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PRIMO PIANO
Mercoledì 19 Aprile 2017
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Una multa di 7 milioni di euro e l’immediata apertura di Android ai motori di ricerca russi
Una scoppola moscovita a Google
La Russia è riuscita dove Bruxelles ha sinora fallito
da Parigi
GIUSEPPE CORSENTINO
P
er la prima volta nella
sua storia di conquiste
planetarie (non c’è stata finora concorrenza
privata o autorità pubblica
capace di fermarla) la potentissima Google ha trovato un
regolatore nazionale in grado
di bloccarla sul mercato più
ricco e più sensibile, quello
delle applicazioni per smartphone da cui passa il business globale della pubblicità
e della comunicazione on line
(anch’essa infarcita di pubblicità più o meno trasparente,
come si sa).
Google e il suo sistema
operativo Android sono
stati fermati non a Parigi,
dove da un anno il «gendarme de la concurrence» tiene
aperto il solito dossier per
abuso di posizione dominante
a carico della multinazionale
americana, e neanche a Bruxelles dove la stessa autorità
europea da tempo indaga, interpella, acquisisce documenti, organizza call intercontinentali con l’headquarter
della Silicon Valley. Google
e il suo sistema operativo
Android sono stati bloccati
a Mosca, dall’Autorità russa
per la concorrenza che, visto
il risultato, immaginiamo sia
dotata di poteri più penetranti e di argomentazioni più
convincenti rispetto alle sue
omologhe europee.
Dopo una veloce istruttoria, Google è stata condannata a pagare una multa di
438milioni di rubli, pari a
circa 7milioni di euro (certo,
peanuts, noccioline per un gigante da 90 miliardi di dollari
di fatturato l’anno), ma, ecco il
punto chiave della decisione,
è stata obbligata a far spazio
a tutti gli altri motori di ricerca russi (a cominciare dal
leader, Yandex, che per questo
ha fatto un balzo del 5% lunedì scorso alla Borsa di Mosca)
che finora non potevano girare sui telefonini equipaggiati
con il sistema Android. Ora
gli smartphone, diffusissimi
soprattutto nelle grandi città
e tra i giovani (il target più
sensibile per l’industria pubblicitaria), sono aperti a tutti. Una prateria commerciale
per centinaia di applicazioni
«made in Russia».
Il presidente del regolatore moscovita, Igor Artemiev, un giurista che si è
laureato all’università di San
Pietroburgo, è palesemente soddisfatto. Non poteva
ottenere di più per l’indotto
informatico che si accompagna allo sviluppo dei telefonini. «Abbiamo fatto capire a
Google che aprire il sistema
Android era la soluzione migliore e più profittevole per
tutti» ha dichiarato ai giornali «Ora le nostre start-up e
i nostri sviluppatori hanno a
disposizione un mercato quasi senza limiti. Questa sì che
è vera concorrenza».
Che detto da un giurista
russo, per quanto giovane e
cresciuto negli anni della «perestrojka», fa sempre una certa impressione. Soprattutto
se si pensa che i suoi colleghi
di Bruxelles e di Parigi, annaspano, non trovano il bandolo
della matassa liberista, come
s’è visto.
In Francia, in particolare, c’è molta agitazione tra i
vari attori della filiera pubblicitaria (dagli investitori alle
agenzie agli editori) soprattutto da quando si sono accorti che il mercato è di fatto
monopolizzato dai tre giganti
americani Google-AmazonFacebook (da cui l’acronimo
Gafa) che solo l’ultimo anno,
il 2016, hanno messo a segno
una crescita della raccolta del
351%. «Facebok (ou Google)
m’a tué», Google (o Facebook) mi ha ucciso, è diventato
lo slogan lanciato dal mondo
della pubblicità e della comunicazione dopo che uno studio
recentissimo della Price Waterhouse ha dato l’esatta dimensione di questo omicidio
di massa: 60 miliardi di messaggi scambiati ogni giorni
sulla piattaforma WhatsApp
(di Google), 20 miliardi di
sms tradizionali (chiamiamoli così) e un numero sempre
più alto di telespettatori (se
è lecito chiamarli ancora così)
sui video dei telefonini.
Come difendersi? Come
provare a sopravvivere
nell’era dei social? Pierre-
Jean Bozo, un manager
editoriale di lungo corso che
ora guida con determinazione l’Uda, Union des announceurs, l’Upa francese
con oltre 200 grandi aziende
e 46miliardi di investimenti
pubblicitari su tutti i mezzi
(pari al 2% del pil), non vuole
«guerre sante» (che sa di non
poter vincere), ma un sistema di regole sì. Gli americani
dovranno accettarle, perché il
mercato della comunicazione
non è il Far West. Così come
non è accettabile che uno spot
sulla tv tradizionale debba
passare attraverso il vaglio
di 35 passaggi burocratici,
editoriali, fiscali mentre un
annuncio on line sui siti dei
Gafa non rispetta il benché
minimo codice etico come
stanno dimostrando certi
episodi (che, secondo Bozo,
non sono affatto casi-limite,
ma la prova che i monopolisti della rete debbono essere
controllati da un vero «gendarme» dotato di poteri di
interdizione).
Solo a queste condizioni l’industria francese della
comunicazione, dice ancora
Bozo, si può accettare l’uso
dei social come «mezzo pubblicitario». Ottenendo magari dallo Stato, è l’ultima
richiesta dell’Uda, un credito
d’imposta (dal 3 al 5%) sugli
investimenti fino a 100milioni di euro. Perché un euro
investito in pubblicità genera più di 7 euro di crescita.
Ricchezza per l’economia di
tutto il Paese. Non solo per i
bulimici del Gafa.
@pippocorsentino
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA - PIERLUIGI MAGNASCHI
della Francia, il secondo paese europeo più importante (è secondo solo
alla Germania) e per almeno
trent’anni pilota unico nella costruzione e nella gestione dell’Europa
unita. L’esito del voto riguarda da
vicino anche noi italiani. Ed è, purtroppo, anche un esito imprevedibile. Nell’Esagono infatti tutti i vecchi
equilibri sono saltati. Il Partito
socialista, a lungo egemone nel paese sia in termini culturali che di
tecnostruttura industriale e finanziaria (basterebbe ricordare le lunghe presidenze di François Mitterrand), si è liquefatto al punto
che il presidente della repubblica
uscente, il socialista François Hollande, non ha voluto nemmeno candidarsi, visto lo stato pietoso del suo
gradimento tra i francesi.
Non solo, in passato si sapeva,
con grande anticipo e granitica
certezza, quali sarebbero stati i due
partiti che si sarebbero qualificati
al primo turno. L’unica incognita
era chi avrebbe vinto fra i due partiti che si erano piazzati per il
secondo turno. Invece, questa volta,
i candidati con possibilità di qualificarsi al primo turno sono ben
quattro, per di più separati da solo
4-5 punti percentuali l’uno dall’altro e di fronte a un elettorato sfuggente che infatti cambia parere di
giorno in giorno e fino all’ultimo
giorno, anche a causa dei troppi
elettori francesi che, ancor oggi,
dichiarano di non sapere per chi
votare e se votare.
I quattro leader che realisticamente si sfidano al primo turno
con speranza di arrivare al ballottaggio sono François Fillon, leader
di centrodestra (più centro che
destra, a dire il vero) che, dal 2007
al 2012, è già stato presidente del
consiglio. È uno stimato e capace
leader che però è stato azzoppato
malamente dalle notizie relative
alla moglie da lui assunta come col-
laboratrice e pagata legittimamente con i soldi dello Stato ma che non
si è mai fatta vedere nei posti dove
la collaboratrice di un politico
dovrebbe essere.
Il secondo è un assoluto outsider, Emmanuel Macron, un giovane liberal socialista (più liberale
che socialista, sempre a dire il vero)
che viene dal mondo delle grandi
banche e che era stato improvvisamente nominato dal socialista Hollande come ministro responsabile
dell’economia. Prima di questa campagna elettorale Macron non aveva
mai fatto, nemmeno per un giorno,
la vita di partito, nemmeno come
amministratore di ente locale che,
in Francia, è per tutti una condizione sine qua non per poter accedere
alla vita parlamentare. Dopo aver
tradito il suo presidente Macron ha
rastrellato molti consensi operando
con una grande abilità nel vuoto dei
personaggi socialisti e quindi diventando, nei sondaggi, come il vero vincitore delle elezioni. In seguito, il suo
consenso si è un po’ ridimensionato
ma resta ancora alto. È un europeista convinto e un efficientista risoluto. Basti dire che ha osato dire, nel
suo programma, che licenzierà 100
mila statali.
Il terzo è Jean-Luc Mélenchon,
esponente della sinistra estrema
che si colloca alla sinistra dei
socialisti. Era partito male ma poi ha
guadagnato molte posizioni e adesso
è fra i papabili. In particolare, ha
sollevato molta emozione nel Paese
il suo discorso nella grande piazza
che dà sul porto di Marsiglia che era
traboccante di gente fra i quali molti giovani. È un leader fisicamente
un po’ logorato anche perché è avanti negli anni ma è un grande oratore,
capace ancora di trascinare le folle.
Promette aumenti retributivi a tutti
e vuol cambiare la Ue ma non certo
disintegrarla.
Infine (anche se è quella che prende-
rà più voti al primo turno) viene
Marine Le Pen, leader del Front
national, partito di estrema destra
fondato dal padre. La Le Pen non è
solo per l’uscita dall’euro ma anche
per la dissoluzione della Ue.
Chi, fra questi quattro, saranno
i due finalisti? Sicuramente la Le
Pen. L’interrogativo resta invece
ancora aperto per il secondo finalista. Nessuno infatti, oggi, riesce a
fare previsioni attendibili. Se vincesse Fillon, o Macron, la partita diverrebbe difficile per la Le Pen perché,
al ballottaggio, i voti degli altri partiti (e in particolare del centrodestra
e dei socialisti) si sommerebbero a
quelli presi da Fillon o da Macron
determinando la vittoria al secondo
turno dell’avversario della Le Pen. È
lo stesso schema che fu seguito in
occasione della seconda elezione di
Chirac quando su di esso, pur di
sbarrare la strada a Le Pen-padre
(che era un filo nazista dichiarato) i
socialisti (che erano gli avversari
naturali di Chirac) gli regalarono
contro natura, ma anche contro un
pericolo ritenuto esiziale pour la
Republique, i loro voti e lo fecero
eleggere.
Nel caso invece che, accanto alla
Le Pen, riuscisse a finire in finale Mélenchon, il leader del partito
della sinistra, i giochi al ballottaggio
sarebbero più complicati e tutto sommato più favorevoli, almeno indirettamente, alla Le Pen. Infatti una
parte dell’elettorato di centrodestra
(ma anche una parte di quello socialista) farebbe fatica a votare per uno
come Mélenchon che era uscito dal
Ps fracassando tutto e che, in ogni
caso, rappresenta la sinistra dura e
pura che per molti francesi è ancora
dura da digerire anche se Mélenchon è sicuramente meno oltranzista e antisistema della Le Pen. Ma
per molti il fatto che sia di estrema
sinistra lo rende invotabile.
Pierluigi Magnaschi
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