UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN LINGUISTICA TESI DI LAUREA ASPETTI LINGUISTICI E NEUROCOGNITIVI DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA Relatore: Ch.mo Prof. DENIS DELFITTO Laureanda: LUISA PICCOLI ANNO ACCADEMICO 2007-2008 INDICE INTRODUZIONE 5 1. LA DISLESSIA: LE TEORIE E IL DEFICIT FONOLOGICO 7 1.1 Definizione e diagnosi della dislessia evolutiva 7 1.2 Breve storia della dislessia 9 1.3 Le principali teorie sulla dislessia evolutiva 12 1.3.1 La teoria del deficit fonologico 12 1.3.2 La teoria del deficit di processing temporale 13 1.3.3 La teoria cerebellare 13 1.3.4 La teoria magnocellulare 14 1.4 Teorie della dislessia evolutiva: alcuni commenti 16 1.5 Doppia dissociazione tra disturbi sensomotori e difficoltà di lettura 17 1.6 L’elaborazione fonologica nei soggetti dislessici 19 1.7 Un modello generale di accesso lessicale 21 1.8 Lo sviluppo fonologico nei bambini a rischio di dislessia 24 1.9 Danni fonologici specifici misurati con l’eyetracking 26 1.10 Per riassumere 29 2. LA DISLESSIA E IL DEFICIT SINTATTICO: UN CONFRONTO CON IL DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO 31 2.1 Lo sviluppo sintattico nella dislessia evolutiva 31 2.2 Tre ipotesi per il deficit sintattico 34 2.3 La dislessia e il disturbo specifico del linguaggio (SLI) 37 2.4 Caratteristiche generali dello SLI 38 2.4.1 Errori grammaticali nello SLI 40 2.5 Le principali teorie sul disturbo specifico del linguaggio 41 2.5.1 Dallo stadio Extended Optional Infinitive verso il Modello di omissione del tempo e dell’accordo 42 2.5.2 L’ipotesi di Missing feature/ Implicit Rule Deficit 43 1 2.5.3 L’ipotesi Missing Agreement 44 2.5.4 Representational deficit for dependency relations 45 2.5.5 La Surface Hypothesis 46 2.5.6 SLI come deficit di elaborazione 48 2.6 Teorie sul disturbo specifico del linguaggio: alcune considerazioni critiche 49 2.7 Eziologia 50 2.7.1 Studi genetici 50 2.7.2 Il ruolo dei fattori ambientali 52 2.8 Studi di neurobiologia 52 2.8.1 Studi sulla struttura del cervello 53 2.8.2 Studi di Functional Imaging 54 2.9 Una relazione tra dislessia e disturbo specifico del linguaggio 56 2.10 Dislessia e SLI: lo stesso disturbo o due disturbi differenti? 58 2.10.1 Una comparazione dei tre modelli di ipotesi della dislessia e dello SLI 62 2.10.2 L’elaborazione sintattica nella dislessia evolutiva e nel disturbo specifico del linguaggio 65 2.11 Per riassumere 68 3. DUE MODELLI NEUROLINGUISTICI DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA 3.1 Il ruolo della memoria nel linguaggio: il modello dichiarativo/procedurale. 71 3.1.2. La memoria dichiarativa 71 3.1.3 La memoria procedurale 72 3.1.4 Il modello dichiarativo/procedurale 73 3.1.5 Interazioni tra i due sistemi 74 3.1.6 Evidenze neurologiche a favore del modello dichiarativo/procedurale 75 3.2 SLI: l’ipotesi di deficit procedurale 75 3.3. Disturbi evolutivi e l’ipotesi di deficit procedurale 77 3.4 Il deficit procedurale nella dislessia 82 3.5 Quale differenza tra dislessia e SLI? 83 3.6 La memoria operativa e il linguaggio 85 3.6.1 Il circuito fonologico 87 3.6.2 Il taccuino visivo-spaziale 88 3.6.3 L’esecutivo centrale 88 2 3.6.4 Il cuscinetto episodico 89 3.7 La memoria operativa e la dislessia 89 3.7.1 La memoria operativa verbale: l’informazione fonologica e semantica 91 3.8 Per riassumere 94 CONCLUSIONE 97 RINGRAZIAMENTI 99 BIBLIOGRAFIA 101 3 4 INTRODUZIONE Il mio interesse verso i disturbi specifici dell’apprendimento e, in particolar modo verso la dislessia, è cresciuto durante il secondo anno del corso specialistico, quando ho cominciato a studiare e ad approfondire alcuni campi specifici della Linguistica, come ad esempio l’acquisizione del linguaggio ed i vari modelli cognitivi del processo mentale che consente la produzione di un atto linguistico o di un testo scritto. Lo studio degli errori nel parlare o nello scrivere mi ha affascinato fin da subito, e nel momento in cui ho avuto l’occasione di affiancare un bambino dislessico nello studio pomeridiano, ho provato subito il desiderio di apprendere qualcosa di più a proposito di questo disturbo della lettura. E’ iniziato così il mio percorso di ricerca e studio sulla dislessia evolutiva. Il mio intento era quello di arrivare ad avere una visione d’insieme degli studi compiuti in questo campo nel corso degli anni dalla Linguistica e dalla Neuropsicologia Cognitiva e di vedere come la ricerca scientifica sta muovendo i propri passi e quali risultati ha finora ottenuto. Ho organizzato la mia tesi nel modo seguente: nel capitolo 1 verrà introdotta una definizione di dislessia evolutiva, accompagnata dai criteri utilizzati nella diagnosi del disturbo. Successivamente presenterò una breve storia della dislessia e confronterò i principali approcci sviluppati nel corso degli anni per spiegare le sue basi biologiche e cognitive. In particolare, sosterrò che la dislessia è un disturbo specifico del linguaggio, che colpisce soprattutto l’elaborazione fonologica delle parole e sembra avere cause neurologiche e genetiche. Il capitolo 2 sarà dedicato al deficit sintattico riscontrato nei bambini dislessici. Presenterò gli studi sul linguaggio dei bambini a rischio di dislessia, per dimostrare come i deficit linguistici in tenera età possano essere, in alcuni casi, dei precursori della dislessia evolutiva e predire una disabilità di lettura. Inoltre darò ampio spazio alla descrizione di un disturbo dell’apprendimento che sembra avere diversi punti di contatto con la dislessia: il Disturbo Specifico del Linguaggio (SLI). Dopo aver presentato le diverse teorie a spiegazione dello SLI, mi soffermerò sulle ipotesi che riguardano la sua relazione con la dislessia, considerando anche gli aspetti neurologici e genetici di entrambi i disturbi. Nel capitolo 3 presenterò due modelli neurolinguistici: il modello Dichiarativo/Procedurale di M. T. Ullman e il modello della Memoria Operativa di A. Baddeley. Ritengo che questi due modelli siano interessanti, dal momento che riescono a dare le migliori spiegazioni ai sintomi della dislessia. Infatti, secondo l’ipotesi di Deficit Procedurale di Ullman la dislessia, ma anche il Disturbo Specifico del Linguaggio, sarebbe la conseguenza di un deficit che colpisce le strutture 5 cerebrali alla base del sistema di memoria procedurale. Secondo questa prospettiva, i due disturbi avrebbero una causa neurobiologica comune. Il punto di forza di questo modello è che riesce a spiegare tutti quei sintomi di natura non linguistica associati alla dislessia, come i deficit sensomotori o le difficoltà nell’automatizzazione di sequenze di movimenti. Il modello della memoria operativa di Baddeley predice nella dislessia evolutiva un danno alla componente verbale della memoria operativa. Presenterò a questo proposito uno studio condotto da un ricercatore del laboratorio sulla dislessia dell’Università di Verona, il quale sostiene una visione estesa di questa componente verbale, ossia quest’ultima sarebbe coinvolta non solo nell’informazione fonologica ma anche in quella semantica. Dato questo presupposto, i risultati ottenuti dagli esperimenti condotti su bambini dislessici confermerebbero il deficit alla memoria operativa verbale. 6 1. LA DISLESSIA: LE TEORIE E IL DEFICIT FONOLOGICO 1.1 Definizione e diagnosi della dislessia evolutiva Nella società moderna la lingua scritta rappresenta una modalità chiave per la comunicazione e lo scambio di notevoli quantità di informazioni. Oggi essere analfabeta o essere incapace di leggere correttemente può portare ad avere considerevoli difficoltà in un mondo e in una cultura come la nostra, così fortemente legata alla scrittura. Mentre la maggior parte dei bambini impara a leggere con relativa facilità (grazie ad un’appropriata istruzione), una piccola ma sostanziale parte (press’a poco il 3-10%) della popolazione presenta difficoltà significative nell’apprendimento della lettura. Per questi bambini le prime istruzioni sulla lettura segnano l’inizio del loro fallimento nell’acquisizione di tale abilità. Questi bambini soffrono di dislessia evolutiva.1 Non tutti i bambini che hanno questo tipo di problemi ricevono una diagnosi di dislessia. La American Psychiatric Association usa il termine dislessia evolutiva quando la capacità di lettura, misurata individualmente attraverso la somministrazione di test sull’accuratezza della lettura e sulla comprensione, è sostanzialmente al di sotto delle aspettative rispetto all’età cronologica, all’intelligenza e ad una appropriata istruzione (DSM-IV, 1994). Per cui, ciò che è decisivo, non è un basso livello nella performance di lettura, ma la discrepanza tra lettura e livello generale di intelligenza. Quindi la principale caratteristica di definizione di questa categoria nosografica è quella della “specificità”, intesa come un disturbo che interessa uno specifico dominio di abilità in modo significativo ma circoscritto, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. In questo senso il principale criterio necessario per stabilire la diagnosi di dislessia è quello di “discrepanza” tra abilità nel dominio specifico interessato e l’intelligenza generale. Una definizione appropriata di dislessia evolutiva appare quindi quella proposta da Vellutino (1979), che considera tale disturbo come un insuccesso nell’imparare a leggere correttamente, nonostante un’intelligenza nella norma, un udito normale, un’esposizione adeguata all’istruzione e l’assenza di problemi fisici, emotivi o socioeconomici. Data la definizione è chiaro che la dislessia evolutiva è una difficoltà selettiva nella lettura. E’ da notare, però, che spesso queste difficoltà di lettura si associano a difficoltà nella scrittura e/o 1 Si distingue tra dislessia evolutiva e dislessia acquisita. Nel caso di quest’ultima un soggetto che è in grado di leggere normalmente comincia a compiere errori oppure non riesce più a riconoscere le parole con la stessa facilità. Di solito queste inattese difficoltà di decodifica sono la conseguenza di qualche evento patologico che ha determinato lesioni nelle aree corticali che sono coinvolte nel processo di transcodifica. 7 nell’aritmetica, anche se non necessariamente della stessa intensità, 2 poichè queste tre abilità (lettura, scrittura, aritmetica) presentano delle basi comuni. Altre difficoltà associate alla dislessia e messe in luce da genitori e insegnanti riguardano l’attenzione e la memoria. Di questo aspetto parlerò nel terzo capitolo più in dettaglio. La diagnosi di dislessia evolutiva in Italia può essere formulata solo da un medico o da uno psicologo adottando i protocolli necessari a verificare la presenza di tutte le condizioni richieste. I criteri sono stati definiti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha posto cinque condizioni che debbono sussistere perchè un disturbo di lettura possa essere definito in termini di dislessia evolutiva e queste sono: 1. Il livello intellettivo del soggetto con disturbo di lettura deve essere nella norma (Q.I. ≥ 85). 2. Il livello di lettura deve essere significativamente distante da quello di un bambino di pari età o classe frequentata. In particolare, se il livello di lettura è misurato con test adeguati, deve essere inferiore alla II deviazione standard prevista per l’età o la classe frequentata. 3. Il soggetto non deve presentare disturbi neurologici o sensoriali che possano giustificare la difficoltà di lettura come conseguenza diretta. 4. Il disturbo deve essere persistente, nonostante la scolarizzazione adeguata e interventi didattici specifici. 5. Il disturbo di lettura deve presentare conseguenze sulla scolarizzazione o nelle attività sociali in cui è richiesto l’impiego della letto-scrittura. Generalmente l’accertamento diagnostico avviene in due fasi distinte, rispettivamente finalizzate all’esame dei criteri diagnostici prima di inclusione e successivamente di esclusione. Nella prima fase si somministrano, insieme alla valutazione del livello intellettivo, quelle prove necessarie per l’accertamento della presenza della dislessia (decodifica e comprensione nella lettura). Questa fase permette al clinico di formulare o meno una diagnosi provvisoria o di orientamento verso questo tipo di disturbo. Nella seconda fase vengono disposte quelle indagini cliniche necessarie per la conferma diagnostica mediante l’esclusione della presenza di patologie o anomalie sensoriali, neurologiche, cognitive e di gravi psicopatologie. 2 Ci si riferisce a disortografia, disgrafia e discalculia. Disortografia e disgrafia sono disturbi specifici della scrittura: il primo è di natura linguistica ed è un deficit nei processi di cifratura; il secondo è di natura motoria ed è un deficit nei processi di realizzazione grafica. La discalculia è un disturbo specifico del calcolo, connotato da debolezza nella strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione numerica e da difficoltà nelle procedure esecutive e nel calcolo. 8 L’approfondimento del profilo del disturbo è fondamentale per la qualificazione funzionale del disturbo. L’indagine strumentale e l’osservazione clinica si muovono nell’ottica di completare il quadro diagnostico nelle sue diverse componenti sia per le funzioni deficitarie che per le funzioni integre. La valutazione delle componenti dell’apprendimento si approfondisce e si amplia ad altre abilità fondamentali o complementari (linguistiche, percettive, prassiche, visuomotorie, attentive, mnesiche), ai fattori ambientali e alle condizioni emotive e relazionali per un trattamento riabilitativo globale. Un ulteriore contributo al completamento del quadro è l’esame delle comorbidità, intesa come co-occorrenza di altri disturbi specifici dell’apprendimento o come compresenza di altri disturbi evolutivi (ADHD, disturbi del comportamento, dell’umore, ecc.) Un approccio interdisciplinare è la prassi clinica maggiormente auspicabile in considerazione delle caratteristiche del disturbo. 1.2 Breve storia della dislessia La dislessia, da Cleopatra a Cher, è con ogni probabilità sempre esistita durante la storia dell’umanità, anche prima dello sviluppo dei sistemi di scrittura. Si possono identificare quattro stadi, sebbene non chiaramente differenziati: un primo stadio, le origini della dislessia, nel quale furono identificati i primi soggetti con deficit di lettura e linguaggio, che generalmente erano pazienti con afasia acquisita. Questo periodo durò fino alla fine del XIX secolo. Durante i primi studi sulla dislessia evolutiva (1895-1950), questa condizione fu scoperta e iniziarono così ad esserne analizzate le cause e le caratteristiche. Successivamente (1950-1970) si è assistito ad uno stadio nel quale il campo della dislessia si è aperto ad una varietà di approcci clinici, educativi e di ricerca. Infine le teorie moderne (1970-2000) hanno creato le fondamenta della nostra conoscenza attuale sulla dislessia. Le origini della dislessia nella letteratura scientifica sono dovute ai primi ritrovamenti di problemi linguistici, prevalentemente dovuti ad una afasia acquisita. Questi pazienti afasici talvolta soffrivano anche di una perdita della capacità di lettura. Furono necessarie alcune scoperte scientifiche importanti prima di riuscire a mettere afasia e dislessia in relazione a lesioni cerebrali. Fu infatti intorno al XVI sec. quando filosofi e fisici decisero che la localizzazione del pensiero non era il cuore ma il cervello. Di certo dobbiamo dare credito al lavoro del dottore austriaco Franz Joseph Gall, che all’inizio del XIX sec., suggerì che ogni specifica parte del cervello ha una precisa funzione e a quello di Pierre Paul Broca, che localizzò le aree specifiche del cervello dove potevano risiedere le funzioni del linguaggio. 9 Il termine dislessia fu usato per la prima volta nel 1872 dal medico tedesco R. Berlin di Stuttgart, che usò il termine per descrivere il caso di un adulto con dislessia acquisita, ossia la perdita di capacità di lettura dovuta a lesione cerebrale. Poco dopo, il dottor A. Kussmaul (1877) suggerì il termine “cecità per le parole” per descrivere un paziente afasico adulto che aveva perduto la capacità di lettura. In modo analogo Charcot definì ‘alessia’ come la perdita totale della capacità di lettura. Ed infine Bateman, nel 1890, definì la alessia o dislessia come una forma di amnesia verbale nella quale il paziente ha perso la memoria del significato convenzionale dei simboli grafici. Fino a quel tempo la dislessia era considerata come un disturbo di origini neurologiche, causato quindi da un trauma cerebrale (dislessia acquisita). Il termine dislessia evolutiva invece fu inizialmente descritto come un disturbo visivo. Nel 1895 uscì per la prima volta su una rivista scientifica un articolo che parlava di una strana forma di cecità per le parole. Lo scrisse un chirurgo inglese, Hinshelwood, che ipotizzava che questa condizione fosse congenita e che fosse meno rara di quanto sembrasse sulla base della scarsa frequenza con cui veniva registrata. Questo articolo ispirò il dottor W. Pringle Morgan a descrivere il caso di un intelligente ragazzo di quattordici anni che ancora non aveva imparato a leggere. Per questo Morgan è riconosciuto come il padre della dislessia evolutiva. Un’altra figura importante nella storia della dislessia fu quella di Samuel Orrey Orton che, analizzando la dislessia evolutiva, coniò il termine “strefosimbolia” spiegando che gli individui affetti da dislessia evolutiva hanno difficoltà nell’associare la forma visiva delle parole con la loro forma parlata. Argomentò inoltre che il deficit della lettura nella dislessia sembra non essere causato precisamente da deficit visivi. Fino ai tempi di Orton la dislessia era campo esclusivo dei medici, specialmente oftalmologi e neurologi. Dopo Orton gli studi sulla dislessia divennero un interessante campo di analisi per psicologi, sociologi ed educatori, i quali cominciarono a discutere sui fattori ambientali e psicologici che potevano essere connessi con le difficoltà della dislessia, come il metodo educativo e la vita familiare. Senza entrare nel dibattito di quel tempo sulle cause e sui sintomi della dislessia, tuttavia c’era consenso tra gli studiosi nel ritenere che il disturbo potesse essere curato. Tra gli anni ’50 e ’60 gli studiosi iniziarono a sostenere l’ipotesi che la dislessia fosse un disturbo di origine multifattoriale e quindi iniziarono a riconoscere sottogruppi con problemi di tipo visivo, uditivo o di ragionamento astratto. In Francia Alfred Tomatis propose che la dislessia fosse causata da un problema esclusivamente visivo. Con il tempo altri studiosi scoprirono dei sottogruppi con problemi di tipo motorio. 10 Solo negli anni settanta emerse una nuova ipotesi secondo la quale la dislessia avrebbe origine da un deficit nel sistema fonologico. Fu notato infatti che i dislessici avevano difficoltà nel riconoscere che le parole della lingua parlata sono formate da fonemi e nell’associare questi suoni alle corrispondenti lettere alfabetiche della lingua scritta. Dopo gli anni settanta le teorie della dislessia basate sulla nuove discipline, come la psicologia cognitiva e le neuroscienze, fornirono i risultati più affascinanti. Nel campo della psicologia Isabelle Y. Liberman sostenne l’ipotesi che le difficoltà nella lettura dei dislessici fossero di origine linguistica, in particolare nella struttura fonologica e nella segmentazione. Questa linea fu seguita da molti studiosi che osservarono effettivamente deficit fonologici nei dislessici, come ad esempio una scarsa consapevolezza fonologica. Vellutino (1979) inoltre scoprì una relazione tra deficit fonologico e deficit alla memoria a breve termine nei normolettori. Secondo Vellutino la dislessia non è un disturbo visivo ma un disturbo del linguaggio che coinvolge l’elaborazione fonologica delle parole. Si può quindi vedere che dagli anni settanta le teorie sulla dislessia si muovevano gradualmente da spiegazioni del disturbo di tipo visivo a spiegazioni di tipo linguistico. Tra gli anni ottanta e novanta Margaret Snowling, una psicologa inglese, trovò inoltre una relazione tra le abilità fonologiche dei dislessici e la memoria a breve termine. Anche le teorie della psicologia cognitiva apportarono progresso a questo ambito di studi, proponendo ad esempio un modello della lettura di tipo connessionista. In effetti le teorie proposte sono state numerosissime. 3 Oggi la dislessia è un campo di studi interdisciplinare che coinvolge varie discipline come la neurobiologia e la linguistica. Una collaborazione tra gli studiosi delle diverse discipline è necessara al fine di conseguire i migliori risultati nll’ambito di questo disturbo dell’apprendimento. 3 Per un ulteriore approfondimento delle teorie proposte e dell’evoluzione della ricerca sulla dislessia vedi Guardiola, J.G. (2001). 11 1. 3 Le principali teorie sulla dislessia evolutiva 1.3.1 La teoria del deficit fonologico La teoria più conosciuta sulla dislessia evolutiva è la teoria del deficit fonologico. Questa teoria presuppone che ciò che è danneggiato negli individui dislessici sia la rappresentazione, l’immagazzinamento e/o il recupero dei suoni del parlato (Ramus 2003). Un pre-requisito necessario per imparare a leggere è l’acquisizione delle corrispondenze grafema-fonema del sistema alfabetico. In altre parole, un bambino deve scoprire la connessione tra lettere e suoni costitutivi del parlato. Le teorie spiegano la dislessia sostenendo il fatto che, se i suoni del parlato hanno rappresentazione, immagazzinamento e recupero deboli, questo porterebbe come risultato ad una comprensione insufficiente delle corrispondenze grafema-fonema della lingua. I sostenitori della teoria del deficit fonologico credono che la fonologia abbia un ruolo centrale e causale nella dislessia, suggerendo un legame diretto tra deficit cognitivo e problema comportamentale. La teoria del deficit fonologico è sostenuta da numerosi studi che hanno verificato la presenza nei dislessici di performance di basso livello nella loro consapevolezza fonologica. Per consapevolezza fonologica si fa riferimento alla consapevole capacità di segmentazione e manipolazione dei suoni del parlato. Un tipico esempio di consapevolezza fonologica è la capacità di analizzare le parole in segmenti consonantici e vocalici. Secondo Snowling (2001) anche una memoria verbale a breve termine povera e una lenta nominazione automatica (slow automatic naming) indicano la presenza di un deficit fonologico. A livello neurologico, studi condotti attraverso l’uso di fMRI (Pugh et al., 2000, Shaywitz et al., 2002) e studi anatomici (Galaburda et al., 1985) suggeriscono che una disfunzione congenita delle aree perisilviane sinistre del cervello sia alla base del deficit fonologico. Nella sua versione più forte la teoria sostiene che il deficit cognitivo nella dislessia sia specifico della fonologia. Questa tesi ha causato un dibattito tuttora in corso. Gli studiosi che mettono in dubbio la teoria del deficit fonologico sostengono che la dislessia sia un disturbo di più ampia portata rispetto a quello che la teoria suggerisce, con la sua origine in processi generali sensoriali, motori e di apprendimento. Non è messa in discussione l’esistenza di problemi fonologici nella dislessia , ma si sostiene che questi problemi rappresentino soltanto un aspetto di un disturbo più generale. Ad esempio, il deficit fonologico potrebbe essere secondario ad un deficit di tipo uditivo. Questa visione forma le basi della prossima teoria. 12 1.3.2. La teoria del deficit di processing temporale L’ipotesi di un deficit di processing temporale (conosciuta anche come rapid auditory processing theory) mette in dubbio la specificità del deficit fonologico della dislessia sostenendo che i problemi fonologici deriverebbero da un deficit di tipo uditivo (Tallal et al., 1993). Allo stesso modo della teoria fonologica, la teoria dell’elaborazione uditiva sostiene che ciò che sta al centro della dislessia sia un deficit cognitivo. Originariamente, Tallal introdusse la teoria del deficit di processing temporale negli anni settanta come una spiegazione del disturbo specifico del linguaggio, 4 ma successivamente suggerì che essa potesse anche spiegare i problemi dei dislessici. La principale idea di questa teoria è che la dislessia sia il risultato di un disturbo di processing uditivo del linguaggio nella sfera temporale . La conseguenza di un deficit di processing temporale è che i bambini che ne sono colpiti non hanno la piena capacità di percepire ed elaborare eventi acustici brevi o che variano rapidamente, incluso quelli cruciali nel riconoscimento dei suoni del parlato. Secondo Tallal et al. (1993) l’incapacità di rappresentare suoni brevi e transizioni veloci causerebbe ulteriori difficoltà, in particolare quando tali eventi acustici rappresentano contrasti fonemici (come in ′ba′ e ′da′). Questa tesi è compatibile con varie indicazioni sulla presenza di rappresentazioni del suono del parlato difettose nei bambini dislessici (Liberman, 1973). Il deficit di processing uditivo è ulteriormente supportato dagli studi condotti da Tallal e i suoi colleghi sui dislessici. Questi studi confermano una performance di livello basso su compiti uditivi come la discriminazione dei suoni, il temporal order judgement e il mascheramento 5 (backward masking). 6 1.3.3 La teoria cerebellare I problemi riscontrati nei dislessici non sono confinati alla sola lettura. Sembra infatti che i dislessici abbiano un danno generale alla loro capacità di eseguire abilità in modo automatico. Si pensa che questa abilità dipenda dal cervelletto. La teoria cerebellare (Fawcett & Nicolson, 2004) ha una base biologica e sostiene che il cervelletto dei dislessici sia lievemente disfunzionale. Di 4 Specific Language Impairment o disturbo specifico del linguaggio (SLI) è un disturbo evolutivo del linguaggio che si manifesta con un insuccesso da parte del bambino nell’acquisire la propria lingua in modo appropriato nonostante un’intelligenza non verbale nella norma, udito normale, nessun problema emotivo o sociale. Tratterò in modo approfondito di questo argomento nel capitolo secondo. 5 Il backward masking o mascheramento all’indietro è un effetto che si verifica quando un suono a basso livello viene seguito da un suono a livello sensibilmente più alto e il secondo cancella il primo alla percezione. E’ un effetto che si sviluppa nell’arco di decine di millisecondi, ed è ovviamenete dipendente dalle frequenze dei segnali coinvolti. (definizione tratta da http://www.ismprofessional.net/pascucci/documenti/suono-tempo/x357.html). 6 Recentemente alcune ricerche hanno messo in discussione i risultati di Tallal. Essenzialmente , ci sono stati dei fallimenti nel replicare i risultati di deficit di processing temporale visivo nello SLI e nella dislessia (vedi McArthur & Bishop, 2001 per un approfondimento). 13 conseguenza risulterebbero una serie di difficoltà cognitive. Il cervelletto, infatti, gioca un ruolo importante nel controllo motorio e, di conseguenza, nell’articolazione del parlato. Fawcett e Nicolson spiegano i problemi fonologici nei dislessici sostenendo che un’articolazione disfunzionale porterebbe a rappresentazioni fonologiche impoverite. Inoltre, il cervelletto gioca un ruolo importante nell’automatizzazione di abilità come il typing, la guida e la lettura. Si riporta che i soggetti dislessici hanno difficoltà con l’automatizzazione di tali abilità. Secondo Fawcett & Nicolson (2004) una debole capacità di automatizzare comprometterebbe (tra le altre cose) l’acquisizione delle corrispondenze grafema-fonema. La teoria cerebellare è corroborata dal fatto che i soggetti dislessici hanno difficoltà con diversi compiti motori, nell’esecuzione di due compiti simultanei ed hanno problemi di percezione del tempo (un compito cerebellare di tipo non motorio). 1.3.4 La teoria magnocellulare La teoria magnocellulare (Stein et al., 2001) è stata proposta come una teoria unificante, che cerca di integrare tutti i risultati delle teorie menzionate sopra. Inoltre, essa spiega il deficit visivo riportato nella dislessia. La teoria magnocellulare suggerisce che uno sviluppo danneggiato di un sistema di neuroni nel cervello (le magnocellule) può essere responsabile sia per la rielaborazione visiva e acustica sia per i problemi tattili trovati nei dislessici. La teoria magnocellulare spiega le difficoltà visive nella dislessia suggerendo che i soggetti dislessici hanno poco controllo sul movimento oculare. Stein e i suoi colleghi credono che questo insufficiente controllo sia causato da uno sviluppo non corretto del sistema magnocellulare. Il sistema magnocellulare connette la retina ai lobi occipitale e parietale e così permette all’informazione trasmessa dall’occhio di essere elaborata dalle aree del cervello. Le magnocellule giocano un ruolo cruciale in diverse elaborazioni visive, come ad esempio nello scorgere il movimento, la direzione del movimento e il controllo del movimento oculare. Il movimento del controllo oculare è di particolare importanza nella lettura. Secondo Stein et al. (2001), uno sviluppo danneggiato del sistema magnocellulare può causare un controllo oculare instabile durante la lettura, e questo spiegherebbe le immagini movimentate e offuscate riportate da molti dislessici. Queste immagini mosse/sfocate causerebbero una confusione visiva dell’ordine delle lettere nei dislessici. E questo, a sua volta, porterebbe ad una memoria povera della forma visiva delle parole e ad un impedimento nell’acquisizione di abilità ortografiche. 14 La teoria magnocellulare spiega i problemi uditivi/fonologici nei dislessici suggerendo un danno nel sistema uditivo equivalente a quello del sistema magnocellulare visivo. Nel sistema uditivo non esiste un insieme anatomicamente distinto di magnocellule, tuttavia alcuni neuroni che si trovano nella via uditiva sono specializzati nell’elaborazione delle transizioni acustiche. Le transizioni acustiche sono cambiamenti nella frequenza, ampiezza e fase dei suoni. Un’ elaborazione ottimale della frequenza e dell’ampiezza delle transizioni è essenziale per riuscire a distinguere tra i suoni diversi delle lettere. Secondo Stein et al. (2001) il riconoscimento della frequenza e dell’ampiezza di queste transizioni è essenziale per soddisfare le richieste fonologiche della lettura. Uno sviluppo danneggiato dell’elaborazione delle transizioni uditive può portare ad una confusione uditiva dei suoni delle lettere e così ad un impedimento nell’acquisizione delle abilità fonologiche. La teoria magnocellulare spiega i deficit cerebellari nei dislessici suggerendo il fatto che il cervelletto riceve un vasto input da vari sistemi magnocellulari nel cervello. Per questo, il cervelletto sarà colpito da un difetto magnocellulare generale. I dati fisici più forti che implicano un deficit della via magnocellulare nella dislessia provengono da uno studio post-mortem di cinque cervelli di soggetti dislessici. Questi studi mostrano che le magnocellule nei relativi nuclei talamici sono alterate e più del 20% di esse sono di più piccole dimensioni rispetto alle cellule di un cervello normale ( Galaburda et al., 1994). Sebbene i risultati mostrino un difetto nella via magnocellulare, gli studiosi stanno ancora cercando di capire quale ruolo questo difetto possa avere nei disturbi della lettura e dell’apprendimento. Essi credono che la risposta sia nelle regioni parietali e temporali della corteccia, visto che entrambi elaborano l’informazione magnocellulare. In particolare, la corteccia posteriore parietale è coinvolta nell’attenzione visuo-spaziale, nella visione periferica, nel controllo del movimento oculare e nelle abilità che in generale richiedono attenzione. Avere la capacità di controllare i propri movimenti oculari e l’attenzione per avere e mantenere una buona concentrazione è cruciale nelle abilità di lettura e apprendimento. In poche parole, le cause delle difficoltà dei dislessici possono essere divise in due gruppi: da un lato, la teoria fonologica dice che la dislessia è dovuta ad un deficit di tipo fonologico, dall’altro la teoria magnocellulare dice che l’incapacità di leggere è dovuta a deficit generali sensoriali, ad esempio di tipo visivo, uditivo e motorio. Gli studi neurologici, comunque, hanno mostrato che una disfunzione sensomotoria generale non può essere considerata responsabile della dislessia: danni al sistema visivo, uditivo, motorio 15 sono presenti soltanto in una parte della popolazione dei dislessici e non possono spiegare il deficit fonologico, che invece è presente in tutti i dislessici. 1.4 Teorie della dislessia evolutiva: alcuni commenti Nonostante la ricerca sia sempre stata intensiva negli ultimi due decenni, il dibattito sulle cause biologiche e cognitive che stanno alla base della dislessia evolutiva rimane piuttosto acceso. Molte delle teorie proposte mostrano dei limiti in quanto non sono in grado di dare una spiegazione per tutti i sintomi associati alla dislessia. La maggior debolezza della teoria fonologica risiede nel fatto che essa non spiega la presenza di deficit sensoriali e motori nei soggetti dislessici. Anche la teoria cerebellare non sa spiegare i deficit sensoriali. Fawcett & Nicolson (2001) proposero l’esistenza di due sottotipi di dislessia per spiegare la presenza di sintomi di diverso tipo: potrebbe essere che alcuni dislessici soffrano di un danno al cervelletto mentre altri di un danno alla via magnocellulare. Questo è plausibile, ma c’è un altro problema con la teoria cerebellare: ossia che la relazione causale postulata tra articolazione e fonologia si basa su una versione ormai superata della percezione del parlato, secondo la quale lo sviluppo delle rappresentazioni fonologiche si baserebbe sull’articolazione del parlato. Questa visione è stata abbandonata da tempo alla luce dell’esistenza di casi in cui vi è uno sviluppo fonologico normale nonostante la presenza di una severa disartria 7 o aprassia. 8 Inoltre non è certa la proporzione dei dislessici che presentano problemi di tipo motorio. E’ stato suggerito che problemi di questo tipo sono presenti soltanto nei dislessici che soffrono anche di sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). A prima vista la teoria magnocellulare sembra la più avvincente, ma le predizioni di questa teoria riguardo all’elaborazione visiva e uditiva sono andate incontro a diverse critiche. Per quanto riguarda il deficit uditivo, il problema maggiore è che diversi ricercatori non sono riusciti a replicare i risultati di deficit uditivo nella dislessia (Heath et al., 1999; Hill et al., 1999; McArthur & Hogben, 2001). Nel migliore dei casi, quando sono stati trovati problemi uditivi, questi problemi erano presenti soltanto in un piccolo gruppo della popolazione studiata. Un’ulteriore critica proviene dal fatto che i risultati di molti studi sono incompatibili con l’idea che il deficit uditivo (quando è presente) si trovi nell’elaborazione uditiva “rapida” (e pertanto all’interno di una funzione magnocellulare). Un altro 7 La disartrìa è un disturbo disfasico caratterizzato dalla difficoltà nell’articolare le parole: è dovuta alla lesione delle vie nervose che conducono ai muscoli deputati alla fonazione e all’articolazione della parola. 8 L’aprassia è la perdita della capacità di eseguire sequenze motorie apprese con l’esperienza, in assenza di disturbi elementari del movimento. 16 argomento, suggerito da Bishop et al. (1999) è che i deficit di tipo uditivo non predicono deficit fonologici, come invece è stato sostenuto da Tallal. Per quanto riguarda il deficit visivo della teoria magnocellulare, le critiche si concentrano sull’insuccesso nel replicare i risultati di deficit visivo (Johannes et al., 1996; Victor et al., 1993) e sull’inconsistenza tra le predizioni della teoria e i risultati empirici. In particolare si è osservato che i deficit visivi, quando presenti, non erano soltanto quelli caratteristici del sistema magnocellulare ma erano anche di diversa natura. La critica più forte alla teoria magnocellulare è che deficit specifici magnocellulari sono stati trovati soltanto in un sottogruppo di dislessici (Ramus et al., 2003). In definitiva, potrebbe essere vero che le teorie discusse e i loro profili possano adattarsi a diversi individui. Questo implicherebbe l’esistenza di una certa sovrapposizione tra i diversi sottotipi di dislessia. Oppure potrebbe essere che una singola teoria possa andare bene per tutti i soggetti dislessici, e che le altre manifestazioni osservate agiscano come marcatori piuttosto che come fattori causativi. Tuttavia diverse questioni rimangono. Ad esempio, non è ancora chiara la proporzione dei dislessici che hanno un dato deficit e se esistano dissociazioni o associazioni sistematiche tra diversi tipi di deficit. 1.5 Doppia dissociazione tra disturbi sensomotori e difficoltà di lettura Ramus (2003) ha cercato di rispondere a queste domande. Ha sottoposto ad indagine 16 dislessici e 16 soggetti controllo (tutti studenti universitari) su una batteria completa di test psicometrici, fonologici, uditivi, visivi e cerebellari. I dati rivelano che tutti i 16 dislessici avevano un deficit fonologico, 10 avevano un deficit uditivo, 4 un deficit motorio e 2 un deficit visivo magnocellulare. La conclusione di Ramus (2003) è che il deficit fonologico può occorrere in assenza di un qualsiasi altro disturbo motorio/sensoriale e che il deficit fonologico è sufficiente a causare problemi di lettura. I deficit uditivi, quando presenti, aggravavano fino ad un certo punto il deficit fonologico. Di grande rilievo, inoltre, è il fatto che i problemi uditivi non potevano essere classificati come deficit di rapida elaborazione uditiva o come deficit percettivi del parlato. Piuttosto, all’interno del gruppo dei dislessici, il tipo di performance uditiva, buona o meno buona, era più o meno casuale. Sono stati trovati problemi motori in 4 dislessici, ma i risultati ottenuti sulla percezione del tempo e su un esercizio di equilibrio non supportano l’idea di un deficit nel cervelletto. Inoltre Ramus (2003) non ha 17 trovato un’influenza della performance motoria/cerebellare sulla fonologia o sulla lettura, mettendo in dubbio il ruolo causale del cervelletto nella dislessia. Deficit uditivi di natura magnocellulare risultarono presenti soltanto in due studenti. Questa bassa incidenza e il fatto che i deficit visivi fossero presenti assieme a deficit fonologici e uditivi rendono difficile valutare se i deficit visivi diano un contributo indipendente alla dislessia. Così Ramus (2003) concluse che non c’è un’evidente dimostrazione che deficit uditivi, visivi e motori causino la dislessia. Uno studio più recente, condotto da White et al. (2006) investiga proprio le disfunzioni sensomotorie (visive, uditive, motorie) che si accompagnano al deficit della lettura. White condusse un esperimento: somministrò una serie di test di lettura, uditivi, visivi, fonologici e motori a un gruppo di bambini dislessici, a un gruppo di autistici e a un gruppo di controllo di pari età. Come confermato da precedenti studi, è emerso che solo una parte dei bambini dislessici aveva deficit sensomotori e questo suggerì che esiste una doppia dissociazione tra deficit sensomotori e di lettura. Quindi, disfunzioni a livello di sistema visivo, uditivo e motorio non possono essere ritenute responsabili del deficit fonologico nei dislessici. Inoltre, i disturbi sensomotori trovati nei dislessici sono estesi anche ai bambini che soffrono di autismo (ADS), i quali non presentano necessariamente difficoltà nella lettura e nell’apprendimento di abilità di scrittura. In totale, vennero comparati 23 dislessici con 22 autistici e 22 normo-lettori tra gli 8 e i 12 anni di età su diversi tipi di abilità. I risultati degli esperimenti hanno mostrato che non solo non vi era alcuna relazione tra deficit sensomotori e difficoltà di lettura ma inoltre che esisteva una doppia dissociazione tra questi due domini. Infatti tra i 23 dislessici 12 mostrarono un’evidente difficoltà di lettura senza alcun deficit sensomotorio, dimostrando che solo una parte dei dislessici sono colpiti da queste difficoltà. Inoltre, se disturbi sensomotori fossero responsabili delle difficoltà di lettura, ogni bambino con questo tipo di disturbo dovrebbe avere difficoltà nell’acquisizione della lettura. Tuttavia questa predizione è falsificata dalla presenza di individui che soffrono di deficit sensomotori, ma la cui competenza di lettura è completamente preservata. Questi risultati indicano che disturbi sensomotori e della lettura sono doppiamente dissociabili. Tuttavia, anche se i deficit sensomotori non sono responsabili delle difficoltà nella lettura, è significativo che, come mostra l’esperimento di White et al., sono presenti in maniera maggiore nei dislessici e negli autistici, piuttosto che nei soggetti controllo. Una possibile spiegazione è che i disturbi sensomotori siano marcatori non-specifici di disturbi neuroevolutivi, piuttosto che cause di deficit di lettura. 18 1.6 L’elaborazione fonologica nei soggetti dislessici Abbiamo visto che gli ultimi due decenni di ricerca (da Vellutino, 1979 a Snowling, 2000) hanno fermamente stabilito l’idea che un ruolo centrale causale della dislessia evolutiva sia svolto da un deficit di tipo fonologico. Ricordiamo, infatti, che finora gli studi confermano che il 100% della popolazione dei dislessici presenta difficoltà nell’elaborazione fonologica. La teoria fonologica della dislessia implica che questo disturbo derivi da un danno specifico delle rappresentazioni e delle elaborazioni fonologiche. Anche le altre teorie, inoltre, ammettono l’esistenza di un deficit fonologico e discutono sulla sua specificità: infatti cercano di spiegare il deficit fonologico attraverso disfunzioni più generali di tipo sensoriale e di apprendimento (Nicolson and Fawcett, 1990; Stein and Walsh, 1997; Tallal et al., 1993). Sebbene, quindi, la nozione di deficit fonologico sia ampiamente accettata all’interno della comunità che si occupa della dislessia, è opportuno osservare che il locus esatto e la natura di questo deficit deve essere ancora definito esplicitamente. Sono state proposte diverse versioni di ipotesi di deficit fonologico, come ad esempio la phonological representation hypothesis (Goswami, 2000), la distinctness hypothesis (Elbro, 1996) e la sub-lexical deficit hypothesis (Ramus 2001). La supposizione di base di tutti questi modelli è che rappresentazioni fonologiche deboli siano la caratteristica centrale della dislessia. In poche parole l’ipotesi di deficit fonologico ritiene che bambini e adulti affetti da dislessia abbiano una persistente difficoltà nel costruire, mantenere e recuperare le rappresentazioni fonologiche. Queste sono state variamente definite come ‘olistiche’, ‘deboli’, ‘fragili’, ‘indistinte’, ‘sottospecificate’. In altre parole, il modo in cui il loro cervello codifica la fonologia è meno efficiente rispetto ai normolettori. Questo problema causa una varietà di sintomi a livello comportamentale, come ad esempio difficoltà nella memoria verbale a breve termine, nella ripetizione di non-parole, nella consapevolezza fonologica, nell’acquisizione fonologica di nuova informazione verbale, nel recupero delle parole, nei test di denominazione rapida. Le rappresentazioni fonologiche facilitano lo sviluppo della lettura; le associazioni ortografico-fonologiche avvengono nel momento in cui emergono le rappresentazioni fonemiche. Di conseguenza, rappresentazioni povere porterebbero ad uno sviluppo non appropriato della capacità di lettura. L’ipotesi di deficit fonologico incorpora fattori di performance individuali, fattori di compensazione e il concetto di severità. Ad esempio afferma che l’impatto del deficit fonologico possa essere in qualche modo moderato dalle risorse del bambino in altre abilità cognitive. La severità del deficit fonologico è parzialmente determinata dall’interazione con altre abilità 19 cognitive, come quelle semantiche, visive e sintattiche. Questi fattori possono moderare o aggravare il deficit. La severità del risultante disturbo fonologico determinerebbe il grado delle difficoltà di lettura. Il deficit fonologico sembra essere presente nelle lingue del ‘mondo occidentale’ con un’ortografia alfabetica, sebbene ci siano differenze tra le performance di lettura dei dislessici di lingue diverse, in relazione alla complessità dell’ortografia della lingua nativa. La presenza di un deficit fonologico è stata trovata anche in lingue non-alfabetiche come il cinese (Suk-Han Ho, law & Ng, 2000), ma non è ancora stato studiato ampiamente. L’ipotesi di deficit fonologico è limitata in quanto non cerca di spiegare le performance povere sui fenomeni fonologici, ma spiega solamente il contributo della fonologia alla lettura. Gli studi sul deficit fonologico si sono finora concentrati su processi fonologici di alto livello, come la consapevolezza fonologica, o di basso livello come le abilità percettive che coinvolgono la discriminazione e la categorizzazione dei suoni del parlato. Ma nella fonologia c’è molto più della consapevolezza fonologica e della percezione categoriale: l’acquisizione e la produzione dei suoni del parlato, delle strutture dei suoni, come anche le operazioni on-line sulle rappresentazioni fonologiche appartengono al dominio della fonologia. Generalmente questi aspetti non hanno ricevuto molta attenzione, nonostante le indicazioni che l’acquisizione della fonologia non si svolga in modo appropriato nei bambini a rischio di dislessia. 9 Se la dislessia è caratterizzata da rappresentazioni fonologiche povere, allora lo sviluppo fonologico dovrebbe risultare più difficile per bambini con (rischio di) dislessia che nei bambini con normale sviluppo. La maggior parte degli studi sul deficit fonologico non fanno riferimenti espliciti all’acquisizione fonologica. Soltanto una ipotesi di deficit fonologico prende in considerazione le analisi sull’acquisizione fonologica: la sub-lexical deficit hypothesis (Ramus 2001, Szenkovits & Ramus 2005). Quest’ ipotesi propone che, se le rappresentazioni fonologiche sono povere nei bambini con dislessia, queste dovrebbero essere rintracciabili nella loro acquisizione fonologica, dal momento che le rappresentazioni fonologiche includono anche strutture fonologiche acquisite della lingua nativa. In questo modello l’acquisizione delle strutture fonologiche specifiche di una lingua e delle loro regole avviene attravero un livello sub-lessicale che contiene qualsiasi informazione che può essere rappresentata in formato fonologico, ossia parole, articolazioni complete di frasi e sequenze senza significato di fonemi. Vediamo nel dettaglio il modello cognitivo di accesso lessicale proposto da Ramus (2001) per capire meglio la sua ipotesi di deficit sub-lessicale. 9 I bambini a rischio di dislessia sono bambini con almeno un genitore o un fratello con dislessia. 20 1.7 Un modello generale di accesso lessicale Generalmente gli esercizi somministrati ai soggetti per accertare la presenza di un deficit fonologico riguardano la percezione del parlato, la produzione orale, la lettura, la scrittura e il riconoscimento di oggetti. Il modello proposto da Ramus (2001), e presentato nella Figura 1, integra tutte queste componenti cognitive che si ritiene siano alla base di queste abilità. E’ da premettere che ci sono altri aspetti cognitivi, non presenti nel modello, che intervengono durante l’esecuzione di tali abilità: ad esempio l’attenzione, la consapevolezza e la memoria operativa. 10 L’ipotesi principale sostenuta da Ramus ed enfatizzata dal suo modello è che le forme fonologiche di elementi lessicali sono distinte dalle rappresentazioni fonologiche non-lessicali: ci troviamo di fronte quindi a due livelli diversi, ossia una fonologia lessicale ed una sub-lessicale. I due livelli hanno diverse funzioni: il lessico fonologico è un magazzino permanente per le forme delle parole, e soltanto per queste. Mentre la rappresentazione fonologica sub-lessicale è un magazzino a breve termine per qualsiasi elemento rappresentato in forma fonologica, ossia parole, frasi e sequenze senza significato di fonemi (le cosiddette non-parole). La presenza dei due livelli è dimostrata dal fatto che i bambini, molto prima di imparare le loro prime parole, mostrano una percezione categoriale dei fonemi e possiedono una certa familiarità con alcune strutture fonotattiche e allofoniche della loro lingua nativa. In poche parole, la rappresentazione fonologica sub-lessicale si sviluppa durante il primo anno di vita; mentre l’incorporazione dei dettagli fonologici rilevanti nelle rappresentazioni lessicali dipende dall’apprendimento delle parole, che avviene negli anni successivi. Dai risultati degli studi finora condotti sui soggetti dislessici si evince che questi hanno una performance peggiore rispetto ad un gruppo di controllo sia nella lettura di non-parole, sia nella lettura di parole irregolari. Questo suggerisce un difetto: (1) della via ortografico/fonologica e/o della via sub-lessicale e (2) del lessico ortografico. Quest’ultimo però potrebbe essere un effetto secondario dovuto ad una esposizione ridotta alla lettura. Inoltre i dislessici mostrano difficoltà nella ripetizione sia di parole che di non parole, suggerendo che almeno la fonologia sub-lessicale sia danneggiata, e probabilmente anche il lessico 10 A questo proposito si veda la sezione 8 nella quale viene presentato uno studio dove il danno fonologico viene valutato senza l’interferenza di fattori estranei come la memoria e l’attenzione. 21 Figura 1: il modello di accesso lessicale proposto da Ramus. fonologico. Molti esperimenti che testano le abilità metafonologiche coinvolgono altre abilità e livelli di rappresentazione, come la memoria operativa e l’attenzione. Per questo motivo risulta difficile interpretarne i dati; tuttavia ciò che sembra essere centrale a tutte queste abilità è ancora la rappresentazione fonologica sub-lessicale e la capacità di porre l’attenzione e manipolare quelle rappresentazioni ed i loro costituenti. Ancora, i dislessici mostrano difficoltà nel recuperare le forme fonologiche delle parole (in particolare sono più lenti rispetto al gruppo di controllo). In questo caso è difficile capire se il danno risiede nelle rappresentazioni lessicali o sub-lessicali, dal 22 momento che un deficit ad ognuno dei due livelli porterebbe a questo rallentamento nell’eseguire l’esercizio. E’ chiaro che tutte queste abilità coinvolgono diversi processi e livelli di rappresentazione, e per questo motivo nessuna abilità singola può dare informazioni sul luogo esatto del deficit. Tuttavia, l’insieme delle diverse abilità testate fornisce una dimostrazione del fatto che alcuni livelli di rappresentazione risultano danneggiati nella dislessia. Infatti, per poter spiegare questa serie di difficoltà, sembra necessario postulare che almeno la via fonologica sub-lessicale e la via ortografico-fonologica siano danneggiate. Forse il più grande paradosso dell’ipotesi del deficit fonologico consiste nel fatto che dovrebbe predire nei dislessici difficoltà nel parlato e nella comprensione orale, dal momento che queste coinvolgono sia le rappresentazioni lessicali sia le sub-lessicali; a prima vista non sembra essere questo il caso. Tuttavia è vero che i dislessici hanno alcuni problemi con la produzione del parlato e la percezione. Nella produzione questi si manifestano quando è richiesta un’elaborazione rapida, ad esempio negli esercizi di denominazione rapida. Nella percezione, sia il lessico che l’informazione contestuale possono permettere una compensazione per imprecise rappresentazioni fonologiche sub-lessicali. Questo è ciò che accade ai soggetti normali nel momento in cui ascoltano il parlato disturbato da qualche rumore. Si potrebbe predire che, in queste situazioni, i dislessici, avendo rappresentazioni fonologiche degradate, abbiano maggiori difficoltà rispetto ai soggetti controllo. E infatti, questo è ciò che accade. Inoltre, compatibilmente con l’ipotesi di deficit fonologico, i dislessici hanno delle sottili difficoltà nella percezione del parlato e nella produzione, ma sono talmente lievi da non essere notati nelle situazioni di vita quotidiana. Certamente può accadere che il deficit fonologico sia talmente severo da provocare evidenti difficoltà di linguaggio. In questo caso alcuni studiosi ritengono che sia più probabile che il bambino sia affetto da un disturbo specifico del linguaggio, piuttosto che solo da dislessia 11 . Finora abbiamo visto che ci sono due livelli per le rappresentazioni fonologiche, una lessicale e una sub-lessicale. L’ipotesi è che il livello sub-lessicale sia in qualche modo danneggiato molto presto (durante il primo anno di vita) per poter spiegare le diverse difficoltà che presentano i dislessici. Tuttavia non si sa ancora quale sia la precisa natura del disturbo. Imputare il disturbo ad un deficit di livello fonologico non è sufficiente. Infatti le rappresentazioni fonologiche non sono soltanto stringhe di fonemi, ma strutture gerarchiche. Ad un estremo possiamo trovare abilità più complesse e indirette come quelle meta-fonologiche, che coinvolgono diversi livelli di rappresentazione, attenzione, un certo carico di memoria, processi di tipo top-down, consapevolezza 11 La relazione tra dislessia e disturbo specifico del linguaggio sarà approfondita nel capitolo 2. 23 esplicita e manipolazione delle rappresentazioni. All’altro estremo troviamo abilità esclusivamente percettive, come la discriminazione fonemica e la categorizzazione. Tuttavia, tra i due estremi c’è un vasto campo ancora poco esplorato: ad esempio come avvengono i fenomeni di assimilazione in alcune lingue (come ad esempio in inglese), come avviene il processo produttivo della sillaba (costrizioni sulla sillaba comprendono molte costrizioni sulla possibile sequenza dei fonemi), l’accento e i toni, l’intonazione (quindi non solo gli aspetti segmentali ma anche soprasegmentali delle parole). Per ultima, una domanda: se i dislessici hanno rappresentazioni fonologiche sub-lessicali danneggiate, non dovrebbero avere anche difficoltà nell’acquisizione della fonologia della loro lingua nativa? 1.8 Lo sviluppo fonologico nei bambini a rischio di dislessia Bambini e adulti con dislessia hanno difficoltà nel codificare, mantenere in memoria, e recuperare le rappresentazioni fonologiche. Questa caratterizzazione è stata valutata prevalentemente attraverso misurazioni dei processi fonologici (richiesta di codificare, mantenere e recuperare le rappresentazioni fonologiche) e della consapevolezza fonologica (richiesta di un accesso conscio alle strutture fonologiche). L’acquisizione fonologica non ha ricevuto ancora molta attenzione. Il lavoro svolto finora, comunque, ha stabilito che l’acquisizione della fonologia è più danneggiata nei bambini a rischio di dislessia (Scarborough,1990; Carrol & Snowling, 2004). In particolare, gli studi svolti hanno confermato che le abilità di elaborazione fonologica nei bambini a rischio di dislessia (e bambini con dislessia) è compromessa. In modo particolare è danneggiata la consapevolezza fonologica, che risulta meno sviluppata nei dislessici rispetto ai non-dislessici. Tuttavia la ricerca è stata ristretta principalmente alla produzione dei suoni del parlato, e non ha tenuto in considerazione l’acquisizione degli aspetti soprasegmentali. Uno studio condotto da E. De Bree (2007) studia l’acquisizione fonologica nei bambini a rischio di dislessia. In questo studio l’acquisizione viene comparata non solo a quella di bambini con normale sviluppo ma, in alcuni esperimenti, anche a quella di bambini con disturbo specifico del linguaggio (SLI). Per il momento lasceremo da parte le considerazioni sulla relazione tra dislessia e SLI, mentre le riprenderemo in modo approfondito nel capitolo 2. In particolare De Bree si propone di investigare le componenti dell’acquisizione fonologica analizzando la produzione del parlato, la competenza riguardo l’accentuazione delle parole, e l’alternanza morfo-fonologica del plurale in Olandese. Queste abilità abbracciano diversi livelli 24 della fonologia (tra cui i tratti soprasegmentali), e forniscono una prova della portata del deficit fonologico. L’elaborazione e la consapevolezza fonologica sono misurate attraverso la ripetizione di non-parole e la sensibilità alla rima. Nell’esperimento vengono coinvolti due gruppi di età diverse. Un primo gruppo ‘baby’ (1;63;0) e un secondo gruppo ‘toddler’ (3;0-5;0) includono bambini normali e bambini a rischio di dislessia. Per quanto riguarda la produzione del parlato vengono trovate differenze sostanziali tra il gruppo a rischio di dislessia e il gruppo controllo soltanto per i ‘toddler’ 12 . Questo implica almeno un lieve ritardo nel comportamento fonologico del gruppo a rischio. Inoltre, più della metà dei bambini a rischio ha una performance peggiore rispetto al gruppo controllo, indicando che le difficoltà sono presenti in un numero sostanziale dei bambini a rischio. Questo risultato è in linea con il dato che il 30-60% dei bambini a rischio in seguito sarà diagnosticato dislessico. Il tipo di semplificazioni fonologiche suggeriscono un ritardo di acquisizione. Riguardo alla competenza sugli accenti i bambini a rischio mostrano maggiore difficoltà nell’imitare strutture irregolari o proibite e presentano una percentuale più bassa di fonemi corretti rispetto ai bambini controllo. Anche in questo caso si presuppone un ritardo di acquisizione degli accenti. L’esercizio sull’alternanza del plurale vuole valutare l’impatto di rappresentazioni fonologiche povere su un processo di tipo morfo-fonologico. In entrambi i gruppi l’alternanza risulta una strategia poco frequente, tuttavia si nota una differenza tra il gruppo a rischio e il gruppo controllo. Nella ripetizione di non parole si è visto che il 56% dei bambini a rischio ha una performance peggiore dei bambini controllo. Per ultimo, nell’esercizio di sensibilità alla rima, si è trovato che un terzo dei bambini a rischio ha problemi legati a questa abilità, ma le differenze rispetto ai bambini controllo sono molto sottili. Rispetto ai tipi di errori, l’analisi mostra che gruppo controllo e a rischio commettono errori simili. In generale i risultati indicano un lieve ritardo nell’acquisizione degli accenti, nella struttura metrica (l’eliminazione di sillabe deboli è più frequente nei bambini a rischio), nell’acquisizione della struttura sillabica, nei fonemi e i loro tratti, un ritardo che abbraccia molti livelli di rappresentazione. Sembra appunto che l’acquisizione della struttura della parole (metrica e struttura sillabica) e del suo contenuto (fonemi e tratti) sia più difficile per i bambini a rischio di dislessia che per i bambini controllo. Allo stesso tempo sembra che alcuni aspetti siano più difficili da apprendere che altri. L’alternanza del plurale è infatti simile per entrambi i gruppi mentre nell’assegnazione dell’accento e nella produzione del parlato i bambini a rischio mostrano maggiori 12 Un’interpretazione del fatto che non sono state trovate differenze tra i due gruppi ‘baby’ dei bambini a rischio di dislessia e controllo fu che a questa tenera età (2;6) anche i bambini con normale sviluppo stanno ancora acquisendo la loro fonologia. Le differenze possono essere visibili soltanto quando la fonologia di questi bambini è sviluppata. 25 difficoltà. Questi risultati mostrano che la nozione di ‘deficit fonologico’ sia troppo cruda, dal momento che si osservano distinzioni per livelli diversi di rappresentazione ad età diverse. 13 Dal momento che i risultati degli esperimenti condotti mostrano difficoltà in tutti i livelli, sembra che il deficit fonologico oscilli dai tratti dei fonemi al livello della parola. Inoltre ci si pone la domanda se differenze tra il gruppo a rischio e il gruppo di controllo possano essere trovate anche nel dominio della prosodia, nell’intonazione, nell’area morfo-fonologica e nella percezione del parlato. L’ipotesi di deficit sub-lessicale proposta da Ramus (2001) è l’unica ipotesi di deficit fonologico che include una prospettiva linguistica. I risultati riportati da De Bree mostrano che soltanto un approccio di questo tipo è essenziale per una migliore qualificazione del deficit fonologico e che questa ipotesi si adatta meglio alle osservazioni fatte piuttosto che l’ipotesi ‘tradizionale’ di deficit fonologico. Un’altra questione è se i risultati indicano una limitazione nell’elaborazione (quindi un problema di processing) o soltanto un ritardo nell’acquisizione del linguaggio. E’ difficile dividere le due parti, dal momento che una componente di elaborazione è sempre presente negli esperimenti riportati. L’ipotesi di deficit fonologico forse dovrebbe essere inclusa in un modello di apprendimento che tenga conto di entrambi gli elementi. 1.9 Danni fonologici specifici misurati con l’eyetracking Finora abbiamo detto che esiste un consenso crescente sul fatto che il deficit fonologico giochi un ruolo chiave nei problemi di lettura dei dislessici. La maggior parte degli studi condotti si focalizza sulla consapevolezza fonologica e utilizza pertanto esperimenti che valutano la capacità di identificare e manipolare i singoli fonemi nelle parole. Gli esercizi metalinguistici usati, come la cancellatura di un fonema, la segmentazione di fonemi o giudizi sulla rima, coinvolgono molti fattori estranei come l’attenzione e la memoria, che possono aggravare pesantemente la performance. Desroches et al. (2006) hanno presentato a questo riguardo un nuovo approccio per testare la conoscenza fonologica segmentale e soprasegmentale nei bambini usando la tecnica di eyetracking 14 in un esercizio di identificazione uditiva delle parole (auditory word recognition task). Nel loro studio viene detto ai bambini di osservare delle figure che compaiono su uno schermo visivo (Figura 2). Oltre ad una figura target (ad esempio candle) a volte è presente un 13 Per maggiori dettagli vedi De Bree, E., (2007). Eyetracking è una tecnica che permette di misurare l’elaborazione linguistica attraverso il monitoraggio del movimento oculare. 14 26 competitore cohort 15 (ad esempio candy) e un competitore di rima (ad esempio sandal), queste figure sono inserite tra altri distrattori che non hanno relazioni fonologiche con i precedenti (ad esempio flower). Lo studio si basa sull’ipotesi che i movimenti oculari siano legati all’elaborazione lessicale, ad esempio fissare una figura target per un certo tempo rifletterebbe un’attivazione lessicale delle parole. Solitamente gli individui normali adulti sono più lenti nel fissare una figura target quando sono presenti dei distrattori cohort o di rima. A partire da questo fenomeno Desroches et al. hanno cercato di esaminare l’organizzazione dell’attacco e delle rime delle parole nei bambini affetti da dislessia evolutiva. E’ stato ipotizzato che il monitoraggio oculare avrebbe rivelato differenze nella durata del riconoscimento uditivo della parola in questi bambini rispetto ai normolettori. Figura 2. Esempio tratto dall’esperimento con eyetracking. Ai bambini vengono presentate alcune serie di quattro oggetti e viene detto loro di guardare una figura target (es. Candle). Alcune volte, le immagini distrattrici includono un distrattore cohort, oppure sia un distrattore cohort sia uno di rima. (A) Baseline: CANDLE, PARROT, FLOWER, TOWER; (B) Cohort: CANDLE, CANDY, PARROT, TOWER; (C) Rhyme: CANDLE, SANDAL, PARROT, TOWER; (D) Cohort + Rhyme: CANDLE, CANDY, SANDAL, TOWER. 15 Un competitore cohort in questo caso è una parola che inizia con lo stesso suono di un’altra. 27 I risultati mostrano che in normali circostanze l’identificazione uditiva delle parole nei dislessici non è sensibilmente differente da quella dei normo-lettori della stessa età. Entrambi i gruppi mostrano la stessa velocità dei movimenti oculari quando sono presenti competitori non relazionati con la parola target (ossia nella baseline condition), suggerendo che l’abilità di identificare parole uditive in isolamento è simile nei due gruppi. Inoltre, sia i bambini dislessici che i bambini controllo mostrano un rallentamento nella velocità oculare quando è presente un competitore cohort, indicando che entrambi i gruppi sono sensibili a questo tipo di sovrapposizione fonologica nelle parole. Tuttavia, mentre il gruppo di controllo mostra un riconoscimento tardivo (più lento) quando è presente un distrattore di rima, il gruppo dei dislessici si comporta esattamente come nella performance baseline. Questi risultati suggeriscono che i dislessici percepiscono un’informazione segmentale delle parole in sufficiente dettaglio per identificare rapidamente le parole udite; tuttavia sono molto meno sensibili alle relazioni di rima tra le parole. Questo supporta i risultati di precedenti studi che indicano una tendenza dei bambini dislessici ad essere più sensibili all’informazione segmentale mentre i normo-lettori categorizzerebbero gli stimoli uditivi basandosi sia sulle proprietà segmentali delle parole, sia su quelle soprasegmentali (Kirtley, Bryant, MacLean, & Bradley, 1989). I risultati quindi indicano una divergenza basilare nel modo in cui bambini dislessici e controllo elaborano la struttura fonologica delle relazioni di rima nelle parole. Inoltre, comparando i risultati ottenuti con la tecnica di eyetracking con quelli ottenuti dai test tradizionali di consapevolezza fonologica si notano delle incongruenze. Infatti, mentre i dislessici mostrano un’elaborazione anormale delle rime durante l’esercizio con la tecnica di eyetracking, la loro performance in un giudizio di rima risulta simile a quella dei bambini controllo. In modo analogo, il test tradizionale sui suoni iniziali delle parole suggerisce una difficoltà maggiore per i dislessici nell’identificare le parole che sono cohort, mentre nell’esercizio con eyetracking questo effetto non si presenta. Questi risultati mostrano, per quanto riguarda la rima, la forza dell’eyetracking: questa tecnica infatti sarebbe in grado di identificare impercettibili deficit di elaborazione che non sono distinguibili usando metodi off-line. E’ inoltre interessante il fatto che i dislessici ottengano un punteggio più basso nel test di giudizio dei suoni iniziali delle parole mentre mostrano un comportamento normale con la misurazione on-line dell’eyetracking. Secondo Desroches è possibile che i loro problemi nel giudicare i suoni iniziali delle parole siano dovuti ad una difficoltà nell’applicare la conoscenza fonologica in modo esplicito, piuttosto che a un defict di elaborazione on-line. Se questo fosse il caso, questi problemi metafonologici sarebbero periferici al deficit di elaborazione fonologica, il quale effettivamente avrebbe un ruolo causale nella dislessia. 28 1.10 Per riassumere In questo capitolo ho presentato la dislessia evolutiva come un disturbo che colpisce la lettura nei bambini in età scolastica. Ne ho dato una definizione appropriata e ho presentato i criteri utilizzati dagli specialisti per una corretta diagnosi. Dopo averne tracciato sommariamente la storia, mi sono soffermata sulle principali teorie che tentano di spiegare i sintomi della dislessia; queste si possono suddividere in due gruppi: da una parte troviamo quelle teorie che spiegano la dislessia come conseguenza di un deficit di tipo fonologico, dall’altra troviamo invece quelle teorie che spiegano i deficit nei dislessici come conseguenze di deficit più generali di tipo senso-motorio. Successivamente ho commentato le varie teorie, tenendo conto di un’importante dato di fatto: ossia che i diversi sintomi osservati nei bambini dislessici (difficoltà di lettura e disturbi senso-motori) non sono necessariamente compresenti ma esiste tra i due tipi di sintomi una doppia dissociazione. Di qui la constatazione che nessuna delle teorie presentate riesce a spiegare la varietà di sintomi presenti nella dislessia evolutiva. Mi sono soffermata, poi, sull’aspetto centrale della dislessia: la fonologia. Dal momento che il 100% dei bambini dislessici mostra un deficit fonologico ho cercato di approfondire l’argomento, presentando la teoria di Ramus, la sub-lexical deficit hypothesis, l’unica che prende in considerazione, oltre al modo in cui avviene l’elaborazione fonologica, anche l’aspetto dell’acquisizione della fonologia, andando ad indagare come avviene, appunto, lo sviluppo fonologico nei soggetti a rischio di dislessia. Per ultimo ho riportato uno studio interessante in cui i bambini venivano testati attraverso una tecnica particolare (eyetracking). A differenza degli altri esperimenti generalmente condotti sui bambini dislessici, questa tecnica permette di valutare i danni fonologici attraverso esercizi che non coinvolgono risorse come l’attenzione e la memoria, i quali è noto che potrebbero aggravare la performance. In questo modo viene accertata la presenza di danni fonologici non riconducibili a deficit attentivi e di memoria. 29 30 2. LA DISLESSIA E IL DEFICIT SINTATTICO: UN CONFRONTO CON IL DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO 2.1 Lo sviluppo sintattico nella dislessia evolutiva Attualmente la dislessia nei bambini viene diagnosticata solamente nel momento in cui, avendo ricevuto un’appropriata istruzione sulla lettura, questi bambini mostrano difficoltà più o meno gravi ma permamenti in questa abilità. Una situazione ideale sarebbe quella di identificare i bambini dislessici prima dei loro tentativi di imparare a leggere. Infatti un’identificazione e una diagnosi precoci darebbero la possibilità di intervenire per tempo, in modo da avere degli effetti positivi sull’abilità di lettura nei bambini affetti da questo disturbo. Negli ultimi due decenni questa idea ha ispirato gli studiosi a cercare i precursori della dislessia. Abbiamo visto infatti che sono stati condotti degli studi sulle abilità fonologiche nei bambini a rischio di dislessia e che i risultati indicano la presenza in questi bambini di abilità di processing fonologico compromesse. In modo particolare sembra che la consapevolezza fonologica (rappresentazione, recupero e analisi metalinguistica dell’informazione fonologica) sia meno sviluppata nei dislessici che nei nondislessici. Inoltre sono state trovate delle differenze tra il gruppo a rischio e il gruppo di controllo sulla conoscenza delle lettere, sulla cancellazione della consonante iniziale, sulla sensibilità alla rima e sull’abilità di denominazione rapida. Sembra quindi che i più forti predittori della dislessia risiedano in un deficit della consapevolezza fonologica. Tuttavia dai risultati ottenuti dagli studi condotti finora risulta che i bambini dislessici spesso hanno una storia di problemi linguistici più ampi in tenera età. Questo ha portato gli studiosi a credere che la dislessia abbia dei precursori linguistici e li ha indotti a studiare lo sviluppo del linguaggio e quindi anche della morfosintassi nei bambini con rischio genetico di dislessia. Hollis Scarborough (1990) condusse uno studio sui bambini a rischio di dislessia. Trovò che il 65% dei bambini nel suo campione di bambini a rischio poteva essere classificato dislessico all’età di 8 anni. Un’analisi retrospettiva delle loro abilità linguistiche nei primi anni di vita ha rivelato che avevano avuto maggiori difficoltà linguistiche rispetto ai loro compagni del gruppo di controllo. Queste difficoltà linguistiche sono cambiate con il tempo: all’età di 30 mesi, i bambini dislessici possedevano una gamma di item lessicali simile al gruppo di confronto, ma dimostravano di possedere un numero ristretto di strategie sintattiche e producevano più errori nella produzione del parlato. Comunque, all’età di 36 e 42 mesi, le proprietà di vocabolario dei bambini dislessici erano meno sviluppate di quelle del gruppo di controllo e le difficoltà sintattiche persistevano. All’età di 60 mesi i bambini dislessici mostravano mancanze nella consapevolezza fonologica, ma 31 le loro difficoltà sintattiche non erano più visibili. Secondo Scarborough il risultato più importante del suo studio conduce a pensare che l’abilità fonologica non era in grado di spiegare la variazione significativa nelle performance dei dislessici, ma che piuttosto l’abilità sintattica era l’unico indicatore della difficoltà di lettura. In un altro studio, Gallagher et al. (2000) hanno studiato 63 bambini a rischio di dislessia con un’età media di 45,68 mesi. Hanno trovato che almeno la metà dei bambini a rischio aveva difficoltà nei primi passi di sviluppo dell’abilità di lettura. Inoltre analisi retrospettive sul loro sviluppo linguistico suggerivano un leggero ritardo in tutti gli aspetti del linguaggio parlato. Compatibilmente con i risultati di Scarborough, ossia che l’abilità sintattica prescolare era un indicatore significativo della capacità di lettura a 8 anni, il fattore linguistico (lunghezza della frase come misura di competenza sintattica), nello studio di Gallagher, spiega la variazione nello sviluppo dell’abilità di lettura. Inoltre Gallagher ha trovato che i bambini a rischio riconoscevano meno lettere dei bambini controllo all’età di 45 mesi. Così non è ancora chiaro se la responsabilità dell’insuccesso nella lettura sia dovuta ad un aspetto specifico dell’abilità di linguaggio (come ad esempio l’elaborazione fonologica) o ad un più generale ritardo del linguaggio. Un altro studio interessante è quello condotto da Frank Wijnen presso l’Università di Utrecht, che mostra come la performance dei bambini a rischio di dislessia sia peggiore rispetto a quella di bambini controllo di pari età in abilità che richiedono la percezione e la produzione della morfologia grammaticale, la percezione categoriale dei suoni del parlato, l’elaborazione fonologica, il riconoscimento di errori di pronuncia e il riconoscimento delle rime. I comportamenti linguistici dei bambini a rischio di dislessia portano alla conclusione che la dislessia sia un disturbo specificamente linguistico, che probabilmente ha dei precursori nello sviluppo del linguaggio, anche in domini diversi da quelli tradizionalmente considerati centrali nel’acquisizione dell’abilità di lettura. Lo scopo del progetto era quello di tracciare lo sviluppo del linguaggio nei bambini a rischio di dislessia e compararlo a quello di un gruppo di bambini controllo. I risultati indicano chiaramente che i bambini a rischio mostrano un ritardo sistematico e consistente nello sviluppo del linguaggio: all’età di 19 mesi non riescono a discriminare tra frasi grammaticali e non grammaticali e le loro difficoltà persistono almeno nei sei mesi successivi. All’età di 4 anni la loro percezione categoriale delle consonanti occlusive è meno precisa rispetto al gruppo di controllo, mentre all’età di 4,6 hanno una performance peggiore nella ripetizione di non-parole. All’età di 5 anni mostrano un evidente ritardo nella consapevolezza fonologica e commettono più errori nell’identificazione di errori fonemici nella pronuncia. Questi dati confermano che i bambini a rischio di dislessia hanno difficoltà nell’elaborazione, nella rappresentazione dei suoni del parlato e nella manipolazione delle 32 forme fonologiche e sono compatibili con l’ipotesi che considera la dislessia un disturbo linguistico con basi genetiche. Ulteriori dimostrazioni di un ritardo nello sviluppo morfosintattico nei bambini a rischio di dislessia provengono da altri studi longitudinali. Lyytinnen et al. (2001) hanno osservato che un gruppo di bambini a rischio produceva frasi significativamente più corte (misurate in MLU 16 ) rispetto ad un gruppo di bambini controllo della stessa età (24 mesi). Wilsenach & Wijnen (2003) hanno testato la sensibilità all’accordo morfosintattico nei bambini olandesi a rischio di dislessia (di età dai 18 ai 23 mesi). Hanno comparato la sensibilità a frasi contenenti una combinazione grammaticale di ausiliare più participio passato (ad esempio heeft geslapen) e frasi contenenti una combinazione agrammaticale di modale più participio passato ( ad esempio *kan geslapen). I risultati mostrano che i bambini controllo avevano una preferenza significativa per la combinazione grammaticale, mentre i bambini a rischio di dislessia non avevano alcuna preferenza significativa nè per l’una nè per l’altra combinazione. Rispens (2004) ha riscontrato che i bambini a rischio di dislessia e bambini con dislessia sono meno sensibili all’ accordo soggetto-verbo rispetto ai normo-lettori. In particolare, i risultati indicano che i bambini a rischio di dislessia sono meno abili dei soggetti controllo nel discriminare frasi agrammaticali e frasi contenenti violazioni di accordo, inoltre questi bambini hanno un punteggio significativamente più basso nella consapevolezza fonologica e nella conoscenza passiva delle lettere. Gli stessi bambini sono stati testati un anno dopo le prime istruzioni sulla lettura e fu chiaro che i bambini con uno sviluppo anormale della capacità di lettura si differenziavano in modo significativo sulla sensibilità all’accordo soggetto-verbo, sulla conoscenza delle lettere e sulla consapevolezza fonologica, indicando che anche la sensibilità all’accordo soggetto-verbo è relazionata al successo nella lettura. Diversi studi, inoltre, hanno indagato le competenze sintattiche nei bambini più grandi, con dislessia conclamata. I risultati, come ci si poteva attendere, mostrano che effettivamente la competenza sintattica è danneggiata nei soggetti dislessici. Negli anni ottanta diversi studiosi si sono occupati della comprensione, da parte dei bambini dislessici, delle frasi relative. Stein et al. (1984) hanno trovato che i dislessici mostrano maggiori difficoltà nel capire e ripetere frasi relative e producono meno frasi relative con il movimento dell’oggetto (ad esempio “The girl who pushed the boy tickled the clown”) rispetto ai non-dislessici. Anche Byrne (1981) ha stabilito che i bambini dislessici hanno maggiori problemi nella comprensione delle frasi relative rispetto ai normo-lettori. Byrne ha ipotizzato che questo fosse il risultato di uno sviluppo sintattico ritardato. Mentre Mann et al. (1984) hanno suggerito che la 16 Mean Lenght Utterances, ossia la lunghezza media dell’enunciato. 33 difficoltà osservata nei dislessici nel ripetere le frasi relative fosse dovuta al ruolo centrale della memoria operativa nel fraintendimento delle frasi relative. Stein ha riscontrato, inoltre, che i bambini dislessici facevano molti più errori nell’interpretazione di frasi passive rispetto ai bambini controllo, nel senso che attribuivano il ruolo di agente al soggetto grammaticale della costruzione passiva (in altre parole, interpretano “Mary was kicked by John” come “Mary kicked John”). Waltzman & Cairns (2000) hanno trovato che i dislessici avevano problemi in un’altra area della sintassi, ossia nella teoria del legamento. I loro studi hanno dimostrato che i dislessici facevano errori nell’interpretazione dei pronomi in frasi come Pig is drying her, suggerendo delle difficoltà con i principi del legamento. Joanisse et al. (2000) hanno confrontato le abilità di percezione del parlato, le abilità fonologiche e morfologiche nei bambini dislessici all’età di 8 anni e ha trovato che essi avevano più difficoltà con la flessione dei verbi al passato rispetto ai soggetti normali. In conclusione, c’è una certa dimostrazione dell’esistenza di un ritardo nell’acquisizione delle strutture sintattiche e della morfologia flessiva sia nei bambini a rischio sia nei dislessici in relazione ai loro compagni normo-lettori. Questi dati mettono in rilievo una questione cruciale, ossia quale possa essere la connessione tra deficit fonologico e deficit sintattico. 2.2 Tre ipotesi per il deficit sintattico Rispens (2004) ha formulato tre ipotesi per cercare di spiegare come questi deficit di tipo sintattico potessero essere relazionati con la dislessia. La prima ipotesi sostiene che le differenze nelle abilità sintattiche tra i bambini dislessici e i bambini controllo siano attribuite alla differenza nella esperienza di lettura nei due gruppi. E’ spesso il caso che i dislessici siano meno esposti alla lettura dei loro pari normo-lettori ed abbiano di conseguenza meno accesso a forme di scrittura di alto livello. In poche parole, lo sviluppo delle abilità di linguaggio avanzerebbe con la lettura e l’ascolto della lingua parlata, specialmente per quanto riguarda quelle nozioni che non sono usate spesso nelle conversazioni di tutti i giorni. Così, una possibile differenza osservata tra dislessici e non-dislessici può avere origine da una conseguenza della dislessia, ossia un minore accesso alla lingua scritta. La seconda ipotesi sul deficit sintattico della dislessia è che esso si origini dalla stessa fonte che causa il problema di lettura: una difficoltà (di elaborazione) fonologica. Si è supposto che due tipi di danni relazionati fonologicamente non solo siano alla base del deficit di lettura, ma che siano 34 responsabili dei deficit morfo-sintattici. E’ stato suggerito che una capacità limitata della memoria operativa verbale interferisca con l’elaborazione sintattica così che l’elaborazione e il trasferimento di input linguistici nel e dal processore fonologico verso l’analizzatore sintattico fossero ostacolati. Inoltre, problemi fonologici segmentali possono avere un impatto sulle abilità morfo-sintattiche così che la formazione della forma flessa di un verbo (combinare la radice del verbo con l’accordo di tempo e persona) dipenda in un certo qual modo dall’applicazione di regole fonologiche. Per ultimo, potrebbe essere il caso che i deficit sintattici non siano correlati al deficit fonologico osservato nella dislessia, ma che lo sviluppo del sistema sintattico sia ritardato nei bambini dislessici. Alcuni studiosi ritengono che questo ritardo nello sviluppo linguistico sia parzialmente responsabile dei problemi di lettura nei dislessici. In questo scenario i bambini con insufficienti abilità linguistiche non potrebbero essere svantaggiati dalle loro competenze sintattiche e semantiche quando codificano le parole. Rispens ha indagato le tre ipotesi attraverso due studi: il primo studio testa la prima ipotesi (ossia che la differenza nella performance sintattica sia causata da una differenza nell’abilità di lettura tra dislessici e non dislessici) comparando la performance di bambini dislessici con bambini normali di pari età e bambini più piccoli ma con la stessa età di lettura su un esercizio di giudizio di grammaticalità. I risultati mostrano che i bambini dislessici non solo hanno una performance peggiore dei loro compagni di pari età, ma anche dei bambini con lo stesso livello di lettura escludendo la possibilità che l’esperienza di lettura sia un fattore chiave nel determinare la performance sintattica dei dislessici. Il secondo studio testa la possibilità che i problemi nella morfologia dell’accordo siano in correlazione con il deficit fonologico. In entrambi i gruppi i risultati rivelano che le performance su abilità fonologiche, che includono la conoscenza delle lettere, la consapevolezza fonologica e la memoria operativa verbale sono collegate in modo significativo con l’accordo soggetto-verbo. Un’analisi dei risultati comparati con quelli di un gruppo di bambini con SLI mostra che la consapevolezza fonologica e la ripetizione di non-parole (che riflette la memoria operativa verbale) predicono la variazione nella sensibilità all’accordo soggetto-verbo. Questo risultato si combina con l’ipotesi che la consapevolezza fonologica e la memoria operativa verbale siano abilità relazionate alla performance morfosintattica, e in questo caso specifico all’accordo soggetto-verbo, e suggerisce che la difficoltà con l’accordo abbia origine da un deficit in queste due abilità (consapevolezza fonologica e memoria operativa verbale), piuttosto che da un danno o da un ritardo del sistema sintattico. Un’altra questione collegata a queste osservazioni è se la sensibilità alla morfologia dell’accordo sia relazionata al successo nella lettura e di conseguenza alle abilità fonologiche. I risultati riportati da Rispens portano ad ipotizzare che sia esattamente così. I bambini a rischio di 35 dislessia, che dopo un anno dall’insegnamento della lettura non mostravano uno sviluppo normale della capacità di lettura, avevano una performance molto bassa rispetto ai soggetti controllo sulla sensibilità all’accordo grammaticale, sulla consapevolezza fonologica e sulla conoscenza delle lettere. Ossia si è osservata una correlazione tra queste capacità. In particolare si è osservato che la consapevolezza fonologica, la memoria operativa (valutata attraverso il digit span 17 ) e l’accordo soggetto-verbo contribuiscono significativamente alla codifica delle parole. A partire da questi dati Rispens formula una relazione tra consapevolezza fonologica, memoria operativa verbale e codifica/identificazione delle parole: Figura 3: Modello delle relazioni tra consapevolezza fonologica, memoria operativa e codifica delle parole. Il modello mostra che la marcatura dell’accordo soggetto-verbo è relazionata alla consapevolezza fonologica. Rispens parte dal presupposto di Joanisse et al. (2000) 18 che la combinazione della radice di un verbo con un morfema avvenga sulla base di un sistema di regole parzialmente fonologiche. La memoria operativa verbale è inoltre importante in questo processo dal 17 18 Il digit span è un test di misurazione dello span di memoria verbale (memoria di cifre). Discusso nei cap. 2 e 5 in Rispens, J. (2004). 36 momento che la rappresentazione fonologica di una forma verbale ha bisogno di essere mantenuta in memoria. Un insuccesso di questo temporaneo mantenimento in memoria della rappresentazione fonologica darà come risultato una forma degradata di questa rappresentazione, che interferisce nella creazione di un paradigma flessivo stabile. Inoltre, la memoria operativa verbale è sollecitata in modo diverso quando si marca un verbo con la persona e col numero del soggetto. Dal momento che queste proprietà sono riflesse nella forma del verbo, è necessario che questi tratti siano mantenuti in attivazione per un periodo sufficiente per combinare il soggetto con il verbo. In questo modo, l’accordo soggetto-verbo contribuisce alla codifica delle parole. La consapevolezza fonologica e la memoria operativa verbale si dimostrano quindi essere fattori importanti nella codifica delle parole. Decodificare le parole infatti richiede di collegare i grafemi ai fonemi di una parola, un’abilità che a sua volta richiede una conoscenza della struttura fonologica interna di una parola. Inoltre la memoria operativa verbale è coinvolta nell’acquisizione a lungo termine delle regole di mappatura grafema-fonema, che sono cruciali nel processo di apprendimento della lettura. In più, la memoria operativa verbale è necessaria per il mantenimento temporaneo dei fonemi di una parola, che il bambino cerca di identificare applicando le regole grafema-fonema. 19 2.3 Dislessia e disturbo specifico del linguaggio (SLI) Abbiamo visto finora che c’è una relazione tra capacità linguistiche e dislessia, sia nei bambini a rischio che nei bambini con dislessia, infatti i dati riportati dimostrano che i due gruppi di bambini in questione mostrano difficoltà di linguaggio, non solo di tipo fonologico ma anche di tipo morfo-sintattico. Tuttavia è vero anche il contrario: un ampio e crescente numero di studi ha riportato problemi di lettura in bambini con difficoltà di linguaggio. L’incidenza delle difficoltà di lettura nei bambini con un disturbo specifico del linguaggio (SLI) è alta, tra il 40-60% (Catts, Hu, Larrivee & Swank 1994). Gli studiosi sono d’accordo nel dire che i bambini con difficoltà di linguaggio severe e persistenti hanno maggior rischio di sviluppare difficoltà di lettura. Questi dati suggeriscono che dislessia e SLI possano essere disturbi relazionati. Il disturbo specifico del linguaggio è definito come un disturbo evolutivo del linguaggio, nel quale i bambini falliscono nell’acquisizione appropriata delle abilità linguistiche, nonostante un’intelligenza non-verbale normale, udito nella norma e assenza di disfunzioni neurologiche o problemi di tipo comportamentale, emotivo o sociale (Leonard, 1998). Entrambi i disturbi sono 19 Il ruolo della memoria operativa verbale sarà approfondito nel capitolo terzo. 37 definiti per esclusione: un bambino è detto avere la dislessia o lo SLI quando il danno rilevante non è causato da handicap conosciuti. Ad ogni modo questo implica che non è chiaro cosa sia specifico di entrambi i disturbi. A peggiorare le cose c’è inoltre il fatto che sia la dislessia che lo SLI sono disturbi eterogenei. Anche se esistono profili comuni per dislessia e SLI, questi a volte non si adattano a tutti gli individui che soffrono dell’uno o dell’altro disturbo. Questo rende ancora meno probabile che tutti i bambini con dislessia o SLI esibiscano gli stessi sintomi. Inoltre, sembra esserci una considerevole sovrapposizione tra le due popolazioni cliniche. Bambini con dislessia e SLI spesso soffrono degli stessi sintomi, che includono una povera elaborazione fonologica, una memoria a breve termine limitata e difficoltà nella percezione del parlato. Principalmente si associano allo SLI problemi con la morfosintassi, ma abbiamo già visto che anche nei dislessici si osservano problemi in questo dominio. In questo modo capita che bambini che soddisfano i criteri di entrambi i disturbi siano definiti dislessici o con SLI a caso, a seconda del tipo di clinico che incontrano. McArthur et al. (2000), per esempio, hanno osservato che il 50% dei bambini nel loro studio, che erano diagnosticati come dislessici, soddisfacevano anche i criteri dello SLI e vice versa. Ci troviamo di fronte ad una situazione ambigua. Nonostante le molte ricerche condotte in quest’ambito, la letteratura rimane non chiara sul fatto se dislessia e SLI siano lo stesso disturbo o due disturbi differenti. Ma consideriamo ora nel dettaglio il disturbo specifico del linguaggio. 2.4 Caratteristiche generali dello SLI Lo sviluppo del linguaggio nei bambini affetti da SLI è spesso danneggiato a tutti i livelli. Caratteristiche comuni ai bambini affetti da questo disturbo sono le seguenti: - Il linguaggio emerge con un certo ritardo. - Il linguaggio può mostrare delle strutture malformate e rimane ad un livello inferiore rispetto alle aspettative dell’età. - Gli individui affetti mostrano problemi con la morfologia flessiva. Ci sono anche delle differenze riguardanti l’estensione del deficit: - Non tutti gli aspetti della morfologia flessiva sono ugualmente problematici. 38 - Oltre alla morfologia flessiva, possono essere colpite anche altre aree della conoscenza grammaticale. - L’acquisizione delle parole, specialmente dei verbi, risulta a volte vulnerabile. - Vengono rilevati (lievi) deficit fonologici (ad esempio ci sono problemi con le consonanti in finale di sillaba e con i gruppi di consonanti). - Il disturbo può essere a livello ricettivo e/o espressivo. - Il disturbo può durare per tutta l’infanzia e anche persistere nell’età adulta. Nonostante questa varietà di sintomi, lo SLI è spesso (nella ricerca accademica) caratterizzato in termini di problemi con la morfosintassi, probabilmente per il fatto che i bambini di lingua inglese con SLI mostrano evidenti limiti nell’uso della morfologia grammaticale. Leonard (1998) stima che circa il 6% dei bambini soffra di una qualche forma di disturbo specifico del linguggio, ma che solo l’1,5% abbia un’età linguistica al di sotto dei due terzi della loro età mentale. Lo SLI colpisce i maschi tre volte in più rispetto alle femmine. Sembra inoltre che alcuni bambini “guariscano” dallo SLI durante l’infanzia, mentre per altri i sintomi persistano fino all’età adulta. Bishop & Edmundson (1987) riportano che su 68 bambini con SLI all’età di 4 anni, il 56% continuò ad avere punteggi bassi nei test sul linguaggio all’età di 5;6 e 8;6; Johnson et al. (1999) riportano che il 73% dei bambini del loro studio con disturbo del linguaggio continuavano ad averlo all’età di 19 anni. Un’importante discussione nella letteratura sullo SLI ruota attorno alla questione se il disturbo costituisca un ritardo nello sviluppo linguistico oppure una deviazione da uno sviluppo normale. Se lo SLI fosse il risultato di uno sviluppo ritardato, i bambini che soffrono di questo disturbo attraverserebbero gli stessi stadi dei bambini con normale sviluppo, ma più lentamente. Potrebbero anche raggiungere uno stadio oltre il quale non vi è più progresso. Se lo SLI fosse invece il risultato di uno sviluppo deviato (anormale), i bambini mostrerebbero l’uso di strutture anormali che non sono osservate nei bambini con sviluppo normale. Un’altra questione è se gli errori dei bambini con SLI siano omissioni o sostituzioni. Negli errori di omissione i bambini tralasciano una parola o una flessione in un contesto obbligatorio (ad esempio in inglese l’omissione della flessione –s della terza persona singolare del tempo presente). Un errore di sostituzione, dall’altro lato, risulta nell’uso di una parola o di un affisso in un contesto inappropriato (ed esempio estendere l’uso della forma –s dalla terza persona singolare ad altri soggetti). Il dibattito tra ritardo e deviazione ha portato a diverse teorie sullo SLI. Le più importanti di queste saranno discusse nella sezione 2.5. 39 2.4.1 Errori grammaticali nello SLI Gli errori grammaticali nello SLI consistono principalmente in errori di omissione. Anche gli errori di sostituzione sono stati osservati, ma sono meno comuni. In questo paragrafo verranno riassunti i tipi di errori più frequenti. E’ da premettere che i sintomi dello SLI sono diversi in base alla tipologia della lingua, quindi non è possibile fornire una rassegna completa degli errori che compiono i bambini con SLI. Piuttosto, introdurrò le categorie coinvolte negli errori. Gli errori riguarderanno la lingua inglese e olandese, dal momento che vi è una bibliografia abbastanza ampia in queste due lingue. I bambini con SLI omettono frequentemente gli affissi.20 In inglese i principali affissi verbali omessi includono la forma –s del tempo presente (come in He drinks beer) e la forma –ed del tempo passato (come in He walked home) (Leonard, 1998). Alcuni studi sullo SLI mostrano che sono problematiche le flessioni nominali (ad esempio la forma –s del plurale), ma generalmente si ritiene che tali affissi vengano omessi molto meno spesso degli affissi verbali menzionati sopra. I bambini olandesi con SLI spesso omettono o sostituiscono il morfema verbale che marca l’accordo soggetto-verbo. Questi bambini, invece di usare la forma marcata del verbo, usano il modo infinito (ad esempio Hij drinkt diventa Hij drinken). Inoltre, i bambini olandesi con SLI spesso omettono il marcatore del tempo passato o usano una forma al tempo presente (De Jong, 1999). Secondo De Jong i bambini con SLI hanno un inventario ‘immaturo’ delle forme del tempo passato, ossia le forme che usano assomigliano a quelle di bambini a sviluppo normale ma più piccoli. Inoltre i bambini con SLI hanno la tendenza ad omettere gli ausiliari. In inglese gli ausiliari appaiono in una forma piena o in una forma clitica (contratta). Nella forma clitica, un ausiliare contratto si attacca alla parola che lo precede, formando ad esempio he’s smiling e they’ve gone. Nell’inglese parlato sono preferite le forme clitiche alle forme piene. I bambini con SLI omettono frequentemente gli ausiliari in contesti dove gli adulti userebbero la forma clitica dell’ausiliare. A differenza dell’inglese, Bol & De Jong (1992) trovarono che i bambini olandesi con SLI non hanno particolari difficoltà con gli ausiliari. I bambini con SLI omettono frequentemente gli articoli. In inglese gli articoli definiti (the) e indefiniti (a/an) sono frequentemente omessi nei contesti obbligatori. Anche in olandese questa categoria è vulnerabile all’omissione (Leonard, 1998). Occasionalmente i bambini con SLI producono errori di sostituzione. Il tipo più comune di errore coinvolge la produzione di forme regolarizzate di parole irregolari. Così il nome plurale mice 20 Gli affissi sono morfemi grammaticali che si attaccano a verbi o a nomi e che non possono avere la funzione di parole indipendenti. 40 viene spesso prodotto con la forma iperregolarizzata mouses. Allo stesso modo, le forme irregolari del tempo passato (come sing) sono a volte scambiate per forme iperregolarizzate (come in singed). Questi tipi di errori non sono ristretti soltanto allo SLI, ma sono osservati anche nel linguaggio dei bambini con normale sviluppo e generalmente indicano che i bambini conoscono le regole morfologiche e le sanno applicare alle forme appena imparate. Errori simili sono costituiti da forme flesse che si moltiplicano, nelle quali il suffisso del tempo passato regolare viene attaccato ad una forma irregolare del passato, producendo forme come wented e strutture che contengono due verbi marcati di tempo (come in He didn’t worked in the garden invece di He didn’t work in the garden). 2.5 Le principali teorie sul disturbo specifico del linguaggio Sono stati compiuti dei confronti sistematici del comportamento linguistico dei bambini con e senza SLI con l’intento di rilevare punti di forza e di debolezza nella produzione linguistica dei bambini con SLI. Gruppi diversi di bambini mostrano diversi comportamenti linguistici, e questo ha motivato le varie ipotesi sulla natura dello SLI. Alcuni studiosi pensano che lo SLI sia un deficit modulare, ossia un deficit che colpisce solamente le abilità linguistiche. 21 Alcuni sostengono che il deficit alteri aspetti locali della grammatica; per esempio, i bambini con SLI producono frasi in cui è assente il tratto di tempo e di conseguenza non vengono realizzati i morfemi che esprimono questo tratto. Altri credono che i bambini con SLI abbiano più difficoltà nelle relazioni di accordo con il soggetto, o che i bambini con SLI non costruiscano lo stesso tipo di grammatica dei bambini senza SLI perchè non possiedono i tratti [±passato] e [±plurale]. Una visione radicalmente differente attribuisce il deficit ad una debolezza del sistema percettivo, che rende difficile per il bambino con SLI percepire i morfemi fonologici non salienti. Per riassumere, lo SLI è un deficit che colpisce le abilità grammaticali e i bambini affetti: - Falliscono nell’esprimere il tempo in contesti obbligatori. - Falliscono nell’esprimere l’accordo. - Non riescono a rappresentare relazioni dipendenti dalla struttura - Mancano dei tratti flessivi [±passato] e [±plurale]. Oppure lo SLI è un deficit del sistema di elaborazione uditiva. 21 Vedi Fodor 1983 per il concetto di modularità. 41 E’ importante sottolineare che le teorie proposte nella sezione seguente intendono essere una spiegazione del deficit grammaticale nello SLI. Queste teorie non hanno a che fare con i bambini che hanno esclusivamente un deficit fonologico o deficit pragmatici, anche se tali bambini esistono. Questa linea nelle teorie esistenti sullo SLI risulta dal fatto che gli studiosi ritengono che l’acquisizione ritardata/deviata della morfologia grammaticale rappresenti la caratteristica più distintiva del disturbo. La separazione degli studi grammaticali dagli studi semantici e pragmatici rende difficile stimare i punti di contatto tra i sottogruppi di SLI. Tuttavia, dal momento che ci stiamo occupando di deficit morfosintattici, tutte queste teorie sono potenzialmente rilevanti. 2.5.1 Dallo stadio Extended Optional Infinitive verso il Modello di omissione del tempo e dell’accordo Rice & Wexler (1995) propongono lo Extended Optional Infinitive Stage (EOIS) come una spiegazione dello SLI. Questa teoria suggerisce che lo stadio Optional Infinitive (OI), uno stadio evolutivo che i bambini con normale sviluppo vivono approssimatamente tra gli 1;10 e i 3;6 anni, persista nei bambini con SLI. Durante questo stadio evolutivo, i bambini usano sia i verbi infiniti che i verbi finiti in un contesto finito. 22 La finitezza non è ancora obbligatoria e per questo risulta che i tratti di tempo e accordo del verbo non vengono sempre marcati. Così, ad esempio, in un contesto di tempo passato, un bambino nello stadio OI potrebbe dire sia I fell on my knee sia I fall on my knee. Wexler inoltre osservò che durante lo stadio OI i bambini tendono ad omettere gli ausiliari e la copula BE nei contesti finiti, dicendo ad esempio Mommy eating al posto di Mommy is eating o Daddy gone piuttosto che Daddy has gone. La generalizzazione consiste nel fatto che durante lo stadio OI, i bambini alternano nel produrre frasi finite e non-finite in contesti finiti. Wexler & Rice suggeriscono che i bambini con SLI abbiano uno stadio OI che dura tipicamente fino all’età di 7 o 8 anni. Inizialmente, Wexler (1994) aveva ipotizzato che i bambini con SLI avessero un deficit legato al tempo, nel senso che qualche volta marcano il tempo e qualche volta lo lasciano sottospecificato. L’uso di forme infinite in contesti che richiedono le forme finite rappresentano un errore di omissione del tempo secondo le supposizioni di Wexler. La teoria che lo SLI consista in un periodo esteso dello stadio OI porta alle seguenti predizioni: 22 Un contesto finito è un contesto dove l’adulto userebbe un verbo marcato con tempo e accordo. 42 - Soltanto il tratto di tempo manca opzionalmente, così vengono omessi soltanto i morfemi di tempo. - Altri morfemi flessivi (ad esempio la marcatura del plurale dei nomi) e le preposizioni non vengono omessi. - Quando i bambini scelgono il tratto di tempo ne rispettano tutte le sue proprietà morfosintattiche. Più tardi in uno studio in collaborazione con Schütze (Schütze & Wexler 1996), è stato ipotizzato che gli infiniti opzionali potrebbero essere il risultato sia dell’omissione del tratto di tempo, sia del tratto di accordo. In un articolo del 1998 Wexler, Schütze e Rice hanno ipotizzato che lo SLI implicasse un deficit sintattico, che porta i bambini a omettere, qualche volta, i tratti di tempo e accordo nei contesti obbligatori. Wexler et al. chiamano questo modello ATOM (Agreement & Tense Omission Model). A supporto di questo modello ci sono casi in cui la marcatura di un soggetto di una NP (Noun Phrase) da parte di un bambino con SLI e di bambini più piccoli con normale sviluppo risulta errata, poichè questi bambini usano un verbo infinito con un soggetto in accusativo (come in him fall down e her have a big mouth). Sia l’accordo che il tempo hanno una relazione con il soggetto. Il tempo finito esprime il soggetto, l’accordo assegna il caso al soggetto. Sia il modello EOI che il modello ATOM presuppongono un ritardo nello sviluppo del linguaggio dei bambini con SLI. In questo modo, la grammatica di un bambino con SLI non è qualitativamente differente dalla grammatica di un bambino con normale sviluppo, infatti include gli stessi processi grammaticali e le stesse categorie; essa semplicemente si sviluppa più lentamente. 2.5.2 L’ipotesi Missing feature/ Implicit Rule Deficit Questa teoria spiega che i problemi grammaticali dei bambini con SLI derivano da una sottospecificazione delle regole morfosintattiche che marcano i tratti di tempo, numero e persona. Gopnik (1990) originariamente caratterizzò il problema come feature blindness (dalla grammatica dei bambini con SLI mancherebbero i tratti di tempo, numero e persona) e basò la sua ipotesi sullo studio di un caso di un ragazzo con deficit del linguaggio. Nella produzione linguistica di questo ragazzo erano assenti le regole morfofonologiche e le regole per l’accordo dei tratti nella sintassi. La feature blindness implica che i morfemi grammaticali che codificano questi tratti vengano 43 prodotti in modo accidentale. Gopnik presentò ulteriori prove per la sua teoria con i dati di una famiglia inglese (la famiglia KE, di cui tratterò più ampiamente nella sezione 2.7.1). Gopnik & Crago (1991) ricostruirono la prima ipotesi proponendo un’assenza di regole piuttosto che un’assenza di tratti nella grammatica dei bambini con SLI. Proposero l’Implicit Rule Deficit come una spiegazione dello SLI, partendo dal presupposto che le flessioni regolari e irregolari sono acquisite differentemente. 23 Le forme irregolari sono immagazzinate nella memoria, mentre l’acquisizione della morfologia regolare necessita di una regola astratta che attacca un morfema alla radice di un verbo. L’ipotesi di Implicit Rule Deficit sostiene che nei bambini con SLI queste regole astratte non sono disponibili e che questi bambini usano soltanto la memoria. In questo modo, l’acquisizione delle forme regolari avverrebbe nei bambini con SLI allo stesso modo che per le forme irregolari (ossia dovranno essere imparate a memoria). Tuttavia questa ipotesi non spiega il fatto che a volte i bambini con SLI producono delle regolarizzazioni di forme di verbi irregolari. Queste produzioni sono un’indicazione che si sta applicando una regola e non che queste forme sono imparate a memoria, dal momento che non appaiono nell’input. Inoltre gli autori di questa ipotesi si trovano comunque di fronte a espressioni di frasi grammaticali, ben formate, da parte di questi bambini. Come spiegare ciò? Gopnik ritiene che le manifestazioni di morfologia grammaticale nei bambini con SLI siano comunque da interpretare come il risultato di un sistema danneggiato. In questo modo, gli esempi che contraddicono la teoria non possono essere ritenuti come controprove, ma come l’output casuale di una grammatica difettosa. E’ molto difficile o anche impossibile falsificare questa teoria, e ciò la rende di per se stessa debole. 2.5.3 L’ipotesi Missing agreement L’ipotesi Missing Agreement è stata proposta da Clahsen (1989). Valutando i risultati di alcuni studi sui bambini di lingua tedesca con SLI, Clahsen ha proposto che il problema di questi bambini consistesse nello stabilire le relazioni strutturali di accordo grammaticale. I marcatori di accordo stabiliscono una relazione tra I (la testa che porta il tratto flessivo associato con il verbo) e un soggetto nello specificatore di I. Così il deficit consiste nell’incapacità di stabilire le relazioni di accordo con il soggetto. A supporto di questa ipotesi ci sono delle osservazioni di bambini con SLI che hanno problemi con i tratti di genere e numero dei determinanti e degli articoli. Inoltre i bambini di questo studio facevano frequentemente errori di accordo sui verbi e producevano frasi con il verbo in posizione finale invece che nella posizione appropriata al secondo o primo posto. 23 Il modello è stato proposto da Pinker & Prince, 1998. 44 Secondo Clahsen queste produzioni agrammaticali del verbo in posizione finale non sono il risultato di un deficit nel ‘movimento’ stesso, ma sono relazionati alla loro incapacità di generare la morfologia (ossia le forme finite) richiesta per il verbo in seconda posizione. I morfemi grammaticali mancano dall’output dal momento che i bambini non possiedono le relazioni di accordo che ne permettono l’ uso e non perchè i bambini non sappiano produrre le forme stesse. Clahsen ritiene inoltre che il deficit nell’accordo causi problemi in altri domini che dipendono dalle relazioni di accordo. L’ipotesi Missing agreement predice che nell’SLI si abbiano problemi con l’accordo soggetto-verbo, la forma finita degli ausiliari, la marcatura del caso e la marcatura del genere nei determinanti e negli aggettivi. D’altro lato, l’acquisizione di paradigmi dovrebbe essere preservata nello SLI. Inoltre quest’ipotesi non predice difficoltà significative con il tempo. Clahsen riconosce che i bambini con SLI hanno problemi con il tratto di tempo, ma vede tali problemi come marginali rispetto ai problemi con l’accordo soggetto-verbo. Risultati contrastanti con questa ipotesi sono stati trovati da uno studio su un’altra lingua, con un sistema di accordo morfologico molto ricco, ossia l’italiano. Cipriani, Bottari e Chilosi (1998) hanno registrato la produzione di un bambino di lingua italiana con SLI dall’età di 6;2 a 13;5. All’età di 6;2 questo bambino usava i morfemi di accordo per la prima, seconda e terza persona singolare e plurale correttamente. Durante il periodo di indagine la percentuale di errori era circa del 3%. Tuttavia non si sa se bambini di lingua italiana più piccoli siano meno abili nell’uso dell’accordo verbale. Ad ogni modo è chiaro che il bambino studiato da Cipriani, Bottari e Chilosi, con diagnosi di SLI, non aveva problemi nell’elaborazione delle relazioni di accordo del soggetto. 2.5.4 Representational deficit for dependency relations L’ipotesi Representational deficit for dependency relations (RDDR) trova la causa dello SLI nel sistema computazionale sintattico (Van der Lely, 1998; Van der Lely & Battel, 2003). 24 L’ipotesi RDDR adotta il Programma Minimalista di Chomsky (1995) per spiegare lo SLI. Nel Programma Minimalista le dipendenze a lunga distanza necessitano del ‘movimento’, dove il ‘movimento’ è definito come l’attrazione di tratti non interpretabili (ad esempio il tempo e il genere) per la realizzazione del feature checking. L’ipotesi RDDR sostiene che il deficit responsabile per gli errori grammaticali nello SLI sia nel ‘movimento’. Si presuppone che la regola del movimento sia obbligatoria in una grammatica normale (per definizione) ma che sia invece opzionale nella grammatica dei bambini con SLI. Così la grammatica dei bambini con SLI può 24 Negli studi più recenti l’ipotesi RDDR è stata rinominata Computational Complexity Hypothesis. 45 essere caratterizzata dal ‘movimento opzionale’ (Van der Lely, 1998). Il ‘movimento opzionale’ implica che nello SLI non manca la regola, ma che l’implementazione della regola non sia automatica e obbligatoria. L’ipotesi RDDR spiega i problemi con la marcatura del tempo e con l’accordo nello SLI come un movimento opzionale da testa a testa (ad esempio da V a I) mentre i problemi con il movimento A- (Argomento) spiegano la difficoltà dei soggetti con SLI nell’assegnare i ruoli tematici agli NP. Un altro esempio di relazione dipendente dalla struttura nel quale i bambini con SLI mostrano difficoltà è la relazione di legamento 25 . Van der Lely e Stollwerck hanno mostrato che i bambini con SLI avevano una capacità limitata nell’applicare i Principi A e B della teoria del legamento ed hanno attribuito questo problema a difficoltà nel calcolare il dominio locale e nel trovare l’antecedente appropriato nel dominio di c-comando di un pronome riflessivo. L’ipotesi RDDR ritiene che la grammatica dei bambini con SLI sia deviata, dal momento che questi bambini non raggiungono mai uno stato consolidato rispetto all’implementazione delle regole sintattiche. La predizione è che i bambini con SLI abbiano problemi nella comprensione e nella produzione di tutti gli elementi che costituiscono delle dipendenze sintattiche. 2.5.5 La Surface Hypothesis La Surface Hypothesis (Leonard, 1998) è forse la teoria non-modulare più conosciuta dell’SLI. Se i bambini con SLI hanno problemi con i morfemi funzionali, può essere che questi morfemi abbiano una proprietà speciale che li rende particolarmente difficili da produrre o comprendere. Secondo la Surface Hypothesis i morfemi funzionali (in inglese il tempo passato, la terza persona singolare del presente, i marcatori del plurale, ecc.) sono particolarmente vulnerabili perchè sono fonologicamente non salienti per alcune loro proprietà acustiche. Bambini con SLI hanno difficoltà nell’elaborazione di morfemi che hanno una durata breve e una bassa sostanza fonetica. In particolare hanno dei problemi con i morfemi che: - Non hanno accento (ad esempio l’articolo the e la flessione finale in kisses). - Non sono sillabici ( ad esempio la –s finale in speaks). 25 I principi del legamento governano le relazioni sintattiche tra riflessivi e pronomi e i loro antecedenti. In particolare i riflessivi devono avere un antecedente che li c-comanda all’interno della frase più piccola che li contiene (Principio A) mentre i pronomi non possono avere un antecedente che li c-comanda all’interno della frase più piccola che li contiene (Principio B). 46 - Sono soggetti all’omissione nella produzione. - Non occorrono in posizione finale (una posizione dove gli elementi possono essere soggetti a effetti di prolungamento). Perchè una breve durata o una mancanza di salienza risultano problematiche nei bambini con SLI? Secondo Leonard (1998) ciò che sta al centro delle difficoltà dei bambini non è la durata in sé dei morfemi funzionali, ma il fatto che la percezione dei morfemi non salienti esaurisca le risorse di elaborazione disponibili in questi bambini. Facendo questo, non riescono ad identificare la funzione grammaticale di questi morfemi e ad utilizzarli nel modo corretto. In poche parole, i bambini con SLI hanno difficoltà nel manipolare le flessioni perchè non riescono ad elaborare le loro funzioni. Quindi la Surface Hypothesis implica una limitazione generale nella capacità di elaborazione nei bambini con SLI ma ritiene anche che questa limitazione abbia un effetto particolarmente profondo sulle operazioni di percezione grammaticale dei morfemi e sull’identificazione della loro funzione grammaticale. Questa capacità limitata di elaborazione è forse meglio descritta con il termine ‘velocità ridotta’ di elaborazione/processing. L’idea principale è che i bambini con SLI percepiscano le consonanti in finale di parola e le sillabe deboli, ma che la capacità di elaborazione di questi bambini sia severamente ostacolata quando tali forme hanno un ruolo morfologico. Quando questo è il caso, i bambini non solo si trovano a dover percepire le consonanti di breve durata e le sillabe deboli, ma devono sostenere ulteriori operazioni per scoprire che esse funzionano come morfemi grammaticali separati ed hanno un ruolo specifico nel paradigma morfologico. Queste operazioni aggiunte sono in effetti quelle discusse da Pinker (1984) nel suo modello di acquisizione, nel quale egli offre una spiegazione del modo in cui i bambini costruiscono i paradigmi morfologici. Secondo questo modello, l’acquisizione del linguaggio comincia con la formazione da parte dei bambini dei paradigmi specifici delle parole. Nel corso dello sviluppo del linguaggio questi paradigmi diventano generali e i bambini diventano consapevoli del fatto che affissi specifici rappresentano tratti sintattici specifici. Quando questo accade, i bambini “sanno” che diversi affissi rappresentano diverse dimensioni e possono applicarli a nuove parole. Così, nel sentire il verbo corre un bambino, che è partito da un paradigma specifico di una parola ed è arrivato a dei paradigmi generali, può produrre corro senza avere mai sentito prima questa parola. Gli affissi non vengono acquisiti tutti nello stesso tempo. Piuttosto Pinker ipotizza un ordine gerarchico determinato dalle caratteristiche stesse degli affissi. Gli affissi che sono percettivamente salienti e semanticamente trasparenti (ad esempio la forma –ing e il plurale –s in inglese) vengono acquisiti prima degli affissi non salienti o astratti (ad esempio la –s della terza persona singolare in inglese). 47 Infine, la Surface Hypothesis ritiene che la grammatica dei bambini con SLI sia intatta; i paradigmi morfologici formati da questi bambini sono essenzialmente gli stessi dei bambini con sviluppo normale. Tuattavia, a causa della loro ridotta velocità di elaborazione, l’input dei bambini con SLI risulta distorto. In particolare, i morfemi grammaticali percettivamente non salienti rischiano di non essere percepiti o elaborati. Dal momento che si ritiene che la limitazione della velocità di elaborazione sia generale piuttosto che specifica, il suo effetto può essere diverso passando da una lingua all’altra. In inglese la morfologia grammaticale è colpita per il fatto che essa è abbastanza fragile. In una lingua con una tipologia diversa dall’inglese, come ad esempio l’italiano, gli effetti della stessa limitazione nell’elaborazione possono portare a diversi tipi di profili linguistici nei bambini con SLI. 2.5.6 SLI come un deficit di elaborazione Un’altra spiegazione non modulare dello SLI è che i bambini con SLI hanno una capacità limitata di elaborare e immagazzinare le informazioni. La nozione di un sistema a capacità limitata è stato incorporato in vari modelli di elaborazione del linguaggio (Baddeley, 1996; Bloom, 1993; Bock & Levelt, 1994; Just & Carpenter, 1992). Tutti questi modelli hanno in comune l’idea che le nostre risorse cognitive siano limitate. Nelle situazioni in cui un dato compito richiede ulteriori risorse disponibili, l’elaborazione e/o il mantenimento in memoria dell’informazione vengono colpiti negativamente. In altre parole, quando l’elaborazione di un aspetto di un compito cognitivo risulta eccessivamente difficile e richiede molte delle risorse disponibili, rimangono poche risorse per elaborare altri aspetti. Così avviene una sorta di breakdown nella performance, quando la richiesta di elaborazione eccede le risorse disponibili. Alcuni studiosi hanno suggerito che i bambini con SLI, molto più dei bambini con normale sviluppo, abbiano limitazioni nella loro capacità di elaborare e immagazzinare le informazioni (Bishop, 1992; Gathercole & Baddeley, 1990, 1993). E’ stato proposto che le limitazioni siano sia specifiche ad una particolare capacità (ad esempio una limitazione nella memoria operativa fonologica) sia più generali. Una limitazione generale nella capacità di risorse include limitazioni della memoria operativa, dell’energia computazionale e della velocità di elaborazione. 48 2.6 Teorie sul disturbo specifico del linguaggio: alcune considerazioni critiche Lo studio dello SLI e la formulazione di teorie linguistiche che spiegano il disturbo rimangono in continuo movimento. Gli studiosi modificano regolarmente le loro spiegazioni sullo SLI quando vengono ottenuti nuovi dati e nuove intuizioni. Sebbene le diverse teorie esistenti forniscano intuizioni di grande valore, nessuna singola teoria sembra essere capace di spiegare in modo completo i sintomi linguistici dello SLI. Alcune sono addirittura troppo ristrette nella loro applicabilità. Una delle ragioni principali di questa situazione è che le teorie dello SLI sono spesso ispirate da osservazioni in una lingua particolare. Per esempio, basandosi sui sintomi dello SLI in soggetti di lingua tedesca, Clahsen ha formulato la Missing Agreement Hypothesis, nella quale l’accordo soggetto-verbo gioca un ruolo centrale. Essenzialmente, la teoria di Clahsen predice che lo SLI non esiste in lingue come lo svedese o l’afrikaans (che non hanno l’accordo soggetto-verbo). In realtà, lo SLI esiste in tali lingue, un fatto che contraddice la Missing Agreement Hypothesis. Inoltre, molte teorie esistenti (come la teoria EOI, RDDR e la Surface Hypothesis) sono state formulate sulla base dei sintomi di soggetti di lingua inglese con SLI. Quando viene studiato lo SLI in altre lingue, i sintomi predetti da queste teorie possono anche non occorrere affatto. A complicare il tutto c’è il fatto che le teorie discusse sono legate a specifici stadi evolutivi. Alcune teorie presuppongono un ritardo nello sviluppo del linguaggio, altre una devianza. Per definizione, queste teorie si applicano solamente ai primi stadi dello SLI. La spiegazione dell’EOI e la Surface Hypothesis, per esempio, non spiegano perchè alcuni bambini con SLI abbiano problemi di linguaggio persistenti. Altre teorie, come la RDDR e la Missing Agreement Hypothesis sono state formulate specificatamente per essere applicate ai bambini con SLI persistente. Come menzionato prima, molte teorie dello SLI descrivono il disturbo sia come un deficit nella rappresentazione (spiegazioni modulari) sia come deficit di elaborazione (spiegazioni non modulari). Le spiegazioni modulari sono basate sull’ipotesi che l’acquisizione del linguaggio non sia intatta. Come risultato si presume che ‘manchino’ delle componenti o delle relazioni grammaticali. La maggior debolezza delle spiegazioni modulari è che falliscono nel dare un’adeguata spiegazione del fatto che i bambini con SLI a volte producono correttamente quelle forme che, secondo le teorie modulari, non dovrebbero essere disponibili in questi soggetti. Inoltre, la distribuzione degli errori e la produzione di forme correttamente formate è variabile. Bishop sostiene che “i deficit osservati nello SLI, sebbene indubbiamente di una certa gravità, non possono essere pienamente compatibili con le ipotesi che presuppongono una incapacità da parte dei bambini affetti di usare certi tipi di informazioni sintattiche. Le performance su costruzioni di una 49 certa difficoltà sono tipicamente sopra il chance level, anche quando non è possibile identificare una plausibile strategia non sintattica che il bambino possa aver usato per una performance corretta” (Bishop, 1997). Le teorie sulla capacità limitata di elaborazione sono state criticate a causa della loro inadeguata specificità teoretica e metodologica (Johnston, 1994). Tuttavia, almeno parte dell’interesse di queste teorie deriva dal fatto che esse descrivono la varietà di deficit nelle performance di compiti linguistici e non linguistici nei bambini con SLI. Ad esempio, una limitazione nella generale capacità di risorse è stata usata come una possibile spiegazione della difficoltà dei bambini con SLI di acquisire i morfemi grammaticali con bassa sostanza fonetica, della difficoltà nell’acquisire parole nuove presentate ad una elevata velocità nel parlato, per la lenta identificazione delle parole e una povera identificazione delle forme. 2.7 Eziologia 2.7.1 Studi genetici Sia la dislessia che lo SLI tendono a manifestarsi a livello familiare: lo stesso disturbo può essere osservato in diversi membri della famiglia, inoltre è più facile trovare individui affetti da un disturbo del linguaggio nella famiglia di un bambino con quel disturbo piuttosto che nella famiglia di un bambino senza quel tipo di disturbo. Tutto ciò suggerisce la presenza di una componente genetica in entrambi i disturbi (Orton, 1937, Flax et al., 2003). Le dimostrazioni dell’esistenza di una base genetica provengono da tre tipi di studi: da studi su famiglie, su fratelli gemelli e da studi di genetica molecolare. Diversi studi hanno dimostrato che i parenti di individui affetti da dislessia hanno un rischio maggiore di sviluppare disturbi della lettura (vedi Hallgren, 1950; Pennington et al., 1991; Lubs et al. 1993). Hallgren, per esempio, ha studiato le storie familiari di circa 300 bambini che mostravano deficit legati alla lettura. Ha riscontrato che l’88% dei bambini aveva un membro della famiglia con un disturbo di lettura, e propose che la dislessia avesse un tratto genetico. Sebbene le numerose e ben documentate storie di famiglie con disabilità di lettura suggeriscano un componente genetico nella dislessia, questo non è sufficiente a provare un coinvolgimento di geni. I membri di una stessa famiglia spesso condividono un ambiente ed un’educazione simili. In teoria questo potrebbe spiegare perchè due membri della stessa famiglia hanno problemi di lettura. Comparando le abilità 50 di lettura di gemelli identici (monozigoti) e di gemelli eterozigoti (che condividono circa il 50% dei loro geni visto che si sono originati dalla divisione di un singolo ovulo) gli studiosi dovrebbero riuscire a distinguere il fattore ereditario dalle influenze ambientali e stimare l’importanza della variazione genetica. Da questo tipo di studi proviene un considerevole supporto all’ipotesi della dislessia come disturbo a base genetica. Per esempio, De Fries & Alarcón (1996) trovarono una concordanza pari al 68% nei gemelli identici rispetto al 38% dei gemelli eterozigoti. In un ampio studio condotto in Inghilterra, Stevenson at al. (1987) trovarono che circa il 50% delle disabilità di lettura erano dovute a influenze genetiche ereditate e il 50% all’educazione e all’ambiente. Diversi studi hanno messo in relazione i cromosomi 1, 2, 3, 6, 15 e 18 a problemi di lettura (vedi Grigorenko, 2003 per un approfondimento). Finora, l’evidenza più forte risulta in una relazione tra difficoltà di lettura e il ramo breve del cromosoma 6. Il primo gene candidato per la dislessia fu presentato da studiosi Finlandesi nel 2003 (Taipale et al., 2003). Questo gene, oggi conosciuto con la sigla DYXCI è situato nel cromosoma 15. Sfortunatamente, non è chiara la funzione di questo gene e meno del 10% dei dislessici mostra una mutazione di questo gene. I primi studi a suggerire che lo SLI fosse un disturbo trasmissibile geneticamente furono condotti da Gopnik e Crago (1991). Il loro studio su una famiglia britannica di tre generazioni (la famiglia KE) portò alla conclusione che circa la metà dei membri della famiglia (fratelli o genitori) dei bambini con SLI aveva problemi di linguaggio.26 Tutti gli individui affetti avevano una mutazione di un gene (il cromosoma 7), mentre questa mutazione era assente nei soggetti non affetti. Questa scoperta fu importante perchè può aiutare a capire come l’uomo sviluppa un cervello specializzato per il linguaggio. Tuttavia non aiuta a capire le cause dello SLI poichè la mutazione non è stata trovata nelle persone non relazionate alla famiglia KE, che avessero o meno l’SLI. Rice, Wexler e Hanney (1998) hanno riportato l’incidenza di disturbi del linguaggio, nella misura del 22%, nelle famiglie dove a un bambino era stato diagnosticato lo SLI, mentre l’incidenza scende al 7% nelle famiglie con nessun caso di diagnosi. Sono stati condotti pochi studi sui gemelli con SLI, ma tutti forniscono forti evidenze dell’importanza del contributo genetico. Questi studi mostrano un’incidenza del disturbo dell’8026 Le conclusioni di Gopnik e Crago oggi risultano controverse. Molti studiosi (vedi Vargha-Khadem et al., 1995) credono che i problemi di questa famiglia non siano specifici del linguaggio. Vargha-Khadem et al. studiarono il fenotipo del disturbo e mostrarono chiaramente che non era specifico della grammatica o del parlato. Testarono sia i membri affetti sia i membri non affetti della famiglia KE e conclusero che il disordine ha le seguenti caratteristiche: difetti nell’elaborazione delle parole secondo le regole grammaticali, problemi nella comprensione di frasi con strutture complesse come le frasi relative; incapacità nel parlare in modo chiaro; difetti nella capacità di muovere la bocca e il viso non associati al parlato (una relativa immobilità della parte bassa della faccia e del labbro superiore della bocca) e un IQ significativamente basso sia nel dominio verbale che nel dominio non verbale. Infine, la famiglia KE non è rappresentativa della popolazione con SLI, dal momento che in questa famiglia le femmine sono colpite ugualmente dei maschi. 51 86% nei gemelli monozigoti (ossia che nell’80-86% dei casi dove a un gemello viene diagnosticato lo SLI, anche l’altro riceve la stessa diagnosi), e un’incidenza del 38-48% per i gemelli eterozigoti (Tomblin e Buckwalter, 1998). Bishop (1992) riportò risultati simili. Nel suo studio su 61 gemelli trovò un’incidenza del 67% per i gemelli identici e del 32% per i gemelli non identici. Il fatto che i maschi fossero colpiti tre volte di più delle femmine suggerì inoltre che lo SLI avesse basi genetiche. Infine, gli studi di genetica molecolare hanno scoperto che gli individui affetti da SLI avevano un’anomalia nei cromosomi 16 e 19, insieme ad altre anomalie genetiche (SLI Consortium, 2002, 2004). 2.7.2 Il ruolo dei fattori ambientali Nonostante esista un consenso generale tra gli studiosi sul fatto che la dislessia e lo SLI siano disturbi trasmissibili geneticamente, si crede che alcuni fattori ambientali influenzino il risultato delle capacità di lettura e del linguaggio parlato. Sebbene i fattori ambientali non causino la dislessia nè lo SLI, possono comunque aggravare l’impatto di entrambi i disturbi. I principali fattori ambientali legati alla dislessia sono le esperienze educative e l’ambiente familiare del bambino. Le definizioni convenzionali della dislessia escludono in maniera specifica tutti quei problemi di lettura che sono causati da un’inadeguata esposizione all’istruzione (vedere la definizione di Vellutino, 1979), ma non è sempre chiaro cosa comporti un’ “inadeguata esposizione all’istruzione”. Studi dell’abilità di lettura condotti su bambini provenienti da scuole diverse (ma localizzate nella stessa area) hanno messo in evidenza che l’educazione scolastica può avere un effetto significativo sull’abilità di lettura (Rutter & Maughan, 2002). L’idea che l’ambiente familiare influenzi il successo di lettura dei bambini è supportato da uno studio condotto da Whitehurst e Lonigan, 1998. Gli effetti dell’ambiente domestico sembrano essere mediati dalla lingua orale e per questo dovrebbero essere colpite soprattutto le abilità di comprensione, piuttosto che di lettura. Tuttavia, questa evidenza è correlazionale e rimane difficile da stabilire la vera natura dell’associazione tra l’ambiente familiare e la dislessia. Potrebbe essere il caso che l’associazione risulti dal fatto che genitori con una predisposizione genetica ai problemi di lettura tendono ad avere bambini con problemi simili. Se questo fosse vero, l’associazione non rifletterebbe una influenza diretta dell’ambiente familiare sull’acquisizione della lettura del bambino. Per quanto riguarda lo SLI, diversi fattori ambientali sono stati implicati come possibili cause del disturbo, ma nessuna si è dimostrata necessaria o sufficiente a causare il disturbo. I fattori 52 che sono stati osservati includono una mancanza di stimolazione verbale da parte dei genitori, danni neurobiologici e perdita dell’udito dovuta a otiti (vedi Bishop, 1997 per un approfondimento). Tuttavia, nessuno di questi fattori danneggia il linguaggio nel modo in cui esso lo è nei bambini con SLI. E’ da notare che la conclusione non dovrebbe essere che una privazione verbale, una perdita dell’udito e un danno focale cerebrale non abbiano un impatto sullo sviluppo del linguaggio. Piuttosto, gli effetti documentati di questi fattori si sono rivelati relativamente lievi, non specifici alle abilità di linguaggio e non portano al quadro clinico trovato nello SLI. E’ possibile che questi fattori ambientali assumano un’importanza maggiore se occorrono in un bambino già a rischio genetico per questo disturbo, ma un’interazione gene-ambiente non è ancora stata dimostrata empiricamente. 2.8 Studi di neurobiologia 2.8.1 Studi sulla struttura del cervello Nel 1943 Worster-Drought suppose che alcune forme di disturbo evolutivo del linguaggio fossero originate da uno sviluppo anomalo delle connessioni neurali, dovuto forse a influenze di tipo genetico. Negli ultimi due decenni i progressi nelle tecniche di neuroimaging e negli studi postmortem hanno dimostrato che in effetti le influenze genetiche sono implicate nelle anormalità evolutive. Uno studio neuropatologico condotto da Galaburda, Sherman, Rosen, Aboitiz e Geschwind (1985) descrive il cervello di quattro individui con una persistente disabilità di lettura: tutti e quattro presentavano displasie cerebrali ed ectopie (fasci di cellule con localizzazioni insolite), con l’emisfero sinistro tipicamente più colpito del destro. Questo studio è stato molto influente e viene spesso citato come una dimostrazione della presenza di anormalità patologiche nella dislessia. C’è inoltre da sottolineare il fatto che tre dei quattro individui affetti ebbero un ritardo nello sviluppo del linguaggio ed almeno uno continuò ad avere persistenti difficoltà nel linguaggio orale durante l’infanzia. Dal 1985 in poi Galaburda e i suoi colleghi hanno continuato a riportare ulteriori casi postmortem nei quali si osservavano simili anomalie citoarchitettoniche (vedi G. D. Rosen, Sherman & Galaburda, 1993). Con l’avvento delle nuove tecnologie di brain imaging ad alta risoluzione fu possibile studiare e analizzare in modo più ampio la struttura macroscopica del cervello nelle persone viventi. In generale sono state osservate poche anormalità macroscopiche e questo portò i ricercatori a focalizzarsi maggiormente nella ricerca di anormalità in regioni diverse del cervello e nella 53 connettività della materia grigia. Ogni tentativo di integrare i risultati di studi di neuroimaging sulla dislessia e sullo SLI è impedito dal fatto che, all’interno di ognuno dei due disturbi non ci sono risultati compatibili tra i vari studi. Alcuni studi infatti hanno trovato che la dislessia e lo SLI sono associati ad una riduzione o ad un’inversione nell’asimmetria morfologica del planum temporale, altri invece non sono riusciti a replicare questo risultato, ed hanno anzi riscontrato talvolta un aumento della normale asimmetria di sinistra. Altri hanno riportato uno sviluppo anomalo nelle regioni frontali o temporali di soggetti con disturbi del linguaggio. Nella famiglia KE, che aveva una forma ereditaria di SLI, erano state trovate anomalie subcorticali nel nucleo caudato, ma ricordiamo che queste persone sono fenotipicamente e geneticamente diverse da altri casi di SLI, e non risulta chiaro se un profilo neuroanatomico simile sia presente in altri casi tipici. Una ragione per la confusione e per i risultati contradditori osservati potrebbe essere l’inclusione di tipi diversi di problemi di linguaggio e di lettura sotto le etichette generali di dislessia e SLI. 2.8.2 Studi di Functional Imaging Metodi come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia ad emissione di positroni (PET) hanno la capacità potenziale di rivelare anomalie funzionali nel cervello di bambini colpiti da un disturbo del linguaggio. Temple (2002) ha riesaminato i risultati ottenuti da diversi studi eseguiti con fMRI e PET, che supportavano l’ipotesi della dislessia come un problema di elaborazione fonologica e uditiva, per indagare il processo fonologico e di lettura nei dislessici. Molti di questi studi sono stati condotti su soggetti adulti ma Temple ha dimostrato che i risultati ottenuti potevano essere generalizzati a un gruppo di bambini. Temple ha notato che c’era un’impressionante coerenza tra i diversi studi, nonostante differenze nelle procedure di analisi e nei metodi di esecuzione dei test. Molti esperimenti condotti con l’uso della PET hanno riportato una riduzione o un’assenza di attività nella corteccia temporoparietale sinistra negli adulti dislessici durante l’elaborazione fonologica di materiale visivo. Simili risultati sono stati trovati con l’uso di fMRI e MEG 27 (magnetoencefalogramma) in studi sui bambini. Questi risultati implicano che la ridotta attività nella corteccia parietale, invece di essere un indicatore di compensazione per la dislessia negli adulti, riflette piuttosto una disfunzione fondamentale nella dislessia. Una ridotta attività temporoparietale è stata inoltre trovata in soggetti inglesi, italiani e francesi. 27 La MEG misura le variazioni del campo magnetico prodotto dalle correnti intracellulari dei neuroni piramidali corticali. 54 Studi condotti con ERP 28 (potenziale evento-correlato) e MEG hanno dimostrato anomalie cerebrali nell’elaborazione di rapidi stimoli uditivi nei dislessici. Gli studi con fMRI hanno mostrato una ridotta attività nella corteccia prefrontale sinistra dei dislessici nell’udire stimoli uditivi presentati rapidamente. Pochi studi di functional imaging sono stati condotti sui bambini con SLI, ma c’è uno studio importante sui livelli di attivazione del cervello che rivela una disfunzione nella regione temporoparietale sinistra (Denays et al., 1989). Tuttavia, non tutti i risultati di anomalie funzionali fanno luce sulle origini neurobiologiche di un disturbo, infatti cause ed effetti sono difficili da districare. Inoltre è difficile sapere se le differenze osservate nell’attivazione cerebrale siano indicatori di una qualche limitazione costituzionale di elaborazione cerebrale o semplicemente riflettono l’abilità di una persona nel condurre un compito. Ad esempio, il cervello di una persona di lingua inglese mostrerà un’attivazione diversa da quella di una persona che parla in modo fluente il mandarino nel momento in cui entrambi vengono posti di fronte ad una ortografia cinese. Si concluderebbe che non c’è nulla di anomalo nel cervello del parlante di lingua inglese ma soltanto che c’è una differenza di esperienza nell’elaborazione di questo tipo di stimolo. Un modo per capire meglio la questione sarebbe quello di verificare se la reazione di soggetti controllo subisca variazioni dando loro un compito più difficile, come ad esempio leggere una parola non familiare o leggere in una lingua straniera. Gli studi di functional imaging possono essere comunque particolarmente utili per testare le teorie sulle basi della dislessia e dello SLI, per dimostrare la localizzazione anomala di una funzione o per vedere come il cervello risponde dopo un trattamento. A questo proposito uno studio interessante è stato condotto da Richards et al. (2005). Questo studio ha trovato differenze nell’attivazione cerebrale durante un esercizio ortografico tra i bambini dislessici e i bambini controllo nel giro frontale inferiore destro e nelle regioni parietali posteriori destre, incluso il giro angolare. I dislessici che avevano ricevuto un trattamento ortografico migliorarono sensibilmente nell’esercizio ortografico e le due regioni non presentavano più le differenze notate prima del trattamento. La risposta cerebrale dei bambini dislessici sembra essere cambiata e normalizzata per quelle regioni che prima del trattamento si differenziavano dal gruppo di controllo. Questo non implica che i loro problemi si sono risolti, ma che una componente didattica che enfatizza le strategie ortografiche può essere efficace nel cambiare la mappatura ortografica in questi soggetti. Inoltre, diversi studi hanno riportato una certa plasticità del cervello dopo un adeguato trattamento in individui affetti da dislessia, associata con differenze nelle aree occipitale-parietale, 28 Gli ERP sono una tecnica elettrofisiologica che consente lo studio di processi cognitivi con un’alta risoluzione temporale. 55 temporale-parietale e frontale (Shaywitz 2003). La plasticità delle risposte cerebrali è stata osservata a diverse età: (a) nei giovani studenti in compiti di consapevolezza fonologica e istruzione fonica (Shaywitz et al., 2004, Simons et al., 2004), (b) in studenti degli ultimi anni della scuola primaria e della scuola media nelle risposte ad istruzioni per aumentare la precisione delle rappresentazioni fonologiche e ortografiche delle parole e per aumentare l’efficienza della memoria operativa (Aylward et al, 2003, Richards et al., 2002), e (c) negli adulti nelle risposte a istruzioni esplicite sul suono e sulla consapevolezza articolatoria (Eden et al., 2004). Abbiamo visto che esiste consenso nel ritenere che sia la dislessia che lo SLI sono disturbi associati ad anomalie nello sviluppo neurobiologico piuttosto che a lesioni acquisite precocemente in vita. Sembra probabile che influenze genetiche colpiscano i processi di migrazione neurale, portando a pattern non ottimali di connettività nel cervello. Molti degli studi di functional imaging si sono focalizzati sulle regioni frontali e temporali conosciute per essere coinvolte nell’elaborazione del linguaggio, anche se più recentemente anche il cervelletto e le regioni subcorticali sono sotto scrutinio. Sebbene ci sia una impressionante coerenza negli studi di fMRI su dislessia e SLI, le somiglianze a livello neurobiologico potrebbero essere la conseguenza di una disabilità di lettura, piuttosto che una spiegazione della sua causa. Inoltre gli studi neurobiologici sulla struttura del cervello, finora, non hanno raggiunto un consenso significativo su quali regioni siano colpite, con pochi risultati concordanti tra i diversi studi. Leonard (2002) suggerisce che una migliore concettualizzazione del fenotipo potrebbe portare ad un quadro più chiaro, con profili neurobiologici diversi per i soggetti con pura dislessia fonologica e per quelli con più ampie difficoltà di linguaggio che includono anche la comprensione orale e scritta. 2.9 Una relazione tra dislessia e disturbo specifico del linguaggio Risulta chiaro, da quanto scritto finora, che c’è una relazione tra dislessia e abilità di linguaggio ma anche tra SLI e capacità di lettura. Infatti sono state ampiamente riportate le difficoltà di linguaggio osservate nei bambini con dislessia e a rischio di dislessia, come i problemi di lettura nei bambini con SLI. L’incidenza delle difficoltà di lettura nei bambini con una storia di disturbo specifico del linguaggio è alta, tra il 40-60% (Catts, Hu, Larrivee & Swank 1994). C’è un consenso generale sul 56 fatto che i bambini con persistenti e severe difficoltà di linguaggio corrano i maggiori rischi di sviluppare difficoltà legate alla lettura. Questi dati, come già anticipato, suggeriscono che la dislessia e lo SLI possano essere due disturbi relazionati. Quest’ipotesi è rafforzata anche dagli studi genetici riportati sopra: SLI e disabilità di lettura co-occorrono nelle famiglie (Van der Lely & Stollwerck 1996). Inoltre, le diagnosi di dislessia e SLI possono spesso essere presenti entrambi nello stesso bambino. McArthur, Hogben, Edwards, Heath e Mengler (2000) hanno valutato le abilità di lettura e di linguaggio in gruppi di bambini con SLI e con dislessia. Le performance di lettura e i test sul linguaggio hanno rivelato che circa il 50% sia dei bambini dislessici sia dei bambini con SLI soddisfacevano i criteri della categoria diagnostica alternativa. Allo stesso modo Eisenmajer, Ross e Pratt (2005) hanno riscontrato che il 55% di un gruppo di bambini con disabilità di lettura mostravano concominanti difficoltà di linguaggio. L’aver osservato difficoltà di lettura in bambini con disturbo del linguaggio porta alla domanda se questa disabilità di lettura sia caratterizzata da un deficit fonologico, simile a quello attestato nella dislessia. Confronti diretti tra i profili del linguaggio e della lettura di dislessici e bambini con SLI si stanno lentamente accumulando e suggeriscono almeno una parziale sovrapposizione tra i due gruppi sulle abilità di linguaggio, specialmente sulla capacità di elaborazione fonologica (come ad esempio nella ripetizione di non parole). Sono ancora pochi invece i confronti tra bambini a rischio di dislessia e bambini con SLI. 29 Carrol & Snowling (2004) hanno confrontato l’elaborazione fonologica, l’acquisizione fonologica, la consapevolezza fonologica e l’emergente abilità di lettura di bambini a rischio di dislessia tra i 4 e i 6 anni e bambini con difficoltà di linguaggio. Hanno trovato che i due gruppi mostravano difficoltà simili, ma la performance del gruppo a rischio era ad un livello intermedio tra quella del gruppo di controllo e quella del gruppo con SLI. Un primo studio di un confronto tra bambini a rischio di dislessia e bambini con SLI di lingua olandese tra i 3 e i 5 anni di età fu condotto da Alphen et al. (2004). Questi studiosi trovarono che entrambi i gruppi mostravano un ritardo nella percezione del parlato, nell’elaborazione fonologica e nell’identificazione delle parole. Anche in questo caso inoltre, il gruppo a rischio aveva una performance intermedia tra il gruppo di controllo e il gruppo con SLI. Gli studi sulla dislessia e sullo SLI mostrano che ci sono somiglianze tra i due disturbi in termini di sintomi. E così viene spontanea la domanda se dislessia e SLI siano due disturbi diversi o se siano (parzialmente) diverse manifestazioni dello stesso disturbo. Detto in altre parole, la 29 Due studi di questo tipo saranno riportati nelle sezioni 2.10.1 e 2.10.2. 57 questione è se ci sia un deficit centrale cognitivo comune che possa spiegare sia i problemi di linguaggio che la difficoltà di lettura. 2.10 Dislessia e SLI: lo stesso disturbo o due disturbi distinti? In generale, ci sono due punti di vista sulla relazione tra dislessia e SLI. Il primo è che essi siano due disturbi qualitativamente simili, con disturbi del linguaggio che si manifestano in tenera età e difficoltà di lettura attestate in età scolastica. Al contrario, la seconda interpretazione è che ci possono essere delle somiglianze tra dislessia e SLI, ma tuttavia rimangono due disturbi distinti (Bishop & Snowling, 2004). Come sarà visto, il ruolo della fonologia è cruciale in tutte le ipotesi (presentate nella figura 2). Figura 4: Modelli della relazione tra dislessia e SLI. Basato su Catts et al. (2005). 58 Secondo la prima interpretazione l’origine delle difficoltà dei bambini dislessici e con SLI è simile. Ad esempio, Tallal e i suoi colleghi (Tallal et al. 1997ab) perseguono l’idea che le difficoltà di linguaggio e di lettura siano causate da un deficit basico di elaborazione temporale. Questo deficit interferirebbe con l’elaborazione uditiva di transizioni acustiche molto rapide della lingua parlata e questo avrebbe un impatto sull’acquisizione del parlato, e a sua volta, sull’acquisizione del linguaggio, includendo le rappresentazioni linguistiche. Tallal et al. hanno proposto l’esistenza di un continuum evolutivo tra i disturbi del linguaggio e i disturbi della lettura basati sulla fonologia e indicarono l’età come fattore primario che distingue il disturbo evolutivo del linguaggio dal disturbo della lettura. In questo modo, le difficoltà con la percezione uditiva rapida sarebbero alla base della povera elaborazione fonologica, delle difficoltà di linguaggio e della dislessia. Secondo questa visione, non c’è distinzione tra i due disturbi, che sarebbero quindi diverse manifestazioni dello stesso problema, e si differenzierebbero soltanto per severità e per lo stadio in cui esse si manifestano (ossia lo SLI viene considerato la manifestazione più severa del disturbo e appare nella prima infanzia. La dislessia viene considerata una forma meno severa del disturbo e appare più tardi nell’infanzia). Tallal et al. uniscono quindi le categorie dislessia e SLI in una singola categoria, denominata ‘disturbo di acquisizione del linguaggio’ con riferimento ai bambini con difficoltà di lettura e/o di linguaggio. Questo modello della relazione tra dislessia e SLI viene chiamato ‘single source hypothesis’. Una seconda interpretazione all’interno della single source hypothesis proviene da Kamhi e Catts (1986) e Catts (1989), i quali sostengono che la dislessia sia un disturbo evolutivo del linguaggio piuttosto che un disturbo causato da difficoltà uditive. Il disturbo sarebbe causato principalmente da un deficit nell’elaborazione fonologica e si manifesterebbe in diversi modi durante lo sviluppo, con difficoltà nel linguaggio orale in età più giovane e difficoltà di lettura in età scolastica. Anche in questo caso dislessia e SLI sono visti come lo stesso disturbo. Alcuni ricercatori, tuttavia, si sono recentemente dichiarati contro questa tendenza a unire le categorie diagnostiche o a trattarle come punti su un continuum di severità piuttosto che sindromi distinte. Due modelli sostengono che SLI e dislessia siano disturbi distinti. Il primo è una proposta recente di Catts et al. (2005): la comorbidity hypothesis. Questo modello suggerisce che SLI e dislessia siano disturbi distinti ma compresenti. Bambini con solamente SLI mostrano difficoltà nel linguaggio orale (nella sintassi, nella semantica, nel discorso) e bambini con solo dislessia mostrano una povera elaborazione fonologica. Le difficoltà di elaborazione fonologica sarebbero alla base dello SLI solo in quei soggetti che hanno sia dislessia 59 che SLI e non nei soggetti con solamente un deficit di linguaggio. 30 Questa ipotesi di compresenza afferma che la dislessia e lo SLI sono disturbi evolutivi differenti con deficit cognitivi diversi e diverse manifestazioni comportamentali. Il secondo modello che stabilisce che dislessia e SLI sono disturbi differenti è la qualitative difference hypothesis. Bishop & Snowling (2004), nella loro revisione della letteratura sulla relazione tra dislessia e SLI, mettono in evidenza che una singola dimensione di severità non sia sufficiente a catturare l’ampia variazione clinica che esiste in questi disturbi. Questi studiosi ammettono che ci siano delle somiglianze tra dislessia e SLI nel tipo di deficit fonologico osservato, ma credono che i bambini con SLI, generalmente, abbiano ulteriori difficoltà sintattiche e semantiche che colpiscono il loro linguaggio orale. Inoltre, Bishop & Snowling credono che la percezione corrente di dislessia e SLI sottostimi il ruolo che giocano tali difficoltà sintattiche e semantiche nell’ottenere una lettura fluente. Bishop & Snowling offrono diverse ragioni per ritenere utile una distinzione tra dislessia e SLI: (i) Disturbi che appaiono simili a livello comportamentale possono avere cause diverse. Per quanto riguarda il comportamento, ci si potrebbe chiedere se i bambini con diagnosi di SLI abbiano problemi di lettura e se i bambini con dislessia mostrino difficoltà su test di lingua orale. Tuttavia, se il comportamento dei dislessici e dei bambini con SLI risulta simile, questo non significa automaticamente che i disturbi siano qualitativamente gli stessi; deficit cognitivi differenti, infatti, potrebbero causare comportamenti simili. (ii) Gli aspetti non fonologici del linguaggio giocano un ruolo importante nell’acquisizione delle abilità di lettura. I bambini con SLI solitamente hanno gli stessi deficit fonologici che sono tradizionalmente riconosciuti come la caratteristica principale (e il fattore causale) della dislessia. Tuttavia, i bambini con SLI mostrano anche deficit marcati nella sintassi e nella semantica, i quali hanno un impatto aggiuntivo sullo sviluppo delle loro abilità di lettura. Un’analisi dettagliata dello sviluppo della lettura nello SLI mostra che i problemi di lettura dei bambini con SLI sono diversi da quelli osservati nei dislessici. In particolare, una povera comprensione del materiale scritto è più una caratteristica prominente nello SLI che nella dislessia. In questo i bambini con SLI assomigliano più ai poor comprehenders, piuttosto che ai classici dislessici. 31 30 Catts et al. (2005: p.1391) ammettono che una performance di basso livello sulla ripetizione di non parole nei bambini con SLI non predice sempre una compresenza di dislessia. Così, i deficit di elaborazione fonologica nei bambini dislessici non sono sempre relazionati con la dislessia. 31 Il termine poor comprehenders si riferisce ai bambini che sanno leggere in modo accurato, ma che hanno poca comprensione di quello che leggono (il loro IQ risulta entro i normali limiti). Il profilo del linguaggio dei poor comprehenders è diverso da quello dei dislessici poichè le loro abilità fonologiche sono normali. I loro deficit del linguaggio sembrano risiedere in aree del linguaggio al di fuori del dominio fonologico (deficit tipici includono un vocabolario debole e una limitazione nella conoscenza semantica). 60 (iii) I risultati degli studi neurobiologici ed eziologici della dislessia e dell’SLI non favoriscono l’unificazione delle due sindromi. Dalla prospettiva della neurobiologia, ogni tentativo di fondere i risultati dagli studi strutturali del cervello con le tecniche di functional imaging della dislessia e dello SLI è ostacolato dal fatto che (anche all’interno di ciascuna sindrome) i risultati da uno studio all’altro risultano incoerenti. Ad esempio, diversi studi hanno trovato che la normale asimmetria del planum temporale è ridotta o invertita sia nella dislessia che nello SLI. Altri non sono riusciti a replicare questi risultati; infatti hanno trovato, al contrario, un aumento della normale asimmetria di sinistra. La ragione più probabile di questi risultati così diversi è che in questi esperimenti siano stati inclusi sotto l’etichetta di SLI e dislessia diversi tipi di problemi di linguaggio e di lettura. Per meglio capire la neurobiologia della dislessia e dello SLI, i neurolinguisti dovrebbero includere nei loro studi gruppi più omogenei di ogni disturbo. Unire le sindromi vorrebbe dire creare soltanto un gruppo ancora più eterogeneo. Per quanto riguarda la genetica, ci sono molti studi che mostrano come il deficit di elaborazione fonologica sia ereditabile e quindi che la classica dislessia fonologica abbia basi genetiche. Al contrario, è molto meno chiaro se la disabilità di lettura associata alle difficoltà sintattiche e semantiche (ossia il tipo di disabilità di lettura predominante nello SLI) sia ereditabile. Bishop & Snowling (2004) concludono che, sebbene la dislessia e lo SLI presentino allettanti somiglianze, è essenziale ripensare alla relazione tra questi due disturbi. La loro proposta è di concettualizzare i disturbi in termini di un modello bi-dimensionale, come mostrato nella figura 3. Figura 5. Un modello bidimensionale della relazione tra dislessia e SLI 61 Il modello bidimensionale mostra come le abilità fonologiche e non-fonologiche contribuiscano o meno al profilo della dislessia (A), dello SLI (C), dei bambini poor comprehenders (D), e nei bambini con nessun deficit. Per quanto riguarda lo SLI, entrambe le abilità fonologiche e non-fonologiche contribuiscono in maniera indipendente al disturbo, mentre la dislessia classica è caratterizzata da un danno fonologico, ma da relativamente intatte abilità di linguaggio nonfonologiche. I bambini poor comprehenders hanno in comune con lo SLI le difficoltà nonfonologiche, ma non mostrano difficoltà fonologiche. Infine, nei bambini senza deficit sono assenti le difficoltà fonologiche e non-fonologiche. Il modello spiega in questo modo le difficoltà fonologiche nella dislessia e nello SLI. Inoltre, all’interno del modello è anche incorporata la variazione che esiste in entrambe queste popolazioni: il quadrante, infatti, mostra che i disturbi possono estendere i loro effetti fino alla linea di confine di ogni disturbo. Bishop & Snowling infatti riconoscono l’esistenza di bambini con profili a metà strada tra le categorie presentate e che ci sono variabili aggiuntive da prendere in considerazione: ad esempio la percezione visiva, la velocità di elaborazione e l’attenzione possono giocare un ruolo nell’acquisizione della lettura. In questo caso il modello risulta una semplificazione. Tuttavia gli autori credono che possa fornire uno schema utile per pensare ai sottotipi di deficit di lettura e alla loro relazione con il deficit di linguaggio. Diversamente dall’ipotesi di compresenza dei due disturbi, sia la single source che la qualitative difference hypotesis sottolineano l’importanza del deficit di elaborazione fonologica nei bambini con problemi di lettura e di linguaggio. Numerosi studi, come abbiamo già visto nel corso di questa tesi, hanno verificato la presenza di deficit di elaborazione fonologica nei bambini a rischio genetico di dislessia, nei bambini e adolescenti con dislessia e nei bambini e adolescenti con SLI. La differenza tra la single source e la qualitative difference hypothesis risiede nel fatto che quest’ultima incorpora sia le componenti fonologiche sia le componenti non-fonologiche. Inoltre, fanno parte di questa ipotesi anche le influenze genetiche, biologiche e cognitive, mentre il modello single source è limitato all’elaborazione fonologica. 2.10.1 Una comparazione dei tre modelli di ipotesi della dislessia e dello SLI Uno studio interessante è quello condotto da Elise De Bree all’università di Utrecht. Nella sua tesi di dottorato De Bree valuta, nella prima parte, le abilità fonologiche nei bambini a rischio di dislessia attraverso un approccio sperimentale, i cui risultati sono già stati discussi nella sezione 1.8 del capitolo 1. Nella seconda parte della tesi, come già anticipato, viene fatta una comparazione tra 62 le esecuzioni dei bambini a rischio di dislessia e dei bambini con SLI in diverse abilità, con lo scopo di esaminare se sia presente in entrambi i disturbi un deficit fonologico. Sulla base dei risultati ottenuti si sarebbe potuto osservare se dislessia e SLI sono lo stesso disturbo o due disturbi distinti. In altre parole, questa ricerca aveva lo scopo di stabilire quale delle tre ipotesi sulla relazione tra dislessia e SLI potesse essere la migliore spiegazione per i risultati ottenuti. Abbiamo appena visto che la single source hypothesis stabilisce che i due disturbi sono causati da uno stesso deficit comune e, per questo motivo, possono essere visti come un unico disturbo. Al contrario i modelli comorbidity e qualitative difference suppongono che dislessia e SLI siano disturbi distinti. Tuttavia, mentre l’ipotesi qualitative difference presume una sovrapposizione nelle difficoltà con la fonologia, ma non nelle altre abilità non-fonologiche, l’ipotesi comorbidity sostiene che le difficoltà fonologiche sono presenti soltanto nei bambini con dislessia e non nei bambini con solo lo SLI. Un confronto diretto tra i modelli è impedito dal fatto che la dislessia ancora non poteva essere diagnosticata nei due gruppi, dal momento che i bambini erano ancora troppo piccoli per leggere e scrivere. Una volta ottenuti questi dati sarà possibile stabilire se i bambini a rischio, che avevano performance peggiori del gruppo di controllo, erano effettivamente dislessici. Inoltre, solo a questo stadio, si potrà valutare quali bambini con SLI, oltre ad avere un deficit del linguaggio, siano anche dislessici. Pur non avendo questi risultati, le aspettative riguardavano una performance peggiore del gruppo di controllo sia nei bambini a rischio sia nei bambini con SLI. Inoltre, la variabilità all’interno di ciascun gruppo sarebbe stata in grado di fornire indicazioni sul numero dei bambini che effettivamente mostravano difficoltà fonologiche. I risultati favoriscono una analisi della dislessia e dello SLI come due disturbi distinti. Sono state attestate difficoltà fonologiche in entrambi i gruppi, e questo poteva ben accordarsi con la single source hypothesis. Tuttavia, si sono osservate differenze in abilità al di fuori del dominio fonologico, come nella marcatura del plurale (dominio della morfosintassi), che risultò più difficile nei bambini con SLI che nei bambini a rischio, e nell’alternanza sonora del plurale (un processo di tipo morfo-fonologico), dove le alternanze usate dal gruppo a rischio assomigliavano a quelle usate dal gruppo di controllo, e quelle usate dal gruppo SLI assomigliavano a quelle usate dai bambini più piccoli con normale sviluppo. Inoltre sono state osservate delle differenze anche all’interno del dominio fonologico, ad esempio nella ripetizione di non parole, dove si sono osservati diversi tipi di errori per il gruppo a rischio e per lo SLI. Quest’ultimo gruppo ha mostrato più errori di sostituzione e omissione del gruppo a rischio nelle parole più lunghe, ha mostrato omissioni prima e dopo l’accento mentre i bambini a rischio prevalentemente solo prima dell’accento. Analogamente, un bambino con SLI ha commesso errori inusuali nella produzione del parlato, con la caduta di sillabe 63 deboli e omissioni di gruppi di consonanti, mentre nessuno dei bambini a rischio commise tali errori. Così, superficialmente si può dire che il gruppo a rischio e il gruppo SLI mostravano comportamenti linguistici simili rispetto al gruppo di controllo, ma un’ispezione più accurata rivelava sottili differenze qualitative. I profili di linguaggio di entrambi i gruppi sembravano essere quindi differenti. Confronti recenti delle abilità fonologiche e grammaticali hanno riportato difficoltà fonologiche simili per i dislessici e i bambini con SLI, ma anche differenze tra i gruppi rispetto alle abilità grammaticali, in linea con l’ipotesi qualitative difference. Fraser e Conti-Ramsden (2005), ad esempio, hanno osservato una scarsa consapevolezza fonologica in bambini dislessici e con SLI (britannici), ma abilità grammaticali ridotte soltanto nei bambini con SLI. Puranik, Lombardino e Altmann (2007) hanno valutato la lingua scritta di bambini e adolescenti dislessici e con SLI (americani). Anche loro hanno riportato difficoltà fonologiche, come una scarsa accuratezza nello spelling, in entrambi i gruppi, ma anche differenze nelle abilità grammaticali, come nella produzione del parlato, dannegggiata solo parzialmente nel gruppo dei dislessici. Questi studi indicano che i profili dei bambini a rischio/dislessici sono differenti da quelli dei bambini con SLI, con una sovrapposizione per quanto riguarda una fonologia impoverita, ma non necessariamente per le abilità grammaticali ridotte. Di grande importanza è inoltre il fatto che i risultati stabiliscano differenze anche all’interno del dominio fonologico. Nello specifico, sono stati osservati errori diversi nella cancellazione di fonemi, dove sia il gruppo a rischio sia il gruppo con SLI aveva una performance peggiore del gruppo di controllo. Mentre i gruppi controllo e dei dislessici mostravano più difficoltà nella cancellazione di un fonema in posizione iniziale, il gruppo SLI mostrava più difficoltà nella cancellazione delle consonanti finali. Inoltre, in un esercizio di ripetizione di non-parole il gruppo SLI raggiungeva il punteggio più basso ma mostrava anche un impatto maggiore della lunghezza delle parole rispetto ai dislessici. Così la fonologia è un’area di sovrapposizione delle difficoltà per entrambi i gruppi, ma queste difficoltà possono portare a diversi tipi di errori. Il fatto che un numero sostanziale di bambini con SLI nello studio riportato mostrò difficoltà fonologiche rende difficile accettare l’ipotesi di comorbidity. Questa ipotesi anticipa che solo i bambini con SLI che siano anche dislessici mostrano difficoltà fonologiche. Negli esercizi di produzione del parlato, otto bambini su dieci con SLI ebbero performance deludenti nella ripetizione di non-parole, inoltre, eccetto un bambino, tutti gli altri 22 bambini con SLI appartenevano al gruppo con performance più deludenti. Sembra improbabile che più dell’80% del campione SLI sarebbe diventato dislessico, considerato anche che gli studi condotti a proposito 64 indicano una percentuale tra il 40-60%. In questo modo, le diffuse difficoltà fonologiche nel gruppo SLI sembrano scartare l’ipotesi di comorbidity. Invece, questi risultati supportano la qualitative difference hypothesis, la quale propone che SLI e dislessia siano disturbi distinti, ma che mostrano entrambi difficoltà nel dominio fonologico. Inoltre i risultati forniscono un’estensione di questo modello, dal momento che si osservano differenze qualitative all’interno del dominio fonologico. Così, è probabile che altri fattori linguistici e cognitivi abbiano un impatto sul deficit fonologico. In altre parole, sia la dislessia che lo SLI potrebbero essere caratterizzate parzialmente da difficoltà fonologiche, ma queste difficoltà potrebbero derivare da diverse cause. Un vantaggio aggiuntivo dell’ipotesi qualitative difference è che classifica la dislessia e lo SLI come multirisk disorders (vedi Bishop & Snowling 2004). La dislessia è stata interpretata come un disturbo con multipli fattori di rischio interagenti a livello genetico, ambientale, neurobiologico e cognitivo. Un modello simile è stato proposto per lo SLI. Un’interpretazione di entrambi i disturbi come multifattoriali con fattori di rischio e compensativi può spiegare l’eterogeneità all’interno di entrambi i disturbi. Entrambi i disturbi possono essere qualificati da insufficienti abilità fonologiche, ma entrambi sono anche dipendenti da altri fattori di rischio. Questo modello si relaziona coerentemente con i risultati neurobiologici e genetici della dislessia e dello SLI (vedi Bishop & Snowling 2004). 2.10.2 L’elaborazione sintattica nella dislessia evolutiva e nel disturbo specifico del linguaggio. Un altro studio molto interessante che studia le possibili relazioni tra dislessia e SLI è quello condotto da Carien Wilsenach nella sua tesi di dottorato (2007). Wilsenach, attraverso un approccio sperimentale, ha indagato nei bambini a rischio di dislessia un’area del linguaggio nota per essere problematica nei bambini con SLI, ossia la morfosintassi. E’ indiscusso che nello SLI sono presenti difficoltà con la morfosintassi, mentre non lo è nella dislessia. Proprio per questa ragione è stata studiata nei bambini a rischio di dislessia una categoria linguistica che tipicamente risulta problematica nello SLI, ossia gli ausiliari. In altre parole, le difficoltà morfosintattiche tipiche nello SLI sono state usate come metro di paragone delle possibili difficoltà morfosintattiche nella dislessia. Di conseguenza, le teorie dello SLI potrebbero risultare potenzialmente utili nella comprensione della dislessia evolutiva, nel caso in cui i bambini dislessici mostrino difficoltà simili a quelle dei bambini con SLI. 65 Per quanto riguarda la percezione e la produzione del participio passato, i soggetti a rischio di dislessia non hanno evidenziato un sistema morfosintattico deviato, il quale avrebbe potuto essere spiegato con le teorie dello SLI che presuppongono un deficit nella competenza grammaticale, come le ipotesi missing feature, missing agreement e RDDR. Tuttavia, in questo caso, risultano più utili nello spiegare il comportamento dei bambini a rischio le teorie dello SLI che presumono un deficit nella capacità di elaborazione. Chiaramente, i bambini a rischio genetico di dislessia soffrono di una limitazione nella loro abilità di processare/elaborare informazioni complesse, un sintomo predetto da teorie come la limited processing account e la Surface Hypothesis. Alcuni dati, risultati dalle produzioni dei bambini a rischio, sono compatibili con la teoria EOI (Extended Optional Infinitive) dello SLI. Questi dati riguardano l’abilità di discriminare dipendenze sintattiche ben formate da quelle malformate. In generale, è stato osservato che il gruppo dei bambini a rischio non mostra differenze significative dal gruppo di controllo nelle abilità discriminatorie. Tuttavia, un piccolo sottogruppo dei bambini a rischio ha mostrato evidenti difficoltà nel discriminare frasi contenenti l’ausiliare temporale heeft più il participio passato da frasi contenenti una forma di participio passato che appare senza l’ausiliare. Quindi è possibile che specifici stadi evolutivi (come lo stadio Optional Infinitive) siano prolungati nella dislessia evolutiva. Se questo fosse il caso, si potrebbe dire che nei bambini dislessici alcuni aspetti dello sviluppo del linguaggio sono ritardati. Infine, l’ipotesi di una capacità limitata di elaborazione sembra essere l’unica che riesce a spiegare tutti i risultati ottenuti nello studio. I bambini a rischio, ad esempio, rispetto al gruppo di controllo, non erano capaci di individuare una dipendenza morfosintattica discontinua quando i morfemi dipendenti venivano separati da un intervallo di due sillabe. Questo potrebbe essere visto come il risultato della loro capacità di elaborazione. In altre parole, i bambini a rischio non erano capaci di elaborare (e ricordare) più parti dell’input per scoprire che l’input, a volte, conteneva una dipendenza discontinua. E’ inoltre possibile che la velocità di elaborazione dei bambini a rischio non fosse adeguata. Quando l’informazione in entrata non viene elaborata abbastanza velocemente, è probabile che decada e interferisca con altre informazioni. Altri risultati mostrano che i bambini a rischio hanno la capacità di percepire e produrre classi chiuse di parole; tuttavia questa abilità diminuisce con l’aumentare della complessità della struttura argomentale. Wilsenach spiega questi risultati in termini di energia: in queste situazioni, il compito di costruire una frase viene iniziato ma tutta l’energia disponibile viene esaurita prima del completamento della frase. Inoltre, in un altro esercizio, i bambini a rischio fallivano nell’identificare una dipendenza sintattica agrammaticale, ma solamente quando l’agrammaticalità non ostacolava l’interpretazione semantica della frase. Dal momento che i bambini a rischio soffrono di una generale limitazione di elaborazione, ‘sceglierebbero’ di omettere dell’informazione durante l’elaborazione della frase se essa risulta 66 ridondante per la comprensione o la trasmissione di un messaggio. Sulla base di quesi dati, un’ ipotesi basata sulla capacità limitata di elaborazione può spiegare i risultati ottenuti da Wilsenach nella sua tesi. Per riassumere, una limitazione della capacità di elaborazione potenzialmente colpisce: (i) la dimensione della regione di memoria computazionale disponibile (ii) l’energia disponibile per i processi computazionali (iii) la velocità con la quale l’informazione viene elaborata. Per quanto riguarda la relazione tra dislessia e SLI, Wilsenach ha cercato di verificare se una qualche teoria dello SLI (che spiega le difficoltà morfosintattiche) poteva spiegare i risultati ottenuti dai suoi esperimenti. In teoria, potrebbe essere possibile interpretare i dati all’interno di una teoria corrente della dislessia evolutiva. Tuttavia, i risultati ottenuti non sono facilmente spiegabili con nessuna delle teorie tradizionali della dislessia evolutiva. La teoria del deficit fonologico si focalizza esclusivamente sui problemi fonologici osservati nei dislessici. Inoltre, il legame tra un deficit puramente fonologico e una generale limitazione di elaborazione non è così chiaro. Le teorie che menzionano un deficit di elaborazione, come la teoria di un deficit di elaborazione temporale e la teoria magnocellulare, sostengono che la dislessia sia il risultato di un deficit di elaborazione molto specifico (principalmente un’incapacità nel percepire ed elaborare adeguatamente eventi acustici brevi e con variazioni rapide). In contrasto con le predizioni di tali teorie, i bambini a rischio in questo studio sono capaci di percepire ed elaborare eventi acustici relativamente brevi, ma qualche volte non ci riescono, soprattutto quando le loro risorse di elaborazione sono piuttosto scarse. Potrebbe essere possibile spiegare un deficit generale di elaborazione con l’ipotesi di deficit cerebellare. Vedendo che il cervelletto è coinvolto nei processi del linguaggio come ad esempio nel recupero lessicale (Marien et al., 2001) e nelle relazioni dei nomi con i verbi (Gebhart et al., 2002), si potrebbe dire che un cervelletto lievemente disfunzionale potrebbe causare un’elaborazione lenta o inefficiente del linguaggio, e questo, a sua volta, costringerebbe i dislessici ad omettere certi aspetti della struttura sintattica durante la produzione delle frasi. Tuttavia, osservando i presenti risultati, è necessario aggiungere che la disfunzione nel cervelletto non colpisce sempre la produzione del linguaggio, ma solamente quando viene richiesta l’elaborazione di strutture sintattiche complesse. Gli esperimenti condotti da Wilsenach mostrano chiaramente che lo sviluppo morfosintattico dei bambini con una predisposizione alla dislessia (e per ipotesi, quindi, i bambini 67 con dislessia) è differente da quello dei bambini con normale sviluppo. Sebbene i bambini a rischio, generalmente, non mostrino uno sviluppo morfosintattico deviato, la loro rappresentazione di specifiche dipendenze morfosintattiche sembra vulnerabile. Nelle situazioni in cui c’è un peso eccessivo sulle risorse individuali, questi bambini hanno la tendenza (rispetto ai bambini normali) a generare costruzioni agrammaticali, ad omettere elementi funzionali come gli ausiliari e i determinanti e ad omettere la morfologia verbale. Invece di avere un sistema morfosintattico danneggiato, questi bambini soffrirebbero di una generale limitazione dei processi di elaborazione, che colpisce la loro percezione e produzione delle strutture morfosintattiche, e quindi il loro controllo sulle relazioni di dipendenza morfosintattica. L’incapacità di discriminare tra relazioni di dipendenza morfosintattica ben formate e mal formate in situazioni di grande dispendio di risorse può in questo modo essere descritta come un possibile precursore linguistico della dislessia evolutiva. Come menzionato sopra, recentemente gli studiosi hanno messo in questione la divisione tra dislessia evolutiva e disturbo specifico del linguaggio. I risultati ottenuti dagli esperimenti condotti da Wilsenach forniscono una prova del fatto che una tale divisione è essenziale. Le produzioni dei bambini con SLI sono chiaramente differenti da quelle dei bambini a rischio di dislessia. Inoltre non è chiaro come si possano trarre dei benefici considerando i due disturbi diverse manifestazioni dello stesso problema. Considerare SLI e dislessia lo stesso disturbo porterebbe ad avere un gruppo estremamente eterogeneo di bambini con disturbi del linguaggio, e questo renderebbe ancora più difficile decidere il tipo di intervento clinico necessario per il bambino. 2.11 Per riassumere Dopo aver ampiamente discusso del deficit fonologico come caratteristica principale della dislessia evolutiva, ho dedicato il capitolo secondo ad un altro livello di rappresentazione linguistica che sembra essere in qualche modo danneggiato in questo disturbo sin dall’infanzia: la morfosintassi. Diversi studi a partire dagli anni ottanta hanno dimostrato la presenza di difficoltà nel dominio della morfo-sintassi nei bambini con dislessia e a rischio di dislessia, mostrando come lo sviluppo morfo-sintattico possa risultare ritardato o, secondo alcuni ricercatori, deviato. Ho riportato le ipotesi formulate da Rispens per il deficit morfo-sintattico nei soggetti dislessici: dopo avere escluso, attraverso alcuni esperimenti, che il defict morfo-sintattico possa derivare dalla difficoltà di lettura, Rispens ipotizza un deficit di memoria operativa e relativo alle 68 rappresentazioni fonologiche: la correlazione di questi deficit porterebbe alle difficoltà morfosintattiche osservate nei dislessici. La correlazione tra deficit morfo-sintattici e disabilità di lettura, tuttavia, non risulta presente soltanto nella dislessia evolutiva, ma si osserva in un altro disturbo evolutivo dell’infanzia: il disturbo specifico del linguaggio (SLI). Lo SLI, pur differenziandosi dalla dislessia evolutiva soprattutto per il grado di severità dei sintomi, sembra quindi un disturbo molto simile alla dislessia, con diversi punti di sovrapposizione, come ad esempio per le difficoltà fonologiche. Per una migliore comprensione della relazione tra dislessia e SLI ho dedicato ampio spazio alla descrizione del disturbo specifico del linguaggio e delle diverse teorie formulate negli anni a spiegazione dei suoi sintomi. Queste si possono suddividere in due grandi gruppi: una spiegazione di tipo modulare, in cui il deficit è riconducibile alle rappresentazioni linguistiche, e una spiegazione di tipo non modulare, in cui si ipotizza una disfunzione a livello di processing, di elaborazione delle informazioni. Ho inserito, poi, uno spazio dedicato all’eziologia dei due disturbi. In particolare ho riportato gli studi di neurobiologia, che riportano anomalie nello sviluppo di alcune strutture cerebrali in entrambi i disturbi, suggerendo una componente genetica piuttosto forte per entrambi. Anche gli studi condotti con le tecniche ad immagini funzionali (fMRI e PET) mostrano anomalie funzionali in alcune aree cerebrali in entrambi i disturbi, tuttavia non è chiaro ancora se queste anomalie possano far luce sulle loro origini neurobiologiche, o se ne siano solamente delle conseguenze. Successivamente mi sono occupata di come venga valutata la relazione tra i due disturbi nella letteratura scientifica. Fondamentalmente ci sono due diverse prospettive: la prima che vede la dislessia e lo SLI come due disturbi con la stessa origine, ma con diversa manifestazione sintomatologica. Secondo questa prospettiva dislessia e SLI sarebbero lo stesso disturbo, con differenze soltanto per quanto riguarda il grado di severità e l’età in cui si manifesta il disturbo. La seconda ipotesi considera invece, la dislessia e lo SLI come due disturbi, simili, ma qualitativamente differenti. Questa ipotesi è supportata da diversi studi sperimentali in cui si osserva che il tipo di errori, fonologici e morfosintattici, è sostanzialmente diverso nei due disturbi evolutivi. 69 70 3. DUE MODELLI NEUROLINGUISTICI DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA 3.1 Il ruolo della memoria nel linguaggio: il modello dichiarativo/procedurale In questa sezione mi soffermerò sul ruolo esercitato dalla memoria, o meglio da alcuni tipi di memoria, nel linguaggio. In particolare presento il modello dichiarativo/procedurale di Ullman (2004), nel quale si presume che il linguaggio dipenda da due sistemi cerebrali: la memoria procedurale e la memoria dichiarativa. La funzione di questi due sistemi cerebrali, assieme ai loro sostrati anatomici, fisiologici e biochimici, porterebbero a predizioni specifiche riguardo ai loro ruoli nel linguaggio. Ullman, inoltre, propone che alcuni disturbi evolutivi e acquisiti del linguaggio, tra cui il disturbo specifico del linguaggio (SLI), l’afasia fluente e non-fluente e la dislessia, possano essere originati da disfunzioni di una o dell’altra struttura cerebrale che stanno alla base dei due sistemi di memoria. Finora abbiamo visto che lo SLI è stato spiegato, sostanzialmente, con due diversi approcci: il primo presuppone che lo SLI sia un disturbo dovuto a un deficit di tipo linguistico, nello specifico grammaticale. Il secondo, invece, presuppone un deficit non-linguistico di processing. Secondo Ullman e Pierpont (2005), invece, lo SLI risulterebbe da un deficit procedurale, cioè da uno sviluppo anomalo delle strutture cerebrali che costituiscono il sistema di memoria procedurale. L’ipotesi è che lo stesso deficit procedurale che causa lo SLI sia anche la causa della dislessia evolutiva. In questo senso riporterò alcune prove a favore di questa ipotesi, risultate da una revisione dei risultati degli studi precedenti condotti sulla dislessia. L’uso del linguaggio dipende da due capacità: un lessico mentale di forme memorizzate e una grammatica mentale costituita dalle regole che stanno alla base della composizione sequenziale e gerarchica delle forme lessicali in parole e frasi. Il lessico mentale è un magazzino di tutte le informazioni idiosincratiche specifiche delle parole. Esso include tutte quelle parole le cui forme fonologiche e significati non possono essere derivati l’una dall’altro (ossia la cui associazione di suono e significato è arbitraria), come la semplice parola “gatto”. Il lessico mentale inoltre contiene altre informazioni irregolari delle parole, ossia quelle informazioni che non sono totalmente derivabili, come ad esempio gli argomenti che accompagnano un verbo e tutte le forme impredicibili delle parole (ad esempio in inglese il verbo teach al passato assume la forma irregolare taught). Il lessico mentale può comprendere altre informazioni distintive: i morfemi legati 71 (i suffissi –ed o –ness, come in walked e happiness), e rappresentazioni di strutture linguistiche complesse il cui significato non può essere derivato dalle sue parti (ad esempio le frasi idiomatiche, come kick the bucket). Il linguaggio consiste anche di regolarità, le quali possono essere catturate dalle regole della grammatica. Le regole permettono alle forme lessicali e ai simboli astratti o ai tratti di combinarsi nella costruzione di rappresentazioni complesse e ci permettono di interpretare il significato di quelle forme complesse pur non avendole mai sentite o viste prima. Ad esempio, nella frase “Clementina clicked the plag” sappiamo che Clementina fece qualcosa nel passato ad una qualche entità. Il significato può essere derivato dalle regole che, non solo stanno alla base dell’ordine sequenziale degli elementi lessicali, ma anche delle relazioni gerarchiche. Inoltre, le regole stanno alla base delle operazioni mentali che manipolano le parole e le rappresentazioni astratte nella composizione di strutture complesse. L’apprendimento e l’uso delle regole e delle operazioni della grammatica sono generalmente implicite (inconscie), ed è stato ipotizzato che questa conoscenza grammaticale non è disponibile per altre operazioni cognitive, ossia è “informazionalmente incapsulata”. Infine, sebbene le rappresentazioni complesse (walked) possano essere elaborate nuovamente ogni volta che vengono usate (‘walk’+ ‘-ed’), e certamente questo è quello che accade quando la forma non è mai stata incontrata precedentemente, esse potrebbero, in linea di principio, essere immagazzinate nel lessico mentale dopo essere state costruite. Le memorie dichiarativa e procedurale sono state intensamente studiate nei modelli di umani e animali. Ci sono evidenti dimostrazioni dell’esistenza di doppie dissociazioni tra i due sistemi e questo ha mostrato che essi sono indipendenti l’uno dall’altro, sebbene possano interagire tra loro in diversi modi. Come si vedrà tra poco, i due sistemi di memoria hanno in comune molte caratteristiche con i due componenti del linguaggio appena descritti. . 3.1.2 La memoria dichiarativa La memoria dichiarativa è implicata nell’apprendimento, rappresentazione, ed uso della conoscenza di fatti (conoscenza semantica) ed eventi (conoscenza episodica). Questa memoria sembra essere in stretta relazione con il flusso ventrale visivo 32 . Essa può essere particolarmente importante nell’acquisizione di informazioni associate in modo arbitrario. La conoscenza può essere 32 Il flusso ventrale visivo (ventral visual stream) sta alla base della formazione delle rappresentazioni percettive di oggetti e delle loro relazioni. Queste rappresentazioni permettono l’identificazione degli oggetti e l’immagazzinamento nella memoria a lungo termine della conoscenza degli oggetti. 72 immagazzinata esplicitamente (ossia in modo conscio) e può non essere informazionalmente incapsulata, ma accessibile a diversi sistemi mentali. La memoria dichiarativa dipende dalle regioni del lobo temporale medio, in particolare l’ippocampo, che sono in gran parte connesse con le regioni temporali e temporoparietali neocorticali. Il lobo medio temporale consolida e probabilmente recupera la nuova informazione. Inoltre altre strutture cerebrali fanno parte di questo sistema: la corteccia prefrontale anteriore può essere alla base della selezione e del recupero di memorie dichiarative, mentre porzioni destre del cervelletto potrebbero essere coinvolte nella ricerca di questo tipo di informazioni nella memoria. 3.1.3 La memoria procedurale La memoria procedurale è implicata nell’acquisizione di nuove abilità cognitive e sensomotorie e, una volta che queste vengono consolidate, nel loro controllo . L’acquisizione e il ricordo di queste procedure avvengono in maniera implicita, inconscia, al di fuori del nostro controllo. Si ipotizza che il sistema procedurale sia incapsulato informazionalmente, e abbia quindi minimo accesso ad altri sistemi mentali. Il sistema dipende da porzioni della corteccia frontale (inclusa l’area di Broca), dai glangli basali, dalla corteccia parietale e dal nucleo dentato del cervelletto. Questo sistema può essere relazionato al flusso dorsale visivo 33 ed è importante per l’acquisizione e il processing di abilità che coinvolgono sequenze di azioni. L’esecuzione di queste abilità sembra essere guidata in tempo reale dalla corteccia parietale posteriore, che è strettamente connessa alle regioni frontali. Le regioni parietali inferiori possono servire come magazzino per la conoscenza delle abilità. Similarmente i gangli basali sono connessi strettamente alla corteccia frontale. Infatti, i circuiti dei gangli basali proiettano attraverso il talamo in una particolare regione corticale, la corteccia frontale. L’acquisizione delle procedure nel sistema è graduale e necessita di ripetute presentazioni degli stimoli. Al contrario le regole, una volta acquisite, generalmente si applicano in maniera veloce e automatica. 33 Questo sistema (dorsal visual stream) sta alla base della trasformazione dell’informazione visiva e permette l’esecuzione dei programmi motori, ad esempio la manipolazione di un oggetto. 73 3.1.4 Il modello dichiarativo/procedurale Secondo il modello dichiarativo/procedurale, la memoria dichiarativa è alla base del lessico mentale, mentre la memoria procedurale è alla base degli aspetti della grammatica mentale. In questo modo, la memoria dichiarativa è una memoria associativa che immagazzina non solo fatti ed eventi, ma anche la conoscenza lessicale, incluso i suoni e i significati delle parole. L’acquisizione di parole nuove dipende, per la maggior parte, dalle strutture del lobo temporale medio. Eventualmente la conoscenza delle parole diventa indipendente dal lobo temporale medio e dipendente da altre aree neocorticali, in particolare quelle situate nelle regioni temporali e temporoparietali. Il lobo temporale potrebbe essere particolarmente importante per immagazzinare i significati delle parole, mentre le regioni temporoparietali potrebbero essere più importanti per immagazzinare i suoni delle parole. La memoria lessicale, come già accennato, è accessibile ad altri sistemi mentali. Dall’altro lato, la memoria procedurale è alla base dell’acquisizione implicita e dell’uso della grammatica nei sottodomini della sintassi, morfologia e probabilmente della fonologia (come i suoni vengono combinati). Il sistema può essere particolarmente importante nella costruzione di strutture grammaticali, ossia nella combinazione sequenziale e gerarchica delle forme in memoria (walk+ed) e di rappresentazioni astratte in strutture complesse. L’acquisizione delle regole dovrebbe dipendere dalle parti del sistema che sono coinvolte nell’apprendimento procedurale. Uno o più circuiti tra i gangli basali e particolari regioni frontali potrebbero servire il processing grammaticale e forse altre più sottili distinzioni, come la morfologia o la sintassi. Da questo punto di vista, la corteccia frontale e i gangli basali sono di “dominio generale”, nel senso che servono processi linguistici e non linguistici, ma contengono circuiti paralleli di “dominio specifico”. Il modello dichiarativo/procedurale nasce ed è motivato dalle relazioni tra le funzioni del linguaggio da una parte, e le funzioni dei sistemi di memoria dall’altro. Tuttavia queste relazioni non suggeriscono isomorfismo tra lessico e memoria dichiarativa, o tra grammatica e memoria procedurale. Infatti, vi possono essere parti di ciascun sistema che servono funzioni di tipo nonlinguistico, le quali non hanno alcun ruolo nel linguaggio, oppure un ruolo minimo. Inoltre è importante notare che il modello non sostiene che tutti gli aspetti del linguaggio dipendano dai due sistemi di memoria, o che questi siano gli unici sistemi alla base del lessico e della grammatica. Altre strutture neurali e altre componenti cognitive o computazionali potrebbero avere un ruolo importante nelle due capacità di linguaggio. 74 3.1.5 Interazioni tra i due sistemi Si ipotizza che la memoria dichiarativa/lessicale e la memoria procedurale/grammaticale interagiscano in diversi modi. Per prima cosa si ipotizza che la memoria procedurale costruisca strutture complesse e acquisisca delle regole su quelle strutture, selezionando gli elementi lessicali dalla memoria dichiarativa, mantenendo e strutturando assieme quegli elementi nella memoria operativa. Inoltre, aspetti superiori del lobo temporale (che servono la memoria dichiarativa) potrebbero giocare un ruolo importante nell’immagazzinamento delle conoscenze che riguardano rappresentazioni strutturate attraverso la memoria procedurale. Per di più, questo tipo di conoscenze o altre simili possono, in alcuni casi, essere acquisite da entrambi i sistemi. L’immagazzinamento rapido lessicale/dichiarativo di sequenze di forme lessicali potrebbero fornire un database dal quale la memoria procedurale può estrarre, gradulmente e in modo implicito, delle regole grammaticali. Infine, i due sistemi interagiscono competitivamente in diversi modi. L’accesso ad una rappresentazione nella memoria dichiarativa, che potrebbe essere derivata composizionalmente dal sistema procedurale (ad esempio la forma irregolare del passato contro la forma regolare di uno stesso verbo), bloccherebbe il completamento attraverso l’uso delle regole della grammatica. Infine, un danno al sistema dichiarativo porterebbe ad un rinforzo dell’acquisizione e del processing con il sistema procedurale, e vice versa. 3.1.6 Evidenze neurologiche a favore del modello dichiarativo/procedurale AFASIA. Esistono fondamentalmente due classi di afasia: non-fluente/anteriore e fluente/posteriore. L’afasia non fluente/anteriore è associata ad un danno alle regioni frontali sinistre (in particolare nell’area di Broca e nella corteccia vicina), ai gangli basali e a porzioni della corteccia parietale inferiore. I soggetti colpiti da afasia non-fluente mostrano tipicamente una forma di agrammatismo, costituito da un parlato ‘telegrafico’. L’afasia fluente/posteriore, invece, è associata ad un danno alle regioni temporoparietali e temporali sinistre. I soggetti colpiti da afasia fluente hanno problemi nella produzione, lettura e identificazione dei suoni delle parole e dei loro significati. Questi pazienti hanno la tendenza a produrre frasi sintatticamente ben strutturate e non omettono gli affissi morfologici, come ad esempio in inglese il suffisso –ed del passato regolare. Inoltre l’afasia fluente è spesso associata a danni semantici in domini non linguistici, ma non mostra alcun deficit motorio. 75 Gli afasici non-fluenti hanno notevoli problemi nella produzione, nella lettura ad alta voce, nel scrivere sotto dettatura, ripetere e giudicare la grammaticalità di forme del passato regolare. Questi pazienti, inoltre, hanno maggiori difficoltà nel leggere e scrivere i plurali regolari rispetto a quelli irregolari. I pazienti con afasia fluente mostrano caratteristiche opposte: hanno più difficoltà nella produzione, nella lettura, e nei giudizi di grammaticalità delle forme del passato irregolari. Questi dati mostrano l’esistenza di un legame tra le forme irregolari, la memoria semantica e non lessicale, la corteccia temporale e temporoparietale da una parte, e un legame tra le forme regolari, la sintassi, le abilità motorie, la corteccia sinistra frontale e i gangli basali dall’altra 34 . MALATTIE NEURODEGENERATIVE. Il morbo di Alzheimer colpisce per la maggior parte le strutture del lobo temporale , lasciando la corteccia frontale (in particolare l’area di Broca e le regioni motorie) e i gangli basali intatti. Una disfunzione del lobo temporale potrebbe spiegare le difficoltà dei pazienti colpiti da Alzheimer nell’acquisire nuove conoscenze lessicali e concettuali e nell’usare quelle conoscenze già presenti nella memoria. Questi pazienti non hanno problemi nell’acquisire ed esprimere abilità motorie, cognitive e aspetti di processing sintattico. Per quanto riguarda il dominio della morfologia, gli studi sulle forme del passato hanno evidenziato che gli errori nella denominazione degli oggetti e nel recupero dei fatti correlano con gli errori nella produzione delle forme irregolari e non di quelle regolari. La demenza semantica è associata ad una severa degenerazione delle regioni inferiori e laterali del lobo temporale. Il disturbo risulta nella perdita della conoscenza lessicale e concettuale non-linguistica, mentre lascia intatte le abilità motorie, sintattiche e fonologiche. Le caratteristiche di questo disturbo sono molto simili a quelle dell’Alzheimer. Infatti, anche i pazienti colpiti da demenza semantica hanno difficoltà nel produrre e identificare le forme irregolari del passato. Il morbo di Parkinson è associato ad una degenerazione dei neuroni dopaminici, specialmente nella sostanza nera dei gangli basali. La perdita della dopamina porta alla soppressione dell’attività motoria (ipocinesi) e difficoltà nell’esprimere sequenze motorie. Questo spiega le difficoltà dei pazienti con morbo di Parkinson nell’acquisire abilità motorie e cognitive, e nel processing grammaticale. Al contrario, il lobo temporale non risulta danneggiato e l’uso delle parole e delle conoscenze relative a fatti rimane relativamente intatto. Anche il morbo di Huntington è associato ad una degenerazione dei gangli basali, ma colpisce strutture differenti da quelle del morbo di Parkinson: colpisce soprattutto la regione del nucleo caudato. Questa degenerazione porta a movimenti non sopprimibili (ipercinesi). Nel dominio del linguaggio i pazienti producono forme come ‘walkeded’ e ‘dugged’ ma non errori analoghi con i 34 Per un approfondimento sui correlati neurali nell’afasia vedi Ullman et al. (2005). 76 verbi irregolari come ‘dugug’ e ‘keptet’, indicando che questi errori non sono attribuibili a deficit articolatori o motori. Invece i dati indicano una suffissazione non sopprimibile di –ed. I dati dal morbo di Parkinson e Huntington implicano il coinvolgimento dei gangli basali e della corteccia frontale nella suffissazione di –ed. In generale, essi supportano l’ipotesi che queste strutture stanno alla base dell’espressione delle regole grammaticali, come anche del movimento, e indicano che hanno una funzione simile nei due domini. DISTURBI EVOLUTIVI. Il disturbo specifico del linguaggio, come abbiamo ampiamente visto nel capitolo 2, è un disturbo evolutivo, che pur essendo eterogeneo, generalmente è accompagnato da deficit sintattici. E’ stato esaminato il processing delle forme del passato in due gruppi (Van der Lely, H. J. K. & Ullman, M.T. 2001; Ullman, M. T. & Gopnik, T., 1999) ed entrambi hanno mostrato difficoltà nel produrre nuove forme regolari (ad esempio plam-plammed) e in generale nell’applicare il suffisso –ed in modo produttivo (con iperregolarizzazioni come digdigged). Questi dati indicano che i soggetti con SLI hanno difficoltà nell’acquisizione delle regole grammaticali e sono obbligati a memorizzare sia le forme regolari che quelle irregolari. Sono state inoltre analizzate le abilità motorie e le anomalie cerebrali in uno dei due gruppi. I dati indicano la presenza di difficoltà nell’esecuzione di sequenze motorie e la presenza di anomalie nelle regioni frontali parietali (incluso le aree motorie e l’area di Broca) e nel nucleo caudato dei gangli basali. Questi risultati mostrano un legame tra la regola dell’affissazione di –ed per i verbi regolari, la sintassi e la memoria procedurale. Dall’osservazione di questi risultati e dei dati di precedenti studi Ullman e Pierpont (2005) propongono per lo SLI l’ipotesi di un deficit procedurale (questo argomento sarà il tema centrale della prossima sezione). I soggetti colpiti dalla sindrome di Williams, invece, mostrano abilità sintattiche intatte ma grosse difficoltà nel recupero lessicale. Bambini e adulti con questo disturbo hanno più difficoltà nel produrre le forme irregolari del passato rispetto a quelle regolari e i plurali. La maggior parte dei loro errori sono iperregolarizzazioni (digged, mouses). Questi risultati mostrano la dissociazione tra forme regolari e irregolari e lega le forme irregolari alla memoria lessicale, e le forme regolari alle abilità sintattiche. 3.2 SLI: l’ipotesi di deficit procedurale Ci sono diversi fattori che hanno ostacolato i tentativi di fornire una teoria unificata sullo SLI. Innanzitutto, nonostante l’uso di criteri di esclusione nella diagnosi dello SLI, è opinione comune che il disturbo non è chiaramente limitato al linguaggio. Piuttosto, difficoltà linguistiche 77 co-occorrono con diversi deficit non-linguistici, incluso deficit delle abilità motorie e della memoria operativa. Inoltre, lo SLI è una classificazione abbastanza eterogenea, con variazioni documentate negli aspetti particolari del linguaggio colpiti, nel tipo di deficit non-linguistici compresenti, e nella severità dei deficit linguistici e non-linguistici osservati. Le diverse teorie che hanno cercato di spiegare lo SLI (vedi capitolo 2, sezione 2.5), sebbene individualmente possano catturare aspetti specifici dei dati empirici, risultano problematiche, poichè nessuna di loro riesce a dare una spiegazione delle variazioni delle funzioni linguistiche e nonlinguistiche che sono danneggiate nello SLI. Inoltre, poche ipotesi hanno seriamente cercato di mettere in relazione i problemi cognitivi nello SLI alle strutture cerebrali, o di spiegare le anomalie neurali osservate nel disturbo. Ullman e Pierpont (2005) hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale lo SLI non sarebbe il risultato di un deficit specifico della grammatica, nè di un deficit relativo al processing non linguistico, bensì di un deficit procedurale: ossia lo SLI potrebbe essere dovuto ad un’anomalia nello sviluppo delle strutture cerebrali che costituiscono il sistema di memoria procedurale. Sappiamo che questo sistema, composto da un network di strutture interconnesse nei circuiti frontali e dei gangli basali, è alla base dell’apprendimento e dell’esecuzione delle abilità motorie e cognitive. Inoltre, questo sistema risulta implicato in importanti aspetti della grammatica, del recupero lessicale, nell’uso delle immagini mentali dinamiche, nella memoria operativa e nel processing temporale rapido. L’ipotesi di deficit procedurale presuppone che un numero significativo di individui con SLI soffra di anomalie in questo network cerebrale, con un conseguente danno alle funzioni linguistiche e non linguistiche che dipendono appunto da questo sistema. Al contrario, le funzioni della memoria lessicale e dichiarativa, che dipendono da altre strutture cerebrali, dovrebbero rimanere per la maggior parte intatte. L’ipotesi di deficit procedurale è una teoria che riesce a spiegare sia le anomalie cerebrali osservate nello SLI, sia la consistenza e l’eterogeneità nei deficit linguistici e non-linguistici osservati nel disturbo. Ullman e Pierpont sostengono che nello SLI i deficit grammaticali e di recupero lessicale siano strettamente associati a disfunzioni dei gangli basali, specialmente del nucleo caudato, e della corteccia frontale, in particolare l’area di Broca. Come abbiamo visto sopra, i circuiti frontali e dei gangli basali giocano un ruolo centrale nella memoria procedurale. Inoltre, il nucleo caudato e l’area di Broca sono particolarmente importanti per le funzioni cognitive, incluso gli aspetti della grammatica e di recupero lessicale. Anomalie a differenti strutture all’interno del sistema procedurale sarebbero la causa dell’eterogeneità del disturbo. Nella stessa maniera l’eterogeneità risulterebbe in seguito a disfunzioni di diverse porzioni della stessa struttura. Inoltre, è altamente 78 improbabile che, in un individuo con deficit procedurale, siano danneggiati solamente quei canali che servono la grammatica o il recupero lessicale. Infatti abbiamo già osservato che nei disturbi neurodegenerativi e neuroevolutivi, che coinvolgono i gangli basali, altri domini sono generalmente danneggiati, come quello motorio. Ciò che ci si aspetta dallo SLI è una variabilità rispetto ai tipi o alle combinazioni dei canali danneggiati, e rispetto al grado di severità delle loro disfunzioni. Per quanto riguarda l’eziologia ci si aspetta che la maggior parte dei casi abbia quindi una disfunzione dei gangli basali, in particolare dello striato, ossia del nucleo caudato o del putamen. Queste strutture sono implicate in molti disturbi evolutivi, tra cui lo ADHD ed è interessante notare come spesso lo ADHD sia compresente nello SLI. Questa anomalia dei gangli basali può avere diverse origini, tra cui un’anomalia di uno o più geni 35 , suggerendo che una componente genetica può provocare il disturbo. Tuttavia è importante notare che, sebbene le anomalie siano inizialmente circoscritte a specifiche strutture cerebrali, altre strutture potrebbero essere colpite di conseguenza, grazie alla loro interconnessione. Data la natura altamente plastica del cervello, spesso sono osservabili effetti compensativi nello SLI. Così, anomalie di porzioni specifiche dello striato o della corteccia frontale possono essere compensate da altre porzioni di queste strutture. Questo potrebbe, in parte, spiegare i miglioramenti graduali osservati nello SLI con la maturazione del bambino. Inoltre altre misure compensative possono risultare dal subentrare da parte della memoria dichiarativa in certe funzioni grammaticali, come nell’esempio già citato in cui walk+ed , invece di essere composto attraverso le regole del sistema procedurale, viene memorizzato come un elemento unico (walked) nella memoria dichiarativa. Inoltre, come compensazione del deficit procedurale, l’individuo può imparare regole esplicite nella memoria dichiarativa, come ad esempio “aggiungi –ed alla fine del verbo quando l’evento è già successo”. Quindi, con il tempo, i deficit grammaticali sarebbero meno evidenti, mentre si osserverebbero superiori abilità lessicali/dichiarative grazie appunto al rinforzo di quest’ultimo sistema, dovuto alla compensazione. Ullman e Pierpont esaminano in modo approfondito la letteratura esistente sullo SLI e propongono un’interpretazione dei dati che supporta le predizioni del deficit procedurale, e in particolare l’implicazione dell’area di Broca nella corteccia frontale e del nucleo caudato all’interno dei gangli basali (figura 6). 35 In particolare è stata trovata, in alcuni casi (come nella famiglia KE), una mutazione del gene FOXP2. I dati di alcuni studi suggeriscono che il gene FOXP2 sia importante per lo striato e per certe altre strutture del sistema procedurale, specialmente per il nucleo caudato, in particolare durante lo sviluppo cerebrale. 79 Figura 6: Localizzazione dei gangli basali e dell’area di Broca Riporto brevemente alcuni dei dati presentati, senza entrare nei dettagli, dal momento che sono già stati riportati ampiamente nel capitolo 2 36 : Bambini e adulti con SLI mostrano una varietà di deficit sintattici nella produzione e nella comprensione. Ad esempio, in compiti di comprensione, hanno difficoltà nell’assegnare i ruoli tematici nelle frasi passive e ad assegnare il valore referenziale di pronomi e riflessivi. Hanno difficoltà nel giudicare l’accettabilità sintattica delle frasi, nell’identificare errori morfo-sintattici, nell’ordine delle parole, nell’accordo. Ciononostante, non tutti gli aspetti della sintassi sono danneggiati: in particolare la conoscenza sintattica che può essere lessicalizzata, ossia memorizzata nella memoria lessicale, risulta intatta nello SLI. Inoltre sono stati riscontrati problemi nella morfologia (nella flessione nominale e verbale, incluso la formazione del passato), nella composizione e nella morfologia derivazionale. Ancora, si sono osservati deficit nel processing fonologico. Anche in questo caso, non tutti gli aspetti della fonologia risultano danneggiati ma soltanto quelli che non sono memorizzati (ad esempio si nota una difficoltà nell’ elaborare le parole nuove). L’ipotesi formulata da Ullman e Pierpont è che i deficit lessicali, morfologici e fonologici siano una conseguenza diretta di una disfunzione del sistema di memoria procedurale. Per quanto riguarda il profilo lessicale dello SLI si osserva che l’organizzazione lessicale e semantica è simile a quella dei soggetti con normale sviluppo. I deficit lessicali che apparentemente vengono riscontrati (ad esempio la difficoltà nell’acquisire parole nuove) sono spiegati in termini di disfunzioni del sistema procedurale e non di quello dichiarativo. Infatti si presume che il sistema dichiarativo, per certe funzioni, non operi isolatamente, ma coinvolga delle strutture che dipendono 36 Per un ulteriore approfondimento vedi Ullman & Pierpont (2005: 405-423). 80 anche dal sistema procedurale. In questi casi specifici, dove vi è un coinvolgimento delle memoria procedurale, potrebbero risultare deficit lessicali, ma la memoria dichiarativa rimane tuttavia intatta. Inoltre numerosi studi mostrano che molti individui con SLI esibiscono uno o più deficit non-linguistici in aggiunta ai loro deficit del linguaggio. In particolare, gli studi dimostrano che lo SLI è strettamente associato a deficit delle funzioni motorie (in particolare di sequenze motorie), di uso delle immagini mentali dinamiche, della memoria operativa, e del processing temporale rapido, in accordo con l’ipotesi di deficit procedurale. Per quanto riguarda la presenza di deficit motori, gli studi hanno evidenziato che questi non sono ristretti al viso e ai movimenti della bocca, ma sono estesi alle abilità di coordinazione e ad abilità fini, come ritagliare un cerchio, copiare delle forme, allacciarsi le stringhe delle scarpe. Anche l’uso delle immagini mentali ‘dinamiche’, come la capacità di manipolare mentalmente un oggetto, risulta danneggiato nello SLI e sembra essere legato alla memoria procedurale. Al contrario l’uso delle immagini mentali ‘statiche’, legato alla memoria dichiarativa, risulta intatto. Molti studi dimostrano, inoltre, che lo SLI è associato a un deficit della memoria operativa (Gathercole & Baddeley, 1993; Botting & Conti-Ramsden, 2001). Infatti, i bambini con SLI hanno particolari difficoltà con l’ordine seriale in esercizi di memoria operativa e con la ripetizione di non-parole, un’abilità che dipende dalla componente fonologica della memoria operativa. Inoltre, si sono osservate correlazioni tra queste abilità e altre abilità di processing grammaticale. Questi dati portano a pensare che ci sia una certa associazione tra abilità grammaticali e abilità di memoria operativa. Per ultimo, è stato riscontrato che il deficit di processing temporale riscontrato nello SLI è in stretta associazione con le difficoltà di linguaggio, anche se non sono necessariamente compresenti, nè il deficit temporale sembra causare le difficoltà di linguaggio. Questo dato mostra come problemi percettivi e di linguaggio possano, almeno parzialmente, essere spiegati con anomalie di strutture cerebrali diverse ma relazionate tra loro, alla base del sistema procedurale. Infine un ultimo sguardo va agli studi dei correlati neurali dello SLI. Come abbiamo già visto, l’ipotesi di deficit procedurale predice che nello SLI siano particolarmente colpite le regioni frontali (in particolare l’area di Broca) e i gangli basali (specialmente il nucleo caudato). Questa predizione sembra essere confermata dai dati empirici. Anche i pochi studi effettuati con la tecnica ERP sono consistenti con una disfunzione del processing grammaticale e un effetto compensativo dovuto ad un rinforzo della memoria dichiarativa/lessicale (Neville et al., 1991). I numerosi studi citati nell’articolo di Ullman e Pierpont, e qui riassunti, supportano l’ipotesi di un deficit procedurale come una possibile causa dello SLI. Infatti il deficit procedurale 81 spiegherebbe il sostanziale numero di dati riportati nei precedenti studi, formando le basi di una nuova e potenzialmente produttiva prospettiva sullo SLI. 3.3 Disturbi evolutivi e l’ipotesi di deficit procedurale Ullman (2004) propone che numerosi disturbi evolutivi siano associati a disfunzioni della memoria procedurale e ad anomalie delle strutture cerebrali alla base di questo sistema. Questi includono, oltre allo SLI (trattato ampiamente nella sezione precedente) la dislessia, il disturbo di attenzione ed iperattività (ADHD) e l’autismo. Secondo il modello dichiarativo/procedurale, in questi disturbi si dovrebbero osservare sia difficoltà grammaticali, sia problemi di recupero lessicale, sebbene le caratteristiche particolari di questi deficit linguistici possano differenziarsi in base alle specifiche disfunzioni della memoria procedurale nei diversi disturbi. Ullman tratta la dislessia e lo ADHD assieme, sostenendo che entrambi i disturbi presentano deficit delle funzioni motorie e della memoria operativa. In entrambi i disturbi, inoltre, si osservano difficoltà nella riproduzione accurata degli intervalli di tempo e nel mantenimento del controllo ritmico motorio. Si ritiene che il cervelletto sia implicato sia nella dislessia che nello ADHD, e che i gangli basali, specialmente il nucleo caudato, sia anormale nello ADHD, e probabilmente anche nella dislessia. Per di più, dislessia e ADHD mostrano un’elevata comorbidità l’una con l’altro (ossia la compresenza di entrambi i disturbi) e con lo SLI. Secondo uno studio, circa il 55% dei bambini con un disturbo specifico della lettura presentano deficit nel linguaggio orale, e il 51% dei bambini con SLI presenta una disabilità di lettura (McArthur, Hogben, Edwards, Heath, & Mengler, 2000). Alcuni studi documentano una percentuale del 45% di bambini con ADHD che presentano disturbi del linguaggio (Tirosh & Cohen, 1998). Effettivamente la più frequente diagnosi psichiatrica tra i bambini con disturbo del linguaggio è proprio lo ADHD (Cohen et al., 2000). Per quanto riguarda l’autismo, esso è associato ad anomalie cerebellari ed a deficit delle funzioni motorie, della memoria operativa e dell’acquisizione procedurale, specialmente delle sequenze. Una delle caratteristiche che definiscono il disturbo di autismo è un deficit di linguaggio. Addirittura in molti casi le abilità di linguaggio espressive non si sviluppano affatto. Sono stati riportati, inoltre, deficit nella sintassi e nella morfologia. Mentre la conoscenza di fatti e concetti sembra essere intatta, sebbene ci possano essere difficoltà nel richiamare alla memoria questo tipo di conoscenza. 82 3.4 Il deficit procedurale nella dislessia Abbiamo ampiamente visto che la dislessia evolutiva è strettamente connessa con un deficit di processing delle rappresentazioni fonologiche. Tuttavia, numerosi studi suggeriscono che nei soggetti dislessici siano danneggiate anche altre abilità. Nello specifico, i soggetti dislessici sono caratterizzati da difficoltà in altre abilità linguistiche, come ad esempio nel processing delle rappresentazioni sintattiche, e in abilità non-linguistiche, come ad esempio nell’eseguire compiti motori di tipo automatico e sequenziale. L’ipotesi di Ullman è che la dislessia evolutiva sia causata da una disfunzione del sistema di memoria procedurale. Tuttavia Ullman non spiega, come ha fatto ampiamente per altri disturbi evolutivi, (ad esempio lo SLI), come il deficit procedurale possa nello specifico rendere conto delle difficoltà riscontrate nei soggetti dislessici. Cercherò, in base alle predizioni del modello di Ullman e in base ai dati empirici degli studi esistenti sulla dislessia, di sostenere l’ipotesi di deficit procedurale. Date le caratteristiche del modello dichiarativo/procedurale, l’ipotesi sulla natura del danno che causa il comportamento dislessico può essere definito in questi termini: - La dislessia è causata da un deficit che colpisce la memoria procedurale; - Il deficit ha delle conseguenze sui processi serviti dalla memoria procedurale: (a) l’abilità di elaborare le rappresentazioni fonologiche; (b) l’abilità di elaborare le rappresentazioni grammaticali; (c) l’abilità di acquisire ed eseguire compiti motori di tipo automatico e sequenziale. L’ipotesi di deficit procedurale serebbe in grado di spiegare la presenza sia di deficit fonologici e grammaticali, sia la presenza di difficoltà motorie. Nel caso in cui l’ipotesi fosse corretta, i soggetti dislessici dovrebbero avere difficoltà nell’esecuzione di quelle abilità che dipendono dalla memoria procedurale, mentre non dovrebbero avere problemi in quelle abilità che dipendono dalla memoria dichiarativa. Nello specifico, i soggetti dislessici dovrebbero mostrare difficoltà in almeno le seguenti abilità: - nel processing delle rappresentazioni fonologiche; - nel processing della morfologia regolare; - nel processing delle rappresentazioni sintattiche; 83 - nell’esecuzione di esercizi motori. Al contrario, dovrebbero essere intatte: - le conoscenze di elementi lessicali semplici; - le conoscenze delle rappresentazioni grammaticali lessicalizzate (ad esempio la struttura argomentale e le forme morfologiche irregolari). Le difficoltà nell’abilità a processare le rappresentazioni fonologiche sono confermate dai dati menzionati nel capitolo 1 (Snowling 2001; Ramus 2003; Desroches et al. 2006). In particolare, ciò che sembra essere danneggiata è la consapevolezza fonologica, sia nei bambini a rischio di dislessia, in età pre-scolastica (de Bree 2007; Goswami 2000) sia nei bambini dislessici (Snowling 2000). Le difficoltà nel processare le rappresentazioni sintattiche sono state riportate negli studi menzionati nel capitolo 2 (Byrne 1981; Mann et al. 1984; Scarborough 1990; Catts et al. 1999; Waltzman & Cairns 2000; Wilsenach & Wijnen 2003; Rispens 2004; Van Alphen et al. 2004; Wilsenach 2006). I deficit motori sono stati confermati da alcuni studi (Fawcett & Nicolson 2004). Tuttavia bisogna considerare che la presenza di disturbi sensomori nei dislessici è controversa e dibattuta, dal momento che diversi studi dimostrano l’esistenza di una doppia dissociazione tra deficit sensomotori e difficoltà di lettura o comunque una presenza sporadica delle difficoltà motorie rispetto a quelle fonologiche (Ramus 2003; White et al. 2006). Per quanto riguarda la conoscenza lessicale, uno studio condotto da Swan & Goswami (1997) mostra che i bambini dislessici conoscono le parole e i loro significati ma hanno difficoltà nel recuperarle. Questo si trova in pieno accordo con il deficit procedurale, che presume un danno alla memoria procedurale (che tra l’altro permette il recupero degli elementi lessicali) e l’integrità della memoria dichiarativa/lessicale. Inoltre, le altre informazioni lessicali, come la struttura argomentale, sembrano essere intatte. Come menzionato nel capitolo 2, Stein et al. (1984) osservarono che i bambini dislessici tendono ad assegnare un’interpretazione attiva alle frasi passive. Questo fatto suggerisce che i bambini dislessici, nell’interpretare le costruzioni passive, fanno affidamento sulla struttura argomentale del verbo (conoscenza dichiarativa/lessicale) e non sulla corretta analisi della struttura grammaticale della frase. Inoltre l’ipotesi di deficit procedurale sembra essere confermata dagli studi di neuroimaging. Come abbiamo già notato, Temple (2002) riesaminò numerosi studi condotti con le tecniche PET e 84 fMRI; tutti gli studi mostrano che i soggetti dislessici (per la maggior parte adulti) hanno una ridotta attività della corteccia temporoparietale e delle aree frontali del linguaggio nell’emisfero sinistro, aree che fanno parte del sistema di memoria procedurale. 3.5 Quale differenza tra dislessia e SLI? L’ipotesi di deficit procedurale era stato originariamente proposto da Ullman e Pierpont (2005) per spiegare il disturbo specifico del linguaggio (SLI). L’ipotesi, secondo gli autori, è confermata dalla presenza nei soggetti con SLI di deficit a quelle funzioni che dipendono dalla memoria procedurale, mentre le funzioni legate alla memoria dichiarativa, che dipendono da altre strutture cerebrali, risultano per la maggior parte intatte. Ora, il fatto di formulare la stessa ipotesi per spiegare i sintomi sia della dislessia che dello SLI ci obbliga a riconsiderare la relazione tra questi due disturbi. Tradizionalmente, abbiamo visto che dislessia e SLI sono stati considerati due disturbi distinti. Secondo Bishop e Snowling (2004), i soggetti con SLI e con dislessia hanno in comune molti problemi di processing fonologico, ma solamente i soggetti con SLI sarebbero caratterizzati da ulteriori deficit sintattici e semantici. Tuttavia questa visione contrasta con i dati riportati, i quali, come abbiamo visto, confermano la presenza di deficit sintattici nei soggetti dislessici. Se l’ipotesi di deficit procedurale è corretta, SLI e dislessia dovrebbero essere viste piuttosto come diverse manifestazioni dello stesso disturbo, il quale si differenzierebbe solamente per severità e per il momento in cui il disturbo si manifesta. Questa ipotesi è compatibile con le supposizioni di Catts (1995) e Goulandris et al. (2000), secondo le quali SLI e dislessia possono essere classificate su un continuum di disturbo del linguaggio. All’interno di questo continuum la dislessia sarebbe trattata come una forma di deficit di linguaggio che colpisce principalmente il sistema fonologico. Mentre lo SLI verrebbe considerato come la manifestazione più severa del disturbo, comparendo molto presto nell’infanzia. Diversi studi già citati nel capitolo 2 (de Bree 2007; Fraser e Conti-Ramsden 2005), tuttavia mostrano come i profili del linguaggio dei bambini dislessici e con SLI siano differenti. I dati sembrano supportare l’ipotesi che siano due disturbi simili ma qualitativamente differenti, per tipo di errori, anche nel dominio fonologico. Tenendo conto di queste considerazioni, mi sembra che il deficit procedurale possa comunque essere una valida spiegazione della dislessia. Ullman considera che diversi disturbi (SLI, ADHD, Dislessia, Autismo, ecc) siano causati da un deficit alle strutture del sistema di memoria procedurale. Tuttavia possono essere colpite regioni diverse delle stesse strutture. Lesioni, quindi, a regioni diverse, che comunque fanno parte delle strutture alla base del 85 sistema di memoria procedurale, porterebbero a quelle differenze qualitative osservate tra dislessia e SLI. In questa prospettiva mi sembra di poter sostenere l’ipotesi che dislessia e SLI siano disturbi simili ma qualitativamente differenti, risultanti da disfunzioni di porzioni diverse delle strutture cerebrali alla base del sistema di memoria procedurale. 3.6 La memoria operativa e il linguaggio Dopo aver esaminato il ruolo dei sistemi di memoria dichiarativa e procedurale nel linguaggio, e il loro coinvolgimento nei disturbi evolutivi, soprattutto per quanto riguarda la dislessia e lo SLI, mi soffermo ora su un altro sistema di memoria: la memoria operativa. Diversi studi suggeriscono che la memoria operativa sia implicata nel processing del linguaggio, e che deficit alla memoria operativa possano avere un impatto in questo processing. L’ipotesi che la dislessia risulti da un deficit alla memoria operativa non è nuova ed esistono importanti dimostrazioni che la supportano. Nel prossimo paragrafo presenterò nel dettaglio il modello della della memoria operativa. Il più autorevole modello della memoria a breve termine, il modello della memoria operativa, fu sviluppato da Baddeley (1986). Secondo questo modello la memoria operativa è un sistema la cui funzione è il mantenimento temporaneo e la manipolazione dell’informazione che si presume sia necessaria in una vasta gamma di attività cognitive complesse. Nel 1974, Baddeley & Hitch proposero una divisione della memoria operativa in tre componenti distinte, le quali si presume lavorino assieme con la funzione di facilitare la performance in diversi compiti cognitivi. Le tre componenti, rappresentate nella figura 7, comprendono un magazzino per il mantenimento temporaneo di elementi verbali e acustici (phonological loop), un parallelo sottosistema visivo che riguarda l’immagazzinamento e il trattamento delle informazioni visive e spaziali, e un sistema attenzionale a capacità limitata (central executive) che fa fronte ai compiti cognitivi richiesti dalla situazione, organizzando la codifica delle informazioni e attivando momentaneamente la memoria a lungo termine. Sono stati trovati i correlati neurologici delle distinte componenti della memoria operativa: l’esecutivo centrale è situato nei lobi frontali, il circuito fonologico nell’emisfero sinistro e il taccuino visivo-spaziale nell’emisfero destro. 86 Figura 7. Le tre componenti della memoria operativa proposte da Baddeley & Hitch (1974). 3.6.1 Il circuito fonologico Il sistema che è stato maggiormente implicato negli studi sullo sviluppo del linguaggio è il circuito fonologico o memoria operativa verbale. Esso concerne il parlato e conserva l’ordine in cui le parole sono presentate. E’ stata proposta una suddivisione di questo sistema in due componenti: un sistema di immagazzinamento temporaneo che mantiene in memoria le informazioni per alcuni secondi, durante i quali decadono se non vengono rinforzate da una seconda componente. Quest’ultima coinvolge un sistema di ripetizione a bassa voce, che non solo mantiene le informazioni nella memoria, ma ha anche la funzione di registrare l’informazione visiva all’interno della memoria, purchè gli elementi possano essere nominati. Così, se ad un soggetto viene mostrata una sequenza di lettere da ripetere, nonostante la sua presentazione visiva, i soggetti la ripeteranno a bassa voce, e la sua ritenzione dipenderà in modo cruciale dalle caratteristiche acustiche o fonologiche delle lettere presentate nella sequenza. Per questo il circuito fonologico è caratterizzato da alcuni fenomeni come “l’effetto della similarità fonologica”, in cui le parole che sono simili a livello fonologico sono ricordate peggio, e “l’effetto della lunghezza delle parole” nel quale una sequenza di parole corte è riprodotta più facilmente di una di parole lunghe. Diversi studi dimostrano l’importanza del circuito fonologico durante l’acquisizione del linguaggio. Ad esempio, Blake et al. (1994) trovarono una relazione tra la memoria verbale e le caratteristiche specifiche evolutive del parlato spontaneo nei bambini di tre anni. Adams & Gathercole (1996) osservarono che le differenze nelle abilità di memoria fonologica in bambini di 4-5 anni erano associate alle differenze nelle abilità narrative orali di questi bambini. In un altro studio, Adams & Gathercole (2000) mostrarono che le abilità di memoria operativa fonologica nei bambini di 3-4 anni è in relazione alla ampiezza del loro vocabolario produttivo, alla lunghezza delle loro frasi e alla diverse costruzioni sintattiche utilizzate nel parlato spontaneo. Esiste, inoltre, un’ampia dimostrazione del fatto che esiste una relazione tra deficit della memoria operativa ed alcuni disturbi evolutivi (SLI, ADHD e dislessia). Ad esempio,Gathercole & 87 Baddeley (1990), attraverso un esercizio di ripetizione di non-parole, mostrarono che i bambini con SLI hanno maggiori difficoltà nel ripetere non-parole di tre e quattro sillabe rispetto a due gruppi di bambini con normale sviluppo. Gli stessi risultati sono stati inoltre replicati da molti altri ricercatori. Generalmente, questi risultati indicano una ridotta memoria operativa fonologica nei bambini con SLI. 3.6.2 Il taccuino visivo-spaziale Questo sottosistema della memoria operativa ha la funzione di integrare l’informazione spaziale, visiva e forse anche cinestetica in una rappresentazione unificata che può essere temporaneamente immagazzinata e manipolata. Il taccuino visivo-spaziale ha chiaramente minore importanza nei disturbi del linguaggio rispetto al circuito fonologico. Tuttavia, sembra che il sistema sia coinvolto nell’abilità di lettura, specialmente nel mantenimento della rappresentazione della pagina e della sua impostazione grafica, che rimarranno stabili e faciliteranno alcuni compiti, come muovere gli occhi accuratamente dalla fine di una riga all’inizio della riga successiva. 3.6.3 L’esecutivo centrale Questo sistema è responsabile del controllo dell’attenzione nella memoria operativa e può essere frazionato in diversi processi esecutivi. Questi processi esecutivi sono, probabilmente, uno dei principali fattori che determinano le differenze individuali nei test di memoria operativa. Negli studi che misurano la memoria operativa, ai soggetti viene richiesto di combinare simultaneamente processing e immagazzinamento, ad esempio, leggendo una serie di frasi e allo stesso tempo ricordare l’ultima parola di ogni frase per poi ripeterla. E’ stato provato che differenze nella memoria operativa influenzano un’ampia gamma di complesse abilità cognitive, dalla comprensione nella lettura all’apprendimento dell’elettronica. 88 3.6.4 Il cuscinetto episodico Più recentemente Baddeley (2000) ha inserito nella memoria di lavoro un quarto elemento chiamato cuscinetto episodico (episodic buffer): si tratta di un sottosistema a capacità limitata che dipende maggiormente dal processing esecutivo, e che ha la funzione di collegare insieme informazioni provenienti da diverse parti in modo da comporre un episodio, nonchè di combinare singoli elementi per costruire strutture più articolate. (figura 8) Essendo il cuscinetto episodico un concetto nuovo e piuttosto recente, non è ancora stato esplorato ampiamente nei soggetti con disturbo del linguaggio. Figura 8. L’attuale modello multi-componente della memoria operativa. 3.7 La memoria operativa e la dislessia Alcuni ricercatori pensano che la dislessia sia dovuta ad una insufficienza delle risorse di memoria operativa. McLoughlin et al. (2002), ad esempio, hanno proposto una definizione di dislessia basata sulla teoria della memoria operativa: ‘Developmental dyslexia is a genetically inherited and neurologically determined inefficiency in working memory, the information-processing system fundamental to learning and performance in conventional educational and work 89 settings. It has a particular impact on verbal and written communication as well as on organization, planning and adaptation to change’ (p.19). Diversi studi hanno stabilito un legame tra deficit della memoria operativa e dislessia. Nello specifico si ritiene che sia implicato il circuito fonologico della memoria operativa. Pickering (2000) osserva, nei suoi esperimenti, che i dislessici sembrano usare il circuito fonologico in modo meno efficiente e sembrano avere problemi nel tradurre l’informazione visiva in forma fonologica. Secondo Pickering, questo può colpire la loro abilità nell’apprendere nuove parole durante la lettura. Inoltre, i dislessici mostrano difficoltà con la ripetizione fonologica (ad esempio con la ripetizione di parole multi-sillabiche o le non-parole) e sembrano non usare le strategie di memoria fonologica, come invece fanno i soggetti non dislessici. Simili risultati sono stati ottenuti da Jeffries & Everatt (2003). Questi studiosi hanno messo a confronto le performance di adulti con quelle di bambini con dislessia, allo scopo di valutare il funzionamento del circuito fonologico e del taccuino visivo-spaziale. Trovarono che i dislessici, a differenza del gruppo di controllo, avevano maggiori problemi in quei compiti che richiedono il coinvolgimento del circuito fonologico, ma avevano le stesse abilità del gruppo di controllo per quanto riguarda il taccuino visivo-spaziale. I bambini dislessici, inoltre, mostravano un problema anche nella componente dell’esecutivo centrale. Hanno testato anche un gruppo di adulti con disprassia 37 e il fatto interessante è che hanno trovato risultati opposti: questi soggetti avevano problemi con la componente visivo-spaziale ma non con il circuito fonologico. Alloway et al. (2004) hanno fornito una dimostrazione, attraverso l’uso di una batteria di test, dell’esistenza di un legame importante tra abilità della memoria operativa e successo nella lettura e nella comprensione. In particolare, sono arrivati alla conclusione che la dimensione dello span di memoria operativa (calcolato attraverso test che valutano le abilità della memoria operativa) possa predire la performance di lettura e comprensione. Risultati simili sono stati ottenuti da Gathercole & Alloway (2006), i quali hanno dimostrato che il punteggio ottenuto nella misurazione della memoria operativa verbale predice in modo significativo il successo di lettura. Inoltre Gathercole et al. (2006), testando un gruppo di bambini con disabilità di lettura, hanno osservato che le difficoltà di apprendimento della lettura sono associate alle abilità della memoria operativa verbale. E’ stato dimostrato che anche la consapevolezza fonologica è strettamente associata alla memoria operativa verbale. Come già anticipato nel capitolo 1, la consapevolezza fonologica è un tipo di conoscenza meta-linguistica, definita come l’abilità di analizzare le parole in consonanti e 37 La disprassia è un disturbo che riguarda la coordinazione e il movimento che può comportare problemi nel linguaggio. 90 vocali, che gioca un ruolo cruciale nell’apprendimento della lettura e della scrittura. E’ un fatto riconosciuto che la dislessia è strettamente connessa ad una difficoltà nell’eseguire compiti che richiedono una certa consapevolezza fonologica (Bryant 1995). Siegal & Linder (1984) e Stanovich et al. (1984) hanno dimostrato che le misurazioni della memoria operativa verbale sono strettamente associate alle misurazioni della consapevolezza fonologica. Esiste, quindi, una certa evidenza che supporta l’ipotesi di un deficit che colpisce la memoria operativa verbale nella dislessia evolutiva. 3.7.1 La memoria operativa verbale: l’informazione fonologica e semantica Una delle principali caratteristiche del sistema di memoria operativa presentato da Baddeley è che sembra avere a che fare esclusivamente con le rappresentazioni fonologiche. Tuttavia alcuni studi importanti in psicologia (Smith and Geva 2000) e neurolinguistica (Grodzinsky 2005) hanno affermato che la portata della memoria operativa verbale potrebbe essere più ampia e contenere non solo l’informazione fonologica. Hanten & Martin (2000), ad esempio, dimostrano, sulla base di evidenze neuropsicologiche, l’esistenza di sistemi di memoria a breve termine paralleli: fonologica e semantica. Inoltre, è importante notare che il modello proposto da Baddeley non esclude a priori la possibilità che la memoria operativa verbale abbia a che fare con livelli di rappresentazione linguistica diversi da quello fonologico. In questa sezione vorrei citare uno studio condotto da G. Fiorin dell’Università di Verona, il quale supporta questa visione ‘estesa’ della memoria operativa verbale, secondo la quale il componente verbale della memoria operativa avrebbe a che fare con rappresentazioni linguistiche diverse dalla fonologia, nello specifico, con le rappresentazioni semantiche. Una prima dimostrazione a favore di questa ipotesi proviene dagli studi neuroanatomici del circuito fonologico. Come già anticipato, gli studi dell’ attività cerebrale condotti con le tecniche PET e fMRI convergono nel localizzare il circuito fonologico nell’emisfero sinistro: più precisamente nell’area di Broca (area Brodmann 44 e 45) o nel giro frontale inferiore sinistro (LIFG, area Brodmann 44, 45 e 47; da notare che lo LIFG include l’area di Broca). E’ di notevole interesse che diversi recenti studi neuropsicologici e di neuroimaging hanno dimostrato che lo LIFG supporta anche il sistema di memoria a breve termine che si occupa del mantenimento temporaneo dell’informazione semantica (Zempleni et al. 2006; Bedny et al., 2007; Thompson-Schill, 2003; Metzler, 2001). Nello specifico lo LIFG sarebbe cruciale nella selezione tra rappresentazioni semantiche in competizione. Tuttavia, come detto sopra, lo LIFG avrebbe la 91 funzione di supportare la memoria a breve termine dedicata al mantenimento temporaneo delle rappresentazioni fonologiche. L’ipotesi è, quindi, che il componente verbale della memoria operativa si occupi sia delle rappresentazioni fonologiche sia di quelle semantiche. In questo caso, la memoria operativa verbale, può essere vista come un sistema cognitivo di dominio generale, la cui funzione è quella di mantenere l’informazione linguistica on-line (che sia di natura fonologica o semantica) e risolvere la competizione tra diverse rappresentazioni linguistiche alternative. Fiorin (2008) ha riportato i risultati di un esperimento in cui l’operazione che il soggetto si trovava a fare era di disambiguare una frase chiaramente ambigua, scegliendo tra due rappresentazioni semantiche in competizione, ossia una lettura a variabile legata e una lettura coreferenziale associate all’uso di pronomi personali e possessivi. Il soggetto si trovava, in questo modo, in una situazione in cui doveva mantenere nella memoria operativa verbale due rappresentazioni semantiche in competizione e poi scegliere una di loro, sulla base delle informazioni fornite dal contesto. Nello specifico l’esperimento testa le abilità dei bambini dislessici nei confronti di frasi contenenti espressioni pronominali ambigue. I gruppi testati furono tre: un gruppo di bambini dislessici (età media: 9;4) denominato “DYS”, un gruppo di bambini controllo di pari età (età media: 9;2) “AMC” e un gruppo di bambini più piccoli (età media: 4;8) “YOC”. I risultati dell’esperimento mostrano che i bambini dislessici, al contrario del gruppo di controllo della stessa età, tende ad evitare il processo di disambiguazione e, in particolare, il mantenimento temporaneo e il confronto delle due rappresentazioni logico-semantiche in competizione. Secondo Fiorin, il comportamento dei bambini dislessici può essere spiegato assumendo che la dislessia sia associata ad un deficit della memoria operativa verbale. L’ipotesi è confermata anche dal fatto che il gruppo dei bambini controllo più piccoli, i quali è risaputo che hanno risorse di memoria operativa limitate proprio per la giovanissima età, forniscono risultati simili a quelli forniti dal gruppo dei bambini dislessici. I bambini vennero testati nella comprensione di frasi italiane del tipo riportato in (1) (1) Ogni amico di Francesco ha colorato la sua bicicletta La frase è chiaramente ambigua dal momento che può significare sia che tutti gli amici di Francesco hanno colorato la propria bicicletta, sia che ogni amico di Francesco ha colorato la bicicletta di Francesco. Le due interpretazioni della frase (1) dipendono dalla scelta dell’antecedente per il pronome “sua”. I due possibili antecedenti sono la frase nominale “ogni amico di Francesco” e “Francesco”. Nel caso in cui il pronome “sua” si riferisce a “ogni amico di Francesco” 92 l’antecedente è una frase nominale quantificata, perciò l’unica relazione anaforica possibile è quella di variabile legata. La lettura variabile legata è possibile dal momento che l’antecedente c-comanda il pronome. La Forma Logica che corrisponde alla lettura variabile legata può essere formalizzata come in (2). (2) [Ogni x: amico di (x, Francesco)]( x ha colorato la bicicletta di x) Nel secondo caso, l’antecedente del pronome, “Francesco”, è un’espressione referenziale, che non c-comanda il pronome. Per questo, l’unica relazione anaforica possibile tra “sua” e “Francesco” è di coreferenza. Questa seconda lettura può essere formalizzata come in (3), dove il pronome è riferito alla stesso individuo a cui si riferisce l’antecedente, ossia “Francesco”. (3) [Ogni x: amico di (x, Francesco)]( x ha colorato la bicicletta di Francesco) Lo scopo dell’esperimento era di vedere se i bambini dislessici, rispetto ai bambini non dislessici, hanno una preferenza per l’una o per l’altra interpretazione (variabile legata o coreferenza) e quali strategie adottano con le frasi ambigue, frasi che possono essere associate a due Forme Logiche diverse. L’esperimento consiste di un Truth Valued Judgement Task (si veda Crain & Thornton 1998). Ai soggetti viene raccontata una breve storia, rappresentata con delle figure, in cui si parla di un protagonista e di suoi tre amici. Alla fine della storia, un personaggio (l’ispettore pasticcione) pronuncia la frase target; al soggetto viene richiesto se la frase target è una descrizione corretta della storia raccontata. Il giudizio espresso dai soggetti indica se il soggetto ha interpretato il pronome della frase target come variabile legata e come coreferenziale rispetto al suo antecedente. I risultati mostrano che i bambini dislessici scelgono l’interpretazione variabile legata il 55% delle volte, i bambini più piccoli scelgono l’interpretazione variabile legata il 58% delle volte, mentre i bambini del gruppo di controllo di pari età dei dislessici si comportano a chance level, ossia scelgono la variabile legata il 50% delle volte. La differenza più importante tra il gruppo di controllo AMC e i gruppi DYS e YOC, è che il gruppo AMC si comporta a chance level non solo come gruppo ma anche individualmente mentre i gruppi DYS e YOC includono un numero consistente di soggetti che hanno una forte preferenza per l’una o l’altra interpretazione. Ciò che accade in questo esperimento è che i soggetti, sentendo una frase come (1) si trovano a dover eseguire almeno due operazioni: (i) elaborare due rappresentazioni logiche diverse della frase (ii) decidere, sulla base dell’informazione contenuta nel contesto, quale forma logica è 93 più appropriata. Questo processo richiede di mantenere nella memoria a breve termine due Forme Logiche diverse e nello stesso tempo di compararle con l’informazione contestuale. Nell’esperimento, tuttavia, il contesto non aiuta affatto a dare il significato alla frase target. Infatti entrambe le interpretazioni si possono adattare al contesto pronunciato, ed entrambe permettono al soggetto di dare la giusta risposta. Questa osservazione è sufficiente a spiegare il comportamento del gruppo AMC e, in particolare, la tendenza a indovinare l’interpretazione più coerente sia come gruppo sia individualmente, dando un risultato chance level. I soggetti dislessici, invece, hanno una tendenza significativa a scegliere una delle due interpretazioni. L’interpretazione data da Fiorin a questi risultati è che i bambini dislessici erano capaci di elaborare entrambi i tipi di Forme Logiche ma tendevano ad evitare il processo di disambiguazione semantica e, nello specifico, di comparare le due Forme Logiche con l’informazione contestuale. L’ipotesi è che i soggetti dislessici, evitando il processo di disambiguazione semantica, evitano di mantenere nella memoria operativa verbale due rappresentazioni semantiche, evitando quindi un sovraccarico della memoria operativa verbale. I risultati sembrano pertanto essere compatibili con l’ipotesi che la dislessia evolutiva sia strettamente associata ad un deficit della memoria operativa verbale. L’ipotesi della memoria operativa verbale, se corretta, avrebbe importanti conseguenze sia nel capire la natura della dislessia evolutiva, sia per lo sviluppo delle terapie di trattamento del disturbo. Per prima cosa, l’ipotesi di memoria operativa verbale è utile nel localizzare, sia a livello cognitivo che neuroanatomico, l’origine del danno che causa il comportamento dislessico. Infatti, le tecniche di neuroimaging disponibili oggi permettono di localizzare le regioni cerebrali che servono la memoria operativa verbale e, quindi, le regioni cerebrali che possono essere colpite nei soggetti dislessici. Inoltre, una migliore comprensione della natura della dislessia potrebbe essere cruciale per sviluppare programmi di trattamento più efficaci che tengano conto del deficit di memoria. 3.8 Per riassumere In questo capitolo conclusivo ho voluto soffermarmi sul ruolo esercitato dalla memoria nel linguaggio, e nello specifico, nei disturbi evolutivi, con particolare riferimento alla dislessia e allo SLI. In realtà è necessario distinguere diversi tipi di memoria all’interno del sistema cerebrale, dal momento che, come dimostrano i dati empirici riportati, queste “memorie” possiedono diverse funzioni e diverse basi neuroanatomiche. Ho presentato due modelli a mio parere interessanti: il primo è il modello dichiarativo/procedurale di Ullman, secondo il quale le memorie dichiarativa e procedurale servono 94 anche aspetti del lessico mentale e della grammatica mentale. Entrambi i sistemi cerebrali giocano ruoli funzionali simili nei domini linguistici e non-linguistici, che dipendono da comuni sostrati anatomici, fisiologici e biochimici. Inoltre, e questo è il motivo per cui ho inserito nella discussione questo modello, Ullman sostiene che alcuni disturbi evolutivi e acquisiti del linguaggio potrebbero essere visti come disturbi che colpiscono le strutture cerebrali alla base di uno dei due sistemi di memoria. Seguendo le implicazioni dell’ipotesi di deficit procedurale ipotizzato per lo SLI, ho cercato di estendere e di dare una possibile spiegazione dello stesso tipo di deficit per la dislessia. In entrambi i disturbi sarebbero, infatti, colpite quelle strutture cerebrali alla base del sistema di memoria procedurale. Tuttavia i due disturbi, pur essendo simili sotto vari punti di vista, sarebbero qualitativamente differenti, poichè sarebbero colpite porzioni diverse delle strutture cerebrali alla base della memoria procedurale. Il secondo modello che ho proposto è il modello della memoria operativa di Baddeley. Secondo Baddeley alcuni disturbi evolutivi, tra cui lo SLI e la dislessia, sarebbero originati specificatamente da una disfunzione della memoria operativa, in particolare della componente verbale. A questo proposito ho riportato uno studio condotto da un dottorando dell’Università di Verona, G. Fiorin, il quale propone che la componente verbale della memoria operativa non solo abbia a che fare con la fonologia, ma anche con altri livelli di rappresentazione linguistica, come il livello semantico. A questo proposito ho presentato i risultati di un esperimento, che valuta il processo di disambiguazione semantica nei bambini dislessici rispetto a due gruppi di controllo. I dati portano ad ipotizzare una disfunzione della memoria operativa verbale nei dislessici, dal momento che i dislessici hanno difficoltà con il mantenimento nella memoria a breve termine di due Forme Logiche diverse e con il confronto di queste con l’informazione contestuale, il che risulta in una tendenza ad evitare il processo di disambiguazione. 95 96 CONCLUSIONE Lo scopo di questa tesi era di fornire al lettore una visione d’insieme degli studi linguistici sulla dislessia evolutiva, dagli anni settanta ad oggi, e di presentare i modelli neurolinguistici più completi e recenti proposti a spiegazione dei sintomi di questo disturbo del linguaggio. Si parla di disturbo del linguaggio, e non nello specifico di disabilità di lettura, perchè ampi studi hanno dimostrato che i soggetti dislessici non solo presentano difficoltà nel dominio fonologico (ritenuto il fattore causale dei problemi nella lettura nei dislessici), ma anche in altri domini linguistici, come nella morfosintassi. Oggi inoltre, quando si parla di dislessia evolutiva, si fa spesso riferimento ad un altro disturbo dell’apprendimento: il disturbo specifico del linguaggio. Nonostante il dibattito sia ancora in corso sulla relazione tra i due disturbi, se siano lo stesso disturbo o disturbi distinti, si osserva chiaramente che i sintomi di entrambi presentano delle somiglianze. Di conseguenza la ricerca va avanti esplorando le differenze e i punti di contatto tra i due disturbi, cercando di fornire le migliori spiegazioni sulle loro origini o sui fattori causali, in modo da poter lavorare in futuro sui trattamenti di riabilitazione più adatti a superare le difficoltà negli individui colpiti. Nonostante le teorie sulla dislessia siano numerose, nessuna sembra in grado di dare una spiegazione alla varietà di sintomi riscontrati nei soggetti colpiti. In particolare, si tratta di spiegare non solo un deficit fonologico, ma anche deficit di tipo senso-motorio osservati in una parte degli individui dislessici, e deficit morfosintattici. In questa tesi ho presentato due modelli che, a mio parere, riescono a fornire le spiegazioni più affascinanti e nuovi punti di partenza per la ricerca in questo campo. Il primo è il modello dichiarativo/procedurale di M. Ullman. Secondo questo modello alcuni disturbi evolutivi e acquisiti sarebbero la conseguenza di una disfunzione ad uno di due sistemi di memoria (dichiarativa e procedurale). Nello specifico, la dislessia risulterebbe da un deficit procedurale, un deficit che colpisce quei sistemi cerebrali che sono alla base della memoria procedurale (in particolare i gangli basali, la corteccia parietale e il nucleo dentato del cervelletto). Il deficit procedurale, originariamente, era stato formulato da Ullman e Pierpont per lo SLI. Seguendo le implicazioni del modello dichiarativo/procedurale e del deficit procedurale, ho cercato di sostenere l’ipotesi di questo deficit anche per la dislessia evolutiva. Il deficit procedurale spiegherebbe, oltre ai problemi fonologici, anche i problemi morfo-sintattici. Inoltre, riesce a spiegare tutte quelle difficoltà di tipo senso-motorio legate all’automaticità di movimenti sequenziali. Le differenze di severità e qualitative tra dislessia e SLI possono essere spiegate, 97 secondo questo modello, come il risultato di una disfunzione di porzioni diverse delle stesse strutture cerebrali colpite, quelle alla base del sistema di memoria procedurale. Il secondo modello che ho presentato è il modello della memoria operativa di A. Baddeley. Diversi studi dimostrano che la memoria operativa è implicata nel processo di elaborazione del linguaggio, e un danno a questo modulo cognitivo avrebbe un impatto importante su questa capacità. Sulla base di queste osservazioni è stato proposto che la dislessia derivi da un danno alla memoria operativa, nello specifico alla sua componente verbale, ossia al circuito fonologico. Baddeley, nella presentazione del suo modello, sostiene che il circuito fonologico abbia a che fare con le rappresentazioni fonologiche. Ho riportato uno studio di G. Fiorin, il quale propone una versione più estesa del circuito fonologico, basata su evidenze empiriche di diversi studi recenti, che incorpora anche il livello semantico. Se l’ ipotesi è corretta, i risultati degli esperimenti condotti sui bambini dislessici dimostrano che in effetti in questi soggetti vi è una disfunzione della memoria operativa verbale, e nello specifico dimostrano una difficoltà nel mantenimento nella memoria a breve termine di due rappresentazioni logiche differenti e un’incapacità di svolgere il processo di disambiguazione semantica richiesto. Tuttavia, il modello di Baddeley sembra non dare alcuna spiegazione ai deficit di tipo senso-motorio, che, come abbiamo ampiamente visto, sono presenti in almeno una piccola porzione dei dislessici. I due modelli rappresentano, a mio parere, due punti di partenza per lo sviluppo di nuove ricerche e ulteriori studi approfonditi in questo campo. La ricerca ha, quindi, ancora molte e diverse strade da esplorare e necessita, per fare questo, di una collaborazione tra discipline tra loro diverse come la Linguistica e la Neurobiologia. Solo in questo modo sarà possibile giungere a nuove e importanti intuizioni e scoperte nel campo dei disturbi evolutivi e non solo. Una migliore comprensione della natura della dislessia evolutiva e degli altri disturbi evolutivi potrebbe essere cruciale per ottenere dei miglioramenti nei programmi riabilitativi per i soggetti colpiti. 98 RINGRAZIAMENTI La mia esperienza universitaria sta per concludersi ed è doveroso da parte mia rivolgere i miei più sentiti ringraziamenti alle persone che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito al raggiungimento di questo grande traguardo. Ringrazio sentitamente tutti i miei docenti della laurea specialistica e in particolar modo il mio relatore, Denis Delfitto, che ha saputo coinvolgermi nell’affascinante mondo del linguaggio e con pazienza ha dedicato parte del suo tempo a correggere le pagine della mia tesi. Un ringraziamento speciale è rivolto a Gaetano Fiorin per i suoi preziosi suggerimenti e per il tempo che mi ha dedicato in questi ultimi mesi durante la stesura della tesi. Grazie anche a Maria Vender, compagna di studi e amica, che mi ha sostenuto in questo mio progetto, e grazie a Francesca Cuoghi, che dalla lontana Germania mi è sempre stata vicina con le sue lunghissime e piacevolissime e-mail. Un grazie che proviene dal profondo del cuore va a tutta la mia famiglia, senza il loro sostegno non avrei fatto molta strada...grazie Luca, che da Parigi hai alleggerito molti pensieri! Grazie mamma e papà, mi avete sempre dato tutto quello di cui avevo bisogno, e molto di più! Grazie Birba, Cleo e la piccola Milù: una irrinunciabile pet-therapy soprattutto nei momenti di stress! E per ultimo il mio grazie è rivolto a Federico, che mi ha accompagnato in questo percorso e con premura mi ha incoraggiato sempre. Grazie di tutto! 99 100 BIBLIOGRAFIA Adams, A-M., & Gathercole, S.E. (1996). Phonological working memory and spoken language development in young children. Quarterly Journal of Experimental Psychology, Special Issue on Working Memory, 49A (1), 216-233. 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