EDUCARE AI DIRITTI UMANI, ALLA LEGALITÀ E ALLA CITTADINANZA di Silvana Barbirotti Da dove iniziare ? Siamo tutti concordi nell’affermare che i diritti umani sono un valore da conoscere e promuovere. Tuttavia, al cospetto della violazione dei Diritti dell’uomo nel mondo - oggi più che mai evidente bisogna essere consapevoli dei sentimenti di frustrazione e di impotenza che, come individui, un po’ tutti percepiamo. I diritti umani sono al centro del dibattito politico internazionale, obiettivo educativo delle istituzioni scolastiche, eppure se ci interroghiamo come “cittadini del mondo”, spesso scopriamo di non avere molta fiducia nella concreta possibilità di realizzazione dei diritti umani universali. I diritti umani finiscono per essere, nelle nostre coscienze, più “famosi” per il perpetuarsi delle violazioni a loro danno che per il rispetto, giuridicamente sancito, delle norme poste a loro tutela. In un simile contesto sembra più facile nutrire scarsa fiducia nell’impianto di legalità internazionale, che appare messo a dura prova, in particolare, nell’epoca attuale. Nell’intraprendere un percorso educativo sui diritti umani, è necessario interrogarsi su simili aspetti controversi, e chiedersi in che modo sia possibile, concretamente, lavorare con una materia così evanescente come i “valori universali” e trasformala in proposta formativa per i giovani, vale a dire in un impegno di apprendimento e di comportamento. Il punto di partenza che è sembrato più efficace è stato quello di intraprendere il tragitto considerando la vasta gamma di sentimenti che è possibile percepire al cospetto di una tematica che rischia di essere – soprattutto per i giovani - troppo grande, e far sì che i ragazzi imparassero per prima cosa a riconoscere i propri sentimenti. Un simile lavoro può guidare l’azione formativa ancor prima che nella direzione della conoscenza dei diritti umani (il sapere) verso l’attivazione di un processo di autovalutazione circa le modalità con le quali agiamo i nostri stessi sentimenti nelle relazioni che ci riguardano più da vicino: quelle quotidiane che ci vedono protagonisti di azioni, così che i giovani si rendano più consapevoli dei propri comportamenti (il proprio saper essere) nelle relazioni con gli altri, nelle quali i diritti umani entrano molto più di quanto siamo disposti a pensare. In tal modo, la frustrazione, il senso di impotenza, la sfiducia anziché ignorarli, vengono assunti nel percorso progettuale per portarli il più possibile alla luce e proporre un lavoro a partire dalla dimensione emotiva. Tanto le percezioni negative, quanto lo studio meramente teorico dei testi e dichiarazioni universali sui diritti umani, rischiano di allontanare i ragazzi dall’impegno e dalla partecipazione - che invece sono la conditio sine qua non della cultura della legalità e dei diritti umani - demotivandoli ad apprendere e ad agire. Questo aspetto è molto importante nella funzione di educazione ai diritti umani, dal momento che simili componenti emozionali influenzano il nostro modo di essere. Nell’esercizio del ruolo di insegnanti, educatori, rappresentanti istituzionali, operatori sociali, per quanti sforzi possiamo compiere per declamare la <<bontà>> dei diritti umani sul piano valoriale, non siamo mai abbastanza consapevoli di quanto rischiamo di finire nella trappola della retorica se ci si limita alla mera declamazione dei principi universali. Se invece pretendiamo di sciorinare l’interminabile elenco di violazioni di quei diritti che si vogliono diffondere, cadremmo nella trappola dello scetticismo, quantomeno nei confronti del sistema politico-giuridico e degli strumenti internazionali preposti alla loro tutela. In questo caso non vi è possibilità di far avanzare in alcun modo le conoscenze su questi temi al di là dei soliti luoghi comuni. In entrambe le situazioni, i giovani finiranno per essere tutt’altro che guidati verso l’impegno all’apprendimento e al trasferimento di quei “valori” in comportamenti. L’approccio assio-pratico Esiste una vasta letteratura sul nesso tra il sapere ed il saper essere, ossia sull’importanza di integrare la sfera cognitiva e quella emotiva dell’intelligenza umana in apprendimento, così come esiste ormai un vasto scenario metodologico sull’insegnamento dei diritti umani e della legalità, campo che si presta, forse più di ogni altro, a sperimentare modalità concrete di una simile integrazione. Quanto al primo aspetto, il nesso tra sapere e saper essere, ci si può interrogare se in definitiva, compito dei processi educativi non sia quello di promuovere un cambiamento nelle conoscenze (sapere) e nei comportamenti (saper essere) (Bruner, il Conoscere. Saggi sulla mano sinistra, 1968). Quanto al secondo aspetto, quello delle metodologie sull’educazione ai diritti umani ed alla legalità, l’approccio più convincente appare senza dubbio quello che considera l’insegnamento dei diritti umani come un percorso assio-pratico, teso all’apprendimento dei valori che hanno ispirato il lungo cammino dei diritti umani, e delle azioni per promuoverli (V. Papisca, Insegnare i diritti umani, F. Lotti, N. Giandomenico, a cura di, 1998). Queste riflessioni suggeriscono quanto si integrano la didattica socio-relazionale basata sul saper essere -dunque sui comportamenti - e l’insegnamento assio-pratico dei diritti umani, i quali possono essere appresi agendo. I diritti umani attraverso la dinamica di gruppo Lavorare con i diritti umani in campo formativo pone più che altrove l’impegno a lavorare con i comportamenti per apprendere e promuovere un cambiamento. La dimensione gruppale diventa strumento e al tempo stesso obiettivo della proposta formativa di educare ai diritti umani posto che: a) nelle dinamiche di gruppo le emozioni e gli stili comportamentali si pongono trasversalmente a qualsiasi momento del processo formativo. E proprio queste dinamiche, sono la prima opportunità per discutere concretamente di relazione con l’altro, di diritti, di cittadinanza, di interdipendenza; b) al centro di un percorso educativo sui diritti umani si pone la persona, con lo sforzo di promuovere atteggiamenti più consapevoli ed autodiretti e di migliorarne le capacità cooperativo- relazionali, che, il “team work” è in grado di mettere alla prova; c) il punto di congiunzione, di non facile saldatura, tra la proposta educativa che mira a condurre i giovani allo sviluppo delle proprie abilità socio-relazionali, e quella che intende sospingerli verso l’azione di apprendimento-applicazione dei diritti umani, si snoda proprio nel tragitto critico tra la visione ideale dei principi fondamentali ispiratori del diritto dei diritti umani e la reale condizione di applicazione degli stessi. In un contesto formativo si tratta di verificare se si può divenire più consapevoli del gap esistente a riguardo, riuscendo tuttavia a ri-conoscersi parte integrante dell’essere “essere umani”, titolari e promotori di diritti. Le dinamiche di gruppo sono un ambito privilegiato per osservare la distanza tra l’ideale ed il reale in cui opera il nostro sé, e per imparare ad esplorare quali possibilità, abilità, potenzialità si posseggono e possono essere adoperate per partecipare attivamente ai processi – sociali, economici, politici - che ci riguardano e nei quali si fa fatica a leggervi un ordine o a sentirsi protagonisti. Questioni, queste, che appaiono ancor più cruciali nell’epoca della globalizzazione, dove più ridotto è il margine di manovra degli individui e più difficile il compito di sentirsi partecipe e protagonista attivo del proprio essere nella società. In tale prospettiva si inserisce il complesso tema della identità e diversità che il progetto “I miei occhi negli occhi degli altri” ha voluto mettere al centro della proposta formativa. L’architettura progettuale della proposta formativa si sviluppa sui seguenti “pilastri” : 1) Orientare all’azione 2) Rafforzare la fiducia (in sé stessi e negli altri) 3) Accrescere l’autostima L’orientamento all’azione trova le sue principali ragioni nel fatto che, come già detto, per promuovere concretamente la cultura dei diritti umani bisogna sconfiggere quel senso di impotenza che spesso ci sovrasta, posto che realizzare sul piano universale i diritti umani è ancora una meta lontanissima. Tuttavia il lungo cammino dei diritti umani dimostra che apparteniamo a questo percorso di affermazione di diritti iniziato secoli fa, e che molto resta da fare. E’ sul “FARE” che bisogna insistere. In questo spazio, peraltro, che si colloca la stessa azione educativa delle istituzioni scolastiche per la diffusione della cultura dei diritti umani. L’orientamento all’azione è, in tal caso, una modalità per contribuire a convertire in positivo l’eventuale sentimento di frustrazione per le “ingiustizie.” Su questo fare è possibile mobilitate le risorse dei giovani ponendosi il problema di: • Come far acquisire agli studenti maggior consapevolezza che essi sono soggetti di diritti umani; • Come suscitare interesse ai problemi del mondo in materia di diritti umani. L’orientamento all’azione, inoltre, si lega in maniera forte al tema della fiducia in sé stessi, dal quale solitamente partire. I ragazzi soffrono di mancanza di fiducia nelle proprie forze e l’età della crescita è una dura prova per affermare la propria identità. Diventa difficile impegnarsi per la tutela dei diritti umani o interessarsi a conoscerli meglio se, per sfiducia o scarsa autostima, non ci si pone nemmeno l’aspettativa di possedere questi diritti. Tanto meno ci si può porre, in simili condizioni, in una prospettiva di riflessione di quali / quanti diritti per noi “scontati” (e se sono tali non sono affatto diritti poiché manca la consapevolezza della loro <<esercitabilità>>) sono altrove ancora“negati” e perché. Ovviamente questi temi introducono quello più complesso della fiducia in relazione alle istituzioni, che recentemente ha ispirato tanta letteratura in campo socio-economico, e che assume una rilevanza enorme rispetto alla questione dei diritti umani. (Basterebbe interrogarsi sui nostri atteggiamenti nei confronti delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in genere, per comprendere come l’organizzazione mondiale preposta alla tutela della pace e dei diritti umani “universalmente riconosciuti”goda di scarsa credibilità da parte dell’opinione pubblica mondiale) L’orientamento all’azione e il tema della fiducia pongono alcune questioni metodologico-pratiche da considerare come pre-condizioni di applicabilità della dimensione del team work al campo educativo dei diritti umani a) La sfera di azione. L’approccio assio-pratico può andare dall’esperienza alla formalizzazione dei concetti o viceversa ma vuol dire sempre partire da esperienze reali, personali, da qualcosa di tangibile. Partire declamando “cosa sono i diritti umani” può sortire, tra gli altri, l’effetto di svuotare anticipatamente la sincera espressione degli studenti che invece vanno stimolati a partecipare ed ad esprimersi. Solo se si parte dalla loro realtà questi ultimi sono portati a comunicare, e, in un secondo momento, giungono persino a scoprire creativamente soluzioni innovative a taluni problemi che il tema dei diritti umani pone. Non solo. La praticabilità dell’approccio assio - pratico si lega alla reale possibilità fornita dal percorso di sperimentare le difficoltà (della relazione, dell’accordo, della gestione del conflitto) attraverso le quali diventa anche possibile comprendere quale raggio d’azione è consentito per sentirsi portatori e promotori di valori, e cercando di evitare i rischi del circuito vizioso inadeguatezza – sfiducia – impotenza - disimpegno. b) Lo stile didattico e relazionale: Se l’approccio deve essere applicativo più che declaratorio, e se, attraverso il coinvolgimento attivo, si intende condurre gli studenti innanzitutto ad esprimersi per ottenere poi come risultato l’apprendere e vivere i diritti umani, è indispensabile uno stile didattico e relazionale “non convenzionale” che si basa: - sulla convinzione che la prima risorsa della proposta formativa messa in campo sono gli studenti partecipanti, (senza trascurare che talvolta si è costretti a partire dalle loro demotivazioni piuttosto che il contrario); - sulla conseguente disponibilità del formatore a mettersi in discussione, e ad assumere il delicatissimo compito di conduttore-facilitatore del processo di apprendimento, nel quale egli non esercita l’autorità ma guadagna autorevolezza. Risultato tutt’altro che scontato e che a sua volta presuppone un lavoro costante e minuzioso sul gruppo e sulla sua costruzione (V. par. sul Team building) in particolare in termini di fiducia e di comunicazione aperta in tutte le direzioni. c) I fabbisogni di partenza. Il cambiamento nelle conoscenze e nei comportamenti può essere promosso realmente a condizione di accettare la dimensione e la qualità dei fabbisogni iniziali del gruppo aula. Spesso la fase di start up del progetto formativo è caratterizzata da una quasi totale assenza di cognizioni o motivazioni specifiche a partecipare al percorso. Per esempio in un contesto scolastico caratterizzato da una sorta di “inflazione progettuale”, in virtù della quale l’allievo è coinvolto in numero crescente di attività con l’acquisizione dei relativi crediti formativi, il rischio è che questi ultimi non siano più recepiti come mezzi per promuovere nuovo apprendimento ma come fine in sé stesso. Diventa importante, a questo punto, considerare nella sua dimensione reale, anche se critica, il livello motivazionaleinformativo iniziale del gruppo aula che si va a costituire. Sarà poi fondamentale tenere l’analisi dei fabbisogni iniziali come bussola del percorso evitando in tal modo di navigare a vista nel successivo percorso e utilizzarla alla conclusione dello stesso, come strumento di autovalutazione del cammino compiuto. Dal Team building al Social building Il salto di qualità nella storia della evoluzione dell’essere umano, ha detto qualche tempo fa P. Balducci, è avvenuto col suo processo di trasformazione in “homo sapiens”. Il salto di qualità che attende l’uomo, nella delicata fase di transizione che stiamo vivendo, è quella che lo potrà portare a divenire “uomo planetario”. In questa riflessione vi è l’idea che siamo nel pieno di una svolta epocale, ma sopratutto vi si racchiude tutto l’attuale e difficile dibattito sullo sviluppo sostenibile, e l’intera sfida presentata dal fatto che, dopo quella dei mercati, deve poter seguire la globalizzazione dei diritti. La nozione di Social building - appositamente coniata all’interno del progetto formativo in questione - nasce dall’idea che in ambito educativo è possibile – e necessario - “fare molto” per contribuire alla costruzione di un simile impegnativo divenire “uomo planetario”. Nel passaggio dal team building al social building non cambiano le metodologie applicative ma gli orizzonti di riferimento: la dimensione interpersonale delle relazioni su cui si è imperniata la prima fase del percorso formativo, fa posto ora a ambiti via via più vasti, immaginati come un percorso per tappe da compiere insieme al gruppo-aula attraverso: la scuola, il quartiere, la città, il continente, il mondo. Un viaggio a cerchi concentrici in cui i soggetti della formazione sono sempre al centro, chiamati a giocare ruoli diversi attraverso i quali imparare a nutrire e coltivare l’ipotesi che il destino delle città degli uomini - e del pianeta - è troppo importante per ciascuno di noi perché possa essere una responsabilità da lasciare <<agli altri>>. Il social building intende rappresentare la fase formativa del percorso tesa ad agevolare lo sviluppo della consapevolezza dell’essere dei giovani nella società civile. Attraversate le fasi di costruzione del team, si tratta ora di concentrarsi, sempre attraverso il team, sulle stesse fasi metodologiche in un’ottica di cittadinanza. Inizia qui, dal punto di vista dell’approccio formativo messo in campo, il tempo del “con-dividere”, spostando l’accento sui contenuti (controversi) dei diritti umani - tesi tra universalità dei principi e diversità degli uomini e delle culture - prevalentemente agendoli. La cultura dei diritti umani si basa sui principi di responsabilità collettiva e condivisa, sul dialogo, sulla cooperazione. Le metodologie partecipative servono, in questa fase, a sottolineare questi stessi principi. Tradotto in termini più pratici, le dinamiche di gruppo che si sviluppano nelle attività didattiche di tipo partecipativo consentono di: a) scambiarsi i punti di vista – quindi apprendere concretamente a dialogare b) sperimentare sia il proprio piano emozionale che quello cognitivo per gestire il grado di accordo-disaccordo sulle questioni sollevate c) accelerare i processi di apprendimento di nuove informazioni e dati attraverso il gioco e il lavoro di gruppo. Nella fase di social building assume una notevole rilevanza la sperimentazione del disaccordo o del conflitto. Sono infatti proprio le situazioni conflittuali che stressano alcuni comportamenti mettendo in evidenza il nostro grado di vera tolleranza, gli stili comportamentali cooperativi o al contrario autoritari, direttivi, il ruolo degli stereotipi nei processi di confronto con gli altri. Il social building diventa in tal modo un “luogo” dove rendere possibile il processo di comprensione dell’importanza del cooperare in un mondo sempre più interdipendente. L’integrazione della sfera emozionale e della sfera cognitiva degli allievi, mira ad avvicinare i partecipanti ad un sapere e un saper essere dei diritti umani. Il progetto “I miei occhi negli occhi degli altri” rappresenta una traccia, piccola quanto autentica, del possibile ed infinitamente complesso lavoro di costruzione della cultura dei diritti umani, della non violenza e della pace che, come afferma Enrico Euli (I dilemmi-diletti del gioco. Manuale di Training, 2004) “passa probabilmente anche e soprattutto da qui: dal ri-conoscersi, dal tornare a sé … Un sé che ha smesso di concepirsi come io separato e individuale (e) può finalmente incontrare il sé-altro da sè in una nuova dimensione, da una diversa prospettiva di visione: può incontrarlo”. Le dinamiche del social building ci hanno aiutato ad aprire una finestra sul mondo per affacciarsi sulle sue complessità senza rifiutarle, per osservare il panorama delle diversità dell’essere “essere umano” accettando le distinzioni e le differenti identità senza trasformarle in separazioni ed opposizioni, e per scrutare così le infinite possibilità di guardare, ciascuno con i propri occhi, negli occhi dell’altro.