universit degli studi di verona - Università degli Studi di Verona

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN LINGUISTICA
TESI DI LAUREA
ASPETTI LINGUISTICI E NEUROCOGNITIVI
DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA
Relatore:
Ch.mo Prof. DENIS DELFITTO
Laureanda:
LUISA PICCOLI
ANNO ACCADEMICO 2007-2008
INDICE
INTRODUZIONE
5
1. LA DISLESSIA: LE TEORIE E IL DEFICIT FONOLOGICO
7
1.1 Definizione e diagnosi della dislessia evolutiva
7
1.2 Breve storia della dislessia
9
1.3 Le principali teorie sulla dislessia evolutiva
12
1.3.1 La teoria del deficit fonologico
12
1.3.2 La teoria del deficit di processing temporale
13
1.3.3 La teoria cerebellare
13
1.3.4 La teoria magnocellulare
14
1.4 Teorie della dislessia evolutiva: alcuni commenti
16
1.5 Doppia dissociazione tra disturbi sensomotori e difficoltà di lettura
17
1.6 L’elaborazione fonologica nei soggetti dislessici
19
1.7 Un modello generale di accesso lessicale
21
1.8 Lo sviluppo fonologico nei bambini a rischio di dislessia
24
1.9 Danni fonologici specifici misurati con l’eyetracking
26
1.10 Per riassumere
29
2. LA DISLESSIA E IL DEFICIT SINTATTICO: UN CONFRONTO
CON IL DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO
31
2.1 Lo sviluppo sintattico nella dislessia evolutiva
31
2.2 Tre ipotesi per il deficit sintattico
34
2.3 La dislessia e il disturbo specifico del linguaggio (SLI)
37
2.4 Caratteristiche generali dello SLI
38
2.4.1 Errori grammaticali nello SLI
40
2.5 Le principali teorie sul disturbo specifico del linguaggio
41
2.5.1 Dallo stadio Extended Optional Infinitive verso il Modello di omissione del
tempo e dell’accordo
42
2.5.2 L’ipotesi di Missing feature/ Implicit Rule Deficit
43
1
2.5.3 L’ipotesi Missing Agreement
44
2.5.4 Representational deficit for dependency relations
45
2.5.5 La Surface Hypothesis
46
2.5.6 SLI come deficit di elaborazione
48
2.6 Teorie sul disturbo specifico del linguaggio: alcune considerazioni critiche
49
2.7 Eziologia
50
2.7.1 Studi genetici
50
2.7.2 Il ruolo dei fattori ambientali
52
2.8 Studi di neurobiologia
52
2.8.1 Studi sulla struttura del cervello
53
2.8.2 Studi di Functional Imaging
54
2.9 Una relazione tra dislessia e disturbo specifico del linguaggio
56
2.10 Dislessia e SLI: lo stesso disturbo o due disturbi differenti?
58
2.10.1 Una comparazione dei tre modelli di ipotesi della dislessia e dello SLI
62
2.10.2 L’elaborazione sintattica nella dislessia evolutiva e nel disturbo
specifico del linguaggio
65
2.11 Per riassumere
68
3. DUE MODELLI NEUROLINGUISTICI DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA
3.1 Il ruolo della memoria nel linguaggio: il modello dichiarativo/procedurale.
71
3.1.2. La memoria dichiarativa
71
3.1.3 La memoria procedurale
72
3.1.4 Il modello dichiarativo/procedurale
73
3.1.5 Interazioni tra i due sistemi
74
3.1.6 Evidenze neurologiche a favore del modello dichiarativo/procedurale
75
3.2 SLI: l’ipotesi di deficit procedurale
75
3.3. Disturbi evolutivi e l’ipotesi di deficit procedurale
77
3.4 Il deficit procedurale nella dislessia
82
3.5 Quale differenza tra dislessia e SLI?
83
3.6 La memoria operativa e il linguaggio
85
3.6.1 Il circuito fonologico
87
3.6.2 Il taccuino visivo-spaziale
88
3.6.3 L’esecutivo centrale
88
2
3.6.4 Il cuscinetto episodico
89
3.7 La memoria operativa e la dislessia
89
3.7.1 La memoria operativa verbale: l’informazione fonologica e semantica
91
3.8 Per riassumere
94
CONCLUSIONE
97
RINGRAZIAMENTI
99
BIBLIOGRAFIA
101
3
4
INTRODUZIONE
Il mio interesse verso i disturbi specifici dell’apprendimento e, in particolar modo verso la
dislessia, è cresciuto durante il secondo anno del corso specialistico, quando ho cominciato a
studiare e ad approfondire alcuni campi specifici della Linguistica, come ad esempio l’acquisizione
del linguaggio ed i vari modelli cognitivi del processo mentale che consente la produzione di un atto
linguistico o di un testo scritto. Lo studio degli errori nel parlare o nello scrivere mi ha affascinato
fin da subito, e nel momento in cui ho avuto l’occasione di affiancare un bambino dislessico nello
studio pomeridiano, ho provato subito il desiderio di apprendere qualcosa di più a proposito di
questo disturbo della lettura.
E’ iniziato così il mio percorso di ricerca e studio sulla dislessia evolutiva. Il mio intento era
quello di arrivare ad avere una visione d’insieme degli studi compiuti in questo campo nel corso
degli anni dalla Linguistica e dalla Neuropsicologia Cognitiva e di vedere come la ricerca
scientifica sta muovendo i propri passi e quali risultati ha finora ottenuto.
Ho organizzato la mia tesi nel modo seguente: nel capitolo 1 verrà introdotta una definizione
di dislessia evolutiva, accompagnata dai criteri utilizzati nella diagnosi del disturbo.
Successivamente presenterò una breve storia della dislessia e confronterò i principali approcci
sviluppati nel corso degli anni per spiegare le sue basi biologiche e cognitive. In particolare,
sosterrò che la dislessia è un disturbo specifico del linguaggio, che colpisce soprattutto
l’elaborazione fonologica delle parole e sembra avere cause neurologiche e genetiche.
Il capitolo 2 sarà dedicato al deficit sintattico riscontrato nei bambini dislessici. Presenterò
gli studi sul linguaggio dei bambini a rischio di dislessia, per dimostrare come i deficit linguistici in
tenera età possano essere, in alcuni casi, dei precursori della dislessia evolutiva e predire una
disabilità di lettura. Inoltre darò ampio spazio alla descrizione di un disturbo dell’apprendimento
che sembra avere diversi punti di contatto con la dislessia: il Disturbo Specifico del Linguaggio
(SLI). Dopo aver presentato le diverse teorie a spiegazione dello SLI, mi soffermerò sulle ipotesi
che riguardano la sua relazione con la dislessia, considerando anche gli aspetti neurologici e
genetici di entrambi i disturbi.
Nel capitolo 3 presenterò due modelli neurolinguistici: il modello Dichiarativo/Procedurale
di M. T. Ullman e il modello della Memoria Operativa di A. Baddeley. Ritengo che questi due
modelli siano interessanti, dal momento che riescono a dare le migliori spiegazioni ai sintomi della
dislessia. Infatti, secondo l’ipotesi di Deficit Procedurale di Ullman la dislessia, ma anche il
Disturbo Specifico del Linguaggio, sarebbe la conseguenza di un deficit che colpisce le strutture
5
cerebrali alla base del sistema di memoria procedurale. Secondo questa prospettiva, i due disturbi
avrebbero una causa neurobiologica comune. Il punto di forza di questo modello è che riesce a
spiegare tutti quei sintomi di natura non linguistica associati alla dislessia, come i deficit sensomotori o le difficoltà nell’automatizzazione di sequenze di movimenti.
Il modello della memoria operativa di Baddeley predice nella dislessia evolutiva un danno
alla componente verbale della memoria operativa. Presenterò a questo proposito uno studio
condotto da un ricercatore del laboratorio sulla dislessia dell’Università di Verona, il quale sostiene
una visione estesa di questa componente verbale, ossia quest’ultima sarebbe coinvolta non solo
nell’informazione fonologica ma anche in quella semantica. Dato questo presupposto, i risultati
ottenuti dagli esperimenti condotti su bambini dislessici confermerebbero il deficit alla memoria
operativa verbale.
6
1. LA DISLESSIA: LE TEORIE E IL DEFICIT FONOLOGICO
1.1 Definizione e diagnosi della dislessia evolutiva
Nella società moderna la lingua scritta rappresenta una modalità chiave per la
comunicazione e lo scambio di notevoli quantità di informazioni. Oggi essere analfabeta o essere
incapace di leggere correttemente può portare ad avere considerevoli difficoltà in un mondo e in
una cultura come la nostra, così fortemente legata alla scrittura. Mentre la maggior parte dei
bambini impara a leggere con relativa facilità (grazie ad un’appropriata istruzione), una piccola ma
sostanziale parte (press’a poco il 3-10%) della popolazione presenta difficoltà significative
nell’apprendimento della lettura. Per questi bambini le prime istruzioni sulla lettura segnano l’inizio
del loro fallimento nell’acquisizione di tale abilità. Questi bambini soffrono di dislessia evolutiva.1
Non tutti i bambini che hanno questo tipo di problemi ricevono una diagnosi di dislessia.
La American Psychiatric Association usa il termine dislessia evolutiva quando la capacità di lettura,
misurata individualmente attraverso la somministrazione di test sull’accuratezza della lettura e sulla
comprensione, è sostanzialmente al di sotto delle aspettative rispetto all’età cronologica,
all’intelligenza e ad una appropriata istruzione (DSM-IV, 1994). Per cui, ciò che è decisivo, non è
un basso livello nella performance di lettura, ma la discrepanza tra lettura e livello generale di
intelligenza. Quindi la principale caratteristica di definizione di questa categoria nosografica è
quella della “specificità”, intesa come un disturbo che interessa uno specifico dominio di abilità in
modo significativo ma circoscritto, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. In
questo senso il principale criterio necessario per stabilire la diagnosi di dislessia è quello di
“discrepanza” tra abilità nel dominio specifico interessato e l’intelligenza generale.
Una definizione appropriata di dislessia evolutiva appare quindi quella proposta da
Vellutino (1979), che considera tale disturbo come un insuccesso nell’imparare a leggere
correttamente, nonostante un’intelligenza nella norma, un udito normale, un’esposizione adeguata
all’istruzione e l’assenza di problemi fisici, emotivi o socioeconomici.
Data la definizione è chiaro che la dislessia evolutiva è una difficoltà selettiva nella lettura.
E’ da notare, però, che spesso queste difficoltà di lettura si associano a difficoltà nella scrittura e/o
1
Si distingue tra dislessia evolutiva e dislessia acquisita. Nel caso di quest’ultima un soggetto che è in grado di leggere
normalmente comincia a compiere errori oppure non riesce più a riconoscere le parole con la stessa facilità. Di solito
queste inattese difficoltà di decodifica sono la conseguenza di qualche evento patologico che ha determinato lesioni
nelle aree corticali che sono coinvolte nel processo di transcodifica.
7
nell’aritmetica, anche se non necessariamente della stessa intensità, 2 poichè queste tre abilità
(lettura, scrittura, aritmetica) presentano delle basi comuni. Altre difficoltà associate alla dislessia e
messe in luce da genitori e insegnanti riguardano l’attenzione e la memoria. Di questo aspetto
parlerò nel terzo capitolo più in dettaglio.
La diagnosi di dislessia evolutiva in Italia può essere formulata solo da un medico o da
uno psicologo adottando i protocolli necessari a verificare la presenza di tutte le condizioni
richieste. I criteri sono stati definiti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha posto
cinque condizioni che debbono sussistere perchè un disturbo di lettura possa essere definito in
termini di dislessia evolutiva e queste sono:
1.
Il livello intellettivo del soggetto con disturbo di lettura deve essere nella
norma (Q.I. ≥ 85).
2.
Il livello di lettura deve essere significativamente distante da quello di un
bambino di pari età o classe frequentata. In particolare, se il livello di lettura è misurato con
test adeguati, deve essere inferiore alla II deviazione standard prevista per l’età o la classe
frequentata.
3.
Il soggetto non deve presentare disturbi neurologici o sensoriali che possano
giustificare la difficoltà di lettura come conseguenza diretta.
4.
Il disturbo deve essere persistente, nonostante la scolarizzazione adeguata e
interventi didattici specifici.
5.
Il disturbo di lettura deve presentare conseguenze sulla scolarizzazione o
nelle attività sociali in cui è richiesto l’impiego della letto-scrittura.
Generalmente l’accertamento diagnostico avviene in due fasi distinte, rispettivamente
finalizzate all’esame dei criteri diagnostici prima di inclusione e successivamente di esclusione.
Nella prima fase si somministrano, insieme alla valutazione del livello intellettivo, quelle prove
necessarie per l’accertamento della presenza della dislessia (decodifica e comprensione nella
lettura). Questa fase permette al clinico di formulare o meno una diagnosi provvisoria o di
orientamento verso questo tipo di disturbo. Nella seconda fase vengono disposte quelle indagini
cliniche necessarie per la conferma diagnostica mediante l’esclusione della presenza di patologie o
anomalie sensoriali, neurologiche, cognitive e di gravi psicopatologie.
2
Ci si riferisce a disortografia, disgrafia e discalculia. Disortografia e disgrafia sono disturbi specifici della scrittura: il
primo è di natura linguistica ed è un deficit nei processi di cifratura; il secondo è di natura motoria ed è un deficit nei
processi di realizzazione grafica. La discalculia è un disturbo specifico del calcolo, connotato da debolezza nella
strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione numerica e da difficoltà nelle procedure esecutive e nel calcolo.
8
L’approfondimento del profilo del disturbo è fondamentale per la qualificazione funzionale
del disturbo. L’indagine strumentale e l’osservazione clinica si muovono nell’ottica di completare il
quadro diagnostico nelle sue diverse componenti sia per le funzioni deficitarie che per le funzioni
integre. La valutazione delle componenti dell’apprendimento si approfondisce e si amplia ad altre
abilità fondamentali o complementari (linguistiche, percettive, prassiche, visuomotorie, attentive,
mnesiche), ai fattori ambientali e alle condizioni emotive e relazionali per un trattamento
riabilitativo globale. Un ulteriore contributo al completamento del quadro è l’esame delle
comorbidità, intesa come co-occorrenza di altri disturbi specifici dell’apprendimento o come
compresenza di altri disturbi evolutivi (ADHD, disturbi del comportamento, dell’umore, ecc.)
Un approccio interdisciplinare è la prassi clinica maggiormente auspicabile in
considerazione delle caratteristiche del disturbo.
1.2 Breve storia della dislessia
La dislessia, da Cleopatra a Cher, è con ogni probabilità sempre esistita durante la storia
dell’umanità, anche prima dello sviluppo dei sistemi di scrittura. Si possono identificare quattro
stadi, sebbene non chiaramente differenziati: un primo stadio, le origini della dislessia, nel quale
furono identificati i primi soggetti con deficit di lettura e linguaggio, che generalmente erano
pazienti con afasia acquisita. Questo periodo durò fino alla fine del XIX secolo. Durante i primi
studi sulla dislessia evolutiva (1895-1950), questa condizione fu scoperta e iniziarono così ad
esserne analizzate le cause e le caratteristiche. Successivamente (1950-1970) si è assistito ad uno
stadio nel quale il campo della dislessia si è aperto ad una varietà di approcci clinici, educativi e di
ricerca. Infine le teorie moderne (1970-2000) hanno creato le fondamenta della nostra conoscenza
attuale sulla dislessia.
Le origini della dislessia nella letteratura scientifica sono dovute ai primi ritrovamenti di
problemi linguistici, prevalentemente dovuti ad una afasia acquisita. Questi pazienti afasici talvolta
soffrivano anche di una perdita della capacità di lettura. Furono necessarie alcune scoperte
scientifiche importanti prima di riuscire a mettere afasia e dislessia in relazione a lesioni cerebrali.
Fu infatti intorno al XVI sec. quando filosofi e fisici decisero che la localizzazione del pensiero non
era il cuore ma il cervello. Di certo dobbiamo dare credito al lavoro del dottore austriaco Franz
Joseph Gall, che all’inizio del XIX sec., suggerì che ogni specifica parte del cervello ha una precisa
funzione e a quello di Pierre Paul Broca, che localizzò le aree specifiche del cervello dove potevano
risiedere le funzioni del linguaggio.
9
Il termine dislessia fu usato per la prima volta nel 1872 dal medico tedesco R. Berlin di
Stuttgart, che usò il termine per descrivere il caso di un adulto con dislessia acquisita, ossia la
perdita di capacità di lettura dovuta a lesione cerebrale. Poco dopo, il dottor A. Kussmaul (1877)
suggerì il termine “cecità per le parole” per descrivere un paziente afasico adulto che aveva perduto
la capacità di lettura. In modo analogo Charcot definì ‘alessia’ come la perdita totale della capacità
di lettura. Ed infine Bateman, nel 1890, definì la alessia o dislessia come una forma di amnesia
verbale nella quale il paziente ha perso la memoria del significato convenzionale dei simboli grafici.
Fino a quel tempo la dislessia era considerata come un disturbo di origini neurologiche, causato
quindi da un trauma cerebrale (dislessia acquisita).
Il termine dislessia evolutiva invece fu inizialmente descritto come un disturbo visivo.
Nel 1895 uscì per la prima volta su una rivista scientifica un articolo che parlava di una strana
forma di cecità per le parole. Lo scrisse un chirurgo inglese, Hinshelwood, che ipotizzava che
questa condizione fosse congenita e che fosse meno rara di quanto sembrasse sulla base della scarsa
frequenza con cui veniva registrata. Questo articolo ispirò il dottor W. Pringle Morgan a descrivere
il caso di un intelligente ragazzo di quattordici anni che ancora non aveva imparato a leggere. Per
questo Morgan è riconosciuto come il padre della dislessia evolutiva.
Un’altra figura importante nella storia della dislessia fu quella di Samuel Orrey Orton
che, analizzando la dislessia evolutiva, coniò il termine “strefosimbolia” spiegando che gli individui
affetti da dislessia evolutiva hanno difficoltà nell’associare la forma visiva delle parole con la loro
forma parlata. Argomentò inoltre che il deficit della lettura nella dislessia sembra non essere
causato precisamente da deficit visivi.
Fino ai tempi di Orton la dislessia era campo esclusivo dei medici, specialmente
oftalmologi e neurologi. Dopo Orton gli studi sulla dislessia divennero un interessante campo di
analisi per psicologi, sociologi ed educatori, i quali cominciarono a discutere sui fattori ambientali e
psicologici che potevano essere connessi con le difficoltà della dislessia, come il metodo educativo
e la vita familiare.
Senza entrare nel dibattito di quel tempo sulle cause e sui sintomi della dislessia, tuttavia
c’era consenso tra gli studiosi nel ritenere che il disturbo potesse essere curato.
Tra gli anni ’50 e ’60 gli studiosi iniziarono a sostenere l’ipotesi che la dislessia fosse un
disturbo di origine multifattoriale e quindi iniziarono a riconoscere sottogruppi con problemi di tipo
visivo, uditivo o di ragionamento astratto. In Francia Alfred Tomatis propose che la dislessia fosse
causata da un problema esclusivamente visivo. Con il tempo altri studiosi scoprirono dei
sottogruppi con problemi di tipo motorio.
10
Solo negli anni settanta emerse una nuova ipotesi secondo la quale la dislessia avrebbe
origine da un deficit nel sistema fonologico. Fu notato infatti che i dislessici avevano difficoltà nel
riconoscere che le parole della lingua parlata sono formate da fonemi e nell’associare questi suoni
alle corrispondenti lettere alfabetiche della lingua scritta.
Dopo gli anni settanta le teorie della dislessia basate sulla nuove discipline, come la
psicologia cognitiva e le neuroscienze, fornirono i risultati più affascinanti.
Nel campo della psicologia Isabelle Y. Liberman sostenne l’ipotesi che le difficoltà nella
lettura dei dislessici fossero di origine linguistica, in particolare nella struttura fonologica e nella
segmentazione. Questa linea fu seguita da molti studiosi che osservarono effettivamente deficit
fonologici nei dislessici, come ad esempio una scarsa consapevolezza fonologica. Vellutino (1979)
inoltre scoprì una relazione tra deficit fonologico e deficit alla memoria a breve termine nei normolettori. Secondo Vellutino la dislessia non è un disturbo visivo ma un disturbo del linguaggio che
coinvolge l’elaborazione fonologica delle parole.
Si può quindi vedere che dagli anni settanta le teorie sulla dislessia si muovevano
gradualmente da spiegazioni del disturbo di tipo visivo a spiegazioni di tipo linguistico.
Tra gli anni ottanta e novanta Margaret Snowling, una psicologa inglese, trovò inoltre una
relazione tra le abilità fonologiche dei dislessici e la memoria a breve termine.
Anche le teorie della psicologia cognitiva apportarono progresso a questo ambito di studi,
proponendo ad esempio un modello della lettura di tipo connessionista.
In effetti le teorie proposte sono state numerosissime. 3 Oggi la dislessia è un campo di studi
interdisciplinare che coinvolge varie discipline come la neurobiologia e la linguistica. Una
collaborazione tra gli studiosi delle diverse discipline è necessara al fine di conseguire i migliori
risultati nll’ambito di questo disturbo dell’apprendimento.
3
Per un ulteriore approfondimento delle teorie proposte e dell’evoluzione della ricerca sulla dislessia vedi Guardiola,
J.G. (2001).
11
1. 3 Le principali teorie sulla dislessia evolutiva
1.3.1 La teoria del deficit fonologico
La teoria più conosciuta sulla dislessia evolutiva è la teoria del deficit fonologico. Questa
teoria presuppone che ciò che è danneggiato negli individui dislessici sia la rappresentazione,
l’immagazzinamento e/o il recupero dei suoni del parlato (Ramus 2003). Un pre-requisito
necessario per imparare a leggere è l’acquisizione delle corrispondenze grafema-fonema del sistema
alfabetico. In altre parole, un bambino deve scoprire la connessione tra lettere e suoni costitutivi del
parlato. Le teorie spiegano la dislessia sostenendo il fatto che, se i suoni del parlato hanno
rappresentazione, immagazzinamento e recupero deboli, questo porterebbe come risultato ad una
comprensione insufficiente delle corrispondenze grafema-fonema della lingua. I sostenitori della
teoria del deficit fonologico credono che la fonologia abbia un ruolo centrale e causale nella
dislessia, suggerendo un legame diretto tra deficit cognitivo e problema comportamentale.
La teoria del deficit fonologico è sostenuta da numerosi studi che hanno verificato la
presenza nei dislessici di performance di basso livello nella loro consapevolezza fonologica. Per
consapevolezza fonologica si fa riferimento alla consapevole capacità di segmentazione e
manipolazione dei suoni del parlato. Un tipico esempio di consapevolezza fonologica è la capacità
di analizzare le parole in segmenti consonantici e vocalici. Secondo Snowling (2001) anche una
memoria verbale a breve termine povera e una lenta nominazione automatica (slow automatic
naming) indicano la presenza di un deficit fonologico. A livello neurologico, studi condotti
attraverso l’uso di fMRI (Pugh et al., 2000, Shaywitz et al., 2002) e studi anatomici (Galaburda et
al., 1985) suggeriscono che una disfunzione congenita delle aree perisilviane sinistre del cervello
sia alla base del deficit fonologico.
Nella sua versione più forte la teoria sostiene che il deficit cognitivo nella dislessia sia
specifico della fonologia. Questa tesi ha causato un dibattito tuttora in corso. Gli studiosi che
mettono in dubbio la teoria del deficit fonologico sostengono che la dislessia sia un disturbo di più
ampia portata rispetto a quello che la teoria suggerisce, con la sua origine in processi generali
sensoriali, motori e di apprendimento. Non è messa in discussione l’esistenza di problemi
fonologici nella dislessia , ma si sostiene che questi problemi rappresentino soltanto un aspetto di
un disturbo più generale. Ad esempio, il deficit fonologico potrebbe essere secondario ad un deficit
di tipo uditivo. Questa visione forma le basi della prossima teoria.
12
1.3.2. La teoria del deficit di processing temporale
L’ipotesi di un deficit di processing temporale (conosciuta anche come rapid auditory
processing theory) mette in dubbio la specificità del deficit fonologico della dislessia sostenendo
che i problemi fonologici deriverebbero da un deficit di tipo uditivo (Tallal et al., 1993). Allo stesso
modo della teoria fonologica, la teoria dell’elaborazione uditiva sostiene che ciò che sta al centro
della dislessia sia un deficit cognitivo. Originariamente, Tallal introdusse la teoria del deficit di
processing temporale negli anni settanta come una spiegazione del disturbo specifico del
linguaggio, 4 ma successivamente suggerì che essa potesse anche spiegare i problemi dei dislessici.
La principale idea di questa teoria è che la dislessia sia il risultato di un disturbo di processing
uditivo del linguaggio nella sfera temporale . La conseguenza di un deficit di processing temporale
è che i bambini che ne sono colpiti non hanno la piena capacità di percepire ed elaborare eventi
acustici brevi o che variano rapidamente, incluso quelli cruciali nel riconoscimento dei suoni del
parlato. Secondo Tallal et al. (1993) l’incapacità di rappresentare suoni brevi e transizioni veloci
causerebbe ulteriori difficoltà, in particolare quando tali eventi acustici rappresentano contrasti
fonemici (come in ′ba′ e ′da′). Questa tesi è compatibile con varie indicazioni sulla presenza di
rappresentazioni del suono del parlato difettose nei bambini dislessici (Liberman, 1973). Il deficit di
processing uditivo è ulteriormente supportato dagli studi condotti da Tallal e i suoi colleghi sui
dislessici. Questi studi confermano una performance di livello basso su compiti uditivi come la
discriminazione dei suoni, il temporal order judgement e il mascheramento 5 (backward masking). 6
1.3.3 La teoria cerebellare
I problemi riscontrati nei dislessici non sono confinati alla sola lettura. Sembra infatti che i
dislessici abbiano un danno generale alla loro capacità di eseguire abilità in modo automatico. Si
pensa che questa abilità dipenda dal cervelletto. La teoria cerebellare (Fawcett & Nicolson, 2004)
ha una base biologica e sostiene che il cervelletto dei dislessici sia lievemente disfunzionale. Di
4
Specific Language Impairment o disturbo specifico del linguaggio (SLI) è un disturbo evolutivo del linguaggio che si
manifesta con un insuccesso da parte del bambino nell’acquisire la propria lingua in modo appropriato nonostante
un’intelligenza non verbale nella norma, udito normale, nessun problema emotivo o sociale. Tratterò in modo
approfondito di questo argomento nel capitolo secondo.
5
Il backward masking o mascheramento all’indietro è un effetto che si verifica quando un suono a basso livello viene
seguito da un suono a livello sensibilmente più alto e il secondo cancella il primo alla percezione. E’ un effetto che si
sviluppa nell’arco di decine di millisecondi, ed è ovviamenete dipendente dalle frequenze dei segnali coinvolti.
(definizione tratta da http://www.ismprofessional.net/pascucci/documenti/suono-tempo/x357.html).
6
Recentemente alcune ricerche hanno messo in discussione i risultati di Tallal. Essenzialmente , ci sono stati dei
fallimenti nel replicare i risultati di deficit di processing temporale visivo nello SLI e nella dislessia (vedi McArthur &
Bishop, 2001 per un approfondimento).
13
conseguenza risulterebbero una serie di difficoltà cognitive. Il cervelletto, infatti, gioca un ruolo
importante
nel controllo motorio e, di conseguenza, nell’articolazione del parlato. Fawcett e
Nicolson spiegano i problemi fonologici nei dislessici sostenendo che un’articolazione
disfunzionale porterebbe a rappresentazioni fonologiche impoverite. Inoltre, il cervelletto gioca un
ruolo importante nell’automatizzazione di abilità come il typing, la guida e la lettura. Si riporta che
i soggetti dislessici hanno difficoltà con l’automatizzazione di tali abilità. Secondo Fawcett &
Nicolson (2004) una debole capacità di automatizzare comprometterebbe (tra le altre cose)
l’acquisizione delle corrispondenze grafema-fonema.
La teoria cerebellare è corroborata dal fatto che i soggetti dislessici hanno difficoltà con
diversi compiti motori, nell’esecuzione di due compiti simultanei ed hanno problemi di percezione
del tempo (un compito cerebellare di tipo non motorio).
1.3.4 La teoria magnocellulare
La teoria magnocellulare (Stein et al., 2001) è stata proposta come una teoria unificante, che
cerca di integrare tutti i risultati delle teorie menzionate sopra. Inoltre, essa spiega il deficit visivo
riportato nella dislessia. La teoria magnocellulare suggerisce che uno sviluppo danneggiato di un
sistema di neuroni nel cervello (le magnocellule) può essere responsabile sia per la rielaborazione
visiva e acustica sia per i problemi tattili trovati nei dislessici.
La teoria magnocellulare spiega le difficoltà visive nella dislessia suggerendo che i soggetti
dislessici hanno poco controllo sul movimento oculare. Stein e i suoi colleghi credono che questo
insufficiente controllo sia causato da uno sviluppo non corretto del sistema magnocellulare. Il
sistema magnocellulare connette la retina ai lobi occipitale e parietale e così permette
all’informazione trasmessa dall’occhio di essere elaborata dalle aree del cervello. Le magnocellule
giocano un ruolo cruciale in diverse elaborazioni visive, come ad esempio nello scorgere il
movimento, la direzione del movimento e il controllo del movimento oculare. Il movimento del
controllo oculare è di particolare importanza nella lettura. Secondo Stein et al. (2001), uno sviluppo
danneggiato del sistema magnocellulare può causare un controllo oculare instabile durante la
lettura, e questo spiegherebbe le immagini movimentate e offuscate riportate da molti dislessici.
Queste immagini mosse/sfocate causerebbero una confusione visiva dell’ordine delle lettere nei
dislessici. E questo, a sua volta, porterebbe ad una memoria povera della forma visiva delle parole
e ad un impedimento nell’acquisizione di abilità ortografiche.
14
La teoria magnocellulare spiega i problemi uditivi/fonologici nei dislessici suggerendo un
danno nel sistema uditivo equivalente a quello del sistema magnocellulare visivo. Nel sistema
uditivo non esiste un insieme anatomicamente distinto di magnocellule, tuttavia alcuni neuroni che
si trovano nella via uditiva sono specializzati nell’elaborazione delle transizioni acustiche. Le
transizioni acustiche sono cambiamenti nella frequenza, ampiezza e fase dei suoni. Un’
elaborazione ottimale della frequenza e dell’ampiezza delle transizioni è essenziale per riuscire a
distinguere tra i suoni diversi delle lettere. Secondo Stein et al. (2001) il riconoscimento della
frequenza e dell’ampiezza di queste transizioni è essenziale per soddisfare le richieste fonologiche
della lettura. Uno sviluppo danneggiato dell’elaborazione delle transizioni uditive può portare ad
una confusione uditiva dei suoni delle lettere e così ad un impedimento nell’acquisizione delle
abilità fonologiche.
La teoria magnocellulare spiega i deficit cerebellari nei dislessici suggerendo il fatto che il
cervelletto riceve un vasto input da vari sistemi magnocellulari nel cervello. Per questo, il
cervelletto sarà colpito da un difetto magnocellulare generale.
I dati fisici più forti che implicano un deficit della via magnocellulare nella dislessia
provengono da uno studio post-mortem di cinque cervelli di soggetti dislessici. Questi studi
mostrano che le magnocellule nei relativi nuclei talamici sono alterate e più del 20% di esse sono di
più piccole dimensioni rispetto alle cellule di un cervello normale ( Galaburda et al., 1994). Sebbene
i risultati mostrino un difetto nella via magnocellulare, gli studiosi stanno ancora cercando di capire
quale ruolo questo difetto possa avere nei disturbi della lettura e dell’apprendimento. Essi credono
che la risposta sia nelle regioni parietali e temporali della corteccia, visto che entrambi elaborano
l’informazione magnocellulare. In particolare, la corteccia posteriore parietale è coinvolta
nell’attenzione visuo-spaziale, nella visione periferica, nel controllo del movimento oculare e nelle
abilità che in generale richiedono attenzione. Avere la capacità di controllare i propri movimenti
oculari e l’attenzione per avere e mantenere una buona concentrazione è cruciale nelle abilità di
lettura e apprendimento.
In poche parole, le cause delle difficoltà dei dislessici possono essere divise in due gruppi:
da un lato, la teoria fonologica dice che la dislessia è dovuta ad un deficit di tipo fonologico,
dall’altro la teoria magnocellulare dice che l’incapacità di leggere è dovuta a deficit generali
sensoriali, ad esempio di tipo visivo, uditivo e motorio.
Gli studi neurologici, comunque, hanno mostrato che una disfunzione sensomotoria generale
non può essere considerata responsabile della dislessia: danni al sistema visivo, uditivo, motorio
15
sono presenti soltanto in una parte della popolazione dei dislessici e non possono spiegare il deficit
fonologico, che invece è presente in tutti i dislessici.
1.4 Teorie della dislessia evolutiva: alcuni commenti
Nonostante la ricerca sia sempre stata intensiva negli ultimi due decenni, il dibattito sulle
cause biologiche e cognitive che stanno alla base della dislessia evolutiva rimane piuttosto acceso.
Molte delle teorie proposte mostrano dei limiti in quanto non sono in grado di dare una spiegazione
per tutti i sintomi associati alla dislessia.
La maggior debolezza della teoria fonologica risiede nel fatto che essa non spiega la
presenza di deficit sensoriali e motori nei soggetti dislessici. Anche la teoria cerebellare non sa
spiegare i deficit sensoriali. Fawcett & Nicolson (2001) proposero l’esistenza di due sottotipi di
dislessia per spiegare la presenza di sintomi di diverso tipo: potrebbe essere che alcuni dislessici
soffrano di un danno al cervelletto mentre altri di un danno alla via magnocellulare. Questo è
plausibile, ma c’è un altro problema con la teoria cerebellare: ossia che la relazione causale
postulata tra articolazione e fonologia si basa su una versione ormai superata della percezione del
parlato, secondo la quale lo sviluppo delle rappresentazioni fonologiche si baserebbe
sull’articolazione del parlato. Questa visione è stata abbandonata da tempo alla luce dell’esistenza
di casi in cui vi è uno sviluppo fonologico normale nonostante la presenza di una severa disartria 7 o
aprassia. 8 Inoltre non è certa la proporzione dei dislessici che presentano problemi di tipo motorio.
E’ stato suggerito che problemi di questo tipo sono presenti soltanto nei dislessici che soffrono
anche di sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). A prima vista la teoria
magnocellulare sembra la più avvincente, ma le predizioni di questa teoria riguardo all’elaborazione
visiva e uditiva sono andate incontro a diverse critiche. Per quanto riguarda il deficit uditivo, il
problema maggiore è che diversi ricercatori non sono riusciti a replicare i risultati di deficit uditivo
nella dislessia (Heath et al., 1999; Hill et al., 1999; McArthur & Hogben, 2001). Nel migliore dei
casi, quando sono stati trovati problemi uditivi, questi problemi erano presenti soltanto in un
piccolo gruppo della popolazione studiata. Un’ulteriore critica proviene dal fatto che i risultati di
molti studi sono incompatibili con l’idea che il deficit uditivo (quando è presente) si trovi
nell’elaborazione uditiva “rapida” (e pertanto all’interno di una funzione magnocellulare). Un altro
7
La disartrìa è un disturbo disfasico caratterizzato dalla difficoltà nell’articolare le parole: è dovuta alla lesione delle vie
nervose che conducono ai muscoli deputati alla fonazione e all’articolazione della parola.
8
L’aprassia è la perdita della capacità di eseguire sequenze motorie apprese con l’esperienza, in assenza di disturbi
elementari del movimento.
16
argomento, suggerito da Bishop et al. (1999) è che i deficit di tipo uditivo non predicono deficit
fonologici, come invece è stato sostenuto da Tallal.
Per quanto riguarda il deficit visivo della teoria magnocellulare, le critiche si concentrano
sull’insuccesso nel replicare i risultati di deficit visivo (Johannes et al., 1996; Victor et al., 1993) e
sull’inconsistenza tra le predizioni della teoria e i risultati empirici. In particolare si è osservato che
i deficit visivi, quando presenti, non erano soltanto quelli caratteristici del sistema magnocellulare
ma erano anche di diversa natura. La critica più forte alla teoria magnocellulare è che deficit
specifici magnocellulari sono stati trovati soltanto in un sottogruppo di dislessici (Ramus et al.,
2003).
In definitiva, potrebbe essere vero che le teorie discusse e i loro profili possano adattarsi a
diversi individui. Questo implicherebbe l’esistenza di una certa sovrapposizione tra i diversi
sottotipi di dislessia. Oppure potrebbe essere che una singola teoria possa andare bene per tutti i
soggetti dislessici, e che le altre manifestazioni osservate agiscano come marcatori piuttosto che
come fattori causativi. Tuttavia diverse questioni rimangono. Ad esempio, non è ancora chiara la
proporzione dei dislessici che hanno un dato deficit e se esistano dissociazioni o associazioni
sistematiche tra diversi tipi di deficit.
1.5 Doppia dissociazione tra disturbi sensomotori e difficoltà di lettura
Ramus (2003) ha cercato di rispondere a queste domande. Ha sottoposto ad indagine 16
dislessici e 16 soggetti controllo (tutti studenti universitari) su una batteria completa di test
psicometrici, fonologici, uditivi, visivi e cerebellari. I dati rivelano che tutti i 16 dislessici avevano
un deficit fonologico, 10 avevano un deficit uditivo, 4 un deficit motorio e 2 un deficit visivo
magnocellulare. La conclusione di Ramus (2003) è che il deficit fonologico può occorrere in
assenza di un qualsiasi altro disturbo motorio/sensoriale e che il deficit fonologico è sufficiente a
causare problemi di lettura. I deficit uditivi, quando presenti, aggravavano fino ad un certo punto il
deficit fonologico. Di grande rilievo, inoltre, è il fatto che i problemi uditivi non potevano essere
classificati come deficit di rapida elaborazione uditiva o come deficit percettivi del parlato.
Piuttosto, all’interno del gruppo dei dislessici, il tipo di performance uditiva, buona o meno buona,
era più o meno casuale. Sono stati trovati problemi motori in 4 dislessici, ma i risultati ottenuti sulla
percezione del tempo e su un esercizio di equilibrio non supportano l’idea di un deficit nel
cervelletto.
Inoltre
Ramus
(2003)
non
ha
17
trovato
un’influenza
della
performance
motoria/cerebellare sulla fonologia o sulla lettura, mettendo in dubbio il ruolo causale del
cervelletto nella dislessia. Deficit uditivi di natura magnocellulare risultarono presenti soltanto in
due studenti. Questa bassa incidenza e il fatto che i deficit visivi fossero presenti assieme a deficit
fonologici e uditivi rendono difficile valutare se i deficit visivi diano un contributo indipendente alla
dislessia. Così Ramus (2003) concluse che non c’è un’evidente dimostrazione che deficit uditivi,
visivi e motori causino la dislessia.
Uno studio più recente, condotto da White et al. (2006) investiga proprio le disfunzioni
sensomotorie (visive, uditive, motorie) che si accompagnano al deficit della lettura. White condusse
un esperimento: somministrò una serie di test di lettura, uditivi, visivi, fonologici e motori a un
gruppo di bambini dislessici, a un gruppo di autistici e a un gruppo di controllo di pari età.
Come confermato da precedenti studi, è emerso che solo una parte dei bambini dislessici
aveva deficit sensomotori e questo suggerì che esiste una doppia dissociazione tra deficit
sensomotori e di lettura. Quindi, disfunzioni a livello di sistema visivo, uditivo e motorio non
possono essere ritenute responsabili del deficit fonologico nei dislessici. Inoltre, i disturbi
sensomotori trovati nei dislessici sono estesi anche ai bambini che soffrono di autismo (ADS), i
quali non presentano necessariamente difficoltà nella lettura e nell’apprendimento di abilità di
scrittura.
In totale, vennero comparati 23 dislessici con 22 autistici e 22 normo-lettori tra gli 8 e i 12
anni di età su diversi tipi di abilità. I risultati degli esperimenti hanno mostrato che non solo non vi
era alcuna relazione tra deficit sensomotori e difficoltà di lettura ma inoltre che esisteva una doppia
dissociazione tra questi due domini. Infatti tra i 23 dislessici 12 mostrarono un’evidente difficoltà di
lettura senza alcun deficit sensomotorio, dimostrando che solo una parte dei dislessici sono colpiti
da queste difficoltà. Inoltre, se disturbi sensomotori fossero responsabili delle difficoltà di lettura,
ogni bambino con questo tipo di disturbo dovrebbe avere difficoltà nell’acquisizione della lettura.
Tuttavia questa predizione è falsificata dalla presenza di individui che soffrono di deficit
sensomotori, ma la cui competenza di lettura è completamente preservata. Questi risultati indicano
che disturbi sensomotori e della lettura sono doppiamente dissociabili.
Tuttavia, anche se i deficit sensomotori non sono responsabili delle difficoltà nella lettura, è
significativo che, come mostra l’esperimento di White et al., sono presenti in maniera maggiore nei
dislessici e negli autistici, piuttosto che nei soggetti controllo. Una possibile spiegazione è che i
disturbi sensomotori siano marcatori non-specifici di disturbi neuroevolutivi, piuttosto che cause di
deficit di lettura.
18
1.6 L’elaborazione fonologica nei soggetti dislessici
Abbiamo visto che gli ultimi due decenni di ricerca (da Vellutino, 1979 a Snowling, 2000)
hanno fermamente stabilito l’idea che un ruolo centrale causale della dislessia evolutiva sia svolto
da un deficit di tipo fonologico. Ricordiamo, infatti, che finora gli studi confermano che il 100%
della popolazione dei dislessici presenta difficoltà nell’elaborazione fonologica. La teoria
fonologica della dislessia implica che questo disturbo derivi da un danno specifico delle
rappresentazioni e delle elaborazioni fonologiche. Anche le altre teorie, inoltre, ammettono
l’esistenza di un deficit fonologico e discutono sulla sua specificità: infatti cercano di spiegare il
deficit fonologico attraverso disfunzioni più generali di tipo sensoriale e di apprendimento
(Nicolson and Fawcett, 1990; Stein and Walsh, 1997; Tallal et al., 1993).
Sebbene, quindi, la nozione di deficit fonologico sia ampiamente accettata all’interno della
comunità che si occupa della dislessia, è opportuno osservare che il locus esatto e la natura di
questo deficit deve essere ancora definito esplicitamente.
Sono state proposte diverse versioni di ipotesi di deficit fonologico, come ad esempio la
phonological representation hypothesis (Goswami, 2000), la distinctness hypothesis (Elbro, 1996) e
la sub-lexical deficit hypothesis (Ramus 2001). La supposizione di base di tutti questi modelli è che
rappresentazioni fonologiche deboli siano la caratteristica centrale della dislessia. In poche parole
l’ipotesi di deficit fonologico ritiene che bambini e adulti affetti da dislessia abbiano una persistente
difficoltà nel costruire, mantenere e recuperare le rappresentazioni fonologiche. Queste sono state
variamente definite come ‘olistiche’, ‘deboli’, ‘fragili’, ‘indistinte’, ‘sottospecificate’. In altre
parole, il modo in cui il loro cervello codifica la fonologia è meno efficiente rispetto ai normolettori. Questo problema causa una varietà di sintomi a livello comportamentale, come ad esempio
difficoltà nella memoria verbale a breve termine, nella ripetizione di non-parole, nella
consapevolezza fonologica, nell’acquisizione fonologica di nuova informazione verbale, nel
recupero delle parole, nei test di denominazione rapida.
Le rappresentazioni fonologiche facilitano lo sviluppo della lettura; le associazioni
ortografico-fonologiche avvengono nel momento in cui emergono le rappresentazioni fonemiche.
Di conseguenza, rappresentazioni povere porterebbero ad uno sviluppo non appropriato della
capacità di lettura.
L’ipotesi di deficit fonologico incorpora fattori di performance individuali, fattori di
compensazione e il concetto di severità. Ad esempio afferma che l’impatto del deficit fonologico
possa essere in qualche modo moderato dalle risorse del bambino in altre abilità cognitive. La
severità del deficit fonologico è parzialmente determinata dall’interazione con altre abilità
19
cognitive, come quelle semantiche, visive e sintattiche. Questi fattori possono moderare o aggravare
il deficit. La severità del risultante disturbo fonologico determinerebbe il grado delle difficoltà di
lettura.
Il deficit fonologico sembra essere presente nelle lingue del ‘mondo occidentale’ con
un’ortografia alfabetica, sebbene ci siano differenze tra le performance di lettura dei dislessici di
lingue diverse, in relazione alla complessità dell’ortografia della lingua nativa. La presenza di un
deficit fonologico è stata trovata anche in lingue non-alfabetiche come il cinese (Suk-Han Ho, law
& Ng, 2000), ma non è ancora stato studiato ampiamente.
L’ipotesi di deficit fonologico è limitata in quanto non cerca di spiegare le performance
povere sui fenomeni fonologici, ma spiega solamente il contributo della fonologia alla lettura.
Gli studi sul deficit fonologico si sono finora concentrati su processi fonologici di alto
livello, come la consapevolezza fonologica, o di basso livello come le abilità percettive che
coinvolgono la discriminazione e la categorizzazione dei suoni del parlato. Ma nella fonologia c’è
molto più della consapevolezza fonologica e della percezione categoriale: l’acquisizione e la
produzione dei suoni del parlato, delle strutture dei suoni, come anche le operazioni on-line sulle
rappresentazioni fonologiche appartengono al dominio della fonologia. Generalmente questi aspetti
non hanno ricevuto molta attenzione, nonostante le indicazioni che l’acquisizione della fonologia
non si svolga in modo appropriato nei bambini a rischio di dislessia. 9 Se la dislessia è caratterizzata
da rappresentazioni fonologiche povere, allora lo sviluppo fonologico dovrebbe risultare più
difficile per bambini con (rischio di) dislessia che nei bambini con normale sviluppo.
La maggior parte degli studi sul deficit fonologico non fanno riferimenti espliciti
all’acquisizione fonologica. Soltanto una ipotesi di deficit fonologico prende in considerazione le
analisi sull’acquisizione fonologica: la sub-lexical deficit hypothesis (Ramus 2001, Szenkovits &
Ramus 2005). Quest’ ipotesi propone che, se le rappresentazioni fonologiche sono povere nei
bambini con dislessia, queste dovrebbero essere rintracciabili nella loro acquisizione fonologica, dal
momento che le rappresentazioni fonologiche includono anche strutture fonologiche acquisite della
lingua nativa. In questo modello l’acquisizione delle strutture fonologiche specifiche di una lingua e
delle loro regole avviene attravero un livello sub-lessicale che contiene qualsiasi informazione che
può essere rappresentata in formato fonologico, ossia parole, articolazioni complete di frasi e
sequenze senza significato di fonemi.
Vediamo nel dettaglio il modello cognitivo di accesso lessicale proposto da Ramus (2001)
per capire meglio la sua ipotesi di deficit sub-lessicale.
9
I bambini a rischio di dislessia sono bambini con almeno un genitore o un fratello con dislessia.
20
1.7 Un modello generale di accesso lessicale
Generalmente gli esercizi somministrati ai soggetti per accertare la presenza di un deficit
fonologico riguardano la percezione del parlato, la produzione orale, la lettura, la scrittura e il
riconoscimento di oggetti. Il modello proposto da Ramus (2001), e presentato nella Figura 1, integra
tutte queste componenti cognitive che si ritiene siano alla base di queste abilità. E’ da premettere
che ci sono altri aspetti cognitivi, non presenti nel modello, che intervengono durante l’esecuzione
di tali abilità: ad esempio l’attenzione, la consapevolezza e la memoria operativa. 10
L’ipotesi principale sostenuta da Ramus ed enfatizzata dal suo modello è che le forme
fonologiche di elementi lessicali sono distinte dalle rappresentazioni fonologiche non-lessicali: ci
troviamo di fronte quindi a due livelli diversi, ossia una fonologia lessicale ed una sub-lessicale.
I due livelli hanno diverse funzioni: il lessico fonologico è un magazzino permanente per le
forme delle parole, e soltanto per queste. Mentre la rappresentazione fonologica sub-lessicale è un
magazzino a breve termine per qualsiasi elemento rappresentato in forma fonologica, ossia parole,
frasi e sequenze senza significato di fonemi (le cosiddette non-parole).
La presenza dei due livelli è dimostrata dal fatto che i bambini, molto prima di imparare le
loro prime parole, mostrano una percezione categoriale dei fonemi e possiedono una certa
familiarità con alcune strutture fonotattiche e allofoniche della loro lingua nativa. In poche parole,
la rappresentazione fonologica sub-lessicale si sviluppa durante il primo anno di vita; mentre
l’incorporazione dei dettagli fonologici rilevanti nelle rappresentazioni lessicali dipende
dall’apprendimento delle parole, che avviene negli anni successivi.
Dai risultati degli studi finora condotti sui soggetti dislessici si evince che questi hanno una
performance peggiore rispetto ad un gruppo di controllo sia nella lettura di non-parole, sia nella
lettura di parole irregolari. Questo suggerisce un difetto:
(1) della via ortografico/fonologica e/o della via sub-lessicale e
(2) del lessico ortografico.
Quest’ultimo però potrebbe essere un effetto secondario dovuto ad una esposizione ridotta
alla lettura. Inoltre i dislessici mostrano difficoltà nella ripetizione sia di parole che di non parole,
suggerendo che almeno la fonologia sub-lessicale sia danneggiata, e probabilmente anche il lessico
10
A questo proposito si veda la sezione 8 nella quale viene presentato uno studio dove il danno fonologico viene
valutato senza l’interferenza di fattori estranei come la memoria e l’attenzione.
21
Figura 1: il modello di accesso lessicale proposto da Ramus.
fonologico. Molti esperimenti che testano le abilità metafonologiche coinvolgono altre abilità e
livelli di rappresentazione, come la memoria operativa e l’attenzione. Per questo motivo risulta
difficile interpretarne i dati; tuttavia ciò che sembra essere centrale a tutte queste abilità è ancora la
rappresentazione fonologica sub-lessicale e la capacità di porre l’attenzione e manipolare quelle
rappresentazioni ed i loro costituenti. Ancora, i dislessici mostrano difficoltà nel recuperare le
forme fonologiche delle parole (in particolare sono più lenti rispetto al gruppo di controllo). In
questo caso è difficile capire se il danno risiede nelle rappresentazioni lessicali o sub-lessicali, dal
22
momento che un deficit ad ognuno dei due livelli porterebbe a questo rallentamento nell’eseguire
l’esercizio.
E’ chiaro che tutte queste abilità coinvolgono diversi processi e livelli di rappresentazione, e
per questo motivo nessuna abilità singola può dare informazioni sul luogo esatto del deficit.
Tuttavia, l’insieme delle diverse abilità testate fornisce una dimostrazione del fatto che alcuni livelli
di rappresentazione risultano danneggiati nella dislessia. Infatti, per poter spiegare questa serie di
difficoltà, sembra necessario postulare che almeno la via fonologica sub-lessicale e la via
ortografico-fonologica siano danneggiate.
Forse il più grande paradosso dell’ipotesi del deficit fonologico consiste nel fatto che
dovrebbe predire nei dislessici difficoltà nel parlato e nella comprensione orale, dal momento che
queste coinvolgono sia le rappresentazioni lessicali sia le sub-lessicali; a prima vista non sembra
essere questo il caso. Tuttavia è vero che i dislessici hanno alcuni problemi con la produzione del
parlato e la percezione. Nella produzione questi si manifestano quando è richiesta un’elaborazione
rapida, ad esempio negli esercizi di denominazione rapida. Nella percezione, sia il lessico che
l’informazione contestuale possono permettere una compensazione per imprecise rappresentazioni
fonologiche sub-lessicali. Questo è ciò che accade ai soggetti normali nel momento in cui ascoltano
il parlato disturbato da qualche rumore. Si potrebbe predire che, in queste situazioni, i dislessici,
avendo rappresentazioni fonologiche degradate, abbiano maggiori difficoltà rispetto ai soggetti
controllo. E infatti, questo è ciò che accade.
Inoltre, compatibilmente con l’ipotesi di deficit fonologico, i dislessici hanno delle sottili
difficoltà nella percezione del parlato e nella produzione, ma sono talmente lievi da non essere
notati nelle situazioni di vita quotidiana. Certamente può accadere che il deficit fonologico sia
talmente severo da provocare evidenti difficoltà di linguaggio. In questo caso alcuni studiosi
ritengono che sia più probabile che il bambino sia affetto da un disturbo specifico del linguaggio,
piuttosto che solo da dislessia 11 .
Finora abbiamo visto che ci sono due livelli per le rappresentazioni fonologiche, una
lessicale e una sub-lessicale. L’ipotesi è che il livello sub-lessicale sia in qualche modo danneggiato
molto presto (durante il primo anno di vita) per poter spiegare le diverse difficoltà che presentano i
dislessici. Tuttavia non si sa ancora quale sia la precisa natura del disturbo. Imputare il disturbo ad
un deficit di livello fonologico non è sufficiente. Infatti le rappresentazioni fonologiche non sono
soltanto stringhe di fonemi, ma strutture gerarchiche. Ad un estremo possiamo trovare abilità più
complesse e indirette come quelle meta-fonologiche, che coinvolgono diversi livelli di
rappresentazione, attenzione, un certo carico di memoria, processi di tipo top-down, consapevolezza
11
La relazione tra dislessia e disturbo specifico del linguaggio sarà approfondita nel capitolo 2.
23
esplicita e manipolazione delle rappresentazioni. All’altro estremo troviamo abilità esclusivamente
percettive, come la discriminazione fonemica e la categorizzazione. Tuttavia, tra i due estremi c’è
un vasto campo ancora poco esplorato: ad esempio come avvengono i fenomeni di assimilazione in
alcune lingue (come ad esempio in inglese), come avviene il processo produttivo della sillaba
(costrizioni sulla sillaba comprendono molte costrizioni sulla possibile sequenza dei fonemi),
l’accento e i toni, l’intonazione (quindi non solo gli aspetti segmentali ma anche soprasegmentali
delle parole).
Per ultima, una domanda: se i dislessici hanno rappresentazioni fonologiche sub-lessicali
danneggiate, non dovrebbero avere anche difficoltà nell’acquisizione della fonologia della loro
lingua nativa?
1.8 Lo sviluppo fonologico nei bambini a rischio di dislessia
Bambini e adulti con dislessia hanno difficoltà nel codificare, mantenere in memoria, e
recuperare
le
rappresentazioni
fonologiche.
Questa
caratterizzazione
è
stata
valutata
prevalentemente attraverso misurazioni dei processi fonologici (richiesta di codificare, mantenere e
recuperare le rappresentazioni fonologiche) e della consapevolezza fonologica (richiesta di un
accesso conscio alle strutture fonologiche). L’acquisizione fonologica non ha ricevuto ancora molta
attenzione. Il lavoro svolto finora, comunque, ha stabilito che l’acquisizione della fonologia è più
danneggiata nei bambini a rischio di dislessia (Scarborough,1990; Carrol & Snowling, 2004). In
particolare, gli studi svolti hanno confermato che le abilità di elaborazione fonologica nei bambini a
rischio di dislessia (e bambini con dislessia) è compromessa. In modo particolare è danneggiata la
consapevolezza fonologica, che risulta meno sviluppata nei dislessici rispetto ai non-dislessici.
Tuttavia la ricerca è stata ristretta principalmente alla produzione dei suoni del parlato, e
non ha tenuto in considerazione l’acquisizione degli aspetti soprasegmentali.
Uno studio condotto da E. De Bree (2007) studia l’acquisizione fonologica nei bambini a
rischio di dislessia. In questo studio l’acquisizione viene comparata non solo a quella di bambini
con normale sviluppo ma, in alcuni esperimenti, anche a quella di bambini con disturbo specifico
del linguaggio (SLI). Per il momento lasceremo da parte le considerazioni sulla relazione tra
dislessia e SLI, mentre le riprenderemo in modo approfondito nel capitolo 2.
In particolare De Bree si propone di investigare le componenti dell’acquisizione fonologica
analizzando la produzione del parlato, la competenza riguardo l’accentuazione delle parole, e
l’alternanza morfo-fonologica del plurale in Olandese. Queste abilità abbracciano diversi livelli
24
della fonologia (tra cui i tratti soprasegmentali), e forniscono una prova della portata del deficit
fonologico. L’elaborazione e la consapevolezza fonologica sono misurate attraverso la ripetizione di
non-parole e la sensibilità alla rima.
Nell’esperimento vengono coinvolti due gruppi di età diverse. Un primo gruppo ‘baby’ (1;63;0) e un secondo gruppo ‘toddler’ (3;0-5;0) includono bambini normali e bambini a rischio di
dislessia.
Per quanto riguarda la produzione del parlato vengono trovate differenze sostanziali tra il
gruppo a rischio di dislessia e il gruppo controllo soltanto per i ‘toddler’ 12 . Questo implica almeno
un lieve ritardo nel comportamento fonologico del gruppo a rischio. Inoltre, più della metà dei
bambini a rischio ha una performance peggiore rispetto al gruppo controllo, indicando che le
difficoltà sono presenti in un numero sostanziale dei bambini a rischio. Questo risultato è in linea
con il dato che il 30-60% dei bambini a rischio in seguito sarà diagnosticato dislessico. Il tipo di
semplificazioni fonologiche suggeriscono un ritardo di acquisizione. Riguardo alla competenza
sugli accenti i bambini a rischio mostrano maggiore difficoltà nell’imitare strutture irregolari o
proibite e presentano una percentuale più bassa di fonemi corretti rispetto ai bambini controllo.
Anche in questo caso si presuppone un ritardo di acquisizione degli accenti. L’esercizio
sull’alternanza del plurale vuole valutare l’impatto di rappresentazioni fonologiche povere su un
processo di tipo morfo-fonologico. In entrambi i gruppi l’alternanza risulta una strategia poco
frequente, tuttavia si nota una differenza tra il gruppo a rischio e il gruppo controllo. Nella
ripetizione di non parole si è visto che il 56% dei bambini a rischio ha una performance peggiore
dei bambini controllo. Per ultimo, nell’esercizio di sensibilità alla rima, si è trovato che un terzo dei
bambini a rischio ha problemi legati a questa abilità, ma le differenze rispetto ai bambini controllo
sono molto sottili. Rispetto ai tipi di errori, l’analisi mostra che gruppo controllo e a rischio
commettono errori simili.
In generale i risultati indicano un lieve ritardo nell’acquisizione degli accenti, nella struttura
metrica (l’eliminazione di sillabe deboli è più frequente nei bambini a rischio), nell’acquisizione
della struttura sillabica, nei fonemi e i loro tratti, un ritardo che abbraccia molti livelli di
rappresentazione. Sembra appunto che l’acquisizione della struttura della parole (metrica e struttura
sillabica) e del suo contenuto (fonemi e tratti) sia più difficile per i bambini a rischio di dislessia che
per i bambini controllo. Allo stesso tempo sembra che alcuni aspetti siano più difficili da
apprendere che altri. L’alternanza del plurale è infatti simile per entrambi i gruppi mentre
nell’assegnazione dell’accento e nella produzione del parlato i bambini a rischio mostrano maggiori
12
Un’interpretazione del fatto che non sono state trovate differenze tra i due gruppi ‘baby’ dei bambini a rischio di
dislessia e controllo fu che a questa tenera età (2;6) anche i bambini con normale sviluppo stanno ancora acquisendo la
loro fonologia. Le differenze possono essere visibili soltanto quando la fonologia di questi bambini è sviluppata.
25
difficoltà. Questi risultati mostrano che la nozione di ‘deficit fonologico’ sia troppo cruda, dal
momento che si osservano distinzioni per livelli diversi di rappresentazione ad età diverse. 13
Dal momento che i risultati degli esperimenti condotti mostrano difficoltà in tutti i livelli,
sembra che il deficit fonologico oscilli dai tratti dei fonemi al livello della parola. Inoltre ci si pone
la domanda se differenze tra il gruppo a rischio e il gruppo di controllo possano essere trovate anche
nel dominio della prosodia, nell’intonazione, nell’area morfo-fonologica e nella percezione del
parlato. L’ipotesi di deficit sub-lessicale proposta da Ramus (2001) è l’unica ipotesi di deficit
fonologico che include una prospettiva linguistica. I risultati riportati da De Bree mostrano che
soltanto un approccio di questo tipo è essenziale per una migliore qualificazione del deficit
fonologico e che questa ipotesi si adatta meglio alle osservazioni fatte piuttosto che l’ipotesi
‘tradizionale’ di deficit fonologico.
Un’altra questione è se i risultati indicano una limitazione nell’elaborazione (quindi un
problema di processing) o soltanto un ritardo nell’acquisizione del linguaggio. E’ difficile dividere
le due parti, dal momento che una componente di elaborazione è sempre presente negli esperimenti
riportati. L’ipotesi di deficit fonologico forse dovrebbe essere inclusa in un modello di
apprendimento che tenga conto di entrambi gli elementi.
1.9 Danni fonologici specifici misurati con l’eyetracking
Finora abbiamo detto che esiste un consenso crescente sul fatto che il deficit fonologico
giochi un ruolo chiave nei problemi di lettura dei dislessici. La maggior parte degli studi condotti si
focalizza sulla consapevolezza fonologica e utilizza pertanto esperimenti che valutano la capacità di
identificare e manipolare i singoli fonemi nelle parole. Gli esercizi metalinguistici usati, come la
cancellatura di un fonema, la segmentazione di fonemi o giudizi sulla rima, coinvolgono molti
fattori estranei come l’attenzione e la memoria, che possono aggravare pesantemente la
performance. Desroches et al. (2006) hanno presentato a questo riguardo un nuovo approccio per
testare la conoscenza fonologica segmentale e soprasegmentale nei bambini usando la tecnica di
eyetracking 14 in un esercizio di identificazione uditiva delle parole (auditory word recognition
task).
Nel loro studio viene detto ai bambini di osservare delle figure che compaiono su uno
schermo visivo (Figura 2). Oltre ad una figura target (ad esempio candle) a volte è presente un
13
Per maggiori dettagli vedi De Bree, E., (2007).
Eyetracking è una tecnica che permette di misurare l’elaborazione linguistica attraverso il monitoraggio del
movimento oculare.
14
26
competitore cohort 15 (ad esempio candy) e un competitore di rima (ad esempio sandal), queste
figure sono inserite tra altri distrattori che non hanno relazioni fonologiche con i precedenti (ad
esempio flower). Lo studio si basa sull’ipotesi che i movimenti oculari siano legati all’elaborazione
lessicale, ad esempio fissare una figura target per un certo tempo rifletterebbe un’attivazione
lessicale delle parole. Solitamente gli individui normali adulti sono più lenti nel fissare una figura
target quando sono presenti dei distrattori cohort o di rima. A partire da questo fenomeno Desroches
et al. hanno cercato di esaminare l’organizzazione dell’attacco e delle rime delle parole nei bambini
affetti da dislessia evolutiva. E’ stato ipotizzato che il monitoraggio oculare avrebbe rivelato
differenze nella durata del riconoscimento uditivo della parola in questi bambini rispetto ai normolettori.
Figura 2. Esempio tratto dall’esperimento con eyetracking. Ai bambini vengono presentate alcune serie di quattro
oggetti e viene detto loro di guardare una figura target (es. Candle). Alcune volte, le immagini distrattrici includono un
distrattore cohort, oppure sia un distrattore cohort sia uno di rima. (A) Baseline: CANDLE, PARROT, FLOWER,
TOWER; (B) Cohort: CANDLE, CANDY, PARROT, TOWER; (C) Rhyme: CANDLE, SANDAL, PARROT,
TOWER; (D) Cohort + Rhyme: CANDLE, CANDY, SANDAL, TOWER.
15
Un competitore cohort in questo caso è una parola che inizia con lo stesso suono di un’altra.
27
I risultati mostrano che in normali circostanze l’identificazione uditiva delle parole nei
dislessici non è sensibilmente differente da quella dei normo-lettori della stessa età. Entrambi i
gruppi mostrano la stessa velocità dei movimenti oculari quando sono presenti competitori non
relazionati con la parola target (ossia nella baseline condition), suggerendo che l’abilità di
identificare parole uditive in isolamento è simile nei due gruppi. Inoltre, sia i bambini dislessici che
i bambini controllo mostrano un rallentamento nella velocità oculare quando è presente un
competitore cohort, indicando che entrambi i gruppi sono sensibili a questo tipo di sovrapposizione
fonologica nelle parole. Tuttavia, mentre il gruppo di controllo mostra un riconoscimento tardivo
(più lento) quando è presente un distrattore di rima, il gruppo dei dislessici si comporta esattamente
come nella performance baseline. Questi risultati suggeriscono che i dislessici percepiscono
un’informazione segmentale delle parole in sufficiente dettaglio per identificare rapidamente le
parole udite; tuttavia sono molto meno sensibili alle relazioni di rima tra le parole. Questo supporta
i risultati di precedenti studi che indicano una tendenza dei bambini dislessici ad essere più sensibili
all’informazione segmentale mentre i normo-lettori categorizzerebbero gli stimoli uditivi basandosi
sia sulle proprietà segmentali delle parole, sia su quelle soprasegmentali (Kirtley, Bryant, MacLean,
& Bradley, 1989).
I risultati quindi indicano una divergenza basilare nel modo in cui bambini dislessici e
controllo elaborano la struttura fonologica delle relazioni di rima nelle parole.
Inoltre, comparando i risultati ottenuti con la tecnica di eyetracking con quelli ottenuti dai
test tradizionali di consapevolezza fonologica si notano delle incongruenze. Infatti, mentre i
dislessici mostrano un’elaborazione anormale delle rime durante l’esercizio con la tecnica di
eyetracking, la loro performance in un giudizio di rima risulta simile a quella dei bambini controllo.
In modo analogo, il test tradizionale sui suoni iniziali delle parole suggerisce una difficoltà
maggiore per i dislessici nell’identificare le parole che sono cohort, mentre nell’esercizio con
eyetracking questo effetto non si presenta.
Questi risultati mostrano, per quanto riguarda la rima, la forza dell’eyetracking: questa
tecnica infatti sarebbe in grado di identificare impercettibili deficit di elaborazione che non sono
distinguibili usando metodi off-line. E’ inoltre interessante il fatto che i dislessici ottengano un
punteggio più basso nel test di giudizio dei suoni iniziali delle parole mentre mostrano un
comportamento normale con la misurazione on-line dell’eyetracking. Secondo Desroches è
possibile che i loro problemi nel giudicare i suoni iniziali delle parole siano dovuti ad una difficoltà
nell’applicare la conoscenza fonologica in modo esplicito, piuttosto che a un defict di elaborazione
on-line. Se questo fosse il caso, questi problemi metafonologici sarebbero periferici al deficit di
elaborazione fonologica, il quale effettivamente avrebbe un ruolo causale nella dislessia.
28
1.10 Per riassumere
In questo capitolo ho presentato la dislessia evolutiva come un disturbo che colpisce la
lettura nei bambini in età scolastica. Ne ho dato una definizione appropriata e ho presentato i criteri
utilizzati dagli specialisti per una corretta diagnosi. Dopo averne tracciato sommariamente la storia,
mi sono soffermata sulle principali teorie che tentano di spiegare i sintomi della dislessia; queste si
possono suddividere in due gruppi: da una parte troviamo quelle teorie che spiegano la dislessia
come conseguenza di un deficit di tipo fonologico, dall’altra troviamo invece quelle teorie che
spiegano i deficit nei dislessici come conseguenze di deficit più generali di tipo senso-motorio.
Successivamente ho commentato le varie teorie, tenendo conto di un’importante dato di fatto: ossia
che i diversi sintomi osservati nei bambini dislessici (difficoltà di lettura e disturbi senso-motori)
non sono necessariamente compresenti ma esiste tra i due tipi di sintomi una doppia dissociazione.
Di qui la constatazione che nessuna delle teorie presentate riesce a spiegare la varietà di sintomi
presenti nella dislessia evolutiva.
Mi sono soffermata, poi, sull’aspetto centrale della dislessia: la fonologia. Dal momento che
il 100% dei bambini dislessici mostra un deficit fonologico ho cercato di approfondire l’argomento,
presentando la teoria di Ramus, la sub-lexical deficit hypothesis, l’unica che prende in
considerazione, oltre al modo in cui avviene l’elaborazione fonologica, anche l’aspetto
dell’acquisizione della fonologia, andando ad indagare come avviene, appunto, lo sviluppo
fonologico nei soggetti a rischio di dislessia.
Per ultimo ho riportato uno studio interessante in cui i bambini venivano testati attraverso
una tecnica particolare (eyetracking). A differenza degli altri esperimenti generalmente condotti sui
bambini dislessici, questa tecnica permette di valutare i danni fonologici attraverso esercizi che non
coinvolgono risorse come l’attenzione e la memoria, i quali è noto che potrebbero aggravare la
performance. In questo modo viene accertata la presenza di danni fonologici non riconducibili a
deficit attentivi e di memoria.
29
30
2. LA DISLESSIA E IL DEFICIT SINTATTICO: UN CONFRONTO
CON IL DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO
2.1 Lo sviluppo sintattico nella dislessia evolutiva
Attualmente la dislessia nei bambini viene diagnosticata solamente nel momento in cui,
avendo ricevuto un’appropriata istruzione sulla lettura, questi bambini mostrano difficoltà più o
meno gravi ma permamenti in questa abilità. Una situazione ideale sarebbe quella di identificare i
bambini dislessici prima dei loro tentativi di imparare a leggere. Infatti un’identificazione e una
diagnosi precoci darebbero la possibilità di intervenire per tempo, in modo da avere degli effetti
positivi sull’abilità di lettura nei bambini affetti da questo disturbo. Negli ultimi due decenni questa
idea ha ispirato gli studiosi a cercare i precursori della dislessia. Abbiamo visto infatti che sono stati
condotti degli studi sulle abilità fonologiche nei bambini a rischio di dislessia e che i risultati
indicano la presenza in questi bambini di abilità di processing fonologico compromesse. In modo
particolare sembra che la consapevolezza fonologica (rappresentazione, recupero e analisi
metalinguistica dell’informazione fonologica) sia meno sviluppata nei dislessici che nei nondislessici. Inoltre sono state trovate delle differenze tra il gruppo a rischio e il gruppo di controllo
sulla conoscenza delle lettere, sulla cancellazione della consonante iniziale, sulla sensibilità alla
rima e sull’abilità di denominazione rapida. Sembra quindi che i più forti predittori della dislessia
risiedano in un deficit della consapevolezza fonologica.
Tuttavia dai risultati ottenuti dagli studi condotti finora risulta che i bambini dislessici
spesso hanno una storia di problemi linguistici più ampi in tenera età. Questo ha portato gli studiosi
a credere che la dislessia abbia dei precursori linguistici e li ha indotti a studiare lo sviluppo del
linguaggio e quindi anche della morfosintassi nei bambini con rischio genetico di dislessia.
Hollis Scarborough (1990) condusse uno studio sui bambini a rischio di dislessia. Trovò che
il 65% dei bambini nel suo campione di bambini a rischio poteva essere classificato dislessico
all’età di 8 anni. Un’analisi retrospettiva delle loro abilità linguistiche nei primi anni di vita ha
rivelato che avevano avuto maggiori difficoltà linguistiche rispetto ai loro compagni del gruppo di
controllo. Queste difficoltà linguistiche sono cambiate con il tempo: all’età di 30 mesi, i bambini
dislessici possedevano una gamma di item lessicali simile al gruppo di confronto, ma dimostravano
di possedere un numero ristretto di strategie sintattiche e producevano più errori nella produzione
del parlato. Comunque, all’età di 36 e 42 mesi, le proprietà di vocabolario dei bambini dislessici
erano meno sviluppate di quelle del gruppo di controllo e le difficoltà sintattiche persistevano.
All’età di 60 mesi i bambini dislessici mostravano mancanze nella consapevolezza fonologica, ma
31
le loro difficoltà sintattiche non erano più visibili. Secondo Scarborough il risultato più importante
del suo studio conduce a pensare che l’abilità fonologica non era in grado di spiegare la variazione
significativa nelle performance dei dislessici, ma che piuttosto l’abilità sintattica era l’unico
indicatore della difficoltà di lettura.
In un altro studio, Gallagher et al. (2000) hanno studiato 63 bambini a rischio di dislessia
con un’età media di 45,68 mesi. Hanno trovato che almeno la metà dei bambini a rischio aveva
difficoltà nei primi passi di sviluppo dell’abilità di lettura. Inoltre analisi retrospettive sul loro
sviluppo linguistico suggerivano un leggero ritardo in tutti gli aspetti del linguaggio parlato.
Compatibilmente con i risultati di Scarborough, ossia che l’abilità sintattica prescolare era un
indicatore significativo della capacità di lettura a 8 anni, il fattore linguistico (lunghezza della frase
come misura di competenza sintattica), nello studio di Gallagher, spiega la variazione nello
sviluppo dell’abilità di lettura. Inoltre Gallagher ha trovato che i bambini a rischio riconoscevano
meno lettere dei bambini controllo all’età di 45 mesi. Così non è ancora chiaro se la responsabilità
dell’insuccesso nella lettura sia dovuta ad un aspetto specifico dell’abilità di linguaggio (come ad
esempio l’elaborazione fonologica) o ad un più generale ritardo del linguaggio.
Un altro studio interessante è quello condotto da Frank Wijnen presso l’Università di
Utrecht, che mostra come la performance dei bambini a rischio di dislessia sia peggiore rispetto a
quella di bambini controllo di pari età in abilità che richiedono la percezione e la produzione della
morfologia grammaticale, la percezione categoriale dei suoni del parlato, l’elaborazione fonologica,
il riconoscimento di errori di pronuncia e il riconoscimento delle rime. I comportamenti linguistici
dei bambini a rischio di dislessia portano alla conclusione che la dislessia sia un disturbo
specificamente linguistico, che probabilmente ha dei precursori nello sviluppo del linguaggio, anche
in domini diversi da quelli tradizionalmente considerati centrali nel’acquisizione dell’abilità di
lettura. Lo scopo del progetto era quello di tracciare lo sviluppo del linguaggio nei bambini a rischio
di dislessia e compararlo a quello di un gruppo di bambini controllo. I risultati indicano chiaramente
che i bambini a rischio mostrano un ritardo sistematico e consistente nello sviluppo del linguaggio:
all’età di 19 mesi non riescono a discriminare tra frasi grammaticali e non grammaticali e le loro
difficoltà persistono almeno nei sei mesi successivi. All’età di 4 anni la loro percezione categoriale
delle consonanti occlusive è meno precisa rispetto al gruppo di controllo, mentre all’età di 4,6
hanno una performance peggiore nella ripetizione di non-parole. All’età di 5 anni mostrano un
evidente ritardo nella consapevolezza fonologica e commettono più errori nell’identificazione di
errori fonemici nella pronuncia. Questi dati confermano che i bambini a rischio di dislessia hanno
difficoltà nell’elaborazione, nella rappresentazione dei suoni del parlato e nella manipolazione delle
32
forme fonologiche e sono compatibili con l’ipotesi che considera la dislessia un disturbo linguistico
con basi genetiche.
Ulteriori dimostrazioni di un ritardo nello sviluppo morfosintattico nei bambini a rischio di
dislessia provengono da altri studi longitudinali. Lyytinnen et al. (2001) hanno osservato che un
gruppo di bambini a rischio produceva frasi significativamente più corte (misurate in MLU 16 )
rispetto ad un gruppo di bambini controllo della stessa età (24 mesi). Wilsenach & Wijnen (2003)
hanno testato la sensibilità all’accordo morfosintattico nei bambini olandesi a rischio di dislessia (di
età dai 18 ai 23 mesi). Hanno comparato la sensibilità a frasi contenenti una combinazione
grammaticale di ausiliare più participio passato (ad esempio heeft geslapen) e frasi contenenti una
combinazione agrammaticale di modale più participio passato ( ad esempio *kan geslapen). I
risultati mostrano che i bambini controllo avevano una preferenza significativa per la combinazione
grammaticale, mentre i bambini a rischio di dislessia non avevano alcuna preferenza significativa nè
per l’una nè per l’altra combinazione.
Rispens (2004) ha riscontrato che i bambini a rischio di dislessia e bambini con dislessia
sono meno sensibili all’ accordo soggetto-verbo rispetto ai normo-lettori. In particolare, i risultati
indicano che i bambini a rischio di dislessia sono meno abili dei soggetti controllo nel discriminare
frasi agrammaticali e frasi contenenti violazioni di accordo, inoltre questi bambini hanno un
punteggio significativamente più basso nella consapevolezza fonologica e nella conoscenza passiva
delle lettere. Gli stessi bambini sono stati testati un anno dopo le prime istruzioni sulla lettura e fu
chiaro che i bambini con uno sviluppo anormale della capacità di lettura si differenziavano in modo
significativo sulla sensibilità all’accordo soggetto-verbo, sulla conoscenza delle lettere e sulla
consapevolezza fonologica, indicando che anche la sensibilità all’accordo soggetto-verbo è
relazionata al successo nella lettura.
Diversi studi, inoltre, hanno indagato le competenze sintattiche nei bambini più grandi, con
dislessia conclamata. I risultati, come ci si poteva attendere, mostrano che effettivamente la
competenza sintattica è danneggiata nei soggetti dislessici.
Negli anni ottanta diversi studiosi si sono occupati della comprensione, da parte dei bambini
dislessici, delle frasi relative. Stein et al. (1984) hanno trovato che i dislessici mostrano maggiori
difficoltà nel capire e ripetere frasi relative e producono meno frasi relative con il movimento
dell’oggetto (ad esempio “The girl who pushed the boy tickled the clown”) rispetto ai non-dislessici.
Anche Byrne (1981) ha stabilito che i bambini dislessici hanno maggiori problemi nella
comprensione delle frasi relative rispetto ai normo-lettori. Byrne ha ipotizzato che questo fosse il
risultato di uno sviluppo sintattico ritardato. Mentre Mann et al. (1984) hanno suggerito che la
16
Mean Lenght Utterances, ossia la lunghezza media dell’enunciato.
33
difficoltà osservata nei dislessici nel ripetere le frasi relative fosse dovuta al ruolo centrale della
memoria operativa nel fraintendimento delle frasi relative.
Stein ha riscontrato, inoltre, che i bambini dislessici facevano molti più errori
nell’interpretazione di frasi passive rispetto ai bambini controllo, nel senso che attribuivano il ruolo
di agente al soggetto grammaticale della costruzione passiva (in altre parole, interpretano “Mary
was kicked by John” come “Mary kicked John”).
Waltzman & Cairns (2000) hanno trovato che i dislessici avevano problemi in un’altra area
della sintassi, ossia nella teoria del legamento. I loro studi hanno dimostrato che i dislessici
facevano errori nell’interpretazione dei pronomi in frasi come Pig is drying her, suggerendo delle
difficoltà con i principi del legamento.
Joanisse et al. (2000) hanno confrontato le abilità di percezione del parlato, le abilità
fonologiche e morfologiche nei bambini dislessici all’età di 8 anni e ha trovato che essi avevano più
difficoltà con la flessione dei verbi al passato rispetto ai soggetti normali.
In conclusione, c’è una certa dimostrazione dell’esistenza di un ritardo nell’acquisizione
delle strutture sintattiche e della morfologia flessiva sia nei bambini a rischio sia nei dislessici in
relazione ai loro compagni normo-lettori. Questi dati mettono in rilievo una questione cruciale,
ossia quale possa essere la connessione tra deficit fonologico e deficit sintattico.
2.2 Tre ipotesi per il deficit sintattico
Rispens (2004) ha formulato tre ipotesi per cercare di spiegare come questi deficit di tipo
sintattico potessero essere relazionati con la dislessia. La prima ipotesi sostiene che le differenze
nelle abilità sintattiche tra i bambini dislessici e i bambini controllo siano attribuite alla differenza
nella esperienza di lettura nei due gruppi. E’ spesso il caso che i dislessici siano meno esposti alla
lettura dei loro pari normo-lettori ed abbiano di conseguenza meno accesso a forme di scrittura di
alto livello. In poche parole, lo sviluppo delle abilità di linguaggio avanzerebbe con la lettura e
l’ascolto della lingua parlata, specialmente per quanto riguarda quelle nozioni che non sono usate
spesso nelle conversazioni di tutti i giorni. Così, una possibile differenza osservata tra dislessici e
non-dislessici può avere origine da una conseguenza della dislessia, ossia un minore accesso alla
lingua scritta.
La seconda ipotesi sul deficit sintattico della dislessia è che esso si origini dalla stessa fonte
che causa il problema di lettura: una difficoltà (di elaborazione) fonologica. Si è supposto che due
tipi di danni relazionati fonologicamente non solo siano alla base del deficit di lettura, ma che siano
34
responsabili dei deficit morfo-sintattici. E’ stato suggerito che una capacità limitata della memoria
operativa verbale interferisca con l’elaborazione sintattica così che l’elaborazione e il trasferimento
di input linguistici nel e dal processore fonologico verso l’analizzatore sintattico fossero ostacolati.
Inoltre, problemi fonologici segmentali possono avere un impatto sulle abilità morfo-sintattiche così
che la formazione della forma flessa di un verbo (combinare la radice del verbo con l’accordo di
tempo e persona) dipenda in un certo qual modo dall’applicazione di regole fonologiche.
Per ultimo, potrebbe essere il caso che i deficit sintattici non siano correlati al deficit
fonologico osservato nella dislessia, ma che lo sviluppo del sistema sintattico sia ritardato nei
bambini dislessici. Alcuni studiosi ritengono che questo ritardo nello sviluppo linguistico sia
parzialmente responsabile dei problemi di lettura nei dislessici. In questo scenario i bambini con
insufficienti abilità linguistiche non potrebbero essere svantaggiati dalle loro competenze sintattiche
e semantiche quando codificano le parole.
Rispens ha indagato le tre ipotesi attraverso due studi: il primo studio testa la prima ipotesi
(ossia che la differenza nella performance sintattica sia causata da una differenza nell’abilità di
lettura tra dislessici e non dislessici) comparando la performance di bambini dislessici con bambini
normali di pari età e bambini più piccoli ma con la stessa età di lettura su un esercizio di giudizio di
grammaticalità. I risultati mostrano che i bambini dislessici non solo hanno una performance
peggiore dei loro compagni di pari età, ma anche dei bambini con lo stesso livello di lettura
escludendo la possibilità che l’esperienza di lettura sia un fattore chiave nel determinare la
performance sintattica dei dislessici. Il secondo studio testa la possibilità che i problemi nella
morfologia dell’accordo siano in correlazione con il deficit fonologico. In entrambi i gruppi i
risultati rivelano che le performance su abilità fonologiche, che includono la conoscenza delle
lettere, la consapevolezza fonologica e la memoria operativa verbale sono collegate in modo
significativo con l’accordo soggetto-verbo. Un’analisi dei risultati comparati con quelli di un
gruppo di bambini con SLI mostra che la consapevolezza fonologica e la ripetizione di non-parole
(che riflette la memoria operativa verbale) predicono la variazione nella sensibilità all’accordo
soggetto-verbo. Questo risultato si combina con l’ipotesi che la consapevolezza fonologica e la
memoria operativa verbale siano abilità relazionate alla performance morfosintattica, e in questo
caso specifico all’accordo soggetto-verbo, e suggerisce che la difficoltà con l’accordo abbia origine
da un deficit in queste due abilità (consapevolezza fonologica e memoria operativa verbale),
piuttosto che da un danno o da un ritardo del sistema sintattico.
Un’altra questione collegata a queste osservazioni è se la sensibilità alla morfologia
dell’accordo sia relazionata al successo nella lettura e di conseguenza alle abilità fonologiche. I
risultati riportati da Rispens portano ad ipotizzare che sia esattamente così. I bambini a rischio di
35
dislessia, che dopo un anno dall’insegnamento della lettura non mostravano uno sviluppo normale
della capacità di lettura, avevano una performance molto bassa rispetto ai soggetti controllo sulla
sensibilità all’accordo grammaticale, sulla consapevolezza fonologica e sulla conoscenza delle
lettere. Ossia si è osservata una correlazione tra queste capacità. In particolare si è osservato che la
consapevolezza fonologica, la memoria operativa (valutata attraverso il digit span 17 ) e l’accordo
soggetto-verbo contribuiscono significativamente alla codifica delle parole. A partire da questi dati
Rispens formula una relazione tra consapevolezza fonologica, memoria operativa verbale e
codifica/identificazione delle parole:
Figura 3: Modello delle relazioni tra consapevolezza fonologica, memoria operativa e codifica delle parole.
Il modello mostra che la marcatura dell’accordo soggetto-verbo è relazionata alla
consapevolezza fonologica. Rispens parte dal presupposto di Joanisse et al. (2000) 18 che la
combinazione della radice di un verbo con un morfema avvenga sulla base di un sistema di regole
parzialmente fonologiche. La memoria operativa verbale è inoltre importante in questo processo dal
17
18
Il digit span è un test di misurazione dello span di memoria verbale (memoria di cifre).
Discusso nei cap. 2 e 5 in Rispens, J. (2004).
36
momento che la rappresentazione fonologica di una forma verbale ha bisogno di essere mantenuta
in memoria. Un insuccesso di questo temporaneo mantenimento in memoria della rappresentazione
fonologica darà come risultato una forma degradata di questa rappresentazione, che interferisce
nella creazione di un paradigma flessivo stabile. Inoltre, la memoria operativa verbale è sollecitata
in modo diverso quando si marca un verbo con la persona e col numero del soggetto. Dal momento
che queste proprietà sono riflesse nella forma del verbo, è necessario che questi tratti siano
mantenuti in attivazione per un periodo sufficiente per combinare il soggetto con il verbo. In questo
modo, l’accordo soggetto-verbo contribuisce alla codifica delle parole.
La consapevolezza fonologica e la memoria operativa verbale si dimostrano quindi essere
fattori importanti nella codifica delle parole. Decodificare le parole infatti richiede di collegare i
grafemi ai fonemi di una parola, un’abilità che a sua volta richiede una conoscenza della struttura
fonologica interna di una parola. Inoltre la memoria operativa verbale è coinvolta nell’acquisizione
a lungo termine delle regole di mappatura grafema-fonema, che sono cruciali nel processo di
apprendimento della lettura. In più, la memoria operativa verbale è necessaria per il mantenimento
temporaneo dei fonemi di una parola, che il bambino cerca di identificare applicando le regole
grafema-fonema. 19
2.3 Dislessia e disturbo specifico del linguaggio (SLI)
Abbiamo visto finora che c’è una relazione tra capacità linguistiche e dislessia, sia nei
bambini a rischio che nei bambini con dislessia, infatti i dati riportati dimostrano che i due gruppi di
bambini in questione mostrano difficoltà di linguaggio, non solo di tipo fonologico ma anche di tipo
morfo-sintattico. Tuttavia è vero anche il contrario: un ampio e crescente numero di studi ha
riportato problemi di lettura in bambini con difficoltà di linguaggio. L’incidenza delle difficoltà di
lettura nei bambini con un disturbo specifico del linguaggio (SLI) è alta, tra il 40-60% (Catts, Hu,
Larrivee & Swank 1994). Gli studiosi sono d’accordo nel dire che i bambini con difficoltà di
linguaggio severe e persistenti hanno maggior rischio di sviluppare difficoltà di lettura. Questi dati
suggeriscono che dislessia e SLI possano essere disturbi relazionati.
Il disturbo specifico del linguaggio è definito come un disturbo evolutivo del linguaggio, nel
quale i bambini falliscono nell’acquisizione appropriata delle abilità linguistiche, nonostante
un’intelligenza non-verbale normale, udito nella norma e assenza di disfunzioni neurologiche o
problemi di tipo comportamentale, emotivo o sociale (Leonard, 1998). Entrambi i disturbi sono
19
Il ruolo della memoria operativa verbale sarà approfondito nel capitolo terzo.
37
definiti per esclusione: un bambino è detto avere la dislessia o lo SLI quando il danno rilevante non
è causato da handicap conosciuti. Ad ogni modo questo implica che non è chiaro cosa sia specifico
di entrambi i disturbi. A peggiorare le cose c’è inoltre il fatto che sia la dislessia che lo SLI sono
disturbi eterogenei. Anche se esistono profili comuni per dislessia e SLI, questi a volte non si
adattano a tutti gli individui che soffrono dell’uno o dell’altro disturbo. Questo rende ancora meno
probabile che tutti i bambini con dislessia o SLI esibiscano gli stessi sintomi. Inoltre, sembra esserci
una considerevole sovrapposizione tra le due popolazioni cliniche. Bambini con dislessia e SLI
spesso soffrono degli stessi sintomi, che includono una povera elaborazione fonologica, una
memoria a breve termine limitata e difficoltà nella percezione del parlato. Principalmente si
associano allo SLI problemi con la morfosintassi, ma abbiamo già visto che anche nei dislessici si
osservano problemi in questo dominio. In questo modo capita che bambini che soddisfano i criteri
di entrambi i disturbi siano definiti dislessici o con SLI a caso, a seconda del tipo di clinico che
incontrano. McArthur et al. (2000), per esempio, hanno osservato che il 50% dei bambini nel loro
studio, che erano diagnosticati come dislessici, soddisfacevano anche i criteri dello SLI e vice versa.
Ci troviamo di fronte ad una situazione ambigua. Nonostante le molte ricerche condotte in
quest’ambito, la letteratura rimane non chiara sul fatto se dislessia e SLI siano lo stesso disturbo o
due disturbi differenti.
Ma consideriamo ora nel dettaglio il disturbo specifico del linguaggio.
2.4 Caratteristiche generali dello SLI
Lo sviluppo del linguaggio nei bambini affetti da SLI è spesso danneggiato a tutti i livelli.
Caratteristiche comuni ai bambini affetti da questo disturbo sono le seguenti:
-
Il linguaggio emerge con un certo ritardo.
-
Il linguaggio può mostrare delle strutture malformate e rimane ad un livello inferiore rispetto
alle aspettative dell’età.
-
Gli individui affetti mostrano problemi con la morfologia flessiva.
Ci sono anche delle differenze riguardanti l’estensione del deficit:
-
Non tutti gli aspetti della morfologia flessiva sono ugualmente problematici.
38
-
Oltre alla morfologia flessiva, possono essere colpite anche altre aree della conoscenza
grammaticale.
-
L’acquisizione delle parole, specialmente dei verbi, risulta a volte vulnerabile.
-
Vengono rilevati (lievi) deficit fonologici (ad esempio ci sono problemi con le consonanti in
finale di sillaba e con i gruppi di consonanti).
-
Il disturbo può essere a livello ricettivo e/o espressivo.
-
Il disturbo può durare per tutta l’infanzia e anche persistere nell’età adulta.
Nonostante questa varietà di sintomi, lo SLI è spesso (nella ricerca accademica)
caratterizzato in termini di problemi con la morfosintassi, probabilmente per il fatto che i bambini di
lingua inglese con SLI mostrano evidenti limiti nell’uso della morfologia grammaticale.
Leonard (1998) stima che circa il 6% dei bambini soffra di una qualche forma di disturbo
specifico del linguggio, ma che solo l’1,5% abbia un’età linguistica al di sotto dei due terzi della
loro età mentale. Lo SLI colpisce i maschi tre volte in più rispetto alle femmine. Sembra inoltre che
alcuni bambini “guariscano” dallo SLI durante l’infanzia, mentre per altri i sintomi persistano fino
all’età adulta. Bishop & Edmundson (1987) riportano che su 68 bambini con SLI all’età di 4 anni, il
56% continuò ad avere punteggi bassi nei test sul linguaggio all’età di 5;6 e 8;6; Johnson et al.
(1999) riportano che il 73% dei bambini del loro studio con disturbo del linguaggio continuavano
ad averlo all’età di 19 anni.
Un’importante discussione nella letteratura sullo SLI ruota attorno alla questione se il
disturbo costituisca un ritardo nello sviluppo linguistico oppure una deviazione da uno sviluppo
normale. Se lo SLI fosse il risultato di uno sviluppo ritardato, i bambini che soffrono di questo
disturbo attraverserebbero gli stessi stadi dei bambini con normale sviluppo, ma più lentamente.
Potrebbero anche raggiungere uno stadio oltre il quale non vi è più progresso. Se lo SLI fosse
invece il risultato di uno sviluppo deviato (anormale), i bambini mostrerebbero l’uso di strutture
anormali che non sono osservate nei bambini con sviluppo normale. Un’altra questione è se gli
errori dei bambini con SLI siano omissioni o sostituzioni. Negli errori di omissione i bambini
tralasciano una parola o una flessione in un contesto obbligatorio (ad esempio in inglese l’omissione
della flessione –s della terza persona singolare del tempo presente). Un errore di sostituzione,
dall’altro lato, risulta nell’uso di una parola o di un affisso in un contesto inappropriato (ed esempio
estendere l’uso della forma –s dalla terza persona singolare ad altri soggetti). Il dibattito tra ritardo e
deviazione ha portato a diverse teorie sullo SLI. Le più importanti di queste saranno discusse nella
sezione 2.5.
39
2.4.1 Errori grammaticali nello SLI
Gli errori grammaticali nello SLI consistono principalmente in errori di omissione. Anche
gli errori di sostituzione sono stati osservati, ma sono meno comuni. In questo paragrafo verranno
riassunti i tipi di errori più frequenti. E’ da premettere che i sintomi dello SLI sono diversi in base
alla tipologia della lingua, quindi non è possibile fornire una rassegna completa degli errori che
compiono i bambini con SLI. Piuttosto, introdurrò le categorie coinvolte negli errori. Gli errori
riguarderanno la lingua inglese e olandese, dal momento che vi è una bibliografia abbastanza ampia
in queste due lingue.
I bambini con SLI omettono frequentemente gli affissi.20 In inglese i principali affissi
verbali omessi includono la forma –s del tempo presente (come in He drinks beer) e la forma –ed
del tempo passato (come in He walked home) (Leonard, 1998). Alcuni studi sullo SLI mostrano che
sono problematiche le flessioni nominali (ad esempio la forma –s del plurale), ma generalmente si
ritiene che tali affissi vengano omessi molto meno spesso degli affissi verbali menzionati sopra. I
bambini olandesi con SLI spesso omettono o sostituiscono il morfema verbale che marca l’accordo
soggetto-verbo. Questi bambini, invece di usare la forma marcata del verbo, usano il modo infinito
(ad esempio Hij drinkt diventa Hij drinken). Inoltre, i bambini olandesi con SLI spesso omettono il
marcatore del tempo passato o usano una forma al tempo presente (De Jong, 1999). Secondo De
Jong i bambini con SLI hanno un inventario ‘immaturo’ delle forme del tempo passato, ossia le
forme che usano assomigliano a quelle di bambini a sviluppo normale ma più piccoli.
Inoltre i bambini con SLI hanno la tendenza ad omettere gli ausiliari. In inglese gli ausiliari
appaiono in una forma piena o in una forma clitica (contratta). Nella forma clitica, un ausiliare
contratto si attacca alla parola che lo precede, formando ad esempio he’s smiling e they’ve gone.
Nell’inglese parlato sono preferite le forme clitiche alle forme piene. I bambini con SLI omettono
frequentemente gli ausiliari in contesti dove gli adulti userebbero la forma clitica dell’ausiliare. A
differenza dell’inglese, Bol & De Jong (1992) trovarono che i bambini olandesi con SLI non hanno
particolari difficoltà con gli ausiliari.
I bambini con SLI omettono frequentemente gli articoli. In inglese gli articoli definiti (the) e
indefiniti (a/an) sono frequentemente omessi nei contesti obbligatori. Anche in olandese questa
categoria è vulnerabile all’omissione (Leonard, 1998).
Occasionalmente i bambini con SLI producono errori di sostituzione. Il tipo più comune di
errore coinvolge la produzione di forme regolarizzate di parole irregolari. Così il nome plurale mice
20
Gli affissi sono morfemi grammaticali che si attaccano a verbi o a nomi e che non possono avere la funzione di parole
indipendenti.
40
viene spesso prodotto con la forma iperregolarizzata mouses. Allo stesso modo, le forme irregolari
del tempo passato (come sing) sono a volte scambiate per forme iperregolarizzate (come in singed).
Questi tipi di errori non sono ristretti soltanto allo SLI, ma sono osservati anche nel linguaggio dei
bambini con normale sviluppo e generalmente indicano che i bambini conoscono le regole
morfologiche e le sanno applicare alle forme appena imparate. Errori simili sono costituiti da forme
flesse che si moltiplicano, nelle quali il suffisso del tempo passato regolare viene attaccato ad una
forma irregolare del passato, producendo forme come wented e strutture che contengono due verbi
marcati di tempo (come in He didn’t worked in the garden invece di He didn’t work in the garden).
2.5 Le principali teorie sul disturbo specifico del linguaggio
Sono stati compiuti dei confronti sistematici del comportamento linguistico dei bambini con
e senza SLI con l’intento di rilevare punti di forza e di debolezza nella produzione linguistica dei
bambini con SLI. Gruppi diversi di bambini mostrano diversi comportamenti linguistici, e questo ha
motivato le varie ipotesi sulla natura dello SLI.
Alcuni studiosi pensano che lo SLI sia un deficit modulare, ossia un deficit che colpisce
solamente le abilità linguistiche. 21 Alcuni sostengono che il deficit alteri aspetti locali della
grammatica; per esempio, i bambini con SLI producono frasi in cui è assente il tratto di tempo e di
conseguenza non vengono realizzati i morfemi che esprimono questo tratto. Altri credono che i
bambini con SLI abbiano più difficoltà nelle relazioni di accordo con il soggetto, o che i bambini
con SLI non costruiscano lo stesso tipo di grammatica dei bambini senza SLI perchè non
possiedono i tratti [±passato] e [±plurale]. Una visione radicalmente differente attribuisce il deficit
ad una debolezza del sistema percettivo, che rende difficile per il bambino con SLI percepire i
morfemi fonologici non salienti.
Per riassumere, lo SLI è un deficit che colpisce le abilità grammaticali e i bambini affetti:
-
Falliscono nell’esprimere il tempo in contesti obbligatori.
-
Falliscono nell’esprimere l’accordo.
-
Non riescono a rappresentare relazioni dipendenti dalla struttura
-
Mancano dei tratti flessivi [±passato] e [±plurale].
Oppure lo SLI è un deficit del sistema di elaborazione uditiva.
21
Vedi Fodor 1983 per il concetto di modularità.
41
E’ importante sottolineare che le teorie proposte nella sezione seguente intendono essere una
spiegazione del deficit grammaticale nello SLI. Queste teorie non hanno a che fare con i bambini
che hanno esclusivamente un deficit fonologico o deficit pragmatici, anche se tali bambini esistono.
Questa linea nelle teorie esistenti sullo SLI risulta dal fatto che gli studiosi ritengono che
l’acquisizione ritardata/deviata della morfologia grammaticale rappresenti la caratteristica più
distintiva del disturbo. La separazione degli studi grammaticali dagli studi semantici e pragmatici
rende difficile stimare i punti di contatto tra i sottogruppi di SLI. Tuttavia, dal momento che ci
stiamo occupando di deficit morfosintattici, tutte queste teorie sono potenzialmente rilevanti.
2.5.1 Dallo stadio Extended Optional Infinitive verso il Modello di omissione del tempo e
dell’accordo
Rice & Wexler (1995) propongono lo Extended Optional Infinitive Stage (EOIS) come una
spiegazione dello SLI. Questa teoria suggerisce che lo stadio Optional Infinitive (OI), uno stadio
evolutivo che i bambini con normale sviluppo vivono approssimatamente tra gli 1;10 e i 3;6 anni,
persista nei bambini con SLI. Durante questo stadio evolutivo, i bambini usano sia i verbi infiniti
che i verbi finiti in un contesto finito. 22 La finitezza non è ancora obbligatoria e per questo risulta
che i tratti di tempo e accordo del verbo non vengono sempre marcati. Così, ad esempio, in un
contesto di tempo passato, un bambino nello stadio OI potrebbe dire sia I fell on my knee sia I fall
on my knee. Wexler inoltre osservò che durante lo stadio OI i bambini tendono ad omettere gli
ausiliari e la copula BE nei contesti finiti, dicendo ad esempio Mommy eating al posto di Mommy is
eating o Daddy gone piuttosto che Daddy has gone. La generalizzazione consiste nel fatto che
durante lo stadio OI, i bambini alternano nel produrre frasi finite e non-finite in contesti finiti.
Wexler & Rice suggeriscono che i bambini con SLI abbiano uno stadio OI che dura tipicamente
fino all’età di 7 o 8 anni.
Inizialmente, Wexler (1994) aveva ipotizzato che i bambini con SLI avessero un deficit
legato al tempo, nel senso che qualche volta marcano il tempo e qualche volta lo lasciano
sottospecificato. L’uso di forme infinite in contesti che richiedono le forme finite rappresentano un
errore di omissione del tempo secondo le supposizioni di Wexler. La teoria che lo SLI consista in
un periodo esteso dello stadio OI porta alle seguenti predizioni:
22
Un contesto finito è un contesto dove l’adulto userebbe un verbo marcato con tempo e accordo.
42
-
Soltanto il tratto di tempo manca opzionalmente, così vengono omessi soltanto i
morfemi di tempo.
-
Altri morfemi flessivi (ad esempio la marcatura del plurale dei nomi) e le preposizioni
non vengono omessi.
-
Quando i bambini scelgono il tratto di tempo ne rispettano tutte le sue proprietà
morfosintattiche.
Più tardi in uno studio in collaborazione con Schütze (Schütze & Wexler 1996), è stato
ipotizzato che gli infiniti opzionali potrebbero essere il risultato sia dell’omissione del tratto di
tempo, sia del tratto di accordo. In un articolo del 1998 Wexler, Schütze e Rice hanno ipotizzato che
lo SLI implicasse un deficit sintattico, che porta i bambini a omettere, qualche volta, i tratti di
tempo e accordo nei contesti obbligatori. Wexler et al. chiamano questo modello ATOM
(Agreement & Tense Omission Model). A supporto di questo modello ci sono casi in cui la
marcatura di un soggetto di una NP (Noun Phrase) da parte di un bambino con SLI e di bambini più
piccoli con normale sviluppo risulta errata, poichè questi bambini usano un verbo infinito con un
soggetto in accusativo (come in him fall down e her have a big mouth). Sia l’accordo che il tempo
hanno una relazione con il soggetto. Il tempo finito esprime il soggetto, l’accordo assegna il caso al
soggetto.
Sia il modello EOI che il modello ATOM presuppongono un ritardo nello sviluppo del
linguaggio dei bambini con SLI. In questo modo, la grammatica di un bambino con SLI non è
qualitativamente differente dalla grammatica di un bambino con normale sviluppo, infatti include
gli stessi processi grammaticali e le stesse categorie; essa semplicemente si sviluppa più lentamente.
2.5.2 L’ipotesi Missing feature/ Implicit Rule Deficit
Questa teoria spiega che i problemi grammaticali dei bambini con SLI derivano da una
sottospecificazione delle regole morfosintattiche che marcano i tratti di tempo, numero e persona.
Gopnik (1990) originariamente caratterizzò il problema come feature blindness (dalla grammatica
dei bambini con SLI mancherebbero i tratti di tempo, numero e persona) e basò la sua ipotesi sullo
studio di un caso di un ragazzo con deficit del linguaggio. Nella produzione linguistica di questo
ragazzo erano assenti le regole morfofonologiche e le regole per l’accordo dei tratti nella sintassi.
La feature blindness implica che i morfemi grammaticali che codificano questi tratti vengano
43
prodotti in modo accidentale. Gopnik presentò ulteriori prove per la sua teoria con i dati di una
famiglia inglese (la famiglia KE, di cui tratterò più ampiamente nella sezione 2.7.1).
Gopnik & Crago (1991) ricostruirono la prima ipotesi proponendo un’assenza di regole
piuttosto che un’assenza di tratti nella grammatica dei bambini con SLI. Proposero l’Implicit Rule
Deficit come una spiegazione dello SLI, partendo dal presupposto che le flessioni regolari e
irregolari sono acquisite differentemente. 23 Le forme irregolari sono immagazzinate nella memoria,
mentre l’acquisizione della morfologia regolare necessita di una regola astratta che attacca un
morfema alla radice di un verbo. L’ipotesi di Implicit Rule Deficit sostiene che nei bambini con SLI
queste regole astratte non sono disponibili e che questi bambini usano soltanto la memoria. In
questo modo, l’acquisizione delle forme regolari avverrebbe nei bambini con SLI allo stesso modo
che per le forme irregolari (ossia dovranno essere imparate a memoria). Tuttavia questa ipotesi non
spiega il fatto che a volte i bambini con SLI producono delle regolarizzazioni di forme di verbi
irregolari. Queste produzioni sono un’indicazione che si sta applicando una regola e non che queste
forme sono imparate a memoria, dal momento che non appaiono nell’input. Inoltre gli autori di
questa ipotesi si trovano comunque di fronte a espressioni di frasi grammaticali, ben formate, da
parte di questi bambini. Come spiegare ciò? Gopnik ritiene che le manifestazioni di morfologia
grammaticale nei bambini con SLI siano comunque da interpretare come il risultato di un sistema
danneggiato. In questo modo, gli esempi che contraddicono la teoria non possono essere ritenuti
come controprove, ma come l’output casuale di una grammatica difettosa. E’ molto difficile o anche
impossibile falsificare questa teoria, e ciò la rende di per se stessa debole.
2.5.3 L’ipotesi Missing agreement
L’ipotesi Missing Agreement è stata proposta da Clahsen (1989). Valutando i risultati di
alcuni studi sui bambini di lingua tedesca con SLI, Clahsen ha proposto che il problema di questi
bambini consistesse nello stabilire le relazioni strutturali di accordo grammaticale. I marcatori di
accordo stabiliscono una relazione tra I (la testa che porta il tratto flessivo associato con il verbo) e
un soggetto nello specificatore di I. Così il deficit consiste nell’incapacità di stabilire le relazioni di
accordo con il soggetto. A supporto di questa ipotesi ci sono delle osservazioni di bambini con SLI
che hanno problemi con i tratti di genere e numero dei determinanti e degli articoli. Inoltre i
bambini di questo studio facevano frequentemente errori di accordo sui verbi e producevano frasi
con il verbo in posizione finale invece che nella posizione appropriata al secondo o primo posto.
23
Il modello è stato proposto da Pinker & Prince, 1998.
44
Secondo Clahsen queste produzioni agrammaticali del verbo in posizione finale non sono il risultato
di un deficit nel ‘movimento’ stesso, ma sono relazionati alla loro incapacità di generare la
morfologia (ossia le forme finite) richiesta per il verbo in seconda posizione. I morfemi
grammaticali mancano dall’output dal momento che i bambini non possiedono le relazioni di
accordo che ne permettono l’ uso e non perchè i bambini non sappiano produrre le forme stesse.
Clahsen ritiene inoltre che il deficit nell’accordo causi problemi in altri domini che
dipendono dalle relazioni di accordo. L’ipotesi Missing agreement predice che nell’SLI si abbiano
problemi con l’accordo soggetto-verbo, la forma finita degli ausiliari, la marcatura del caso e la
marcatura del genere nei determinanti e negli aggettivi. D’altro lato, l’acquisizione di paradigmi
dovrebbe essere preservata nello SLI. Inoltre quest’ipotesi non predice difficoltà significative con il
tempo. Clahsen riconosce che i bambini con SLI hanno problemi con il tratto di tempo, ma vede tali
problemi come marginali rispetto ai problemi con l’accordo soggetto-verbo.
Risultati contrastanti con questa ipotesi sono stati trovati da uno studio su un’altra lingua,
con un sistema di accordo morfologico molto ricco, ossia l’italiano. Cipriani, Bottari e Chilosi
(1998) hanno registrato la produzione di un bambino di lingua italiana con SLI dall’età di 6;2 a
13;5. All’età di 6;2 questo bambino usava i morfemi di accordo per la prima, seconda e terza
persona singolare e plurale correttamente. Durante il periodo di indagine la percentuale di errori era
circa del 3%. Tuttavia non si sa se bambini di lingua italiana più piccoli siano meno abili nell’uso
dell’accordo verbale. Ad ogni modo è chiaro che il bambino studiato da Cipriani, Bottari e Chilosi,
con diagnosi di SLI, non aveva problemi nell’elaborazione delle relazioni di accordo del soggetto.
2.5.4 Representational deficit for dependency relations
L’ipotesi Representational deficit for dependency relations (RDDR) trova la causa dello SLI
nel sistema computazionale sintattico (Van der Lely, 1998; Van der Lely & Battel, 2003). 24
L’ipotesi RDDR adotta il Programma Minimalista di Chomsky (1995) per spiegare lo SLI. Nel
Programma Minimalista le dipendenze a lunga distanza necessitano del ‘movimento’, dove il
‘movimento’ è definito come l’attrazione di tratti non interpretabili (ad esempio il tempo e il
genere) per la realizzazione del feature checking. L’ipotesi RDDR sostiene che il deficit
responsabile per gli errori grammaticali nello SLI sia nel ‘movimento’. Si presuppone che la regola
del movimento sia obbligatoria in una grammatica normale (per definizione) ma che sia invece
opzionale nella grammatica dei bambini con SLI. Così la grammatica dei bambini con SLI può
24
Negli studi più recenti l’ipotesi RDDR è stata rinominata Computational Complexity Hypothesis.
45
essere caratterizzata dal ‘movimento opzionale’ (Van der Lely, 1998). Il ‘movimento opzionale’
implica che nello SLI non manca la regola, ma che l’implementazione della regola non sia
automatica e obbligatoria. L’ipotesi RDDR spiega i problemi con la marcatura del tempo e con
l’accordo nello SLI come un movimento opzionale da testa a testa (ad esempio da V a I) mentre i
problemi con il movimento A- (Argomento) spiegano la difficoltà dei soggetti con SLI
nell’assegnare i ruoli tematici agli NP.
Un altro esempio di relazione dipendente dalla struttura nel quale i bambini con SLI
mostrano difficoltà è la relazione di legamento 25 . Van der Lely e Stollwerck hanno mostrato che i
bambini con SLI avevano una capacità limitata nell’applicare i Principi A e B della teoria del
legamento ed hanno attribuito questo problema a difficoltà nel calcolare il dominio locale e nel
trovare l’antecedente appropriato nel dominio di c-comando di un pronome riflessivo.
L’ipotesi RDDR ritiene che la grammatica dei bambini con SLI sia deviata, dal momento
che questi bambini non raggiungono mai uno stato consolidato rispetto all’implementazione delle
regole sintattiche. La predizione è che i bambini con SLI abbiano problemi nella comprensione e
nella produzione di tutti gli elementi che costituiscono delle dipendenze sintattiche.
2.5.5 La Surface Hypothesis
La Surface Hypothesis (Leonard, 1998) è forse la teoria non-modulare più conosciuta
dell’SLI.
Se i bambini con SLI hanno problemi con i morfemi funzionali, può essere che questi
morfemi abbiano una proprietà speciale che li rende particolarmente difficili da produrre o
comprendere. Secondo la Surface Hypothesis i morfemi funzionali (in inglese il tempo passato, la
terza persona singolare del presente, i marcatori del plurale, ecc.) sono particolarmente vulnerabili
perchè sono fonologicamente non salienti per alcune loro proprietà acustiche. Bambini con SLI
hanno difficoltà nell’elaborazione di morfemi che hanno una durata breve e una bassa sostanza
fonetica. In particolare hanno dei problemi con i morfemi che:
-
Non hanno accento (ad esempio l’articolo the e la flessione finale in kisses).
-
Non sono sillabici ( ad esempio la –s finale in speaks).
25
I principi del legamento governano le relazioni sintattiche tra riflessivi e pronomi e i loro antecedenti. In particolare i
riflessivi devono avere un antecedente che li c-comanda all’interno della frase più piccola che li contiene (Principio A)
mentre i pronomi non possono avere un antecedente che li c-comanda all’interno della frase più piccola che li contiene
(Principio B).
46
-
Sono soggetti all’omissione nella produzione.
-
Non occorrono in posizione finale (una posizione dove gli elementi possono essere
soggetti a effetti di prolungamento).
Perchè una breve durata o una mancanza di salienza risultano problematiche nei bambini
con SLI? Secondo Leonard (1998) ciò che sta al centro delle difficoltà dei bambini non è la durata
in sé dei morfemi funzionali, ma il fatto che la percezione dei morfemi non salienti esaurisca le
risorse di elaborazione disponibili in questi bambini. Facendo questo, non riescono ad identificare la
funzione grammaticale di questi morfemi e ad utilizzarli nel modo corretto. In poche parole, i
bambini con SLI hanno difficoltà nel manipolare le flessioni perchè non riescono ad elaborare le
loro funzioni. Quindi la Surface Hypothesis implica una limitazione generale nella capacità di
elaborazione nei bambini con SLI ma ritiene anche che questa limitazione abbia un effetto
particolarmente profondo sulle operazioni di percezione grammaticale dei morfemi e
sull’identificazione della loro funzione grammaticale. Questa capacità limitata di elaborazione è
forse meglio descritta con il termine ‘velocità ridotta’ di elaborazione/processing. L’idea principale
è che i bambini con SLI percepiscano le consonanti in finale di parola e le sillabe deboli, ma che la
capacità di elaborazione di questi bambini sia severamente ostacolata quando tali forme hanno un
ruolo morfologico. Quando questo è il caso, i bambini non solo si trovano a dover percepire le
consonanti di breve durata e le sillabe deboli, ma devono sostenere ulteriori operazioni per scoprire
che esse funzionano come morfemi grammaticali separati ed hanno un ruolo specifico nel
paradigma morfologico. Queste operazioni aggiunte sono in effetti quelle discusse da Pinker (1984)
nel suo modello di acquisizione, nel quale egli offre una spiegazione del modo in cui i bambini
costruiscono i paradigmi morfologici. Secondo questo modello, l’acquisizione del linguaggio
comincia con la formazione da parte dei bambini dei paradigmi specifici delle parole. Nel corso
dello sviluppo del linguaggio questi paradigmi diventano generali e i bambini diventano
consapevoli del fatto che affissi specifici rappresentano tratti sintattici specifici. Quando questo
accade, i bambini “sanno” che diversi affissi rappresentano diverse dimensioni e possono applicarli
a nuove parole. Così, nel sentire il verbo corre un bambino, che è partito da un paradigma specifico
di una parola ed è arrivato a dei paradigmi generali, può produrre corro senza avere mai sentito
prima questa parola. Gli affissi non vengono acquisiti tutti nello stesso tempo. Piuttosto Pinker
ipotizza un ordine gerarchico determinato dalle caratteristiche stesse degli affissi. Gli affissi che
sono percettivamente salienti e semanticamente trasparenti (ad esempio la forma –ing e il plurale –s
in inglese) vengono acquisiti prima degli affissi non salienti o astratti (ad esempio la –s della terza
persona singolare in inglese).
47
Infine, la Surface Hypothesis ritiene che la grammatica dei bambini con SLI sia intatta; i
paradigmi morfologici formati da questi bambini sono essenzialmente gli stessi dei bambini con
sviluppo normale. Tuattavia, a causa della loro ridotta velocità di elaborazione, l’input dei bambini
con SLI risulta distorto. In particolare, i morfemi grammaticali percettivamente non salienti
rischiano di non essere percepiti o elaborati. Dal momento che si ritiene che la limitazione della
velocità di elaborazione sia generale piuttosto che specifica, il suo effetto può essere diverso
passando da una lingua all’altra. In inglese la morfologia grammaticale è colpita per il fatto che essa
è abbastanza fragile. In una lingua con una tipologia diversa dall’inglese, come ad esempio
l’italiano, gli effetti della stessa limitazione nell’elaborazione possono portare a diversi tipi di profili
linguistici nei bambini con SLI.
2.5.6
SLI come un deficit di elaborazione
Un’altra spiegazione non modulare dello SLI è che i bambini con SLI hanno una capacità
limitata di elaborare e immagazzinare le informazioni. La nozione di un sistema a capacità limitata
è stato incorporato in vari modelli di elaborazione del linguaggio (Baddeley, 1996; Bloom, 1993;
Bock & Levelt, 1994; Just & Carpenter, 1992). Tutti questi modelli hanno in comune l’idea che le
nostre risorse cognitive siano limitate. Nelle situazioni in cui un dato compito richiede ulteriori
risorse disponibili, l’elaborazione e/o il mantenimento in memoria dell’informazione vengono
colpiti negativamente. In altre parole, quando l’elaborazione di un aspetto di un compito cognitivo
risulta eccessivamente difficile e richiede molte delle risorse disponibili, rimangono poche risorse
per elaborare altri aspetti. Così avviene una sorta di breakdown nella performance, quando la
richiesta di elaborazione eccede le risorse disponibili.
Alcuni studiosi hanno suggerito che i bambini con SLI, molto più dei bambini con normale
sviluppo, abbiano limitazioni nella loro capacità di elaborare e immagazzinare le informazioni
(Bishop, 1992; Gathercole & Baddeley, 1990, 1993). E’ stato proposto che le limitazioni siano sia
specifiche ad una particolare capacità (ad esempio una limitazione nella memoria operativa
fonologica) sia più generali. Una limitazione generale nella capacità di risorse include limitazioni
della memoria operativa, dell’energia computazionale e della velocità di elaborazione.
48
2.6 Teorie sul disturbo specifico del linguaggio: alcune considerazioni
critiche
Lo studio dello SLI e la formulazione di teorie linguistiche che spiegano il disturbo
rimangono in continuo movimento. Gli studiosi modificano regolarmente le loro spiegazioni sullo
SLI quando vengono ottenuti nuovi dati e nuove intuizioni. Sebbene le diverse teorie esistenti
forniscano intuizioni di grande valore, nessuna singola teoria sembra essere capace di spiegare in
modo completo i sintomi linguistici dello SLI. Alcune sono addirittura troppo ristrette nella loro
applicabilità. Una delle ragioni principali di questa situazione è che le teorie dello SLI sono spesso
ispirate da osservazioni in una lingua particolare. Per esempio, basandosi sui sintomi dello SLI in
soggetti di lingua tedesca, Clahsen ha formulato la Missing Agreement Hypothesis, nella quale
l’accordo soggetto-verbo gioca un ruolo centrale. Essenzialmente, la teoria di Clahsen predice che
lo SLI non esiste in lingue come lo svedese o l’afrikaans (che non hanno l’accordo soggetto-verbo).
In realtà, lo SLI esiste in tali lingue, un fatto che contraddice la Missing Agreement Hypothesis.
Inoltre, molte teorie esistenti (come la teoria EOI, RDDR e la Surface Hypothesis) sono state
formulate sulla base dei sintomi di soggetti di lingua inglese con SLI. Quando viene studiato lo SLI
in altre lingue, i sintomi predetti da queste teorie possono anche non occorrere affatto. A complicare
il tutto c’è il fatto che le teorie discusse sono legate a specifici stadi evolutivi. Alcune teorie
presuppongono un ritardo nello sviluppo del linguaggio, altre una devianza. Per definizione, queste
teorie si applicano solamente ai primi stadi dello SLI. La spiegazione dell’EOI e la Surface
Hypothesis, per esempio, non spiegano perchè alcuni bambini con SLI abbiano problemi di
linguaggio persistenti. Altre teorie, come la RDDR e la Missing Agreement Hypothesis sono state
formulate specificatamente per essere applicate ai bambini con SLI persistente.
Come menzionato prima, molte teorie dello SLI descrivono il disturbo sia come un deficit
nella rappresentazione (spiegazioni modulari) sia come deficit di elaborazione (spiegazioni non
modulari). Le spiegazioni modulari sono basate sull’ipotesi che l’acquisizione del linguaggio non
sia intatta. Come risultato si presume che ‘manchino’ delle componenti o delle relazioni
grammaticali. La maggior debolezza delle spiegazioni modulari è che falliscono nel dare
un’adeguata spiegazione del fatto che i bambini con SLI a volte producono correttamente quelle
forme che, secondo le teorie modulari, non dovrebbero essere disponibili in questi soggetti. Inoltre,
la distribuzione degli errori e la produzione di forme correttamente formate è variabile. Bishop
sostiene che “i deficit osservati nello SLI, sebbene indubbiamente di una certa gravità, non possono
essere pienamente compatibili con le ipotesi che presuppongono una incapacità da parte dei
bambini affetti di usare certi tipi di informazioni sintattiche. Le performance su costruzioni di una
49
certa difficoltà sono tipicamente sopra il chance level, anche quando non è possibile identificare una
plausibile strategia non sintattica che il bambino possa aver usato per una performance corretta”
(Bishop, 1997).
Le teorie sulla capacità limitata di elaborazione sono state criticate a causa della loro
inadeguata specificità teoretica e metodologica (Johnston, 1994). Tuttavia, almeno parte
dell’interesse di queste teorie deriva dal fatto che esse descrivono la varietà di deficit nelle
performance di compiti linguistici e non linguistici nei bambini con SLI. Ad esempio, una
limitazione nella generale capacità di risorse è stata usata come una possibile spiegazione della
difficoltà dei bambini con SLI di acquisire i morfemi grammaticali con bassa sostanza fonetica,
della difficoltà nell’acquisire parole nuove presentate ad una elevata velocità nel parlato, per la
lenta identificazione delle parole e una povera identificazione delle forme.
2.7 Eziologia
2.7.1 Studi genetici
Sia la dislessia che lo SLI tendono a manifestarsi a livello familiare: lo stesso disturbo può
essere osservato in diversi membri della famiglia, inoltre è più facile trovare individui affetti da un
disturbo del linguaggio nella famiglia di un bambino con quel disturbo piuttosto che nella famiglia
di un bambino senza quel tipo di disturbo. Tutto ciò suggerisce la presenza di una componente
genetica in entrambi i disturbi (Orton, 1937, Flax et al., 2003). Le dimostrazioni dell’esistenza di
una base genetica provengono da tre tipi di studi: da studi su famiglie, su fratelli gemelli e da studi
di genetica molecolare.
Diversi studi hanno dimostrato che i parenti di individui affetti da dislessia hanno un rischio
maggiore di sviluppare disturbi della lettura (vedi Hallgren, 1950; Pennington et al., 1991; Lubs et
al. 1993). Hallgren, per esempio, ha studiato le storie familiari di circa 300 bambini che mostravano
deficit legati alla lettura. Ha riscontrato che l’88% dei bambini aveva un membro della famiglia con
un disturbo di lettura, e propose che la dislessia avesse un tratto genetico. Sebbene le numerose e
ben documentate storie di famiglie con disabilità di lettura suggeriscano un componente genetico
nella dislessia, questo non è sufficiente a provare un coinvolgimento di geni. I membri di una stessa
famiglia spesso condividono un ambiente ed un’educazione simili. In teoria questo potrebbe
spiegare perchè due membri della stessa famiglia hanno problemi di lettura. Comparando le abilità
50
di lettura di gemelli identici (monozigoti) e di gemelli eterozigoti (che condividono circa il 50% dei
loro geni visto che si sono originati dalla divisione di un singolo ovulo) gli studiosi dovrebbero
riuscire a distinguere il fattore ereditario dalle influenze ambientali e stimare l’importanza della
variazione genetica. Da questo tipo di studi proviene un considerevole supporto all’ipotesi della
dislessia come disturbo a base genetica. Per esempio, De Fries & Alarcón (1996) trovarono una
concordanza pari al 68% nei gemelli identici rispetto al 38% dei gemelli eterozigoti. In un ampio
studio condotto in Inghilterra, Stevenson at al. (1987) trovarono che circa il 50% delle disabilità di
lettura erano dovute a influenze genetiche ereditate e il 50% all’educazione e all’ambiente.
Diversi studi hanno messo in relazione i cromosomi 1, 2, 3, 6, 15 e 18 a problemi di lettura
(vedi Grigorenko, 2003 per un approfondimento). Finora, l’evidenza più forte risulta in una
relazione tra difficoltà di lettura e il ramo breve del cromosoma 6. Il primo gene candidato per la
dislessia fu presentato da studiosi Finlandesi nel 2003 (Taipale et al., 2003). Questo gene, oggi
conosciuto con la sigla DYXCI è situato nel cromosoma 15. Sfortunatamente, non è chiara la
funzione di questo gene e meno del 10% dei dislessici mostra una mutazione di questo gene.
I primi studi a suggerire che lo SLI fosse un disturbo trasmissibile geneticamente furono
condotti da Gopnik e Crago (1991). Il loro studio su una famiglia britannica di tre generazioni (la
famiglia KE) portò alla conclusione che circa la metà dei membri della famiglia (fratelli o genitori)
dei bambini con SLI aveva problemi di linguaggio.26 Tutti gli individui affetti avevano una
mutazione di un gene (il cromosoma 7), mentre questa mutazione era assente nei soggetti non
affetti. Questa scoperta fu importante perchè può aiutare a capire come l’uomo sviluppa un cervello
specializzato per il linguaggio. Tuttavia non aiuta a capire le cause dello SLI poichè la mutazione
non è stata trovata nelle persone non relazionate alla famiglia KE, che avessero o meno l’SLI.
Rice, Wexler e Hanney (1998) hanno riportato l’incidenza di disturbi del linguaggio, nella
misura del 22%, nelle famiglie dove a un bambino era stato diagnosticato lo SLI, mentre l’incidenza
scende al 7% nelle famiglie con nessun caso di diagnosi.
Sono stati condotti pochi studi sui gemelli con SLI, ma tutti forniscono forti evidenze
dell’importanza del contributo genetico. Questi studi mostrano un’incidenza del disturbo dell’8026
Le conclusioni di Gopnik e Crago oggi risultano controverse. Molti studiosi (vedi Vargha-Khadem et al., 1995)
credono che i problemi di questa famiglia non siano specifici del linguaggio. Vargha-Khadem et al. studiarono il
fenotipo del disturbo e mostrarono chiaramente che non era specifico della grammatica o del parlato. Testarono sia i
membri affetti sia i membri non affetti della famiglia KE e conclusero che il disordine ha le seguenti caratteristiche:
difetti nell’elaborazione delle parole secondo le regole grammaticali, problemi nella comprensione di frasi con strutture
complesse come le frasi relative; incapacità nel parlare in modo chiaro; difetti nella capacità di muovere la bocca e il
viso non associati al parlato (una relativa immobilità della parte bassa della faccia e del labbro superiore della bocca) e
un IQ significativamente basso sia nel dominio verbale che nel dominio non verbale. Infine, la famiglia KE non è
rappresentativa della popolazione con SLI, dal momento che in questa famiglia le femmine sono colpite ugualmente dei
maschi.
51
86% nei gemelli monozigoti (ossia che nell’80-86% dei casi dove a un gemello viene diagnosticato
lo SLI, anche l’altro riceve la stessa diagnosi), e un’incidenza del 38-48% per i gemelli eterozigoti
(Tomblin e Buckwalter, 1998). Bishop (1992) riportò risultati simili. Nel suo studio su 61 gemelli
trovò un’incidenza del 67% per i gemelli identici e del 32% per i gemelli non identici. Il fatto che i
maschi fossero colpiti tre volte di più delle femmine suggerì inoltre che lo SLI avesse basi
genetiche.
Infine, gli studi di genetica molecolare hanno scoperto che gli individui affetti da SLI
avevano un’anomalia nei cromosomi 16 e 19, insieme ad altre anomalie genetiche (SLI Consortium,
2002, 2004).
2.7.2 Il ruolo dei fattori ambientali
Nonostante esista un consenso generale tra gli studiosi sul fatto che la dislessia e lo SLI
siano disturbi trasmissibili geneticamente, si crede che alcuni fattori ambientali influenzino il
risultato delle capacità di lettura e del linguaggio parlato. Sebbene i fattori ambientali non causino la
dislessia nè lo SLI, possono comunque aggravare l’impatto di entrambi i disturbi.
I principali fattori ambientali legati alla dislessia sono le esperienze educative e l’ambiente
familiare del bambino. Le definizioni convenzionali della dislessia escludono in maniera specifica
tutti quei problemi di lettura che sono causati da un’inadeguata esposizione all’istruzione (vedere la
definizione di Vellutino, 1979), ma non è sempre chiaro cosa comporti un’ “inadeguata esposizione
all’istruzione”. Studi dell’abilità di lettura condotti su bambini provenienti da scuole diverse (ma
localizzate nella stessa area) hanno messo in evidenza che l’educazione scolastica può avere un
effetto significativo sull’abilità di lettura (Rutter & Maughan, 2002). L’idea che l’ambiente
familiare influenzi il successo di lettura dei bambini è supportato da uno studio condotto da
Whitehurst e Lonigan, 1998. Gli effetti dell’ambiente domestico sembrano essere mediati dalla
lingua orale e per questo dovrebbero essere colpite soprattutto le abilità di comprensione, piuttosto
che di lettura. Tuttavia, questa evidenza è correlazionale e rimane difficile da stabilire la vera natura
dell’associazione tra l’ambiente familiare e la dislessia. Potrebbe essere il caso che l’associazione
risulti dal fatto che genitori con una predisposizione genetica ai problemi di lettura tendono ad avere
bambini con problemi simili. Se questo fosse vero, l’associazione non rifletterebbe una influenza
diretta dell’ambiente familiare sull’acquisizione della lettura del bambino.
Per quanto riguarda lo SLI, diversi fattori ambientali sono stati implicati come possibili
cause del disturbo, ma nessuna si è dimostrata necessaria o sufficiente a causare il disturbo. I fattori
52
che sono stati osservati includono una mancanza di stimolazione verbale da parte dei genitori, danni
neurobiologici e perdita dell’udito dovuta a otiti (vedi Bishop, 1997 per un approfondimento).
Tuttavia, nessuno di questi fattori danneggia il linguaggio nel modo in cui esso lo è nei bambini con
SLI. E’ da notare che la conclusione non dovrebbe essere che una privazione verbale, una perdita
dell’udito e un danno focale cerebrale non abbiano un impatto sullo sviluppo del linguaggio.
Piuttosto, gli effetti documentati di questi fattori si sono rivelati relativamente lievi, non specifici
alle abilità di linguaggio e non portano al quadro clinico trovato nello SLI. E’ possibile che questi
fattori ambientali assumano un’importanza maggiore se occorrono in un bambino già a rischio
genetico per questo disturbo, ma un’interazione gene-ambiente non è ancora stata dimostrata
empiricamente.
2.8 Studi di neurobiologia
2.8.1 Studi sulla struttura del cervello
Nel 1943 Worster-Drought suppose che alcune forme di disturbo evolutivo del linguaggio
fossero originate da uno sviluppo anomalo delle connessioni neurali, dovuto forse a influenze di
tipo genetico. Negli ultimi due decenni i progressi nelle tecniche di neuroimaging e negli studi
postmortem hanno dimostrato che in effetti le influenze genetiche sono implicate nelle anormalità
evolutive. Uno studio neuropatologico condotto da Galaburda, Sherman, Rosen, Aboitiz e
Geschwind (1985) descrive il cervello di quattro individui con una persistente disabilità di lettura:
tutti e quattro presentavano displasie cerebrali ed ectopie (fasci di cellule con localizzazioni
insolite), con l’emisfero sinistro tipicamente più colpito del destro. Questo studio è stato molto
influente e viene spesso citato come una dimostrazione della presenza di anormalità patologiche
nella dislessia. C’è inoltre da sottolineare il fatto che tre dei quattro individui affetti ebbero un
ritardo nello sviluppo del linguaggio ed almeno uno continuò ad avere persistenti difficoltà nel
linguaggio orale durante l’infanzia. Dal 1985 in poi Galaburda e i suoi colleghi hanno continuato a
riportare ulteriori casi postmortem nei quali si osservavano simili anomalie citoarchitettoniche (vedi
G. D. Rosen, Sherman & Galaburda, 1993).
Con l’avvento delle nuove tecnologie di brain imaging ad alta risoluzione fu possibile
studiare e analizzare in modo più ampio la struttura macroscopica del cervello nelle persone viventi.
In generale sono state osservate poche anormalità macroscopiche e questo portò i ricercatori a
focalizzarsi maggiormente nella ricerca di anormalità in regioni diverse del cervello e nella
53
connettività della materia grigia. Ogni tentativo di integrare i risultati di studi di neuroimaging sulla
dislessia e sullo SLI è impedito dal fatto che, all’interno di ognuno dei due disturbi non ci sono
risultati compatibili tra i vari studi. Alcuni studi infatti hanno trovato che la dislessia e lo SLI sono
associati ad una riduzione o ad un’inversione nell’asimmetria morfologica del planum temporale,
altri invece non sono riusciti a replicare questo risultato, ed hanno anzi riscontrato talvolta un
aumento della normale asimmetria di sinistra. Altri hanno riportato uno sviluppo anomalo nelle
regioni frontali o temporali di soggetti con disturbi del linguaggio. Nella famiglia KE, che aveva
una forma ereditaria di SLI, erano state trovate anomalie subcorticali nel nucleo caudato, ma
ricordiamo che queste persone sono fenotipicamente e geneticamente diverse da altri casi di SLI, e
non risulta chiaro se un profilo neuroanatomico simile sia presente in altri casi tipici.
Una ragione per la confusione e per i risultati contradditori osservati potrebbe essere
l’inclusione di tipi diversi di problemi di linguaggio e di lettura sotto le etichette generali di
dislessia e SLI.
2.8.2 Studi di Functional Imaging
Metodi come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia ad emissione di
positroni (PET) hanno la capacità potenziale di rivelare anomalie funzionali nel cervello di bambini
colpiti da un disturbo del linguaggio.
Temple (2002) ha riesaminato i risultati ottenuti da diversi studi eseguiti con fMRI e PET,
che supportavano l’ipotesi della dislessia come un problema di elaborazione fonologica e uditiva,
per indagare il processo fonologico e di lettura nei dislessici. Molti di questi studi sono stati
condotti su soggetti adulti ma Temple ha dimostrato che i risultati ottenuti potevano essere
generalizzati a un gruppo di bambini. Temple ha notato che c’era un’impressionante coerenza tra i
diversi studi, nonostante differenze nelle procedure di analisi e nei metodi di esecuzione dei test.
Molti esperimenti condotti con l’uso della PET hanno riportato una riduzione o un’assenza
di attività nella corteccia temporoparietale sinistra negli adulti dislessici durante l’elaborazione
fonologica di materiale visivo. Simili risultati sono stati trovati con l’uso di fMRI e MEG 27
(magnetoencefalogramma) in studi sui bambini. Questi risultati implicano che la ridotta attività
nella corteccia parietale, invece di essere un indicatore di compensazione per la dislessia negli
adulti, riflette piuttosto una disfunzione fondamentale nella dislessia. Una ridotta attività
temporoparietale è stata inoltre trovata in soggetti inglesi, italiani e francesi.
27
La MEG misura le variazioni del campo magnetico prodotto dalle correnti intracellulari dei neuroni piramidali
corticali.
54
Studi condotti con ERP 28 (potenziale evento-correlato) e MEG hanno dimostrato anomalie
cerebrali nell’elaborazione di rapidi stimoli uditivi nei dislessici. Gli studi con fMRI hanno mostrato
una ridotta attività nella corteccia prefrontale sinistra dei dislessici nell’udire stimoli uditivi
presentati rapidamente.
Pochi studi di functional imaging sono stati condotti sui bambini con SLI, ma c’è uno studio
importante sui livelli di attivazione del cervello che rivela una disfunzione nella regione
temporoparietale sinistra (Denays et al., 1989).
Tuttavia, non tutti i risultati di anomalie funzionali fanno luce sulle origini neurobiologiche
di un disturbo, infatti cause ed effetti sono difficili da districare. Inoltre è difficile sapere se le
differenze osservate nell’attivazione cerebrale siano indicatori di una qualche limitazione
costituzionale di elaborazione cerebrale o semplicemente riflettono l’abilità di una persona nel
condurre un compito. Ad esempio, il cervello di una persona di lingua inglese mostrerà
un’attivazione diversa da quella di una persona che parla in modo fluente il mandarino nel momento
in cui entrambi vengono posti di fronte ad una ortografia cinese. Si concluderebbe che non c’è nulla
di anomalo nel cervello del parlante di lingua inglese ma soltanto che c’è una differenza di
esperienza nell’elaborazione di questo tipo di stimolo. Un modo per capire meglio la questione
sarebbe quello di verificare se la reazione di soggetti controllo subisca variazioni dando loro un
compito più difficile, come ad esempio leggere una parola non familiare o leggere in una lingua
straniera.
Gli studi di functional imaging possono essere comunque particolarmente utili per testare le
teorie sulle basi della dislessia e dello SLI, per dimostrare la localizzazione anomala di una funzione
o per vedere come il cervello risponde dopo un trattamento. A questo proposito uno studio
interessante è stato condotto da Richards et al. (2005). Questo studio ha trovato differenze
nell’attivazione cerebrale durante un esercizio ortografico tra i bambini dislessici e i bambini
controllo nel giro frontale inferiore destro e nelle regioni parietali posteriori destre, incluso il giro
angolare. I dislessici che avevano ricevuto un trattamento ortografico migliorarono sensibilmente
nell’esercizio ortografico e le due regioni non presentavano più le differenze notate prima del
trattamento. La risposta cerebrale dei bambini dislessici sembra essere cambiata e normalizzata per
quelle regioni che prima del trattamento si differenziavano dal gruppo di controllo. Questo non
implica che i loro problemi si sono risolti, ma che una componente didattica che enfatizza le
strategie ortografiche può essere efficace nel cambiare la mappatura ortografica in questi soggetti.
Inoltre, diversi studi hanno riportato una certa plasticità del cervello dopo un adeguato
trattamento in individui affetti da dislessia, associata con differenze nelle aree occipitale-parietale,
28
Gli ERP sono una tecnica elettrofisiologica che consente lo studio di processi cognitivi con un’alta risoluzione
temporale.
55
temporale-parietale e frontale (Shaywitz 2003). La plasticità delle risposte cerebrali è stata
osservata a diverse età: (a) nei giovani studenti in compiti di consapevolezza fonologica e istruzione
fonica (Shaywitz et al., 2004, Simons et al., 2004), (b) in studenti degli ultimi anni della scuola
primaria e della scuola media nelle risposte ad istruzioni per aumentare la precisione delle
rappresentazioni fonologiche e ortografiche delle parole e per aumentare l’efficienza della memoria
operativa (Aylward et al, 2003, Richards et al., 2002), e (c) negli adulti nelle risposte a istruzioni
esplicite sul suono e sulla consapevolezza articolatoria (Eden et al., 2004).
Abbiamo visto che esiste consenso nel ritenere che sia la dislessia che lo SLI sono disturbi
associati ad anomalie nello sviluppo neurobiologico piuttosto che a lesioni acquisite precocemente
in vita. Sembra probabile che influenze genetiche colpiscano i processi di migrazione neurale,
portando a pattern non ottimali di connettività nel cervello. Molti degli studi di functional imaging
si sono focalizzati sulle regioni frontali e temporali conosciute per essere coinvolte
nell’elaborazione del linguaggio, anche se più recentemente anche il cervelletto e le regioni
subcorticali sono sotto scrutinio. Sebbene ci sia una impressionante coerenza negli studi di fMRI su
dislessia e SLI, le somiglianze a livello neurobiologico potrebbero essere la conseguenza di una
disabilità di lettura, piuttosto che una spiegazione della sua causa. Inoltre gli studi neurobiologici
sulla struttura del cervello, finora, non hanno raggiunto un consenso significativo su quali regioni
siano colpite, con pochi risultati concordanti tra i diversi studi.
Leonard (2002) suggerisce che una migliore concettualizzazione del fenotipo potrebbe
portare ad un quadro più chiaro, con profili neurobiologici diversi per i soggetti con pura dislessia
fonologica e per quelli con più ampie difficoltà di linguaggio che includono anche la comprensione
orale e scritta.
2.9 Una relazione tra dislessia e disturbo specifico del linguaggio
Risulta chiaro, da quanto scritto finora, che c’è una relazione tra dislessia e abilità di
linguaggio ma anche tra SLI e capacità di lettura. Infatti sono state ampiamente riportate le
difficoltà di linguaggio osservate nei bambini con dislessia e a rischio di dislessia, come i problemi
di lettura nei bambini con SLI.
L’incidenza delle difficoltà di lettura nei bambini con una storia di disturbo specifico del
linguaggio è alta, tra il 40-60% (Catts, Hu, Larrivee & Swank 1994). C’è un consenso generale sul
56
fatto che i bambini con persistenti e severe difficoltà di linguaggio corrano i maggiori rischi di
sviluppare difficoltà legate alla lettura.
Questi dati, come già anticipato, suggeriscono che la dislessia e lo SLI possano essere due
disturbi relazionati. Quest’ipotesi è rafforzata anche dagli studi genetici riportati sopra: SLI e
disabilità di lettura co-occorrono nelle famiglie (Van der Lely & Stollwerck 1996). Inoltre, le
diagnosi di dislessia e SLI possono spesso essere presenti entrambi nello stesso bambino.
McArthur, Hogben, Edwards, Heath e Mengler (2000) hanno valutato le abilità di lettura e di
linguaggio in gruppi di bambini con SLI e con dislessia. Le performance di lettura e i test sul
linguaggio hanno rivelato che circa il 50% sia dei bambini dislessici sia dei bambini con SLI
soddisfacevano i criteri della categoria diagnostica alternativa. Allo stesso modo Eisenmajer, Ross e
Pratt (2005) hanno riscontrato che il 55% di un gruppo di bambini con disabilità di lettura
mostravano concominanti difficoltà di linguaggio.
L’aver osservato difficoltà di lettura in bambini con disturbo del linguaggio porta alla
domanda se questa disabilità di lettura sia caratterizzata da un deficit fonologico, simile a quello
attestato nella dislessia. Confronti diretti tra i profili del linguaggio e della lettura di dislessici e
bambini con SLI si stanno lentamente accumulando e suggeriscono almeno una parziale
sovrapposizione tra i due gruppi sulle abilità di linguaggio, specialmente sulla capacità di
elaborazione fonologica (come ad esempio nella ripetizione di non parole). Sono ancora pochi
invece i confronti tra bambini a rischio di dislessia e bambini con SLI. 29 Carrol & Snowling (2004)
hanno confrontato l’elaborazione fonologica, l’acquisizione fonologica, la consapevolezza
fonologica e l’emergente abilità di lettura di bambini a rischio di dislessia tra i 4 e i 6 anni e
bambini con difficoltà di linguaggio. Hanno trovato che i due gruppi mostravano difficoltà simili,
ma la performance del gruppo a rischio era ad un livello intermedio tra quella del gruppo di
controllo e quella del gruppo con SLI. Un primo studio di un confronto tra bambini a rischio di
dislessia e bambini con SLI di lingua olandese tra i 3 e i 5 anni di età fu condotto da Alphen et al.
(2004). Questi studiosi trovarono che entrambi i gruppi mostravano un ritardo nella percezione del
parlato, nell’elaborazione fonologica e nell’identificazione delle parole. Anche in questo caso
inoltre, il gruppo a rischio aveva una performance intermedia tra il gruppo di controllo e il gruppo
con SLI.
Gli studi sulla dislessia e sullo SLI mostrano che ci sono somiglianze tra i due disturbi in
termini di sintomi. E così viene spontanea la domanda se dislessia e SLI siano due disturbi diversi o
se siano (parzialmente) diverse manifestazioni dello stesso disturbo. Detto in altre parole, la
29
Due studi di questo tipo saranno riportati nelle sezioni 2.10.1 e 2.10.2.
57
questione è se ci sia un deficit centrale cognitivo comune che possa spiegare sia i problemi di
linguaggio che la difficoltà di lettura.
2.10
Dislessia e SLI: lo stesso disturbo o due disturbi distinti?
In generale, ci sono due punti di vista sulla relazione tra dislessia e SLI. Il primo è che essi
siano due disturbi qualitativamente simili, con disturbi del linguaggio che si manifestano in tenera
età e difficoltà di lettura attestate in età scolastica. Al contrario, la seconda interpretazione è che ci
possono essere delle somiglianze tra dislessia e SLI, ma tuttavia rimangono due disturbi distinti
(Bishop & Snowling, 2004). Come sarà visto, il ruolo della fonologia è cruciale in tutte le ipotesi
(presentate nella figura 2).
Figura 4: Modelli della relazione tra dislessia e SLI. Basato su Catts et al. (2005).
58
Secondo la prima interpretazione l’origine delle difficoltà dei bambini dislessici e con SLI è
simile. Ad esempio, Tallal e i suoi colleghi (Tallal et al. 1997ab) perseguono l’idea che le difficoltà
di linguaggio e di lettura siano causate da un deficit basico di elaborazione temporale. Questo
deficit interferirebbe con l’elaborazione uditiva di transizioni acustiche molto rapide della lingua
parlata e questo avrebbe un impatto sull’acquisizione del parlato, e a sua volta, sull’acquisizione del
linguaggio, includendo le rappresentazioni linguistiche. Tallal et al. hanno proposto l’esistenza di
un continuum evolutivo tra i disturbi del linguaggio e i disturbi della lettura basati sulla fonologia e
indicarono l’età come fattore primario che distingue il disturbo evolutivo del linguaggio dal
disturbo della lettura. In questo modo, le difficoltà con la percezione uditiva rapida sarebbero alla
base della povera elaborazione fonologica, delle difficoltà di linguaggio e della dislessia. Secondo
questa visione, non c’è distinzione tra i due disturbi, che sarebbero quindi diverse manifestazioni
dello stesso problema, e si differenzierebbero soltanto per severità e per lo stadio in cui esse si
manifestano (ossia lo SLI viene considerato la manifestazione più severa del disturbo e appare nella
prima infanzia. La dislessia viene considerata una forma meno severa del disturbo e appare più tardi
nell’infanzia). Tallal et al. uniscono quindi le categorie dislessia e SLI in una singola categoria,
denominata ‘disturbo di acquisizione del linguaggio’ con riferimento ai bambini con difficoltà di
lettura e/o di linguaggio. Questo modello della relazione tra dislessia e SLI viene chiamato ‘single
source hypothesis’.
Una seconda interpretazione all’interno della single source hypothesis proviene da Kamhi e
Catts (1986) e Catts (1989), i quali sostengono che la dislessia sia un disturbo evolutivo del
linguaggio piuttosto che un disturbo causato da difficoltà uditive. Il disturbo sarebbe causato
principalmente da un deficit nell’elaborazione fonologica e si manifesterebbe in diversi modi
durante lo sviluppo, con difficoltà nel linguaggio orale in età più giovane e difficoltà di lettura in età
scolastica. Anche in questo caso dislessia e SLI sono visti come lo stesso disturbo.
Alcuni ricercatori, tuttavia, si sono recentemente dichiarati contro questa tendenza a unire le
categorie diagnostiche o a trattarle come punti su un continuum di severità piuttosto che sindromi
distinte. Due modelli sostengono che SLI e dislessia siano disturbi distinti.
Il primo è una proposta recente di Catts et al. (2005): la comorbidity hypothesis. Questo
modello suggerisce che SLI e dislessia siano disturbi distinti ma compresenti. Bambini con
solamente SLI mostrano difficoltà nel linguaggio orale (nella sintassi, nella semantica, nel discorso)
e bambini con solo dislessia mostrano una povera elaborazione fonologica. Le difficoltà di
elaborazione fonologica sarebbero alla base dello SLI solo in quei soggetti che hanno sia dislessia
59
che SLI e non nei soggetti con solamente un deficit di linguaggio. 30 Questa ipotesi di compresenza
afferma che la dislessia e lo SLI sono disturbi evolutivi differenti con deficit cognitivi diversi e
diverse manifestazioni comportamentali.
Il secondo modello che stabilisce che dislessia e SLI sono disturbi differenti è la qualitative
difference hypothesis. Bishop & Snowling (2004), nella loro revisione della letteratura sulla
relazione tra dislessia e SLI, mettono in evidenza che una singola dimensione di severità non sia
sufficiente a catturare l’ampia variazione clinica che esiste in questi disturbi. Questi studiosi
ammettono che ci siano delle somiglianze tra dislessia e SLI nel tipo di deficit fonologico osservato,
ma credono che i bambini con SLI, generalmente, abbiano ulteriori difficoltà sintattiche e
semantiche che colpiscono il loro linguaggio orale. Inoltre, Bishop & Snowling credono che la
percezione corrente di dislessia e SLI sottostimi il ruolo che giocano tali difficoltà sintattiche e
semantiche nell’ottenere una lettura fluente. Bishop & Snowling offrono diverse ragioni per ritenere
utile una distinzione tra dislessia e SLI:
(i) Disturbi che appaiono simili a livello comportamentale possono avere cause diverse.
Per quanto riguarda il comportamento, ci si potrebbe chiedere se i bambini con diagnosi di SLI
abbiano problemi di lettura e se i bambini con dislessia mostrino difficoltà su test di lingua orale.
Tuttavia, se il comportamento dei dislessici e dei bambini con SLI risulta simile, questo non
significa automaticamente che i disturbi siano qualitativamente gli stessi; deficit cognitivi differenti,
infatti, potrebbero causare comportamenti simili.
(ii) Gli aspetti non fonologici del linguaggio giocano un ruolo importante nell’acquisizione
delle abilità di lettura. I bambini con SLI solitamente hanno gli stessi deficit fonologici che sono
tradizionalmente riconosciuti come la caratteristica principale (e il fattore causale) della dislessia.
Tuttavia, i bambini con SLI mostrano anche deficit marcati nella sintassi e nella semantica, i quali
hanno un impatto aggiuntivo sullo sviluppo delle loro abilità di lettura. Un’analisi dettagliata dello
sviluppo della lettura nello SLI mostra che i problemi di lettura dei bambini con SLI sono diversi da
quelli osservati nei dislessici. In particolare, una povera comprensione del materiale scritto è più
una caratteristica prominente nello SLI che nella dislessia. In questo i bambini con SLI
assomigliano più ai poor comprehenders, piuttosto che ai classici dislessici. 31
30
Catts et al. (2005: p.1391) ammettono che una performance di basso livello sulla ripetizione di non parole nei
bambini con SLI non predice sempre una compresenza di dislessia. Così, i deficit di elaborazione fonologica nei
bambini dislessici non sono sempre relazionati con la dislessia.
31
Il termine poor comprehenders si riferisce ai bambini che sanno leggere in modo accurato, ma che hanno poca
comprensione di quello che leggono (il loro IQ risulta entro i normali limiti). Il profilo del linguaggio dei poor
comprehenders è diverso da quello dei dislessici poichè le loro abilità fonologiche sono normali. I loro deficit del
linguaggio sembrano risiedere in aree del linguaggio al di fuori del dominio fonologico (deficit tipici includono un
vocabolario debole e una limitazione nella conoscenza semantica).
60
(iii) I risultati degli studi neurobiologici ed eziologici della dislessia e dell’SLI non
favoriscono l’unificazione delle due sindromi. Dalla prospettiva della neurobiologia, ogni tentativo
di fondere i risultati dagli studi strutturali del cervello con le tecniche di functional imaging della
dislessia e dello SLI è ostacolato dal fatto che (anche all’interno di ciascuna sindrome) i risultati da
uno studio all’altro risultano incoerenti. Ad esempio, diversi studi hanno trovato che la normale
asimmetria del planum temporale è ridotta o invertita sia nella dislessia che nello SLI. Altri non
sono riusciti a replicare questi risultati; infatti hanno trovato, al contrario, un aumento della normale
asimmetria di sinistra. La ragione più probabile di questi risultati così diversi è che in questi
esperimenti siano stati inclusi sotto l’etichetta di SLI e dislessia diversi tipi di problemi di
linguaggio e di lettura. Per meglio capire la neurobiologia della dislessia e dello SLI, i
neurolinguisti dovrebbero includere nei loro studi gruppi più omogenei di ogni disturbo. Unire le
sindromi vorrebbe dire creare soltanto un gruppo ancora più eterogeneo. Per quanto riguarda la
genetica, ci sono molti studi che mostrano come il deficit di elaborazione fonologica sia ereditabile
e quindi che la classica dislessia fonologica abbia basi genetiche. Al contrario, è molto meno chiaro
se la disabilità di lettura associata alle difficoltà sintattiche e semantiche (ossia il tipo di disabilità
di lettura predominante nello SLI) sia ereditabile.
Bishop & Snowling (2004) concludono che, sebbene la dislessia e lo SLI presentino
allettanti somiglianze, è essenziale ripensare alla relazione tra questi due disturbi. La loro proposta
è di concettualizzare i disturbi in termini di un modello bi-dimensionale, come mostrato nella figura
3.
Figura 5. Un modello bidimensionale della relazione tra dislessia e SLI
61
Il modello bidimensionale mostra come le abilità fonologiche e non-fonologiche
contribuiscano o meno al profilo della dislessia (A), dello SLI (C), dei bambini poor comprehenders
(D), e nei bambini con nessun deficit. Per quanto riguarda lo SLI, entrambe le abilità fonologiche e
non-fonologiche contribuiscono in maniera indipendente al disturbo, mentre la dislessia classica è
caratterizzata da un danno fonologico, ma da relativamente intatte abilità di linguaggio nonfonologiche. I bambini poor comprehenders hanno in comune con lo SLI le difficoltà nonfonologiche, ma non mostrano difficoltà fonologiche. Infine, nei bambini senza deficit sono assenti
le difficoltà fonologiche e non-fonologiche. Il modello spiega in questo modo le difficoltà
fonologiche nella dislessia e nello SLI. Inoltre, all’interno del modello è anche incorporata la
variazione che esiste in entrambe queste popolazioni: il quadrante, infatti, mostra che i disturbi
possono estendere i loro effetti fino alla linea di confine di ogni disturbo. Bishop & Snowling infatti
riconoscono l’esistenza di bambini con profili a metà strada tra le categorie presentate e che ci sono
variabili aggiuntive da prendere in considerazione: ad esempio la percezione visiva, la velocità di
elaborazione e l’attenzione possono giocare un ruolo nell’acquisizione della lettura. In questo caso
il modello risulta una semplificazione. Tuttavia gli autori credono che possa fornire uno schema
utile per pensare ai sottotipi di deficit di lettura e alla loro relazione con il deficit di linguaggio.
Diversamente dall’ipotesi di compresenza dei due disturbi, sia la single source che la
qualitative difference hypotesis sottolineano l’importanza del deficit di elaborazione fonologica nei
bambini con problemi di lettura e di linguaggio. Numerosi studi, come abbiamo già visto nel corso
di questa tesi, hanno verificato la presenza di deficit di elaborazione fonologica nei bambini a
rischio genetico di dislessia, nei bambini e adolescenti con dislessia e nei bambini e adolescenti con
SLI. La differenza tra la single source e la qualitative difference hypothesis risiede nel fatto che
quest’ultima incorpora sia le componenti fonologiche sia le componenti non-fonologiche. Inoltre,
fanno parte di questa ipotesi anche le influenze genetiche, biologiche e cognitive, mentre il modello
single source è limitato all’elaborazione fonologica.
2.10.1 Una comparazione dei tre modelli di ipotesi della dislessia e dello SLI
Uno studio interessante è quello condotto da Elise De Bree all’università di Utrecht. Nella
sua tesi di dottorato De Bree valuta, nella prima parte, le abilità fonologiche nei bambini a rischio di
dislessia attraverso un approccio sperimentale, i cui risultati sono già stati discussi nella sezione 1.8
del capitolo 1. Nella seconda parte della tesi, come già anticipato, viene fatta una comparazione tra
62
le esecuzioni dei bambini a rischio di dislessia e dei bambini con SLI in diverse abilità, con lo scopo
di esaminare se sia presente in entrambi i disturbi un deficit fonologico. Sulla base dei risultati
ottenuti si sarebbe potuto osservare se dislessia e SLI sono lo stesso disturbo o due disturbi distinti.
In altre parole, questa ricerca aveva lo scopo di stabilire quale delle tre ipotesi sulla relazione tra
dislessia e SLI potesse essere la migliore spiegazione per i risultati ottenuti.
Abbiamo appena visto che la single source hypothesis stabilisce che i due disturbi sono
causati da uno stesso deficit comune e, per questo motivo, possono essere visti come un unico
disturbo. Al contrario i modelli comorbidity e qualitative difference suppongono che dislessia e SLI
siano disturbi distinti. Tuttavia, mentre l’ipotesi qualitative difference presume una sovrapposizione
nelle difficoltà con la fonologia, ma non nelle altre abilità non-fonologiche, l’ipotesi comorbidity
sostiene che le difficoltà fonologiche sono presenti soltanto nei bambini con dislessia e non nei
bambini con solo lo SLI.
Un confronto diretto tra i modelli è impedito dal fatto che la dislessia ancora non poteva
essere diagnosticata nei due gruppi, dal momento che i bambini erano ancora troppo piccoli per
leggere e scrivere. Una volta ottenuti questi dati sarà possibile stabilire se i bambini a rischio, che
avevano performance peggiori del gruppo di controllo, erano effettivamente dislessici. Inoltre, solo
a questo stadio, si potrà valutare quali bambini con SLI, oltre ad avere un deficit del linguaggio,
siano anche dislessici. Pur non avendo questi risultati, le aspettative riguardavano una performance
peggiore del gruppo di controllo sia nei bambini a rischio sia nei bambini con SLI. Inoltre, la
variabilità all’interno di ciascun gruppo sarebbe stata in grado di fornire indicazioni sul numero dei
bambini che effettivamente mostravano difficoltà fonologiche.
I risultati favoriscono una analisi della dislessia e dello SLI come due disturbi distinti. Sono
state attestate difficoltà fonologiche in entrambi i gruppi, e questo poteva ben accordarsi con la
single source hypothesis. Tuttavia, si sono osservate differenze in abilità al di fuori del dominio
fonologico, come nella marcatura del plurale (dominio della morfosintassi), che risultò più difficile
nei bambini con SLI che nei bambini a rischio, e nell’alternanza sonora del plurale (un processo di
tipo morfo-fonologico), dove le alternanze usate dal gruppo a rischio assomigliavano a quelle usate
dal gruppo di controllo, e quelle usate dal gruppo SLI assomigliavano a quelle usate dai bambini più
piccoli con normale sviluppo. Inoltre sono state osservate delle differenze anche all’interno del
dominio fonologico, ad esempio nella ripetizione di non parole, dove si sono osservati diversi tipi di
errori per il gruppo a rischio e per lo SLI. Quest’ultimo gruppo ha mostrato più errori di sostituzione
e omissione del gruppo a rischio nelle parole più lunghe, ha mostrato omissioni prima e dopo
l’accento mentre i bambini a rischio prevalentemente solo prima dell’accento. Analogamente, un
bambino con SLI ha commesso errori inusuali nella produzione del parlato, con la caduta di sillabe
63
deboli e omissioni di gruppi di consonanti, mentre nessuno dei bambini a rischio commise tali
errori. Così, superficialmente si può dire che il gruppo a rischio e il gruppo SLI mostravano
comportamenti linguistici simili rispetto al gruppo di controllo, ma un’ispezione più accurata
rivelava sottili differenze qualitative. I profili di linguaggio di entrambi i gruppi sembravano essere
quindi differenti.
Confronti recenti delle abilità fonologiche e grammaticali hanno riportato difficoltà
fonologiche simili per i dislessici e i bambini con SLI, ma anche differenze tra i gruppi rispetto alle
abilità grammaticali, in linea con l’ipotesi qualitative difference. Fraser e Conti-Ramsden (2005), ad
esempio, hanno osservato una scarsa consapevolezza fonologica in bambini dislessici e con SLI
(britannici), ma abilità grammaticali ridotte soltanto nei bambini con SLI. Puranik, Lombardino e
Altmann (2007) hanno valutato la lingua scritta di bambini e adolescenti dislessici e con SLI
(americani). Anche loro hanno riportato difficoltà fonologiche, come una scarsa accuratezza nello
spelling, in entrambi i gruppi, ma anche differenze nelle abilità grammaticali, come nella
produzione del parlato, dannegggiata solo parzialmente nel gruppo dei dislessici. Questi studi
indicano che i profili dei bambini a rischio/dislessici sono differenti da quelli dei bambini con SLI,
con una sovrapposizione per quanto riguarda una fonologia impoverita, ma non necessariamente per
le abilità grammaticali ridotte.
Di grande importanza è inoltre il fatto che i risultati stabiliscano differenze anche all’interno
del dominio fonologico. Nello specifico, sono stati osservati errori diversi nella cancellazione di
fonemi, dove sia il gruppo a rischio sia il gruppo con SLI aveva una performance peggiore del
gruppo di controllo. Mentre i gruppi controllo e dei dislessici mostravano più difficoltà nella
cancellazione di un fonema in posizione iniziale, il gruppo SLI mostrava più difficoltà nella
cancellazione delle consonanti finali. Inoltre, in un esercizio di ripetizione di non-parole il gruppo
SLI raggiungeva il punteggio più basso ma mostrava anche un impatto maggiore della lunghezza
delle parole rispetto ai dislessici. Così la fonologia è un’area di sovrapposizione delle difficoltà per
entrambi i gruppi, ma queste difficoltà possono portare a diversi tipi di errori.
Il fatto che un numero sostanziale di bambini con SLI nello studio riportato mostrò difficoltà
fonologiche rende difficile accettare l’ipotesi di comorbidity. Questa ipotesi anticipa che solo i
bambini con SLI che siano anche dislessici mostrano difficoltà fonologiche. Negli esercizi di
produzione del parlato, otto bambini su dieci con SLI ebbero performance deludenti nella
ripetizione di non-parole, inoltre, eccetto un bambino, tutti gli altri 22 bambini con SLI
appartenevano al gruppo con performance più deludenti. Sembra improbabile che più dell’80% del
campione SLI sarebbe diventato dislessico, considerato anche che gli studi condotti a proposito
64
indicano una percentuale tra il 40-60%. In questo modo, le diffuse difficoltà fonologiche nel gruppo
SLI sembrano scartare l’ipotesi di comorbidity.
Invece, questi risultati supportano la qualitative difference hypothesis, la quale propone che
SLI e dislessia siano disturbi distinti, ma che mostrano entrambi difficoltà nel dominio fonologico.
Inoltre i risultati forniscono un’estensione di questo modello, dal momento che si osservano
differenze qualitative all’interno del dominio fonologico. Così, è probabile che altri fattori
linguistici e cognitivi abbiano un impatto sul deficit fonologico. In altre parole, sia la dislessia che
lo SLI potrebbero essere caratterizzate parzialmente da difficoltà fonologiche, ma queste difficoltà
potrebbero derivare da diverse cause.
Un vantaggio aggiuntivo dell’ipotesi qualitative difference è che classifica la dislessia e lo
SLI come multirisk disorders (vedi Bishop & Snowling 2004). La dislessia è stata interpretata come
un disturbo con multipli fattori di rischio interagenti a livello genetico, ambientale, neurobiologico e
cognitivo. Un modello simile è stato proposto per lo SLI. Un’interpretazione di entrambi i disturbi
come multifattoriali con fattori di rischio e compensativi può spiegare l’eterogeneità all’interno di
entrambi i disturbi. Entrambi i disturbi possono essere qualificati da insufficienti abilità
fonologiche, ma entrambi sono anche dipendenti da altri fattori di rischio. Questo modello si
relaziona coerentemente con i risultati neurobiologici e genetici della dislessia e dello SLI (vedi
Bishop & Snowling 2004).
2.10.2 L’elaborazione sintattica nella dislessia evolutiva e nel disturbo specifico del
linguaggio.
Un altro studio molto interessante che studia le possibili relazioni tra dislessia e SLI è quello
condotto da Carien Wilsenach nella sua tesi di dottorato (2007). Wilsenach, attraverso un approccio
sperimentale, ha indagato nei bambini a rischio di dislessia un’area del linguaggio nota per essere
problematica nei bambini con SLI, ossia la morfosintassi. E’ indiscusso che nello SLI sono presenti
difficoltà con la morfosintassi, mentre non lo è nella dislessia. Proprio per questa ragione è stata
studiata nei bambini a rischio di dislessia una categoria linguistica che tipicamente
risulta
problematica nello SLI, ossia gli ausiliari. In altre parole, le difficoltà morfosintattiche tipiche nello
SLI sono state usate come metro di paragone delle possibili difficoltà morfosintattiche nella
dislessia. Di conseguenza, le teorie dello SLI potrebbero risultare potenzialmente utili nella
comprensione della dislessia evolutiva, nel caso in cui i bambini dislessici mostrino difficoltà simili
a quelle dei bambini con SLI.
65
Per quanto riguarda la percezione e la produzione del participio passato, i soggetti a rischio
di dislessia non hanno evidenziato un sistema morfosintattico deviato, il quale avrebbe potuto essere
spiegato con le teorie dello SLI che presuppongono un deficit nella competenza grammaticale,
come le ipotesi missing feature, missing agreement e RDDR. Tuttavia, in questo caso, risultano più
utili nello spiegare il comportamento dei bambini a rischio le teorie dello SLI che presumono un
deficit nella capacità di elaborazione. Chiaramente, i bambini a rischio genetico di dislessia
soffrono di una limitazione nella loro abilità di processare/elaborare informazioni complesse, un
sintomo predetto da teorie come la limited processing account e la Surface Hypothesis. Alcuni dati,
risultati dalle produzioni dei bambini a rischio, sono compatibili con la teoria EOI (Extended
Optional Infinitive) dello SLI. Questi dati riguardano l’abilità di discriminare dipendenze sintattiche
ben formate da quelle malformate. In generale, è stato osservato che il gruppo dei bambini a rischio
non mostra differenze significative dal gruppo di controllo nelle abilità discriminatorie. Tuttavia, un
piccolo sottogruppo dei bambini a rischio ha mostrato evidenti difficoltà nel discriminare frasi
contenenti l’ausiliare temporale heeft più il participio passato da frasi contenenti una forma di
participio passato che appare senza l’ausiliare. Quindi è possibile che specifici stadi evolutivi (come
lo stadio Optional Infinitive) siano prolungati nella dislessia evolutiva. Se questo fosse il caso, si
potrebbe dire che nei bambini dislessici alcuni aspetti dello sviluppo del linguaggio sono ritardati.
Infine, l’ipotesi di una capacità limitata di elaborazione sembra essere l’unica che riesce a
spiegare tutti i risultati ottenuti nello studio. I bambini a rischio, ad esempio, rispetto al gruppo di
controllo, non erano capaci di individuare una dipendenza morfosintattica discontinua quando i
morfemi dipendenti venivano separati da un intervallo di due sillabe. Questo potrebbe essere visto
come il risultato della loro capacità di elaborazione. In altre parole, i bambini a rischio non erano
capaci di elaborare (e ricordare) più parti dell’input per scoprire che l’input, a volte, conteneva una
dipendenza discontinua. E’ inoltre possibile che la velocità di elaborazione dei bambini a rischio
non fosse adeguata. Quando l’informazione in entrata non viene elaborata abbastanza velocemente,
è probabile che decada e interferisca con altre informazioni. Altri risultati mostrano che i bambini a
rischio hanno la capacità di percepire e produrre classi chiuse di parole; tuttavia questa abilità
diminuisce con l’aumentare della complessità della struttura argomentale. Wilsenach spiega questi
risultati in termini di energia: in queste situazioni, il compito di costruire una frase viene iniziato ma
tutta l’energia disponibile viene esaurita prima del completamento della frase. Inoltre, in un altro
esercizio, i bambini a rischio fallivano nell’identificare una dipendenza sintattica agrammaticale,
ma solamente quando l’agrammaticalità non ostacolava l’interpretazione semantica della frase. Dal
momento che i bambini a rischio soffrono di una generale limitazione di elaborazione,
‘sceglierebbero’ di omettere dell’informazione durante l’elaborazione della frase se essa risulta
66
ridondante per la comprensione o la trasmissione di un messaggio. Sulla base di quesi dati, un’
ipotesi basata sulla capacità limitata di elaborazione può spiegare i risultati ottenuti da Wilsenach
nella sua tesi.
Per riassumere, una limitazione della capacità di elaborazione potenzialmente colpisce:
(i)
la dimensione della regione di memoria computazionale disponibile
(ii)
l’energia disponibile per i processi computazionali
(iii)
la velocità con la quale l’informazione viene elaborata.
Per quanto riguarda la relazione tra dislessia e SLI, Wilsenach ha cercato di verificare se una
qualche teoria dello SLI (che spiega le difficoltà morfosintattiche) poteva spiegare i risultati ottenuti
dai suoi esperimenti. In teoria, potrebbe essere possibile interpretare i dati all’interno di una teoria
corrente della dislessia evolutiva. Tuttavia, i risultati ottenuti non sono facilmente spiegabili con
nessuna delle teorie tradizionali della dislessia evolutiva. La teoria del deficit fonologico si
focalizza esclusivamente sui problemi fonologici osservati nei dislessici. Inoltre, il legame tra un
deficit puramente fonologico e una generale limitazione di elaborazione non è così chiaro. Le teorie
che menzionano un deficit di elaborazione, come la teoria di un deficit di elaborazione temporale e
la teoria magnocellulare, sostengono che la dislessia sia il risultato di un deficit di elaborazione
molto specifico (principalmente un’incapacità nel percepire ed elaborare adeguatamente eventi
acustici brevi e con variazioni rapide). In contrasto con le predizioni di tali teorie, i bambini a
rischio in questo studio sono capaci di percepire ed elaborare eventi acustici relativamente brevi, ma
qualche volte non ci riescono, soprattutto quando le loro risorse di elaborazione sono piuttosto
scarse. Potrebbe essere possibile spiegare un deficit generale di elaborazione con l’ipotesi di deficit
cerebellare. Vedendo che il cervelletto è coinvolto nei processi del linguaggio come ad esempio nel
recupero lessicale (Marien et al., 2001) e nelle relazioni dei nomi con i verbi (Gebhart et al., 2002),
si potrebbe dire che un cervelletto lievemente disfunzionale potrebbe causare un’elaborazione lenta
o inefficiente del linguaggio, e questo, a sua volta, costringerebbe i dislessici ad omettere certi
aspetti della struttura sintattica durante la produzione delle frasi. Tuttavia, osservando i presenti
risultati, è necessario aggiungere che la disfunzione nel cervelletto non colpisce sempre la
produzione del linguaggio, ma solamente quando viene richiesta l’elaborazione di strutture
sintattiche complesse.
Gli esperimenti condotti da Wilsenach mostrano chiaramente che lo sviluppo
morfosintattico dei bambini con una predisposizione alla dislessia (e per ipotesi, quindi, i bambini
67
con dislessia) è differente da quello dei bambini con normale sviluppo. Sebbene i bambini a rischio,
generalmente, non mostrino uno sviluppo morfosintattico deviato, la loro rappresentazione di
specifiche dipendenze morfosintattiche sembra vulnerabile. Nelle situazioni in cui c’è un peso
eccessivo sulle risorse individuali, questi bambini hanno la tendenza (rispetto ai bambini normali) a
generare costruzioni agrammaticali, ad omettere elementi funzionali come gli ausiliari e i
determinanti e ad omettere la morfologia verbale. Invece di avere un sistema morfosintattico
danneggiato, questi bambini soffrirebbero di una generale limitazione dei processi di elaborazione,
che colpisce la loro percezione e produzione delle strutture morfosintattiche, e quindi il loro
controllo sulle relazioni di dipendenza morfosintattica. L’incapacità di discriminare tra relazioni di
dipendenza morfosintattica ben formate e mal formate in situazioni di grande dispendio di risorse
può in questo modo essere descritta come un possibile precursore linguistico della dislessia
evolutiva.
Come menzionato sopra, recentemente gli studiosi hanno messo in questione la divisione tra
dislessia evolutiva e disturbo specifico del linguaggio. I risultati ottenuti dagli esperimenti condotti
da Wilsenach forniscono una prova del fatto che una tale divisione è essenziale. Le produzioni dei
bambini con SLI sono chiaramente differenti da quelle dei bambini a rischio di dislessia. Inoltre non
è chiaro come si possano trarre dei benefici considerando i due disturbi diverse manifestazioni dello
stesso problema. Considerare SLI e dislessia lo stesso disturbo porterebbe ad avere un gruppo
estremamente eterogeneo di bambini con disturbi del linguaggio, e questo renderebbe ancora più
difficile decidere il tipo di intervento clinico necessario per il bambino.
2.11
Per riassumere
Dopo aver ampiamente discusso del deficit fonologico come caratteristica principale della
dislessia evolutiva, ho dedicato il capitolo secondo ad un altro livello di rappresentazione linguistica
che sembra essere in qualche modo danneggiato in questo disturbo sin dall’infanzia: la morfosintassi. Diversi studi a partire dagli anni ottanta hanno dimostrato la presenza di difficoltà nel
dominio della morfo-sintassi nei bambini con dislessia e a rischio di dislessia, mostrando come lo
sviluppo morfo-sintattico possa risultare ritardato o, secondo alcuni ricercatori, deviato.
Ho riportato le ipotesi formulate da Rispens per il deficit morfo-sintattico nei soggetti
dislessici: dopo avere escluso, attraverso alcuni esperimenti, che il defict morfo-sintattico possa
derivare dalla difficoltà di lettura, Rispens ipotizza un deficit di memoria operativa e relativo alle
68
rappresentazioni fonologiche: la correlazione di questi deficit porterebbe alle difficoltà morfosintattiche osservate nei dislessici.
La correlazione tra deficit morfo-sintattici e disabilità di lettura, tuttavia, non risulta presente
soltanto nella dislessia evolutiva, ma si osserva in un altro disturbo evolutivo dell’infanzia: il
disturbo specifico del linguaggio (SLI). Lo SLI, pur differenziandosi dalla dislessia evolutiva
soprattutto per il grado di severità dei sintomi, sembra quindi un disturbo molto simile alla dislessia,
con diversi punti di sovrapposizione, come ad esempio per le difficoltà fonologiche.
Per una migliore comprensione della relazione tra dislessia e SLI ho dedicato ampio spazio
alla descrizione del disturbo specifico del linguaggio e delle diverse teorie formulate negli anni a
spiegazione dei suoi sintomi. Queste si possono suddividere in due grandi gruppi: una spiegazione
di tipo modulare, in cui il deficit è riconducibile alle rappresentazioni linguistiche, e una
spiegazione di tipo non modulare, in cui si ipotizza una disfunzione a livello di processing, di
elaborazione delle informazioni.
Ho inserito, poi, uno spazio dedicato all’eziologia dei due disturbi. In particolare ho
riportato gli studi di neurobiologia, che riportano anomalie nello sviluppo di alcune strutture
cerebrali in entrambi i disturbi, suggerendo una componente genetica piuttosto forte per entrambi.
Anche gli studi condotti con le tecniche ad immagini funzionali (fMRI e PET) mostrano anomalie
funzionali in alcune aree cerebrali in entrambi i disturbi, tuttavia non è chiaro ancora se queste
anomalie possano far luce sulle loro origini neurobiologiche, o se ne siano solamente delle
conseguenze.
Successivamente mi sono occupata di come venga valutata la relazione tra i due disturbi
nella letteratura scientifica. Fondamentalmente ci sono due diverse prospettive: la prima che vede la
dislessia e lo SLI come due disturbi con la stessa origine, ma con diversa manifestazione
sintomatologica. Secondo questa prospettiva dislessia e SLI sarebbero lo stesso disturbo, con
differenze soltanto per quanto riguarda il grado di severità e l’età in cui si manifesta il disturbo. La
seconda ipotesi considera
invece, la dislessia e lo SLI come due disturbi, simili, ma
qualitativamente differenti. Questa ipotesi è supportata da diversi studi sperimentali in cui si osserva
che il tipo di errori, fonologici e morfosintattici, è sostanzialmente diverso nei due disturbi
evolutivi.
69
70
3. DUE MODELLI NEUROLINGUISTICI DELLA DISLESSIA
EVOLUTIVA
3.1
Il
ruolo
della
memoria
nel
linguaggio:
il
modello
dichiarativo/procedurale
In questa sezione mi soffermerò sul ruolo esercitato dalla memoria, o meglio da alcuni tipi
di memoria, nel linguaggio. In particolare presento il modello dichiarativo/procedurale di Ullman
(2004), nel quale si presume che il linguaggio dipenda da due sistemi cerebrali: la memoria
procedurale e la memoria dichiarativa. La funzione di questi due sistemi cerebrali, assieme ai loro
sostrati anatomici, fisiologici e biochimici, porterebbero a predizioni specifiche riguardo ai loro
ruoli nel linguaggio. Ullman, inoltre, propone che alcuni disturbi evolutivi e acquisiti del
linguaggio, tra cui il disturbo specifico del linguaggio (SLI), l’afasia fluente e non-fluente e la
dislessia, possano essere originati da disfunzioni di una o dell’altra struttura cerebrale che stanno
alla base dei due sistemi di memoria. Finora abbiamo visto che lo SLI è stato spiegato,
sostanzialmente, con due diversi approcci: il primo presuppone che lo SLI sia un disturbo dovuto a
un deficit di tipo linguistico, nello specifico grammaticale. Il secondo, invece, presuppone un deficit
non-linguistico di processing. Secondo Ullman e Pierpont (2005), invece, lo SLI risulterebbe da un
deficit procedurale, cioè da uno sviluppo anomalo delle strutture cerebrali che costituiscono il
sistema di memoria procedurale. L’ipotesi è che lo stesso deficit procedurale che causa lo SLI sia
anche la causa della dislessia evolutiva. In questo senso riporterò alcune prove a favore di questa
ipotesi, risultate da una revisione dei risultati degli studi precedenti condotti sulla dislessia.
L’uso del linguaggio dipende da due capacità: un lessico mentale di forme memorizzate e
una grammatica mentale costituita dalle regole che stanno alla base della composizione sequenziale
e gerarchica delle forme lessicali in parole e frasi. Il lessico mentale è un magazzino di tutte le
informazioni idiosincratiche specifiche delle parole. Esso include tutte quelle parole le cui forme
fonologiche e significati non possono essere derivati l’una dall’altro (ossia la cui associazione di
suono e significato è arbitraria), come la semplice parola “gatto”. Il lessico mentale inoltre contiene
altre informazioni irregolari delle parole, ossia quelle informazioni che non sono totalmente
derivabili, come ad esempio gli argomenti che accompagnano un verbo e tutte le forme
impredicibili delle parole (ad esempio in inglese il verbo teach al passato assume la forma
irregolare taught). Il lessico mentale può comprendere altre informazioni distintive: i morfemi legati
71
(i suffissi –ed o –ness, come in walked e happiness), e rappresentazioni di strutture linguistiche
complesse il cui significato non può essere derivato dalle sue parti (ad esempio le frasi idiomatiche,
come kick the bucket).
Il linguaggio consiste anche di regolarità, le quali possono essere catturate dalle regole della
grammatica. Le regole permettono alle forme lessicali e ai simboli astratti o ai tratti di combinarsi
nella costruzione di rappresentazioni complesse e ci permettono di interpretare il significato di
quelle forme complesse pur non avendole mai sentite o viste prima. Ad esempio, nella frase
“Clementina clicked the plag” sappiamo che Clementina fece qualcosa nel passato ad una qualche
entità. Il significato può essere derivato dalle regole che, non solo stanno alla base dell’ordine
sequenziale degli elementi lessicali, ma anche delle relazioni gerarchiche. Inoltre, le regole stanno
alla base delle operazioni mentali che manipolano le parole e le rappresentazioni astratte nella
composizione di strutture complesse. L’apprendimento e l’uso delle regole e delle operazioni della
grammatica sono generalmente implicite (inconscie), ed è stato ipotizzato che questa conoscenza
grammaticale non è disponibile per altre operazioni cognitive, ossia è “informazionalmente
incapsulata”. Infine, sebbene le rappresentazioni complesse (walked) possano essere elaborate
nuovamente ogni volta che vengono usate (‘walk’+ ‘-ed’), e certamente questo è quello che accade
quando la forma non è mai stata incontrata precedentemente, esse potrebbero, in linea di principio,
essere immagazzinate nel lessico mentale dopo essere state costruite.
Le memorie dichiarativa e procedurale sono state intensamente studiate nei modelli di umani
e animali. Ci sono evidenti dimostrazioni dell’esistenza di doppie dissociazioni tra i due sistemi e
questo ha mostrato che essi sono indipendenti l’uno dall’altro, sebbene possano interagire tra loro in
diversi modi. Come si vedrà tra poco, i due sistemi di memoria hanno in comune molte
caratteristiche con i due componenti del linguaggio appena descritti.
.
3.1.2 La memoria dichiarativa
La memoria dichiarativa è implicata nell’apprendimento, rappresentazione, ed uso della
conoscenza di fatti (conoscenza semantica) ed eventi (conoscenza episodica). Questa memoria
sembra essere in stretta relazione con il flusso ventrale visivo 32 . Essa può essere particolarmente
importante nell’acquisizione di informazioni associate in modo arbitrario. La conoscenza può essere
32
Il flusso ventrale visivo (ventral visual stream) sta alla base della formazione delle rappresentazioni percettive di
oggetti e delle loro relazioni. Queste rappresentazioni permettono l’identificazione degli oggetti e l’immagazzinamento
nella memoria a lungo termine della conoscenza degli oggetti.
72
immagazzinata esplicitamente (ossia in modo conscio) e può non essere informazionalmente
incapsulata, ma accessibile a diversi sistemi mentali.
La memoria dichiarativa dipende dalle regioni del lobo temporale medio, in particolare
l’ippocampo, che sono in gran parte connesse con le regioni temporali e temporoparietali
neocorticali. Il lobo medio temporale consolida e probabilmente recupera la nuova informazione.
Inoltre altre strutture cerebrali fanno parte di questo sistema: la corteccia prefrontale anteriore può
essere alla base della selezione e del recupero di memorie dichiarative, mentre porzioni destre del
cervelletto potrebbero essere coinvolte nella ricerca di questo tipo di informazioni nella memoria.
3.1.3 La memoria procedurale
La memoria procedurale è implicata nell’acquisizione di nuove abilità cognitive e sensomotorie e, una volta che queste vengono consolidate, nel loro controllo . L’acquisizione e il ricordo
di queste procedure avvengono in maniera implicita, inconscia, al di fuori del nostro controllo. Si
ipotizza che il sistema procedurale sia incapsulato informazionalmente, e abbia quindi minimo
accesso ad altri sistemi mentali.
Il sistema dipende da porzioni della corteccia frontale (inclusa l’area di Broca), dai glangli
basali, dalla corteccia parietale e dal nucleo dentato del cervelletto. Questo sistema può essere
relazionato al flusso dorsale visivo 33 ed è importante per l’acquisizione e il processing di abilità che
coinvolgono sequenze di azioni. L’esecuzione di queste abilità sembra essere guidata in tempo reale
dalla corteccia parietale posteriore, che è strettamente connessa alle regioni frontali. Le regioni
parietali inferiori possono servire come magazzino per la conoscenza delle abilità. Similarmente i
gangli basali sono connessi strettamente alla corteccia frontale. Infatti, i circuiti dei gangli basali
proiettano attraverso il talamo in una particolare regione corticale, la corteccia frontale.
L’acquisizione delle procedure nel sistema è graduale e necessita di ripetute presentazioni
degli stimoli. Al contrario le regole, una volta acquisite, generalmente si applicano in maniera
veloce e automatica.
33
Questo sistema (dorsal visual stream) sta alla base della trasformazione dell’informazione visiva e permette
l’esecuzione dei programmi motori, ad esempio la manipolazione di un oggetto.
73
3.1.4 Il modello dichiarativo/procedurale
Secondo il modello dichiarativo/procedurale, la memoria dichiarativa è alla base del lessico
mentale, mentre la memoria procedurale è alla base degli aspetti della grammatica mentale. In
questo modo, la memoria dichiarativa è una memoria associativa che immagazzina non solo fatti ed
eventi, ma anche la conoscenza lessicale, incluso i suoni e i significati delle parole. L’acquisizione
di parole nuove dipende, per la maggior parte, dalle strutture del lobo temporale medio.
Eventualmente la conoscenza delle parole diventa indipendente dal lobo temporale medio e
dipendente da altre aree neocorticali, in particolare quelle situate nelle regioni temporali e
temporoparietali. Il lobo temporale potrebbe essere particolarmente importante per immagazzinare i
significati delle parole, mentre le regioni temporoparietali potrebbero essere più importanti per
immagazzinare i suoni delle parole. La memoria lessicale, come già accennato, è accessibile ad altri
sistemi mentali.
Dall’altro lato, la memoria procedurale è alla base dell’acquisizione implicita e dell’uso
della grammatica nei sottodomini della sintassi, morfologia e probabilmente della fonologia (come i
suoni vengono combinati). Il sistema può essere particolarmente importante nella costruzione di
strutture grammaticali, ossia nella combinazione sequenziale e gerarchica delle forme in memoria
(walk+ed) e di rappresentazioni astratte in strutture complesse. L’acquisizione delle regole
dovrebbe dipendere dalle parti del sistema che sono coinvolte nell’apprendimento procedurale. Uno
o più circuiti tra i gangli basali e particolari regioni frontali potrebbero servire il processing
grammaticale e forse altre più sottili distinzioni, come la morfologia o la sintassi. Da questo punto
di vista, la corteccia frontale e i gangli basali sono di “dominio generale”, nel senso che servono
processi linguistici e non linguistici, ma contengono circuiti paralleli di “dominio specifico”.
Il modello dichiarativo/procedurale nasce ed è motivato dalle relazioni tra le funzioni del
linguaggio da una parte, e le funzioni dei sistemi di memoria dall’altro. Tuttavia queste relazioni
non suggeriscono isomorfismo tra lessico e memoria dichiarativa, o tra grammatica e memoria
procedurale. Infatti, vi possono essere parti di ciascun sistema che servono funzioni di tipo nonlinguistico, le quali non hanno alcun ruolo nel linguaggio, oppure un ruolo minimo. Inoltre è
importante notare che il modello non sostiene che tutti gli aspetti del linguaggio dipendano dai due
sistemi di memoria, o che questi siano gli unici sistemi alla base del lessico e della grammatica.
Altre strutture neurali e altre componenti cognitive o computazionali potrebbero avere un ruolo
importante nelle due capacità di linguaggio.
74
3.1.5 Interazioni tra i due sistemi
Si ipotizza che la memoria dichiarativa/lessicale e la memoria procedurale/grammaticale
interagiscano in diversi modi. Per prima cosa si ipotizza che la memoria procedurale costruisca
strutture complesse e acquisisca delle regole su quelle strutture, selezionando gli elementi lessicali
dalla memoria dichiarativa, mantenendo e strutturando assieme quegli elementi nella memoria
operativa. Inoltre, aspetti superiori del lobo temporale (che servono la memoria dichiarativa)
potrebbero giocare un ruolo importante nell’immagazzinamento delle conoscenze che riguardano
rappresentazioni strutturate attraverso la memoria procedurale. Per di più, questo tipo di conoscenze
o altre simili possono, in alcuni casi, essere acquisite da entrambi i sistemi. L’immagazzinamento
rapido lessicale/dichiarativo di sequenze di forme lessicali potrebbero fornire un database dal quale
la memoria procedurale può estrarre, gradulmente e in modo implicito, delle regole grammaticali.
Infine, i due sistemi interagiscono competitivamente in diversi modi. L’accesso ad una
rappresentazione nella memoria dichiarativa, che potrebbe essere derivata composizionalmente dal
sistema procedurale (ad esempio la forma irregolare del passato contro la forma regolare di uno
stesso verbo), bloccherebbe il completamento attraverso l’uso delle regole della grammatica.
Infine, un danno al sistema dichiarativo porterebbe ad un rinforzo dell’acquisizione e del
processing con il sistema procedurale, e vice versa.
3.1.6 Evidenze neurologiche a favore del modello dichiarativo/procedurale
AFASIA. Esistono fondamentalmente due classi di afasia: non-fluente/anteriore e
fluente/posteriore. L’afasia non fluente/anteriore è associata ad un danno alle regioni frontali
sinistre (in particolare nell’area di Broca e nella corteccia vicina), ai gangli basali e a porzioni della
corteccia parietale inferiore. I soggetti colpiti da afasia non-fluente mostrano tipicamente una forma
di agrammatismo, costituito da un parlato ‘telegrafico’. L’afasia fluente/posteriore, invece, è
associata ad un danno alle regioni temporoparietali e temporali sinistre. I soggetti colpiti da afasia
fluente hanno problemi nella produzione, lettura e identificazione dei suoni delle parole e dei loro
significati. Questi pazienti hanno la tendenza a produrre frasi sintatticamente ben strutturate e non
omettono gli affissi morfologici, come ad esempio in inglese il suffisso –ed del passato regolare.
Inoltre l’afasia fluente è spesso associata a danni semantici in domini non linguistici, ma non mostra
alcun deficit motorio.
75
Gli afasici non-fluenti hanno notevoli problemi nella produzione, nella lettura ad alta voce,
nel scrivere sotto dettatura, ripetere e giudicare la grammaticalità di forme del passato regolare.
Questi pazienti, inoltre, hanno maggiori difficoltà nel leggere e scrivere i plurali regolari rispetto a
quelli irregolari. I pazienti con afasia fluente mostrano caratteristiche opposte: hanno più difficoltà
nella produzione, nella lettura, e nei giudizi di grammaticalità delle forme del passato irregolari.
Questi dati mostrano l’esistenza di un legame tra le forme irregolari, la memoria semantica e non
lessicale, la corteccia temporale e temporoparietale da una parte, e un legame tra le forme regolari,
la sintassi, le abilità motorie, la corteccia sinistra frontale e i gangli basali dall’altra 34 .
MALATTIE NEURODEGENERATIVE. Il morbo di Alzheimer colpisce per la maggior
parte le strutture del lobo temporale , lasciando la corteccia frontale (in particolare l’area di Broca e
le regioni motorie) e i gangli basali intatti. Una disfunzione del lobo temporale potrebbe spiegare le
difficoltà dei pazienti colpiti da Alzheimer nell’acquisire nuove conoscenze lessicali e concettuali e
nell’usare quelle conoscenze già presenti nella memoria. Questi pazienti non hanno problemi
nell’acquisire ed esprimere abilità motorie, cognitive e aspetti di processing sintattico. Per quanto
riguarda il dominio della morfologia, gli studi sulle forme del passato hanno evidenziato che gli
errori nella denominazione degli oggetti e nel recupero dei fatti correlano con gli errori nella
produzione delle forme irregolari e non di quelle regolari.
La demenza semantica è associata ad una severa degenerazione delle regioni inferiori e
laterali del lobo temporale. Il disturbo risulta nella perdita della conoscenza lessicale e concettuale
non-linguistica, mentre lascia intatte le abilità motorie, sintattiche e fonologiche. Le caratteristiche
di questo disturbo sono molto simili a quelle dell’Alzheimer. Infatti, anche i pazienti colpiti da
demenza semantica hanno difficoltà nel produrre e identificare le forme irregolari del passato.
Il morbo di Parkinson è associato ad una degenerazione dei neuroni dopaminici,
specialmente nella sostanza nera dei gangli basali. La perdita della dopamina porta alla
soppressione dell’attività motoria (ipocinesi) e difficoltà nell’esprimere sequenze motorie. Questo
spiega le difficoltà dei pazienti con morbo di Parkinson nell’acquisire abilità motorie e cognitive, e
nel processing grammaticale. Al contrario, il lobo temporale non risulta danneggiato e l’uso delle
parole e delle conoscenze relative a fatti rimane relativamente intatto.
Anche il morbo di Huntington è associato ad una degenerazione dei gangli basali, ma
colpisce strutture differenti da quelle del morbo di Parkinson: colpisce soprattutto la regione del
nucleo caudato. Questa degenerazione porta a movimenti non sopprimibili (ipercinesi). Nel dominio
del linguaggio i pazienti producono forme come ‘walkeded’ e ‘dugged’ ma non errori analoghi con i
34
Per un approfondimento sui correlati neurali nell’afasia vedi Ullman et al. (2005).
76
verbi irregolari come ‘dugug’ e ‘keptet’, indicando che questi errori non sono attribuibili a deficit
articolatori o motori. Invece i dati indicano una suffissazione non sopprimibile di –ed.
I dati dal morbo di Parkinson e Huntington implicano il coinvolgimento dei gangli basali e
della corteccia frontale nella suffissazione di –ed. In generale, essi supportano l’ipotesi che queste
strutture stanno alla base dell’espressione delle regole grammaticali, come anche del movimento, e
indicano che hanno una funzione simile nei due domini.
DISTURBI EVOLUTIVI. Il disturbo specifico del linguaggio, come abbiamo ampiamente
visto nel capitolo 2, è un disturbo evolutivo, che pur essendo eterogeneo, generalmente è
accompagnato da deficit sintattici. E’ stato esaminato il processing delle forme del passato in due
gruppi (Van der Lely, H. J. K. & Ullman, M.T. 2001; Ullman, M. T. & Gopnik, T., 1999) ed
entrambi hanno mostrato difficoltà nel produrre nuove forme regolari (ad esempio plam-plammed) e
in generale nell’applicare il suffisso –ed in modo produttivo (con iperregolarizzazioni come digdigged). Questi dati indicano che i soggetti con SLI hanno difficoltà nell’acquisizione delle regole
grammaticali e sono obbligati a memorizzare sia le forme regolari che quelle irregolari. Sono state
inoltre analizzate le abilità motorie e le anomalie cerebrali in uno dei due gruppi. I dati indicano la
presenza di difficoltà nell’esecuzione di sequenze motorie e la presenza di anomalie nelle regioni
frontali parietali (incluso le aree motorie e l’area di Broca) e nel nucleo caudato dei gangli basali.
Questi risultati mostrano un legame tra la regola dell’affissazione di –ed per i verbi regolari, la
sintassi e la memoria procedurale. Dall’osservazione di questi risultati e dei dati di precedenti studi
Ullman e Pierpont (2005) propongono per lo SLI l’ipotesi di un deficit procedurale (questo
argomento sarà il tema centrale della prossima sezione).
I soggetti colpiti dalla sindrome di Williams, invece, mostrano abilità sintattiche intatte ma
grosse difficoltà nel recupero lessicale. Bambini e adulti con questo disturbo hanno più difficoltà
nel produrre le forme irregolari del passato rispetto a quelle regolari e i plurali. La maggior parte dei
loro errori sono iperregolarizzazioni (digged, mouses). Questi risultati mostrano la dissociazione tra
forme regolari e irregolari e lega le forme irregolari alla memoria lessicale, e le forme regolari alle
abilità sintattiche.
3.2 SLI: l’ipotesi di deficit procedurale
Ci sono diversi fattori che hanno ostacolato i tentativi di fornire una teoria unificata sullo
SLI. Innanzitutto, nonostante l’uso di criteri di esclusione nella diagnosi dello SLI, è opinione
comune che il disturbo non è chiaramente limitato al linguaggio. Piuttosto, difficoltà linguistiche
77
co-occorrono con diversi deficit non-linguistici, incluso deficit delle abilità motorie e della memoria
operativa. Inoltre, lo SLI è una classificazione abbastanza eterogenea, con variazioni documentate
negli aspetti particolari del linguaggio colpiti, nel tipo di deficit non-linguistici compresenti, e nella
severità dei deficit linguistici e non-linguistici osservati.
Le diverse teorie che hanno cercato di spiegare lo SLI (vedi capitolo 2, sezione 2.5), sebbene
individualmente possano catturare aspetti specifici dei dati empirici, risultano problematiche, poichè
nessuna di loro riesce a dare una spiegazione delle variazioni delle funzioni linguistiche e nonlinguistiche che sono danneggiate nello SLI. Inoltre, poche ipotesi hanno seriamente cercato di
mettere in relazione i problemi cognitivi nello SLI alle strutture cerebrali, o di spiegare le anomalie
neurali osservate nel disturbo.
Ullman e Pierpont (2005) hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale lo SLI non sarebbe il
risultato di un deficit specifico della grammatica, nè di un deficit relativo al processing non
linguistico, bensì di un deficit procedurale: ossia lo SLI potrebbe essere dovuto ad un’anomalia
nello sviluppo delle strutture cerebrali che costituiscono il sistema di memoria procedurale.
Sappiamo che questo sistema, composto da un network di strutture interconnesse nei circuiti frontali
e dei gangli basali, è alla base dell’apprendimento e dell’esecuzione delle abilità motorie e
cognitive. Inoltre, questo sistema risulta implicato in importanti aspetti della grammatica, del
recupero lessicale, nell’uso delle immagini mentali dinamiche, nella memoria operativa e nel
processing temporale rapido. L’ipotesi di deficit procedurale presuppone che un numero
significativo di individui con SLI soffra di anomalie in questo network cerebrale, con un
conseguente danno alle funzioni linguistiche e non linguistiche che dipendono appunto da questo
sistema. Al contrario, le funzioni della memoria lessicale e dichiarativa, che dipendono da altre
strutture cerebrali, dovrebbero rimanere per la maggior parte intatte.
L’ipotesi di deficit procedurale è una teoria che riesce a spiegare sia le anomalie cerebrali
osservate nello SLI, sia la consistenza e l’eterogeneità nei deficit linguistici e non-linguistici
osservati nel disturbo.
Ullman e Pierpont sostengono che nello SLI i deficit grammaticali e di recupero lessicale
siano strettamente associati a disfunzioni dei gangli basali, specialmente del nucleo caudato, e della
corteccia frontale, in particolare l’area di Broca. Come abbiamo visto sopra, i circuiti frontali e dei
gangli basali giocano un ruolo centrale nella memoria procedurale. Inoltre, il nucleo caudato e
l’area di Broca sono particolarmente importanti per le funzioni cognitive, incluso gli aspetti della
grammatica e di recupero lessicale. Anomalie a differenti strutture all’interno del sistema
procedurale sarebbero la causa dell’eterogeneità del disturbo. Nella stessa maniera l’eterogeneità
risulterebbe in seguito a disfunzioni di diverse porzioni della stessa struttura. Inoltre, è altamente
78
improbabile che, in un individuo con deficit procedurale, siano danneggiati solamente quei canali
che servono la grammatica o il recupero lessicale. Infatti abbiamo già osservato che nei disturbi
neurodegenerativi e neuroevolutivi, che coinvolgono i gangli basali, altri domini sono generalmente
danneggiati, come quello motorio.
Ciò che ci si aspetta dallo SLI è una variabilità rispetto ai tipi o alle combinazioni dei canali
danneggiati, e rispetto al grado di severità delle loro disfunzioni.
Per quanto riguarda l’eziologia ci si aspetta che la maggior parte dei casi abbia quindi una
disfunzione dei gangli basali, in particolare dello striato, ossia del nucleo caudato o del putamen.
Queste strutture sono implicate in molti disturbi evolutivi, tra cui lo ADHD ed è interessante notare
come spesso lo ADHD sia compresente nello SLI. Questa anomalia dei gangli basali può avere
diverse origini, tra cui un’anomalia di uno o più geni 35 , suggerendo che una componente genetica
può provocare il disturbo. Tuttavia è importante notare che, sebbene le anomalie siano inizialmente
circoscritte a specifiche strutture cerebrali, altre strutture potrebbero essere colpite di conseguenza,
grazie alla loro interconnessione. Data la natura altamente plastica del cervello, spesso sono
osservabili effetti compensativi nello SLI. Così, anomalie di porzioni specifiche dello striato o della
corteccia frontale possono essere compensate da altre porzioni di queste strutture. Questo potrebbe,
in parte, spiegare i miglioramenti graduali osservati nello SLI con la maturazione del bambino.
Inoltre altre misure compensative possono risultare dal subentrare da parte della memoria
dichiarativa in certe funzioni grammaticali, come nell’esempio già citato in cui walk+ed , invece di
essere composto attraverso le regole del sistema procedurale, viene memorizzato come un elemento
unico (walked) nella memoria dichiarativa. Inoltre, come compensazione del deficit procedurale,
l’individuo può imparare regole esplicite nella memoria dichiarativa, come ad esempio “aggiungi
–ed alla fine del verbo quando l’evento è già successo”. Quindi, con il tempo, i deficit grammaticali
sarebbero meno evidenti, mentre si osserverebbero superiori abilità lessicali/dichiarative grazie
appunto al rinforzo di quest’ultimo sistema, dovuto alla compensazione.
Ullman e Pierpont esaminano in modo approfondito la letteratura esistente sullo SLI e
propongono un’interpretazione dei dati che supporta le predizioni del deficit procedurale, e in
particolare l’implicazione dell’area di Broca nella corteccia frontale e del nucleo caudato all’interno
dei gangli basali (figura 6).
35
In particolare è stata trovata, in alcuni casi (come nella famiglia KE), una mutazione del gene FOXP2. I dati di alcuni
studi suggeriscono che il gene FOXP2 sia importante per lo striato e per certe altre strutture del sistema procedurale,
specialmente per il nucleo caudato, in particolare durante lo sviluppo cerebrale.
79
Figura 6: Localizzazione dei gangli basali e dell’area di Broca
Riporto brevemente alcuni dei dati presentati, senza entrare nei dettagli, dal momento che
sono già stati riportati ampiamente nel capitolo 2 36 :
Bambini e adulti con SLI mostrano una varietà di deficit sintattici nella produzione e nella
comprensione. Ad esempio, in compiti di comprensione, hanno difficoltà nell’assegnare i ruoli
tematici nelle frasi passive e ad assegnare il valore referenziale di pronomi e riflessivi. Hanno
difficoltà nel giudicare l’accettabilità sintattica delle frasi, nell’identificare errori morfo-sintattici,
nell’ordine delle parole, nell’accordo. Ciononostante, non tutti gli aspetti della sintassi sono
danneggiati: in particolare la conoscenza sintattica che può essere lessicalizzata, ossia memorizzata
nella memoria lessicale, risulta intatta nello SLI. Inoltre sono stati riscontrati problemi nella
morfologia (nella flessione nominale e verbale, incluso la formazione del passato), nella
composizione e nella morfologia derivazionale. Ancora, si sono osservati deficit nel processing
fonologico. Anche in questo caso, non tutti gli aspetti della fonologia risultano danneggiati ma
soltanto quelli che non sono memorizzati (ad esempio si nota una difficoltà nell’ elaborare le parole
nuove). L’ipotesi formulata da Ullman e Pierpont è che i deficit lessicali, morfologici e fonologici
siano una conseguenza diretta di una disfunzione del sistema di memoria procedurale.
Per quanto riguarda il profilo lessicale dello SLI si osserva che l’organizzazione lessicale e
semantica è simile a quella dei soggetti con normale sviluppo. I deficit lessicali che apparentemente
vengono riscontrati (ad esempio la difficoltà nell’acquisire parole nuove) sono spiegati in termini di
disfunzioni del sistema procedurale e non di quello dichiarativo. Infatti si presume che il sistema
dichiarativo, per certe funzioni, non operi isolatamente, ma coinvolga delle strutture che dipendono
36
Per un ulteriore approfondimento vedi Ullman & Pierpont (2005: 405-423).
80
anche dal sistema procedurale. In questi casi specifici, dove vi è un coinvolgimento delle memoria
procedurale, potrebbero risultare deficit lessicali, ma la memoria dichiarativa rimane tuttavia intatta.
Inoltre numerosi studi mostrano che molti individui con SLI esibiscono uno o più deficit
non-linguistici in aggiunta ai loro deficit del linguaggio. In particolare, gli studi dimostrano che lo
SLI è strettamente associato a deficit delle funzioni motorie (in particolare di sequenze motorie), di
uso delle immagini mentali dinamiche, della memoria operativa, e del processing temporale rapido,
in accordo con l’ipotesi di deficit procedurale. Per quanto riguarda la presenza di deficit motori, gli
studi hanno evidenziato che questi non sono ristretti al viso e ai movimenti della bocca, ma sono
estesi alle abilità di coordinazione e ad abilità fini, come ritagliare un cerchio, copiare delle forme,
allacciarsi le stringhe delle scarpe.
Anche l’uso delle immagini mentali ‘dinamiche’, come la capacità di manipolare
mentalmente un oggetto, risulta danneggiato nello SLI e sembra essere legato alla memoria
procedurale. Al contrario l’uso delle immagini mentali ‘statiche’, legato alla memoria dichiarativa,
risulta intatto.
Molti studi dimostrano, inoltre, che lo SLI è associato a un deficit della memoria operativa
(Gathercole & Baddeley, 1993; Botting & Conti-Ramsden, 2001). Infatti, i bambini con SLI hanno
particolari difficoltà con l’ordine seriale in esercizi di memoria operativa e con la ripetizione di
non-parole, un’abilità che dipende dalla componente fonologica della memoria operativa. Inoltre, si
sono osservate correlazioni tra queste abilità e altre abilità di processing grammaticale. Questi dati
portano a pensare che ci sia una certa associazione tra abilità grammaticali e abilità di memoria
operativa.
Per ultimo, è stato riscontrato che il deficit di processing temporale riscontrato nello SLI è in
stretta associazione con le difficoltà di linguaggio, anche se non sono necessariamente compresenti,
nè il deficit temporale sembra causare le difficoltà di linguaggio. Questo dato mostra come
problemi percettivi e di linguaggio possano, almeno parzialmente, essere spiegati con anomalie di
strutture cerebrali diverse ma relazionate tra loro, alla base del sistema procedurale.
Infine un ultimo sguardo va agli studi dei correlati neurali dello SLI. Come abbiamo già
visto, l’ipotesi di deficit procedurale predice che nello SLI siano particolarmente colpite le regioni
frontali (in particolare l’area di Broca) e i gangli basali (specialmente il nucleo caudato). Questa
predizione sembra essere confermata dai dati empirici. Anche i pochi studi effettuati con la tecnica
ERP sono consistenti con una disfunzione del processing grammaticale e un effetto compensativo
dovuto ad un rinforzo della memoria dichiarativa/lessicale (Neville et al., 1991).
I numerosi studi citati nell’articolo di Ullman e Pierpont, e qui riassunti, supportano l’ipotesi
di un deficit procedurale come una possibile causa dello SLI. Infatti il deficit procedurale
81
spiegherebbe il sostanziale numero di dati riportati nei precedenti studi, formando le basi di una
nuova e potenzialmente produttiva prospettiva sullo SLI.
3.3 Disturbi evolutivi e l’ipotesi di deficit procedurale
Ullman (2004) propone che numerosi disturbi evolutivi siano associati a disfunzioni della
memoria procedurale e ad anomalie delle strutture cerebrali alla base di questo sistema. Questi
includono, oltre allo SLI (trattato ampiamente nella sezione precedente) la dislessia, il disturbo di
attenzione ed iperattività (ADHD) e l’autismo. Secondo il modello dichiarativo/procedurale, in
questi disturbi si dovrebbero osservare sia difficoltà grammaticali, sia problemi di recupero
lessicale, sebbene le caratteristiche particolari di questi deficit linguistici possano differenziarsi in
base alle specifiche disfunzioni della memoria procedurale nei diversi disturbi.
Ullman tratta la dislessia e lo ADHD assieme, sostenendo che entrambi i disturbi presentano
deficit delle funzioni motorie e della memoria operativa. In entrambi i disturbi, inoltre, si osservano
difficoltà nella riproduzione accurata degli intervalli di tempo e nel mantenimento del controllo
ritmico motorio. Si ritiene che il cervelletto sia implicato sia nella dislessia che nello ADHD, e che i
gangli basali, specialmente il nucleo caudato, sia anormale nello ADHD, e probabilmente anche
nella dislessia.
Per di più, dislessia e ADHD mostrano un’elevata comorbidità l’una con l’altro (ossia la
compresenza di entrambi i disturbi) e con lo SLI. Secondo uno studio, circa il 55% dei bambini con
un disturbo specifico della lettura presentano deficit nel linguaggio orale, e il 51% dei bambini con
SLI presenta una disabilità di lettura (McArthur, Hogben, Edwards, Heath, & Mengler, 2000).
Alcuni studi documentano una percentuale del 45% di bambini con ADHD che presentano disturbi
del linguaggio (Tirosh & Cohen, 1998). Effettivamente la più frequente diagnosi psichiatrica tra i
bambini con disturbo del linguaggio è proprio lo ADHD (Cohen et al., 2000).
Per quanto riguarda l’autismo, esso è associato ad anomalie cerebellari ed a deficit delle
funzioni motorie, della memoria operativa e dell’acquisizione procedurale, specialmente delle
sequenze. Una delle caratteristiche che definiscono il disturbo di autismo è un deficit di linguaggio.
Addirittura in molti casi le abilità di linguaggio espressive non si sviluppano affatto. Sono stati
riportati, inoltre, deficit nella sintassi e nella morfologia. Mentre la conoscenza di fatti e concetti
sembra essere intatta, sebbene ci possano essere difficoltà nel richiamare alla memoria questo tipo
di conoscenza.
82
3.4 Il deficit procedurale nella dislessia
Abbiamo ampiamente visto che la dislessia evolutiva è strettamente connessa con un deficit
di processing delle rappresentazioni fonologiche. Tuttavia, numerosi studi suggeriscono che nei
soggetti dislessici siano danneggiate anche altre abilità. Nello specifico, i soggetti dislessici sono
caratterizzati da difficoltà in altre abilità linguistiche, come ad esempio nel processing delle
rappresentazioni sintattiche, e in abilità non-linguistiche, come ad esempio nell’eseguire compiti
motori di tipo automatico e sequenziale.
L’ipotesi di Ullman è che la dislessia evolutiva sia causata da una disfunzione del sistema di
memoria procedurale. Tuttavia Ullman non spiega, come ha fatto ampiamente per altri disturbi
evolutivi, (ad esempio lo SLI), come il deficit procedurale possa nello specifico rendere conto delle
difficoltà riscontrate nei soggetti dislessici. Cercherò, in base alle predizioni del modello di Ullman
e in base ai dati empirici degli studi esistenti sulla dislessia, di sostenere l’ipotesi di deficit
procedurale.
Date le caratteristiche del modello dichiarativo/procedurale, l’ipotesi sulla natura del danno
che causa il comportamento dislessico può essere definito in questi termini:
-
La dislessia è causata da un deficit che colpisce la memoria procedurale;
-
Il deficit ha delle conseguenze sui processi serviti dalla memoria procedurale: (a)
l’abilità di elaborare le rappresentazioni fonologiche; (b) l’abilità di elaborare le
rappresentazioni grammaticali; (c) l’abilità di acquisire ed eseguire compiti motori di
tipo automatico e sequenziale.
L’ipotesi di deficit procedurale serebbe in grado di spiegare la presenza sia di deficit
fonologici e grammaticali, sia la presenza di difficoltà motorie.
Nel caso in cui l’ipotesi fosse corretta, i soggetti dislessici dovrebbero avere difficoltà
nell’esecuzione di quelle abilità che dipendono dalla memoria procedurale, mentre non dovrebbero
avere problemi in quelle abilità che dipendono dalla memoria dichiarativa. Nello specifico, i
soggetti dislessici dovrebbero mostrare difficoltà in almeno le seguenti abilità:
-
nel processing delle rappresentazioni fonologiche;
-
nel processing della morfologia regolare;
-
nel processing delle rappresentazioni sintattiche;
83
-
nell’esecuzione di esercizi motori.
Al contrario, dovrebbero essere intatte:
-
le conoscenze di elementi lessicali semplici;
-
le conoscenze delle rappresentazioni grammaticali lessicalizzate (ad esempio la
struttura argomentale e le forme morfologiche irregolari).
Le difficoltà nell’abilità a processare le rappresentazioni fonologiche sono confermate dai
dati menzionati nel capitolo 1 (Snowling 2001; Ramus 2003; Desroches et al. 2006). In particolare,
ciò che sembra essere danneggiata è la consapevolezza fonologica, sia nei bambini a rischio di
dislessia, in età pre-scolastica (de Bree 2007; Goswami 2000) sia nei bambini dislessici (Snowling
2000).
Le difficoltà nel processare le rappresentazioni sintattiche sono state riportate negli studi
menzionati nel capitolo 2 (Byrne 1981; Mann et al. 1984; Scarborough 1990; Catts et al. 1999;
Waltzman & Cairns 2000; Wilsenach & Wijnen 2003; Rispens 2004; Van Alphen et al. 2004;
Wilsenach 2006).
I deficit motori sono stati confermati da alcuni studi (Fawcett & Nicolson 2004). Tuttavia
bisogna considerare che la presenza di disturbi sensomori nei dislessici è controversa e dibattuta,
dal momento che diversi studi dimostrano l’esistenza di una doppia dissociazione tra deficit
sensomotori e difficoltà di lettura o comunque una presenza sporadica delle difficoltà motorie
rispetto a quelle fonologiche (Ramus 2003; White et al. 2006).
Per quanto riguarda la conoscenza lessicale, uno studio condotto da Swan & Goswami
(1997) mostra che i bambini dislessici conoscono le parole e i loro significati ma hanno difficoltà
nel recuperarle. Questo si trova in pieno accordo con il deficit procedurale, che presume un danno
alla memoria procedurale (che tra l’altro permette il recupero degli elementi lessicali) e l’integrità
della memoria dichiarativa/lessicale. Inoltre, le altre informazioni lessicali, come la struttura
argomentale, sembrano essere intatte. Come menzionato nel capitolo 2, Stein et al. (1984)
osservarono che i bambini dislessici tendono ad assegnare un’interpretazione attiva alle frasi
passive. Questo fatto suggerisce che i bambini dislessici, nell’interpretare le costruzioni passive,
fanno affidamento sulla struttura argomentale del verbo (conoscenza dichiarativa/lessicale) e non
sulla corretta analisi della struttura grammaticale della frase.
Inoltre l’ipotesi di deficit procedurale sembra essere confermata dagli studi di neuroimaging.
Come abbiamo già notato, Temple (2002) riesaminò numerosi studi condotti con le tecniche PET e
84
fMRI; tutti gli studi mostrano che i soggetti dislessici (per la maggior parte adulti) hanno una ridotta
attività della corteccia temporoparietale e delle aree frontali del linguaggio nell’emisfero sinistro,
aree che fanno parte del sistema di memoria procedurale.
3.5 Quale differenza tra dislessia e SLI?
L’ipotesi di deficit procedurale era stato originariamente proposto da Ullman e Pierpont
(2005) per spiegare il disturbo specifico del linguaggio (SLI). L’ipotesi, secondo gli autori, è
confermata dalla presenza nei soggetti con SLI di deficit a quelle funzioni che dipendono dalla
memoria procedurale, mentre le funzioni legate alla memoria dichiarativa, che dipendono da altre
strutture cerebrali, risultano per la maggior parte intatte.
Ora, il fatto di formulare la stessa ipotesi per spiegare i sintomi sia della dislessia che dello
SLI ci obbliga a riconsiderare la relazione tra questi due disturbi. Tradizionalmente, abbiamo visto
che dislessia e SLI sono stati considerati due disturbi distinti. Secondo Bishop e Snowling (2004), i
soggetti con SLI e con dislessia hanno in comune molti problemi di processing fonologico, ma
solamente i soggetti con SLI sarebbero caratterizzati da ulteriori deficit sintattici e semantici.
Tuttavia questa visione contrasta con i dati riportati, i quali, come abbiamo visto, confermano la
presenza di deficit sintattici nei soggetti dislessici. Se l’ipotesi di deficit procedurale è corretta, SLI
e dislessia dovrebbero essere viste piuttosto come diverse manifestazioni dello stesso disturbo, il
quale si differenzierebbe solamente per severità e per il momento in cui il disturbo si manifesta.
Questa ipotesi è compatibile con le supposizioni di Catts (1995) e Goulandris et al. (2000), secondo
le quali SLI e dislessia possono essere classificate su un continuum di disturbo del linguaggio.
All’interno di questo continuum la dislessia sarebbe trattata come una forma di deficit di linguaggio
che colpisce principalmente il sistema fonologico. Mentre lo SLI verrebbe considerato come la
manifestazione più severa del disturbo, comparendo molto presto nell’infanzia.
Diversi studi già citati nel capitolo 2 (de Bree 2007; Fraser e Conti-Ramsden 2005), tuttavia
mostrano come i profili del linguaggio dei bambini dislessici e con SLI siano differenti. I dati
sembrano supportare l’ipotesi che siano due disturbi simili ma qualitativamente differenti, per tipo
di errori, anche nel dominio fonologico. Tenendo conto di queste considerazioni, mi sembra che il
deficit procedurale possa comunque essere una valida spiegazione della dislessia. Ullman considera
che diversi disturbi (SLI, ADHD, Dislessia, Autismo, ecc) siano causati da un deficit alle strutture
del sistema di memoria procedurale. Tuttavia possono essere colpite regioni diverse delle stesse
strutture. Lesioni, quindi, a regioni diverse, che comunque fanno parte delle strutture alla base del
85
sistema di memoria procedurale, porterebbero a quelle differenze qualitative osservate tra dislessia
e SLI.
In questa prospettiva mi sembra di poter sostenere l’ipotesi che dislessia e SLI siano disturbi
simili ma qualitativamente differenti, risultanti da disfunzioni di porzioni diverse delle strutture
cerebrali alla base del sistema di memoria procedurale.
3.6 La memoria operativa e il linguaggio
Dopo aver esaminato il ruolo dei sistemi di memoria dichiarativa e procedurale nel
linguaggio, e il loro coinvolgimento nei disturbi evolutivi, soprattutto per quanto riguarda la
dislessia e lo SLI, mi soffermo ora su un altro sistema di memoria: la memoria operativa. Diversi
studi suggeriscono che la memoria operativa sia implicata nel processing del linguaggio, e che
deficit alla memoria operativa possano avere un impatto in questo processing. L’ipotesi che la
dislessia risulti da un deficit alla memoria operativa non è nuova ed esistono importanti
dimostrazioni che la supportano. Nel prossimo paragrafo presenterò nel dettaglio il modello della
della memoria operativa.
Il più autorevole modello della memoria a breve termine, il modello della memoria
operativa, fu sviluppato da Baddeley (1986). Secondo questo modello la memoria operativa è un
sistema la cui funzione è il mantenimento temporaneo e la manipolazione dell’informazione che si
presume sia necessaria in una vasta gamma di attività cognitive complesse. Nel 1974, Baddeley &
Hitch proposero una divisione della memoria operativa in tre componenti distinte, le quali si
presume lavorino assieme con la funzione di facilitare la performance in diversi compiti cognitivi.
Le tre componenti, rappresentate nella figura 7, comprendono un magazzino per il mantenimento
temporaneo di elementi verbali e acustici (phonological loop), un parallelo sottosistema visivo che
riguarda l’immagazzinamento e il trattamento delle informazioni visive e spaziali, e un sistema
attenzionale a capacità limitata (central executive) che fa fronte ai compiti cognitivi richiesti dalla
situazione, organizzando la codifica delle informazioni e attivando momentaneamente la memoria a
lungo termine.
Sono stati trovati i correlati neurologici delle distinte componenti della memoria operativa:
l’esecutivo centrale è situato nei lobi frontali, il circuito fonologico nell’emisfero sinistro e il
taccuino visivo-spaziale nell’emisfero destro.
86
Figura 7. Le tre componenti della memoria operativa proposte da Baddeley & Hitch (1974).
3.6.1 Il circuito fonologico
Il sistema che è stato maggiormente implicato negli studi sullo sviluppo del linguaggio è il
circuito fonologico o memoria operativa verbale. Esso concerne il parlato e conserva l’ordine in cui
le parole sono presentate. E’ stata proposta una suddivisione di questo sistema in due componenti:
un sistema di immagazzinamento temporaneo che mantiene in memoria le informazioni per alcuni
secondi, durante i quali decadono se non vengono rinforzate da una seconda componente.
Quest’ultima coinvolge un sistema di ripetizione a bassa voce, che non solo mantiene le
informazioni nella memoria, ma ha anche la funzione di registrare l’informazione visiva all’interno
della memoria, purchè gli elementi possano essere nominati. Così, se ad un soggetto viene mostrata
una sequenza di lettere da ripetere, nonostante la sua presentazione visiva, i soggetti la ripeteranno a
bassa voce, e la sua ritenzione dipenderà in modo cruciale dalle caratteristiche acustiche o
fonologiche delle lettere presentate nella sequenza. Per questo il circuito fonologico è caratterizzato
da alcuni fenomeni come “l’effetto della similarità fonologica”, in cui le parole che sono simili a
livello fonologico sono ricordate peggio, e “l’effetto della lunghezza delle parole” nel quale una
sequenza di parole corte è riprodotta più facilmente di una di parole lunghe.
Diversi studi dimostrano l’importanza del circuito fonologico durante l’acquisizione del
linguaggio. Ad esempio, Blake et al. (1994) trovarono una relazione tra la memoria verbale e le
caratteristiche specifiche evolutive del parlato spontaneo nei bambini di tre anni.
Adams & Gathercole (1996) osservarono che le differenze nelle abilità di memoria
fonologica in bambini di 4-5 anni erano associate alle differenze nelle abilità narrative orali di
questi bambini. In un altro studio, Adams & Gathercole (2000) mostrarono che le abilità di
memoria operativa fonologica nei bambini di 3-4 anni è in relazione alla ampiezza del loro
vocabolario produttivo, alla lunghezza delle loro frasi e alla diverse costruzioni sintattiche utilizzate
nel parlato spontaneo.
Esiste, inoltre, un’ampia dimostrazione del fatto che esiste una relazione tra deficit della
memoria operativa ed alcuni disturbi evolutivi (SLI, ADHD e dislessia). Ad esempio,Gathercole &
87
Baddeley (1990), attraverso un esercizio di ripetizione di non-parole, mostrarono che i bambini con
SLI hanno maggiori difficoltà nel ripetere non-parole di tre e quattro sillabe rispetto a due gruppi di
bambini con normale sviluppo. Gli stessi risultati sono stati inoltre replicati da molti altri ricercatori.
Generalmente, questi risultati indicano una ridotta memoria operativa fonologica nei bambini con
SLI.
3.6.2 Il taccuino visivo-spaziale
Questo sottosistema della memoria operativa ha la funzione di integrare l’informazione
spaziale, visiva e forse anche cinestetica in una rappresentazione unificata che può essere
temporaneamente immagazzinata e manipolata.
Il taccuino visivo-spaziale ha chiaramente minore importanza nei disturbi del linguaggio
rispetto al circuito fonologico. Tuttavia, sembra che il sistema sia coinvolto nell’abilità di lettura,
specialmente nel mantenimento della rappresentazione della pagina e della sua impostazione
grafica, che rimarranno stabili e faciliteranno alcuni compiti, come muovere gli occhi
accuratamente dalla fine di una riga all’inizio della riga successiva.
3.6.3 L’esecutivo centrale
Questo sistema è responsabile del controllo dell’attenzione nella memoria operativa e può
essere frazionato in diversi processi esecutivi. Questi processi esecutivi sono, probabilmente, uno
dei principali fattori che determinano le differenze individuali nei test di memoria operativa. Negli
studi che misurano la memoria operativa, ai soggetti viene richiesto di combinare simultaneamente
processing e immagazzinamento, ad esempio, leggendo una serie di frasi e allo stesso tempo
ricordare l’ultima parola di ogni frase per poi ripeterla. E’ stato provato che differenze nella
memoria operativa influenzano un’ampia gamma di complesse abilità cognitive, dalla
comprensione nella lettura all’apprendimento dell’elettronica.
88
3.6.4 Il cuscinetto episodico
Più recentemente Baddeley (2000) ha inserito nella memoria di lavoro un quarto elemento
chiamato cuscinetto episodico (episodic buffer): si tratta di un sottosistema a capacità limitata che
dipende maggiormente dal processing esecutivo, e che ha la funzione di collegare insieme
informazioni provenienti da diverse parti in modo da comporre un episodio, nonchè di combinare
singoli elementi per costruire strutture più articolate. (figura 8)
Essendo il cuscinetto episodico un concetto nuovo e piuttosto recente, non è ancora stato
esplorato ampiamente nei soggetti con disturbo del linguaggio.
Figura 8. L’attuale modello multi-componente della memoria operativa.
3.7 La memoria operativa e la dislessia
Alcuni ricercatori pensano che la dislessia sia dovuta ad una insufficienza delle risorse di
memoria operativa. McLoughlin et al. (2002), ad esempio, hanno proposto una definizione di
dislessia basata sulla teoria della memoria operativa:
‘Developmental dyslexia is a genetically inherited and neurologically
determined inefficiency in working memory, the information-processing system
fundamental to learning and performance in conventional educational and work
89
settings. It has a particular impact on verbal and written communication as well as
on organization, planning and adaptation to change’ (p.19).
Diversi studi hanno stabilito un legame tra deficit della memoria operativa e dislessia. Nello
specifico si ritiene che sia implicato il circuito fonologico della memoria operativa. Pickering
(2000) osserva, nei suoi esperimenti, che i dislessici sembrano usare il circuito fonologico in modo
meno efficiente e sembrano avere problemi nel tradurre l’informazione visiva in forma fonologica.
Secondo Pickering, questo può colpire la loro abilità nell’apprendere nuove parole durante la
lettura. Inoltre, i dislessici mostrano difficoltà con la ripetizione fonologica (ad esempio con la
ripetizione di parole multi-sillabiche o le non-parole) e sembrano non usare le strategie di memoria
fonologica, come invece fanno i soggetti non dislessici.
Simili risultati sono stati ottenuti da Jeffries & Everatt (2003). Questi studiosi hanno messo a
confronto le performance di adulti con quelle di bambini con dislessia, allo scopo di valutare il
funzionamento del circuito fonologico e del taccuino visivo-spaziale. Trovarono che i dislessici, a
differenza del gruppo di controllo, avevano maggiori problemi in quei compiti che richiedono il
coinvolgimento del circuito fonologico, ma avevano le stesse abilità del gruppo di controllo per
quanto riguarda il taccuino visivo-spaziale. I bambini dislessici, inoltre, mostravano un problema
anche nella componente dell’esecutivo centrale. Hanno testato anche un gruppo di adulti con
disprassia 37 e il fatto interessante è che hanno trovato risultati opposti: questi soggetti avevano
problemi con la componente visivo-spaziale ma non con il circuito fonologico.
Alloway et al. (2004) hanno fornito una dimostrazione, attraverso l’uso di una batteria di
test, dell’esistenza di un legame importante tra abilità della memoria operativa e successo nella
lettura e nella comprensione. In particolare, sono arrivati alla conclusione che la dimensione dello
span di memoria operativa (calcolato attraverso test che valutano le abilità della memoria operativa)
possa predire la performance di lettura e comprensione. Risultati simili sono stati ottenuti da
Gathercole & Alloway (2006), i quali hanno dimostrato che il punteggio ottenuto nella misurazione
della memoria operativa verbale predice in modo significativo il successo di lettura. Inoltre
Gathercole et al. (2006), testando un gruppo di bambini con disabilità di lettura, hanno osservato
che le difficoltà di apprendimento della lettura sono associate alle abilità della memoria operativa
verbale.
E’ stato dimostrato che anche la consapevolezza fonologica è strettamente associata alla
memoria operativa verbale. Come già anticipato nel capitolo 1, la consapevolezza fonologica è un
tipo di conoscenza meta-linguistica, definita come l’abilità di analizzare le parole in consonanti e
37
La disprassia è un disturbo che riguarda la coordinazione e il movimento che può comportare problemi nel
linguaggio.
90
vocali, che gioca un ruolo cruciale nell’apprendimento della lettura e della scrittura. E’ un fatto
riconosciuto che la dislessia è strettamente connessa ad una difficoltà nell’eseguire compiti che
richiedono una certa consapevolezza fonologica (Bryant 1995). Siegal & Linder (1984) e Stanovich
et al. (1984) hanno dimostrato che le misurazioni della memoria operativa verbale sono strettamente
associate alle misurazioni della consapevolezza fonologica.
Esiste, quindi, una certa evidenza che supporta l’ipotesi di un deficit che colpisce la
memoria operativa verbale nella dislessia evolutiva.
3.7.1 La memoria operativa verbale: l’informazione fonologica e semantica
Una delle principali caratteristiche del sistema di memoria operativa presentato da Baddeley
è che sembra avere a che fare esclusivamente con le rappresentazioni fonologiche. Tuttavia alcuni
studi importanti in psicologia (Smith and Geva 2000) e neurolinguistica (Grodzinsky 2005) hanno
affermato che la portata della memoria operativa verbale potrebbe essere più ampia e contenere non
solo l’informazione fonologica. Hanten & Martin (2000), ad esempio, dimostrano, sulla base di
evidenze neuropsicologiche, l’esistenza di sistemi di memoria a breve termine paralleli: fonologica
e semantica. Inoltre, è importante notare che il modello proposto da Baddeley non esclude a priori
la possibilità che la memoria operativa verbale abbia a che fare con livelli di rappresentazione
linguistica diversi da quello fonologico.
In questa sezione vorrei citare uno studio condotto da G. Fiorin dell’Università di Verona, il
quale supporta questa visione ‘estesa’ della memoria operativa verbale, secondo la quale il
componente verbale della memoria operativa avrebbe a che fare con rappresentazioni linguistiche
diverse dalla fonologia, nello specifico, con le rappresentazioni semantiche.
Una prima dimostrazione a favore di questa ipotesi proviene dagli studi neuroanatomici del
circuito fonologico. Come già anticipato, gli studi dell’ attività cerebrale condotti con le tecniche
PET e fMRI convergono nel localizzare il circuito fonologico nell’emisfero sinistro: più
precisamente nell’area di Broca (area Brodmann 44 e 45) o nel giro frontale inferiore sinistro
(LIFG, area Brodmann 44, 45 e 47; da notare che lo LIFG include l’area di Broca).
E’ di notevole interesse che diversi recenti studi neuropsicologici e di neuroimaging hanno
dimostrato che lo LIFG supporta anche il sistema di memoria a breve termine che si occupa del
mantenimento temporaneo dell’informazione semantica (Zempleni et al. 2006; Bedny et al., 2007;
Thompson-Schill, 2003; Metzler, 2001). Nello specifico lo LIFG sarebbe cruciale nella selezione
tra rappresentazioni semantiche in competizione. Tuttavia, come detto sopra, lo LIFG avrebbe la
91
funzione di supportare la memoria a breve termine dedicata al mantenimento temporaneo delle
rappresentazioni fonologiche. L’ipotesi è, quindi, che il componente verbale della memoria
operativa si occupi sia delle rappresentazioni fonologiche sia di quelle semantiche. In questo caso,
la memoria operativa verbale, può essere vista come un sistema cognitivo di dominio generale, la
cui funzione è quella di mantenere l’informazione linguistica on-line (che sia di natura fonologica o
semantica) e risolvere la competizione tra diverse rappresentazioni linguistiche alternative.
Fiorin (2008) ha riportato i risultati di un esperimento in cui l’operazione che il soggetto si
trovava a fare era di disambiguare una frase chiaramente ambigua, scegliendo tra due
rappresentazioni semantiche in competizione, ossia una lettura a variabile legata e una lettura
coreferenziale associate all’uso di pronomi personali e possessivi. Il soggetto si trovava, in questo
modo, in una situazione in cui doveva mantenere nella memoria operativa verbale due
rappresentazioni semantiche in competizione e poi scegliere una di loro, sulla base delle
informazioni fornite dal contesto.
Nello specifico l’esperimento testa le abilità dei bambini dislessici nei confronti di frasi
contenenti espressioni pronominali ambigue. I gruppi testati furono tre: un gruppo di bambini
dislessici (età media: 9;4) denominato “DYS”, un gruppo di bambini controllo di pari età (età
media: 9;2) “AMC” e un gruppo di bambini più piccoli (età media: 4;8) “YOC”. I risultati
dell’esperimento mostrano che i bambini dislessici, al contrario del gruppo di controllo della stessa
età, tende ad evitare il processo di disambiguazione e, in particolare, il mantenimento temporaneo e
il confronto delle due rappresentazioni logico-semantiche in competizione. Secondo Fiorin, il
comportamento dei bambini dislessici può essere spiegato assumendo che la dislessia sia associata
ad un deficit della memoria operativa verbale. L’ipotesi è confermata anche dal fatto che il gruppo
dei bambini controllo più piccoli, i quali è risaputo che hanno risorse di memoria operativa limitate
proprio per la giovanissima età, forniscono risultati simili a quelli forniti dal gruppo dei bambini
dislessici.
I bambini vennero testati nella comprensione di frasi italiane del tipo riportato in (1)
(1) Ogni amico di Francesco ha colorato la sua bicicletta
La frase è chiaramente ambigua dal momento che può significare sia che tutti gli amici di
Francesco hanno colorato la propria bicicletta, sia che ogni amico di Francesco ha colorato la
bicicletta di Francesco. Le due interpretazioni della frase (1) dipendono dalla scelta dell’antecedente
per il pronome “sua”. I due possibili antecedenti sono la frase nominale “ogni amico di Francesco”
e “Francesco”. Nel caso in cui il pronome “sua” si riferisce a “ogni amico di Francesco”
92
l’antecedente è una frase nominale quantificata, perciò l’unica relazione anaforica possibile è quella
di variabile legata. La lettura variabile legata è possibile dal momento che l’antecedente c-comanda
il pronome. La Forma Logica che corrisponde alla lettura variabile legata può essere formalizzata
come in (2).
(2) [Ogni x: amico di (x, Francesco)]( x ha colorato la bicicletta di x)
Nel secondo caso, l’antecedente del pronome, “Francesco”, è un’espressione referenziale,
che non c-comanda il pronome. Per questo, l’unica relazione anaforica possibile tra “sua” e
“Francesco” è di coreferenza. Questa seconda lettura può essere formalizzata come in (3), dove il
pronome è riferito alla stesso individuo a cui si riferisce l’antecedente, ossia “Francesco”.
(3) [Ogni x: amico di (x, Francesco)]( x ha colorato la bicicletta di Francesco)
Lo scopo dell’esperimento era di vedere se i bambini dislessici, rispetto ai bambini non
dislessici, hanno una preferenza per l’una o per l’altra interpretazione (variabile legata o
coreferenza) e quali strategie adottano con le frasi ambigue, frasi che possono essere associate a due
Forme Logiche diverse.
L’esperimento consiste di un Truth Valued Judgement Task (si veda Crain & Thornton
1998). Ai soggetti viene raccontata una breve storia, rappresentata con delle figure, in cui si parla di
un protagonista e di suoi tre amici. Alla fine della storia, un personaggio (l’ispettore pasticcione)
pronuncia la frase target; al soggetto viene richiesto se la frase target è una descrizione corretta della
storia raccontata. Il giudizio espresso dai soggetti indica se il soggetto ha interpretato il pronome
della frase target come variabile legata e come coreferenziale rispetto al suo antecedente.
I risultati mostrano che i bambini dislessici scelgono l’interpretazione variabile legata il 55%
delle volte, i bambini più piccoli scelgono l’interpretazione variabile legata il 58% delle volte,
mentre i bambini del gruppo di controllo di pari età dei dislessici si comportano a chance level,
ossia scelgono la variabile legata il 50% delle volte. La differenza più importante tra il gruppo di
controllo AMC e i gruppi DYS e YOC, è che il gruppo AMC si comporta a chance level non solo
come gruppo ma anche individualmente mentre i gruppi DYS e YOC includono un numero
consistente di soggetti che hanno una forte preferenza per l’una o l’altra interpretazione.
Ciò che accade in questo esperimento è che i soggetti, sentendo una frase come (1) si
trovano a dover eseguire almeno due operazioni: (i) elaborare due rappresentazioni logiche diverse
della frase (ii) decidere, sulla base dell’informazione contenuta nel contesto, quale forma logica è
93
più appropriata. Questo processo richiede di mantenere nella memoria a breve termine due Forme
Logiche diverse e nello stesso tempo di compararle con l’informazione contestuale.
Nell’esperimento, tuttavia, il contesto non aiuta affatto a dare il significato alla frase target. Infatti
entrambe le interpretazioni si possono adattare al contesto pronunciato, ed entrambe permettono al
soggetto di dare la giusta risposta. Questa osservazione è sufficiente a spiegare il comportamento
del gruppo AMC e, in particolare, la tendenza a indovinare l’interpretazione più coerente sia come
gruppo sia individualmente, dando un risultato chance level. I soggetti dislessici, invece, hanno una
tendenza significativa a scegliere una delle due interpretazioni. L’interpretazione data da Fiorin a
questi risultati è che i bambini dislessici erano capaci di elaborare entrambi i tipi di Forme Logiche
ma tendevano ad evitare il processo di disambiguazione semantica e, nello specifico, di comparare
le due Forme Logiche con l’informazione contestuale. L’ipotesi è che i soggetti dislessici, evitando
il processo di disambiguazione semantica, evitano di mantenere nella memoria operativa verbale
due rappresentazioni semantiche, evitando quindi un sovraccarico della memoria operativa verbale.
I risultati sembrano pertanto essere compatibili con l’ipotesi che la dislessia evolutiva sia
strettamente associata ad un deficit della memoria operativa verbale.
L’ipotesi della memoria operativa verbale, se corretta, avrebbe importanti conseguenze sia
nel capire la natura della dislessia evolutiva, sia per lo sviluppo delle terapie di trattamento del
disturbo. Per prima cosa, l’ipotesi di memoria operativa verbale è utile nel localizzare, sia a livello
cognitivo che neuroanatomico, l’origine del danno che causa il comportamento dislessico. Infatti, le
tecniche di neuroimaging disponibili oggi permettono di localizzare le regioni cerebrali che servono
la memoria operativa verbale e, quindi, le regioni cerebrali che possono essere colpite nei soggetti
dislessici. Inoltre, una migliore comprensione della natura della dislessia potrebbe essere cruciale
per sviluppare programmi di trattamento più efficaci che tengano conto del deficit di memoria.
3.8 Per riassumere
In questo capitolo conclusivo ho voluto soffermarmi sul ruolo esercitato dalla memoria nel
linguaggio, e nello specifico, nei disturbi evolutivi, con particolare riferimento alla dislessia e allo
SLI. In realtà è necessario distinguere diversi tipi di memoria all’interno del sistema cerebrale, dal
momento che, come dimostrano i dati empirici riportati, queste “memorie” possiedono diverse
funzioni e diverse basi neuroanatomiche.
Ho presentato due modelli a mio parere interessanti: il primo è il modello
dichiarativo/procedurale di Ullman, secondo il quale le memorie dichiarativa e procedurale servono
94
anche aspetti del lessico mentale e della grammatica mentale. Entrambi i sistemi cerebrali giocano
ruoli funzionali simili nei domini linguistici e non-linguistici, che dipendono da comuni sostrati
anatomici, fisiologici e biochimici. Inoltre, e questo è il motivo per cui ho inserito nella discussione
questo modello, Ullman sostiene che alcuni disturbi evolutivi e acquisiti del linguaggio potrebbero
essere visti come disturbi che colpiscono le strutture cerebrali alla base di uno dei due sistemi di
memoria. Seguendo le implicazioni dell’ipotesi di deficit procedurale ipotizzato per lo SLI, ho
cercato di estendere e di dare una possibile spiegazione dello stesso tipo di deficit per la dislessia. In
entrambi i disturbi sarebbero, infatti, colpite quelle strutture cerebrali alla base del sistema di
memoria procedurale. Tuttavia i due disturbi, pur essendo simili sotto vari punti di vista, sarebbero
qualitativamente differenti, poichè sarebbero colpite porzioni diverse delle strutture cerebrali alla
base della memoria procedurale.
Il secondo modello che ho proposto è il modello della memoria operativa di Baddeley.
Secondo Baddeley alcuni disturbi evolutivi, tra cui lo SLI e la dislessia, sarebbero originati
specificatamente da una disfunzione della memoria operativa, in particolare della componente
verbale. A questo proposito ho riportato uno studio condotto da un dottorando dell’Università di
Verona, G. Fiorin, il quale propone che la componente verbale della memoria operativa non solo
abbia a che fare con la fonologia, ma anche con altri livelli di rappresentazione linguistica, come il
livello semantico. A questo proposito ho presentato i risultati di un esperimento, che valuta il
processo di disambiguazione semantica nei bambini dislessici rispetto a due gruppi di controllo. I
dati portano ad ipotizzare una disfunzione della memoria operativa verbale nei dislessici, dal
momento che i dislessici hanno difficoltà con il mantenimento nella memoria a breve termine di due
Forme Logiche diverse e con il confronto di queste con l’informazione contestuale, il che risulta in
una tendenza ad evitare il processo di disambiguazione.
95
96
CONCLUSIONE
Lo scopo di questa tesi era di fornire al lettore una visione d’insieme degli studi linguistici
sulla dislessia evolutiva, dagli anni settanta ad oggi, e di presentare i modelli neurolinguistici più
completi e recenti proposti a spiegazione dei sintomi di questo disturbo del linguaggio.
Si parla di disturbo del linguaggio, e non nello specifico di disabilità di lettura, perchè ampi
studi hanno dimostrato che i soggetti dislessici non solo presentano difficoltà nel dominio
fonologico (ritenuto il fattore causale dei problemi nella lettura nei dislessici), ma anche in altri
domini linguistici, come nella morfosintassi. Oggi inoltre, quando si parla di dislessia evolutiva, si
fa spesso riferimento ad un altro disturbo dell’apprendimento: il disturbo specifico del linguaggio.
Nonostante il dibattito sia ancora in corso sulla relazione tra i due disturbi, se siano lo stesso
disturbo o disturbi distinti, si osserva chiaramente che i sintomi di entrambi presentano delle
somiglianze. Di conseguenza la ricerca va avanti esplorando le differenze e i punti di contatto tra i
due disturbi, cercando di fornire le migliori spiegazioni sulle loro origini o sui fattori causali, in
modo da poter lavorare in futuro sui trattamenti di riabilitazione più adatti a superare le difficoltà
negli individui colpiti.
Nonostante le teorie sulla dislessia siano numerose, nessuna sembra in grado di dare una
spiegazione alla varietà di sintomi riscontrati nei soggetti colpiti. In particolare, si tratta di spiegare
non solo un deficit fonologico, ma anche deficit di tipo senso-motorio osservati in una parte degli
individui dislessici, e deficit morfosintattici.
In questa tesi ho presentato due modelli che, a mio parere, riescono a fornire le spiegazioni
più affascinanti e nuovi punti di partenza per la ricerca in questo campo.
Il primo è il modello dichiarativo/procedurale di M. Ullman. Secondo questo modello alcuni
disturbi evolutivi e acquisiti sarebbero la conseguenza di una disfunzione ad uno di due sistemi di
memoria (dichiarativa e procedurale). Nello specifico, la dislessia risulterebbe da un deficit
procedurale, un deficit che colpisce quei sistemi cerebrali che sono alla base della memoria
procedurale (in particolare i gangli basali, la corteccia parietale e il nucleo dentato del cervelletto).
Il deficit procedurale, originariamente, era stato formulato da Ullman e Pierpont per lo SLI.
Seguendo le implicazioni del modello dichiarativo/procedurale e del deficit procedurale, ho cercato
di sostenere l’ipotesi di questo deficit anche per la dislessia evolutiva. Il deficit procedurale
spiegherebbe, oltre ai problemi fonologici, anche i problemi morfo-sintattici. Inoltre, riesce a
spiegare tutte quelle difficoltà di tipo senso-motorio legate all’automaticità di movimenti
sequenziali. Le differenze di severità e qualitative tra dislessia e SLI possono essere spiegate,
97
secondo questo modello, come il risultato di una disfunzione di porzioni diverse delle stesse
strutture cerebrali colpite, quelle alla base del sistema di memoria procedurale.
Il secondo modello che ho presentato è il modello della memoria operativa di A. Baddeley.
Diversi studi dimostrano che la memoria operativa è implicata nel processo di elaborazione del
linguaggio, e un danno a questo modulo cognitivo avrebbe un impatto importante su questa
capacità. Sulla base di queste osservazioni è stato proposto che la dislessia derivi da un danno alla
memoria operativa, nello specifico alla sua componente verbale, ossia al circuito fonologico.
Baddeley, nella presentazione del suo modello, sostiene che il circuito fonologico abbia a
che fare con le rappresentazioni fonologiche. Ho riportato uno studio di G. Fiorin, il quale propone
una versione più estesa del circuito fonologico, basata su evidenze empiriche di diversi studi
recenti, che incorpora anche il livello semantico. Se l’ ipotesi è corretta, i risultati degli esperimenti
condotti sui bambini dislessici dimostrano che in effetti in questi soggetti vi è una disfunzione della
memoria operativa verbale, e nello specifico dimostrano una difficoltà nel mantenimento nella
memoria a breve termine di due rappresentazioni logiche differenti e un’incapacità di svolgere il
processo di disambiguazione semantica richiesto. Tuttavia, il modello di Baddeley sembra non dare
alcuna spiegazione ai deficit di tipo senso-motorio, che, come abbiamo ampiamente visto, sono
presenti in almeno una piccola porzione dei dislessici.
I due modelli rappresentano, a mio parere, due punti di partenza per lo sviluppo di nuove
ricerche e ulteriori studi approfonditi in questo campo. La ricerca ha, quindi, ancora molte e diverse
strade da esplorare e necessita, per fare questo, di una collaborazione tra discipline tra loro diverse
come la Linguistica e la Neurobiologia. Solo in questo modo sarà possibile giungere a nuove e
importanti intuizioni e scoperte nel campo dei disturbi evolutivi e non solo. Una migliore
comprensione della natura della dislessia evolutiva e degli altri disturbi evolutivi potrebbe essere
cruciale per ottenere dei miglioramenti nei programmi riabilitativi per i soggetti colpiti.
98
RINGRAZIAMENTI
La mia esperienza universitaria sta per concludersi ed è doveroso da parte mia rivolgere i
miei più sentiti ringraziamenti alle persone che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito al
raggiungimento di questo grande traguardo.
Ringrazio sentitamente tutti i miei docenti della laurea specialistica e in particolar modo il
mio relatore, Denis Delfitto, che ha saputo coinvolgermi nell’affascinante mondo del linguaggio e
con pazienza ha dedicato parte del suo tempo a correggere le pagine della mia tesi. Un
ringraziamento speciale è rivolto a Gaetano Fiorin per i suoi preziosi suggerimenti e per il tempo
che mi ha dedicato in questi ultimi mesi durante la stesura della tesi. Grazie anche a Maria Vender,
compagna di studi e amica, che mi ha sostenuto in questo mio progetto, e grazie a Francesca
Cuoghi, che dalla lontana Germania mi è sempre stata vicina con le sue lunghissime e
piacevolissime e-mail.
Un grazie che proviene dal profondo del cuore va a tutta la mia famiglia, senza il loro
sostegno non avrei fatto molta strada...grazie Luca, che da Parigi hai alleggerito molti pensieri!
Grazie mamma e papà, mi avete sempre dato tutto quello di cui avevo bisogno, e molto di più!
Grazie Birba, Cleo e la piccola Milù: una irrinunciabile pet-therapy soprattutto nei momenti di
stress!
E per ultimo il mio grazie è rivolto a Federico, che mi ha accompagnato in questo percorso e
con premura mi ha incoraggiato sempre. Grazie di tutto!
99
100
BIBLIOGRAFIA
Adams, A-M., & Gathercole, S.E. (1996). Phonological working memory and spoken language
development in young children. Quarterly Journal of Experimental Psychology, Special
Issue on Working Memory, 49A (1), 216-233.
Adams, A-M., & Gathercole, S.E. (2000). Limitations in working memory: Implications for
language development. International Journal of Language and Communication Disorders,
35, 95-116.
Alloway, T.P., Gathercole, S.E., Willis, C. & Adams, A-M. (2004). A structural analysis of working
memory and related cognitive skills in young children. Journal of Experimental Child
Psychology, 87: 85-106.
Baddeley, A.D. (1986). Working memory. Oxford: Clarendon Press.
Baddeley, A.D. (1996). The psychology of memory. In A.D. Baddeley, B.A. Wilson & F.N. Watts
(eds.), Handbook of memory disorders. Chichester: John Wiley & Sons.
Baddeley, A.D. (2000). The episodic buffer: A new component of working memory? Trends in
Cognitive Sciences, 4, 417-423.
Baddeley, A.D. (2003). Working memory and language: an overview. Journal of Communication
Disorders, 36: 189-208.
Baddeley, A.D., & Hitch, G.I. (1974). Working memory. In G. Bower (Ed.), The psychology of
learning and motivation (Vol. 8, pp. 47-90).
Bedny , M., Hulbert, J. C., Thompson-Schill, S. L. (2007) Understanding words in context: The role
of Broca's area in word comprehension. Brain Research 1146:101-114.
Bishop, D.V.M. (1992). The underlying nature of specific language impairment. Journal of Child
Psychology and Psychiatry, 33, 3-66.
Bishop, D.V.M. (1997). Uncommon understanding. Developmental and disorders of language
comprehension in children. Hove: psychology Press.
Bishop, D.V.M. & Edmundson, A. (1987). Language-impaired four-year-olds: Distinguishing
transient from persistent impairment. Journal of Speech and Hearing Disorders, 52, 156173.
Bishop, D.V.M. & Snowling, M.J. (2004). Developmental dyslexia and specific language
impairment: the same or different? Psychological Bulletin, 130, 858-886.
101
Blake, J., Austin, W., Cannon, M., Lisus, A., & Vaughan, A. (1994). The relation between memory
span and measures of imitative and spontaneous language complexity in preschool children.
International Journal of Behavioural Development, 17, 91-107.
Bloom, L. (1993). The transition from infancy to language: Acquiring the power of expression.
Cambridge: Cambridge University Press.
Bock, J.K., & Levelt, W. (1994). Language production: Grammatical encoding. In M.A.
Gernsbacher (ed.), Handbook of psycholinguistics, 945-983. San Diego: Academic Press.
Bol, G.W., De Jong, J. (1992). Auxiliary verbs in Dutch SLI children. Scandinavian Journal of
Logopedics & Phoniatrics, 17, 17-21.
Botting, N., & Conti-Ramsden, G. (2001). Non-word repetition and language development in
children
with
specific
language
impairment
(SLI).
International
Journal
and
Communication Disorders, 36, 421-432.
Bryant, P. (1995). Phonological and grammatical skills in learning to read. In de Gelder, B. and
Morais, J., editors, Speech and Reading. A Comparative Approach. Erlbaum Taylor &
Francis, Hove.
Byrne, B. (1981). Deficient syntactic control in poor readers: Is a weak phonetic memory code
responsible? Applied Psycholinguistics, 2, 201-212.
Carrol, J.M. & Snowling, M.J. (2004). Language and phonological skills in children at high risk of
reading difficulties. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 45, 631-640.
Catts, H.V. (1989). Defining dyslexia as a developmental language disorder. Annals of Dyslexia,39,
50-64.
Catts, H.V. (1995). Early language impairments and developmental dyslexia. Dyslexia, 1, 51-53.
Catts, H.W., Hu, C-F., Larrivee, L. & Swank, L. (1994). Early identification of reading disabilities
in children with speech-language impairments. In R. Watkins & M. Rice (eds.). Specific
language impairments in children. Baltimore: Paul H Brookes, 145-160.
Catts, H.V., Adlof, S.M., Hogan, T.P., & Ellis Weismer, S. (2005). Are specific language
impairment and dyslexia distinct disorders? Journal of Speech,Language and Heaing
Research, 48, 1378-1396.
Chomsky, N. (1995). The Minimalist Program. MIT Press, Cambridge, MA.
Cipriani, P., Bottari, P., Maria, A., Pfanner, C.L. (1998). A longitudinal perspective on the study of
specific language impairment: The long term follow up of an Italian child. International
Journal of Language & Communication Disorders, 33(3), 245-280.
Clahsen, H. (1989). The grammatical characterisation of developmental dysphasia. Linguistics, 27,
897-920.
102
Cohen, N.J., Vallance, D.D., Barwick, M., Im, N., Menna, R., Horodezky, N.B., Isaacson, L.
(2000). The interface between ADHD and language impairment: an examination of
language, achievement, and cognitive processing. Journal of child Psychology and
Psychiatry, 42(3), 353-362.
Crain, S. and Thornton, R. (1998). Investigations in Universal Grammar: A Guide to Experiments
on the Acquisition of Syntax and Semantics. MIT Press, Cambridge, MA.
De Bree, E. (2007). Dyslexia and Phonology: a Study of the Phonological Abilities of Dutch
Children At-risk of Dyslexia. University of Utrecht. LOT Dissertation Series.
De Fries, J.C. , & Alarcon, M. (1996). Genetics of Specific Reading Disability. Mental Retardation
and Developmental Disabilities, 2, 39-47.
Denays, R., Tondeur, M., Foulon, M., Verstraeten, F., Ham, H., Piepsz, A., & Noel, P. (1989).
Regional brain blood flow in congenital dysphasia: Studies with technetium-99m HM-PAO
SPECT. Journal of Nuclear Medicine, 30, 1825-1829.
Denkla, M.B., (1996). Biological correlates of learning and attention: what is relevant to learning
disability and attention-deficit hyperactivity disorder. Developmental and Behavioural
Pediatrics. 17(2), 114-119.
Desroches, A.S., Joanisse, M.F., and Robertson, E.K. (2006). Specific phonological impairments in
dyslexia revealed by eyetracking. Cognition, 100: B32-B42.
Diamond, A., (2000). Close interrelation of motor development and cognitive development and of
the cerebellum and prefrontal cortex. Child development. 71(1), 44-56.
Eisenmajer, N., Ross, N., & Pratt, C. (2005) Specificity and characteristics of learning disabilities.
Journal of Child Psychology & Psychiatry, 46, 1108-1116.
Elbro, C. (1996). Early linguistic abilities and reading development: A review and a hypothesis.
Reading and writing: An interdisciplinary Journal, 8, 453-485.
Fiorin, G. (2008). Anaphoric Processing in Dyslexia: An Experimental Perspective. Ms, Uniersità
degli Studi di Verona, Utrecht.
Fiorin, G. (2008). The resolution of ambiguous pronominal expressions in developmental dyslexia.
Ms, Università degli Studi di Verona, Utrecht.
Flax, J.F., Realpe-Bonilla, T., Hirsch, L.S., Brzustowicz, L., Bartlett, C.W., & Tallal, P. (2003).
Specific language impairment in families: evidence for co-occurrence with reading
impairments. Journal of Speech, Language and Hearing Research, 46, 530-543.
Fraser, J. & Conti-Ramsden, G. (2005). Exploring the overlap between reading and language
disorders. Poster presented at the SSSR conference, Toronto, 24-26 June 2005.
103
Galaburda, A. M., Sherman, G.F., Rosen, G.D., Aboitiz, F., & Geschwind, N. (1985).
Developmental dyslexia: four consecutive patients with cortical anomalies. Annals of
Neurology, 18(2), 222-233.
Gallagher, A. & Frith, U. & Snowling, M.J. (2000). Precursors of literacy delay among children at
genetic risk of dyslexia. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 41, 203-213.
Gathercole, S. E. & Alloway, T.P. (2006). Practitioner Review: Short-term and working memory
impairments in neurodevelopmental disorders: diagnosis and remedial support. Journal of
Child Psychology and Psychiatry 47(1): 4-15.
Gathercole, S.E., Alloway, T.P., Willis, C., Adams, A-M. (2006). Working memory in children
with reading disabilities. Journal of Experimental Child Psychology, 93(3): 265-281.
Gathercole, S. & Baddeley, A.D. (1990). Phonological memory deficits in language disordered
children: Is there a causal connection? Journal of Memory and Language, 29, 336-360.
Gathercole, S. & Baddeley, A.D. (1993). Working Memory and Language, Lawrence Erlbaum
Associates, Inc., Hillsdale, New Jersey.
Gopnik, M. (1990). Feature blindness: a case study. Language Acquisition, 1, 139-164.
Gopnik, M. & Crago, M. (1991). Familial aggregation of a developmental language disorder.
Cognition, 39, 1-50.
Goswami, U. (2000). Phonological representations, reading development and dyslexia: Towards a
cross-linguistic theoretical framework. Dyslexia, 6, 133-151.
Goulandris, N.K., Snowling, M.J., & Walker, I. (2000). Is dyslexia a form of specific language
impairment? A comparison of dyslexic and language impaired children as adolescents.
Annals of Dyslexia, 50, 103-120.
Grigorenko, E.L. (2003). The first candidate gene for dyslexia. PNAS 100, 11190-11192.
Grodzinsky, Y. 2005. Syntactic dependencies as memorized sequences in the brain. Canadian
Journal of Linguistics.
Guasti, M.T. (2002). Language acquisition, the growth f grammar. Cambridge Massachussetts, The
MIT Press.
Hallgren, B. (1950). Specific dyslexia (‘congenital word-blindness’): a clinical and genetic study.
Acta Psychiat. Neurol. Scand. 65, 1-287.
Hanten, G. and Martin R. (2000). Contributions of phonological and semantic short-term memory
to sentence processing: Evidence from two cases of closed head injury in children. Journal
of Memory and Language. 43: 335–361.
Jeffries, S.A., & Everatt, J.E. (2003). Differences between dyspraxics and dyslexics in sequence
learning and working memory. Dyspraxia foundation Professional Journal, 2, 12-21.
104
Joanisse, M. F., et al. (2000). Language deficits in dyslexic children: speech perception, phonology,
and morphology. Journal of Experimental Child Psychology, 77, 30-60.
Johnson, C.J., et al. (1999). Fourteen-year follow-up of children with and without speech/language
impairments. Journal of Speech, Language and Hearing Research, 42, 744-760.
Johnston, J.. (1994). Cognitive abilities of children with language impairment. In: R. V. Watkins &
M.L. Rice (eds.), Specific language impairment in children. Baltimore, MA: Brookes.
Jong, J. de (1999). Specific Language Impairment in Dutch: Inflectional morphology and argument
structure. Doctoral dissertation. University of Groningen.
Just, M.A., & Carpenter, P.A. (1992). A capacity theory of comprehension: Individual differences
in working memory. Psychological Review, 98, 122-149.
Kahmi, A.G. & Catts, H.W. (1986). Towards an understanding of language and reading disorders.
Journal of Speech and Hearing Research, 51, 337-347.
Kirtley, C., Bryant, P., Maclean, M. & Bradley, L. (1989). Rhyme, rime, and the onset of reading.
Journal of Experimental Child Psychology, 48, 224-245.
Leonard, L., B. (1998). Children with specific language impairment. Cambridge Massachusetts:
MIT Press.
Lubs, H.A., Rabin, M., Feldman, E., Jallad, B.J., Kushch, A., Gross-Glenn, K., Duara, R. (1993).
Familial dyslexia: genetic and medical findings in eleven three-generation families. Annals
of Dyslexia, 43, 44-60.
Lyytinen, P., Poikkeus, A-M., Laakso, M-L., Eklund, K., & Lyytinen, H. (2001). Language
development and symbolic play in children with and without familial risk of dyslexia.
Journal of Speech, Language and Hearing Research, 44 (4), 873-885.
Mann, V.A., Shankweiler, D.P., & Smith, S.T. (1984). The association between comprehension of
spoken sentences and early ability: the role of phonetic representation. Journal of Child
Language, 11: 627-643.
Marien, P., Engelborghs, S., Fabbro, F., De Deyn, P.P. (2001). The lateralized linguistic
cerebellum: a review and a new hypothesis. Brain and Language, 79(3), 580-600.
McArthur, G.M., Hogben, J.H., Edwards, V.T., Heath, S.M., & Mengler, E.D. (2000). On the
‘specifics’ of specific reading disability and specific language impairment. Journal of Child
Psychology and Psychiatry, 41, 869-874.
McLoughlin, D. et al. (2002). The adult dyslexic. Interventions and Outcomes. London: Whurr.
Menon, V., Anagnoson, R.T., Glover, G.H., & Pfefferbaum, A. (2000). Basal ganglia involved in
memory-guided movement sequencing. NeuroReport, 11(16), 3641-3645.
105
Metzler, C., (2001). Effects of left frontal lesions on the selection of context-appropriate meanings.
Neuropsychology 15(3):315–328.
Neville, H., Nicol, J.L., Barss, A., Forster, K.I., Garret, M.F. (1991). Syntactically based sentence
processing classes:
evidence from event-related brain potentials. Journal of Cognitive
Neuroscience, 3(2), 151-165.
Nicolson, R.I., Fawcett, A.J. (1994). Balance, phonological skills, and dyslexia. Quarterly Journal
of Experimental Psychology, 47A: 29-48.
Orton, S.T. (1937). Reading, writing and speech problems in children. New York: Norton.
Pickering, S. (2000). Working memory and Dyslexia. Lecture notes produced for MRC Working
Memory and Learning Disability Programme. University of Bristol. Cited in T. Mortimore
(2003) Dyslexia and Learning Style. A Practitioner’s Handbook. London: Whurr.
Pinker, S. (1984). Language learnability and language development. Cambridge, MA: Harvard
University Press.
Puranik, C.S., Lombardino, L.J., & Altmann, L.J. (2007). Writing through retellings: An
exploratory study of language-impaired and dyslexic populations. Reading and Writing: An
Interdisciplinary Journal, 20, 251-272.
Ramus, F. (2001). Outstanding questions about phonological processing in dyslexia. Dyslexia, 7,
197-216.
Ramus, F. (2003). Developmental dyslexia: Specific phonological deficit or general sensorimotor
dysfunction? Current opinion in Neurobiology, 13, 212-218.
Rice, M. L., Wexler, K., & Cleave, E.D. (1995). Specific language impairment as a period of
extended optional infinitive. Journal of Speech and Hearing Research, 38, 850-863.
Rice, M.L., Wexler, K, Haney, K.R. (1998). Family historie of children with SLI who show
Extended Optional Infinitives. Journal of Speech, Language and Hearing Research, 41,
419-432.
Richards, T.L., Aylward, E.H., Berninger, V.W., Field, K.M., Grimme, A.C., Richards, A.L., &
Nagy, W. (2006). Individual fMRI activation in orthographic mapping and morpheme
mapping after orthographic or morphological spelling treatment in child dyslexics. Journal
of Neurolinguistics, 19, 56-86.
Rispens, J. (2004). Syntactic and phonological processing in developmental dyslexia. Doctoral
dissertation, University of Groningen.
Rosen, G.D., Sherman, G.F., & Galaburda, A.M. (1993). Neuronal subtypes and anatomic
asymmetry: changes in neuronal number and cell-packing density. Neuroscience, 56(4),
839-900.
106
Rutter, M., & Maughan, B. (2002). School effectiveness findings 1979-2002. Journal of Child
Psychology, 40, 451-475.
Scarborough, H.S. (1990). Very early language deficits in dyslexics children. Child development,
61, 1728-1743.
Schütze, C., & Wexler, K. (1996). Subject case licensing and English root infinitives, in A.
Stringfellow, D. Cahana-Amitay, E. Hughes & A. Zukowsky (eds.) Proceeding of the 20th
Boston University Conference on Language Development, 2, 670-681. Somerville, MA:
Cascadilla Press.
Shaywitz, S. (2003). Overcoming dyslexia: a new and complete science-based program for reading
problems at any level. Random House, Inc.
Siegal, L. S., & Linder, B. A. (1984). Short-term memory processes in children with reading and
arithmetic learning disabilities. Developmental Psychology, 20: 200–207.
SLI Consortium. (2002). A genome-wide scan identifies two novel loci involved in specific
language impairment (SLI). American Journal of Human Genetics, 70, 384-398.
SLI Consortium. (2004). Highly significant linkage to SLI1 locus in an expanded sample of
individuals affected by specific language impairment (SLI). American Journal of Human
Genetics, 94, 1225-1238.
Smith. E.E. and A. Geva (2000).Working memory and its connection to language processing. In Y.
Grodzinsky, L. Shapiro & D. Swinney, eds., Language and the Brain: Representation and
Processing. San Diego: Academic Press, pp. 123-141.
Snowling, M.J., (2000). Language and literacy skills: who is at risk and why? In D.V.M. Bishop
and Leonard (eds.) Speech and language impairments in children: Causes, characteristics,
intervention and outcome. Hove: Psychology Press, 245-259.
Snowling, M.J. (2001). From language to reading to dyslexia. Dyslexia, 7, 37-46.
Stanovich, K. E., Cunningham, A. E., & Freeman, D. J. (1984). Intelligence, cognitive skills and
early reading progress. Reading Research Quarterly, 19, 278–303.
Stein, J., Cairns, H.S., & Zurif, E. (1984). Sentence comprehension limitations related to syntactic
deficits in reading disable children. Applied Psycholinguistics, 5, 305-321.
Stein, J., Walsh, V. (1997). To see but not to read; The magnocellular theory of dyslexia. Trends in
Neuroscience, 20, 147-152.
Stevenson, J., Graham, P., Fredman, G., & McLoughlin, V. (1987). A twin study of genetic
influences on reading and spelling ability and disability. Journal of Child Psychology and
Psychiatry, 28, 229-247.
107
Suk-Han Ho, C., Pui-Sze Law, T. & Man Ng, p. (2000). The phonological deficit hypothesis in
Chinese developmental dyslexia. Reading and Writing: An Interdisciplinary Journal, 13, 5779.
Swan, D., Goswami, U. (1997). Phonological awareness deficits in developmental dyslexia and the
phonological representations hypothesis. Journal of Experimental Child Psychology, 66, 1841.
Szenkovits, G. & Ramus, F. (2005). Exploring dyslexics’ phonological deficit I: lexical vs. sublexical and input vs. output processes. Dyslexia, 11, 253-268.
Taipale, M. et al. (2003). A candidate gene for developmental dyslexia encodes a nuclear
etratricopepetide repeat domain protein dynamically regulated in brain. Proceedings of the
National Academy of Science, 100, 11553-8.
Tallal et al. (1993). Neurobiological basis of speech: a case for the pre-eminence of temporal
processing. Annals of the New York Academy of Sciences, 682, 27-47.
Tallal, P., Allard, L., Miller, S., & Curtiss, S. (1997a). Academic outcomes of language impaired
children. In C. Hulme and M. Snowling (eds.) Dyslexia: Biology, cognition, and
intervention. London: Whurr, 167-181.
Tallal, P., Miller, S.L., Jenkins, W.M., & Merzenich, M. (1997b). The role of temporal processing
in developmental language-based learning disorders: Research and clinical implications. In
B. Blachman (ed) Foundations of reading acquisition and dyslexia: Implications for early
intervention. Mahwah: Lawrence Erlbaum, 49-66.
Temple, E. (2002). Bain mechanism in normal dyslexics readers. Current opinion in Neurobiology,
12, 178-183.
Thompson-Schill, S. L. (2003). Neuroimaging studies of semantic memory: Inferring “how” from
“where.” Neuropsychologia 41(3):280–292.
Tirosh, E. & Cohen, A. (1998). Language deficit with an attention deficit disorder: a prevalent
comorbidity. Journal of Child Neurology. 13(10), 493-497.
Tomblin, J.B., & Buckwalter, P. (1998). Hereditability of poor language achievement among twins,
Journal of Speech, Language and Hearing Research, 41, 188-199.
Ullman, M.T. (2004). Contributions of memory circuits to language: the declarative/procedural
model. Cognition, 92:231-270.
Ullman, M.T., Gopnik, M. (1999). Inflectional morphology in a family with inherited specific
language impairment. Applied Psycholinguistics, 20(1), 51-117.
Ullman, M. and Pierpont, E.I. (2005). Specific language impairment is not specific to language: the
Procedural deficit hypothesis. Cortex, 41:399-433.
108
Van Alphen, P., de Bree, E., Gerrits, E., de Jong, J., Wilsenach, C., & Wijnen, F. (2004). Early
Language Development in Children with a Genetic Risk of Dyslexia. Dyslexia, 10 (4), 265288.
Van der Lely, H.K.J. (1998). SLI in children: Movement, economy and deficits in the
computational-syntactic system, Language Acquisition, 7, 161-192.
Van der Lely, H.K.J. & Battel, J. (2003). Wh-movement in children with grammatical SLI.
Language, 79, 153-181.
Van der Lely, H.K.J. & Stollwerck, L. (1996). A grammatical specific language impairment in
children: An autosomal dominant inheritance? Brain and Language, 52, 484-504.
Van der Lely, H.K.J., Ullman, M. (2001). Past tense morphology in specifically language impaired
and normally developing children. Language and Cognitive Processes, 16(2), 177-217
Vellutino, F.R., (1979). Dyslexia: Theory and Research. Cambridge Massachusetts: MIT Press.
Waltzman, D., & Cairns, H. (2000). Grammatical Knowledge of third grade good and poor readers.
Applied Psycholinguistics, 21, 263-284.
Wexler, K. (1994). Optional infinitives, head movement and the economy of derivations. In D.
Lightfoot & N. Hornstein (eds.), Verb movement. Cambridge: Cambridge University Press.
Wexler, K., Schütze, C.T., Rice, M. (1998). Subject-case in children with SLI and unaffected
controls: evidence for the Agr/Tns omission model. Language acquisition, 7, 317-344.
White, S., Milne, E., Rosen, S., Hansen, P., Swettenham, J., Frith, U., Ramus, F. (2006). The role of
sensorimotor impairments in dyslexia: A multiple case study of dyslexic children.
Developmental Science: 9(3), 237-269.
Whitehurst, G.J., & Loningan, C.J. (1998). Child Development and Emergent Literacy. Child
Development, 69, 848-872.
Wilsenach, C. (2006). Syntactic processing in developmental dyslexia and in specific language
impairment. Doctoral dissertation, Utrecht University.
Wilsenach, C., & Wijnen, F. (2003). Perceptual sensitivity to morphosyntactic agreement in
language learners: A longitudinal investigation of Dutch children at risk for developmental
dyslexia. Paper presented at BUCLD 28.
Wolff, P. H., Cohen, C., & Drake, C., (1984). Impaired motor timing control in specific reading
retardation. Neuropsychologia, 22(5), 587-600.
Zempleni, M.-Z., Renken, R., Hoeks, J. C. J., Hoogduin, J. M., and Stowe, L. A. (2006) Semantic
ambiguity processing in sentence context: Evidence from event-related fMRI. NeuroImage
34:1270–1279.
109
110