensiero su disegni in scala, corredandolo di calcoli e dati tecnici relativi a forme, materiali, mezzi, modi, tempi e costi
di lavorazione, procedure, istruzioni.
È il mestiere dell’architetto, quello di articolare un processo complesso (nel senso di non semplice
né banale) per de–limitare uno spazio nel quale l’uomo vive, compie gesti, svolge attività, pensa, ama.
Ordinare e relazionare
Comporre e progettare, in architettura, significa creare relazioni “ordinate”. È quindi necessario
imparare a riconoscere i segni dell’ambiente e dell’architettura che consentono di distinguere ordine e
disordine, proporzione e sproporzione, equilibrio e squilibrio, solidità e fragilità, forme significative e
forme casuali o vuote di senso. Solo grazie allo sviluppo di questa sensibilità possiamo dire di essere in
grado, come architetti, di esprimere pareri sullo spazio. Di saper intuire l’invisibile, ciò che sta al di là
dell’involucro esterno e, alla visione anche solo esterna di un’opera, di saper formulare ipotesi sulla sua
organizzazione interna, sugli spessori, sulla struttura e distribuzione degli spazi, sulla qualità 5.
5
Si veda: P. VON MEISS, Dalla forma al luogo, Hoepli, Milano 1992.
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Relazioni di vicinanza, adiacenza, prossimità, articolazione. Mnesicle, Acropoli di
Atene, V sec.
Creare ordine, superare il caos, è una necessità umana, è il bisogno di regole chiare e universalmente applicabili che rendano comprensibili linguaggi diversi e che consentano quindi la comunicazione.
Chiarito l’ordinamento, i principi e le norme, è facile, servendosene, scomporre il progetto nelle sue
strutture, “leggerne” i contenuti, le gerarchie, le coerenze, le discrasie, le irregolarità, le inopportunità.
L’architettura si avvale, per far ciò, di alcune “relazioni”.
Rimandando ad altre letture una formulazione più esaustiva di tali relazioni 6, ne citiamo qui solo
alcune, tra le più ricorrenti e note.
Vicinanza, adiacenza, prossimità e i loro contrari sono relazioni “logistiche”, che definiscono, cioè,
la posizione reciproca delle parti tra loro e rispetto al tutto.
Ritmo, successione, ripetizione, armonia, melodia e i loro contrari sono relazioni “toniche”, che definiscono, cioè, la scansione delle parti, la loro modularità e la loro ricorrenza secondo un intervallo.
Simmetria, assialità, proporzione, specularità e i loro contrari sono relazioni “figurative”, che definiscono, cioè, il sistema di distribuzione degli elementi nel tutto, ossia il complesso delle strutture parziali in grado di definire l’immagine completa dell’oggetto.
Articolazione, continuità, equilibrio e i loro contrari sono relazioni “linguistiche”, che definiscono,
cioè, la vocazione espressiva e comunicativa dell’architettura verso l’esterno.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma vorrei concludere questo elenco solo accennando brevemente a due concetti fondamentali, che contengono la sintesi di tutte le possibili relazioni: i concetti di tipo e
di forma, e, per estensione, la classificazione tipologica e l’analisi morfologica applicate all’architettura
(non affrontiamo, in questa sede, la multidisciplinarietà della ricerca sui tipi, per esempio in ambito biologico, fisico, antropologico, ecc.). Conoscerle, saperle riconoscere e utilizzare sono atti ineliminabili
per un progettista cosciente e sapiente.
In architettura, il “tipo” è l’idea stessa dell’architettura, ciò che sta più vicino alla sua essenza, il
principio elementare (Q. de Quincy), la struttura stessa dell’architettura, ciò che, nonostante i cambiamenti, permane come costante. È una invariante concettuale della forma strettamente connessa con la
realtà, che si trasforma al trasformarsi della realtà storica, ed è un fenomeno epocale in continua evoluzione. Il suo carattere “evoluzionistico” non ne inficia l’universalità, ma la arricchisce e la articola.
6
Si veda: P. VON MEISS, op. cit.
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Relazioni di simmetria, assialità, proporzione, specularità, ritmo, successione, ripetizione. Leon Battista Alberti, Palazzo
Rucellai, Firenze, 1946–52 e Sebastiano Serlio, Scena tracica–comica–satirica, 1545
Cosa si intende quindi per tipo e tipologia?
«La tipologia edilizia è lo studio degli elementi organizzativi, strutturali e artificiali (intendendo
quindi non solo i fabbricati ma anche le mura, i viali, i giardini, il costruito delle città) avente per finalità la loro classificazione rispetto alla forma urbana di un determinato periodo storico (o a una particolare forma urbana)» (A. Aymonino).
Quando si parla di biblioteche, scuole, prigioni, abitazioni per indicare uno specifico fatto architettonico, si opera una schematizzazione che può essere definita “tipo edilizio”, cioè una serie precisa di
funzioni dell’abitare umano che, per il riferimento alla loro reciproca organizzazione e al loro significato, si sono legate secondo una certa aggregazione, il cui ambito edilizio si chiama, per l’appunto,
biblioteca, scuola, ecc.
Non solo.
Oltre a quelle relative al “contenuto”, molte altre classificazioni tipologiche possono essere fatte in
relazione ai diversi elementi costitutivi dell’architettura: per esempio, rispetto alla sua forma materiale,
alla sua distribuzione interna, alla sua struttura di sostegno, al suo significato intrinseco, ecc.
Si pensi alla specifica classificazione degli edifici, nei tipi “monofamiliare”, “a schiera”, “a ballatoio”, “a torre”, ecc., i cui caratteri specifici, le invarianti, consentono di accomunare progetti anche molto
diversi tra loro in una stessa categoria.
Per esempio, l’alloggio a schiera ha precise modalità di affaccio (due lati liberi e due lati ciechi, di
solito i primi di estensione inferiore rispetto ai secondi), di adiacenza rispetto ad altri alloggi (sequenza di alloggi in un edificio lineare), di accessibilità esterna e interna (un accesso indipendente, magari
un piccolo spazio verde di pertinenza, una scala), di distribuzione interna (sviluppo su più livelli, separazione tra la zona giorno e la zona notte), di dimensionamento, ecc.
Un caso diverso è quello degli alloggi in strutture residenziali multiappartamenti (per esempio, in
edifici a ballatoio, a corridoio, a corpo scale), dove è lo stesso sistema delle connessioni verticali e orizzontali (di uso comune) a rappresentare l’invariante che ne rende possibile la classificazione.
Il riconoscimento delle invarianti consente di “classificare tipologicamente” l’alloggio.
La “forma” è la sintesi delle parti nel tutto, il prodotto non di una addizione, ma di una fusione di
elementi che, composti in un insieme unitario, non sono più riconoscibili nella loro identità, né scomponibili o riconducibili all’elemento di partenza.
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Tipi edilizi. Case a corte, a ballatoio, a patio, ecc. Area centrale della città di Bursa, Turchia, XV–XVII sec e piante di alloggi, Ostia antica
«La forma di un oggetto è l’insieme complesso delle sue percepibili caratteristiche; ogni riduzione
del suo concetto all’una o all’altra di tali caratteristiche va considerata impropria» 7.
Gianni Ottolini elenca le categorie analitiche della forma architettonica e dei suoi elementi materiali, utili a noi per imparare cos’è una lettura analitica e quali sono i parametri utilizzabili per la sua formulazione: la figura, gli aspetti topologici, l’orientamento rispetto a una direzione, le dimensioni, la
“tessitura”, gli aspetti luministici, il colore. L’individuazione e l’analisi di queste categorie consente di
rilevare le caratteristiche specifiche di ciascuna forma materiale, il suo valore e significato per l’uomo,
il perché della sua esistenza, la sua utilità, le sue origini e le sue evoluzioni.
La “morfologia” è lo “studio delle forme”. In genere, per morfologia applicata in architettura nello
studio dei fenomeni urbani si intende una disciplina teorica e operativa della progettazione che studia
la forma delle città, intese come sistema dinamico di elementi posti in mutua relazione.
Per comprendere i concetti di forma e di morfologia applicati all’analisi urbana, porto un esempio.
Lo spazio della città, letto nelle sue planimetrie, è un reticolo non omogeneo di “porzioni” di tessuto con caratteristiche omogenee e riconoscibili nelle dimensioni, nell’orientamento, nel reticolo, cioè
nella forma.
L’individuazione di questi parametri “strutturali” del tessuto urbano (il carattere delle parti che lo
compongono – il sistema delle strade e dei percorsi, l’articolazione spaziale in pieni e vuoti, l’orientamento dell’edificato, il trattamento degli spazi non edificati; i caratteri degli edifici che lo compongono – la ricorrenza di determinate geometrie edilizie: edifici puntiformi, in linea, a corte, la presenza di
edifici eccezionali per dimensioni e per ruolo, la qualità degli edifici, i materiali, i colori, le tecniche
costruttive; il valore economico delle parti; la ripartizione dello spazio in pubblico e privato; i modi
d’uso degli spazi da parte dell’uomo – come li utilizza, come vi distribuisce le sue attività, come li conserva; ecc.) si chiama analisi morfologica.
Queste analisi sono utili alla progettazione, se essa vuole essere coerente e interagire sinergicamente con ciò che la circonda: il progetto deve interrogare il contesto, perché dal contesto riceve le indicazioni che guidano l’intervento trasformativo e che gli consentono di “ordinare–rsi” e “relazionare–rsi”.
7
G. OTTOLINI, Forma e significato in architettura, Laterza, Roma–Bari 1996.
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Forma e architettura. Pirro Ligorio, Schema volumetrico–formale
della città di Roma
Strutturare
Con il termine “struttura” in architettura si intendono almeno due aspetti fondamentali: da un lato la
struttura intrinseca del progetto, ossia le regole fondative su cui l’opera si appoggia e si evolve (potremmo
dire l’impianto, lo schema, quindi, per estensione, il “tipo”), dall’altro il sistema strutturale che la sostiene.
Abbiamo già trattato del primo aspetto, vorrei invece soffermarmi brevemente sul secondo, rilevando la necessità di affidare al progetto architettonico nella sua complessità anche il compito di stabilire,
in unità con i sistemi compositivo, distributivo, impiantistico, ecc., i caratteri delle strutture di supporto statico e dinamico dell’edificio.
L’idea del progetto si evolve in fasi non sequenziali ma integrate. L’immagine iniziale si combina
via via con un numero sempre maggiore di elementi per dar vita, alla fine del processo, a un organismo
complesso in cui ciascuna parte, ineliminabile e inscindibile dalle altre, contribuisce alla costruzione di
tale complessità. Il sistema strutturale è una di queste parti, non seguente o conseguente al progetto, ma
integrata in esso fin dalle prime fasi del della sua elaborazione.
Il pensiero sull’architettura ingloba già il pensiero sulla sua struttura.
Strutture puntiformi (a travi e pilastri), piuttosto che a setti portanti, piuttosto che a guscio identificano di per sé un preciso modo di intendere lo spazio, gli conferiscono precise caratteristiche geometrico–dimensionali, lineari, piane o vulumetriche, evidenziano precise potenzialità compositive.
Un caso specifico ma significativo per la grande coerenza tra il progetto dell’architettura e il progetto della struttura è rappresentato dal lavoro di Mies van der Rohe.
Le sue opere sono il simbolo di una profonda integrazione tra sistemi diversi; nella loro astrazione
purissima, esse sono in grado di sintetizzare in pochi segni e in spazi quasi smaterializzati, veri, essenziali mai superflui, una capacità di unificazione assoluta ed emozionante. L’emozione scaturisce dalla
percezione dell’assolutezza e del nulla, attraverso cui Mies costruisce il tutto: “Less is more”.
La sua architettura è eterna, neutra, vuota. Apparentemente disinteressata al programma e alla funzione, essa nasce dall’astrazione matematica, dall’integrazione di tutti i sistemi coinvolti nella realizzazione dell’opera e nel suo funzionamento. In Mies tecnica e tecnologia sono inesauribili fonti di interesse e di ricerca (si vedano gli studi sul dimensionamento e sulla distribuzione in pianta dei pilastri cruciformi, i riuscitissimi tentativi di smaterializzazione degli spazi e della forma attraverso l’uso di pareti trasparenti, la spinta verso la leggerezza e la levità, ecc.).
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Architettura, percezione, spazio, struttura, tecnica e matematica. Mies van der Rohe, Crown Hall, IIT, Chicago, 1952–56
Dare significato
Architettura è costruzione materica, quindi pieno, è spazialità circoscritta, quindi internità praticabile, ed è significato, quindi spirito.
Ciascuna opera architettonica è il frutto di un impegno progettuale atto a dare forma alla materia e
allo spazio e a significare materia e spazio attraverso una attribuzione di senso. Saper riconoscere i parametri sensoriali, allegorici, metaforici sottesi all’opera e all’operare architettonico è fondamentale per
comprendere l’intenzione emozionale del progettista e per stimarne la valenza.
I messaggi lanciati da un’opera sono strettamente connessi con il linguaggio espressivo e la poetica
di chi l’opera ha prodotto.
Architettura è la costruzione armoniosa del luogo in cui si svolge la vita umana e in cui la vita umana, per una particolare traslazione nelle sue forme materiali, si presentifica. [...] L’architettura non è semplice costruzione, opera tecnica guidata da
preminenti esigenze di funzionalità, indifferenti o contraddittorie, rispetto a quelle della sua bellezza. [...] Essa ha sì un contenuto metaforico incorporato nei suoi materiali, come è proprio di ogni prodotto artistico, [...] ma esso concerne la vita umana,
le sue azioni ed emozioni, e questo solo ce la rende significativa 8.
Rimandiamo all’indispensabile testo di Gianni Ottolini “Forma e significato in architettura” l’approfondimento del tema, ma ricordiamo, ai fini di una corretta acquisizione degli strumenti per leggere e
scrivere l’architettura, che “dare senso” significa sempre affidare un compito fondamentale alla disciplina: il messaggio non può essere banale, subdolo, oscuro o sleale. E poiché l’Architettura è il messaggio stesso che presentifica e trasmette, essa non può essere banale, subdola, oscura o sleale.
Il carattere di necessità dell’architettura impone all’architetto un operare sincero e colto, ricco di stimoli per l’utente, sapiente e pregno di significato.
A questo fine, conoscenza storico–critica, formazione teorica continua, vasta preparazione culturale
sono prerogative indispensabili per la “progettazione di senso”.
8
G. OTTOLINI, op. cit.
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Architettura, significato e simbolo. Luce, colore e materia. Le Corbusier, Convento di Sainte Marie de la Tourette, Eveux,
1953–60
Questo libro, cos’è?
Questo volume è il prodotto dell’esperimento.
Non ha ambizioni universalistiche, ma si propone come contributo teorico all’acquisizione di un
metodo di lavoro, di ricerca e di progetto, in grado di condurre i giovani potenziali architetti lungo il
percorso progettuale.
Si compone di due parti.
Leggere. Raccoglie contributi monografici sul metodo e sulla poetica di alcuni “Maestri”: Le Corbusier, Mies, Loos, Asplund, Aalto, Albini, Scarpa, Siza. L’obiettivo è la conoscenza di alcuni possibili modi operandi per l’elaborazione di un personale metodo progettuale.
Scrivere. Raccoglie alcuni dei lavori di analisi critica, ridisegno e ricostruzione (attraverso la produzione di un modello in scala) di opere significative scelte tra molte prodotte della storia dell’Architettura di ogni luogo e tempo, che, al di là del giudizio di valore, rappresentano per docenti e studenti un
patrimonio culturale cui far riferimento per la formazione di buoni architetti.
Desidero qui ringraziare di cuore l’architetto Elena Montanari, che oltre a collaborare con me all’organizzazione dell’attività didattica, ha dato un contributo insostituibile alla realizzazione di questo lavoro.
Riferimenti iconografici
1. Anfione e Zeto, n. 0, anno I, 1988.
2. BELTRAMINI G., FORSTER K.W., MARINI P. (a cura di),
Carlo Scarpa. Mostre e musei 1944–1976, Case e paesaggi
1972–1978, Electa, Milano 2000.
3. DAZA R., Looking for Mies, Birkhäuser, ATAR, Barcellona 2000.
4. DE SOETEN H., EDELKOORT T., La Tourette + Le Corbusier, Delf University Press, Delft 1995.
5. FRAMPTON K., Storia dell’architettura moderna, III
ed., Zanichelli, Bologna 1993.
6. GHAZBAN POUR J., Iranian House, Tiss Publication,
Behrang 1980.
7. GRESLERI G., GRESLERI G., Le Corbusier. Il programma liturgico, Editrice Compositori, Bologna 2001.
8. KAUFMANN JR. E., Fallingwater. A Frank Lloyd Wright
Country House, Abbeville Press Publisher, New York London
Paris, 1986.
9. LE CORBUSIER, Ronchamp, Oevre de Notre–Dame du
Haut, Verlag Gerd Hatje, Stuttgard 1957.
10.Lineamenti di storia dell’Architettura, Carucci Editore, Roma 1978.
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Parte Prima
Leggere
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Le Corbusier, aspetti della teoria e della pratica architettonica
Fernanda Incoronato
Schemi illustrativi dell’evoluzione degli stili storici
Tra i più noti architetti del Movimento Moderno, Le Corbusier fu teorico dell’architettura e della città 1,
architetto e urbanista, pittore e designer.
Comprendere il suo pensiero sulla composizione architettonica è fondamentale per comprendere
l’idea di città e viceversa. Le sue caratteristiche più interessanti, e spesso anche criticabili, sono la versatilità e la mutevolezza. E questo ha inciso sulla sua pratica architettonica, che, in alcuni casi, è sembrata incoerente con i suoi stessi precetti, ma si può dire che essa ha sempre corrisposto alla volontà di
dare una risposta architettonica ai problemi del modo di vivere del XX secolo.
Questo saggio si propone di indicare una possibile strada per l’interpretazione del metodo compositivo e progettuale di Le Corbusier attraverso la lettura di alcune opere emblematiche, analizzando prima
le sue teorie architettoniche, che, a differenza di altri architetti, sono state raccolte in saggi scritti.
Verso un’architettura viene pubblicato nel 1923 ed è considerato tuttora uno dei testi di architettura
più importanti. È una sorta di trattato, anche se formalmente discontinuo, poichè consiste in un compendio di suoi articoli scritti tra il 1920 e il 1921 per la rivista più d’avanguardia dell’epoca, l’“Esprit
Nouveau” 2. Nei saggi pubblicati l’autore affronta temi diversi, ma tutti tesi ad affermare le ragioni e le
modalità del nuovo modo di vivere la città e di abitare la casa, attraverso un’architettura scevra dalle
sovrastrutture formali che avevano caratterizzato gran parte della produzione architettonica del XIX
secolo 3 ma che ancora erano riconoscibili nelle strutture dell’inizio del XX secolo.
Tra i vari saggi, quelli che più interessano le modalità della composizione architettonica sono raccol-
1
La produzione teorica di Le Corbusier fu corposa e toccò varie tematiche pittoriche e architettoniche. I suoi testi più
importanti sono Verso un’architettura del 1923, Urbanistica del 1926, La ville radieuse del 1938, Le modulor I e II del 1949.
Per una bibliografia completa dei suoi scritti si veda: C. CREDI (a cura di), Le Corbusier, Sadea Sansoni, Torino 1969.
2
L’Esprit Nouveau fu la rivista–manifesto del movimento artistico purista fondato da Le Corbusier con Ozenfant nei primi
anni Venti del XX secolo. Essa rappresenta un documento eccezionale della cultura artistica di quel periodo.
3
Ad esempio molte architetture derivanti da una interpretazione solo formale dell’eclettismo storicistico, una corrente
architettonica ottocentesca che sostanzialmente si prefiggeva di recuperare e reinterpretare gli stili architettonici del passato
(per esempio il neogotico di Viollet–le–Duc, il neoclassicismo di Schinkel e di L. von Klenze). Per un approfondimento dell’argomento si veda: R. DE FUSCO, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Bari 1979.
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Schema comparativo tra finestre a nastro e finestre tradizionali
ti in “Tre avvertenze per gli architetti”: la prima “avvertenza” parla del Volume (esaltando le forme pure),
la seconda della Superficie (che non deve negare il volume), la terza della Pianta (generatrice di tutto).
Per Le Corbusier il progetto architettonico deve svilupparsi attraverso la manipolazione dei volumi,
esaltati attraverso l’uso di forme pure: «L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi assembleti nella luce. […] I cubi, i coni, le sfere, i cilindri o le piramidi sono le grandi forme primarie che la luce esalta, l’immagine ci appare netta e tangibile, senza ambiguità […] gli architetti d’oggi
[…] non hanno acquisito la concezione dei volumi primari. […] Ecco i silos delle fabbriche americane, magnifiche primizie del nuovo tempo. Gli ingegneri americani schiacciano con i loro calcoli l’architettura agonizzante» 4.
La superficie, poi, come abbiamo detto, non deve negare il volume: «Un volume è avvolto in una
superficie che è divisa secondo le linee generatrici e direttrici del volume, mettendo in risalto l’individualità di questo volume. […] Modulare senza tradire il volume. […] La superficie, forata dalle necessità di destinazione, deve servirsi delle generatrici che fanno risaltare queste forme semplici» 5.
La pianta, infine, è la generatrice di tutto:
Fare una pianta è precisare, fissare delle idee. […] Tutta la struttura si innalza dalla base e si sviluppa secondo una regola
impressa nella pianta. […] Belle forme, varietà di forme, unità di principio geometrico. […] Trasmissione profonda di armonia: questa è architettura. […] La pianta sta alla base. Senza pianta non c’è né grandezza di intenzione, né espressione, né
ritmo, né volume, né coerenza. […] La pianta porta in se stessa un ritmo primario determinato: l’opera si sviluppa in estensione e in altezza […] seguendo la stessa legge 6.
Il tracciato regolatore è lo strumento che consente di creare un’euritmia tra volume, superficie e
pianta in modo che ogni parte risulti congruente col tutto. È l’insieme di regole e nessi che sono alla
base di una composizione architettonica in giusto equilibrio:
4
5
6
LE CORBUSIER, Verso un’architettura, Longanesi, Torino 1923, p. 16.
Ivi, p. 23 ss.
Ivi, p. 33 ss.
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Schema esplicativo della teoria del Modulor
Ville Savoye, Poissy, Francia, 1923
Il tracciato regolatore è garanzia contro l’arbitrio. […] Il tracciato regolatore è un mezzo, non una ricetta. La scelta e la
modalità d’espressione del tracciato sono parte integrante della creazione architettonica. […] Per costruire bene e per distribuire i suoi sforzi, per la solidità e utilità dell’opera, (l’uomo primitivo n.d.r.) ha preso misure, ha scelto un “modulo”, ha “regolato” il suo lavoro, ha dato ordine. […] È una pratica antica. Mettere in ordine misurando. Per misurare il costruttore ha preso
il suo passo, il suo piede, il suo gomito o il suo dito. Imponendo l’ordine col piede o col dito, ha creato un modulo che regola tutta l’opera; e quest’opera è alla sua scala, per il suo vantaggio, è rapportata alla sua misura. È alla scala umana. Si armonizza con lui: è l’essenziale 7.
Infine, Le Corbusier introduce il concetto di geometria che sottende tutte le considerazioni precedenti:
«Attraverso la geometria ha dato la forma. E determinando la distanza degli oggetti ha inventato ritmi
percepibili all’occhio, chiari nei loro rapporti. […] Un modulo misura e unifica. […] I tracciati regolatori sono l’operazione di verifica che approva ogni lavoro creato con ardore, la prova del nove dello
scolaro. […] Conferisce all’opera l’euritmia» 8.
Questi concetti si concretizzano nei “Cinque punti” che informano le architetture lecorbuseriane: pianta libera, facciata libera, finestre a nastro, pilotis, tetto giardino 9. L’impostazione del suo pensiero tende a
8
LE CORBUSIER, Verso un’architettura, op.cit., p. 55 ss.
La struttura portante a travi e pilastri permette una grande libertà di distribuzione degli ambienti e consente di poter cambiare disposizione all’assetto interno degli alloggi ai diversi piani (pianta libera); e inoltre consente di ampliare aperture e di
disporle non rigidamente all’interno della maglia strutturale, che è la sola a sorreggere i carichi statici non più affidati ai muri,
che sono solo di tamponamento (facciata libera e finestre a nastro). L’uso di pilastri (pilotis), che sollevano l’edificio dal suolo,
consente quasi di eliminare la tradizionale soluzione di continuità tra l’architettura e il terreno: il piano di campagna, o il suolo
urbano, passano al di sotto dell’edificio indisturbati, conservando il loro il carattere pubblico. Lo spazio aperto privato viene
trasferito ai piani superiori: quello privato delle singole famiglie è rappresentato dai terrazzi giardino mentre quello pubblico
condominiale dal tetto giardino.
10
«È proprio del momento analitico più vicino all’inizio della mutazione del paradigma funzionalista, in cui la spinta a
individuare le parti, renderle razionali e ottimali per poi ricomporle costituisce la traccia comune di tutto il Movimento Moderno». Si veda: C. BLASI, Metodologia e metodi nel progetto architettonico, in: C. BLASI, G. PADOVANO (a cura di), Le Corbusier. La progettazione come mutamento, Mazzotta 1986, Catalogo della Mostra.
11
Sul concetto di serialità si veda il paragrafo “Sulla serie in Le Corbusier”, in: LE CORBUSIER, Urbanistica, Garzanti, p.
188 ss. Le Corbusier sostiene: «La serie ormai s’impone: non possiamo più produrre su scala industriale e a prezzi normali,
fuori serie; impossibile risolvere il problema degli alloggi con prodotti fuori serie. […] È necessario studiare la cellula perfetta in scala umana, in modo che risponda a determinate costanti fisiologiche e psicologiche».
9
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Ville Savoye, pianta del piano terra ed esploso assonometrico
scomporre e a ricomporre l’architettura. La scomposizione corrisponde a una modalità condivisa, e diversamente interpretata da molti architetti dell’epoca, da Mies van der Rohe agli esponenti di De Stijl 10.
La “pianta corbusieriana” è facilmente leggibile nelle Case Domino del 1915, che rappresentano
l’essenza dell’innovativo concetto di case in serie 11 e trasferiscono la modalità di produzione industriale all’architettura basandosi sull’uso di materiali innovativi (cemento, ferro, acciaio profilato, ecc.) e
sulla produzione seriale. I punti cardine di queste costruzioni sono: l’ossatura portante in cemento armato, costituita da elementi prefabbricati, tamponamenti al posto delle spesse pareti portanti, porte e finestre in serie. L’ossatura di base, comune a tutte le case, consente di rendere la pianta e la facciata libere da tutti gli elementi rigidi e fissi. Il risultato è una flessibilità mai conosciuta in passato.
Nella Ville Savoye a Poissy del 1929 si leggono chiaramente i “Cinque punti”.
La Ville Savoye è un oggetto totale, essa allude alla compiutezza di un’opera scultorea […] I pilotis staccano dalla natura
il blocco parallelepipedo solcato dalle finestre a nastro; ma la compiutezza dell’involucro a pianta quadrata è una finzione; lo
spazio interno è lacerato da una rampa continua che sale sino all’avvolgente successione di oggetti che emerge dal terrazzo
finale. Ma la stessa rampa rende percepibile la continuità degli spazi che essa ha frantumato: divide la forma ma ne connette
i segni 12.
La pianta consiste in una maglia quadrata di pilotis sottili aventi tra loro una distanza di quattro metri
e settantacinque, dimensione che deriva dall’arco di curvatura di un’automobile. Al piano terra vi sono
il garage, l’alloggio di servizio, una scala e una rampa, che è disposta lungo l’asse centrale della pianta stessa ed è l’elemento generatore della costruzione, il segno architettonico che separa e unisce le parti
del progetto sia orizzontalmente sia verticalmente. L’alloggio si trova al primo piano, su cui si apre
anche un’ampia terrazza, un elemento fondamentale nel modello interpretativo dell’abitare di Le Corbusier: «Il vero giardino della casa non sarà sul suolo ma al di sopra di esso a tre metri e cinquanta.
Questo sarà il giardino sospeso dove il suolo è secco e salubre, dal quale si vedrà tutto il paesaggio,
assai meglio che non dal basso» 13.
12
13
M. TAFURI, F. DAL CO (a cura di), Storia dell’architettura contemporanea, Electa, Milano 1998
LE CORBUSIER, Urbanistica, Il Saggiatore, Milano 1983, p. 187.
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Unité d’Habitation, Marsiglia, Francia, 1945–52
Schizzo dello schema funzionale dell’Unité di Marsiglia
Dalla terrazza, tramite la rampa, si accede all’ultimo livello: il tetto attrezzato.
In questo progetto le “tre avvertenze” per gli architetti e i “cinque punti” sono esplicitamente dichiarati: il volume viene esaltato nella forma del parallelepipedo semplice bianco tagliato dalle finestre a
nastro, attraversato dalla rampa e sollevato da terra con i pilotis; la superficie, adeguandosi al volume,
è tale da rendere tutte le facciate diverse tra loro, nonostante tutte abbiano le finestre a nastro. Su due
lati i pilotis sono a filo parete, sui rimanenti due sono arretrati, consentendo la totale libertà di soluzioni nei tagli di facciata.
Un altro aspetto fondamentale del linguaggio progettuale di Le Corbusier si rileva nel suo modo di
interpretare l’abitare collettivo 14, che è collegato al concetto di architettura come “macchina per abitare”.
Nell’Unité d’Habitation di Marsiglia del 1945 egli sviluppa un organismo completamente autosufficiente: in esso tutti gli aspetti della vita dell’uomo possono essere soddisfatti, dallo spazio del vivere
quotidiano, a quello per il tempo libero, allo spazio del commercio e delle relazioni sociali. L’edificio
si eleva su una vasta piattaforma (sol artificiel) poggiante su diciassette coppie di pilotis sagomati plasticamente e cavi internamente, in modo da contenere le canalizzazioni; nello scheletro in cemento
armato si incastrano ventitre differenti tipi di alloggi, per un totale di trecentotrentasette appartamenti e
milleseicento abitanti. Il settimo e l’ottavo piano contengono una strada commerciale, un ristorante, un
albergo e una sala riunioni. Sul tetto attrezzato vi sono un ginnasio, un asilo nido, un teatro all’aperto,
una palestra e una piscina.
I collegamenti verticali sono assicurati da tre gruppi di scale con ascensori, mentre quelli orizzontali sono affidati a strade interne disposte al secondo, settimo, ottavo, tredicesimo e sedicesimo piano 15.
Sulla composizione dell’Unité possiamo dire che essa può essere interpretata come un gioco di scatole cinesi. Nella scatola più grande, l’edificio, si inseriscono le scatole più piccole degli alloggi. Una
“sovrascatola” di rivestimento, che racchiude tutto, è costituita dalle superfici più esterne.
In questa grande “costruzione” leggiamo alcuni caratteri fondamentali:
a)la struttura portante in cemento armato ha un impianto rigorosamente ortogonale, cartesiano,
14
Già in Verso un’architettura e poi in Urbanistica, Le Corbusier presentava le “Immeuble villas”, un progetto di centoventi alloggi sovrapposti con una serie di servizi comuni distribuiti nell’edificio dal piano terra al terrazzo.
15
Per una descrizione esaustiva si veda: R. DE FUSCO, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Bari 1979.
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Unité d’Habitation, illustrazione del principio del “portabottiglia” che caratterizza il rapporto tra le cellule abitative e la struttura principale, vista del tetto attrezzato, sezione trasversale
costruito sul tracciato regolatore e sul Modulor. Questo sistema razionale fa da contrappeso alle forme
libere puriste del tetto attrezzato e della piattaforma di base con i massicci pilotis. L’ossatura è impostata su elementi discreti e “composti”, mentre il sistema delle forme pure e organiche è costituito da
elementi non ulteriormente scomponibili in sottosistemi compiuti;
b) nella struttura portante si inseriscono le cellule interne con struttura metallica staticamente autonoma da quella principale in cemento armato. La “cellula tipo” si sviluppa su due livelli di diversa
dimensione. Le cellule si incastrano a due a due e occupano tre piani in totale;
)Le Corbusier concepisce la facciata, la superficie più esterna dell’edificio, come una grande sovrastruttura sovrapposta all’ossatura portante e da essa indipendente.
In questo progetto tutti gli elementi sono indipendenti tra loro, sia funzionalmente sia staticamente;
malgrado ciò essi costruiscono delle relazioni interne necessarie, magistralmente concertate da Le Corbusier.
Anche in quest’opera sono rintracciabili i punti fondamentali della teoria dell’architettura di Le Corbusier, anche se formalmente interpretati in modo diverso rispetto a Ville Savoye: i pilotis, non esili
come colonne, sollevano l’edificio da terra, la sovrastruttura esterna garantisce la libertà della facciata
e delle finestrature rispetto all’ossatura principale, il sistema trave–pilastro garantisce la libertà di pianta, e, infine, la terrazza è attrezzata per attività comuni.
Riferimenti bibliografici
1. BLASI C., PADOVANO G. (a cura di), Le Corbusier. La progettazione come mutamento, Mazzotta, Milano 1987.
2.CREDI C. (a cura di), Le Corbusier, Sadea Sansoni, Torino 1969.
3. DAL CO F., TAFURI M., Storia dell’architettura contemportanea, Electa, Milano 1998.
4. DE FUSCO R., Segni, storia e progetto, Laterza, Roma 1989.
5. DE FUSCO R., Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Roma 1997.
6. LE CORBUSIER, Verso un’architettura, a cura di CERRI P., NICOLIN P., Longanesi, Milano 1992.
7. LE CORBUSIER, Urbanistica, Il Saggiatore, Milano 1983.
8. PETRELLI A., Il testamento di Le Corbusier, Marsilio, Venezia 1999.
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Ludwig Mies van der Rohe, architettura e razionalità
Emanuele Bugli
Padiglione di Barcellona, Spagna, 1927
Architettura e razionalità, è questo, forse, il modo più adatto per definire e introdurre la figura di
Ludwig Mies van der Rohe architetto.
Uno dei maggiori protagonisti dell’epoca contemporanea, Mies ha interpretato il “fare architettura”
come profonda attenzione al significato, al metodo e al pensiero.
«Dobbiamo mirare al nocciolo della verità. Le domande relative all’essenza delle cose sono le uniche ad avere importanza». Questo diceva in un’intervista di quasi quarant’anni fa, ripubblicata di recente. E proprio questa sua convinzione mostra la sua radicalità nell’abbracciare la ragione come punto di
partenza imprescindibile e (potenzialmente) infallibile.
In un’epoca di grandi cambiamenti, nel pieno dello sviluppo della tecnica che si affaccia al nuovo
secolo con nuovi materiali e tecnologie, davanti alle più vaste possibilità costruttive e compositive,
Mies riflette sul complesso dei fattori che determinano il carattere della propria epoca, arrivando a
coglierne la struttura.
E proprio questo termine, “struttura”, diventa il tema ricorrente per chi si avvicina al suo pensiero.
Dove per struttura intende il tutto, l’insieme, ciò che governa ogni minimo dettaglio, il principio generale che lega le determinazioni particolari.
La ricerca della struttura è quella “strenua ricerca dell’universalità” che caratterizza la nostra epoca,
così come le «forze della scienza, della tecnologia, dell’industrializzazione e dell’economia. […] Tutto
ciò che non prende in considerazione queste realtà non ha alcuna importanza» 1.
E l’architettura?
Tommaso d’Aquino sosteneva che la ragione è il principio primo di tutte le opere dell’uomo. Una volta afferrato questo
concetto, si agisce di conseguenza. È per questo motivo che rifiuto tutto ciò che non è razionale.
Credo che il costruire sia custode del tempo perché è un fare oggettivo e non è influenzato dall’individualismo o dalla fantasia personale. Se usiamo il termine “Baukunst” possiamo definire in maniera più precisa la nostra idea di architettura: “Bau”
1
Casabella, n. 741, febbraio 2006, p. 3.
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Seagram Building, New York, USA, 1954–58
è chiaro costruire, mentre il “Kunst” è la sua rifinitura e null’altro. Ho perseguito un’idea di architettura basata sulla struttura,
perché ritengo che questa concezione sia, per lo meno, razionale. Non credo che questa idea comporti l’indifferenza per ciò
che è bello e pregiato, ma ciò che è bello è soltanto il raffinarsi della struttura. Vorrei precisare che la mia concezione di “struttura” ha un fondamento filosofico. La struttura è l’insieme: dalla sommità alla base, inclusi i più piccoli dettagli – e il tutto
governato dalle medesime idee 2.
E, infatti, la sua progettazione si mostra rigorosa, pulita, essenziale; al punto da arrivare a definire il
motto, poi rimasto nella storia dell’architettura, “less is more” (“meno è più”), ossia il tutto sta nell’assenza, nell’astrazione.
La sua posizione teorica si basa quindi sulla separazione della sostanza dal non necessario, sull’esaltazione del vuoto come contenuto e come entità materica.
Mies già dagli anni Venti si era dedicato allo studio del vetro, dell’acciaio, di nuove concezioni strutturali, alla ricerca di trasparenze, e della riduzione più assoluta di ogni elemento “decorativo tradizionale”.
A chi gli ha chiesto se non fosse possibile inventare nuove forme grazie alle potenzialità della nuova
tecnologia, lui risponde: «Oggi esistono due tendenze generali: una ha un fondamento strutturale e
potremmo considerarla più obiettiva; l’altra ha una base plastica e quindi potremmo definirla emotiva.
Le due tendenze non possono essere mescolate. L’architettura non è un Martini cocktail. [...] Non è una
moda, ma neppure qualcosa di eterno; è parte di un’epoca» 3.
Mies si dedica principalmente allo studio di due “tipi edilizi” di base: da un lato il “tipo a padiglione”, che deve avere un’aula interna priva di pilastri e costituire, nella sua forma ideale, uno spazio “galleggiante” fatto di semplice “aria fra due lastre”, come è Casa Farnsworth; dall’altro “il tipo a torre”,
una struttura a scheletro sviluppata in altezza, con una medesima distribuzione in pianta dei singoli
2
3
Ivi, p. 5.
Idem.
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Villa Tugendhat, Brno, Repubblica Ceca, 1930
piani, dietro una facciata ritmata da elementi costruttivi che articolano una superficie vetrata apparentemente continua, la membrana del “curtain wall”, come è il Seagram Building.
Ma, pur dedicandosi a due esperienze così difformi l’una dall’altra, il rigore del suo pensiero gli consente di mantenere una forte personalità e identità.
Emblema chiarissimo è il padiglione del Reich tedesco, progettato da Mies in veste di responsabile
della sezione tedesca all’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1929. È, nella sua eleganza leggera e grandiosa, assai più di una costruzione di rappresentanza.
All’edificio, sviluppato in lunghezza con il tetto piano orizzontale, è anteposta un’ampia terrazza di
travertino con una vasca d’acqua, che allontana abilmente la costruzione dalla strada. Le lastre di
marmo prezioso di rivestimento delle pareti e i pannelli di vetro intelaiati di metallo, in toni bianchi,
grigi e verdi, articolano la fluida continuità spaziale, che un’abile apertura sull’esterno fa sembrare
molto spaziosa.
La concezione architettonica del padiglione di Barcellona fu trasferita per la prima volta a una casa
d’abitazione nella Villa Tugendhat.
Un involucro di legno circolare che scherma la zona pranzo e una parete a sé stante di onice dorato
costituiscono gli unici elementi di articolazione spaziale della zona soggiorno di circa duecentocinquanta metri quadrati. Verso sud ed est, lo spazio si apre sul giardino con grandi superfici continue di vetro,
mentre il lato su strada è più discreto e chiuso.
Possiamo dire che le analogie di forma che si leggono nei progetti di Mies non sono frutto del fascino esercitato dalla moda del momento o il reiterarsi di una forma ben riuscita e stancamente ripetuta,
ma il prodotto di una profonda e coerente aderenza al metodo, alla verità.
Si riscontrano, infatti, lo stesso rigore e la stessa razionalità nella Neue Nationalgalerie di Berlino,
costruita quasi 35 anni dopo il Padiglione di Barcellona e Villa Tugendhat.
4
Idem.
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National Gallery, Berlino, Germania, 1965–68
Diceva, infatti, Mies: «Mi capita spesso di scartare cose che mi piacciono molto e alle quali sono
affezionato. Ma quando ho una convinzione più forte, un’idea più chiara, è quella che seguo. Le grandi epoche storiche possono essere ridotte a pochi, chiari principi, eppure hanno prodotto di tutto. Credo
che questo sia l’unico modo per fare architettura importante» 4.
Come ha sottolineato Bruno Zevi, «la villa Farnsworth è lunga 24 metri, larga 8, a un piano. I grattacieli di Lake Shore Drive a Chicago sono alti ventisei piani, ma il linguaggio di Mies è indipendente
dalle dimensioni». E indipendente è anche la cura del dettaglio.
Conscio che “Dio è nel dettaglio” (“God is in the detail”), l’attenzione dedicata al progetto del Seagram Building è la medesima attenzione dedicata al padiglione di Barcellona o alla Casa Farnsworth.
A comprendere questo passaggio ci aiuta ancora Zevi, che spiega come
in particolare, quest’ultima (Casa Farnsworth n.d.a.) dimostra il cosciente abbandono dei piani liberi fluenti nello spazio,
a favore di un’immagine severa e inibita, sintetizzata in tre lastre orizzontali magneticamente sospese: una terrazza, un pavimento e un tetto.
Un levitante prisma d’aria è sospeso ai pilastri d’acciaio in vista. Ogni partizione è abolita per non frazionare la cavità, tanto
che bagno, cucina, caldaia e caminetti sono contenuti in una scatola bassa, che non tocca il soffitto.
Più che una casa, questo è un oggetto di ellenica perfezione.
“Il meno è il più” indica il processo di sistematica sottrazione dell’inessenziale attraverso il quale Mies, in cinque anni di lavoro, ha forgiato l’immacolato gioiello.
Un occhio educato intuisce il travaglio che costa un piccolo edificio la cui liricità risiede in impercettibili sottigliezze: nell’equilibrio asimmetrico, nella breve distanza da terra e nel raccordo tra piano della terrazza e abitazione, mediato da meravigliosi gradini, nei pilastri dipinti in bianco che incorniciano quadri naturali 5.
In sostanza Mies «è il Piet Mondrian e il Paul Klee dell’architettura» 6.
5
6
B. ZEVI, Storia e controstoria dell’architettura in Italia, Newton, Roma 1997, p. 702.
Idem.
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Casa Farnsworth, Plano, Illinois, USA, 1945–50
L’essenzialità fin qui illustrata non preclude a Mies la ricerca di sempre nuove soluzioni, anzi, rende
ancora più interessante la sua speculazione costruttiva e la porta ad esiti davvero coinvolgenti. Come spesso accade, infatti, il “darsi dei limiti” rafforza maggiormente, anziché vincolarli, gli esiti progettuali.
Per la Neue Nationalgalerie, Mies sceglie di articolare l’ambiente in due livelli: quello superiore, con
pareti vetrate, destinato alle collezioni temporanee; quello inferiore, seminterrato, affacciato da un lato
verso il giardino, destinato alle collezioni permanenti.
La parte inferiore, seminterrata, non cela particolari soluzioni tecnico–costruttive, ma il piano superiore (quello a livello della piazza) è una grande sala quadrata di 50 metri di lato, alta oltre 8 metri, con pareti vetrate e spazio interno lasciato completamente libero a parte due condotti verticali, rivestiti in materiale lapideo, necessari per il passaggio degli impianti tecnici.
Stupefacente è la struttura di copertura, di quasi 65 metri di luce, costituita da un telaio a griglia di
snelle travi in acciaio a doppio “T” e di altezza pari a 1800 mm; il telaio piano di copertura è sostenuto
da otto pilastri in acciaio, con la caratteristica sezione cruciforme e leggera rastremazione, posti due per
lato e non agli angoli.
Il grigliato di copertura, con travi così alte, garantisce la solidità strutturale dell’insieme e consente di
svincolare lo spazio interno dalla presenza degli elementi strutturali.
Con questa soluzione di “open space” museale, Mies superò la concezione del museo tradizionale
impostato su percorsi predefiniti e inalterabili, introducendo la raffinata soluzione dello spazio espositivo dinamico e libero da vincoli, giocato sulle trasparenze delle pareti vetrate che lasciano filtrare le quinte berlinesi.
Nonostante la consistenza e il “peso formale” della copertura (di un paio di metri di spessore), la Neue
Nationalgalerie sembra incredibilmente “leggera”, proprio grazie all’impiego del vetro.
In conclusione, Mies è l’architetto che, più di ogni altro, ha dimostrato che la semplicità dell’Architettura costituita solo di “struttura” è solo apparentemente, poiché, in realtà, cela dietro di sé un’ampia e complessa riflessione teorica, così come ampia è stata la ricerca progettuale condotta e la sua applicazione pratica nel corso degli anni.
Il Padiglione di Barcellona può rappresentarne una valida sintesi. Esso racchiude in sé tutto l’insieme
dei ragionamenti e le idee che poi si sarebbero concretizzati nelle opere miesiane degli anni successivi, e
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ci offre lo spunto per delineare i punti salienti del linguaggio progettuale di Mies: in primis la razionalità,
intesa come pulizia e rigore delle forme; poi la semplicità, come essenzialità, e la rinuncia al superfluo in
nome della sobrietà; ancora, la proporzione delle forme e la cura paziente del dettaglio, frutto di una conoscenza profonda dei materiali e delle tecnologie, delle loro potenzialità e dei loro limiti; la leggerezza delle
forme, coniugata con il sicuro controllo della struttura.
Riferimenti bibliografici
1. BLAKE P., Tre maestri dell’architettura moderna, Rizzoli, Milano 1963.
2. BLASER W., Mies van der Rohe: less is more, Waser, Zurigo, New York 1986.
3. COHEN J.L., Ludwig Mies van der Rohe, Laterza, Roma 1996.
4. HILBERSEIMER L., Ludwig Mies van der Rohe, ed. ital. a cura di Antonio Monestiroli, CLUP, Milano 1984.
5. Ludwig Mies van der Rohe, Il Saggiatore, Milano 1960.
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Adolf Loos, l’impegno teorico e la prassi progettuale nella costruzione di un rapporto
semplice e autentico con le cose
Michele Locatelli
Casa Tzara, Parigi, Francia, 1925–26
Adolf Loos nasce a Brno il 10 dicembre del 1870. Dopo aver frequentato il Politecnico di Dresda
nel 1893 si reca negli Stati Uniti dove ha l’occasione di visitare l’esposizione di Chicago e, soprattutto, di conoscere gli usi e i costumi americani.
Richard Neutra descrive così il quadro che Loos traccia dell’America: «Quello che lo interessava
erano le persone, che in questo paese venivano in qualche modo trasformate da un’energia vitale... Tutti
erano coinvolti in quel processo di azzeramento, e tutti quanti erano portati a un nuovo realismo, a liberarsi dai pregiudizi storici che nella geografia politica invecchiata del paese di provenienza avevano
reso loro la vita difficile e avvelenato loro il sangue».
Il soggiorno americano costituisce anche lo stimolo per una graduale presa di distanza dal senso estetico comune, appreso da Loos durante gli anni della formazione europea, «L’aria pungente dell’America e dell’inghilterra ha allontanato da me tutti i pregiudizi contro i prodotti del mio tempo».
Dopo l’esperienza di Chicago Loos si stabilisce a Vienna e inizia la professione di architetto. Parallelamente egli si dedica a una personale e coraggiosa attività teorica, contraddistinta da, in particolare
due, scritti che diventeranno pietre miliari nel dibattito dell’architettura moderna: Ornamento e delitto
(1908) e Parole nel vuoto (1921).
In eterna polemica con i suoi colleghi appartenenti alla Secessione Viennese, per motivi teorici ma
anche personali, Adolf Loos si batte per un cambiamento radicale del modo di fare architettura, sostenendo che l’artista applicato proposto dal Werkbund è una mostruosità, che nessuna istituzione o organismo può insegnare la semplicità e che la ricerca della modernità produce soltanto brutture.
Egli vede in Van de Velde un corruttore dei costumi. A lui allude in un testo pungente e a tratti velenoso del 1900 dal titolo A proposito di un povero ricco, e non gli risparmia critiche quando, nel 1910,
arriverà a scrivere: «Caro Ulk! E io ti dico che verrà un giorno in cui l’arredamento di una cella carceraria ad opera del tappezziere di corte Schulze o del professor Van de Velde sarà considerato un inasprimento della pena».
Altrettanto mostruosi Loos considera i tentativi di riformare l’arte proposti dalla Secessione Viennese, fondata nel 1897 da Gustav Klimt, Joseph Maria Olbrich, Josef Hoffmann e Koloman Moser. Li
attacca attraverso le pagine di Das Andere, nei testi Ornamento e delitto (1908) e Degenerazione culturale (1908) sostenendo che «l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento
dall’oggetto d’uso».
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Nella realtà, l’atteggiamento dell’architetto si presenta più pragmatico rispetto all’intransigenza teorica. Loos intrattiene rapporti, sia pur conflittuali, con il Werkbund e con numerosi suoi esponenti; vorrebbe partecipare all’esposizione della Weissenhofsiedlung di Stoccarda e lavora alla Siedlung di Vienna promossa dal Werkbund austriaco nel 1932. Inoltre nutre rapporti di stima per l’ultradecorativo e ipercreativo Sullivan e non è insensibile alla causa dell’industrializzazione e delle Arts and Crafts.
Per il suo atteggiamento aperto alle innovazioni e contemporaneamente ostile ai formalismi gratuiti, Loos è egualmente lontano dalla tradizione aristocratica austriaca (Francesco Giuseppe evitò come
la peste le invenzioni moderne, facendo per quanto possibile a meno del telefono, dell’automobile, della
macchina da scrivere e della luce elettrica) e dagli entusiasmi delle nuove classi borghesi per le forme
stravaganti e per il gusto del «nuovo per il nuovo».
Abitare, per Loos, è un po’ come vestire. In entrambi i casi si deve comunicare il senso della misura e, nello stesso tempo, un modo autentico, libero e igienicamente efficace di porsi rispetto alle cose.
La chiave per meglio leggere la poetica di Loos è linguistica, filtrata attraverso la riflessione di Karl
Kraus, geniale indagatore dell’espressione verbale. La tesi di Kraus, che sarà fatta propria da Loos, ma
anche dal filosofo Wittgenstein e dal compositore Schönberg, è che un linguaggio scorretto mischia fatti
e valori. In architettura ciò avviene quando si vuole a tutti i costi rendere artistico il quotidiano, dando
all’oggetto d’uso un’inusitata importanza, portando a «confondere l’urna con il pitale». La commistione dell’oggetto artistico con l’oggetto d’uso quotidiano è stata superata dall’evoluzione della civiltà.
Ecco perché l’uomo moderno, a differenza del primitivo, evita di tatuarsi e costruisce un rapporto semplice e autentico con le cose. Se invece si vuole bypassare il problema della civiltà, come tenta di fare
l’architetto, proponendo la scorciatoia dell’invenzione formale, non si possono che produrre disastri,
rendendo retorico, inautentico, brutto e farsesco il mondo.
Loos con questo non intende escludere a priori la decorazione dall’architettura come faranno le poetiche post cubiste e puriste, ma sostiene con fermezza che l’ornamento «dove le esigenze stesse del
tempo lo hanno escluso, là non è più possibile reintrodurlo. Così come l’uomo non ricomincerà mai più
a tatuarsi il volto».
La distanza dal Movimento Moderno si avverte in queste prese di posizione. Alla concezione della storia idealistico–ottimistica delle utopie sociali e del mito del progresso tecnico scientifico come panacea per
tutti i mali, Loos contrappone la tradizione, come presupposto culturale per il suo agire architettonico.
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Casa Moller, Vienna, Austria, 1927–28
A proposito della Casa in Michaelerplatz, realizzata a Vienna nel 1909, Loos ebbe a dire:
E io scoprii la cosa più importante: che lo stile dell’anno 1900 si distingueva da quello dell’anno 1800 nella stessa misura in cui il frac del 1900 è differente da quello del 1800. Dunque non molto. [...] Quando infine mi fu dato l’incarico di costruire un edificio dissi a me stesso: nel suo aspetto esterno una casa può essere variata tutt’al più quanto un frac. Dunque non
molto. E notavo come i vecchi edifici, secolo dopo secolo, anno dopo anno, si fossero emancipati dall’ornamento. Perciò dovevo iniziare dal punto in cui la catena del progresso si era interrotta. Sapevo una cosa: che per restare nella linea del progresso
dovevo rendere le cose ancora più semplici.
La casa in Michaelerplatz, nonostante i suoi riferimenti architettonici legati alla tradizione, costituirà un forte elemento di scandalo e dibattito, proprio sui punti in cui Loos ha cercato di introdurre semplificazioni nella struttura architettonica. La facciata scarna e bianca, con il semplice disegno delle finestre sarà paragonata a un volto privo di ciglia.
Nel suo modo di operare Loos cerca sempre di legittimare l’inserimento dei suoi edifici all’interno
di un processo storico continuo, in cui le innovazioni formali vengono subordinate alla riforma del
modo di abitare. Il suo atteggiamento umanistico nei confronti del progresso, che lo porta ad accettare
tutti quegli elementi che possono contribuire a un miglioramento delle condizioni dell’uomo, fa sì che
i suoi progetti risentano delle invenzioni e innovazioni tecnologiche a lui contemporanee. L’invenzione del tetto in Holzzemment consente di realizzare tetti piani efficienti anche in contesti diversi da quelli d’origine. Le nuove invenzioni non appartengono “a un determinato paese” ma “a tutto il mondo”.
Nel progetto di Casa Scheu «ho pensato quasi immediatamente all’Oriente. Ritenevo semplicemente che fosse molto comodo poter raggiungere delle camere da letto, che si trovano al primo piano, la
grande terrazza. Dappertutto, ad Algeri come a Vienna».
Oltre che per le innovazioni formali e linguistiche, l’opera di Loos assume rilievo all’interno della
storia dell’architettura per le innovazioni spaziali, il Raumplan.
Il termine Raumplan non rappresenta, nell’opera di Loos, un principio chiaro nella sua definizione e
nei suoi significati, viene elaborato da Kulka nel 1931 (compare per la prima volta, riferito alle architetture loosiane, nel suo libro monografico su Loos), nel tentativo di astrarre e rendere comprensibile
un’idea spesso presentata da Loos sempre solo all’interno di un contesto particolare. Lo stesso Loos non
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lo nomina mai, anche se ci aiuta a comprenderne il significato quando ricorda la sua mancata partecipazione alla realizzazione della Weissenhofsiedlung di Stoccarda:
Avrei avuto qualche cosa da far vedere, cioè una soluzione in cui il soggiorno è suddiviso dal punto di vista dello spazio
e non della superficie, come finora è avvenuto a ogni piano. Con questa invenzione avrei permesso all’umanità di risparmiare molto tempo e molto lavoro per il suo progresso. Perché questa è una grande rivoluzione nell’architettura: risolvere una
pianta nello spazio. Prima di Immanuel Kant l’umanità non era in grado di pensare in termini spaziali, e gli architetti erano
costretti a realizzare i servizi igienici della stessa altezza dei saloni.
Parlando a proposito di Casa Müller a Praga il cecoslovacco Karel Lhota, che collaborò con Loos al
progetto, racconta in modo dettagliato come Loos gli abbia spiegato il “progettare nello spazio”:
Io non progetto piante, facciate, sezioni; io progetto spazio. Davvero nelle mie case non esiste né piano terra, né piano
superiore, né cantina: esistono solo spazi collegati, vestiboli, terrazze. Ogni spazio è caratterizzato da una determinata altezza
– nella sala da pranzo differente che nella dispensa – perciò i soffitti si trovano a quote differenti. Di conseguenza si devono
collegare tra loro gli ambienti in maniera che il passaggio dall’uno all’altro appaia naturale e invisibile, ma anche funzionale.
Vedo che questo per altri è un mistero, mentre per me è una cosa naturale. Anni fa ho introdotto questa soluzione spaziale nel
Negozio Goldman & Salatsch e l’ho messa in evidenza soprattutto nel progetto di concorso per il Ministero della Guerra di
Vienna, dove le sale sono disposte nell’ala centrale e gli uffici tutt’intorno con altezze di piano inferiori: un enorme risparmio
di spazio, che nessuno però ha notato.
Loos spiega spesso la convenienza del Raumplan, in termini di economia spaziale, ricorrendo all’immagine del teatro a palchi (si riesce a sopportare la permanenza negli spazi stretti e bassi dei palchi e
delle gallerie solo perché questi sono in un rapporto spaziale aperto con il grande ambiente principale)
e conclude che «dunque si può risparmiare spazio attraverso il collegamento di un ambiente centrale
più alto con un locale annesso di altezza inferiore».
Questo trattamento dello spazio può essere considerato come la costante progettuale più importante
nel sistema aperto del Raumplan, alla quale si affiancano altre costanti: la grande attenzione ai percorsi orizzontali e verticali all’interno dell’edificio, sempre connessa con lo studio dei passaggi tra un
ambiente e l’altro; il tentativo di non manifestare all’esterno la complessa struttura interna attraverso
una libera disposizione di masse, come avveniva nei modelli inglesi, ma di avvolgerla in un corpo di
fabbrica semplice, di compostezza classica; e infine – il tema che più di tutti ricorre – l’integrazione
della terrazza nell’articolazione progettuale dell’abitazione.
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Casa Müller, Praga, Repubblica Ceca, 1928–30
Il concetto di fondo della configurazione spaziale elaborata da Loos consiste, quindi, nel portare il
progetto architettonico dal piano bidimensionale a quello tridimensionale. Riflettendo sull’economia
dello spazio egli pretende dagli architetti la progettazione di “spazi” organizzati in modo tale che i grandi ambienti siano dotati di una maggiore altezza rispetto a quelli più piccoli, che, di contro, devono
avere un’altezza più limitata. Questa esigenza di una proporzionalità spaziale (non solo bidimensionale) è forse il contributo più rilevante di Loos al dibattito sull’architettura moderna.
Un paragone fra il Plan libre di Le Corbusier e il Raumplan di Loos mette in luce la diversa concezione spaziale che sta dietro il pensiero dei due architetti.
Il progetto spaziale segna il distacco dall’abitudine degli architetti di pensare in pianta e il ritorno
all’essenza vera dell’architettura, alla sua tridimensionalità e spazialità. Infatti, è possibile solo con difficoltà rappresentare in pianta e in sezione in modo esauriente i progetti di Loos che più corrispondono
alla sua concezione di progetto spaziale: lo si può fare molto meglio attraverso i modelli tridimensionali.
All’interno di questo sistema riveste grande importanza la questione dei collegamenti verticali, sulla
quale Loos si dimostra un maestro: attraverso il progetto è in grado di condurre una persona attraverso
la casa, guidandola, in modo per lei inavvertibile, nelle tre dimensioni dello spazio, nel salire e scendere le scale, che non viene più avvertito quale male necessario, ma si trasforma quasi in un gioco divertente.
L’incastro e la composizione dei volumi, a seconda dell’uso e dell’importanza dello spazio, hanno
dato esiti molto suggestivi nei progetti di edifici d’abitazione loosiani, soprattutto in quelli realizzati
dopo il 1923, come la Casa per Tristan Tzara (1925), la Casa Moller (1927 e la Casa Müller (1928),
quando si risveglia da una crisi creativa e personale, scandita da composizioni architettoniche bloccate, simmetriche, monumentali. I tre edifici presentano una serie di caratteri comuni ed esprimo il massimo livello raggiunto dalla poetica architettonica di Loos:
a) compattezza volumetrica, che ha dirette conseguenze sulla definizione degli organismi architettonici e che si riflette nella massimizzazione dei contatti interni, con conseguente riduzione dei contatti
esterni, nell’approccio all’edificio come a un oggetto e nell’approccio diretto esterno–interno in cui la
compattezza degli spazi abitativi enfatizza al massimo l’ingresso e l’uscita.
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b) differenziazione verticale del programma abitativo, che genera un movimento verticale nella casa:
il basamento e l’attico destinati a funzioni accessorie e di servizio, mentre nei due piani intermedi sono
collocati gli spazi di abitazione. Il livello inferiore, che ospita le funzioni diurne, è solitamente collegato direttamente con l’esterno (ingresso–veranda) mentre lo zona notte è accessibile solo dalla zona giorno. I collegamenti verticali avvengono attraverso scale, elevatori di servizio o ascensori come nella casa
Müller.
c) differenziazione tra il fronte su strada e il fronte interno, per sottolineare il diverso gradiente di
privacy. Le stanze principali della vita domestica sono collocate sul retro, mentre l’ingresso è sulla via
principale. Questo costituisce un elemento di differenza con le tradizionali case di città, orientate verso
strada.
d) differenziazione tra il fronte e il retro dell’edificio, che introduce un movimento e lo specializza
nei ruoli e nei significati tra il livello della strada e il livello dell’abitazione. La mediazione tra i due
movimenti si risolve nella porta di ingresso, sempre rialzata, cioè “separata”, rispetto al piano strada,
come il piano abitativo. Il collegamento dell’edificio con il giardino avviene invece in modo diretto. Il
movimento tra fronte e retro non è particolarmente lungo, ma Loos lo accentua spostandolo tutto su un
lato dell’edificio, dove colloca il guardaroba con una vista esterna. In questa parte colloca gli spazi abitativi, la parte opposta è invece riservata agli spazi di servizio (cucine, bagni, ecc.) tutti collegati direttamente con la porta d’ingresso. Il movimento fronte–retro e destra–sinistra, combinato con il sistema
di scale, genera un percorso a spirale.
Riferimenti bibliografici
1. BURKHARDT R., SCHACHEL R., Adolf Loos, Residenz Verlag, Salzburg und Wien 1982.
2. CACCIARI M., Adolf Loos e il suo angelo, Electa, Milano 2202.
3. DENTI G., PEIRONE S. (a cura di), Adolf Loos: opera completa, Officina, Roma 1997.
4. GRAVAGNUOLO B., Adolf Loos: teoria e opere, Idea books, Milano 1981.
5. MÜNZ L. Adolf Loos, Il Balcone, Milano 1956.
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Erik Gunnar Asplund, il nordico, il classico, il moderno
Elena Montanari
Cappella nel Bosco, Stoccolma, Svezia, 1918–23
Erik Gunnar Asplund (1885–1940) è una figura di rilievo, anche se spesso trascurata, nel percorso
di evoluzione della moderna architettura nordica.
Il carattere peculiare della sua poetica si riscontra nella capacità di coniugare tra loro sistemi culturali
diversi, che vengono assimilati attraverso un processo di acquisizione creativa, di reinterpretazione e di
sperimentazione degli strumenti espressivi, per dare vita a un lessico elegante e originale.
Nell’opera di Asplund è possibile leggere un’evoluzione nell’approccio a diversi modelli di riferimento e nella definizione di una poetica progettuale, che si sviluppa attraverso varie fasi di sperimentazione.
a) innanzittutto una forte componente regionalista, che si legge soprattutto nell’uso di planimetrie
deformate, in cui gli allineamenti tendono a discostarsi dalle relazioni di perpendicolarità e parallelismo, in un’infrazione alla regolarità che spesso sottende alla capacità di interpretare le tensioni dell’ambiente circostante; nella «scelta fantasiosa e accurata, talvolta perfino ironica» 1, della ricca declinazione dei particolari; nella semplicità e riconoscibilità primitiva di alcuni caratteri formali e tipologici; nell’applicazione di alcuni elementi strutturali e materici; e soprattutto nel costante riferimento al paesaggio e all’ambiente naturale.
b) La Cappella nel Bosco (1918–23), una piccola costruzione naturale, «sorta nel bosco improvvisamente tra i ritmi verticali dei tronchi» 2, racconta l’adesione alla tendenza romantico–nazionalista, che
si pone l’obiettivo di recuperare l’autenticità delle tradizioni primitive locali e i loro modi semplici e
“riconoscibili”. La cappella è concepita come un organismo integrato nell’ambiente; «l’edificio era
costruito nella foresta, ed era inteso per rimanere subordinato ad essa» 3.
Vista dall’ingresso del recinto cimiteriale, la forma scura e levitante della copertura si inserisce nel paesaggio del bosco come un’ulteriore chioma arborea, supportata da una tripla schiera di esili colonne. Questi “cilindri torniti” instaurano un dialogo, fatto di metafore, con i fusti degli alberi circostanti; le colonne,
1
2
3
G. MILELLI, L’artista in ascolto. I percorsi di Asplund, in: Controspazio n. 5, 1998.
E. CORNELL, Il cielo a volta... Gunnar Asplund e l’articolazione dello spazio, in: Controspazio n. 5, 1998, pp. 58–59.
E. CORNELL, op. cit.
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prive di base, a pochi metri di distanza da abeti e betulle, ne rappresentano una evidente trasposizione.
L’edificio, con la sua forma semplice, classica, quasi primitiva, fa riferimento alla tipologia indigena e vernacolare della cappella di campagna nella radura, circondata da un cimitero cinto da mura, e al
modello della “parstugo”, la casa primitiva dell’architettura popolare nordica, rievocata nel Casino di
caccia della tenuta di Liselund, in Danimarca. Ma le proporzioni della pianta, che deriva da un’elaborazione della forma quadrata, e dell’alzato, strutturato su un preciso rapporto tra tetto e pronao, la citazione di elementi ripresi dal mondo greco e romano, come le colonne di ordine toscano, e la concezione unitaria dell’organismo edilizio esprimono in modo chiaro l’evoluzione artistica di Asplund verso il
lessico elegante, misurato e rigoroso dell’architettura classica.
c) nel linguaggio di Asplund la componente classicista si esprime in modo evidente nell’applicazione di regole compositive basate sulla simmetria, sull’ordine e sulla proporzione, nella predilezione per
le forme geometriche pure, nella finezza degli attributi decorativi, nell’esito misurato ed elegante della
sua espressione; nella palese citazione di modelli formali, tipologici, stilistici, iconografici riferiti all’architettura classica o rinascimentale. Tuttavia l’adesione di Asplund al classicismo si riconosce in particolare nella rielaborazione delle regole e delle formule del lessico antico, che vengono composte liberamente e integrate con quello nordico.
L’articolazione di questo linguaggio si esprime nella raffinatezza della ricerca estetica, nell’eleganza della composizione, nel rigore e nella semplicità delle forme.
Un’altra opera racconta il consolidamento della poetica del classicismo nordico: la Biblioteca Nazionale di Stoccolma (1921–28), un organismo edilizio concepito sulla rielaborazione del Pantheon.
Nella versione originale l’edificio si sviluppava intorno alla sala di lettura, a pianta circolare, sormontata da una cupola traforata; il volume della calotta sferica emergeva parzialmente da una base a
pianta quadrata che la circondava e la incorniciava. L’evoluzione del progetto definitivo mantiene inalterata l’organizzazione funzionale e la purezza stereometrica, e tratta la sala centrale con una forma
cilindrica, a segnare un percorso formativo che conduce Asplund verso un classicismo sempre più assoluto, elaborato attraverso processi di astrazione, semplificazione e depurazione.
Anche se per alcuni, come Bruno Zevi, la contrapposizione di questi volumi elementari fa di quest’opera un edificio quasi purista, è naturale leggerne il nesso con alcune opere del tardo classicismo
francese del XVIII secolo, in particolare con quelle di Ledoux.
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Biblioteca Nazionale, Stoccolma, Svezia, 1921–28
L’impianto è simmetrico, rigoroso, bloccato, dominato dal tema della centralità. La composizione
dei volumi, spogli essenziali puri, è incentrata sulla definizione di un movimento ascendente che, partendo dalla strada esterna, arriva nel centro della grande rotonda. La composizione esprime molto chiaramente anche il significato dell’opera, il percorso dell’uomo verso la saggezza eterna, rappresentata
dalla forma perfetta della rotonda. La sala di lettura, un luogo quasi sacro, diviene il compimento simbolico di un percorso processionale.
Il tema del percorso è ricorrente nell’opera di Asplund.
Nella Cappella nel Bosco, per esempio, il percorso inizia ai margini del recinto, e procede attraverso uno stretto passaggio tra gli alberi, che inquadra il movimento processionale; tale movimento si rallenta sotto lo spazio d’attesa del portico, dove la scala più umana, esile e semplice della struttura, evidente soprattutto nella definizione dei dettagli, interpreta il luogo come una “stanza” all’aperto. L’accesso alla cella avviene attraverso una sequenza di due ingressi, una massiccia porta e una cancellata
traforata. All’interno lo spazio compresso del portico si amplia verso l’alto e si espande in una volta circolare luminosa, sostenuta da una serie di colonne esili e diradate.
Anche nel Cinema Skandia a Stoccolma (1922–23) Asplund crea un percorso articolato in una
sequenza di spazi che introducono lo spettatore all’interno della sala. Il percorso inizia sul fronte esterno, dal portico, che diviene l’elemento di connessione tra la facciata preesistente e «la colorata e un po’
stridente modernità del cinema» 4; quindi si sviluppa attraverso un vestibolo, per giungere a una sorta di
breve strada interna. Il ridotto inferiore, infatti, assume la forma di un deambulatorio attorno alla sala,
sia al piano terra che al livello superiore, da cui si accede ai palchi. Questo spazio assume il carattere
di una piccola ouverture teatrale.
Il classicismo di Asplund si coglie anche nell’allestimento di spazi intimi, misurati, portatori di valori umani, di caratteri in cui l’uomo può riconoscersi e abitare significativamente.
4
5
Idem
Idem.
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Cinema Skandia, Stoccolma, Svezia, 1922–23
Nel Cinema Skandia «il pubblico poteva trovarsi in uno scenario irreale e splendido, concepito come
cornice del fantastico mondo dei film, e nello stesso momento in un’accogliente intimità» 5. La sala è
un luogo comodo, intimo, ma anche rappresentativo dell’immagine accattivante, fantastica, virtuale
della scena cinematografica, per la quale Asplund allestisce alcune “illusioni”. Per esempio, per ridurre visivamente le dimensioni dello spazio vengono enfatizzate le spallette delle balconate e ampliate le
decorazioni dei parapetti; la galleria centrale viene separata e trattata diversamente da quelle laterali per
valorizzare l’asse longitudinale della sala, ecc.
d) L’importanza dell’esperienza percettiva e psicologica dello spazio, la ricerca della scala umana,
rimangono sempre gli obiettivi principali del linguaggio progettuale di Asplund, anche quando questo
compie l’evoluzione definitiva verso il lessico moderno.
Nel progetto per l’Esposizione di Stoccolma (1930) non si trovano più le volumetrie bloccate, le
composizioni rigorose e simmetriche, le citazioni classiche, ma vengono sperimentati nuovi strumenti
espressivi, nuove tecnologie costruttive, nuovi materiali leggeri ed elastici.
La vasta area espositiva è concepita come una scena urbana, con un’atmosfera festosa, in cui gli elementi, i Padiglioni, gli spazi di servizio e di ristoro, le strutture pubblicitarie, sono disposti liberamente assecondando la natura del luogo. Ma l’acquisizione di questi nuovi stimoli culturali si esprime
soprattutto nelle strutture aeree e trasparenti, nella chiarezza volumetrica e nell’audacia strutturale tratte dal lessico funzionalista; nelle citazioni della grafica costruttivista (per esempio nel progetto della
Torre nel Piazzale delle Feste); nei riferimenti alla poetica della macchina, con l’enfatizzazione degli
oggetti esposti nel Padiglione dei Trasporti, e delle strutture in legno e tela tesa tra i pilastri controventati, che si avvicinano più all’armamentario velico che a quello edilizio.
Tuttavia, la sperimentazione del linguaggio moderno non deve essere letta come una conversione
rivoluzionaria, piuttosto come una fase che si inserisce nel percorso di evoluzione e maturazione della
capacità espressiva, in cui rimane invariato il tentativo di contaminare i nuovi stimoli dell’ambiente
moderno europeo (“l’internazionale” 6), con quelli che derivano dal sistema culturale locale (“il regio-
6
C. NORBERG–SCHULZ, Terre notturne, Unicopli, Milano 2000.
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Ampliamento del Municipio di Goteborg, Svezia, 1934–37
Magazzini Brendenberg, Stoccolma,
Svezia, 1933–35
nale”) e dalla formazione umanistica classica (“l’estraneo”). L’approccio di Asplund al linguaggio
moderno è caratterizzato da un rapporto libero con i modelli e da un’impostazione chiara e logica, che
consentono di formulare un codice espressivo originale, ma sempre mediato da una sensibilità poetica
e fantasiosa.
L’importanza dell’Esposizione consiste nell’aver dimostrato la possibilità del lessico moderno di
evitare le ripetizioni e la monotonia, combinando la freschezza del nuovo con la non rinnegata eleganza della tradizione, e di «allargare il dizionario espressivo moderno, liberandolo dal cliché delle finestre a nastro, dai tetti piani, dalle pareti nude, dalle grandi vetrate e dalle volumetrie bloccate» 7.
Un aspetto da non sottovalutare nell’opera di Asplund è il suo carattere monumentale, riconoscibile
senz’altro nella Biblioteca di Stoccolma ma anche, in una forma più intimamente legata agli aspetti psicologici ed espressivi, nel Crematorio (1936–40), l’opera che conclude l’intervento nel Cimitero Sud di
Stoccolma, probabilmente la più apprezzata e la più significativa per comprendere il punto di arrivo
della ricerca lessicale di Asplund.
Il progetto, monumentale per l’austerità, la sobrietà e l’eleganza della composizione, la citazione del
portico, della strada romana, il ricordo dell’Acropoli nella Collina della Meditazione, ecc., mostra una
nuova fase di evoluzione che integra l’identità classica consolidata in precedenza con l’esperienza del
lessico moderno, sempre in relazione al contributo della sensibilità nordica.
Si raggiunge qui una sorta di mimesi delle varie fasi linguistiche, in cui le diverse componenti trovano un accordo per comporre un linguaggio coerente, a partire dall’impianto planimetrico, che allontanandosi dall’impostazione rigida e simmetrica del lessico classico, si articola in una composizione originale, creativa, che trae la sua ispirazione dal rapporto con il contesto naturale.
L’uso di elementi strutturali che evocano il riferimento all’architettura aulica è qui subordinato
all’intenzione di Asplund di raggiungere solennità ed elevazione, attraverso una libera interpretazione
delle forme e dei loro rapporti, una logica e una chiarezza che appaiono moderne.
L’interesse per il linguaggio di Asplund risiede nella capacità di rileggere, reinterpretare, sperimentare
e coniugare stimoli culturali molto diversi, per dare vita a un lessico eclettico ma rigoroso, originale ma
7
B. ZEVI, Erik Gunnar Asplund, Testo & Immagine, Torino 2000.
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Crematorio del Cimitero del Bosco, Stoccolma, Svezia, 1936–40
sobrio, eterodosso ma coerente, aperto alla sperimentazione, ma con una forte identità e riconoscibilità.
Per spiegare la genesi di questo linguaggio una possibile chiave di lettura potrebbe essere identificata nella teoria di Norberg–Schulz, secondo cui l’identità culturale si sviluppa sempre in una necessaria relazione con il carattere naturale del luogo, il genius loci. Come lo stesso autore norvegese sottolinea nella sua interpretazione dell’architettura nordica 8, il carattere peculiare del paesaggio svedese è la
sua essenza multiforme, prodotta dalla congiunzione di caratteri discordanti, pur possedendo il Paese
una chiara definizione geografica.
L’architettura nordica tende, quindi, ad esprimere tali relazioni contrastanti attraverso la composizione di organismi eterogenei, eclettici, che pur denunciano una propria identità.
Questa è l’identità che si legge nel linguaggio eclettico di Asplund.
8
C. NORBERG–SCHULZ, op. cit.
Riferimenti bibliografici
1.NORBERG–SCHULZ C., Terre notturne, Unicopli, Milano 2000.
2.WILSON C.ST.J., ROBERTSON H. (a cura di), Gunnar Asplund 1885–1940: the dilemma of classicism, Architectural Association, London 1988.
3.WREDE S., The architecture of Erik Gunnar Asplund, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1980.
4.ZEVI B., Erik Gunnar Asplund, Il Balcone, Milano 1948.
5.ZEVI B., Erik Gunnar Asplund, Testo & Immagine, Torino 2000.
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Alvar Aalto, tra materia e natura
Marco Caprini
Casa del Popolo, Jyvaskyla, Finlandia, 1924
Le architetture di Aalto ci parlano ancora oggi di un costante sforzo tra la capacità di sviluppare un
progetto moderno, in cui la composizione degli spazi e dei volumi è definita da attente relazioni geometriche, e la modellazione e adattamento di composizioni alle condizioni del contesto (naturale) all’interno delle quali sono collocate.
«Con la dovuta cautela, l’opera di Aalto calata nell’ambiente naturale si potrebbe collocare nella
sfera del pittoresco e, a volte, persino del sublime. I suoi non sono spazi o forme che possa percepire
un corpo statico, ma esigono una percezione dinamica: per cogliere gli spazi, occorre attraversarli; per
cogliere le forme, occorre girarvi attorno. Ma ciò che più conta è che, sotto la luce e nel mutare delle
stagioni, la lettura di quest’architettura sfugge alla codificazione» 1.
La chiave interpretativa proposta in questo saggio cerca di rendere evidente il metodo di lavoro specifico dell’opera di Aalto in cui una grande sensibilità nei confronti del paesaggio e dei materiali da
costruzione, si sposa con una formazione che ha profonde radici nella impostazione geometrica e, per
alcuni punti, classica. L’architettura che Aalto ci ha fatto conoscere fonde, infatti, il grande senso di proporzione e la dimensione umana con un eccezionale studio dei materiali e dei dettagli tecnologici,
all’interno di presupposti compositivi di chiara origine razionalista.
I suoi progetti, sviluppati negli oltre cinquant’anni di attività professionale, se sono stati pensati e
realizzati in molti dei paesi occidentali, hanno in realtà la loro matrice e localizzazione più precisa nella
patria dell’architetto, la Finlandia.
L’opera di Aalto ha spaziato a trecentossessanta gradi: residenze singole e collettive, edifici pubblici, chiese, musei, sale da concerti e persino industrie, disseminati in forma capillare sul territorio, hanno
creato l’immagine architettonica moderna di una nazione che ancora negli anni Trenta era legata alle
tradizioni costruttive rurali, con realizzazioni di chiaro stampo romantico (basta osservare i progetti di
Sonk, Saarinen, Gesellius).
1
M. TREIB, Aalto e la natura, in: P. REED (a cura di), Alvar Aalto 1898–1976, Electa, Milano 1998, p.58
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Turun Sanomat Building, Turku, Finlandia, 1927–29
Sanatorio, Paimio, Finlandia, 1929
La formazione di Aalto avviene nei primi anni Venti. Dopo una serie di progetti di piccole dimensioni in cui resta evidente la continuità con la tradizione locale, due passaggi fondamentali influenzano
in maniera diretta le prime importanti opere, per poi riemergere con maggiore o minore forza in tutti i
lavori anche successivi.
a) Il primo momento è il contatto diretto con le architetture classiche: agli inizi degli anni Venti Aalto
viaggia più volte in Italia e in Grecia documentando un attento studio delle architetture antiche con
numerosi schizzi, raccolti nei suoi quaderni di viaggio: esperienze, queste, che portano Aalto a sviluppare una rielaborazione dei temi classici della composizione geometrica e della collocazione degli edifici nei punti salienti del contesto naturalistico.
Nella Casa del Popolo di Jyvaskyla (1924–25), al di là dell’impianto centrale, nella decorazione
marmorea del tamburo centrale vi è addirittura una citazione diretta della cappella Ruccellai di Firenze
progettata da Leon Battista Alberti. Riferimenti a Sant’Andrea sempre di Alberti, si individuano anche
nella facciata della chiesa di Muurame che, isolata su una collina come un tempio greco, ha un impianto classico basilicale.
Lo stesso primo progetto per la biblioteca di Vijpuri, realizzata solo successivamente in forme razionaliste, presenta stilemi dorici nella composizione delle facciate.
b) Un secondo passaggio, che muta radicalmente lo sviluppo delle architetture di Aalto, è il contatto con il razionlismo e i CIAM: nel corso degli anni Venti conosce prima le architetture di Asplund e
poi le avanguardie architettoniche del Movimento Moderno. Repentino è il passaggio da forme elaborate con chiari riferimenti alla tradizione, verso nuove composizioni più astratte, in cui lo sviluppo funzionale del programma architettonico viene reso evidente con il ricorso a forme coerenti con i “Cinque
punti dell’architettura” teorizzati da Le Corbusier.
La sede del Turun Sanomat a Turku e il Sanatorio di Paimio sono esemplari dell’approccio funzionalista di Aalto: strutture in cemento armato, composizione libera della pianta e grandi finestrature orizzontali introducono nel panorama finlandese le nuove forme del Razionalismo.
È importante notare, però, come, soprattutto nel Sanatorio di Paimio, emerga già in maniera molto
forte l’attenzione che Aalto pone nella collocazione dell’edificio in relazione al paesaggio: posto in
cima a una piccola collina, all’interno di un ampio bosco, l’edificio sviluppa una pianta articolata a tre
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Villa Mairea, Noormarku, Finlandia,
1937–39
Casa per vacanze sul lago, Muuratsalo, Finlandia, 1953
Studio professionale di Aalto, Helsiniki, Finlandia, 1956
bracci asimmetrici, con una relazione equilibrata di contrapposizione tra l’artificialità dell’opera umana
e la naturalità della foresta circostante.
La progettazione di Aalto raggiunge la piena maturità in una serie di progetti sviluppati a cavallo della
Seconda Guerra Mondiale. In particolare preme portare l’attenzione sulla grande capacità che l’architetto finlandese sviluppa nell’articolare planivolumetricamente composizioni che da una matrice geometrica rigorosa si articolano e si aprono al paesaggio circostante, caratterizzato da una natura incontaminata
e pervasiva. A partire dal 1938 Aalto progetta Villa Marea a Noormakku, il Municipio di Saynatsalo
(1948–52), la propria residenza estiva a Muuratsalo (1952–53) e infine il suo Studio professionale a
Helsinki (1954–56): quattro progetti esemplari dell’approccio in cui l’idea originaria, a partire dalla
matrice della corte, si apre e articola per meglio adattarsi alle preesistenze e al contesto circostante.
Analizzare queste architetture aiuta a capire meglio il metodo di Aalto secondo cui si parte sempre
da una forte impostazione geometrica dell’impianto distributivo: in questi casi si tratta di una tipologia
a corte inscrivibile in un quadrato. L’articolazione e la deformazione dell’impianto iniziale vengono
condotte con grande attenzione e sensibilità, accentuando, con l’emergere di volumi e il trattamento dei
rivestimenti, i punti salienti o dominanti della composizione.
In villa Marea il corpo principale rimane unicamente una “L”, la cui “testa” posta a sud risulta il
grande volume aggettante dello studio al primo piano completamente rivestito di legno all’esterno:
l’impianto viene definito da altri elementi della composizione, tra cui la pensilina retrostante che va a
congiungersi con il locale della sauna e che digrada successivamente nella piscina e nel parterre circostante, delimitato da una bassa recinzione. Il progetto si pone quindi come una vera e propria isola, una
radura all’interno del fitto bosco in cui l’architettura è sviluppata in contrapposizione e integrazione con
la natura.
Nel municipio d Saynatsalo i riferimenti alla domus romana e soprattutto ai palazzi consiliari della
tradizione delle piazze italiane appare ancora più evidente. I volumi sono netti, precisi; la composizione è dominata dall’alta sala consiliare che svetta sul panorama circostante. In questo caso l’impianto
quadrato è aperto su due spigoli: il rapporto viene mediato da due quote di terreno differenti collegate
da scale. Anche l’articolato sistema dei percorsi che giunge all’apice nella sala consiliare sottolinea lo
spazio centrale della corte, attorno a cui ruota tutta la composizione.
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Municipio, Saynatsalo, Finlandia, 1949–52
Cimitero, Lyngby, Danimarca, 1952
Diverso è invece l’approccio nel progetto della casa al lago a Muurame. Qui gli elementi della composizione sono rigidamente geometrici: il blocco principale e i corpi annessi sono perfettamente ortogonali. Ciò che crea articolazione e movimento è la collocazione dei singoli elementi lungo il promontorio granitico che si protende nel lago. Il progetto della casa è quindi giocato su una costante sperimentazione del rapporto tra interno ed esterno, arricchito dalla movimentata texture dei rivestimenti in laterizio e maiolica presenti nella corte interna.
L’ultimo progetto a corte è lo Studio professionale ad Helsinki: in questo caso il contesto all’interno del quale è collocato l’edificio non è più quello naturale, ma quello urbano. Ma il tema viene affrontato con un approccio simile: la definizione di uno spazio racchiuso ha non più lo scopo di isolare uno
spazio artificiale all’interno della natura, ma, al contrario, quello di creare un ambiente naturale all’interno della città artificializzata. L’edificio, collocato su un lotto perimetrato da muri in laterizio, è articolato in due ali che si protendono, senza soluzione di continuità, nel giardino centrale. L’interno si
fonde con l’esterno e viceversa.
Il rapporto tra impostazione geometrica del progetto e capacità di plasmarlo in base alle condizioni
del contesto circostante si possono infine analizzare in due progetti funerari sviluppati negli anni Cinquanta e sfortunatamente mai realizzati: il progetto per la Cappella funeraria di Malm a Helsinki e il progetto per Cimitero di Lyngby in Danimarca. In entrambi l’idea generatrice può essere individuata nello
studio di una distribuzione interna rigorosa, sviluppata in una successione di spazi geometricamente definiti. Le singole cappelle si aprono ognuna su una piccola corte autonoma, con percorsi di ingresso e
uscita separati, ma ognuno caratterizzato singolarmente. La composizione complessiva viene maggiormente articolata nel rapporto con il contesto: nel caso della cappella di Malm con una rotazione di
un’ala rispetto all’ortogonalità degli spazi interni, nel caso, invece, del Cimitero di Lyngby con l’articolazione dei percorsi lungo il terreno digradante, quasi a formare due teatri di antichissima memoria.
Riferimenti bibliografici
1. FLEIG K., Alvar Aalto, Libreria Salto, Milano, Editions Girsberger, Zurigo 1963.
2. GIEDION S., Spazio tempo e architettura, Hoepli, Milano 1956.
3. REED P. (a cura di), Alvar Aalto 1898–1976, Electa, Milano 1998.
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Franco Albini, ordine e metodo come regole del fare architettura
Marco Lucchini
Quartiere Mangiagalli (con I. Gardella), Milano, 1950–52
La forza di Franco Albini di autoimporsi una disciplina e di costringere nelle maglie della ragione
una «capacità lirica straordinaria» 1, ha contribuito a costruire l’immagine di un autore che non si vende
«né al dettaglio né all’ingrosso»” 2, la cui integrità morale si riflette, con limpida evidenza, nel rigore
compositivo che denota progetti e realizzazioni.
L’opera di Albini assume un particolare rilievo in quanto exempla di una poetica la cui carica comunicativa è proporzionale al controllo delle scelte espressive. L’assenza di un apparato teorico esplicitamente formalizzato non è certo sintomo di riduttivo professionalismo; al contrario l’architetto conquista un ruolo di assoluto rilievo culturale – è considerato da più parti un caposcuola – parlando la lingua
che meglio conosce, ovvero la pratica del progetto, pervicacemente tesa a dire cose che si possono dire
solo per mezzo dell’architettura.
La critica ha identificato precisi nuclei tematici chiaramente riconoscibili nei caratteri tipo–morfologici delle costruzioni. Uno dei più significativi, rimanda alla nozione di “Ordine”, ossia alla ricerca
di una regola in grado di organizzare con razionalità le operazioni progettuali. La struttura metodologica prevede un programma di operazioni che suddividono un problema complesso in parti più semplici;
una volta risolte esse conducono a forme che, interagendo fra loro, inducono un nuovo problema la cui
soluzione determina il risultato finale. Fondare il lavoro di progetto su un metodo, valido indipendentemente dal risultato finale, per Albini significa ampliare gli orizzonti della professione verso un più
vasto percorso di conoscenza.
«Senza vincoli non si può progettare» 3; questa lapidaria proposizione sintetizza una dialettica tra le
nozioni di norma e criterio. Non si tratta di una speculazione teorica ma di due differenti modi di interpretare i dati di realtà: la norma corrisponde ai vincoli rigidi, come la scarsità di risorse imposta negli
anni Trenta dai restrittivi standard IFACP per la progettazione di insediamenti di Edilizia Residenziale
Pubblica; il criterio corrisponde invece a una regola autoimposta ma flessibile. Nella poetica di Albini
si riconosce una tensione ossimorica fra forze di segno opposto: da un lato l’anelito all’ordine, dall’al-
1
F. ROSSI PRODI, Franco Albini, Officina Edizioni, Roma 1996, p. 11.
B. GARZENA, G. SALVESTRINI, Edilizia popolare, composizione urbana e residenza collettiva, in: AA.VV., Franco Albini. Architettura e design 1930–70, Centro Di, Firenze 1979, p. 48.
3
B. GARZENA, G. SALVESTRINI, op. cit., p. 64.
2
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Case per lavoratori Incis, Vialba, Milano, 1951–53
tro la presenza di una componente giocosa 4 che si intreccia con il precedente, nella ricerca di un realtà
volutamente costretta al rigore e, per questo motivo, libera.
Negli edifici realizzati per l’INCIS e l’INA la ricerca del limite tra vincoli dati e possibilità espressive del progetto nell’ambito della “casa per tutti” assume i toni di una sfida 5. Alcuni caratteri propri
del tipo edilizio sono soggetti a un autentico processo di re–invenzione: nel progetto di concorso delle
Case per lavoratori della Pianura Padana (1949), nell’Edificio del quartiere Mangiagalli a Milano
(1950–52), nel progetto di Case per lavoratori INCIS a Milano (1950), nelle Case per lavoratori INCIS
nel quartiere Vialba a Milano (1951–53), e infine nella Casa per impiegati della società del Grès a Colognola (1954–56) il tema del corpo scala assume una valenza compositiva straordinaria; estratto dal
volume edilizio, esso diviene veicolo di un’“intensità plastica” tesa a enfatizzare la dinamica della
forma architettonica. Le soluzioni prescelte, che vanno dalla definizione del corpo scala come volume
puro isolato e accostato all’edificio, alla sua “decostruzione” in un sistema di passerelle aeree prolungabili all’infinito, modificano la percezione dello spazio abitabile trasformando un elemento distributivo in un luogo da cui osservare l’edificio da prospettive variabili.
La capacità di coniugare immaginazione e rigore nello sforzo di enfatizzare l’essenza di una costruzione e non la sua apparenza tecnica, è una delle più vivaci radici della poetica albiniana; essa si manifesta inizialmente negli allestimenti per gli spazi espositivi 6 ove il progettista sperimenta la tensione
verso i limiti strutturali dei materiali.
Il “razionalismo artistico” 7 di Albini – messo in luce da Persico e più recentemente da Federico
Bucci 8 –, assume una compiuta maturità immediatamente comprensibile negli oggetti a misura d’uomo, come le splendide scale sospese da esili tiranti, fra cui quella di Palazzo Rosso a Genova.
4
B. GARZENA, G. SALVESTRINI, op. cit., p. 63.
M. BAFFA, Progetto e tradizione in alcune opere di Albini, in: Edilizia Popolare n. 237, 1995.
6
Per un’approfondita documentazione critica sugli allestimenti di Albini si rimanda a: F. BUCCI, A. ROSSARI (a cura di),
I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa, Milano 2005.
7
E. PERSICO, Un interno a Milano, in: La Casa Bella, n. 6, giugno 1932.
8
F. BUCCI, Spazi Atmosferici. L’architettura delle mostre, in: F. BUCCI, A. ROSSARI, op. cit., p. 21.
5
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Palazzo Rosso, Genova, 1952–62
Quartiere Fabio Filzi, Milano, 1936–38
Esso appare anche nelle realizzazioni di entità maggiore, come i due edifici al Quartiere Mangiagalli,
realizzati in collaborazione con Ignazio Gardella: il rigore compositivo trova una felice sinergia con una
espressività esuberante ma composta, leggibile nell’articolazione della facciata nord–est secondo un’alternanza di sporgenze e rientranze che sembrano scomporre l’involucro in una successione di diedri.
Le contaminazioni tra letteratura e architettura hanno un fascino particolare in quanto espressioni
omologhe della capacità comunicativa dell’uomo: Vittorio Prina 9 ha individuato delle interessanti corrispondenze tra la poetica di Albini e le categorie inventive individuate da Italo Calvino nelle Lezioni
Americane.
Il concetto di esattezza, ad esempio, si manifesta nella razionalità del metodo progettuale e nel controllo di ogni parte della costruzione; la leggerezza si riconosce nella tensione verso lo svuotamento
degli elementi costruttivi fino ad ottenere strutture sospese e ambienti rarefatti. Leggerezza è anche la
volontà di pervenire alla «massima purezza compositiva» 10 nella disposizione dei corpi di fabbrica
secondo regole semplici, come nel Quartiere Fabio Filzi; quest’ultimo manifesta nelle scelte linguistiche una «semplicità urtante» 11 accentuata dal taglio netto dei volumi, dall’elisione del cornicione, dall’ordine geometrico della composizione. La leggerezza si riconosce anche nei disegni, in cui la sobria
razionalità del “fil di ferro” è incommensurabilmente più emozionante, proprio per il suo rigore, dello
sproloquio a cui ci sta abituando l’attuale grafica computerizzata.
L’idea di città di Albini si concretizza con dei frammenti di architettura urbana studiati partendo dai
modelli insediativi del Movimento Moderno, cercando costantemente spazialità più complesse del mero
allineamento all’asse eliotermico. L’esperienza dei Quartieri San Siro e Fabio Filzi preludono a una più
ampia riflessione critica sulla città moderna sviluppata attraverso una serie di progetti alla scala urbana; soprattutto in “Milano Verde” 12, e nel “piano A.R.” 13.
9
10
11
12
13
PRINA V., In una rete di linee che si intersecano, in PIVA A., PRINA A., FRANCO ALBINI, Electa, Milano 1998.
GARZENA B., SALVESTRINI G., op. cit., p. 61.
GARZENA B., SALVESTRINI G., op. cit., p. 49.
1938, con R. Camus, G. Mazzoleni, G. Pagano, G. Palanti.
1944– 45, con I. Gardella, G. Minoletti, G. Pagano, G. Palanti, G. Predaval, G. Romano.
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Progetto per Milano Verde, 1938
Edificio Ina, Parma, 1950–54
Albini si dimostra partecipe della cultura urbana razionalista, criticando l’espansione a macchia
d’olio, la pratica dello zoning, la lottizzazione per isolati e gli sventramenti nel centro storico.
Una rilevante caratteristica del “fare” progettuale di Albini è la straordinaria abilità nell’oscillare,
senza alcun segno di discontinuità, tra una elegante astrazione, evidente negli allestimenti e nel design
– valgano come esempi la Libreria “Veliero” e le Stazioni della metropolitana milanese 14 – a una più
appassionata espressione della realtà costruttiva dell’architettura.
Nell’edificio INA a Parma (1950) la rastremazione ritmica verso l’alto delle lesene denota la variazione di carico a cui sono sottoposti i sostegni. Essi fanno parte di un doppio sistema espressivo: nella
facciata verso la strada principale la verticalità dei pilastri e delle bucature evoca un’immagine di trasparenza e leggerezza accentuata proprio dal progressivo assottigliarsi della struttura, mentre nel fronte verso Borgo S. Biagio l’orizzontalità dei marcapiani e dei corsi dei tamponamenti di mattoni ribadisce l’opacità e la consistenza della massa muraria.
A partire dal 2005 le iniziative organizzate per il centenario della nascita hanno ampiamente dimostrato come il “mormorio sommesso” 15 di questo maestro esige ancora di essere ascoltato.
14
Purtroppo oggi molte di queste stazioni sono state oggetto di discutibili interventi di restyling che hanno maldestramente cancellato ogni traccia della sistemazione originaria.
15
M. TAFURI, Storia dell’Architettura Italiana 1944–1985, Einaudi, Torino 1986.
Riferimenti bibliografici
1. BUCCI F., ROSSARI A. (a cura di), I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa, Milano 2005.
2. Franco Albini. Architettura e design 1930–70, Centro Di, Firenze 1979.
3. Edilizia Popolare n. 237, 1995.
4. PRINA V., Franco Albini. 1905–1977 , Electa, Milano 1998.
5. ROSSI PRODI F., Franco Albini, Officina Edizioni, Roma 1996.
6. SAMONÀ S., Franco Albini e la cultura architetonica italiana, in Zodiac, n. 3, 1958, pp. 83–115.
7. UGOLINI M., ZILIOLI A., Franco Albini: Uffici Ina a Parma, Alinea, Firenze 1991.
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Carlo Scarpa, il disegno del dettaglio tra passato, presente e natura
Luca Schiaroli
Casa Ottolenghi, Bardolino (Verona), Italia, 1974–78
La ricerca di Scarpa si fonda sulla definizione di un preciso rapporto tra la forma dell’architettura e
i materiali che la compongono e, accanto a questo, sulla creazione di un dialogo tra il passato e il futuro dell’architettura, attraverso diversi metodi interpretativi della tradizione costruttiva, delle tecniche e
dei materiali del passato.
Nei suoi progetti l’idea del dialogo tra il vecchio e il nuovo è una costante. La storia è base della sua
ricerca e strumento di interpretazione per costruire il presente. Ed è in particolare nella cura del progetto del dettaglio che Scarpa esprime il suo fare architettura fondato su questi concetti.
La misura, ovvero il fondamento della tecnica, e l’ornamento, ovvero lo strumento che articola il
fare architettura, sono utilizzati da Scarpa in totale armonia, con coerenza e precisione. Egli agisce
come un pittore attento e scrupoloso, soffermandosi amorevolmente sui dettagli di ogni lastra, spigolo,
snodo, passaggio.
L’ornamento scarpiano è chiamato a scandire la successione degli spazi, trattandoli nella loro specificità e vocazione profonda, e i materiali, magistralmente combinati tra loro e “lavorati” secondo le
potenzialità proprie, scandiscono i percorsi di connessione tra gli spazi: in Scarpa la forma è confine e
i percorsi sono i momenti di interazione tra le cose, cioè gli strumenti per il superamento del confine
stesso, le soglie.
Il prodotto del “fare scarpiano” è un’architettura che sembra nascere direttamente dal contesto, dalla
storia, dalla natura, come inevitabile conseguenza del trascorrere del tempo e del trasformarsi dell’ambiente.
Scarpa crede in una “natura tenuta con cura” e nei dettagli “accuratamente rifiniti”.
Nella cultura del giardino all’inglese o, meglio, del giardino giapponese, egli trova la fonte di ispirazione per la progettazione degli spazi verdi, fondati su equilibrio, poesia, rigore spirituale.
In Casa Cassina (in provincia di Como), il volume si adatta a un terreno in forte pendenza, trattato
con muri in pietra; in Casa Veritti (Udine) viene raggiunta una sintesi magistrale tra il corpo dell’edificio e il giardino: alla zona giorno si accede dall’esterno, attraverso una passerella sulla vasca d’acqua
del giardino, in cui si riflette la facciata meridionale dell’edificio; in Casa Ottolenghi (Bardolino, Verona) il volume, in parte sotterraneo, sfugge alla vista confondendosi, nelle forme, nella posizione e nel
trattamento materico, con l’ambiente naturale in cui è “immerso”. La copertura piana si conforma al terreno accidentale e ne diviene un terrazzamento percorribile. Sia all’interno sia all’esterno dell’edificio,
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Ampliamento della Gipsoteca Canoviana, Possagno (Treviso), Italia, 1955–57
Galleria Nazionale della Sicilia, Palazzo Abatellis, Palermo,
Italia, 1953–54
Scarpa esplora e tratta copiosamente il tema della colonna come perno spaziale, che sembra nascere dal
terreno come un tronco d’albero; nel giardino di Castelvecchio (Verona) i temi sacri della cultura giapponese si fondono in un equilibrio e in una astrazione davvero inediti, combinandosi con la sensibilità
progettuale tipicamente veneziana, che mette in relazione le facciate, le aperture, le viste sull’esterno
con scorci, panorami e punti di vista.
Negli interni museali Scarpa costruisce un rapporto di reciproca dipendenza tra l’oggetto esposto e
l’architettura che lo contiene, lavorando con la luce naturale, pensata non solo in termini di direzione e
intensità, ma anche come texture e come colore, cioé come elemento materico dotato di tridimensionalità.
Nella Gipsoteca Canoviana di Possagno (Treviso) Scarpa, come un regista, mette in scena uno spettacolo teatrale surreale, caratterizzato da una scenografia essenziale. Dispone i gessi di Canova come
fossero i componenti di un corpo di ballo, distribuiti nello spazio su livelli sfalsati e tratta l’involucro
architettonico come un palcoscenico sul quale il mutare della luce, che entra prevalentemente dall’alto
e che viene modulata in molti modi (con aperture bi– o tridimensionali, con riflessione diretta o diffusa attraverso campi e superfici di diverso trattamento materico, ecc.), cambia le atmosfere, i colori e le
scene.
Anche nella Galleria Nazionale di Sicilia, in Palazzo Abatellis a Palermo, è la luce lo strumento basilare di composizione dello spazio e di definizione delle forme.
La più notevole tra le sue esperienze rimane, però, il progetto del Museo di Castelvecchio a Verona.
Qui l’opera architettonica moderna si confronta magistralmente con una miscellanea di preesistenze
romane, medievali, rinascimentali, del diciottesimo, del diciannovesimo e del ventesimo secolo.
In Castelvecchio, negli spazi interni come in quelli esterni, Scarpa scarnifica gli apparati murari,
inserisce protesi strutturali, crea piani di calpestio in pietra come fossero tappeti minutamente decorati
e sagomati, riveste le pareti e disegna i supporti per ciascuna opera d’arte, definendo uno specifico rapporto tra l’opera e lo spettatore, tra l’opera e lo spazio, e, quindi, tra lo spettatore e lo spazio, cioé tra
l’uomo e l’architettura. Inoltre, inquadrando e incorniciando le parti risalenti a epoche diverse, e sottolinenadone le stratificazioni, sottopone l’opera a una continua investigazione archeologica, con lo scopo
di valorizzarne la natura e le stratificazioni storiche.
Così rende comprensibile il significato e il valore di ogni frammento e ne stabilisce, in un certo
senso, il destino.
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Cimitero Brion, San Vito D’Altivole (Treviso), Italia, 1969–78
Alcuni elementi sono stati rimossi o riposizionati, altri sono stati conservati e restaurati, altri ancora aggiunti.
Quella di Castelvecchio è l’opera che più di ogni altra dimostra la capacità dell’architetto di leggere nell’architettura la continuità con il passato, e di inserirsi con originalità e creatività autentiche e
autonome, in questo percorso storico–evolutivo.
Anche nella tomba Brion a San Vito D’Altivole i molti temi progettuali scarpiani si combinano nell’allestimento di una scenografia architettonica: la ricerca di una continuità formale e spirituale tra la
nuova aggiunta e il cimitero esistente, il disegno del giardino come esperienza metaforica, la presenza
dell’acqua statica e in movimento come allegoria dello stretto rapporto tra l’architettura veneziana e il
mare.
Alla base dell’operare artistico di Scarpa c’è il disegno, strumento ineliminabile per “modellare” e
“affinare” l’opera architettonica. Tra tutti, egli privilegia alcuni metodi di rappresentazione, come gli
alzati, i prospetti e le piante, e si concentra preferibilmente sui dettagli delle connessioni, delle cerniere, degli snodi.
Qualche critico relaziona strettamente l’opera di Scarpa con quella di Wright, ma in realtà si scorgono notevoli differenze di linguaggio nell’espressione del segno.
In Wright il progetto non ha senso e neppure esiste se non come immagine immediata: esso visualizza l’edificio in prospettiva, così da poterlo contestualizzare in un ambiente preciso, da vederlo in
quanto opera finita e in relazione col tutto.
Scarpa, invece, parte dal presupposto di dover realizzare tecnicamente l’opera, per cui si sofferma
sul disegno minuto del dettaglio, sulla risoluzione di problemi costruttivi e di snodi complessi. In
Castelvecchio, per esempio, a parte i numerosi studi per la collocazione della statua di Cangrande, testimonianza del calcolo preciso degli effetti spaziali, non esiste alcuna prospettiva d’insieme ma solo centinaia di disegni esecutivi di dettaglio.
Scarpa attribuisce priorità assoluta alla realizzazione tecnica e operativa, pur conservando una grande capacità di astrazione nel dare forma alle cose. Perciò, nei disegni dei suoi progetti c’è già la specificazione della tecnica costruttiva che consentirà la realizzazione dell’opera.
La proiezione ortogonale è uno strumento molto utilizzato, valido ed efficace, in grado di conferire
coerenza al progetto e di rendere l’opera espressiva fin dal suo nascere.
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Museo di Castelvecchio, Verona, Italia, 1958–64, 1967–69, 1974
Le variazioni di scala che continuamente Scarpa applica ai suoi studi progettuali e la visualizzazione del progetto attrraverso diverse viste prospettiche interne gli consentono di definire con precisione
il rapporto tra le forme e lo spazio.
Il disegno scarpiano è puro strumento di comunicazione delle idee elaborate dal pensiero: «mi fido
delle cose che vedo, voglio vedere, per questo disegno».
Riferimenti bibliografici
1. BELTRAMINI G., FORSTER K.W., MARINI P., Carlo Scarpa. Mostre e Musei 1944–1976. Case e paesaggi 1972–1978, Electa,
Milano 2000.
2. Casabella, n. 742, anno 2006
3. DALCO F., Carlo Scarpa, Electa, Milano 2004.
4. MURPHY R., Carlo Scarpa & Castelvecchio, Arsenale, Venezia 1998.
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Alvaro Siza Vieira, il disegno, il progetto e la poesia
Francesco Sposito
Centro Galego di Arte Contemporanea, Santiago de Compostela, Spagna, 1988–93
Siza, portoghese, formatosi alla scuola di uno dei grandi maestri dell’architettura contemporanea
europea, Fernando Tàvora, con cui lavora negli anni Cinquanta, apprende un metodo di lavoro ed elabora il proprio modo di fare architettura, regolato da un bilanciato senso di equilibrio e di misura e assume
la semplicità come ricchezza. Il lavoro di Siza non si può inquadrare in uno schema di pensiero dogmatico, piuttosto esso è saldamente ancorato alla realtà del vivere e alle molte relazioni tra i fattori più o
meno visibili del sito e del progetto. In una delle sue affermazioni più note, Siza dichiara che «progettare non significa creare qualcosa di nuovo, ma trasformare qualcosa che esiste già, vale a dire la realtà».
Quando ci viene chiesto di elaborare un progetto la mente del progettista avvia un processo di elaborazione di dati che porta ad affinare una precisa idea di spazio, in grado di rispondere appieno alle
esigenze dettate dalla commessa.
Il primo passo, fondamentale per un buon approccio al progetto, che anticipa l’adeguamento al programma edilizio, è, in Siza, la comprensione del sito, attraverso il sopralluogo e il rilievo a vista, che
innescano un primo coinvolgimento mentale e sensoriale, determinato dall’impressione degli elementi
che compongono e articolano lo spazio esistente. Questa fase è indispensabile per rendere possibile l’inserimento e l’ancoraggio armonico del progetto all’ambiente.
Ciò che governa questa fase non può essere espresso con una regola generale perché per ogni singolo caso le circostanze sono diverse. Per esempio, nell’intervento di ristrutturazione del Chiado a
Lisbona Siza, dopo una riflessione condotta sugli aspetti formali e culturali dell’ambiente urbano, opta
per riprodurre, rivisitandola e reinterpretandola, l’architettura preesistente.
La scelta di intervenire solo con la sostituzione dei brani di tessuto danneggiato, non gli ha però
impedito di proporre un nuovo modo di intendere lo spazio urbano. L’intervento di Siza consiste infatti nell’incrementare la complessità integrando attività diverse, pur privilegiando quella abitativa. I vecchi cortili privati interni alle abitazioni vengono liberati e resi accessibili al pubblico, vengono creati
nuovi percorsi pedonali, scale e piani inclinati che consentono ai passanti di percepire e di esperire lo
spazio a scale diverse.
Nel progetto del Centro Galego di Arte Contemporanea di Santiago de Compostela Siza risolve il
problema progettuale in modo diametralmente opposto, cioè con una architettura nettamente distinta dal
contesto (il monumentale Convento di Saõ Domingo de Bonaval).
Per Siza l’architetto svolge un ruolo catalizzante nei confronti dello sviluppo urbano, egli considera cioè la cultura della città e della società come processi interagenti e in continua trasformazione e
cerca risposte valide, mutevoli e coerenti con il problema contigente.
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Biblioteca del Campus universitario di Aveiro, Portogallo, 1988–94
Il modo più spontaneo per tradurre gli stimoli prodotti dal luogo è il disegno.
Negli schizzi di Siza, tratti neri su fogli bianchi, totalmente privi di colore, emerge un’idea di progettazione come qualcosa di estremamente labile, come espressione di una serie di dubbi, come accumularsi di una serie di conflitti. “Schizzare” per Siza equivale a prendere appunti. Lo schizzo è il mezzo
preferito per cogliere i caratteri essenziali sia di un piccolo oggetto, sia di un grande intervento.
Il Ristorante e Sala da tè Boa Nova, a Leça de Palmeira (Matosinhos, nei pressi di Porto) si inserisce quasi mimeticamente nel paesaggio roccioso in fronte all’oceano.
Questo progetto introduce a un altro aspetto caratteristico del linguaggio progettuale di Siza: l’articolazione del sistema dei percorsi. Nel Boa Nova muri rettilinei definiscono lo spazio circostante e guidano il movimento del visitatore verso la scala d’ingresso, dalla quale la vista spazia illimitata sull’oceano. Una scala scende alla sala da tè e al ristorante, e una finestra inquadra il paesaggio roccioso.
Nel Centro Galego e in molte altre opere, è lo studio preciso e articolato dei percorsi con l’uso di
scale, rampe, schermi e passaggi pavimentati, a guidare gli spostamenti in un avanzare non diretto verso
un punto o una porta, verso un patio protetto per la sosta, verso una panca per sedersi, verso il verde.
Attraverso l’uso “compositivo” dei percorsi, realizzato con semplicità, attraverso cambi di direzione o varchi nella parete, Siza cattura gli elementi esterni e li proietta all’interno dell’edificio, a conferma di una ricerca continua sui temi del rapporto tra esterno e interno.
In Siza la natura si relaziona con l’architettura con una modalità molto specifica. Egli afferma:
Ciò che è realizzato dall’uomo non è naturale. Sono sempre più convinto che debba esserci una certa distanza fra il naturale e quanto è creato dall’uomo. È necessario che ci sia anche un dialogo: l’architettura nasce dalle forme naturali ma allo
stesso tempo trasforma la natura. Ciò che veramente conta in questi interventi è il loro inserimento nel contesto naturale. La
geometria entra in relazione con gli elementi naturali e il paesaggio ne risulta trasformato. Non tocca le rocce ma aggiunge
solamente qualcosa che sia riconoscibile come non naturale.
Come Wright, anche Siza opera sul paesaggio trasformando l’ambiente. Cerca un’affermazione del
costruito che non ignori gli aspetti essenziali della topografia o della tipologia del paesaggio.
Nella piscina delle maree a Leça de Palmeira gli scogli sono integrati nel costruito in modo da formare ampie vasche d’acqua oceanica, dove è impercettibile il confine tra naturale e costruito. Il disegno del corpo principale degli spogliatoi, visibile solo dal mare, integra l’edificio nel contesto urbano
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Ristorante e sala da tè Boa Nova, Leça de Palmeira, Matosinhos, Portogallo, 1958–63
e nel paesaggio: esso si pone come mediazione tra la strada litoranea, la scogliera e il mare. Anche qui
i percorsi sono stati studiati per suscitare emozioni inconsce. Paulo Martins Barata scrive:
All’edificio si accede da una rampa in pendenza che si allarga verso l’ingresso. Si scende sovrastati da muri massicci sin
quando non si perde di vista l’orizzonte, quasi sprofondando in una fossa tellurica. Procedendo attraverso lunghi corridoi, l’osservatore prova la momentanea esperienza di una rarefazione spettrale, accentuata dalla fioca illumunazione che rende appena
percettibili i pavimenti lisci. Usciti da questo labirinto catacombale in un corridoio di collegamento, si ritorna alla luce dell’Atlantico di cui, però, non si scorge la superficie. Procedendo lungo questo sentiero murato, la rampa finalmente si interrompe, consentendo l’accesso al mare e alle piscine: di rado l’architettura moderna è riuscita ad attribuire un carattere tanto spettacolare a un programma architettonico.
C’è un altro aspetto del linguaggio progettuale di Siza che non dobbiamo dimenticare, cioè la capacità di far interagire nell’architettura elementi spaziali, ambientali, materico–formali e simbolici (antropomorfismi e zoomorfismi). Si vedano per esempio, le facciate dei padiglioni degli atelier di progetto
della Facoltà di Architettura di Porto. Qui i volumi vengono raggruppati in una composizione a pettine
e gradualmente si trasformano in torri indipendenti collegate tra loro da un sistema di percorsi, in parte
interrati per sfruttare il dislivello del terreno. Le finestre e, in alcuni casi, anche i pannelli frangisole,
conferiscono agli edifici vistosi caratteri antropomorfi, e, al contempo, garantiscono punti di vista dinamici sul paesaggio.
Sulla varietà, l’articolazione e il dinamismo, altri elementi che, combinati con quelli già evidenziati,
delineano il “modo di fare architettura” di Siza, l’autrice portoghese Madalena Cunha Matos, descrivendo l’Istituto di Educazione superiore di Setubal, dice:
È un’opera intrigante per la sua estrema bellezza, benchè si tratti di una bellezza attraverso la quale traspare il disordine,
oltre e sotto la calma apparente. È proprio attraverso il disordine che la sua stessa esistenza si libera. In netto contrasto con il
candore del bianco e con la razionalità dei numeri, emergono delle forme sinistre e inquietanti: un cupo volto disegnato antropomorficamente sul muro da cui parte una scala aggettante; una creatura marina che si srotola lentamente e sembra potersi ritrarre sul suo guscio da un momento all’altro, chiudendo l’accesso all’interno; un crollo strutturale fissato in fermo immagine in un
dato momento della caduta; l’ineludibile presenza sullo sfondo di due torreggianti ciminiere di fabbrica che vomitano nell’aria
il loro nero fumo incombente; i rami contorti e nodosi di una quercia da sughero che si innalza verso il cielo.
Parlando di aperture finestrate e dei rapporti tra architettura e luce, c’è un dettaglio importante nella
Biblioteca della Facoltà di Architettura di Porto che va sottolineato, cioè il grande lucernario sovrastan-
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Piscina delle maree, Leça de Palmeira, Matosinhos, Portogallo,
1961–66
Padiglione per atelier di progetto, Facoltà di architettura di
Porto, Portogallo, 1986–96
te la sala di lettura. La definizione di lucernario sembra quasi riduttiva per descrivere questa apertura,
che è in realtà un grande volume in vetro opaco appeso al soffitto, una fonte di luce naturale tridimensionale. Anche all’interno della Biblioteca dell’Università di Aveiro il tema dell’illuminazione zenitale
ha condotto Siza (sulle orme di Alvar Aalto, che sperimenta soluzioni analoghe nella Biblioteca di Vijpuri) ad elaborare un sistema di lucernari la cui forma sembra protendersi verso il cielo per catturare i
raggi del sole. I lucernari conici inseriti nel soffitto ricurvo dell’ultimo piano e le aperture laterali ricavate a una quota corrispondente al piano primo garantiscono una illuminazione diffusa e omogenea.
Dalle ampie finestre quadrate sulla testata della “navata interna” si colgono inoltre inattese viste diagonali e longitudinali del paesaggio. Anche le finestre laterali incassate nella parete ondulata sud–occidentale, regalano vedute spettacolari verso le paludi costiere e verso il fiume.
Il tema delle aperture, e quindi della luce, è essenziale e predominante nel Centro Galego. La luce
qui, oltre ad avere la funzione di illuminare gli ambienti, è elemento guida nel percorso che si articola
all’interno. L’illuminazione proveniente dall’alto e dalle aperture laterali crea contrasti di luce, ombra
e penombra, atmosfere pacate e, contemporaneamente valorizza i percorsi e le connessioni interne, facilitando l’orientamento dei visitatori. Un ultimo dettaglio da sottolineare è rappresentato dagli schermi
opachi appesi al soffitto, come specie tavoli rovesciati, che direzionano la luce lungo le pareti espositive del museo lasciando in leggera oscurità la parte centrale della stanza.
La lettura del contesto in cui si inserisce il progetto, riportata sulla carta attraverso gli schizzi, lo
stretto rapporto con la natura, lo sviluppo di particolari percorsi che guidano l’attenzione del visitatore,
il simpatico gioco di antropomorfismo e zoomorfismo generato dall’inserimento di particolari aperture
e il controllo della luce, che regola anche il rapporto tra l’interno e l’esterno sono solo alcuni degli strumenti che Siza utilizza nel suo fare architettura. Di tali strumenti egli coglie sempre le proprietà principali esaltandole, senza allontanarsi dalla loro natura.
E quindi, nell’architettura di Siza, una porta diventa un portale, una finestra diventa un varco in una
parete e un volume astratto diventa un edificio.
Riferimenti bibliografici
1. Alvaro Siza. Tutte le opere, Electa, Milano 1999.
2. GIANGREGORIO G., Saper credere in architettura: ventiquattro domande ad Alvaro Siza, CLEAN, Napoli 2002.
3. JODIDIO P., Alvaro Siza, Taschen, Köln 2003.
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Parte Seconda
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Il progetto didattico e il progetto architettonico
Barbara Bogoni
Imparare a progettare non è cosa facile. Insegnare a progettare è cosa anche più complessa.
Il tentativo di trasmettere ai giovani l’amore per la disciplina, e di conseguenza, la curiosità per la
ricerca e l’apprendimento può percorrere molte strade e fare uso di diverse strategie. Noi ne abbiamo
sperimentato una, a nostro avviso significativa e utile.
Si tratta della acquisizione di informazioni relative a una precisa struttura metodologica di approccio alla progettazione propria di ciascun architetto attraverso: la ricerca bibliografica che informa sul
contesto di intervento (sociale, culturale, biografico ma anche tecnico, economico, ecc.); il ridisegno di
un’opera significativa, non quello meccanico e istantaneo dei calcolatori ma quello paziente, attento e
preciso della mano che “sceglie”, “pensa” e “traccia”. Il ridisegno da cui scaturisce la comprensione.
Attraverso cui si apprende il linguaggio. Compreso, questo linguaggio e le sue diverse articolazioni di
stile e di metodo, può essere usato come strumento cosciente e coerente del fare architettura; la ricostruzione tridimensionale, attraverso la realizzazione di un modello in scala.
Il fine atteso è l’acquisizione degli strumenti per leggere criticamente un progetto, saperlo interpretare, comprenderlo nel dettaglio e per elaborare, attraverso gli esempi studiati, un proprio metodo di
progettazione, attraverso l’analisi attenta, l’interpretazione oggettiva e coerente, la ricostruzione.
Il metodo didattico si basa sulla ricerca e sulla sperimentazione diretta intorno a un tema molto semplice, il più semplice: “abitare” e, più precisamente “abitare con”. Ossia sull’esplorazione di alcune
delle possibili forme di vita privata e/o collettiva all’interno di un organismo edilizio complesso.
Martin Heidegger esplora il tema nel suo memorabile saggio “Costruire abitare pensare”: che cos’è
l’abitare?, si chiede.
L’abitare è il fine che sta alla base di ogni costruire. Abitare e costruire stanno tra loro nella relazione del fine e del mezzo.
[...] Costruire significa originariamente abitare. [...] Il modo in cui noi siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale.
Se [...] ascoltiamo ciò che il linguaggio ci dice sulla parola bauen, costruire, apprendiamo tre cose:
1. Costruire è propriamente abitare.
2. L’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra.
3. Il costruire come abitare si dispiega nel “costruire” che coltiva, e coltiva ciò che cresce; e nel “costruire” che edifica
costruzioni.
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[...] Il rapporto dell’uomo ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uomo e spazio non
è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza. [...] Ne risulta illuminata l’essenza di quelle cose che sono dei luoghi e che
noi chiamiamo edifici.
[...] Il costruire, in quanto erige luoghi, è un fondare e disporre (Fügen) spazi.
[...] L’essenza del costruire è il “far abitare”. Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghi mediante il disporre i loro
spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire. Pensiamo per un momento a una casa contadina nella Foresta Nera, che due secoli fa un abitante rustico ancora costruiva. Qui, ciò che ha edificato la casa è stata la persistente capacità
di fare entrare nelle cose terra e cielo, i divini e i mortali nella loro semplicità (einfältig). Essa ha posto la casa sul versante
riparato dal vento, volto a mezzogiorno, tra i prati e nella vicinanza della sorgente. Essa gli ha dato il suo tetto di legno che
sporge a grondaia per un largo tratto, inclinato in modo conveniente per reggere il peso della neve, e che scendendo molto in
basso protegge le stanze contro le tempeste delle lunghe notti invernali. Essa non ha dimenticato l’angolo del Signore (Herrgottswinkel) dietro la tavola comune, ha fatto posto nelle stanze ai luoghi sacri del letto del parto e dell’“albero dei morti”,
come si chiama là la bara, prefigurando così alle varie età della vita sotto un unico tetto l’impronta del loro cammino attraverso il tempo. Ciò che ha costruito questa dimora è un mestiere che, nato esso stesso dall’abitare, usa ancora dei suoi strumenti
e delle sue impalcature come di cose.
Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire. Il richiamo alla casa contadina della Foresta Nera non vuol dire
affatto che noi dovremmo e potremmo tornare a costruire case come quella, ma intende illustrare, con l’esempio di un abitare
del passato, in che senso esso fosse capace di costruire.
Ma l’abitare è il tratto fondamentale dell’essere in conformità del quale i mortali sono. Forse, questo tentativo di riflettere sull’abitare e il costruire può gettare qualche luce sul fatto che il costruire rientra nell’abitare e sul modo in cui da questo
riceve la sua essenza. Sarebbe già abbastanza se si fosse riusciti a portare l’abitare e il costruire nell’ambito di ciò che è problematico, degno di interrogazione (Fragwürdig), e che quindi essi restassero qualcosa degno di essere pensato (denkwürdig).
[...] Noi cerchiamo di riflettere sull’essenza dell’abitare. Il passo successivo su questa via dovrebbe essere la domanda: che
ne è dell’abitare nella nostra epoca preoccupante? Si parla dovunque e con ragione di crisi degli alloggi, [ma] l’autentica crisi
dell’abitare non consiste nella mancanza di abitazioni. [...] La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare. [...] Tuttavia, appena l’uomo riflette sulla propria sradicatezza, questa non è più una miseria. essa, invece, considerata giustamente e tenuta da conto, è l’unico
appello che chiama i mortali all’abitare.
Come possono però i mortali rispondere a questo appello se non cercando, per la loro parte, di portare da se stessi l’abitare nella pienezza della sua essenza? Essi compiono ciò quando costruiscono a partire dall’abitare e pensano per l’abitare”1.
Il tema dell’“abitare con”, come articolazione dell’abitare, ci interessa molto perché sembra complessificare ulteriormente le attività del vivere e costringe a confrontarsi non con un caso specifico e
1
M. HEIDEGGER, Costruire, abitare, pensare, in: Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1975.
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irripetibile, ma con un sistema di esigenze, prestazioni, spazi e attrezzature diffuso e condiviso.
La storia dell’architettura ha prodotto migliaia di esempi di abitazioni collettive, in cui l’alloggio si
combina ad altri alloggi nella costruzione di un organismo edilizio, in cui è possibile riconoscere il
ruolo dello spazio pubblico, collettivo, privato, e le loro interazioni e articolazioni in semi–pubblico,
semi–privato, etc. I
La ricerca, quindi, si fonda non solo sugli aspetti prettamente “architettonici” (distributivi, compositivi, localizzativi, tecnologici, ecc.), ma anche, e direi principalmente, sugli aspetti direttamente connessi con il modo di abitare che il progettista ha interpretato e posto alla base del suo lavoro.
La domanda cui dare risposta prioritaria è quindi: come l’autore intende l’“abitare”? A quale tipo di
utenza si rivolge? Come traduce in termini spaziali gli intenti programmatici? In sintesi: qual’è il
modello abitativo promosso?
La seconda parte di questo libro, “Scrivere”, raccoglie alcune delle sperimentazioni di lettura, interpretazione e ri–scrittura del progetto 1.
Ricerca storico–critica, lettura e interpretazione dell’opera, ridisegno a diverse scale di rappresentazione, costruzione di un modello tridimensionale ci sembrano un ottimo percorso di acquisizione di un
metodo, verificabile nel successivo momento applicativo della progettazione architettonica.
Le riprese fotografiche dei modelli sono state realizzate dal prof. Michele Locatelli.
Le scansioni delle immagini e le elaborazioni grafiche sono state eseguite dall’arch. Elena Montanari.
1
La ricerca è stata condotta dagli studenti del Laboratorio di Progettazione Architettonica II, a.a. 2004/05, coordinato dai
professori Barbara Bogoni, Dino Nicolini, Michele Locatelli, Fernanda Incoronato e dai collaboratori arch. Emanuele Bugli,
arch. Marco Caprini, arch. Elena Montanari, arch. Paolo Reali, arch. Luca Schiaroli.
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1. J.J.P. Oud, Quartiere Spangen, Rotterdam, Olanda, 1918–20. Modello di Muzio Martini e Damiano Stoccanella.
2. L.I. Kahn, Bryn Mawr Dormitorie, Pennsylvania, USA, 1960–65. Modello di Luca Aldrighi e Andrea Righetti.
3. M. De Klerk, Edificio d’abitazione su Spaarndammerplantsoen I, Amsterdam, Olanda, 1913–15. Modello di Cristian Bartoli e Andrea Cattabriga.
4. M. Ginzburg, Novinskji, Mosca, URSS, 1928–30. Modello di Antonella Boldi Cotti e Matteo Faccioli.
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5. H. Guimard, Castel Béranger, Parigi, Francia, 1895–98. Modello di Annamaria Allegretti ed Elisa Salerno.
6. O. Wagner, Casa d’affitto al n. 12 della Universitätsstrasse, vienna, Austria, 1887–88. Ridisegno di Serena Albarello e
Francesca Bissa.
7. G. Ponti, Casa e torre Rasini, Milano, Italia, 1933. Modello di Alessio Brunelli e Davide Dall’Oca.
8. W. Gropius, Siedlung Dammerstok, Karlsruhe, Germania, 1927–28. Modello di Stefania Campioli e Giovanni Benedetti.
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9. J. Stirling, Andrew Melville Halle all’Università di St. Andrews, Scozia, Gran Bretagna, 1964–68. Modello di Sara Gasparini e Daniela Mucci.
10. A. Siza Vieira, Complesso residenziale Boa Vista, Porto, Portogallo, 1991–98. Modello di Matteo De Marzi.
11. G. Grassi, Unità residenziale ad Abbiategrasso, Milano, Italia, 1972. Modello di Massimo Mattioli.
12. Le Corbusier, Progetto per Immeubles villas, 1922. Modello di Paolo Bazzoli e Diana Brighenti.
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13.
14.
15.
16.
Le Corbusier, Padiglione del Brasile alla Citè Universitaire, Parigi, Francia, 1957. Modello di Nicola Dusi e Veronica Fiocco.
A. Loos, Case per operai, Vienna, Austria, 1921. Modello di Isabella Baviera e Chiara Castelluzzo.
R. Gabetti, A. Isola, Bottega d’Erasmo, Torino, Italia, 1953–56. Schizzo di Loredana Croce e Federica De Gobbi.
A. Siza Vieira, Ricostruzione della zona del Chiado, Lisbona, Portogallo, 1988. Modello di Daniele Mazzei e Stefano Pilloni.
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17. –P. Eisenman, Edificio d’abitazione per l’Iba al Checkpoint Charlie, Berlino, Germania, 1981–85. Disegno di Fabrizio
Pellegrino e Mattia Veronese.
18. A. Siza Vieira, Complesso residenziale Bonjour Tristesse, Berlino, Germania, 1980–84. Modello di Sara Prunella e Maria
Lucia Rubbiani.
19. J. Stirling, Queen’s College, Oxford, Gran Bretagna, 1966–71. Modello di Filippo Santoro e Andrea Trimeloni.
20. Case doppie per la Municipalità viennese, Vienna, Austria, 1923. Modello di Marco Morandini e Alessandra Varini.
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21. P. Behrens, Terrassenhauser, Stoccarda, Germania, 1927. Modello di Diego Begnardi e Daniela Corsini.
22. W. Gropius, Interbau Hansaviertel, Berlino, Germania, 1956. Modello Enrico Scattolini e Nicolò Portioli.
23. Le Corbusier, Casa bifamiliare alla Weissenhofsiedlung, Stoccarda, Germania, 1925. Modello di Leopoldo Ferrari e Marco
Morandini.
24. O.M. Ungers, Case a torre, Marburg, Germania, 1956. Modello di Jesse Bennet, Gabriele Pottenghi ed Elena Tossi.
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1895
Francisco Terrace Apartments, di Frank Lloyd Wright
Chicago, Illinois (USA)
Pianta piano terra
Pianta piano tipo
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Case d’affitto nel popolarissimo quartiere Near West Side di Chicago, i Francisco Terrace Apartments sono destinati a una utenza di livello medio–basso.
Distribuiti intorno a una corte interna, con doppio affaccio, su quest’ultima e su strada, gli alloggi
godono di alta qualità e varietà compositiva, soddisfacendo diverse esigenze spaziali e dimensionali.
Comprendono un soggiorno, una cucina, un bagno e due stanze da letto. I due alloggi centrali, posti
sopra l’arcone d’ingresso del fronte principale, hanno una terza camera da letto. Nel braccio opposto si
trovano alloggi con una sola stanza da letto.
Tutti gli alloggi hanno doppi accessi, dalla cucina e dal soggiorno e tutti, tranne quelli d’angolo,
hanno una connessione fisica o visiva con il giardino interno.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1.
2.
3.
4.
ALLIN STORRER W., Frank Lloyd Wright. Il repertorio, Zanichelli, Bologna 1997.
FUTAGAWA Y., Frank Lloyd Wright monograph 1887–1901,A.D.A. Edita, Tokyo 1986.
RILEY T., Frank Lloyd Wright architetto 1867–1959, Electa, Milano 1995.
ZEVI B., Frank Lloyd Wright, Zanichelli, Bologna 1979.
Ridisegni e modello di Matteo Cobelli e Lucia Baccarini
Prospetto
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1895
Francis Apartments, di Frank Lloyd Wright
Chicago, Illinois (USA)
Prospetto sud
Pianta piano tipo
Pianta piano terra
Prospetto nord
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L’edificio si sviluppa su quattro piani, il piano terra con attività residenziali (quattro alloggi) e con
attività commerciali aperte al quartiere (quattro negozi).
Ciascuno dei piani superiori si articola in sette unità abitative (ognuna di esse ha almeno un camino, che, nell’interpretazione della casa wrightiana, rappresenta il cuore “caldo” e pulsante di tutta la
casa).
La corte centrale è intesa come luogo ricreativo, di mediazione tra l’architettura e la natura. Vi si
affacciano tutti i locali di servizio, i bagni, le cucine e le camere da letto, mentre le stanze di soggiorno
sono rivolte verso il fronte opposto, a contatto con una luce naturale più diretta. I soggiorni sono sottolineati in facciata da bow–windows aggettanti che captano la luce esterna e la portano in profondità,
all’interno dell’alloggio.
La luce, garantita agli interni da ampie vetrate, è uno degli elementi cardine del progetto, fonte di
salubrità e determinante di alta qualità degli spazi abitativi.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. ALLIN STORRER W., Frank Lloyd Wright. Il repertorio, Zanichelli, Bologna 1997.
2. ZEVI B., Frank Lloyd Wright, Zanichelli, Bologna 1979.
Ridisegni e modello di Jacopo Baietta e Matteo Corvino
Sezione
Prospetto est
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1895
Waller Apartments, di Frank Lloyd Wright
Chicago, Illinois (USA)
Piante piano terra
e piano tipo
Sezione trasversale
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L’edificio ad appartamenti, destinato a un’utenza di basso reddito, si compone di 20 alloggi, distribuiti, a quattro a quattro, da cinque ingressi.
Ogni cellula abitativa (di circa 70 mq di superficie), pensata per la famiglia media dell’epoca composta da genitori con uno o due figli, ha un soggiorno, una sala da pranzo, una cucina, una camera da
letto, un bagno e un vano scala illuminato da un lucernario sporgente dalla falda del tetto.
Gli alloggi hanno tutti le medesime caratteristiche distributive, tranne quelli nelle due testate, tra
loro uguali, simmetrici e speculari.
Gli appartamenti sono distribuiti e messi in comunicazione tra loro dai ballatoi e dai corpi scale
esterni posti sul retro dell’edificio.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. FUTAGAWA Y, Frank Lloyd Wright monograph 1887–1901, A.D.A., Tokyo 1986.
2. HILDEBRAND H., The Wright space. Pattern and meaning in Frank Lloyd Wright’s houses, University of Washington Press,
Seattle 1991.
3. LARKIN D., BROOKS B., Frank Lloyd Wright: i capolavori, Pfeiffer, 1997.
Ridisegni e modello di Giulio Migliorini e Emanuele Visieri
Prospetti
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1898–99
MAjolikhaus, di Otto Wagner
Vienna (Austria)
Pianta piano tipo
Pianta piano terra
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L’edificio fa parte di un complesso di tre unità con esercizi commerciali al piano terra e con sei
alloggi per piano nei successivi sei piani superiori, per un totale di 32 alloggi. All’ultimo livello si
trova un attico.
L’edifico presenta una grande regolarità nell’impianto e nella distribuzione degli alloggi, ariosità
e alto livello di qualità negli spazi comuni (le scale elicoidali, i disimpegni e gli spazi condominiali
sono di grandi dimensioni e trattati con finiture di alta qualità).
Gli alloggi sono ampi e articolati in molte stanze con funzioni, forme e proporzioni diverse, distribuite da corridoi e collegate tra loro attraverso “enfilade” di porte , come vuole la tradizione ottocentesca.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1.
2.
3.
4.
BERNABEI G., Otto Wagner, Zanichelli, Bologna 1983.
GRAFF O.A., Otto Wagner, Bohlaus, Vienna 1985.
POZZETTO M., La Scuola di Wagner 1894–1912, Comune di Trieste, Trieste 1981.
TIETZE H., Otto Wagner, Rikola, Vienna 1922.
Ridisegni e modello di Mariangela Gobbi e Samuele Squassabia
Planimetria generale
Prospetto su Linke Wienzeile
Sezione longitudinale sulla corte interna
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1903
Casa d’abitazione al n. 25 bis di rue Franklin, di Auguste Perret
Parigi (Francia)
Pianta piano terra
Dettaglio del portale
d’ingresso
Pianta piano tipo
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L’edificio ad appartamenti, situato nel centro di Parigi, si rivolge alla classe sociale medio–alta di
fine Ottocento, inizi Novecento. Gli alloggi sono di ampie dimensioni, molto articolati, con logge e terrazze, stanze per fumatori e boudoir; mettono in luce precisi modi e tempi di utilizzo degli spazi e accolgono specifiche attività di rappresentanza “altoboghesi”.
Gli alloggi sono accessibili da un ampio scalone di disegno Art Nouveau e da un ascensore (innovazione tecnologica dei primi anni del Novecento).
All’interno degli alloggi, gli spazi di servizio hanno una collocazione “defilata”: i bagni sono adiacenti al corpo scale, la cucina è sempre a fianco dell’ingresso. Mentre l’ampio salone è inserito nel
cuore dell’alloggio, al centro del sistema distributivo, in comunicazione con tutte le altre stanze.
Gli spazi dedicati al personale di servizio sono indipendenti e disimpegnati da scale e da un ascensore di servizio. Gli esterni presentano raffinati decori floreali.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1.
2.
3.
4.
D’AMIA G., Perret e Parigi, Itinerario 136, in: Domus, 795, luglio–agosto 1997.
FANELLI G., GARGIANI R., Auguste Perret, Laterza, Roma 1991.
GARGIANI R., Auguste Perret (1874–1954): teoria e opere, Electa, Milano 1993.
RAYON J.P., Un contributo di rassegna alla storia dei Perret, 25 Rue Franklin, in: Casabella, 538, settembre 1987, p. 42.
Ridisegni e modello di Cristina Balasini e Emanuela Colombo
Prospetto su
Rue Franklin
Pianta nono piano
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1909
Immeuble Trémois, di Hector Guimard
Parigi (Francia)
Pianta piano tipo
Prospetto principale
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Il palazzo chiamato Immeuble Trémois è un edificio urbano ad uso esclusivamente residenziale, articolato su sette livelli, più un sottotetto non abitabile. Al piano terra si trovano l’ingresso, la portineria, i vani di
servizio alle parti comuni (ripostigli, depositi e magazzini per materiali e attrezzature per la pulizia).
Gli alloggi sono di taglio molto grande. Presenta quattro ampie camere da letto per cinque posti letto, sono
destinati a famiglie alto–borghesi con servitù residente e svolgono, oltre a quella prettamente abitativa, anche
una esplicita funzione di rappresentanza e di autocelebrazione del livello sociale dei loro abitanti.
La parte più importante e rappresentativa dell’alloggio è quella affacciata sul fronte principale, composta
da soggiorno, sala da pranzo e camera da letto padronale, ampie, ariose e luminose. In particolare il soggiorno è sottolineato dalla presenza, in facciata, di un bow–window semicircolare.
Le altre camere da letto e gli spazi di servizio, distribuiti da un corridoio, affacciano invece sul cortile
retrostante.
I percorsi del pubblico, del privato e della servitù all’interno dell’alloggio sono ben distinti e separati, così
da garantire il totale rispetto della privacy del padrone di casa rispetto ai movimenti dei domestici e degli
ospiti.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. GODOLI E., Hector Guimard, Laterza, Roma 1992.
2. THIÉBAUT P., Guimard: l’art nouveau, Reuniones des musées nationaux, Parigi 1992.
Ridisegni e modello di Andrea Guidetti e Alessandro Marelli
Sezione AA
Sezione BB
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1911–13
Blocchi di abitazioni popolari per la Algemeene Woningboulwvereenigin, di Hendrik P. Berlage
Amsterdam (Olanda)
Planimetria generale
Pianta piano terra
Sezione trasversale
Pianta piano primo e secondo
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«Costruire significa creare spazio con il fine di fornire ricovero all’uomo». Su questo principio si
fonda la teoria dell’architettura “sociale e utilitaria” di Berlage, che in questo progetto si associa a una
reinterpretazione e rielaborazione della tradizionale casa olandese unifamiliare.
L’edificio ospita alloggi sviluppati su più livelli, con una scala interna privata. Non ci sono scale
comuni. La privacy è garantita in modo totale, sia agli alloggi del piano terra sia a quelli dei piani superiori. Il rigido sistema strutturale dell’edificio, basato su un’alternanza di due partiture di setti, a distanza più o meno ravvicinata, si fonda su un sistema distributivo costruito sull’alternanza di due invasi,
uno largo e uno stretto. Nel primo: una stanza da letto e una suite, in cui uno dei vani è usato come
primo soggiorno, come grande camera da letto o è diviso in due camere da letto più strette; nel secondo: l’ingresso, i corridoi, le scale, i servizi e, talvolta, la seconda camera da letto.
Dal disegno dei prospetti si riconosce l’identità dei diversi tipi di alloggi, trattati ciascuno in modo
originale e autonomo.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. DERWIG J., Beurs van Berlage, Architectura & Natura, Amsterdam 1994.
2. POLANO S., Hendrik Petrus Berlage, Electa, Milano 1987.
3. VAN BERGEIJK H., Hendrik Petrus Berlage, Zanichelli, Bologna 1985.
Ridisegni e modello di Matteo Guidara e Francesco Lugo
Prospetto nord
Prospetto est
Prospetto ovest
Prospetto sud
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1913–15
Edificio d'abitazione su Spaarndammerplantsoen I, di Michel de Klerk
Amsterdam (Olanda)
Pianta piano terra
Prospetto sud–est
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L’edificio, una corte aperta di grandi dimensioni, ospita unità abitative a basso costo per famiglie di
lavoratori o lavoratori soli.
Le dimensioni degli alloggi, la loro articolazione interna e soprattutto la versatilità dei locali definiscono un modello di abitare molto semplice, quasi umile. Per ciascun alloggio è prevista un’ampia cucina abitabile, un locale di soggiorno (diversamente attrezzabile come camera da letto) e una stanza da
letto (diversamente utilizzabile come sala per attività diurne).
Gli alloggi sono a doppio affaccio e distribuiti in un corpo di fabbrica poco profondo; le finestre sono
di grandi dimensioni, e quelle delle stanze private si aprono sul retro, verso il parco; i balconi sono ampi
e consentono la comunicazione tra le diverse cellule e tra le camere (concepite, in alcuni casi, come
unità abitative distinte).
Questi aspetti (indipendenza, connessione, affacci preferenziali e protetti, ecc.) conferiscono una
buona qualità ambientale agli spazi interni e, in un certo senso, compensano l’indigenza di un modello
dell’abitare destinato a un’utenza con scarsità di mezzi.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. PORTOGHESI P., I grandi architetti del Novecento, Newton & Compton, Roma 2000.
2. STISSI B.J., Michael De Klerk, Electa, Milano 1997.
Ridisegni e modello di Maria Chiara Lodi e Valentina Malagoli
Sezione
trasversale
Pianta piano primo
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1916
Munkwitz Duplex Apartments, di Frank Lloyd Wright
Milwaukee, Wisconsin (USA)
Pianta piano terra
Pianta piano primo
Prospetto ovest
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Abbattuti nel 1973, i Munkwitz Apartments furono progettati da Wright prendendo come riferimento la cellula “American Model (A4)”, che viene qui ripetuta in altezza, a creare un sistema di quattro
case in duplex, e poi secondo una regola di simmetria, generando la forma finale ad “U”.
All’edificio si accede tramite ingressi differenziati (uno centrale, dal cortile, l’altro laterale, posto su
un fianco dell’edificio), segnalati in pianta dai corpi scale, differenti nella forma e articolati, a suggerire diversi livelli di accessibilità e di relazionalità tra le parti dell’edificio e tra l’edificio stesso e l’esterno.
Negli alloggi, una stanza d’ingresso, in posizione centrale, distribuisce l’intero appartamento e separa la zona giorno, ampia e ben illuminata, affacciata verso la strada e la corte aperta, dalla zona notte,
posizionata nella parte retrostante, più protetta.
L’edificio è destinato a una generica utenza piccolo–medio borghese, e ciascuna cellula è pensata
per una famiglia di taglio medio (di due–quattro persone).
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. ALLIN STORRER W., Frank Lloyd Wright. Il repertorio, Zanichelli, Bologna 1997.
2. FUTAGAWA Y., Frank Lloyd Wright monograph 1887–1901, A.D.A. Edita, Tokyo 1986.
Ridisegni e modello di Anna Longo e Luca Vilio
Sezione trasversale
Sezione longitudinale
Prospetto nord e sud
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1923
Progetto per venti ville a terrazza, di Adolf Loos
Vienna (Austria)
Dettagli delle piante dei piani terra, primo, secondo e terzo
Prospetto est
Sezione trasversale
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Le venti ville accorpate in blocchi digradanti e impostate su un modello tipologico “a schiera”, sono
rimaste un progetto non realizzato di case suburbane per vacanze.
Lo sviluppo interno degli alloggi si basa sul concetto di “Raumplan”, cioè su un progetto tridimensionale dello spazio, articolato da scale, mezzanini, piani sfalsati che, nel conferire una forte identità e
originalità alla casa, definiscono un preciso livello di qualità dell’abitare. Loos non “preordina” la forma
usando schemi semplificati e standardizzati, ma rende unica e irripetibile l’esperienza spaziale, anche in
condizioni di “abitare collettivo”. Nella totale negazione di qualsiasi ornamento superfluo, Loos traduce
la decorazione in “decor” (nell’accezione duraniana di equilibrio e necessità), ossia di “giusta proporzione” delle parti, dei volumi, delle aperture, delle superfici interne e delle loro relazioni reciproche.
Tutti gli alloggi godono del migliore affaccio e instaurano un forte legame con l’esterno, sia attraverso il contatto diretto con i giardini al piano terra, sia attraverso le ampie terrazze dei piani superiori.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. LOOS A., Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1993.
2. GRAVAGNUOLO B., Adolf Loos, Nerea, 1997.
3. GRAVAGNUOLO B., Adolf Loos: teoria e opere, Idea books, Milano 1981.
Ridisegni e modello di Luca Bassani e Federico De Angeli
Prospetto nord
Prospetto sud
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1927
Case minime sperimentali alla Weissenhofsiedlung, di J.J.P. Oud
Stoccarda (Germania)
Pianta piano terra
Pianta piano primo
Spaccato assonometrico
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«Sotto la supremazia del materialismo, l’artigianato riduce gli uomini al livello delle macchine, mentre la macchina ha il fine opposto, la liberazione sociale». L’intervento di Oud al Weissenhof contribuisce
a sottolineare l’intento del Movimento Moderno degli anni Trenta, fondato sulla necessità di razionalizzare e standardizzare ogni componente dell’abitare, al fine di offrire un alloggio economico e dignitoso
anche alle classi meno abbienti.
L’edificio in linea si compone di cinque case a schiera in duplex. Nel ritmo delle schiere si legge la
volontà di offrire all’utente un alloggio individuale, lontano dall’alienazione e dall’anonimato dei grandi
“contenitori” multiappartamenti. Le unità sono dotate di cortili e ingressi privati e sono accessibili sia dalla
strada carrabile che da una “passeggiata” pedonale. Ogni unità si compone di due volumi: quello sporgente, a un solo piano, contiene uno spazio di servizio, nell’altro sono collocate le attività residenziali distribuite in zona giorno al piano terra e zona notte al piano primo, i cui singoli spazi, specializzati funzionalmente, sono rigorosamente rispettosi delle dimensioni minime ammissibili per l’espletamento delle attività residenziali.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. BARBIERI U., J.J.P. Oud, Zanichelli, Bologna 1986.
2. HITCKCHOCK H.R., J.J.P. Oud, Cahier d’Art, Parigi 1931.
Ridisegni e modello di Luca Benedetti e Alessandro Finotti
Sezione trasversale
Prospetto nord
Prospetto sud
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1927–29
Novocomum, di Giuseppe Terragni
Como (Italia)
Pianta piano terra
Prospetto su via Garibaldi
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L’edificio, simpaticamente denominato “Transatlantico” per la sua forma e per le sue dimensioni, si
sviluppa su cinque piani ed è adibito a residenza ad appartamenti.
Gli alloggi sono otto per piano e serviti da una scala principale e da scale laterali secondarie, non in
asse, non monumetali, caratterizzate dall’uso festoso del colore (arancione negli sbalzi e nelle rientranze) e da una luminosità che pervade l’intero edificio.
Gli alloggi affacciano sul paesaggio lacustre attraverso amplissime finestrate continue e balconate a
sbalzo, tinteggiate di azzurro.
Al terzo piano, oltre a quattro appartamenti affacciati sulla corte interna, ospita anche alcuni uffici.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1.
2.
3.
4.
5.
CIUCCI G. (a cura di), Giuseppe Terragni. Opera completa, Electa, Milano 1996.
MARCIANÒ A.F., Giuseppe Terragni. Opera completa 1925–1943, Officina, Roma 1987.
SAGGIO A., Giuseppe Terragni. Vita e opere, Laterza, Roma 1995.
SCHUMACHER T., Giuseppe Terragni 1904–1943, Electa, Milano 1992.
ZEVI B. (a cura di), Giuseppe Terragni, Zanichelli, Bologna 1980.
Ridisegni e modello di Valeria Bonazzoli e Davide Caporale
Assonometria
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1929–30
Siedlung Siemenstadt, di Walter Gropius
Berlino (Germania)
Pianta piano tipo
Prospetto nord
Prospetto sud
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L’edificio si compone di quattro piani di 8 alloggi ciascuno, per un totale di 32 appartamenti di piccole dimensioni destinati a nuclei familiari di 2–3 persone. Gli alloggi sono strutturalmente uguali e
simmetrici a due a due, e sono distribuiti internamente secondo due modelli diversi.
Nel primo caso (Tipo A) prevale una distribuzione “trasversale” basata sulla netta separazione tra
zona giorno e zona notte, rispettivamente composte da cucina, soggiorno e vestibolo l’una e da camera
da letto, disimpegno e bagno l’altra.
Nel secondo caso (Tipo B) prevale una distribuzione “orizzontale” basata sulla distinzione tra spazi
serviti e spazi di servizio, questi ultimi sapientemente collocati a nord, presso l’ingresso e in adiacenza
con gli altri spazi di servizio comuni (logge e vani scala).
In entrambe le soluzioni il vestibolo rappresenta il punto di snodo di tutto il sistema distributivo e
connettivo.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. BERDINI P., Walter Gropius, Zanichelli, Bologna 1993.
2. NERDINGER W., Walter Gropius. Opera completa, Electa, Milano 1988.
3. PEDIO R., Architettura integrata, Il Saggiatore, Milano 1994.
Ridisegni e modello di Samantha Orsi e Alessandra Ricci
Pianta modulo residenziale
Prospetto est
Prospetto ovest
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Pagina 102
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1930
Padiglione svizzero alla Cité Universitaire, di Le Corbusier
Parigi (Francia)
Pianta piano terra
Pianta piano tipo
Sezione trasversale
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L’edificio ospita 45 studenti e un custode, all’interno di un Campus universitario.
Il sistema distributivo dell’intero edificio ripete quello interno di un alloggio, impostato sulla netta separazione tra gli spazi comuni di accoglienza, sosta, soggiorno (zona giorno) del piano terra e gli spazi privati
delle camere–studio (zona notte) dei piani superiori. Il modello abitativio applicato consente agli utenti la
massima libertà di scelta nell’utilizzo degli spazi comuni o privati e garantisce, a questi, una totale autonomia, per cui non ci sono frammistioni funzionali, impreviste interazioni di flussi, sovrapposizioni di attività
e di percorsi. Lo spazio dell’ingresso e dell’accoglienza è unitario e rende possibile un controllo costante dell’ingresso e dei movimenti in entrata e in uscita degli studenti–ospiti, cui è esclusivamente destinata la residena. Il modello applicato da Le Corbusier è esplicitamente quello di una casa collettiva a forte utilizzo
comunitario: questo fatto si coglie per esempio nella collocazione di un bagno privato per ciascuna
camera–studio, composto da un lavandino e da una doccia, e di un blocco wc collettivo per piano.
Quando il clima lo consente diventano interessanti luoghi d’incontro il porticato del piano terra e gli spazi
comuni sulla copertura piana.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. AA.VV., I Maestri del Novecento. Le Corbusier, Sadea Sansoni, Firenze 1969.
2. BOESIGER W. (a cura di), Le Corbusier, Zanichelli, Bologna 2004.
3. TENTORI, Vita e Opere di Le Corbusier, Laterza, Bari–Roma 1999.
Ridisegni e modello di Nicola Panzani e Thomas Ridolfi
Prospetti
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1931–34
Domus Julia, di Giò Ponti
Milano (Italia)
Prospetto sul cortile interno
Prospetto su strada
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Prima di una serie di “domus femminili” tipicamente “moderne”, la Domus Julia è un edificio residenziale di sei piani fuori terra, ad appartamenti (uno per piano), ciascuno servito da un doppio ingresso (uno di servizio, a cui si accede dal vano scala e che immette direttamente nelle cucine, uno padronale, servito anche da un ascensore, che dà accesso ai locali di soggiorno).
Ciascun alloggio si sviluppa su una superficie di circa 180 mq e si articola in sei stanze, di cui: un
grande ambiente giorno con sala da pranzo, un soggiorno e un’ampia terrazza affacciata sulla strada
principale.
Negli alloggi è chiaramente leggibile la moderna distribuzione degli spazi e delle funzioni e la sensibilità tipicamente pontiana per l’allestimento degli interni e l’arredamento. Negli alloggi, le vetrine e
gli scaffali fissi trasformano i setti in pareti attrezzate e i muri in elementi d’arredo pratici, eleganti e
signorili.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. IRACE F., Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988.
2. MIONDINI L., Gio Ponti, Gli anni ‘30, Electa, Milano 2001.
Ridisegni e modello di Laura Perina e Tiziana Virgillito
Pianta piano terra
Pianta piano tipo
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1933–36
Domus Serena, di Giò Ponti
Milano (Italia)
Planimetria generale
Piante piano terra e piano tipo
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La Domus Serena è, come la Domus Julia, parte del complesso di nove edifici residenziali situato
nel centro di Milano (di cui Ponti ne progetta cinque) orientato a un’utenza di livello medio–alto.
Ponti fonda la sua progettazione sul riconoscimento della basilare funzione sociale dell’abitazione,
intesa come espressione vivente dell’unità fondativa del nucleo familiare.
Negli alloggi gli spazi di servizio (la cucina, la stanza destinata alla servitù, il bagno e l’anticamera) sono ridotti al minimo, in funzione della creazione di un unico grande ambiente per le attività diurne, in cui comporre le altrove separate unità del soggiorno e del pranzo.
Ponti progetta per gli spazi interni anche una serie di “arredi mobili”, che dispone magistralmente
nelle stanze come “arredi fissi”, in grado di per sé di separare funzionalmente gli ambienti in ambiti di
diverso utilizzo, senza inficiare, con questo, la flessibilità e l’unitarietà spaziale, caratteri di cui continua a godere l’alloggio nel suo complesso.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. IRACE F., Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988.
2. MIONDINI L., Gio Ponti, Gli anni ‘30, Electa, Milano 2001.
Ridisegni e modello di Ciro Chiumenti e Andrea Galliazzo
Prospetto sul cortile interno
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1934–36
Casa Rustici Comolli, di Giuseppe Terragni
Milano (Italia)
Pianta piano terra
Pianta piano tipo
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L’edificio residenziale, che ospita uffici e laboratori artigianali tra il piano seminterrato e il piano
terreno, si sviluppa, nei superiori cinque piani fuori terra, secondo un modello abitativo ad alta densità,
distribuendo su ogni livello sette appartamenti. La distribuzione degli spazi interni e la definizione degli
alzati nascono dal proposito di affrontare in modo creativo la composizione dell’occupazione a cortina
del lotto, attraverso una articolazione di incastri e sottrazioni di volumi che determinano un corpo di
fabbrica complesso, caratterizzato da diverse altezze, slittamenti dei piani di facciata, avanzamento e
arretramento delle masse. È interessante notare come la distribuzione interna degli alloggi, per quanto
possibile, tenda ad affacciare verso la corte gli ambienti di soggiorno e di servizio, portando invece le
camere da letto verso l’esterno, nell’ipotesi di far interagire gli spazi di vita diurna con l’esterno: il patio
diviene in questo modo un prolungamento della casa che, anche se non vissuto in modo diretto, soprattutto ai piani più alti, rappresenta comunque un luogo di godimento estetico.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1.
2.
3.
4.
CIUCCI G. (a cura di), Giuseppe Terragni. Opera completa, Electa, Milano 1996.
MARCIANÒ A.F., Giuseppe Terragni. Opera completa 1925–1943, Officina, Roma 1987.
SAGGIO A., Giuseppe Terragni. Vita e opere, Laterza, Roma 1995.
ZEVI B. (a cura di), Giuseppe Terragni, Zanichelli, Bologna 1980.
Ridisegni e modello di Emma Carrirolo e Silvia Filippi
Sezioni e prospetti
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1936
Dormitori del Christ’s College, di Walter Gropius
Cambridge (Gran Bretagna)
Pianta piano tipo
Prospetto est
Prospetto sud
Prospetto ovest
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L’ipotesi progettuale di Gropius prevede un edificio moderno che al tempo stesso si inserisca nel tessuto storico preesistente, secondo un modello compositivo pensato in funzione dei percorsi e degli spazi
di relazione.
L’articolazione dei volumi genera uno spazio aperto alberato, su cui affacciano le camere–studio.
Al piano terreno, verso la strada, sono previste piccole attività commerciali aperte al quartiere, che
definiscono un preciso rapporto tra l’edificio, i suoi abitanti e la città e che identificano un diverso
modello d’uso (semi–pubblico) della corte.
I tre piani superiori ospitano 51 camere–studio, allineate lungo un corridoio centrale e due miniappartamenti nel sottotetto per il fellows.
Ciascuna camera è dotata di uno spazio di soggiorno–studio, separato dalla zona notte, dove è presente anche un lavandino, mentre wc e docce sono in servizi igienici comuni di piano.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. ARGAN G.C., Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino 1988.
2. BERDINI P., Walter Gropius, Zanichelli, Bologna 1993.
3. NERDINGER W., Walter Gropius. Opera completa, Electa, Milano 1988.
Ridisegni e modello di Lucia Cordioli e Silvia Fiorio
Pianta alloggio tipo
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1946–49
Baker House Dormitory al Massachussetts Institute of Thecnology, di Alvar Aalto
Cambridge, Massachusetts (USA)
Planimetria generale
Pianta del piano terra, con i servizi comuni e le camere–studio
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L’edificio ospita 413 studenti del Campus universitario del MIT.
Il modello abitativo seguito da Aalto è quello della grande casa collettiva, con spazi comuni (al piano
terra si trova un bar, una sala da pranzo e un ampio soggiorno) e spazi privati (camere studio singole,
doppie o triple distribuite dal piano terra al sesto piano).
Le camere–studio garantiscono agli studenti un alto livello di privacy, grazie ai sistemi di attrezzature fisse (scrivania, libreria, letto) disposti in modo da schermare le specifiche attività del privato, progettati e costruiti su misura per ciascun alloggio.
Oltre alla privacy, l’edificio garantisce ai suoi utenti anche la possibilità di socializzare in molti
modi. Aalto progetta, infatti, piccoli soggiorni attrezzati ad ogni piano, in prossimità di scale e ascensori, considerati “luoghi da abitare con” gli altri, per intrattenersi, guardare la tv, giocare a carte, riposarsi. Questi spazi, che reinterpretano con successo la tradizione di “intrattenersi a parlare sulle scale
comuni” (molto in voga tra gli studenti), ancora oggi molto utilizzati, sono la grande innovazione teorica di questo progetto e definiscono chiaramente il modello di abitare promosso dall’autore.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. Alvar Aalto, Les Editions d’Architecture, Artemis, Zuric München 1963.
2. Alvar Aalto / I Maestri del Novecento, Sansoni, Firenze 1975.
3. REED P. (a cura di), Alvar Aalto, Electa, Milano 1998.
Ridisegni e modello di Giancarlo Perotti e Elena Tonin
Prospetto nord
Prospetto sud
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1950–52
Edifici ad appartamenti nel Quartiere INA–Casa, di Franco Albini
Crescenzago, Milano (Italia)
Pianta piano tipo
Prospetto est
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Gli edifici del complesso residenziale sono inseriti in un’area di 9500 mq e ospitano un totale di 121
alloggi, distribuiti sui cinque piani di tre corpi in linea. In ogni alloggio c’è un soggiorno, con sala da
pranzo e zona cottura annesse, una o due camere da letto, servizi igienici e veranda esterna.
Nonostante il tipo di utenza cui questi edifici erano destinati fosse di scarse capacità economiche (si
tratta di case popolari sovvenzionate dall’intervento statale), la progettazione accurata e attenta ai particolari, riscontrabile nell’intelligente organizzazione del lotto e nella distribuzione interna degli alloggi, le grandi dimensioni degli spazi interni, così come la presenza di ampie logge sui due lati, che garantiscono ai locali ottima ventilazione e luminosità, testimoniano di un modello d’uso dello spazio di buon
livello qualitativo, ben diverso rispetto alla tradizionale produzione edilizia di case popolari di quegli
anni.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. BOLDRIN E., BOLLATI A., VALERIO A., Albini e la tecnica, Politecnico di Milano 1994–1995 (tesi di laurea).
2. COSTANTINI DE CHIRICO C., NUFRIO A., Le forme dell’abitare secondo Franco Albini: architetture di interni domestici e
arredamenti 1930–1970, Politecnico di Milano 1991–92 (tesi di laurea).
3. FERRARIO L., PASTORE D., 1933–1938 BBPR Gardella Albini Figini e Pollini: quattro opere del razionalismo, Istituto
Mides, Roma 1975.
4. Franco Albini. Architettura e design 1930–1970, Centro Di, Milano 1979.
Ridisegni e modello di Lucia Corghi e Claudia De Santis
Prospetto ovest
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1952
Unité d’Habitation, di Le Corbusier
Marsiglia (Francia)
Piante di due alloggi tipo
Sezione longitudinale di un alloggio tipo
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L’edificio in linea è una residenza multiappartamenti impostata su un impianto a corridoio centrale (una
strada–corridoio) di distribuzione, estendibile all’infinito.
Gli alloggi sono di 23 tipi, destinati a diversi nuclei di utenza, dal singolo alla famiglia con quattro figli.
Il tipo abitativo è l’appartamento in duplex, con una parte a doppia altezza e a incastro, adibita a soggiorno.
Gli elementi spaziali delle cellule sono standardizzati, ma cambiano le loro combinazioni da caso a caso.
Più o meno a metà dello sviluppo verticale della facciata, un corridoio distribuisce degli spazi collettivi
aperti al pubblico, dei negozi, un ristorante e un hotel. Altri spazi comuni, ad uso dei residenti, sono collocati sul tetto a terrazza: una palestra, un asilo infantile, una piccola piscina.
In questo progetto Le Corbusier vuole riconciliare il modello abitativo urbano ad alta densità con un’alta
qualità del vivere, garantita dalla forte presenza di luce, di spazio e di verde. L’Unité è un condensatore sociale, alla stregua degli edifici collettivi sovietici degli anni Venti, o dell’ottocentesco Falansterio di Charles Fourier, per le dimensioni e per il numero degli abitanti (1500–2000), per l’integrazione nell’edificio dei servizi
di quartiere e per la nozione di comunità unitaria sottesa.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. ALLEN BROOKS H., Le Corbusier 1887–1965, Electa, Milano 1993.
2. BOESIGER W. (a cura di), Le Corbusier, Zanichelli, Bologna 2004.
3. CURTIS W.J.R., L’architettura moderna del Novecento, Mondadori, Milano 1999.
Ridisegni e modello di Grazia Cremaschi e Linda Della Valle
Dettaglio del prospetto
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1956
Casa alla Weissenhofsiedlung, di Ludwig Mies van der Rohe
Stoccarda (Germania)
Piante piani interrato, terra primo e secondo, e sottotetto
Prospetto est
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Per l’insediamento del Weissenhof Mies Van Der Rohe progettò, oltre al piano generale, uno degli
edifici residenziali principali.
Sviluppato su quattro piani, con quattro vani scala che danno accesso a due alloggi per piano, conta
in totale 24 appartamenti. Gli spazi interni sono vari e articolati. Gli alloggi sono diversi tra loro nella
distribuzione interna e nelle dimensioni. Questa flessibilità compositiva è garantita dall’uso di una struttura in travi e pilastri in acciaio che ha liberato il perimetro esterno dalla tradizionale funzione portante e ha consentito grande libertà nel posizionamento dei setti. Solo gli elementi “rigidi” dei corpi scala
e delle asole tecniche di bagni e cucine sono strutture determinate a priori, che utilizzano pareti divisorie “fisse”. Tutte le altre pareti, in cartongesso, sono invece mobili.
Negli alloggi si riconosce una prevalenza dimensionale per gli spazi adibiti alle attività diurne, ampi,
luminosi, versatili. Nell’edificio sono presenti anche alcuni ambienti destinati ad attività comuni: una
soffitta–mansarda, una terrazza, una lavanderia.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. BLASER W., Mies van der Rohe, Zanichelli, Bologna 1991.
2. MORAIS DE SOUSA R. (Photographs), Mies van der Rohe, Neves 1998.
3. SCHULZE F., Mies van der Rohe, Jaca Book, Milano 1989.
Ridisegni e modello di Giorgia Morellini e Irene Soave
Pianta di un
alloggio tipo
Prospetto ovest
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1958–62
Edificio ad appartamenti Neue Vahr, di Alvar Aalto
Bremen (Germania)
Pianta piano terra
Pianta piano tipo
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La torre, di 22 piani, ospita circa 200 alloggi (nove per piano: otto monolocali e un trilocale con servizi e zona cottura). Orientato a persone singles, piccoli nuclei familiari o coppie senza figli (le dimensioni
sono davvero ridotte), l’intero edificio è pensato in modo da incentivare e valorizzare i momenti di aggregazione e di vita socio–collettiva, infatti a ciascun piano si trova uno spazio per le attività comuni.
Gli alloggi, differenti per forma e dimensioni, ben organizzati e distribuiti internamente secondo un
principio di frammistione di attività e attrezzature diurne e notturne, con riduzione al minimo degli spazi
di distribuzione, presentano stanze che si aprono felicemente verso la luce, che entra dalle finestre e dai
balconi della facciata a ventaglio.
Al piano terra si trovano una hall d’ingresso, un ufficio di guardiania e piccoli servizi di supporto agli
alloggi, destinati all’uso dei residenti.
Il modello di abitare promosso da questo progetti è espressamente impostato sull’equilibrio tra vita privata e vita collettiva.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1.
2.
3.
4.
CRESTI C., Alvar Aalto, Sansoni, Firenze 1975.
FLEIG K. (a cura di), Alvar Aalto, Zanichelli, Bologna 1978.
REED P. (a cura di), Alvar Aalto, Electa, Milano 1998.
SCHILDT G., Alvar Aalto Capolavori, Rizzoli, Milano 2000.
Ridisegni e modello di Isabelle Desfoux e Giorgia Galeotti
Prospetto est
Prospetto ovest
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1960–66
Guild House, di Robert Venturi
Philadelphia, Pennsylvania (USA)
Pianta piano terra
Pianta piano tipo
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Guild House ospita 91 appartamenti, distribuiti su sei piani, e destinati a una utenza di anziani autosufficienti.
Ciascun alloggio si costituisce come unità indipendente, con prorpi locali di servizio (un piccolo
ingresso attrezzato con guardaroba, un bagno, una zona cottura) e una o più stanze destinate alle altre
attività residenziali.
Pur nella grande varietà distributiva, le tipologie degli alloggi sono fondamentalmente tre: il monolocale di 30 mq, il bilocale di 40 mq e il trilocale di 50 mq.
Alcuni appartamenti sono dotati di un piccolo terrazzo.
In tutto l’edificio è previsto un solo spazio comune per lo svago e il soggiorno collettivi, al sesto
piano, di dimensioni contenute e insufficienti ad accogliere contemporaneamente tutti gli abitanti insediati, probabilmente pensato per incontri a piccoli gruppi.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. BELLUZZI A., Venturi, Scott Brown e associati, Laterza, Roma 1992.
2. VACCARO C. (a cura di), Venturi, Scott Brown e associati, Zanichelli, Bologna 1991.
3. VENTURI R., Complessità e contraddizioni nell’architettura, Dedalo, Bari 1991.
Ridisegni e modello di Giulia Roversi e Francesca Tavaglini
Prospetti
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1967–70
Residenze per artisti Westbeth Greenwich Village, di Richard Meier
New York (USA)
Pianta piano terra
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Westbeth, una casa per artisti ai confini con il Greenwich Village, è frutto di un intervento di ristrutturazione su un preesistente edificio, ex sede dei laboratori scientifici della Bell Telephone, trasformati in residenza attrezzata per una comunità di artisti.
Il progetto prevede l’integrazione delle attività residenziali con quelle artistiche. Quindi sono presenti, oltre agli alloggi, di dimensioni contenute e destinati a singles o a coppie, anche gallerie espositive, studi di danza, gabinetti fotografici e un teatro. L’edificio si articola su 13 piani fuori terra. Gli
interni presentano una grande varietà tipologica, dimensionale e distributiva, ottenuta lasciando inalterato il sistema strutturale dei laboratori e forzando i limiti degli standard normativi dell’edilizia residenziale a basso costo. Gli alloggi sono simplex e duplex di diversa configurazione.
Il cortile interno, ottenuto con l’abbattimento di due solai, rappresenta il vero cuore dell’edificio: su
di esso gravitano tutti gli alloggi e affacciano, attraverso balconi semicircolari, gli spazi di soggiorno
dei duplex.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. CASSARÀ S., Richard Meier, Zanichelli, Bologna 1995.
2. CIORRA P., Richard Meier, Electa, Milano 1996.
Ridisegni e modello di Roberta Gilioli e Alessia Giovannelli
Prospetto
Sezione
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1976
Casa dello Studente, di Giorgio Grassi
Chieti (Italia)
Pianta piano terra
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L’intervento, ubicato sulle prime pendici collinari della periferia di Chieti, è distribuito, con diversi
padiglioni, lungo una strada porticata di distribuzione, reinterpretazione della strada principale della
città, Corso Marruccino. Su questa strada si affacciano gli edifici, connessi tra loro da un monumentale porticato a tutta altezza, che sembra attribuire alla “strada della nuova cittadella studentesca” gli stessi caratteri della città.
Gli edifici sono specializzati per funzioni.
I tre “blocchi–letto”, di due o tre piani, innestati sulla via porticata, da cui hanno accesso, ospitano
48 camere–studio singole e uno spazio di soggiorno comune per piano. I corpi sono collegati tra loro da uno
stretto ballatoio che consente la comunicazione e l’interazione tra gli utenti. Al piano terra si trovano anche
piccoli spazi commerciali. Le camere da letto hanno un bagno in comune a due a due.
Il “blocco dei servizi collettivi” contiene locali per lo studio, la riunione e lo svago, oltre che i servizi igienici, una lavanderia automatica e una caffetteria. Il “blocco–mensa” contiene un self–service per 500 coperti con relativa cucina e magazzini di deposito. Tutti i servizi sono destinati non solo all’utenza studentesca,
ma all’intero quartiere, che interpreta questo intervento come piccola “città aperta”.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. Giorgio Grassi e il progetto della casa dello studente di Chieti, CLUA, Milano 1996.
2. CRESPI G., PIERINI S. (a cura di), Giorgio Grassi. I progetti, le opere e gli scritti, Electa, Milano 1996.
Ridisegni e modello di Filippo Scarpetta e Fabio Riviecci
Prospetti e sezioni
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1986–88
Edificio d’abitazione Kaguraoka, di Tadao Ando
Kyoto (Giappone)
Pianta piano terra
Pianta copertura
Pianta piano primo
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L’edificio si compone di due blocchi indipendenti “separati e congiunti” da un terrazzo comune, luogo
di aggregazione. Ciascun blocco ospita alloggi diversi per taglio e distribuzione interna (un miniappartamento e sette monolocali) destinati a persone sole (lavoratori professionisti) o a coppie senza figli.
La dimensione molto ridotta degli alloggi, in sintonia con la tradizione costruttiva ed economica giapponese, demanda all’esterno molte delle attività normalmente incluse nell’alloggio, come intrattenersi con
gli ospiti a tavola o in soggiorno, guardare la tv, studiare, ecc. abitualmente escluse dalle funzioni ammesse all’interno della residenza per motivi legati agli alti costi dello spazio. L’alloggio è, qui, pensato (e vissuto) come ambiente di servizio, atto alla sola attività del dormire.
Questo modello di abitare è molto diverso da quello occidentale, secondo cui l’abitazione è un bene
imprescindibile e dove l’inserimento dell’intera gamma delle attività private e buona parte di quelle collettive amplia gli spazi, li dota di attrezzature e servizi di supporto. In Giappone, invece, la prioritaria valorizzazione della vita comunitaria e delle attività esterne all’abitazione (il lavoro) e la quasi assoluta svalutazione della dimensione individuale inducono ad allestire spazi piccoli e vuoti, dove l’uomo è accolto
nella sua intimità e interpretato nella sua esclusiva dimensione corporea.
Riferimenti bibliografici e iconografici
1. Tadao Ando 1981–1989, SD, Tokyo 1990.
2. DAL CO F., Tadao Ando. Le opere, gli scritti, la critica, Electa, Milano 1996.
Ridisegni e modello di Francesco Foina e Paolo Giovannini
Prospetto est
Prospetto ovest
Sezione longitudinale
Prospetto sud
Sezione trasversale
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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su
www.aracneeditrice.it
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Finito di stampare nel mese di settembre del 2007
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Patinata opaca Bravomatt 115 g/m2. ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura