appunti di fiscalità internazionale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO
Facoltà di economia
APPUNTI DI FISCALITÀ INTERNAZIONALE
PROF. STEFANO PETRECCA
Anno accademico 2011 - 2012
INDICE
1. INTRODUZIONE
2. NOZIONE DI DIRITTO TRIBUTARIO - CENNI
3. POTESTÀ IMPOSITIVA NEI RAPPORTI TRA STATI
4. CRITERI DI COLLEGAMENTO REALI E PERSONALI
5. CRITERIO DI COLLEGAMENTO PERSONALE: LA NOZIONE DI RESIDENZA FISCALE
6. LA DOPPIA IMPOSIZIONE
7. NOZIONE DI FISCALITA’ INTERNAZIONE
8. LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE TRIBUTARIO
9. LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI CONTRO LA DOPPIA IMPOSIZIONE
10. CATEGORIE REDDITUALI E CRITERI DI COLLEGAMENTO
11. METODI PER RISOLVERE I CASI DI SOPPIA IMPOSIZIONE GIURIDICA
12. IMPRESA E STABILE ORGANIZZAZIONE
13. LA PROCEDURA AMICHEVOLE
14. LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI
15. I PARADISI FISCALI
16. L’INDEDUCIBILITA’ DEI CORRISPETTIVI PAGATI AD IMPRESE LOCALIZZATE IN
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PARADISI FSICALI
17. CFC
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1.
INTRODUZIONE
La crescente apertura dei mercati delle merci e dei fattori ha accresciuto
l’interesse per l’analisi delle interdipendenze fra le politiche fiscali dei singoli paesi. E'
opinione diffusa che la competizione fiscale sia uno dei fattori di cambiamento più
rilevanti. Spesso si sostiene che la necessità di attrarre basi imponibili e di non
pregiudicare la competitività dei prodotti nazionali imponga un ridimensionamento
della pressione fiscale, una riduzione della progressività e un maggiore coordinamento
delle politiche fiscali a livello internazionale.
Da qui diversi Stati hanno iniziato ad attuare una politica volta ad incentivare sul
piano fiscale gli investimenti delle imprese stranere. Quest’ultime, dal canto loro,
hanno col il tempo provveduto a raffinare le tecniche di pianificazione fiscale volte ad
usufruire di regimi fiscali più vantaggiosi.
La pianificazione fiscale può essere definita come ricerca e applicazione di
norme, trattati, convenzioni nell’ottica di minimizzare il costo fiscale connesso
all’esercizio di un’attività d’impresa. La riduzione della pressione fiscale in questo
modo avviene non attraverso l’occultamento di redditi imponibili (il che darebbe luogo
ad evasione fiscale), né attraverso il ricorso a costruzioni tecnico-giuridiche
completamente avulse da qualsiasi esigenza economica (il che avvicinerebbe le
operazioni dell’imprenditore all’elusione fiscale), ma attraverso il rispetto totale delle
normative civilistiche e fiscali nazionali ed internazionali1.
In tale ottica occorre ricordare che esiste una pianificazione fiscale nazionale,
volta ad utilizzare al meglio le differenze che attengono alla tassazione delle persone
fisiche e delle persone giuridiche, nonché le varie modalità impositive scelte dalla
legislazione fiscale nazionale in relazione alle differenti tipologie di reddito ma esiste
1
Il concetto di pianificazione fiscale d’impresa ha una finalità molto simile alla “politica di bilancio” del
diritto commerciale. Attraverso il c.d. tax planning, invero, la società programma sulla base del quadro
normativo di riferimento, le scelte fiscali più opportune e più convenienti per cercare, quanto più
possibile, di ridurre l’incidenza anche solo finanziaria della componente fiscale sul proprio conto
economico. Affinché tuttavia possa essere elaborato un programma di pianificazione fiscale risulta
importante oltre che una diretta conoscenza della normativa fiscale di riferimento anche un’attenta analisi
dello scenario in cui l’impresa si dovrà muovere, tenendo in considerazione in particolare l’attività svolta
dall’impresa, le sue caratteristiche strutturali ed i suoi obbiettivi nel medio e lungo periodo.
2
anche una pianificazione fiscale internazionale, per le aziende di maggiori dimensioni,
che tiene conto delle differenze che esistono nelle legislazioni fiscali nazionali degli
Stati e va combinata con le esigenze di delocalizzazione dell’attività economica, legate
anche alla globalizzazione dei mercati di riferimento. In un contesto internazionale che
va caratterizzandosi per una crescente liberalizzazione dei fattori produttivi, la variabile
fiscale viene a giocare infatti un ruolo sempre più rilevante nella localizzazione degli
investimenti.
Prima di analizzare come la fiscalità internazionale impatti sulla pianificazione
fiscale delle aziende è bene fare un passo indietro per capire come operi la variabile
fiscale nei rapporti tra Stati e, più in generale, nel processo di globalizzazione dei
mercati.
2.
NOZIONE DI DIRITTO TRIBUTARIO - CENNI
Storicamente è difficile ipotizzare una struttura sociale che non necessiti di fonti
di finanziamento delle spese connesse all’assolvimento delle propri funzioni.
Già all’epoca della civiltà romana erano infatti previste forme di imposizione ai fini del
reperimento delle risorse finanziarie necessarie alla gestione della cosa pubblica
essendo già introdotti istituti come il tributum ed il vectigal. Il primo era configurato
alla stregua di un’imposta diretta, proporzionale, sul patrimonio dei sudditi, mentre i
vectigalia venivano corrisposti sulla base di presupposti eterogenei per lo più legati allo
sfruttamento del demanio pubblico.
Il diritto tributario nasce come branca del diritto che attiene al complesso di
norme che presiedono all’istituzione ed all’attuazione delle diverse misure di prelievo
adottate dai singoli Stati (tributi, tasse, imposte, contributi, ecc.).
Nell’accezione comune di alcuni degli istituti propri del diritto tributario, quali
tributi, imposta, tassa, contributo, l’elemento ricorrente è rappresentato dal riferimento
all’esercizio di un potere di supremazia, rispetto al quale la volontà del soggetto tenuto
all’adempimento dell’obbligo non presenta rilevanza determinante.
Fino all’avvento dello Stato moderno, cioè di un’organizzazione sociale che
assumesse tutte le funzioni pubbliche connesse alla garanzia della civile convivenza dei
cittadini, non si sentiva la necessità di una dettagliata regolamentazione giuridica della
partecipazione individuale ai carichi pubblici, in quanto tale partecipazione risulta
quantitativamente poco rilevante rispetto ad altre forme di reperimento delle risorse
finanziarie. Anzi, nella struttura del c.d. Stato assoluto, il patrimonio personale del
sovrano coincideva con la finanza pubblica e il tributo ne rappresentava la logica
esternazione e uno degli strumenti di incremento.
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Con l’affermarsi dei principi dello stato moderno, tra cui quello che vedeva nella
funzione impositiva il principale strumento di raccolta finanziaria destinata al
sostenimento delle spese pubbliche, si giunge ad un rafforzamento della posizione
dell’individuo nei confronti dell’autorità espressa dall’organizzazione sociale e,
correlativamente, si comincia a sentire la necessità di una regolamentazione giuridica,
in linea con i progressi della scienza giuridica negli altri campi della conviveva civile,
anche della funzione impositiva. Nasce e si sviluppa il diritto tributario.
Il diritto tributario ha ad oggetto lo studio, l’istituzione e l’attuazione del tributo.
Cos’è il tributo? Secondo la definizione elaborata in dottrina ed in giurisprudenza il
“tributo” è una prestazione patrimoniale imposta finalizzata al concorso delle pubbliche
spese e senza il concorso della volontà individuale (elemento della coattività).
Le forme di prelievo che vengono adottate dai singoli Stati hanno diversa natura e
struttura: l’imposta è il tributo acasuale per definizione (lo stesso viene corrisposto
senza una specifica contropartita a favore del contribuente) mentre negli altri tributi la
controprestazione si manifesta nell’impulso all’avvio di un procedimento
amministrativo (tassa), nel concorso alla spesa pubblica vantaggiosa per il privato
(contributo speciale) o nel divieto generalizzato all’esercizio di un’attività economica
riservata all’ente monopolista (monopolio fiscale).
Al di là di tali differenze tutti i tributi sono caratterizzati dall’elemento della
coattività in quanto frutto del potere impositivo dello Stato (ossia del potere dello Stato
di reperire mezzi finanziari attraverso l’introduzione di forme di prelievo a carico di
tutti i cittadini).
3.
POTESTÀ IMPOSITIVA NEI RAPPORTI TRA STATI
Nel diritto internazionale pubblico la sovranità dei singoli Stati è generalmente
intesa nel senso che ciascuno Stato può disciplinare le attività che si svolgono entro il
proprio territorio senza essere vincolato in alcun modo e, per converso, nel senso che
nessuno Stato (salvo deroghe specifiche) può esercitare la propria attività in territorio
straniero.
Questa concezione della sovranità territoriale ha trovato in materia tributaria, in
epoche passate, espressone nella dottrina della “territorialità dell’imposta” secondo cui
anche la sovranità tributaria era territorialmente limitata.
Secondo un’efficace immagine le sovranità impositive dei singoli Stati avrebbero
rappresentato la coesistenza di più “chassè guardèe” (riserve di caccia) entro le quali,
ma non otre le quali, le singole leggi tributarie esplicavano i propri effetti.
Questo principio della territorialità dell’imposta comportava che uno Stato dotato
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di sovranità territoriale tassava esclusivamente i redditi prodotti entro il proprio
territorio (da soggetti residenti o non residenti), ma non tassava i redditi prodotti fuori
dal proprio territorio (nemmeno se da propri residenti), col risultato che ogni Stato
tendeva ad avere una sovranità territorialmente autonoma che non si sovrapponeva a
quella degli altri Stati (concezione monocratica ed esclusivista dell’economia per cui se
occorrevano ulteriori risorse si tentava la conquista di nuovi territori).
La sempre maggiore crescita degli investimenti internazionali ha però reso
opportuno distinguere tra determinazione dello spazio nel quale la legge tributaria ha
effetto (“efficacia” o “territorialità” della legge tributaria) e determinazione dei fatti che
essa può regolare (“estensione” od “ultraterritorialità” della legge tributaria).
Da un lato, esistono infatti norme statuali attinenti alla efficacia della legge
tributaria esclusivamente entro il territorio dello Stato; dall’altro lato, esistono norme
attinenti alla estensione della legge tributaria che definiscono i criteri in base ai quali
una certa fattispecie può essere oggetto di norme interne, indipendentemente dalla
localizzazione territoriale della stessa, e quindi anche se essa è posta in essere fuori dal
territorio dello Stato.
L’esempio più evidente di ultraterritorialità della legge tributaria è la tassazione
dei residenti sui redditi ovunque prodotti da parte dello Stato della residenza che applica
la propria legge tributaria anche sui redditi prodotti fuori dal territorio dello Stato stesso
(principio del c.d. worldwide income taxation).
La legge tributaria ha quindi anche natura “ultraterritoriale”, nel senso che le
norme interne dello Stato possono avere ad oggetto presupposti, anche avvenuti in
territorio straniero, purché il soggetto cui questi sono riferibili abbia una qualche
connessione con l’ordinamento giuridico dello Stato che ne giustifichi la pretesa. Lo
Stato quindi per esercitare la potestà impositiva deve individuare un criterio di
collegamento tra la fattispecie e lo Stato stesso.
Si noti al riguardo che ogni Stato, poiché dotato di sovranità originaria e non
dipendente, ha il potere di adottare qualsivoglia criterio di collegamento, anche il più
tenue. In concreto però i criteri di collegamento su cui si fondano le pretese impositive
degli Stati tendono a rapportarsi ai moduli della residence taxation (collegamento
personale) e sorce taxation (collegamento reale) basandosi su un criterio di
ragionevolezza che deriva dal fatto che le pretese stesse operano in uno scenario
internazionale di rapporti internazionali, nel quale i giochi della cooperazione danno
esito migliore dei giochi di conflitto.
Quindi in genere con riguardo ad un determinato Stato i soggetti possono avere un
collegamento di natura personale, e cioè possono essere fiscalmente residenti, oppure
non residenti in tale Stato a seconda che questo collegamento sussista o non sussista.
Quindi, dal punto di vista di un determinato stato – ad esempio l’Italia – i redditi
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tassabili sono “i redditi prodotti all’estero” da soggetti residenti in questo stato (“foreign
income”), oppure i “redditi prodotti in Italia” da soggetti non residenti in questo stesso
Stato (“domestic income”). Nel primo caso lo stato in questione è denominato “Stato
della residenza”, ha una potestà impositiva “illimitata” e tassa i redditi dei propri
residenti ovunque prodotti (cd. “worldwide taxation”); nel secondo caso lo Stato in
questione è denominato “Stato della fonte”, ha una potestà impositiva “limitata” e tassa
i redditi dei non residenti soltanto se hanno la fonte nel territorio dello Stato stesso (cd.
“sorce taxation”).
In assenza di imposizione, nell’ipotesi di soggetti residenti in uno Stato (della
residenza) che operano investimenti in un altro Stato (della fonte) il reddito derivante
dagli investimenti affluisce nello Stato della residenza e costituisce un “guadagno
nazionale” per lo stesso Stato della residenza. Se, invece, lo Stato della fonte impone un
tributo sul reddito ivi prodotto il guadagno nazionale spettante allo Stato della residenza
è diminuito in misura corrispondente al prelievo effettuato dallo stato della fonte (cd.
“perdita globale”). Quindi in assenza di tassazione lo stato della residenza ha un
guadagno nazionale al lodo delle imposte (cioè senza alcuna decurtazione costituita da
imposta pagate all’estero), mentre in presenza di tassazione lo Stato della residenza ha
una perdita globale pari alle imposte pagate all’estero. In concreto avviene così che la
base imponibile globale derivante costituita dal reddito conseguente dall’investimento
operato su base internazionale viene ripartito tra lo stato della residenza e lo stato della
fonte, cosicché ognuno di questi due Stati ritrarrà un certo gettito (determinato da
svariati fattori quali le regole per la determinazione della base imponibile, le aliquote
effettive, ecc.). Questo è il problema della inter-country equity che riguarda, quindi, la
ripartizione del gettito tra lo stato della residenza e lo stato della fonte.
La pretesa impositiva dello Stato della residenza e dello Stato della fonte possono
combinarsi nei rapporti bilaterali tra due Stati nei seguenti casi:
a)
entrambi gli Stati considerano il soggetto che effettua l’attività produttiva di
reddito come residente;
b)
entrambi gli Stati considerano il reddito derivante dalla attività produttiva come
avente la fonte effettiva entro il proprio territorio (ad esempio attività professionali
e prestazioni di servizi);
c)
uno Stato (della residenza) considera il soggetto come residente, mentre l’altro
Stato (della fonte) considera il reddito derivante dalla attività produttiva come
avente la fonte effettiva entro il proprio territorio (questo è il caso più ricorrente);
d)
uno Stato considera il reddito derivante dalla attività produttiva come tassabile (in
base al criterio della residenza o della fonte), mentre l’altro stato non considera né
il soggetto come residente, né il reddito come avente la fonte entro il proprio
territorio;
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e)
nessuno dei due Stati considera il reddito come tassabile.
Ebbene nei primi tre casi si verifica un conflitto (rispettivamente residenza/residenza,
fonte/fonte, residenza/fonte). Il caso più ricorrente è quello del conflitto tra Stato della
residenza e Stato della fonte.
4.
CRITERI DI COLLEGAMENTO REALI E PERSONALI
Come abbiamo visto ogni Stato per esercitare il proprio potere impositivo deve
creare un collegamento con la fattispecie impositiva. Tale collegamento può essere reale
o personale.
Rispetto ad un certo Stato il criterio di collegamento personale attiene al rapporto tra il
soggetto passivo e lo Stato stesso ed esprime un qualche collegamento tra esso e lo
Stato espresso dal concetto di “residenza fiscale”, mentre il criterio di collegamento
reale attiene al rapporto tra il presupposto produttivo di reddito e lo Stato stesso ed
esprime un qualche collegamento tra essa e lo Stato espresso dal concetto di fonte del
reddito.
I criteri di collegamento personali e/o reali sono espressi da norme interne di ogni
singolo Stato, che ha potestà impositiva originaria.
5.
CRITERIO DI COLLEGAMENTO PERSONALE: LA NOZIONE DI RESIDENZA FISCALE
Ai fini delle imposte dirette la residenza fiscale è disciplinata dall’art. 2, comma 2,
del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito “TUIR”).
Per le persone fisiche, ai sensi di tale disposizione si considerano residenti le persone
che, per la maggior parte del periodo d’imposta (anno solare):
a) sono iscritte nelle anagrafi delle popolazioni residenti (legge 24 dicembre 1954, n.
1228);
b) hanno nel territorio dello Stato il domicilio2 ai sensi dell’art. 43 del codice civile;
c) hanno nel territorio dello Stato la residenza3 ai sensi dell’art. 43 del codice civile.
L’utilizzazione da parte del legislatore di tre distinti criteri concernenti la
soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi comporta che la soggettività
medesima s’intenda ugualmente realizzata, purché nel territorio dello Stato se ne
verifichi almeno uno.
Pertanto, una persona fisica si considera fiscalmente residente in Italia se, per la
2
Il domicilio implica una valutazione circa l’ubicazione della sede economico - sociale della persona e
può prescindere dalla presenza della stessa nel luogo considerato.
3
Luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
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maggior parte del periodo d’imposta, è iscritta nell’anagrafe ovvero ha in Italia il centro
dei propri affari o interessi (domicilio) ovvero la propria dimora abituale (residenza).
In merito alla locuzione “maggior parte del periodo d’imposta”, l’Amministrazione
Finanziaria ha precisato che il computo dei giorni ai fini della verifica della permanenza
in Italia – e per l’assoggettabilità ad imposta dei redditi percepiti – deve essere
effettuato tenendo presente il numero complessivo dei giorni di presenza fisica (Circ. 17
agosto 1996, n. 201); in ogni caso, con tale espressione si intende un periodo superiore a
183 giorni nell’arco di un anno solare di 365 giorni, ovvero di 184 giorni nell’arco di un
anno solare di 366 giorni (periodo non necessariamente continuativo).
E’ bene dire che non risultano iscritti nelle anagrafi :
a) i cittadini che si recano all’estero per cause di durata limitata non superiore a
dodici mesi;
b) i cittadini che si recano all’estero per l’esercizio di occupazioni stagionali;
La residenza e la dimora (che coincide con il luogo in cui la persona attualmente si
trova) corrispondono a situazioni di fatto, collegate alla presenza fisica abituale o
saltuaria.
Sul piano strettamente interpretativo, si può ritenere che, in assenza di iscrizione
all’anagrafe della popolazione residente, ciò che rileva è l’elemento soggettivo di voler
stabilire un legame stabile, di qualsiasi natura, con il territorio dello Stato, dimorandovi
oppure facendone il centro dei propri interessi, sia economici che sociali, e non viene
meno per il solo fatto che il soggetto presti altrove la propria attività lavorativa o di
studio (Cass. 12 febbraio 1973, n. 435; Cass. 29 aprile 1975, n. 2561; Cass. Sez. un., 28
ottobre 1985, n. 5292; Cass. 14 marzo 1986, n. 1738).
Per quanto riguarda la persone giuridiche si considerano residenti le società e gli
enti che, per la maggior parte del periodo di imposta, hanno nel territorio dello Stato:
a) la sede legale ovvero
b) la sede dell’amministrazione ovvero
c) l’oggetto principale dell’attività.
In particolare, per “sede legale” deve intendersi il luogo in cui dall’atto costitutivo
la persona giuridica risulta avere il centro dei propri affari (art. 46 cod. civ.).
La sede amministrativa, invece, è il luogo in cui viene svolta l’attività di gestione,
che può essere desunta da dati concreti, come l’esistenza di uffici amministrativi,
l’indicazione su documenti o fatture e simili.
I criteri per individuare l’oggetto principale dell’attività sono dettati dai commi 4 e
5 dell’art. 73 del TUIR. Il comma 4 del citato articolo stabilisce che “l’oggetto esclusivo
o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o
allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata. Per
oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi
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primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”. Il comma 5 chiarisce
che, in mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto
principale dell’ente residente è determinato in base all’attività effettivamente esercitata
sul territorio dello Stato.
Sul punto, è intervenuta la Suprema Corte (Cass. Sez. I, sent. n. 10409/1991) , la
quale ha chiarito che “(…) è evidente che la determinazione del carattere
esclusivamente o principalmente commerciale dell’attività esercitata non va fatta in
aderenza alle mere enunciazioni, denominazioni e qualificazioni che nello statuto l’ente
ha preferito fare o dare, bensì sulla scorta dell’interpretazione che è consentito dare
alle disposizioni statutarie, nella ricerca della reale natura dell’attività che l’ente si
prefigge di esercitare”.
La residenza di un soggetto viene stabilita dalla normativa interna. In caso di conflitto
tra due normative appartenente a due paesi diversi interviene in aiuto il concetto di
residenza stabilito dalle convenzioni stipulate tra i due paesi sulla base del modello
OCSE.
Ai sensi dell’art. 4 del modello di Convenzione OCSE l’espressione “residente di
uno Stato contraente” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto
Stato, è ivi assoggetta ad imposta a motivo del suo domicilio, residenza, sede di
direzione o di ogni altro criterio di natura analogica. Tuttavia, tale espressione non
comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il
reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato.
In caso di doppia residenza di una persona fisica per l’accertamento dello stato di
residenza ai fini del trattato deve essere verificato, nell’ordine, il luogo in cui il soggetto
possiede un’abitazione permanente, il luogo in cui è radicato il centro dei suoi interessi
vitali, il luogo in cui soggiorna abitualmente o la cittadinanza. Se la persona ha
nazionalità di entrambi gli Stati contraenti o se non ha la nazionalità di alcuno di essi, le
autorità competenti risolvono la questione di comune accordo.
In caso di doppia residenza di una persona diversa da quella fisica essa è considerata
residente soltanto dello Stato in cui ha la sua sede di direzione effettiva è situata.
6.
LA DOPPIA IMPOSIZIONE
La doppia imposizione è il risultato della sovrapposizione delle pretese
impositive degli Stati.
Esistono due tipi di doppia imposizione: la doppia imposizione economica e la
doppia imposizione giuridica.
La doppia imposizione economica è la duplice tassazione, in capo a soggetti
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diversi, di un reddito di identica natura economica, ad esempio la tassazione degli utili
della società in capo al socio e dei dividendi tratti da tali utili e distribuiti al socio.
Ad esempio se società e soci sono residenti in un medesimo stato che tassa sia la
società sugli utili prodotti che il socio sugli utili distribuiti, vi è doppia imposizione
economica interna; se invece società e soci sono residenti in due Stati diversi, allora lo
Stato di residenza della società tassa la società sugli utili prodotti mentre lo Stato di
residenza del socio tassa il socio sugli utili distribuiti, e vi è quindi doppia imposizione
economica internazionale.
La doppia imposizione giuridica è la duplice tassazione, in capo allo stesso
soggetto dello stesso reddito giuridicamente qualificato, ad esempio la duplice
tassazione in capo allo stesso soggetto di una determinata categoria di reddito. La
doppia imposizione giuridica è interna se riguarda le pretese impositive di un singolo
stato, mentre è internazionale se riguarda e pretese impositive di più Stati.
La doppia imposizione giuridica interna è generalmente vietata all’interno dei
singoli sistema fiscali perché costituisce una ingiustificata violazione del principio del
ne bis in idem: ad esempio l’art. 163 TUIR espressamente dispone che la stessa imposta
non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei
confronti di soggetti diversi.
7.
LA FISCALITÀ INTERNAZIONALE
Il diritto internazionale tributario è formato da una serie di regole, codificate da
norme, che si propongono di raggiungere un duplice scopo: da una parte una tassazione
equa delle attività economiche e degli investimenti internazionali, dall’altra
l’eliminazione delle distorsioni fiscali nella tassazione degli investimenti internazionali.
L’ambito di applicazione della tassazione internazionale si esplicita in sei aree
diverse, ovvero:
1)
la tassazione dei residenti di uno specifico Stato, relativamente a redditi di fonte
straniera, e la tassazione in uno specifico stato di soggetti non residenti per redditi
che derivano da tale Stato. Le norme fiscali che regolano tali casi sono in genere
incluse in norme interne dei singoli Stati;
2)
la definizione tradizionale di diritto internazionale tributario si riferisce poi alle
norme giuridiche che stabiliscono regole volte a ridurre o eliminare la doppia
imposizione derivante dalla situazione di conflitto dovuta al fatto che gli Stati, in
genere, applicano la tassazione a livello mondiale sul reddito prodotto da parte dei
propri residenti ma anche sul reddito di fonte interna percepito dai soggetti non
residenti. Tale forma di doppia imposizione è denominata doppia imposizione
giuridica: un soggetto è tassato due volte in diversi Stati per lo stesso reddito;
10
3)
a)
b)
a)
b)
c)
d)
e)
4)
una particolare area di applicazione del diritto internazionale tributario è la
pianificazione fiscale internazionale. Infatti, la localizzazione di attività all’estero
avviene generalmente per ragioni tradizionalmente classificate come:
business driven, cioè dettate principalmente da esigenze di business;
tax driven, legate esclusivamente da esigenze di tax planning.
In linea generale le variabili che entrano in gioco nella valutazione sono molteplici
sia nella dimensione economica sia in quella organizzativa: vantaggi fiscali, rischi
e costi non fiscali, stabilità politica e del quadro normativo generale,
organizzazione. In particolare, per quando riguarda la localizzazione di attività
all’estero per ragioni di tax driven analizziamo alcuni aspetti specifici che
un‘impresa deve tenere in considerazione prima di localizzare parte della sua
attività in un paese estero:
capital duty: verificare se vi sono le imposte sui conferimenti. I conferimenti,
infatti, sono uno strumento molto sfruttato nelle ristrutturazioni societarie e
nell’organizzazione delle attività d’impresa;
imposte locali: le imposte locali comportano spesso aggravi di costi rispetto alle
imposte statali il cui peso varia in relazione all’area geografica dell’investimento.
In Italia, ad esempio, l’IRAP è un’imposta locale a base molto ampia e bassa
aliquota. Oltretutto tale imposta ha un’incidenza diversa da regione a regione. )
imposta sul capitale: verificare se è prevista una tassazione sui redditi di capitale.
Le imposte sui redditi da capitale differiscono da Stato a Sato anche in funzione
delle differenze soggettive;
agevolazioni fiscali per aree svantaggiate: verificare se vi sono agevolazioni
fiscali per investimenti in aree svantaggiate;
specificità per le società finanziarie: come abbiamo detto le attività più
frequentemente delocalizzate per motivi fiscali sono indubbiamente quelle
finanziarie. Pertanto per tali attività è importante verificare il trattamento fiscale
degli interessi, dividendi, royalties e capital gain;
disponibilità della locale Amministrazione finanziaria nei confronti del
contribuente: in particolare occorre verificare l’esistenza di tax ruling. I tax ruling
sono accordi amministrativi tra un contribuente e l’autorità fiscale di un paese
volti a predeterminare la tassazione di elementi di reddito.
Il diritto internazionale tributario è composto anche da norme che limitano gli
effetti di un altro tipo di doppia imposizione, ovvero la doppia imposizione
economica. Essa si verifica quando lo stesso reddito (in genere di partecipazione)
viene tassato sia in capo alla società che in capo al socio. La doppia imposizione
economica si realizza a livello internazionale quando la società e il socio sono
residenti in due Stati diversi. Le regole per ridurre la doppia imposizione
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economica sono incluse anche in un certo numero di direttive dell’Unione
europea, quali la direttiva madre-figlia, la direttiva su fusioni e operazioni
transnazionali, ecc.;
5) un ambito rilevante dell’applicazione dei principi di tassazione internazionale è
costituito dalle regole promulgate da organizzazioni sovranazionali, quale UE,
OCSE e altri. La maggior parte delle regole emesse dall’OCSE, ad esempio, non
sono vincolanti ma vengono prese in considerazione da molti Stati nello sviluppo
delle proprie politiche fiscali;
6) l’ultimo ambito di applicazione del diritto internazionale tributario è specialistico
e si riferisce alla tassazione dei diplomatici e dei dipendenti delle organizzazioni
intergovernative.
La fiscalità internazionale (alias diritto internazionale tributario) non deve essere
confusa con il diritto tributario internazionale che è invece costituito da un insieme di
norme di promanazione nazionale ma ad efficacia potenziale ultranazionale, ossia a
rapporti internazionali esterni (ES concetto di residenza). Nella espressione “diritto
tributario internazionale” l’aggettivo “internazionale” è adottato come qualifica
ulteriore del diritto tributario (interno). Infatti, essendo il diritto interno ordinariamente
contrapposto al diritto internazionale, allora le norme interne che regolano materie e
questioni internazionali sono qualificate come “internazionali” in ragione della materia
da esse disciplinata. In questa prospettiva, dunque, il diritto tributario internazionale
appartiene al “diritto statuale esterno”: “statuale” per quanto attiene alla fonte ed
“esterno” per quanto attiene all’oggetto (la natura dei rapporti regolati di natura
internazionale). In altri termini, il diritto tributario internazionale contiene norme interne
applicabili a fattispecie nazionali aventi rilevanza ed effetti anche al di fuori dei confini
nazionali.
12
8.
LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE TRIBUTARIO
Il tradizionale punto di partenza per la disamina delle fonti di diritto
internazionale è l’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale. Tale disposizione
annovera tra le fonti:
- gli accordi;
- le consuetudini;
- i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili.
Gli accordi o convenzioni sono fonti di diritto scritto internazionale e
costituiscono uno strumento tramite cui due o più Stati membri (con la conseguente
distinzione tra trattati bilaterali e multilaterali) si impegnano a regolare direttamente
una determinata materia secondo i principi che ritengono più opportuni. L’iter che
conduce alla stipulazione di un trattato consta di quattro principali fasi: 1)
negoziazione; 2) firma; 3) ratifica; 4) scambio delle ratifiche, ed i relativi effetti si
determinano in base alle regole contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati del 23 maggio 1969. Le consuetudini sono fonti non scritte del diritto
internazionale e si sostanziano in un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli
Stati, dal ripetersi cioè di un dato comportamento nella convinzione dell’obbligatorietà
dello stesso. I principi generali costituiscono una fonte del diritto internazionale
utilizzabile ove manchino norme patrizie e/o consuetudinarie applicabili al caso
concreto, a condizione che essi siano percepiti come obbligatori e necessari nella
maggior parte degli Stati.
L’analisi delle fonti del diritto internazionale non può prescindere dall’indagare le
modalità attraverso cui l’ordinamento interno si “apre” a quello internazionale nel
recepimento delle fonti proprie di questo, nonché degli effetti e del valore che tali fonti
assumono nell’ordine interno.
Per le consuetudini e i principi generali, l’art. 10 Cost. prevede un procedimento
di adattamento “automatico” o “istituzionalizzato” delle norme internazionali
prescrivendo che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”. Per i trattati internazionali, è invece
necessario un atto normativo ad hoc che attribuisca ad esso efficacia nell’ordinamento
interno. Il procedimento di adattamento degli accordi può essere:
- speciale: l’atto normativo interno di esecuzione si limita a richiamare per
relationem, senza riprodurre il contenuto dell’atto;
- ordinario: l’atto normativo interno di esecuzione riproduce il contenuto del
13
trattato internazionale.
Per talune categorie di accordi internazionali, determinati in relazione al
contenuto, il meccanismo di adattamento presuppone l’autorizzazione del Parlamento
ex art. 80 della Costituzione. L’iter si conclude con la ratifica del trattato internazionale
da parte del presidente della Repubblica ex art. 87, comma 8, della Costituzione.
9.
LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI CONTRO LA DOPPIA IMPOSIZIONE
Come anticipato, le convenzioni o accordi tra Stati in materia fiscale
rappresentano la fonte primaria del diritto internazionale tributario (distinto dal diritto
tributario internazionale che, invece, è costituito dalle norme interne che disciplinano
fattispecie contenenti elementi extranazionali come, ad esempio, reddito dei non
residenti o reddito dei residenti prodotti all’estero).
La finalità primaria delle convenzioni contro la doppia imposizione risiede
nell’esigenza di dirimere, appunto, i casi di doppia imposizione internazionale. Si ha
doppia imposizione internazionale quando un medesimo reddito o fatto a rilevanza
impositiva viene tassato due volte perché tassato in due paesi diversi.
Quindi, diversamente dalla doppia imposizione interna, la quale concerne il caso
in cui un medesimo ente impositore sottopone due volte ad imposta il medesimo
presupposto, quella internazionale si verifica quando le due imposizioni:
• provengono da due Stati diversi;
• riguardano tributi identici o simili;
• colpiscono per il medesimo presupposto lo stesso soggetto (“doppia
imposizione internazionale in senso giuridico”).
La doppia imposizione internazionale, in genere, scaturisce dalla sovrapposizione di
due principi:
il principio del reddito mondiale (che conduce alla tassazione di tutti i redditi
prodotti da un soggetto nel paese di residenza);
il principio della territorialità (che porta all’imposizione nello stato di produzione
del reddito).
Tuttavia si può avere una doppia imposizione anche in presenza di un concorso di
imposte personali. Ciò accade quando un soggetto risulti residente in più stati (ad
esempio, se una persona ha in uno stato il centro dei suoi affari economici ed in un altro
la dimora stabile).
Infine, può esservi concorso di imposte reali; a ciò può condurre la diversità dei
criteri di localizzazione dei redditi adottati dagli stati.
Con le Convenzioni gli Stati si accordano per individuare un criterio (criterio
della residenza o della fonte) per la riferibilità territoriale del reddito, in deroga rispetto
14
ad ogni regola di diritto interno.
Le convenzioni internazionali in materia fiscale vengono predisposte sulla base di
modelli elaborati da alcuni organismi internazionali. I paesi aderenti all’OCSE, tra cui
l’Italia, utilizzano il modello predisposto da tale organizzazione.
Altri modelli sono il Modello ONU, che è utilizzato nella elaborazione di
convenzioni tra paesi industrializzati e paesi in vai di sviluppo; il Modello Andino,
adottato dagli stati sudamericani ed il Modello Usa.
Le convenzioni internazionali che, come accennato, acquistano valore di legge
nel diritto italiano per effetto delle leggi che ne autorizzano la ratifica e ne ordinano
l’esecuzione, dopo la ratifica diventano norme interne di carattere speciale4:
prevalgono, perciò, sulle norme ordinarie, indipendentemente dalla circostanza che esse
siano state introdotte precedentemente o successivamente all’entrata in vigore del
trattato. Ciò è confermato dall’art. 75 del DPR 600/1973 secondo cui “nell’applicazione
delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi
internazionali resi esecutivi in Italia”.
Le norme convenzionali non prevalgono sulle norme interne più favorevoli al
contribuente ai sensi dell’art. 169 del TUIR, infatti, le norme interne si applicano “se
più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la
doppia imposizione”.
Tale previsione è espressione del principio secondo cui la disciplina
convenzionale ha carattere speciale rispetto a quella dell’ordinamento interno ed ha
finalità “intrinsecamente agevolativa”, sicché non può risolversi in un trattamento meno
favorevole per il contribuente di quello che è previsto dalla disciplina interna.
le convenzioni internazionali si applicano, generalmente, come prevede l’art. 1 del
Modello OCSE, alle “persone che sono residenti di uno o entrambi” gli stati contraenti.
Pertanto, al fine di ottenere l’applicazione dei benefici convenzionali, i contribuenti
devono essere persone, secondo la definizione del trattato, e tali persone devono essere
residenti in uno o in entrambi gli Stati contraenti.
Secondo l’art. 3, paragrafo 1, lettera a), del Modello OCSE, il termine “persone”
comprende le seguenti fattispecie:
• le persone fisiche;
• le società (intendendosi come tale qualsiasi persona giuridica o qualsiasi ente
che è considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione;
• le associazioni di persone.
4
Alcuni Stati non riconoscono ai trattati lo status di legge speciale (Danimarca, Israele e Nuova
Zelanda), con la conseguenza che leggi successive possono prevalere sulle norme convenzionali,
fenomeno riconosciuto internazionalmente come treaty override.
15
E’ di difficile risoluzione la problematica relativa al trust, ovvero se esso possa essere
considerato come una persona nel senso proprio del trattato (nel Regno Unito il trust
non viene considerato come “persona”, diversa è la previsione in Canada e negli Stati
Uniti).
La definizione di soggetto residente viene desunta dalla normativa interna dei
paesi contraenti e, solo in caso di conflitti è individuata secondo i criteri previsti dal
Modello di Convenzione (ossia il criterio dell’abitazione permanente, seguito dal centro
degli interessi fiscali e della dimora abituale).
L’art. 2 del Modello OCSE definisce le imposte a cui si applicano i trattati,
includendo le imposte sul reddito, le imposte sul patrimonio applicate a livello
domestico, le imposte sui salari (“wage tax”) o specifiche imposte sulle plusvalenze.
Non sono, invece, inclusi i contributi sociali; essi non sono considerati imposte in
quanto non si sostanziano in pagamenti obbligatori senza una contropartita, bensì
implicano la corresponsione di indennità, pensioni o prestazioni in natura.
L’art. 2 specifica che rientrano nell’ambito di applicazione dei trattati le imposte
di entrambi gli Stati. La lista non intende essere esaustiva. Altre imposte similari,
introdotte successivamente alla conclusione della convenzione, sono in genere
analogamente coperte, fermo restando che le Autorità degli Stati contraenti devono
darsi reciproca comunicazione relativamente alle nuove imposte od alle modifiche
sostanziali nelle norme fiscali esistenti che possono avere effetti sull’applicazione dei
trattati.
10.
CATEGORIE REDDITUALI E CRITERI DI COLLEGAMENTO
Il contenuto caratteristico delle convenzioni internazionali è dato dalle c.d. norme
di distribuzione, cioè dalle norme che ripartiscono il potere impositivo tra gli stati
contraenti. Le norme di distribuzione riconoscono la potestà d’imposizione in via
principale allo stato della residenza.
Può trattarsi di:
•
attribuzione esclusiva (la tassazione è riservata allo stato della residenza ed è
esclusa la tassazione nello stato della fonte);
•
di attribuzione concorrente (oltre che nello stato della residenza, può esservi
tassazione anche nello stato della fonte, con o senza limiti).
Raramente si prevede la tassazione esclusiva nello stato della fonte.
In relazione ai criteri sopra indicati è possibile distinguere i redditi tassabili in tre
categorie:

redditi tassabili esclusivamente nello stato di residenza e non tassabili nello
stato alla fonte (ES. canoni art. 12, gli utili derivanti dall’alienazione di azioni e
16
titoli art. 13, le pensioni private (art. 18);
 redditi che possono essere tassati da entrambi gli stati contraenti, con o senza
limiti,e con o senza la previsione di rimedi alla doppia imposizione.
In questa categoria rientrano i dividendi e gli interessi e, secondo molte
convenzioni stipulate dell’Italia, ma non secondo il modello di convenzione, anche i
canoni. Dividendi ed interessi sono dunque tassabili da parte di entrambi gli stati
contraenti, ma il potere impositivo dello stato alla fonte è limitato. La tassazione dei
dividendi da parte dello stato alla fonte non deve superare il 5% se l’effettivo
beneficiario è una società che detiene almeno il 25% del capitale della società che
distribuisce i dividendi; negli altri casi, non deve essere superato il 15%. La ritenuta
sugli interessi non deve essere superiore, nello stato alla fonte, al 10%; lo stato di
residenza deve concedere un credito per la ritenuta operata alla fonte;
 redditi che possono essere tassati, oltre che nello stato di residenza, anche
nello stato della fonte, senza limiti.
In questa categoria rientrano i redditi degli immobili (art. 6), i redditi d’impresa
attribuibili alla stabile organizzazione (art. 7); i capital gains (art. 13); i redditi di artisti
e sportivi (art. 17).
Analizziamo nel dettaglio alcune categorie reddituali e criteri di collegamento ai
fini della relativa tassazione.
Dividendi, interessi, royalties:
In genere le norme dei trattati prevedono la tassazione nello stato di residenza del
beneficiario, fatta salva la possibilità, per lo Stato della fonte di effettuare un prelievo
entro un limite prestabilito. In questo caso vi sono due possibili opzioni:
- il sostituto effettua la normale ritenuta e successivamente il beneficiario non residente
chiede il rimborso della differenza;
- il sostituto può applicare direttamente il regime convenzionale più favorevole (Circ.
Min. 12 aprile 1978, n. 115; Circ. Min. 25 marzo 1981, n. 7), sotto la propria
responsabilità e dopo aver acquisito la necessaria documentazione.
La scelta fra le due opzioni è libera, quindi è, legittimo il comportamento del
sostituto d'imposta italiano che opera la ritenuta d'imposta, qualora non voglia
assumersi la responsabilità circa l'idoneità della documentazione presentata (Ris. Min.
l0 giugno1999 n.95/E).
Dividendi: il termine dividendi si applica alla distribuzione di utili ai soci di
società o di altri enti il cui capitale sia rappresentato da azioni, ovvero il reddito
derivante di aliquote societarie di altra natura che comunque diano diritto alla
partecipazione dei profitti della società. L’art. 10 del modello OCSE attribuisce allo
stato della fonte (ossia lo Stato in cui risiede la società che distribuisce i dividendi) un
diritto impositivo limitato sui dividendi. Lo Stato della fonte può imporre massima pari
17
al 5% dell’ammontare lordo dei dividendi nel caso di distribuzione di utili infragruppo,
ovvero, la partecipazione di una società nell’altra è pari almeno al 25% del capitale
della società partecipata), e pari al 15% nel caso di dividendi legati a partecipazioni di
investimenti. I due Stati contraenti possono, in sede di negoziazione, concordare
aliquote anche inferiori.
Interessi: è prevista, di norma, la tassazione nel Paese del beneficiario ed una
imposizione limitata nello Stato del soggetto erogante. Per quanto riguarda la nozione
di “interesse”, il relativo articolo generalmente li definisce come redditi che lo Stato
della fonte assimila, nella legislazione fiscale interna, ai redditi delle somme date a
mutuo. Anche per gli interessi, per beneficiare del regime convenzionale il percettore
deve essere l’effettivo beneficiario e non deve operare nello Stato di provenienza dei
redditi per mezzo di una stabile organizzazione o base fissa e per le cui esigenze sia
stato contratto il debito che ha generato gli interessi.
Redditi di pensione, di lavoro dipendente ed autonomo: nella maggior parte delle
Convenzioni è prevista la tassazione esclusiva nello Stato di residenza del beneficiario
del reddito. Occorre comunque distinguere, per i pensionati, quelli residenti in Italia che
percepiscono pensioni estere da quelli residenti all'estero che percepiscono pensioni
italiane.
Lavoro dipendente prestato all'estero: nel caso di soggetto residente che presta lavoro
all'estero, di norma è prevista la tassazione nel Paese in cui viene prestata l'attività,
secondo le regole stabilite dalla legislazione interna del Paese stesso. In deroga alla
regola generale, lo Stato dove è prestata l'attività deve concedere l'esenzione se si
verificano contemporaneamente le seguenti condizioni:
- il percettore del reddito soggiorna nello Stato dove è svolta l'attività per meno di 183
giorni nell'anno;
- i compensi sono corrisposti da un datore di lavoro che non risiede nello Stato dove
viene svolta l'attività;
- i compensi non sono corrisposti da una stabile organizzazione o da una base fissa che
il datore di lavoro abbia nello Stato dove è svolta l'attività.
Se una sola delle tre condizioni non si verifica, si ritorna alla regola generale di
tassazione nello Stato in cui è svolta l'attività.
11.
METODI PER RISOLVERI I CASI DI DOPPIA IMPOSIZIONE GIURIDICA
Il modello OCSE per le imposte sul reddito e sul patrimonio è formulato
presupponendo che lo stato della residenza possa sempre sottoporre ad imposta i redditi
del soggetto residente. Tuttavia, poiché tali redditi vengono tassati anche nel paese
18
della fonte si genera una doppia imposizione. Il modello OCSE prevede che lo stato
della residenza debba farsi carico di eliminare la doppia imposizione con il metodo
della esenzione o del credito d’imposta , e per converso, lo stato della fonte del reddito
debba ridurre l’imposizione (sui redditi prodotti nel suo territorio).
L’art. 23 del modello disciplina, nella sez. A il metodo dell’esenzione e, nella Sez.
B, il metodo del credito d’imposta. Il metodo dell’esenzione è un riflesso delle norme
che attribuiscono la legittimazione ad imporre ad uno stato soltanto; da ciò deriva che
l’altro stato è tenuto ad esentare il reddito.
Il metodo del credito d’imposta implica che lo Stato della residenza attribuisca, al
contribuente residente, un credito d’imposta per i redditi prodotti (e tassati) all’estero. Il
credito d’imposta per i redditi prodotti all’estro può essere illimitato (o pieno) o limitato
(o ordinario). Nel primo caso, la stato della residenza concede al contribuente un
credito pari alle imposte versate nello stato della fonte, senza alcuna limitazione. Nel
secondo caso, la detrazione è concessa in misura pari alla quota di imposta dovuta,
nello stato di residenza, sul reddito prodotto all’estero. I due tipi di credito d’imposta
producono lo stesso risultato solamente nel caso in cui le aliquote, previste nei due stati,
sono le medesime. Al contrario, se l’ordinamento dello stato alla fonte prevede aliquote
maggiori di quelle applicate nello stato di residenza, la doppia imposizione è eliminata
solo parzialmente.
Riassumendo:
a) il metodo del credito: secondo il metodo del credito pieno, l’imposta assolta
all’estero viene dedotta dall’imposta totale calcolata sul reddito complessivo nello
Stato di residenza, con la conseguenza che un livello di tassazione elevato
all’estero riduce la tassazione netta interna sul reddito di fonte domestica.
Ne consegue che, nella maggior parte dei casi, si applica il metodo del credito
ordinario, con cui si determina il credito entro il limite dato dall’ammontare di
imposta domestica che sarebbe stata dovuta relativamente al reddito estero. Gli
elementi di paragone sono pertanto l’imposta estera effettivamente applicata e
l’imposta domestica calcolata sul reddito estero: tra le due viene riconosciuta
quella di ammontare inferiore. E’ possibile distinguere due varianti del credito
ordinario, ovvero applicando la limitazione assoluta (“overall limitation”) ovvero
la limitazione per Stato (“per-country limitation”).
b) Il metodo dell’esenzione: secondo il metodo dell’esenzione, lo Stato della
residenza esenta il reddito che può essere assoggettato ad imposizione nello Stato
della fonte, in forma sia illimitata che limitata, come può avvenire,
rispettivamente, nel caso di redditi derivanti da stabile organizzazione e di
dividendi. Vi sono due metodi di applicazione : i) il metodo dell’esenzione piena;
ii) il metodo dell’esenzione per progressione. Se le aliquote non sono progressive,
19
non vi è alcuna differenza in termini di risultato. L’esenzione progressiva viene
riconosciuta mediante l’applicazione dell’aliquota che sarebbe applicabile al
totale del reddito prodotto su base mondiale al netto del reddito di fonte estera,
ovvero solo sul reddito di fonte interna.
12.
IMPRESA E STABILE ORGANIZZAZIONE
La definizione di stabile organizzazione è contenuta in quasi tutti i trattati. Il
concetto di stabile organizzazione stabilisce che a uno Stato contraente (ovvero lo Stato
della fonte) spetta il diritto impositivo relativamente a una impresa estera se tale
impresa ha una stabile organizzazione in tale Stato; diversamente, lo stato della fonte
non può applicare alcuna imposizione.
Il concetto di stabile organizzazione (o permanent establishment) occupa un posto di
primaria importanza tanto in ambito interno, quanto in ambito internazionale:
nella sfera dell'ordinamento interno, in quanto criterio per la localizzazione dei
redditi prodotti dalle imprese (e, dunque, per l'attribuzione della soggettività
tributaria passiva), nonché per l'individuazione delle correlate norme di
determinazione del quantum imponibile;
nella sfera del diritto internazionale convenzionale, in quanto criterio di
attribuzione della potestà impositiva ai fini dell'eliminazione della doppia
imposizione.
Per verificare se un’entità estera riconducibile ad una società italiana possa essere
qualificata come “stabile organizzazione” occorrerà fare riferimento prima di tutto alla
definizione di “stabile organizzazione” contenuta nella Convenzione contro le doppie
imposizioni. In particolare, bisogna accertare se, alla stregua della definizione di stabile
organizzazione contenuta nella Convenzione, la branch possa effettivamente
considerarsi agli effetti fiscali come tale.
L’art. 5 del modello OCSE definisce la stabile organizzazione “una sede fissa di
affari mediante cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività”.
Ai sensi dell’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE, pertanto, i principali
parametri per individuare una stabile organizzazione sono: disponibilità di una sede di
affari permanente; esercizio di una fase completa dell’attività svolta dalla casa madre;
presenza di casi tipici quali sede di direzione, ufficio, officina, laboratorio, ecc;
presenza di agenti dipendenti dalla casa madre.
Il D.Lgs. 344/2003, recante riforma del sistema fiscale statale, ha introdotto nel nostro
ordinamento, all’art. 162 TUIR, una definizione generale di stabile organizzazione, che
20
colma la precedente lacuna del diritto interno e risulta sostanzialmente conforme alla
nozione di stabile organizzazione recata dall’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE.
L’art. 162 TUIR, così come l’art. 5 del Modello OCSE, è formato di due parti recanti i
criteri che identificano la cd. “stabile organizzazione materiale” e la cd. “stabile
organizzazione personale”.
La stabile organizzazione materiale è definita dal citato art. 162 TUIR come ”sede fissa
di affari mediante la quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua
attività sul territorio dello Stato”.
In sintesi, perché si configuri in Italia una stabile organizzazione materiale della società
estera devono verificarsi 3 condizioni:
•
requisito oggettivo (place of business test): esistenza in Italia di una base fissa
d’affari, individuabile in un luogo circoscritto, in cui viene svolta l’attività della
società estera;
•
requisito soggettivo (right of use test): disponibilità della base fissa da parte della
società estera;
•
requisito funzionale (business connection test): relazione funzionale tra l’attività
svolta dalla società estera e la base fissa situata in Italia.
Ai sensi dell’art. 162, comma 2, l’espressione “stabile organizzazione” comprende in
particolare:
•
una sede di direzione, inteso come luogo dove vengono definiti gli indirizzi
dell’impresa limitatamente ad un’area geografica;
•
una succursale, intesa come sede operativa che pur essendo fisicamente separata
dalla casa madre è da questa in ogni caso dipendente;
•
un ufficio, inteso come unità organizzativa preposta alla gestione dell’attività
sotto il profilo amministrativo;
•
un’officina o un laboratorio, intesi come luoghi nei quali si svolgono i processi
produttivi;
•
una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di
estrazione di risorse naturali.
Al comma 3 l’art. 162 prevede inoltre che un cantiere può essere considerato “stabile
organizzazione” solo qualora abbia una durata superiore ai 3 mesi.
Secondo l’orientamento interpretativo prevalente, tuttavia, tale lista è solamente
esemplificativa, e deve essere letta alla luce della nozione base di stabile
organizzazione. Pertanto, un ufficio situato in Italia, a disposizione di un’impresa non
residente, non costituisce stabile organizzazione di quest’ultima se il suo utilizzo è
soltanto sporadico, o comunque finalizzato ad un’attività diversa da quella svolta in via
principale da detta impresa.
Il comma 4 contiene una lista di “ipotesi negative” e prevede che una sede fissa
21
d’affari non costituisce stabile organizzazione se e quando:
•
viene utilizzata un’installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di
consegna di beni o merci appartenenti all'impresa;
•
i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini di
deposito, di esposizione o di consegna;
•
i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini della
trasformazione da parte di un’altra impresa;
•
una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare beni o merci o di
raccogliere informazioni per l’impresa;
•
viene utilizzata ai soli fini di svolgere, per l’impresa, qualsiasi altra attività che
abbia carattere preparatorio o ausiliario;
•
viene utilizzata ai soli fini dell’esercizio combinato delle attività menzionate
nelle lettere da a) ad e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme, quale
risulta da tale combinazione, abbia carattere preparatorio o ausiliario.
Nel nuovo Commentario OCSE del 2005 si è inoltre evidenziato che la verifica
dell’esistenza di una stabile organizzazione deve essere condotta per ogni singola
società, indipendentemente dal Gruppo di appartenenza e dall’esistenza nello stesso
paese di stabili organizzazioni d altre società del medesimo Gruppo (stabile
organizzazione multipla).
L’OCSE, inoltre, ha precisato anche che se una consociata si limita a eseguire
prestazioni di servizi (per esempio, managment services) a favore delle società estere
del Gruppo nell’ambito della propria attività, in locali propri e utilizzando proprio
personale, non si ha una stabile organizzazione.
Solo nell’ipotesi in cui tra l’Italia e lo Stato estero non sia stata posta in essere una
convenzione si farà riferimento alle normative nazionali. In questo caso, tuttavia, è
possibile che la stabile possa essere assoggettata a tassazione due volte (una volta
dall’Italia nella considerazione che in base all’art. 162 TUIR tale entità non costituisce
una stabile organizzazione ed una seconda volta dal paese di residenza della succursale
che invece ritiene sussistenti, in base alla propria normativa, i presupposti richiesta per
la sussistenza di una branch).
La stabile organizzazione personale è disciplinata dai commi 6 e 7 dell’art. 162
TUIR, ed è fondata sul presupposto che la casa madre estera possa svolgere la propria
attività nel territorio dello Stato italiano anche indirettamente, cioè avvalendosi in loco
di un soggetto terzo, che è quindi, a determinate condizioni, qualificato come stabile
organizzazione della società estera ancorché non costituisca una sede fissa di cui essa
direttamente disponga.
Ai sensi dell’art. 162, comma 6 TUIR costituisce una stabile organizzazione
22
personale il soggetto, residente o non residente, che nel territorio dello Stato
abitualmente conclude in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto
di beni. Il comma 7 pone la deroga alla regola generale sancita dal comma 6,
prevedendo che non costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il
solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un
mediatore, di un commissionario generale, o di ogni altro intermediario che goda di uno
status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro
ordinaria attività.
In sostanza la clausola in materia di stabile organizzazione personale è disposta al fine
di evitare che un soggetto estero indebitamente si ponga al di fuori delle clausole in
materia di stabile organizzazione materiale, pur disponendo operativamente di
un’installazione fissa qualificabile come stabile organizzazione per il fatto di avvalersi
di strutture e personale messe a disposizione da parte di soggetti terzi.
Per quanto concerne la determinazione del reddito, non essendoci alcun dualismo tra
impresa non residente e stabile organizzazione in Italia, quest’ultima deve determinare
separatamente il proprio reddito, redigendo un autonomo bilancio.
Per i soggetti non residenti che hanno una stabile organizzazione in Italia, il reddito
complessivo è determinato secondo le disposizioni del reddito d’impresa. Si ha quindi
“attrazione” alla stabile organizzazione e classificazione come reddito d’impresa, di
ogni altro tipo di reddito prodotto in Italia dalla Società non residente.
Dal punto di vista degli adempimenti contabili, per la determinazione di tale reddito, è
fatto obbligo all’ente o società non residente di redigere un apposito conto economico,
relativo alla gestione della stabile organizzazione e alle altre attività produttive di
redditi imponibili in Italia. In altri termini, la tassazione avviene come se la stabile
organizzazione fosse un’entità autonoma, distinta dalla più vasta organizzazione di cui
è parte.
In quanto soggetto autonomamente determinato ai fini tributari, la stabile
organizzazione è tenuta agli obblighi dichiarativi previsti per i soggetti residenti, in
base alle singole imposte considerate.
Nella determinazione del reddito della stabile organizzazione, è necessario
tenere conto delle spese sostenute dalla casa madre nell'interesse della stabile
organizzazione (R.M. 8.4.80 n. 9/427).
Le prestazioni di servizi intercorrenti tra casa madre estera e stabile
organizzazione italiana ovvero tra casa madre italiana e stabile organizzazione estera
sono fuori dal campo di applicazione dell'IVA (Ris. Agenzia delle Entrate 16.6.2006 n.
81)5.
5
La ris. Agenzia delle Entrate 16.6.2006 n. 81 adegua, in tal modo, la prassi amministrativa italiana alla
23
La ripartizione dei costi (spese generali e di amministrazione, di ricerca, quote
di interessi passivi da finanziamento riferibili all'attività svolta dalla stabile
organizzazione, ...) deve essere effettuata analiticamente (imputazione specifica delle
spese alla stabile organizzazione). Qualora non sia possibile, potrà essere adottato un
criterio di ripartizione proporzionale (ad esempio, in base al fatturato prodotto nello
Stato estero ovvero agli utili prodotti).
Con riferimento alla deducibilità delle spese di direzione e generali di
amministrazione (c.d. "spese di regia" o management fees) sostenute dalla casa madre
non residente e imputate alle stabili organizzazioni italiane, occorre verificare la
sussistenza di tre condizioni essenziali (C.M. 21.10.97 n. 271/E):
(i) certezza e oggettiva determinabilità: tale requisito si riferisce essenzialmente alla
"riferibilità" diretta delle spese sostenute dalla casa madre all'attività della stabile
organizzazione;
(ii) inerenza: l'inerenza delle spese di regia può essere dimostrata indicando le spese
che la casa madre ha sostenuto nell'interesse della branch italiana e le modalità
con cui le prestazioni sono state rese (C.T. I° Milano, 13.2.91 sezione 43 e C.T.
Prov. Milano 29.7.2005 n. 158). In particolare, la C.M. 21.10.97 n. 271/E ha
precisato che è opportuno far ricorso alle procedure di accertamento in
collaborazione con le autorità fiscali estere; in caso di rapporti con Paesi con cui
non è previsto lo scambio di informazioni, si può ricorrere ad una apposita
certificazione delle società di revisione (cfr. Cass. 17.5.2000 n. 10062);
(iii) congruità: la C.M. 21.10.97 n. 271/E ha ritenuto ammissibili criteri di ripartizione
forfetari solo nel caso in cui sia impossibile provvedere a determinazioni di
carattere analitico, basate su "parametri che tengano conto della peculiarità
dell'attività svolta o di elementi contabili significativi in relazione al tipo di
azienda".
sentenza della Corte di Giustizia UE 23.3.2006, relativa alla causa C-210/04; secondo i giudici
comunitari, infatti, "un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui
fa parte, stabilito in un altro Stato membro e al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non deve
essere considerato un soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali
prestazioni".
Nello
stesso
senso,
si
veda
Cass.
12.1.2007
n.
526.
Vengono conseguentemente revocate le indicazioni contenute nella R.M. 20.3.81 n. 330470, in base alla
quale erano da assoggettare a IVA le prestazioni di servizi intercorrenti tra casa madre e stabile
organizzazione.
24
13.
LA PROCEDURA AMICHEVOLE
L’art. 25 del Modello OCSE istituisce una procedura amichevole volta alla
risoluzione delle problematiche derivanti dall’applicazione dei trattati, come ad
esempio:
•
problemi relativi all’attribuzione ad una stabile organizzazione di una parte delle
spese generali amministrative di direzione sostenute dall’impresa (art. 7, par. 3,
del Modello);
•
tassazione nello Stato del soggetto erogante della parte in eccesso di interessi e
royalties (artt. 9 e 11 del Modello);
•
casi di mancanza di adeguata informazione relativamente all’effettiva situazione
di un contribuente con conseguente errata applicazione del trattato.
Al fine di attivare la procedura il contribuente deve verificare che le azioni
intraprese da uno o da entrambi gli Stati contraenti comportino una forma di tassazione
che contravviene al trattato e che tale tassazione comporti un rischio un rischio che non
sia solo possibile ma anche probabile. La procedura si articola in due fasi: a) una prima
fase in cui il contribuente, entro tre anni, presenta ricorso alle competenti Autorità dello
Stato di residenza che, se la materia del contendere risulta giustificata, assumono i
dovuti provvedimenti; b) una seconda fase in cui le Autorità fiscali dello Stato di
residenza del contribuente contattano le Autorità fiscali dell’altro Stato e la procedura
viene gestita tra le due.
14.
LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI
L’art. 26 del Modello OCSE contiene le regole secondo cui è possibile effettuare
uno scambio di informazioni tra competenti Autorità perseguendo la primaria finalità di
prevenire l’evasione fiscale. Lo scambio di informazioni può includere anche dati
relativi ai soggetti non residenti (ampliano l’ambito applicativo di cui all’art. 1). In base
alle modifiche apportate al Modello nel 2000, l’art. 26, par. 1, è divenuto applicabile
anche allo scambio di informazione per ogni tipo di imposta applicata dagli Stati
contraenti, non soltanto a quelle domestiche coperte dal trattato.
Secondo il commentario sul Modello OCSE, lo scambio di informazioni può
verificarsi attraverso tre diverse metodologie:
automaticamente: le informazioni circa una o più categorie di reddito che hanno
fonte in un certo Stato e percepite nell’altro Stato vengono sistematicamente
trasmesse all’altro Stato;
su richiesta: le fonti di informazioni disponibili secondo le procedure di
25
accertamento interno dovrebbero essere messe a disposizione su richiesta di
informazioni da parte dell’altro Stato;
spontaneamente: uno Stato che ha acquisito informazioni tramite proprie
investigazioni può trasmetterle all’altro Stato qualora reputi che siano di interesse.
L’art. 26, paragrafo 2, del Modello OCSE chiarisce che uno Stato non è obbligato
a superare i limiti posti dalla propria norma interna e dalle procedure amministrative nel
mettere a disposizione le informazioni all’altro Stato; tuttavia, devono essere
predisposte apposite procedure al fine di far fronte alle richieste dello Stato.
15.
I PARADISI FISCALI
Il termine “paradiso fiscale” (o “tax haven”) è equivalente all’espressione di
matrice francese di paese “regime fiscale privilegiato”. Tale espressione identifica quei
paesi che non prevedono un’imposizione fiscale sui redditi delle persone fisiche e
giuridiche, nonché quelli che assoggettano tali redditi ad un’imposizione assai limitata.
Rientrano nella nozione, inoltre, anche quei paesi che, pur nell’ambito di un sistema
impositivo sostanzialmente normale, prevedono esenzioni o altri particolari vantaggi per
alcuna categorie di redditi o per determinate forme societarie; in particolare, alcuni
paese a fiscalità privilegiata sono vantaggiosi per le persone fisiche, per le persone
giuridiche, per entrambi.
Sebbene non esista una definizione unica e condivisa di paradisi fiscali, possono
individuarsi le seguenti categorie desumibili da una copiosa trattatistica:
1)
pure tax haven;
2)
low tax haven;
3)
no tax on foreign insocme;
4)
special tax haven.
La prima e la seconda categoria sono costituite da giurisdizioni caratterizzate da
sistemi economici di ridotte dimensioni il cui gettito non è rilevante e deriva
prevalentemente da imposte indirette; queste giurisdizioni traggono vantaggio
dall’assenza o dalla bassa tassazione delle imposte dirette per promuovere gli
investimenti, soprattutto di tipo finanziario. I paesi in cui rientrano gli Stati a fiscalità
privilegiata delle prime due categorie, applicando una tassazione nulla o ridotta in via
generalizzata, non sono nelle condizioni di concludere Convenzioni contro la doppia
imposizione con gli altri Stati per carenza strutturale dell’elemento della reciprocità.
I paesi che rientrano nella terza categoria prevedono un regime di tassazione per i
redditi prodotti localmente dalle persone fisiche e dalle persone giuridiche ma di
esenzione per i redditi di fonte estera prodotti dalle società residenti, e quindi sovente
26
sono stati contraenti di Convenzioni, pur essendo oggetto di misure sovranazionali
relative alla concorrenza fiscale dannosa, ovvero di misure interne degli altri Stati
relative ai paradisi fiscali.
Infine i paesi che rientrano nella quarta categoria spesso non sono paesi a regime
fiscale privilegiato in senso proprio, ma giurisdizioni in cui obiettivi sono quello di
permette la costituzione di enti e strutture caratterizzate da elementi di flessibilità e
riservatezza di vario genere, concedendo esenzioni e benefici fiscali per determinate
categorie di reddito, attività o società e quello di garantirsi una rete di trattati contro la
doppia imposizione. Tali paesi sono prevalentemente stati contraenti di Convenzioni e
ciò ha comportato l’incremento di misure di salvaguardia nell’ambito delle Convenzioni
medesime dirette a prevenire l’utilizzo di società non operative localizzate in tali paesi.
Al di là delle diversità è possibile individuare i seguenti elementi variamente tipici e
caratterizzanti i paradisi fiscali:
1) assenza o basso livello d’imposizione, secondo una graduazione
nell’applicazione del regime fiscale privilegiato:
 totale, per tutto il territorio e relativo a soggetti ivi residenti e non
 riservato ai non residenti (società che svolgono attività commerciale o
finanziaria, società offshore);
 accordato solo a certe categorie di redditi, a certi tipi di operazioni o a certi tipi
di società (ad esempio le holding);
2) legislazione finanziaria e commerciale che presenta elementi di “privilegio”
rispetto alle omologhe legislazioni dei paesi industrializzati (ad esempio per quanto
concerne il segreto bancario);
3) sicurezza politica ed economica: con la prima si intende una struttura politica
solida che riduce l’incertezza degli investimenti; con la seconda si fa riferimento alla
presenza di una moneta stabile, all’assenza di controlli sui cambi per i soggetti non
residenti e ad un’organizzazione finanziaria e bancaria ben strutturata. Per quanto
riguarda l’Italia elenco dei paesi a fiscalità privilegiata è oggi contenuto nella c.d. black
list (istituiti con DM 4.09.1996, DM 4.05.1999, DM 21.11.2001, DM 23.01.2002) in
attesa che con decreto ministeriale venga introdotta la nuova white list che conterrà
invece l’elenco dei paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni (i paesi
non inclusi nella suddetta lista verranno considerarti paesi a fiscalità privilegiata).
27
16.
L’INDEDUCIBILITA’
DEI CORRISPETTIVI PAGATI AD IMPRESE LOCALIZZATE IN
PARADISI FSICALI
Con una norma di portate generale, coerente con il continuo mutamento degli
scenari economici internazionali e con l’elevata soglia di attenzione rivolta dai governi
alla lotta all’evasione fiscale, è stata introdotta nel TUIR una clausola diretta a
contenere la prassi simulatoria di compensi erogati a favore di soggetti situati in paradisi
fiscali mediante la indeducibilità delle componenti negative dal reddito d’impresa
imponibile in Italia.
La norma di riferimento è l’art. 110, comma 10, del TUIR, la quale dispone che
“non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da
operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori diversi
da quelli individuati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art.
168 bis”.
Il richiamato art. 168-bis del TUIR – introdotto dalla legge 24 dicembre 2007, n.
244 (Finanziaria 2008) – prevede l’emanazione di un decreto del MEF con cui saranno
individuate due “white list” che andranno a sostituire le vigenti “black list”. La lista
prevista nel primo comma del citato articolo comprende i Paesi che consentono un
adeguato scambio di informazioni; quella prevista dal secondo comma include gli Stati
virtuosi in cui, oltre ad essere garantita la sussistenza del precedente requisito, il livello
di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia.
Nelle more dell’emanazione del decreto del MEF e fino alla sua entrata in vigore,
prevista per il periodo d’imposta successivo a quello della pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale, continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti sino al 31.12.2007, ovvero, si
fa riferimento alla black list contemplata nel D.M. del 23 gennaio 2002.
Tornando alla disposizione contenuta all’art. 110, comma 10, del TUIR, occorre
procedere all’analisi di tre principali profili caratterizzanti l’applicazione della
disciplina in esame:

ambito soggettivo;

ambito oggettivo;

disapplicazione della disciplina.
L’ambito soggettivo di applicazione della norma comprende le “imprese residenti”
in Italia e le “imprese” domiciliate nei cd. paradisi fiscali. Per quanto attiene al soggetto
italiano, per la sua individuazione è possibile fare riferimento alla circolare 22 settembre
1980, n. 32 la quale, in materia di transfer pricing, ha chiarito che il concetto di
“impresa” (di cui, nel caso specifico, all’art. 110, comma 7), richiama la nozione di
“imprenditore” sancita nell’art. 2082 c.c., includendo imprese individuali, società di
persone e società di capitali, ed escludendo i professionisti. Per quanto concerne, invece,
28
la qualificazione del soggetto estero, si richiama, al pari del soggetto italiano “impresa”,
la circolare 32/1980; inoltre, per espressa previsione del comma 12 bis dell’art. 110 del
TUIR, il meccanismo normativo è stato esteso anche alle prestazioni di servizi rese da
professionisti che siano domiciliati o residenti in territori a fiscalità privilegiata non
appartenenti all’Unione europea.
Per quanto concerne l’ambito oggettivo di applicazione della norma l’art. 110,
comma 10, del TUIR stabilisce che “non sono ammesse in deduzione le spese e gli altri
componenti negativi” derivanti da operazioni intercorse con imprese domiciliate nei
paradisi fiscali. L’interpretazione del termine “spesa” non pone alcun dubbio, essendo
contemplato all’art. 64 del TUIR; diversamente, l’espressione “altri componenti
negativi” richiede una specifica delle poste passive incluse nella definizione. Il
problema si era già posto negli anni ottanta in materia di transfer pricing: all’epoca
l’Amministrazione si era schierata a favore di un’interpretazione estensiva della
locuzione (inserendovi anche plusvalenze e perdite); alla luce di questa interpretazione e
della dottrina prevalente, nonché coerentemente con lo spirito della norma, le
componenti negative di reddito comprese sono:
spese per prestazioni di lavoro (art. 95 TUIR);
oneri fiscali contributivi ed oneri di utilità sociale (artt. 99 e 100 TUIR);
minusvalenze patrimoniali, sopravvenienze passive e perdite (art. 101 TUIR);
ammortamento di beni materiali, immateriali e finanziario dei beni gratuitamente
devolvibili;
altri accantonamenti (artt. 102, 103 e 104 TUIR);
svalutazione dei crediti e accantonamento per rischi su crediti (art. 106 TUIR);
spese pluriennali (art. 108 TUIR).
L’art. 110, comma 11, del TUIR prevede alcune condizioni al verificarsi delle
quali non opera la regola di indeducibilità dei costi e dei componenti negativi di reddito.
In particolare, la presunzione di indeducibilità può essere superata tramite l’esibizione,
da parte dell’impresa residente in Italia, di una delle seguenti prove:
a) svolgimento in via prevalente di un’attività commerciale effettiva da parte della
società domiciliata nel paradiso fiscale: ciò avviene tramite la dimostrazione della
sua credibilità commerciale e dell’effettiva operatività (lo scopo è quello di
penalizzare i soggetti esteri costituiti con l’unico intento di attuare una
concorrenza fiscale dannosa). L’impresa estera deve realmente e concretamente
svolgere l’attività tramite un’organizzazione sul posto di mezzi e persone “idonea
a presiedere allo svolgimento della citata attività oppure – qualora parte
dell’attività (ad esempio la vendita) sia svolta al di fuori del territorio – alla sua
autonoma preparazione o conclusione” (Assonime, Circ. 36/2004);
b) Effettivo interesse economico all’operazione e sua concreta attuazione:
29
l’“effettivo interesse economico” implica che la scelta imprenditoriale sia sorretta
da una valida giustificazione di tipo economico a beneficio della specifica attività
imprenditoriale; per dimostrare la sussistenza di tale requisito possono essere
utilizzati parametri quali la maggiore competitività dei prezzi praticati, l’obiettivo
di ingresso in nuovi mercati ovvero la produzione di beni in una ristretta area
geografica che potrebbe impedire all’impresa residente di reperire altrove beni
similari.
E’ stata altresì regolata la fase del contraddittorio tra uffici tributari e contribuente:
l’art. 110, comma 10, terzo periodo, stabilisce che l’Amministrazione, prima di
procedere all’emissione dell’atto di accertamento d’imposta o di maggiore imposta,
deve notificare all’interessato un avviso con cui si concede allo stesso la possibilità di
fornire chiarimenti e produrre prove entro i successivi 90 giorni. Qualora le prove
eventualmente fornite dovessero essere giudicate inidonee, verrà emesso l’atto di
accertamento (art. 110, comma 11, ultimo periodo).
Dall’analisi compiuta sul dettato dell’art. 110, commi 10-12 bis, del TUIR emerge
che l’operazione intercorsa tra un soggetto “impresa” residente in Italia ed un soggetto
(impresa o professionista) domiciliato in un paradiso fiscale viene considerata alla
stregua di un’operazione inesistente, stante la presunzione della mancanza di
un’effettiva sostanza economica in ragione della localizzazione territoriale.
Si tenga conto del fatto che la regola di indeducibilità fissata dalla norma era
originariamente applicata limitatamente alle transazioni intragruppo, ed è stata
successivamente estesa a tutte le operazioni, ancorché poste in essere con soggetti non
appartenenti al medesimo gruppo. E’ quindi evidente la diversità di prospettiva rispetto
alla disciplina del transfer pricing e delle Cfc in quanto l’ambito applicativo della
disposizione risulta più ampio. La presunzione di inesistenza di una effettiva sostanza
economica può essere vinta solo qualora il contribuente fornisca la prova che la società
estera svolge un’attività economica nel territorio ove ha posto la residenza o, comunque,
che gli atti negoziali hanno una sostanza effettiva (e non meramente fiscale) ex art. 110,
comma 11, del TUIR.
17.
CFC
L’inserimento dell’Italia, come della maggior parte dei paesi sviluppati, in
organismi internazionali ed in mercati che non conoscono frontiere, condiziona per
molti aspetti le scelte del legislatore tributario. In particolare i “condizionamenti
internazionali” sono, per ragioni facilmente intuibili, relativamente deboli sulle attività
maggiormente radicate sul territorio statale (si pensi al settore immobiliare, al
30
commercio al dettaglio, all’artigianato), la cui clientela spesso non supera le dimensioni
cittadine o regionali. Non solo è difficile che questa attività si collochino all’estero, ma
è anche complesso attribuire loro elementi di costo, a fronte di ricavi assoggettati a
tassazione in paesi con fiscalità più vantaggiosa. La tassazione dei redditi finanziari di
impresa è invece facilmente trasferibile, sia per impiegarla in investimenti borsistici, sia
per utilizzarla in finanziamenti a società operative dei gruppi multinazionali, collocate
nei più vari paesi del mondo. In questo quadro si colloca la tendenza dei diversi stati ad
attirare con regimi tributari di favore investimenti finanziari o produttivi esteri; ciò
anche destreggiandosi tra le raccomandazioni dell’Unione europea e degli organismi
internazionali, che cercano di limitare le distorsioni provocate dalla diversità di regimi
fiscali sulla collocazione degli investimenti e delle imprese. Il caso limite di questa
tendenza è rappresentato dai c.d. “paradisi fiscali” (ossia in Stati o territori diversi da
quelli indicati nel Decreto, ancora da emanare, del Ministro dell’Economia di cui all’art.
168-bis TUIR) (ad esempio Bahamas, Montecarlo, Liechtenstein, ecc.) che, come già
detto, consentono la costituzione di società esenti da imposte, le quali successivamente
effettuano, anche grazie alle moderne tecnologie, investimenti finanziari sulle piazze più
diverse, oppure percepiscono compensi per l’uso di brevetti, marchi o diritti di licenza.
Ma anche paesi di maggiori dimensioni, come Svizzera, Olanda, Lussemburgo possono
offrire agli stranieri trattamenti fiscali privilegiati che hanno poco da invidiare a quelli
presenti nella lista dei paradisi fiscali. Nella competizione fiscale internazionale
esistono però anche manovre difensive, con cui gli Stati cercano di attrarre comunque a
tassazione i redditi che propri residenti conseguono tramite società controllate, ubicate
in paradisi fiscali. Tali manovre difensive infrangono lo schermo societario, che finora
consentiva di eludere il principio della tassazione, per i residenti, del reddito mondiale.
Senza questi interventi legislativi sarebbe infatti ad esempio lecito conferire i capitali da
investire a una società estera ubicata in uno stato a bassa fiscalità, e da quella base
effettuare gli stessi investimenti finanziari ottenendo un risparmio d’imposta, almeno
fino al momento della percezione dei relativi redditi a titolo di dividendo. Naturalmente
queste contromisure presuppongono che il soggetto controllante non ricorra a
prestanomi esteri per mascherare la titolarità della sua partecipazione, ma queste vere e
proprie frodi sono in teoria da escludere quando la società estera controllata appartiene a
grandi gruppi industriali. In Italia questo tipo di normativa è stata introdotta nel 2000 e
si trova oggi negli artt. 167 TUIR (Controlled Foreign Companies, di seguito anche
“CFC”) e 168 TUIR (imprese estere collegate). Queste disposizioni attraggono a
31
tassazione in capo ai soggetti italiani che hanno partecipazione di controllo o di
collegamento i redditi di società estere ubicate in paesi con regimi fiscali privilegiati.
Tali disposizioni, come vedremo, sono state recentemente integrate e modificate
dall’art.13 del D.L. 1 luglio 2009 n. 78.
Ai sensi dell’art. 167 TUIR se un soggetto residente in Italia detiene (direttamente
o indirettamente e anche tramite società fiduciarie o attraverso un soggetto interposto) il
controllo di un’impresa, di una società o di altro ente residente o localizzato in Stati o
118 territori diversi da quelli indicati nel Decreto del Ministro dell’Economia ex art.
168-bis, i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato sono imputati al controllante
residente in proporzione alle partecipazioni detenute. Tale disposizione si applica anche
per le partecipazioni in soggetti non residenti relativamente ai redditi derivanti da loro
stabili organizzazioni situati in Stati o territori diversi da quelli di cui al citato decreto.
La normativa in esame mira ad una sostanziale equiparazione della società estera
partecipata ad una stabile organizzazione o ad una società di persone trasparente. Per
quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della normativa in esame occorre
precisare quanto segue. Per i soggetti residenti la normativa in esame si applica a tutti i
soggetti residenti, anche non esercenti attività d’impresa, quindi persone fisiche, società
di persone e assimilate, società di capitali ed enti pubblici e privati, commerciali e non
commerciali. Tale disciplina non si applica se la società residente dimostra
alternativamente che:
a) la società o altro ente non residente svolga un'effettiva attività industriale o
commerciale, come sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede;
b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori
diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai
sensi dell’articolo 168-bis. Per i soggetti non residenti la normativa è applicabile solo
alle imprese, società e ad ogni altro ente residente in stati o territori a regime fiscale
privilegiati e ai soggetti non residenti in stati o territori a regime fiscale privilegiato, per
i soli redditi che a tali soggetti derivano da stabili organizzazioni che fruiscono dei
predetti regimi privilegiati. Ai fini della determinazione del requisito del controllo si
applica l’art. 2359 c.c. in materia di società controllate e collegate (anche se il soggetto
controllato non è una società commerciale), considerando la situazione alla data di
chiusura dell’esercizio o periodo di gestione della controllata estera. Qualora non sia
possibile evincere la data di chiusura dell’esercizio della controllata, si deve far
riferimento alla data di chiusura dell’esercizio della controllante.
32
L’ art. 2359 c.c. prevede tre tipi di controllo:
a) controllo di diritto: se un soggetto dispone della maggioranza dei voti esercitabili
nell’assemblea ordinaria;
b) controllo di fatto: se un soggetto dispone di voti sufficienti per esercitare
un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;
c) controllo c.d. esterno o su base contrattuale: se un soggetto esercita un’influenza
dominante su una società in virtù di particolari vincoli contrattuali. Nel caso di
persone fisiche, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari (coniuge, parenti
entro il 3° e affini entro il 2°).Ai fini del controllo è comunque necessaria una 119
partecipazione all’utile dell’impresa estera da parte del soggetto italiano (art. 4,
comma 3, DM 429/2001).
Con le modifiche introdotte dal D.L. 78/2009, l’applicabilità della disciplina viene
estesa ai soggetti controllati non residenti in stati o territori a regime fiscale privilegiato,
non solo per i redditi che a tali soggetti derivano da stabili organizzazioni, a patto che
vengano rispettate alcune condizioni di seguito meglio specificate.
La disciplina sulle CFC è stata da ultimo commentata ed esplicata dall’Agenzia delle
Entrate con la Circolare n. 51/E del 6 ottobre 2010.
Per quanto concerne le modifiche alla disciplina, il comma 5 dell’art. 167 TUIR,
relativo alla c.d. “prima esimente” o “business test”, così come modificato dall’art. 13
del D.L. n. 78/2009, prevede la disapplicazione della normativa nel caso in cui la
controllata sia effettivamente radicata nel territorio di insediamento.
Secondo tale disposizione, è necessario ai fini della disapplicazione della normativa
CFC non solo l’esercizio di un’attività industriale o commerciale nello Stato estero, ma
anche l’esercizio delle suddette attività nel mercato estero. Quest’ultimo in base alla
Circolare 51/E è da intendersi come collegamento al mercato di sbocco o al mercato di
approvvigionamento. Peraltro, il concetto di mercato non coincide con i confini
geografici del Paese in cui la CFC ha sede, ma deve intendersi esteso all’aera geografica
circostante legata al Paese di insediamento della CFC da particolari nessi economici,
geografici o strategici (c.d. area di influenza della CFC).
La citata previsione richiede quindi il requisito del radicamento dell’impresa
nella struttura economica dello Stato in cui la CFC è localizzata. Più precisamente, la
Circolare 51/E chiarisce che per la dimostrazione della prima esimente si deve provare
il radicamento oltre alla disponibilità in loco di una struttura organizzativa idonea dotata
di autonomia gestionale che quindi è un requisito necessario ma non più sufficiente.
33
Quanto al radicamento, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che lo stesso deve intendersi
come legame economico e sociale della CFC con il Paese estero e quindi l’intenzione di
partecipare, in maniera stabile e continuativa alla vita economica di uno Stato diverso
dal proprio e di trarne vantaggio.
Per le attività bancarie, finanziarie e assicurative, l’esimente si ritiene soddisfatta
“quando la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o
territorio di insediamento”. La Circolare 51/E chiarisce che per quanto riguarda le
assicurazioni la verifica del requisito del radicamento vada fatta avuto riguardo alla
residenza degli assicurati ed al luogo di ubicazione dei rischi nel presupposto che il
territorio in cui sono ubicati i rischi assicurati comporta necessariamente lo svolgimento
in loco di alcune fasi preminenti dell’attività assicurativa.
In ogni caso il collegamento con il mercato di sbocco o di approvvigionamento ai fini di
assumere una rilevanza per la norma in esame va considerato come una significativa
percentuale di acquisti o di vendite sul mercato locale superiore al 50 per cento.
Per effetto dell’introduzione del comma 5 – bis all’art. 167 TUIR, viene, inoltre,
previsto che la suddetta esimente non trova applicazione qualora i proventi della
partecipata estera derivino per più del 50% dai c.d. passive income, vale a dire : (i)
gestione, detenzione o investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività
finanziarie; (ii) cessione o concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà
industriale, letteraria o artistica; (iii) prestazione di servizi, ivi compresi i servizi
finanziari, nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la
società non residente, sono da questi controllati ovvero sono controllati dalla società che
controlla la società non residente.
Si tratta di una presunzione relativa di non esercizio di un’attività economica effettiva.
Si tratta di una presunzione relativa di non esercizio di un’attività economica effettiva.
La Circolare 51/E chiarisce che lo scopo della norma è quello di contrastare le c.d.
“società senza impresa”.
La prova contraria ai fini della disapplicazione della presunzione va data in sede i
interpello sostenendo la mancanza di intenti o effetti elusivi finalizzati alla distrazione
di utili dell’Italia verso Paesi o territori a fiscalità privilegiata (cfr. C.M. 51/E).
La Circolare 51/E chiarisce che la verifica del superamento della soglia del 50%
rappresentata dai “passive income” va effettuata di anno in anno a prescindere dal fatto
che il contribuente abbia già ottenuto parere favorevole alla disapplicazione della CFC
ex art. 167, comma 5, lett. c TUIR.
34
L’art. 13, comma 1, lettera c), del D.L. n. 78/2009 aggiunge il comma 8 – bis
all’art.167 TUIR; con questa modifica la disciplina CFC viene estesa anche alle imprese
estere che risiedono in stati diversi da quelli a fiscalità privilegiata, qualora ricorrano
congiuntamente le seguenti condizioni:
a) la tassazione effettiva nello Stato estero sia inferiore a più della metà di quella a cui
sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia; e
b) i proventi conseguiti derivino per più del 50% dai c.d. “passive income”.
Quanto alla prima condizione, si è osservato che le legislazioni europee che fanno
riferimento all’imposizione effettiva non attribuiscono rilevanza all’aliquota nominale
ma a quella effettiva, derivante dal rapporto tra l’ammontare delle imposte applicate al
soggetto estero e il reddito prodotto dallo stesso, rideterminato secondo le regole dello
Stato estero che applica la normativa CFC.
La Circolare 51/E chiarisce che ai fini del raffronto tra la tassazione effettiva estera e
quella virtuale interna si devono considerare esclusivamente le imposte sui redditi
individuate facendo riferimento alla Convenzione contro le doppie imposizioni di volta
in volta applicabile ed escludendo in ogni caso l’IRAP. Inoltre ai fini del carico effettivo
di imposizione va considerato il c.d. “effective tax rate” individuato come il rapporto tra
l’imposta corrispondente al reddito imponibile e l’utile ante imposte.
La Circolare 51/E precisa che quanto alla determinazione del “tax rate estero” si deve
partire facendo riferimento ai dati risultanti dal bilancio di esercizio della società estera
redatto secondo le norme locali.
Ai fini del calcolo, vanno computate (i) le imposte sul reddito effettivamente dovute
nello Stato estero, senza considerare (ii) eventuali crediti di imposta per redditi prodotti
all’estero riconosciuti dallo Stato di insediamento nonché (iii) effetti sul calcolo
dell’imponibile e agevolazioni di carattere temporaneo riconosciuti alla generalità dei
contribuenti; ed tenendo conto altresì (iv) di riduzioni di imposta derivante da ruling e
(v) di agevolazioni riconosciute ai soci della CFC (es. accreditamento al socio di tutta o
parte dell’imposta estera della CFC).
Ai fini del calcolo dell’ “effective tax rate” estero rilevano le perdite maturate dalla CFC
a decorrere dal periodo di imposta in cui il contribuente italiano acquista il controllo
della medesima società.
Per quanto concerne l’“effective tax rate” domestico, il calcolo va effettuato partendo
dal bilancio di esercizio della CFC approvato con riferimento al periodo di gestione
anteriore a quello cui si applica la normativa CFC. Si devono quindi apportare le
35
variazioni in aumento ed in diminuzione previste dal TUIR, tenendo conto che gli
ammortamenti e i fondi per rischi ed oneri si considerano dedotti .
Come disposto dal nuovo comma 8–ter, la presunzione non si applica qualora il
contribuente presenti apposita istanza di interpello dalla quale risulti che l’insediamento
all’estero “non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito
vantaggio fiscale”.
A tale proposito, la Circolare 51/E ha chiarito che per escludere una “costruzione di
puro artificio” si deve avere una società estera realmente impiantata nello Stato di
stabilimento dove esercita attività economiche effettive. Vengo poi elencati puntuali
indici dell’artificiosità.
La presunzione del comma 8 – bis non opera nell’ambito del regime delle imprese
estere collegate di cui all’art. 168 del TUIR.
Ciò detto, per quanto riguarda l’operatività della disciplina questa comporta che i redditi
delle controllate vengono rideterminati come sopra indicato. Tali redditi conseguiti dalla
controllata estera, rideterminati come detto e convertiti secondo il cambio del giorno di
chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto non residente sono imputati
per trasparenza e a prescindere dall’effettiva percezione, al soggetto residente, in
proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili, diretta o indiretta, nel periodo
d’imposta in corso alla data di chiusura dell’esercizio della controllata non residente. In
caso di partecipazione indiretta per il tramite di soggetti residenti o di stabili
organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti, i redditi sono ad essi
imputati in proporzione alle rispettive quote di partecipazione. Quindi i redditi sono
attribuiti al primo soggetto residente (ovvero ai primi soggetti residenti qualora siano
più di uno) che si incontra(no) risalendo nella catena partecipativa in proporzione alla
rispettiva quota di partecipazione. Ai fini dell’imputazione dei redditi, si prescinde
dall’effettivo periodo di possesso della partecipazione; rileva infatti solo il possesso alla
data di chiusura dell’esercizio del soggetto estero.
I redditi sono assoggettati a tassazione separata da ciascun partecipante, nel periodo
d’imposta in corso alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del 121
soggetto non residente, con aliquota media applicata sul reddito complessivo netto del
soggetto residente e comunque non inferiore al 27%. Dall’imposta così determinata
sono ammesse in detrazione le imposte pagate all’estero a titolo definitivo. Le imposte
che rilevano a tal fine sono le imposte sui redditi della CFC e le imposte sui dividendi.
Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma, dai soggetti non residenti di cui al comma 1 non
36
concorrono alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all’ammontare del
reddito assoggettato a tassazione, ai sensi del medesimo comma 1, anche negli esercizi
precedenti. Le imposte pagate all’estero, sugli utili che non concorrono alla formazione
del reddito, sono ammesse in detrazione, ai sensi dell’art. 165, fino a concorrenza delle
imposte applicate ai sensi del comma 6, diminuite degli importi ammessi in detrazione
per effetto del terzo periodo del predetto comma.
Nel caso in cui la CFC distribuisca utili in misura maggiore rispetto ai redditi
tassati in capo alla partecipante, tali utili per la parte eccedente saranno integralmente
tassati in capo alla partecipante.
Il soggetto controllante è tenuto ad indicare i redditi relativi alle CFC controllate in
apposito prospetto della dichiarazione dei redditi, ossia, un Quadro FC per ciascuna
CFC controllata. Il bilancio o altro documento riepilogativo della contabilità d’esercizio
redatti secondo le norme dello Stato o territorio in cui risiede o è localizzata la
controllata estera, costituiscono parte integrante della dichiarazione.
Le disposizioni previste per le CFC si applicano con alcune particolarità anche nel
caso in cui il soggetto residente in Italia detenga, direttamente o indirettamente, anche
tramite società fiduciaria o per interposta persona, una partecipazione non inferiore al
20% agli utili di un’impresa, di una società o di un altro ente, residente o localizzato in
territori diversi da quelli indicati nel Decreto del Ministro dell’Economia di cui all’art.
168-bis; tale percentuale è ridotta al 10% se si tratta di società quotate in borsa (art. 168
del TUIR).
Ai fini dell’applicabilità della disciplina in esame si tiene conto anche delle
partecipazioni spettanti ai familiari. Inoltre per le partecipazioni indirette si tiene conto
della demoltiplicazione prodotta dalla catena partecipativa. Si considerano residenti o
localizzati in regimi fiscali privilegiati le imprese, le società ammesse comunque a
fruire di tali regimi. Tuttavia tale normativa non si applica per le partecipazioni in
soggetti non residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, che operano in tali
stati per il tramite di stabili organizzazioni.
La normativa in esame impone che il reddito della partecipata estera è imputato al
122 soggetto residente, anche non titolare di reddito d’impresa, in proporzione alla
percentuale di partecipazione. Il reddito oggetto di imputazione è determinato per un
importo pari al maggiore fra:
a) l’utile prima delle imposte risultanti dal bilancio della partecipata (da redigere
anche in assenza di un obbligo di legge);
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b)
un reddito induttivamente determinato sommando i valori che si ottengono sulla
base dei coefficienti di rendimento riferiti alle categorie di beni che compongono
l’attivo patrimoniale dell’impresa estera quali alcuni titoli dell’attivo circolante o
immobilizzati (ad esempio le azioni o quote di partecipazione anche non
rappresentate da titoli al capitale di società ed enti soggetti all’IRES, strumenti
finanziari similari alle azioni emesse da società di capitali) alcune
immobilizzazioni anche se non possedute in locazione finanziaria (beni immobili,
navi destinate all’esercizio di attività commerciali) altre immobilizzazioni
finanziarie anche in locazione finanziaria. L’imputazione e la tassazione del
reddito avvengono con le stesse modalità previste per le CFC.
Le disposizioni sulle CFC non si applicano se il soggetto residente presenta
preventivamente un’istanza di interpello all’Agenzia dell’Entrate ai sensi dell’art. 11 L.
212/2000 e DM 209/2001 al fine di dimostrare la sussistenza di una delle seguenti
condizioni:
a) la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o
commerciale, come sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha
sede;
b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o
territori in cui sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati.
Ai sensi dell’art. 5, comma 3, del DM 429/2001, ai fini della risposta positiva rileva il
fatto che: a) il soggetto estero svolga effettivamente un’attività commerciale ai sensi
dell’art. 2195 del codice civile come sua principale attività nello Stato o territorio a
fiscalità privilegiata con una struttura organizzativa idonea a tale attività; b) i redditi
conseguiti dalla CFC sono prodotti in misura non inferiore al 75% in altri Stati non
Black List ed ivi sottoposti a tassazione ordinaria; c) i redditi della SO del soggetto non
residente situata in paesi Black List siano soggetti a tassazione ordinaria nello stato in
cui il soggetto non residente risiede. La risposta viene resa entro 120 giorni. Opera il
meccanismo del silenzio-assenso. La risposta positiva consente la disapplicazione della
disciplina delle CFC anche 123 per i periodi di imposta successivi (salvo mutamenti
significativi).
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