CORSO ONLINE GRATUITO DI NEUROPSICOLOGIA

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LA NEUROPSICOLOGIA:
CORSO ONLINE GRATUITO DI NEUROPSICOLOGIA – Lez 1
corso on-line free – maggio 2008
a cura del Dr. Iglis Innocenti
Psicologo e specializzando presso la Scuola di Psicologia Clinica dell'Universita' degli Studi di Siena
(direttore Prof. M. A. Reda).
Socio fondatore e consigliere dell'Associazione Italiana Neuropsicologia (AINp).
Consulente d'Ufficio presso il Tribunale di Prato dove svolge perizie e consulenze in ambito sia penale che civile.
Collabora con il reparto di Neurologia dell'ospedale di Prato e con il Dipartimento di Neuroscienze dell'Universita' di
Siena.
Lavora con il Prof. Dettore ad un progetto nel carcere di Prato.
Docente presso il Master di "Psicologia e Neuropsicologia Forense" (Torino).
Docente presso il corso di perfezionamento "Le Demenze: diagnosi e riabilitazione neuropsicologica" (Roma).
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OBIETTIVO DEL CORSO
L'obiettivo del Corso online di Neuropsicologia e' cominciare a capire ed entrare nell'ambito della
Neuropsicologia, permettendo cosi' al collega di iniziare un percorso di crescita professionale in un
ambito tanto appassionante quanto promettente.
Esattamente in questa ottica non impareremo ad utilizzare i test, o a fare il Neuropsicologo, ma
potremo iniziare a gettare le basi per capire e comprendere di cosa ci si occupa, come lo si fa e,
ancora piu' importante, se lavorare nella Neuropsicologia e' per voi professionalmente e umanamente
gratificante.
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Corso online gratuito di Neuropsicologia
Docente: dott. Iglis Innocenti
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PROGRAMMA DETTAGLIATO
Lezione n 1
La Neuropsicologia
Lezione n 5
La Memoria: Una Visione d'Insieme
Introduzione
"Neuro-panoramica" storica
La valutazione neuropsicologica della memoria
Batterie globali:
Lezione n 2
La Valutazione Neuropsicologica
L'esame neuropsicologico
Fasi della valutazione neuropsicologica:
-
Definizione del problema;
Anamnesi;
Colloquio clinico;
Esame neuropsicologico formale.
Lezione n 3
I Test Neuropsicologici
Standardizzazione, punto di riferimento e cut-off
La scelta di un test
I test:
-
Test per le funzioni frontali;
Test di memoria a breve termine;
Test di memoria a lungo termine;
Test per il linguaggio;
Test per le funzioni visuo-spaziali;
Test per le funzioni attentive;
Test per le funzioni intellettive e di ragionamento
logico;
- Test per le funzioni prassiche.
Lezione n 4
Test di Valutazione Globale
I Test di Valutazione Globale:
- Mini Mental State Examination - MMSE;
- Milan Overall Dementia Assessment – MODA.
Procedure di somministrazione:
- I Sezione: orientamenti;
- II Sezione: autonomia nel quotidiano;
- III Sezione: test neuropsicologici.
Punteggio
Prove Verbali:
- Rievocazione Immediata e Differita delle 15 parole
di Rey;
- Fluidita' verbale fonologica;
- Costruzione di frasi.
Prove Visuo-Spaziali:
-
Matrici Progressive Colorate di Raven;
Memoria visiva immediata;
Copia di disegni a mano libera;
Copia di disegni con elementi di programmazione;
Clock Drawing Test – CDT.
- Wechsler Memory Scale;
- Test di Memoria Comportamentale di Rivermead –
TMCR.
Test per la valutazione della Memoria a breve termine:
- Test per la valutazione della Memoria a breve termine;
- Test di Corsi.
Test per la valutazione della Memoria a lungo termine:
- Breve racconto 1;
- Apprendimento di coppie di parole 1;
- Apprendimento supra-span verbale - tecnica di
Buschke-Fuld;
- Curva di posizione seriale;
- Apprendimento Spaziale Supra-Span;
- Test della figura di Rey.
Funzioni esecutive e lobi frontali
Deficit frontale: un'ipotesi interpretativa
La valutazione delle funzioni frontali:
- Trail making Test – TMT;
- Wisconsin Card Sorting Test – WCST;
- Test della Torre di Londra – TOL.
Lezione n 6
L'Attenzione
Attenzione selettiva
Attenzione divisa
Attenzione sostenuta e livelli di attivazione (arousal)
La valutazione neuropsicologica dell'attenzione
Test attenzione selettiva:
- Test di Cancellazione di Cifre;
- Test di Stroop;
- Test di barrage di linee.
Test attenzione divisa:
- Continuos Performance Test o CPT;
I disturbi del riconoscimento: Le agnosie
- Le agnosie visive;
- Agnosie per gli oggetti;
- Test di valutazione delle agnosie visive.
Batterie di screening globali per l'agnosia:
- Birghingham Object Recognition Battery – BORB.
Test sensibili ad un disturbo della discriminazione
sensoriale:
- Test di Efron.
Test sensibili ad un disturbo agnosico di tipo
appercettivo:
- Test delle figure sovrapposte.
Test sensibili ad un disturbo agnosico di tipo
associativo
Bibliografia
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Introduzione
La Neuropsicologia, benché sia una disciplina relativamente giovane, affonda le proprie
radici storiche in tempi piuttosto remoti. Essa, infatti, fa parte del più ampio e longevo settore
scientifico denominato “Neuroscienze”, un vasto corpus di discipline scientifiche il cui unico
scopo è lo studio del cervello e, più in generale, del sistema nervoso. In tale ambito, la
Neuropsicologia si caratterizza per il suo obiettivo di studiare i processi cognitivi e
comportamentali, correlandoli con i meccanismi anatomo-funzionali che ne sottendono
l’attuazione (Umiltà, ***). Come le Neuroscienze, anche la Neuropsicologia ha una natura
interdisciplinare, le cui conoscenze derivano dagli sforzi di vari settori di ricerca, dalla psicologia
cognitiva alla neurologia, dalla neurofisiologia alle scienze dell’informazione.
L’assunto alla base di questa straordinaria scienza è che i processi cognitivi sono correlati con
il funzionamento di specifiche strutture cerebrali, il cui danno può generare disturbi
delle funzioni cognitive; tali disturbi producono un effetto a livello comportamentale,
determinando i presupposti per poter effettuare una stima del deficit a livello cognitivo attraverso
l’impiego dei test.
La Neuropsicologia clinica è una scienza applicata che si interessa dell’espressione
comportamentale di una disfunzione cerebrale (Lezak, 2000). Tale disciplina, quindi, descrive i
quadri cognitivi e comportamentali che si realizzano a seguito di lesioni cerebrali e ne ricerca la
spiegazione alla luce di modelli interpretativi cognitivi o neurofunzionali. Infatti, la ricerca
neuropsicologica studia gli effetti cognitivi dei danni cerebrali in seguito a eventi patologici
(ictus cerebrali, traumi cranici, neuroplasie, demenze etc.) allo scopo sia di contribuire
all’elaborazione di teorie sulla organizzazione delle funzioni cognitive, sia di stabilire correlazioni
con le loro basi neurofunzionali. Un altro intento della Neuropsicologia clinica è quello di costruire
strumenti di valutazione specifici ed accurati (test, questionari, griglie di osservazione
comportamentale) al fine di valutare e stimare il deficit insorto.
Prima di addentrarci nel vivo di questa disciplina, ritengo opportuno dedicare le pagine che
seguono alla descrizione generale degli eventi e dei personaggi che da un punto di vista storico
hanno rappresentato una tappa fondamentale per la nascita della Neuropsicologia. Questo per un
motivo molto valido: quello che sappiamo oggi non è altro che la superficie di una mare ben più
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profondo: le scoperte che vengono fatte ai nostri giorni poggiano sulle idee e sugli sforzi di molti
altri uomini venuti prima di noi (non a caso Newton scrisse: ”Se ho visto più lontano, è perché
stavo sulle spalle di giganti”). Quindi, se vogliamo davvero conoscere una disciplina, dobbiamo
obbligatoriamente conoscerne il “dietro le quinte”, ovvero ciò che vi è stato nelle fasi precedenti
alla sua nascita e al suo sviluppo.
L’intento di questo breve corso non è certo di “insegnare” a diventare neuropsicologi, benché
meno quello di imparare ad utilizzare i test. Questo, sono sicuro, lo raggiungerete strada facendo,
attraverso studi e approfondimenti successivi (anche se mi auguro vivamente che nessuno di voi
arrivi un giorno ad esclamare “Oggi sono diventato neuropsicologo!”, dato che è il “sapere di non
sapere” che ci spinge ad andare avanti nella conoscenza dei fenomeni che osserviamo). In realtà,
ciò che spero vivamente è che le prossime pagine riescano ad instillare in voi una curiosità
sufficiente a stimolare ulteriori e più specifiche letture, dato che la conoscenza è un processo che
si ciba di un’attiva e appassionata ricerca, oltre che di uno studio ed un approfondimento
interessato. Come affermava Arturo Graf, “maestro è chi, poco insegnando, fa nascere nell’allievo
una voglia grande di imparare”.
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“Neuro-panoramica” storica
Il modo in cui il cervello “secerne” la mente, per riprendere l’aforisma del medico francese
Cabanis vissuto nel XVIII secolo, è un problema che ha interessato filosofi e naturalisti di ogni
civiltà e di ogni epoca e che è stato storicamente definito il problema mente – cervello. E quindi,
per illustrare al meglio tale percorso storico, dovremmo obbligatoriamente partire da coloro i quali,
per la prima volta e in modi assai diversi dai nostri, si sono posti il dubbio su cosa facesse
muovere l’uomo e quali “meccanismi” determinassero in questo il genio o la follia.
Un approfondita panoramica di questo tipo esula, però, dagli intenti di questo lavoro; pertanto,
per chi fosse interessato, rimandiamo a letture più specifiche. In questa sede ci basti ricordare che
la storia della Neuropsicologia e, più in generale, dello studio del cervello e del comportamento
umano, è intimamente connessa con la storia di molte altre discipline, come ad esempio
della medicina, della filosofia, della psicologia. Infatti, molti dei predecessori che hanno cercato di
studiare (più o meno rigorosamente) “colui che tutto move” (il cervello) appartenevano ai più
disparati campi del sapere, da quello medico a quello filosofico, da quello biologico a quello
meramente artistico. D’altronde, la stessa ripartizione del sapere in aree diverse è un puro artifizio
dell’uomo: come poter dire che la filosofia è un bacino di conoscenze a se stante, asettico da
saperi di altro genere? O che la medicina, la psicologia, la matematica e tante altre discipline (chi
più chi meno) non cedano o acquistino sapere l’uno dall’altra? (“Libero ciascuno di occuparsi di
quello che lo attrae, che gli fa piacere, che gli sembra utile; ma il vero e proprio studio dell’umanità
è l’uomo”, J.W.Goethe).
L’esame della compromissione delle funzioni cognitive in cerebrolesi ha una lunga tradizione nella
pratica clinica, ma ha una storia relativamente breve come campo coerente di indagine. La
descrizione e il tentativo di spiegare i disturbi cognitivi conseguenti a danni cerebrali possono
essere fatti risalire ai primi documenti scritti. A tal proposito, gli Egizi sono stati i primi a mettere
sistematicamente per iscritto informazioni di natura medica. Il papiro chirurgico di Edwin Smith,
ritrovato a Luxor nel 1862 dall’egittologo americano da cui prende il nome e completamente
tradotto nel 1930, primeggia come primo rapporto scritto sugli effetti di lesione alla testa.
Collocabile tra il 2500 ed il 3000 a.C, rappresenta la più antica informazione scritta che
possediamo sulla localizzazione di funzioni nel cervello, contenendo infatti le prime descrizioni a
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noi note di anatomia, fisiologia e patologia cerebrale: vengono trattati 48 casi, di cui i primi 8
riguardanti direttamente la traumatologia della testa e del cervello. Ciò che sorprende di questo
documento è la razionalità e l’approccio scientifico alla diagnosi e al trattamento dei pazienti qui
descritti, nonché la rara presenza di una traccia di magia o di superstizione nell’effettuare ipotesi
sulle osservazioni fatte.
Nonostante questo particolare modus operandi così “moderno”, nell’antico Egitto si riteneva
che il cuore (non il cervello!) fosse la sede dell’anima e della coscienza: basti pensare al
rito di mummificazione, durante il quale tutto il corpo veniva svuotato dei suoi organi interni
(ritenuti importanti per la vita nell’aldilà) e inseriti dentro 4 vasi canopi figuranti i 4 figli di Horus. Il
cranio, invece, veniva completamente svuotato del cervello attraverso le narici e… gettato via!
Questa svalutazione nei confronti del cervello rispetto al cuore subì un lento viraggio
nell’antica Grecia: durante tale maestosa cornice storica e culturale, ci fu un fervente
susseguirsi di teorie diverse, oscillanti fra due diverse posizioni, quella cardiocentrica (sostenuta,
fra l’altro, da Aristotele ed Empedocle) e quella encefalocentrica (il cui rappresentante più
importante è il padre delle medicina moderna Ippocrate). Solamente dopo molti secoli, con la
nascita dell’anatomia, della fisiologia e col pensiero di Cartesio, si affermò l’idea della
preminenza del cervello nell’attività psichica. Ciò non senza dubbi che perdurarono fino alla
fine del XVIII secolo.
Ma per la nascita della Neuropsicologia, senza dubbio il XIX secolo rappresentò un palcoscenico
particolarmente fecondo, su cui fecero il loro debutto due eventi che avrebbero dato un nuovo
impulso allo studio del comportamento umano: la teoria frenologica di Franz J. Gall e la relazione
su un paziente afasico portata ad una seduta della Società di Antropologia a Parigi dal medico e
antropologo francese Pierre Paul Broca.
Nei primi anni dell’800, cominciò a farsi strada una nuova teoria, che di lì a poco avrebbe creato
molto rumore nel mondo scientifico di allora: la frenologia di Franz J. Gall (1758-1828). Questi,
medico austriaco (nato in Germania), elaborò la sua dottrina “frenologica” sulla base dell’idea che
il cervello con le sue circonvoluzioni fosse suddivisibile in una moltitudine di “sistemi”
particolari, ognuno sede di una funzione specifica, e il cui sviluppo anatomico sarebbe in
rapporto al grado di sviluppo particolare che ciascuna funzione assume nei singoli individui.
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Secondo Gall, e secondo il suo allievo Johann Gaspar Spurzheim che contribuì con lui allo sviluppo
della frenologia, il maggiore o minore sviluppo anatomico dei vari sistemi cerebrali avrebbe portato
ad una modificazione della forma del cranio, con la comparsa di bozze o protuberanze rilevabili
dall’esterno e quantificabili con la tecnica della “cranioscopia”.
La maggior parte delle funzioni che Gall e Spurzheim localizzarono nelle aree in cui avevano
suddiviso la superficie del cervello nella loro “cartografia” cerebrale erano funzioni “elevate”, di
tipo intellettuale, emotivo, istintivo o etico (come appunto la tendenza alla matematica, il
linguaggio, la propensione verso l’idealità, l’amicizia, l’autostima, la combattività, la distruttività,
l’amore fisico, la tendenza alla costanza, la tendenza all’ordine, alla segretezza e così via).
Nonostante il nucleo concettuale su cui si basava la frenologia, cioè l’idea che le funzioni cerebrali
siano localizzate, fosse sostanzialmente valido, soprattutto grazie alle ricerche condotte a partire
dalla seconda metà dell’Ottocento, Gall e Spurzheim trovarono molte resistenze alle loro teorie
nell’ambiente culturale e scientifico del tempo. Una delle critiche che veniva loro rivolta, e
diciamo pure non a caso, era che tali teorie non si basavano su scrupolosi studi
scientifici, bensì su osservazioni e speculazioni scevre da qualsivoglia approccio sperimentale.
Soprattutto fu l’autorevole Pierre Flourens, professore al Collège de France, ad opporsi all’idea
della precisa localizzazione cerebrale. Sulla base di esperimenti condotti su animali, soprattutto sui
piccioni, ed in piena contrapposizione alle teorie di Gall, Flourens era arrivato a sostenere
una concezione pienamente “globalista” della funzione della corteccia cerebrale secondo la
quale tutta la massa cerebrale concorre in toto allo sviluppo delle facoltà cerebrali.
È in questa atmosfera culturale e scientifica che si arriverà nel 1861 ad una delle prime chiare
dimostrazioni della localizzazione di una funzione cerebrale, quella del linguaggio, ad
opera dello scienziato francese Paul Broca. Questi, a differenza di Gall, affrontò lo studio delle
funzioni cognitive superiori con l’unico approccio considerato veramente scientifico, quello analitico
della mentalità positivistica tipica del secondo Ottocento, partendo da due presupposti: che la
mente e il cervello funzionino in qualche modo per associazione di funzioni specifiche, e che esse
debbano essere in qualche modo localizzate nei lobi frontali (idea già presente, come si è detto,
nel pensiero di Gall).
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Come nelle migliori tradizioni storiche, esiste una data con la quale molti autori e studiosi di
Neuroscienze sanciscono la nascita della Neuropsicologia: 21 aprile 1861, quando cioè, in
una seduta della Società di Antropologia a Parigi, Pierre Paul Broca (1824-1880) presentò il caso
di un suo paziente che, pochi giorni prima di morire, era diventato afasico, aveva perso cioè la
capacità di esprimersi con le parole. Quel paziente era chiamato Tan, poiché tale era l’unica parola
che era in grado di dire, nonostante riuscisse a comprendere senza problema ciò che veniva lui
detto dagli altri.
Sulla base di questo celebre caso, Broca giunse ad affermare la correlazione tra la perdita
del linguaggio (che inizialmente definì “afemia”) e una specifica area del lobo frontale:
scoprì che lesioni della terza circonvoluzione frontale inferiore sinistra (oggi denominata, appunto,
“area di Broca”) producevano la perdita della facoltà del linguaggio motorio, pur non implicando
una paralisi dei muscoli usati in generale per la fonazione. In pratica, il paziente sembrava avere
un disturbo di linguaggio specifico. Famose le sue parole: ”Ove sia dimostrato che una funzione
cognitiva è legata ad un’area delimitata del cervello, cade la tesi secondo cui l’attività cognitiva
dipende dal funzionamento del cervello nel suo complesso e diviene del tutto verosimile che
ciascuna circonvoluzione possegga la sua funzione differenziata”.
Broca, in definitiva, nonostante riproponesse la teoria delle localizzazioni cerebrali, contrariamente
ai frenologi, sosteneva le sue affermazioni con dati oggettivi e documentabili.
Di lì a poco, sarebbe venuto fuori un nuovo caso clinico, capace anche questo di gettare nuove
conoscenze sul funzionamento cerebrale. Un neuropsichiatria tedesco, Karl Wernicke
(1848-1905), descrisse un caso di afasia diverso e contrario a quello di Broca. Infatti, il
paziente da questi studiato conservò la capacità di esprimersi attraverso un linguaggio
decisamente fluente, non avendo difatti impedimento ad emettere suoni linguistici; il problema, in
realtà, risiedeva in ciò che ne usciva fuori! Infatti, il linguaggio era totalmente incomprensibile (la
famosa “insalata di parole”): usava le parole in modo inappropriato e faceva errori di pronuncia
che riflettevano la scelta sbagliata dei suoni della parola. Wernicke esaminò post-mortem l’encefalo
di questo paziente riscontrando una lesione nel lobo temporale sinistro; la lesione non era ubicata
nella corteccia uditiva primaria, ma un po’ più posteriormente , estendendosi dalla prima
circonvoluzione temporale al lobo parietale (denominata oggi “area di Wernicke”).
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Quindi, per la prima volta, si parò davanti una situazione propizia per lo studio delle funzioni
cerebrali: da una parte, una lesione in una determinata area determinava una
particolare difficoltà ad esprimersi con le parole, con una preservata capacità di
comprensione linguistica; dall’altra, si aveva una condizione speculare, tale per cui il
paziente riusciva a “parlare” ma non ad “esprimersi”, cioè a comunicare (se per
comunicazione s’intende emettere dei suoni dotati di significato e, quindi, comprensibili dagli altri).
Questo è il tipico caso di “doppia dissociazione”, situazione propizia di cui la Neuropsicologia
Cognitiva approfitta per lo studio delle funzioni cognitive: una situazione in cui si osservano
pazienti con deficit cognitivi complementari, in cui uno di questi ha un deficit selettivo di alcune
abilità cognitive con risparmio di altre, mentre l’altro presenta un quadro cognitivo opposto. Tale
situazione fornisce una dimostrazione che alcune componenti funzionali della normale
architettura cognitiva possono essere lese le une indipendentemente dalle altre, e che
esse sono, dunque, funzionalmente separabili.
Ma Wernicke, al contrario di Broca, si spinse oltre. Egli, infatti, non si limitò a constatare una
mera associazione tra una lesione ed un disturbo (metodo anatomo-clinico), ma costruì un vero
e proprio modello delle funzioni linguistiche, unendo le osservazioni cliniche effettuate dal
suo collega francese con le proprie (metodo anatomo-funzionale). Il modello teorico proposto dal
neuropsichiatria tedesco tentava di spiegare le corrispondenze tra linguaggio e cervello, secondo
cui una determinata funzione non dipendeva da una singola struttura (come affermavano i teorici
della localizzazione cerebrale) ma dall’attività di più strutture cerebrali che si associano fra loro
funzionalmente. Si distingueva, infatti, un centro motorio (situato nel lobo frontale sinistro, area di
Broca) la cui lesione avrebbe portato a un disturbo di produzione del linguaggio; un centro
sensoriale (situato nel lobo temporale sinistro) la cui compromissione avrebbe causato disturbi di
comprensione del linguaggio. Le due aree, infine, erano associate funzionalmente attraverso un
grosso fascio di fibre (il fascicolo arcuato), deputato alla trasformazione della rappresentazione
acustica in rappresentazione motoria, e la cui interruzione avrebbe prodotto un altro tipo di
disturbo afasico, denominato per l'appunto “afasia di conduzione”.
L’importanza di tale concettualizzazione per la nascita e lo sviluppo della Neuropsicologia è
pressoché evidente: si veniva, infatti, ad introdurre per la prima volta in maniera
sistematica e scientifica la concezione di una struttura multicomponenziale di un
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processo mentale (in questo caso il linguaggio) con disturbi differenziati a seconda delle
componenti danneggiate.
Tale metodo sarà ripreso in seguito da molti studiosi del campo, come ad esempio Baddeley e
Hitch (1974) per la costruzione di uno dei modelli multicomponenziali più fecondi fino ad oggi
elaborati per la ricerca scientifica sui processi di memoria: il modello della Memoria di Lavoro o
Working Memory.
Comunque, anche Broca non si fermò qui. Egli, infatti, raccolse informazioni su altri otto casi di
afasia, giungendo ad una conclusione davvero rivoluzionaria. Infatti, oltre ad avere poggiato le
basi della moderna Neuropsicologia definendo come aree diverse possano rappresentare il
substrato anatomico di funzioni cognitive diverse, e che quindi la lesione di una determinata area
provoca disturbi diversi da quelli di un’altra area, egli sentenziò anche che vi erano differenze
sostanziali anche fra i due emisferi cerebrali (differenze interemisferiche): soltanto una
lesione all’emisfero sinistro provocava un’alterazione del linguaggio, mai con il destro. Da qui, la
famosa frase dello stesso Broca: “Noi parliamo con l’emisfero sinistro”.
Successivamente, queste scoperte e teorie sul funzionamento cognitivo furono riprese ed ampliate
da altri studiosi, i quali se ne servirono per la costruzione di nuovi modelli sul funzionamento
cognitivo. Ad esempio, negli anni ’60, il neurologo Geschwind, riprendendo proprio l’idea di
Wernicke sull’afasia di conduzione, coniò il termine di “sindrome da disconnessione,”
descrivendo pazienti in cui erano state interrotte le connessioni tra centri di uno stesso emisfero
(disconnessione intraemisferica) o tra centri localizzati nei due emisferi (disconnessione
interemisferica), e concludendo che tali interruzioni provocavano una costellazione di sintomi
relativi al disturbo dell’integrazione funzionale tra i centri interessati.
Un notevole impulso allo sviluppo delle conoscenze sul legame mente e cervello fu dato dal grande
neuropsicologo sovietico Aleksandr R. Luria. Oltre ad effettuare la prima sintesi sistematica di
tutta la letteratura clinica, in particolare sull’afasia, inerente ai danni cognitivi in conseguenza di
alterazioni cerebrali (Luria, 1947), egli descrisse molti nuovi casi clinici di pazienti con lesioni al
cervello. Di particolare rilevanza scientifica sono le sue due opere pubblicate intorno agli anni ’60 e
‘70: “Le funzioni corticali superiori nell’uomo” (1962), e “Come lavora il cervello”, (1973).
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Attraverso questi scritti, egli propose una teoria delle funzioni corticali superiori da cui
dipendono i processi mentali. Infatti, secondo Luria, i processi mentali, come il linguaggio o la
memoria, sono “sistemi funzionali”, cioè insiemi complessi di sotto-funzioni, ciascuna delle quali è
svolta da una struttura cerebrale specifica (Viggiano, 1995). Questo significa che un dato
processo cognitivo non è strettamente dipendente dal funzionamento di una data area
(come volevano, invece, i localizzazionisti), ma da un insieme di aree fra loro
funzionalmente associate. Di conseguenza (ed è proprio questa l’idea rivoluzionaria, che
peraltro troverà conferma negli studi effettuati nei decenni successivi, come ad esempio gli studi
sulla memoria), una lesione ad una componente di questo insieme non determina un danno
generalizzato a tutta la funzione cognitiva, bensì solamente a quella componente, con la
preservazione delle altre. La lesione, in altri termini, non determina una completa alterazione e
riorganizzazione dei processi cognitivi, ma rende non più funzionali alcune delle componenti
(chiamati anche “moduli”) del sistema.
Se ci facciamo caso, è proprio ciò che è avvenuto ai pazienti di Broca e Wernicke, ovvero, in
maniera del tutto speculare, era venuto alterandosi il funzionamento di una determinata
componente (nel caso di Broca, quella “produttiva” del linguaggio, nel caso di Wernicke, quella
sensoriale o “di comprensione” del linguaggio), ma in nessuno dei due casi si aveva una
compromissione “totale” della facoltà linguistica del soggetto (in quanto, almeno una delle due
altre componenti veniva preservata).
Altra forte spinta alla ricerca neuropsicologica fu dato negli anni ’60 dalle ricerche del grande
Roger W. Sperry eseguite sui pazienti cosidetti “split-brain” o “cervello diviso” (per le quali fu
insignito del premio Nobel), ossia pazienti ai quali, per ragioni terapeutiche, era stato reciso il
grande fascio di fibre nervose denominato “corpo calloso”, una robusta e consistente lamina
bianca, il cui scopo è unire le due facce interne dei due emisferi. In pratica, tale “disconnessione
interemisferica” (per riprendere il termine di Geschwind) diede la possibilità ai ricercatori di
effettuare studi sulla specializzazione funzionale emisferica, permettendo così di approfondire la
conoscenza delle funzioni di ciascuno emisfero e di comprendere il ruolo della integrazione
funzionale interemisferica nei processi cognitivi.
Infatti, i dati relativi a questi studi rilevarono che i due emisferi cerebrali hanno una
modalità di funzionamento fra loro indipendente, dando origine ad autonome risposte
comportamentali; se il comportamento deriva dall’emisfero sinistro, quello destro può
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intervenire utilizzando messaggi non-verbali (per cui sembra essere specializzato), di cooperazione
o di conflitto (quando, ad esempio, vi è la situazione in cui le due mani eseguono movimenti
antagonisti, l’una che abbottona e l’altra che sbottona una camicia); se invece il comportamento
deriva dall’emisfero destro, quello sinistro interviene soprattutto con una codifica di natura verbale
(per cui, come aveva già evidenziato Broca con il suo famoso epitaffio, sembra avere una
specializzazione).
Questa dei pazienti “split-brain” è una conferma del “sistema funzionale” di cui parlava Luria:
infatti, anche in questo caso notiamo come il cervello sia organizzato in moduli funzionali e come a
ciascuno di essi sia dato prendere parte ad una componente del compito (o comportamento). Di
conseguenza, il risultato (scegliere fra due o più opzioni, tirare un calcio al pallone, studiare una
poesia) sarà dato dall’insieme delle operazioni di numerosi moduli cerebrali, sapientemente
orchestrati e organizzati fra loro.
Intorno agli anni ’70, la Neuropsicologia cominciò a sviluppare il proprio impianto
concettuale e metodologico sotto l’influenza della nuova impostazione cognitivista
(Viggiano, 1995). Mentre fino ad ora l’impostazione prevalentemente adottata consisteva
nell’utilizzare il disturbo neuropsicologico per determinare una corrispondenza fra una struttura
cerebrale e un processo mentale (se vogliamo, un impostazione poi non tanto distante dall’idea
cartesiana di identificare la ghiandola pineale o ipofisi come il centro in cui mente e cervello
s’incontrano), adesso il deficit cognitivo viene usato come mezzo per chiarire
l’organizzazione del processo mentale stesso.
Infatti, la Neuropsicologia Cognitiva (come viene solitamente chiamata) dirige i suoi sforzi alla
spiegazione della struttura stessa di un dato processo cognitivo (componenti, sottocomponenti, stadi, livelli etc.), come esso si relazioni e si integri con altri processi mentali, quali
moduli siano preposti al funzionamento di una data sotto-funzione, etc.
La nascita di questa impostazione è stata facilitata dal paradigma psicologico dominante a quel
tempo (anni ’60), ovvero quello che presupponeva l’esistenza di modelli di elaborazione
dell’informazione. Secondo tale paradigma (denominato H.I.P., ovvero Human Information
Processing), i modelli proponevano l’esistenza di diverse componenti tra di loro connesse
(postulate sulla base di ricerche di psicologia sperimentale). Ciò significava che se il sistema
cognitivo è organizzato in centri separati, allora è verosimile che una lesione colpisca
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selettivamente un centro (o funzione) lasciando relativamente intatti gli altri centri (e quindi le
altre funzioni).
In sintesi, vediamo quali sono i concetti chiave della Neuropsicologia Cognitiva come si
stavano delineando in quegli anni:
1. Assunzione di modelli della funzione normale strutturati secondo le regole del paradigma
H.I.P.
2. Studio intensivo ed analitico per identificare il livello (o componente) in cui si è verificata la
disfunzione.
3. Principio della modularità (Marr; Fodor): in pratica, secondo tale principio le operazioni
mentali sono compiute da moduli relativamente indipendenti, che elaborano specifici input,
verosimilmente associati a substrati neurali specifici;
4. Paradigma della doppia dissociazione (vedi sopra).
5. Associazione di sintomi in un singolo paziente (sindrome).
6. Isomorfismo tra la descrizione funzionale delle componenti cognitive e le strutture neurali
sottostanti
7. Principio di trasparenza: la performance patologica osservata fornisce una base per
discriminare quale componente funzionale del sistema è lesionata (Caramazza, 1984), cioè
il sistema cognitivo del paziente è fondamentalmente lo stesso del soggetto normale tranne
che per una alterazione locale, che dovrebbe direttamente rivelare le operazioni compiute
dalla componente lesionata.
8. La valutazione neuropsicologica: le categorie tradizionali dello stato mentale
(linguaggio, memoria etc.) non sono unitarie, presentano cioè dissociazioni interne
valutabili con particolari strumenti, quali i test neuropsicologici
9. Gli studi di imaging dimostrano che anche compiti mentali semplici attivano reti distribuite
e non un singolo “centro dedicato”.
Da queste premesse capiamo come le ricerche della Neuropsicologia cognitiva fossero condotte
facendo riferimento a un modello dei processi cognitivi, in cui tali processi erano frazionati in
meccanismi o processi più semplici ed indipendenti che potevano essere danneggiati da lesioni
specifiche. Un esempio paradigmatico di ciò che è stato appena detto sono le ricerche sulla
memoria, le quali hanno gettato le basi per la costruzione di modelli che ne spiegassero il
funzionamento: tali modelli mostrano come ciò che chiamiamo “memoria” non sia un abilità
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cognitiva unitaria, bensì un processo multicomponenziale, articolato in varie dimensioni
funzionali, livelli e moduli, ciascuno a sua volta legato ad una funzione specifica e
determinante del processo mnestico.
L’intreccio fra Neuropsicologia e psicologia cognitiva (e più in generale con la scienza cognitiva,
che comprende, fra le altre, anche l’intelligenza artificiale) è sempre stato molto fecondo, e tuttora
continua ad esserlo, proponendo prospettive di studio e di ricerca davvero molto interessanti.
Va, infine, sottolineato un altro aspetto molto importante. Infatti, la Neuropsicologia Cognitiva
assume una impostazione metodologica di ricerca. Infatti, se nella prima metà del
Novecento il metodo utilizzato era prevalentemente quello del caso singolo (si pensi agli studi di
Broca, Wernicke o di Luria), adesso cominciava ad essere predominante la metodologia
sperimentale. Si riteneva, infatti, che lo studio di gruppi avesse il vantaggio statistico di
eliminare la variabilità che “obbligatoriamente” si riscontrava nel caso singolo, dovuta alle
caratteristiche individuali. Ancora oggi è aperta la diatriba fra i sostenitori delle due metodologie:
infatti, molti dei ricercatori che adottano il caso singolo come metodo di studio (fra questi anche il
noto Caramazza) propendono per la maggior rilevanza conoscitiva dei singoli casi clinici per una
migliore comprensione dell’architettura neurocognitiva, sottolineando come la specificità
individuale dei disturbi sia talmente alta che sarebbe impossibile ricondurla ad un disturbo “medio”
(come invece vorrebbero i ricercatori “sperimentali”) rilevato statisticamente all’interno del gruppo
dei pazienti stessi.
Come già preventivato all’inizio di questa lezione, questo breve excursus non vuol
pretendere di fornire una panoramica esauriente e completa della storia della Neuropsicologia.
Molte altre opere e molti altri nomi di grandi ricercatori dovrebbero, infatti, entrare di diritto nel
“pentagramma” di questa lezione, ma purtroppo non basterebbero sicuramente le pagine per
menzionarli tutti. Comunque, esistono tanti libri dove viene dato sufficiente spazio a tutti i
neuroscienziati che hanno contribuito (e molti ancora lo fanno) alla costruzione di questa
straordinaria disciplina che ci aiuta nell’intento di arrivare il più vicino possibile alla comprensione
della mente umana.
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