UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DIPARTIMENTO DI STORIA DELLE ARTI, DELLA MUSICA E DELLO SPETTACOLO CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA E CRITICA DEI BENI ARTISTICI E AMBIENTALI XXII Ciclo TESI DI DOTTORATO DI RICERCA: MUSICA ELETTROACUSTICA E CINEMA IN ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA L-ART/07 Maurizio Corbella TUTOR: Prof. Cesare Fertonani COORDINATORE DEL DOTTORATO: Prof. Gianfranco Fiaccadori Firma Anno Accademico 2009/2010 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Maurizio Corbella Sommario Introduzione Considerazioni metodologiche 13 1 Il sintetizzatore: sperimentazione e cinema 21 Dal Fonosynth al Synket attraverso i luoghi dell’elettronica romana 2 I. Il laboratorio dell’Accademia Filarmonica, la Fonolux e il Fonosynth 25 I. Il Synket, ponte tra cinema e live electronics 36 II. La difficile identità dello Studio R7 44 Suono organizzato 49 Risorse elettroacustiche, assetti produttivi e strategie drammaturgiche al cinema I. Fonosynth e Synket come estensioni dell’orchestra 58 II. Tra rigore e gioco. Gino Marinuzzi jr., compositore per il cinema e la televisione 64 III. Verso una ridefinizione del suono cinematografico? 80 IV. Vittorio Gelmetti e la musica-verità 95 Maurizio Corbella 3 Alla ricerca di un immaginario 105 Funzioni culturali del suono elettroacustico nel cinema narrativo I. Sintesi sonora e fonografia nell’immaginario: estensione e spettro 113 II. Genesi dell’immaginario: vibrazione, inscrizione, emulazione, trasmissione 118 III. L’immaginario negli anni Sessanta: dal suono del futuro al suono del presente 4 «Lo sfondo ai sentimenti di domani» 126 133 Percorsi tematici e proposte critiche sull’immaginario elettroacustico nel cinema italiano I. Funzioni narrative del suono elettroacustico: automatismo 137 II. Cibernetica, musica e cinema: aspetti di una “triangolazione” affascinante 148 III. Teitelbaum, Ferreri e il biofeedback: il suono dell’uomo e Il Seme dell’uomo 151 IV. Il deserto elettronico di Antonioni. La musica elettronica e lo sguardo sperimentale 158 6 V. Un tranquillo posto di campagna di Petri. Cortocircuito tra pop e avanguardia 168 VI. La sostanza di cui sono fatti i sogni. Primi appunti per una drammaturgia del suono felliniano 188 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Appendice I Conversazione con Federico Savina 215 Appendice II Paolo Ketoff presenta il Synket 225 Appendice III Filmografia di Gino Marinuzzi jr. 229 Riferimenti bibliografici 237 •Fondi e archivi di riferimento 237 • Bibliografia 239 • Filmografia citata 257 7 a Michela e ai miei genitori Ringraziamenti Ringraziare le persone che hanno reso possibile la mia ricerca non è solo un atto di dovuta cortesia, ma un riconoscimento agli stimoli umani che mi hanno arricchito al di là del merito contingente di questo lavoro. Sincera gratitudine va a coloro che hanno messo il loro tempo a mia disposizione, ripercorrendo vicende personali proprie o dei propri cari, mettendomi nelle condizioni di visionare documenti, scambiare considerazioni, formarmi un’idea articolata riguardo al periodo storico in esame, oltre a impreziosire il mio racconto con aneddoti e retroscena: Walter Branchi, John Eaton, Andrea e Fulvia Ketoff, Liana Santarone Marinuzzi, Güngör Mimaroglu, Ennio Morricone, Caterina Nascimbene, Federico Savina, Romano Scavolini, Pril Smiley, Roman Vlad. Tra essi, sono particolarmente grato ad Anna Maria Marinuzzi, sempre prodiga di disponibilità e ospitalità. Tra gli studiosi e gli operatori che hanno saputo indirizzare il mio lavoro, fornendo indispensabili indicazioni metodologiche e documentarie o confrontandosi con me sul lavoro in corso d’opera, ringrazio: Sergio Bassetti, Stephen Blum, Gianmario Borio e il gruppo di studio WorldsofAudioVision, Alessandra Ciucci, Ermanno Comuzio, Marco Esposito (Camera di Commercio di Roma), Ann Horton-Line (Yale Film Study Center), Harald Kisiedu, Andrew Lampert (Anthology Film Archives), Francesco Libetta, Sergio Miceli, Maria Maddalena Novati (Studio di Fonologia di Milano), Terence Pender (Columbia Computer Music Center), Stefano Poggelli (Rai Teche), Veniero Rizzardi, Warren M. Sherk (Academy of Motion Pictures, Arts, and Sciences), Daniela Tortora, Jed Winokur e Richard Trythall (American Academy in Rome), Leonardo Zaccone. Un pensiero a parte va a Antonio Ferrara, Paul B. Price e Roberta Vespa, generosi ospiti delle mie “peregrinazioni”. Infine, vorrei esprimere la mia profonda riconoscenza, piena di stima e amicizia, a Davide Daolmi, Cesare Fertonani, Emilio Sala e Nicola Scaldaferri, che hanno svolto un ruolo fondamentale di confronto critico e di sostegno alla mia attività. Introduzione Considerazioni metodologiche La cellula biolettrica agisce magneticamente sul fondo culturale comune... Entrano in gioco anche i complessi freudiani, in certa misura... Si crea una catena di cariche elettromagnetiche... la cellula biolettrica mia con la tua, con la sua... Niente acqua, per carità di Dio... vino... Cara signora, sono esperienze assolutamente sconsigliabili, agiscono negativamente sul sistema nervoso...1 A pronunciare questo passaggio di dialogo, estrapolato da una sceneggiatura preparatoria di Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, è il personaggio di Don Raffaele, medico e amico di famiglia di Giulietta, che viene consultato dalla donna in merito ad alcune visioni paranormali che l’avevano turbata la sera precedente, nel corso di una seduta spiritica organizzata tra amici. Il contesto in cui avviene questo dialogo è quello di una chiacchierata leggera, mentre i personaggi, attorniati da una piacevole compagnia, si rilassano sulla spiaggia di Fregene appena fuori dalla casa di Giulietta. La battuta di Don Raffaele ha la funzione di minimizzare il racconto della donna, facendo sfoggio di un repertorio di nozioni che oscillano tra la medicina, la sapienza da osteria e un’infarinatura di parapsicologia. Fellini è sicuramente animato da intenzione ironica, il personaggio del dottore è caricaturale, eco probabi1 FELLINI [1965], p. 39. Maurizio Corbella le di qualche trascorso biografico del regista, chissà se verificatosi durante le sedute spiritiche alle quali pare prendesse parte nel periodo del concepimento del film. 2 Dal momento in cui sono entrato in contatto con tale passaggio dialogico, che non sopravvive nella versione del film uscita nelle sale, ho avuto la sensazione di intuire la direzione verso cui indirizzare la mia ricerca, sebbene non mi fosse ancora del tutto chiaro razionalmente in che modo farlo. La mia ricerca era infatti partita, come spesso accade in casi simili, da una constatazione tra l’empirico e l’istintivo: il fenomeno della presenza di sonorità e musiche elettroacustiche nel cinema italiano degli anni Sessanta riveste un interesse che va al di là del mero adeguamento a una moda lanciata oltreoceano da film come Pianeta proibito (1956).3 Soprattutto, mi pareva interessante che le procedure elettroacustiche (sintesi e processo sonori, manipolazione del supporto magnetico), introdotte in Italia da pochissimi anni in campo musicale (la fondazione dello Studio di Fonologia di Milano è del 1955), fossero state assorbite dal cinema italiano praticamente da subito, secondo modalità che non sono del tutto sovrapponibili al repertorio di convenzioni del cinema d’oltreoceano. Sequenze poco note come i titoli di testa dell’Antigone televisiva di Vittorio Cottafavi (1958), “il sogno di Nane” in L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens (1960), altre più celebri come l’incipit della Notte e del Deserto rosso di Michelangelo Antonioni (1961-1964), le stesse visioni di Giulietta nel film citato sopra (1965), sono manifestazioni di stilemi che non si prestano a essere ricondotte serenamente a stereotipi o cliché, dato che, perché un cliché esista, è necessario almeno che abbia avuto il tempo di sedimentarsi nell’uso. Orbene, la sequenza immediatamente successiva allo scambio di battute tra Giulietta e don Raffaele, vede Giulietta assopirsi sulla sdraio e cominciare a sognare; nel sogno trascina a sé, tramite una gomena, uno zatterone che giunge dal mare, carico di guerrieri dalle fattezze orientali e di figure umane grottesche seminude che “invadono” il suo mondo, finché il rumore di un aeroplano non la sveglia riportandola alla “realtà”, proprio quella realtà sui cui contorni, da quel momento in poi, lo spettatore non avrà più certezze per tutto il corso del film. La caratterizzazione sonora dalla sequenza è dominata da una sorta di risonanza continua, realizzata mediante l’impiego di una semplice onda sinusoidale prodotta con un elementare procedimento di sintesi. Tale oggetto sonoro rappresenta l’affascinante anello di KEZICH 2002, pp. 249-251. Quando possibile citerò i film stranieri con il titolo della loro edizione italiana, rimandando alla Filmografia citata in coda a questo scritto per maggiori informazioni, compreso il titolo originale. 2 3 14 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta congiunzione con il riferimento, nella battuta espunta di Don Raffaele, alla «cellula biolettrica [che] agisce magneticamente sul fondo culturale comune». L’oggetto sonoro elettronico diventa in Fellini la manifestazione fenomenica dell’energia medianica della protagonista, e insieme esprime, più indefinitamente e forse per questo più efficacemente rispetto alle battute di un dialogo, le connotazioni implicate dall’idea di elettromagnetismo nell’universo espressivo del regista: qualcosa di portentoso, magico, inquietante, posticcio e miserabile al tempo stesso, al punto da assumere le sembianze di un trucchetto di prestidigitazione, un miracolo di bassa fattura non privo tuttavia di potere seduttivo. Fellini, servendosi di un mezzo sonoro peculiare rispetto alle sue abitudini espressive, ne rende evidente il lato kitsch, perseguendo in questo modo un suo originale disegno drammaturgico. Ma su queste considerazioni ci sarà tempo e modo di tornare più nel dettaglio (cfr. CAPITOLO 4.VI). La “epifania” felliniana procuratami dalla conoscenza di quello stralcio di dialogo inedito, ha avuto il merito di rendere chiaro a me stesso che la comprensione dell’oggetto di studio della mia ricerca – il ruolo delle risorse sonore elettroacustiche nel cinema italiano degli anni Sessanta – avrebbe dovuto svolgersi su un doppio binario: la rivisitazione storica delle vicende relative alle sperimentazioni musicali elettroacustiche della Roma di quel periodo, sulla base dell’acquisizione di nuovi materiali e di testimonianze inedite, e lo studio della cristallizzazione culturale a cui tali esperienze sono state soggette nella società contemporanea, in particolare tramite la mediazione cinematografica. Ciò ha dato vita a un lavoro che ha cercato di mantenere salda tale doppia anima strutturale, avvertita come necessaria. Il CAPITOLO 1, dedicato alla ricostruzione storica, ruota attorno alla difficoltà di individuare, relativamente all’esperienza elettroacustica romana, un confine netto tra aree d’azione rispettivamente dell’avanguardia e della committenza messa in atto dal cinema nei confronti del mondo musicale. Arrivo addirittura a ipotizzare che la radice di procedure di azione sul suono sia sostanzialmente in comune tra i due ambiti disciplinari, per seguire solo in un secondo momento linee di sviluppo autonome. Tale ipotesi non vale tanto a livello di considerazione teorica generale, sulla base di un principio di contiguità dei media musicale e cinematografico «nell’epoca della loro riproducibilità tecnica», ma piuttosto rappresenta una caratteristica peculiare dell’area romana. Il fulcro di tale comunanza genetica si manifesta in un aspetto tecnologico che condiziona nella sostanza l’avvento e lo sviluppo della stagione elettroacustica. Il patrimonio elettronico romano ruota in buona parte intorno a due equipaggiamenti adibiti alla generazione e la manipolazione del suono che trovano i natali proprio a Roma: il Fonosynth prima e il 15 Maurizio Corbella Synket qualche anno dopo. In un periodo in cui possedere un sintetizzatore significa avere la possibilità (e, a tratti, l’esclusiva) di fare musica elettronica, la presenza del Fonosynth e dei Synket (quest’ultimo sarà costruito in più esemplari) rende la città un polo musicale dotato di una propria cifra distintiva rispetto ad altri centri della musica elettroacustica del dopoguerra. La principale differenza strutturale rispetto ad altre aree, come Milano, Colonia o Parigi (ma anche New York), dove l’intervento di istituzioni (RAI, WDR, RTF, Columbia University) imprime una continuità più o meno determinante alla ricerca sperimentale, consiste nel fatto che quello romano sia un microcosmo musicale composito e frammentario, tutto da sondare, costituito da aggregazioni temporanee di varie personalità intorno a luoghi o, meglio, equipaggiamenti, che forniscono determinate e limitate possibilità di azione. Una materia sfuggente nella quale, a maggior ragione, è necessario rintracciare punti di riferimento. Tra le scelte possibili, la strategia di seguire le migrazioni del Fonosynth e del Synket, macchine soggette a una continua dislocazione, che cambiano più volte luogo ospitante prestandosi a molteplici funzionalità, si è rivelata la metodologia più fertile per ricostruire le tappe della vicenda elettroacustica romana, sebbene molti buchi permangano nella cronologia da me messa a punto con l’ausilio di testimoni, documenti, e bibliografia. È su questo piano che la saldatura con il mondo cinematografico si fa determinante, allorché si constata che le esigenze che diedero vita alla progettazione delle due apparecchiature furono fortemente debitrici nei confronti dell’attività cinematografica dei loro due principali artefici: il compositore Gino Marinuzzi jr. e l’ingegner Paolo Ketoff, due figure stranamente trascurate dalle cronache, tanto più che qualsiasi protagonista di quella stagione riconosce ancor oggi il loro fondamentale apporto. La difficoltà da me incontrata nel ricostruire le loro vicende personali non è tuttavia inspiegabile, risiede anzi nel loro situarsi costantemente in bilico tra due ambiti disciplinari, fatto che ha largamente influito sulla loro valutazione storica. Essendosi basata quest’ultima, comprensibilmente, su schematizzazioni e categorie funzionali a una storia del pensiero musicale “colto” o, per contro, della musica per film, essa ha conseguentemente marginalizzato un compositore come Marinuzzi, che non si distingue particolarmente per l’apporto compositivo “sperimentale” in senso stretto, e in fondo nemmeno per quello cinematografico, presentando un catalogo numericamente più limitato di quello di altri contemporanei; analogamente, è ancora più immediato intendersi riguardo al parziale oblio che circonda la figura di un tecnico come Ketoff: se, per un panorama strutturato come quello milanese dello Studio di Fonologia, solo in anni recenti è stata riconosciuta la strategica importanza di 16 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Marino Zuccheri, tecnico di riferimento dello Studio, perché stupirsi che Ketoff, vera presenza ubiqua delle manifestazioni musicali e cinematografiche romane (e, in una certa misura, internazionali), sia quasi scomparso? Non è forse un caso che approcci storico-critici tradizionalmente più sensibili al lato tecnologico delle arti, come quelli di area anglosassone, citino Ketoff più di quanto non venga fatto in ambito italiano. La focalizzazione su queste due personalità consente perciò di far luce su un’angolazione dell’attività musicale romana precedentemente rimasta in ombra, fatto che finisce trasformarsi in compendio a una più completa comprensione del conflittuale rapporto tra compositori e cinema, più volte analizzato negli studi musicologici dal punto di vista del dibattito culturale. A ciò si aggiunge il fatto che l’analisi delle funzioni dei sintetizzatori nelle pratiche di sonorizzazione cinematografica, lascia emergere un aspetto profondo di tale dibattito, che investe questioni generali della riflessione musicale in quel periodo storico (in particolare le dinamiche di organizzazione del suono, il concetto di rumore, il rapporto suono/sorgente, il concetto di spazio sonoro) e le mette in “collisione” con un parallelo processo di ripensamento del suono filmico, portato avanti tanto dalle “new waves” cinematografiche, quanto dal sistema produttivo hollywoodiano. Il CAPITOLO 2 tratta a fondo tale questione sul filo di esempi che offrono sfaccettature problematiche di tale convergenza: su tutte spicca l’esperienza di Vittorio Gelmetti, il compositore che in Italia ha creduto forse maggiormente nella possibilità di mettere la propria visione al servizio del rinnovamento linguistico cinematografico. Una volta illustrata la problematica sovrapposizione di piani culturali nell’ambito della materia fatta oggetto della mia indagine, il CAPITOLO 3 pone finalmente la questione del travaso degli stilemi elettroacustici da un medium all’altro. Per far ciò è necessario misurarsi con la nozione di cliché che accompagna il giudizio sull’impiego di sonorità sintetiche e di procedure elettroacustiche nel cinema, in special modo quello narrativo, fin dalle origini del sonoro (con il suono ottico e i primi strumenti elettronici), e che è fatta propria con particolare fervore dai compositori dell’avanguardia romana. La matrice ideologica di tale nozione è messa da parte in nome di una riconsiderazione della sedimentazione del suono elettroacustico4 nell’immaginario culturale “medio”. Rifacendomi alla discussione dei “livelli” di cultura operata da Umberto Eco nel suo saggio Cultura di massa e “livelli” di cultura,5 individuo nell’avanguardia musicale il livello “alto” e nella produzione cinemaCon questa espressione sintetica mi riferirò genericamente alle procedure di sintesi, ripresa e manipolazione del suono tramite appendici tecnologiche. 5 ECO 1964, pp. 29-64. 4 17 Maurizio Corbella tografica a cui faccio riferimento (perlopiù quella poggiante sulla media e grande distribuzione), il livello “medio”. Si tratta pertanto di osservare la «trasposizione a livello di consumo di stilemi ormai acquisiti dalla sensibilità e dalla cultura corrente, e tuttavia motivati dalle esigenze di un certo discorso» dotato di interesse estetico,6 senza per questo stabilire una pregiudiziale di valore o una gerarchia di priorità storico-critica tra i differenti “livelli”, tanto più che, come già appurato nell’analisi storica, essi risultano fortemente mescolati e interdipendenti. I meccanismi connotativi messi in moto da associazioni di particolari conformazioni sonore con immagini o situazioni narrative, vengono da me presi in considerazione come fatti culturali, e non come degenerazioni, soprattutto alla luce del fatto che non è sufficiente motivarli come meri adeguamenti a convenzioni d’uso o a norme sovra-imposte da assetti sociopolitici, ma al contrario si debba rintracciarne le ragioni d’esistenza nei processi di assimilazione culturale del suono fonografico. A partire da questi presupposti è venuta precisandosi gradualmente nel tempo, nel corso del mio lavoro, un’opzione di carattere epistemologico: considerare la pratica elettroacustica come indipendente dalla sua appartenenza a un ambito disciplinare specifico. Con “pratica elettroacustica” definisco l’insieme delle procedure di azione sul suono (ripresa, generazione, manipolazione, mixaggio, spazializzazione) a fini estetici, intendendo quest’ultimo termine in un’accezione ampia. Prendendo tale definizione come punto di partenza, avranno uguale interesse per me, almeno in senso generale, le dinamiche di sonorizzazione cinematografica come le pratiche musicali sperimentali. Se queste ultime sono conseguenza e origine di poetiche compositive, le prime sono determinate da tendenze operative ad ampio raggio storico, ed esse stesse fondano e orientano un gusto. Non c’è dunque da parte mia un’attitudine gerarchizzante, ma un punto di partenza pragmatico: laddove, da un certo momento in avanti, determinati procedimenti sonori fatti propri dal cinema condividono caratteristiche, e sovente gli stessi agenti, con la sperimentazione musicale coeva, sarà opportuno indagarli considerandoli strumenti di progetti espressivi in un contesto creativo dotato di proprie regole. Alla luce di tale constatazione è possibile inquadrare l’azione di tali dinamiche sulla società italiana degli anni Sessanta. Da un punto di vista narratologico, il mezzo elettroacustico è risultato funzionare genericamente come elemento di dinamismo, in particolare agendo nell’ambito di transizioni tra opposti poli situazionali, configurando momenti di instabilità narraIl riferimento è alla parte finale del celebre saggio, in cui Eco utilizza l’esempio di Comma 22 di Heller per illustrare un caso di fruttuoso trasferimento di stilemi da un ambito di cultura d’avanguardia a uno di fruizione più esteso; ivi, p. 62. 6 18 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta tiva (per esempio, nel sogno di Giulietta citato in apertura, il suono elettronico è chiaramente portatore di una tensione che coincide con lo stato onirico di “evasione” dalla realtà da parte della protagonista). Sotto il profilo semantico, esso si pone invece in relazione feconda con una categoria particolarmente rappresentativa del sistema socio-culturale degli anni Sessanta: l’automatismo. Discusso ampiamente da Jean Baudrillard,7 l’automatismo mi pare assumere nel cinema tre principali “declinazioni narrative” (fantascientifica, domestica, biologica), mentre nella società presenta vari piani di sviluppo, a livello scientifico, estetico, economico. Sulla base di tali assunti il CAPITOLO 4 formula alcune proposte di percorsi critici, isolando quattro esperienze autoriali che rappresentano altrettante vie di sviluppo di una triangolazione instauratasi tra ricerca scientifica (in particolare in campo cibernetico), sperimentazione musicale e rappresentazione cinematografica. Sintetizzando, la chiave di lettura secondo cui interpretare l’impiego degli stilemi elettroacustici da parte del cinema italiano di quel periodo, risiede nel tentativo di compiere affermazioni sul mondo, rimettendo in circolo le connotazioni di cui il suono elettroacustico è portatore fin dalle origini in un contesto socio-culturale in cui la sua attualità è diventata particolarmente pregnante. Una ricerca sulle dinamiche di interazione tra il campo d’azione della musica elettroacustica e quello del cinema dovrebbe avere il merito di gettare nuova luce su un momento di fondamentale interesse storico per il cambiamento della concezione e del ruolo del suono nella società degli anni Sessanta. L’opportunità di guardare a opere significative della cultura contemporanea, quali la cinematografia di Antonioni o Fellini, o a luoghi particolarmente emblematici dell’incontro tra ricerca scientifica, avanguardia e film, dalla prospettiva dell’impiego di procedure elettroacustiche, apre nuove vie interpretative o, nella peggiore delle ipotesi, conferma e completa anche sotto un profilo musicologico le interpretazioni filmiche, ampliando la possibilità di analisi sul testo audiovisivo, mediante l’introduzione di strumenti atti a comprendere gli aspetti sonori complessivi (e non solo musicali) di una pellicola. L’auspicio è che si realizzi, sulla base della materia studiata, l’apertura a una drammaturgia del suono che non rinunci agli strumenti della drammaturgia musicale. 7 1968, pp. 141-171. 19 1 Il sintetizzatore: sperimentazione e cinema Dal Fonosynth al Synket attraverso i luoghi dell’elettronica romana Conoscere le caratteristiche dei luoghi in cui si svolge la produzione artistica e musicale di una data fase storica è un aspetto fondamentale per la sua comprensione. Non è solo una generica questione di “contesto”; il luogo, oltre a essere campo d’azione di forze antropologiche e sociali, può talvolta determinare in profondità la natura di alcune pratiche musicali, diventandone la condizione di esistenza. Per le musiche elettroacustiche ciò è ancora più valido che in altri casi, poiché esse dipendono precipuamente dalla componente tecnologica che, nell’epoca della loro prima diffusione a livello planetario (a partire dalla fine degli anni Quaranta), è stata appannaggio di alcuni luoghi specifici. Essi diventarono identificativi delle attività che avvenivano al loro interno, per il semplice fatto di essere sinonimo, ancor prima che di una linea di ricerca condivisa da più compositori (occorrenza anzi abbastanza rara), delle risorse tecnologiche che ivi si situavano e delle possibilità creative correlate. Se consideriamo le tre sedi principali della ricerca elettroacustica europea del dopoguerra, il Group de Recherches Musicales (GRM) di Parigi,1 la Westdeutscher Rundfunk (WDR) di Colonia, lo Studio 1 In questo come in altri casi la denominazione di un gruppo si sovrappone all’identificazione di un luogo, slittamento semantico che si può rintracciare nell’evoluzione dei nominativi del gruppo francese: da Studio d’Essai, fondato nel 1942 da Pierre Schaeffer e J. Copeau presso la Radiodiffusion-Télévision Française (RTF), diventa nel 1946 Club d’Essai, quindi nel 1951 Group de Recherche de Musique Concrète (GRMC) e infine GRM nel 1958. Cfr. SCALDAFERRI 1997. pp. 35n-36n. Maurizio Corbella di Fonologia della RAI di Milano (SFdM), è evidente la stretta connessione tra l’ambiente radiofonico e lo sviluppo delle musiche elettroniche e concrete. Nelle sedi radiofoniche si trova un equipaggiamento tecnologico che stimola l’approfondimento sperimentale, ed è altresì frequente per i compositori avere a che fare con apparati organizzativi (gli organi di dirigenza delle società di comunicazione) che hanno interesse in direzione dello sviluppo tecnico e della legittimazione culturale: la radio è d’altra parte, dagli anni Venti fino all’avvento del medium televisivo, il più potente mezzo di comunicazione e di propaganda di massa, su cui può valere la pena investire economicamente. Non a caso, proprio in seno alla radiofonia, si è andata originando una tradizione di riflessioni teoriche e filosofiche, nonché di sperimentazioni artistiche e musicali, che a metà secolo può contare ormai su tre decenni di storia:2 Il forte coinvolgimento delle radio non è un caso poiché fin dagli inizi della radiofonia, negli anni Venti, si erano sviluppate discussioni sul problema di una musica “radiogenica”, che comportasse orchestrazioni adatte alla trasmissione sulle onde [...] e che d’altra parte postulasse lo sviluppo di una forma artistica specificamente radiofonica: vale a dire la rappresentazione radiofonica o drammaturgica che associasse a un testo (ponendolo in rilievo per mezzo della differenziazione dei piani acustici) elementi sonori d’illustrazione o di interpretazione psicologica.3 È appunto nel secondo dopoguerra che si avvia «una seconda fase dell’esperienza radiofonica, affrancata da tematiche o problematiche a essa estranee e proiettata gradualmente verso un’espressione idiomatica autonoma».4 L’esperienza milanese si caratterizza, rispetto agli altri studi europei, per un aspetto di «forte singolarità»: «se a Parigi e a Colonia il contributo determinate per la fondazione degli studi era venuto da personaggi provenienti dall’esperienza radiofonica o tecnologica, a Milano i pionieri della ricerca musicale elettronica saranno due musicisti, Berio e Maderna, con l’aiuto di musicologi e critici come Rognoni, Leydi e Santi»,5 ai quali si aggiunge la convergenza di competenze tecniche (Alfredo Lietti) e dirigenziali (Guido Dal punto di vista teorico ricordo la partecipazione di Adorno al Princeton Radio Research Project (cfr. LEVIN–VON DER LINN 1994) e il suo primo contributo sul mezzo radiofonico (ADORNO 1945). Tra le realizzazioni artistiche legate al mondo radiofonico cito, solo a titolo di esempio, l’esperienza di Orson Welles con The War of the Worlds (1938), quella di Antonin Artaud (cfr. WEISS 1992), oltreché la fiorente tradizione di arte radiofonica tedesca (cfr. CORY 1992). 3 DECROUPET 2000, p. 3. 4 DE BENEDICTIS 2004, p. 30. 5 SCALDAFERRI 1997, p. 59. 2 22 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Razzi). 6 Una delle indirette conseguenze della costituzione dello SFdM è che in Italia mancheranno altre istituzioni disponibili a un investimento tecnologico paragonabile a quello milanese della RAI. A Roma, così come in altri centri italiani (Firenze, Torino, Padova), le vicende elettroacustiche sono affidate all’iniziativa di individualità che, attraverso risorse proprie o la messa in comune di energie, fronteggiano difficoltà spesso legate a luoghi tendenzialmente poveri di risorse tecnologiche. A questa satellizzazione non corrisponde tuttavia un vuoto, semmai una grande vitalità di iniziative che, in continua dialettica con la mancanza di appoggi economici, ha scavato il letto nel quale si sono incanalati filoni di ricerche dotati di propri caratteri distintivi rispetto alle contemporanee vicende milanesi: Se altrove in Europa – e così anche a Milano – gli studi di musica elettronica sono stati in gran parte impiantati nelle sedi radiofoniche, garantendosi in tal modo la possibilità di utilizzare apparecchiature sofisticate e costose, a Roma, per quanto si imponga la necessità pratica di appoggiarsi a qualche istituzione già esistente, l’attività in campo elettronico procede essenzialmente sganciata dal supporto radiofonico. In un certo senso sarà proprio tale mancato appoggio, non soltanto a livello di strutture di elaborazione, ma anche di effettiva possibilità di diffusione delle opere prodotte, a forzare la ricerca di altri canali di circolazione, inducendo qui l’organizzazione dei primi concerti per l’ascolto delle musiche elettroniche.7 Le attività associative come Nuova Consonanza, le iniziative concertistiche promosse dall’Accademia Filarmonica, dalla Società Italiana di Musica Contemporanea (SIMC), il gruppo di compositori residenti dell’Accademia Americana, e più in generale il fermento culturale della Roma degli anni Sessanta, ne fanno un polo estremamente importante nella rete dei centri musicali europei e occidentali, in cui si «avvia una complessa riflessione sul rapporto tra [le opere elettroacustiche] e il pubblico (mancanza dell’interprete, abolizione dell’evento-spettacolo dell’esecuzione)»:8 l’importanza della performance dal vivo, il problema della fruibilità pubblica della musica d’avanguardia (e, più in particolare, della musica elettroacustica) sono alcuni dei temi che appartengono alla specificità della musica elettroacustica romana, complice la condizione di estrema mobilità in cui versa; le istituzioni che danno un sostegno minimo all’attività di sperimentazione, a cominciare proprio dall’Accademia Filarmonica, dall’Istituto Superiore delle Poste e 6 DE BENEDICTIS 7 TORTORA 8 2004, p. 191. 1990, pp. 23-24. Ibid. 23 Maurizio Corbella delle Telecomunicazioni o dal piccolo studio dell’Accademia Americana,9 non riescono a proporsi come luoghi stabili di ricerca, e tanto meno di affermazione di poetiche condivise, lontanamente paragonabili allo SFdM. Bisognerà aspettare il 1968, con la formazione dello Studio R7 (SR7) per avere a Roma una struttura adibita espressamente alla sperimentazione, poggiante sul solo sostegno economico e logistico dei sette membri fondatori, e ciononostante attiva per pochi anni (fino al 1972-73). Nell’ambito di un contesto così mutevole eppur vitale, mi pare che fino a oggi sia stata messa poco in evidenza la rilevanza che gli ambienti cinematografici hanno sull’avanguardia romana, sia in qualità di luoghi in cui si concentrano risorse economiche e tecnologiche per i compositori, sia come fonte di idee per successivi sviluppi sperimentali. L’indagine su due pionieri dell’elettronica a Roma, il compositore Gino Marinuzzi jr. e il tecnico Paolo Ketoff, ha chiarito il ruolo che tanto i luoghi quanto le esigenze della musica e del suono per il cinema hanno avuto nello scandire i primissimi passi della sperimentazione, con la conseguenza di orientarne in misura determinante i successivi sviluppi. In un certo senso si può affermare che lo sviluppo della musica elettroacustica a Roma si radichi in maniera inversa rispetto a quanto avviene negli stessi anni a Milano. Qui è l’attenzione di due compositori (Berio e Maderna) verso gli sviluppi musicali internazionali a determinare la pressione e la fortunata convergenza di intenti con l’apparato dirigente della Rai di Milano per la costituzione dello SFdM; l’attività compositiva radiodrammatica costituirà per Berio e Maderna un campo di “compromesso” professionale, per quanto fondamentale per gli esiti intenti dell’attività di ricerca, con gli scopi della struttura radiofonica.10 A Roma, invece, la situazione può dirsi rovesciata, poiché è l’attività cinematografica di Gino Marinuzzi jr. (cominciata alla fine degli anni Quaranta) a dettare tempi e modi (e, chissà, forse a generare la scintilla iniziale) della ricerca sperimentale, così come la genialità inventiva di Paolo Ketoff, sviluppatasi all’interno degli stabilimenti di post-produzione cinematografica, approderà solo in seguito agli ambienti dell’avanguardia col suo ineludibile bagaglio di esperienza. Per dirla più sinteticamente, a Milano i compositori intravvedono nella radio lo strumento ideale per la loro ricerca, mentre a Roma le esigenze sonore dell’ambiente cinematografico trovano, nell’intraprendenza sperimentativa di un compositore e di un tecnico, terreno fertile per il loro sviluppo. Sia chiaro 9 Su tutti questi luoghi tornerò nelle prossime pagine. «Tra musica funzionale e musica d’arte comincia a stabilirsi man mano una sorta di rapporto sinergico: i tentativi e/o i lavori compiuti per le sonorizzazioni occasionali, condotti dapprima su attrezzature di fortuna, poi su macchinari per l’epoca avveniristici, erano considerati come preparazione e palestra per le coeve composizioni di musica elettronica o elettroacustica»; DE BENEDICTIS 2004, p. 32. 10 24 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta che non intendo con ciò limitare le radici della ricerca elettroacustica romana alla sola influenza marinuzziana, ben consapevole che altre linee di sviluppo approdano a Roma attraverso canali diversi che col cinema hanno poco a che vedere – fondamentale su tutte l’esperienza darmstadtiana di Franco Evangelisti – , quanto segnalare come i due frutti più significativi dell’attività di Marinuzzi e Ketoff, l’invenzione dei due sintetizzatori Fonosynth e Synket, rimangano sostanzialmente connessi al cinema per tutta la loro parabola di utilizzo (fino ai primi anni Settanta). In particolare metterò poi in rilievo come il Synket, tra i primi sintetizzatori portatili al mondo, rappresenti un passo fondamentale proprio nella determinazione di quella peculiarità dell’elettronica romana che Daniela Tortora individuava nell’attenzione alla performance dal vivo e, nel contempo, sia una risposta a esigenze sonore del cinema di quel periodo. Tenendo fede all’importanza del luogo nell’economia della musica elettroacustica, come punto di raccolta della tecnologia, di circolazione delle competenze e di scambio delle linee poetiche, ho scelto di seguire il percorso di genesi e spostamento dei due sintetizzatori summenzionati, i quali, in virtù delle loro caratteristiche di generazione e controllo, costituiscono anche la strumentazione più avanzata presente a Roma in quel periodo e dunque, se si escludono le procedure di manipolazione del nastro magnetico, il principale strumento di composizione elettroacustica. Attraverseremo così circa tre lustri a partire dal primo locale preso in uso presso l’Accademia Filarmonica Romana da Marinuzzi e altri colleghi compositori, l’invenzione del Fonosynth e la contemporanea attività di Paolo Ketoff presso la Fonolux, stabilimento di sincronizzazione cinematografica, per toccare con l’invenzione del Synket la genesi dello studio elettronico dell’Accademia Americana, dello Studio di Fonologia di Roma e, infine dello Studio R7. I. Il Laboratorio dell’Accademia Filarmonica, la Fonolux e il Fonosynth Domenico Guaccero, in più di un’occasione, pone alle origini dell’attività di sperimentazione elettronica romana la presa in uso di un locale dell’Accademia Filarmonica tra il 1957 e il 1959 da parte di un gruppo di compositori. Il compositore Marinuzzi, l’ingegner Ketoff ed io siamo quelli rimasti dal gruppo che diede vita nel ’57 allo Studio dell’Accademia Filarmonica Ro- 25 Maurizio Corbella mana, ma già precedentemente sia Ketoff che Marinuzzi avevano fatto delle esperienze per la produzione di nuove apparecchiature e tape music.11 La conferma di tale fatto è stata rinvenuta da Leonardo Zaccone in un documento che attesta a Marinuzzi la paternità dell’iniziativa, avendo egli «attrezzato, a sue complete spese, un laboratorio di musica elettronica» senza aver «usufruito di alcuna sovvenzione» da parte dell’Ente.12 Qui finiscono le certezze a proposito del cosiddetto Laboratorio dell’Accademia Filarmonica: permangono molti dubbi su quali fossero gli altri compositori che presero parte a tale iniziativa e, soprattutto, su quale tipo di attrezzatura fosse a quel tempo disponibile presso lo spazio. La partecipazione di Goffredo Petrassi, Guido Turchi, Roman Vlad e Pietro Fellegara alla costituzione del laboratorio è stata recentemente messa in discussione,13 mentre necessita di precisazioni per le ragioni che esporrò a breve l’affermazione secondo cui la messa a punto del Fonosynth sarebbe «sicuramente connessa alla nascita di tale centro».14 Nel primo caso, la vaghezza delle informazioni riguardo ai componenti di questo primo gruppo di compositori risiede a mio parere nella parziale sovrapposizione tra il Laboratorio, inteso come luogo di sperimentazione dotato di un equipaggiamento tecnologico, e la riflessione teorica di quello che Marinuzzi stesso ha definito un «gruppo di studio per la musica elettronica e concreta» costituito «già nel 1954»,15 nel secondo caso la questione è più complicata, poiché, a rigore, è lo stesso documento appena citato a datare il Fonosynth al 1957: Nel 1957 [Marinuzzi] ha realizzato con la collaborazione di P. Ketoff e G. Strini il “Fonosynth”, primo impianto in Europa specificamente ideato e realizzato per la produzione di musica elettronica nonché per la elaborazione di musica prodotta con mezzi strumentali tradizionali e successivamente elaborata (tape music). 16 11 GUACCERO in MUSICA EX MACHINA-X 1968; la trascrizione a cui faccio riferimento, qui come altrove, è in ZACCONE 2005a, che ringrazio per avermela gentilmente resa disponibile. 12 ACC.FIL. 1959, p. 122. In una nota autografa in fondo al documento, Marinuzzi precisa anche la data di inizio delle attività del laboratorio nel 1956. 13 Cfr. ZACCONE 2005b, p. 113. 14 TORTORA 1990, p. 24; tesi ripresa da ZACCONE, ivi, pp. 110-115. 15 MARINUZZI [post-1965], pp. 125-126. 16 Ibid.; da notare che in un articolo di Duillio Cossu, rinvenuto in forma dattiloscritta in FMAR [COSSU s.d., ora in ZACCONE 2005a], l’informazione relativa a Giuliano Strini è stata cancellata a mano. Che il compositore sia intervenuto redazionalmente sul testo speditogli dall’autore, in tal caso modificando l’informazione citata anche nel curriculum da me riportata? Riguardo a Strini, peraltro, non sono stato in grado di reperire alcuna informazione. 26 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta La presenza di musiche elettroniche marinuzziane di una certa complessità nell’Antigone televisiva diretta da Vittorio Cottafavi (1958) 17 darebbe ulteriore credito alla datazione qui presente, sebbene non sia possibile essere certi che esse non siano realizzate tramite procedimenti elettroacustici differenti.18 Se, come sembra plausibile e tuttavia non accertabile allo stato delle conoscenze, il Fonosynth viene inizialmente ospitato dal Laboratorio dell’Accademia Filarmonica, esso è negli anni successivi sicuramente trasferito presso la Fonolux, lo stabilimento di sincronizzazione cinematografica dove lavora Paolo Ketoff in qualità di ingegnere del suono. Tale collocazione non solo non stona nel contesto che stiamo analizzando, ma semmai conferma la finalità fondamentale per cui è concepito il sintetizzatore: la sonorizzazione di pellicole cinematografiche. A tale proposito risulta di straordinario valore integrativo la testimonianza di Federico Savina da me raccolta (cfr. APPENDICE I), poiché funziona sia da complemento ai molti buchi cronologici relativi all’epoca in esame, sia come chiarimento tanto del modo di procedere marinuzziano, quanto del peso della figura di Ketoff. Savina conosce Marinuzzi intorno al 1956, poco dopo il suo arrivo a Roma da Milano. Dopo un’iniziale frequentazione, i due intraprendono alcuni esperimenti elettronici, che danno vita a un primo bizzarro proto-sintetizzatore, battezzato Scopacordo. Dopo un’interruzione dei rapporti di due anni e Figura 1: Gino Marinuzzi jr. alle prese con il Fonosynth (Fonte: brochure, in FMAR). mezzo dovuta al servizio militare in marina di Savina, i due si rincontrano; è a questo punto che Marinuzzi fa conoscere Savina a Ketoff, il quale lo vuole con sé come assistente alla Fonolux. È un apprendistato di sedici mesi, al termine dei quali Savina è pronto per intraprendere la sua lunga carriera di tecnico 17 Cfr. CAPITOLO 2. esempio le attrezzature dello SFdM: la bobina R.013 conservata presso l’archivio dello studio milanese contiene preparatori relativi all’Antigone (NOVATI 2009, p. 190), che corrispondono con quanto presente in una bobina conservata presso FMAR e da me rinvenuta. 18 Per 27 Maurizio Corbella del suono all’International Recording. Così questi ricorda gli inizi della sua frequentazione con Gino Marinuzzi jr.: Cominciammo a fare qualche strumento elettronico: il primo fu lo Scopacordo, un manico di scopa con una corda metallica, un pezzo di legno a mo’ di ponticello per tenere la corda tirata, un pick-up magnetico americano per amplificare il suono. Marinuzzi, o qualcuno del suo giro, aveva comprato un registratore americano che si chiamava Viking, una piastra con un nastro. Si poteva incidere e risentire. Allora le classiche domande di Marinuzzi erano: «si può rallentare la velocità del registratore (per ottenere il cambio di altezza del suono)?»; era un continuo porre nuove questioni che io cercavo di risolvere. Dopodiché mi chiese: «Sai, avrei bisogno di un suono tipo quello del vento». Io avevo comprato un grosso libro dell’RCA che leggevo la sera. Avevo trovato che c’era un circuito che poteva fare questo effetto, era praticamente un filtro modulabile. Solo che per muovere la [frequenza], cosa che oggi si farebbe con un potenziometro, allora bisognava farlo in radiofrequenza. Così mi misi a costruirlo nella piccola casa dove abitavo: cominciai con l’alimentatore per le valvole e feci un primo apparecchio con una manopola, praticamente un filtro molto selettivo che si muove. Il problema successivo fu come farlo “muovere”, da che punto a che punto. Le richieste di Marinuzzi si facevano sempre più esigenti: voleva che il filtro si muovesse da un punto a un punto, nonostante non fosse possibile con quei mezzi farlo in banda continua. Appena gli risolvevo un problema era contentissimo sul momento, però tre giorni dopo tornava e mi diceva: «Sai, però, tu me l’hai fatto su un ottava, a me servono due ottave»; facevo due, quattro ottave, per fare ciò bisognava risolvere parecchi problemi, la banda era molto ampia. Aveva fatto un film sul K2 con Guerrasio.19 Aveva bisogno di fare i venti, si chiedeva quale potesse essere l’origine [la sorgente, ndr] dei suoni. Lo Scopacordo andava bene, perché filtrato dava un ottimo effetto di vento. Gli feci varie versioni del filtro. Poi venne fuori un altro strumento. Allora andava di moda fare le scale diatoniche non temperate. Lo scopo era avere dodici oscillatori da “accordare a piacimento”. Quindi mi misi a fare gli oscillatori, que- Il documentario in questione potrebbe essere Grandes Murailles (1957), da Guido Guerrasio ricordato come il primo a utilizzare risorse sonore elettroniche, sebbene già in esperienze precedenti Marinuzzi era ricorso a risorse bruitistiche (La valle del carburo e Miracoli della chimica del 1951); Guido GUERRASIO, comunicazione personale, aprile 2008. Tuttavia, tale documentario non parla del K2 ma delle Alpi. L’alternativa, all’interno della prolifica collaborazione tra il compositore e il regista (una cinquantina di titoli dai primi anni Cinquanta a metà anni Sessanta), potrebbe essere Kanjut Sar – La montagna che ha in vetta un lago (1961), che tratta in effetti della storica spedizione italiana del 1959 sull’omonima cima del Karakorum (sarebbe dunque plausibile una confusione mnemonica di Savina tra K2 e Kanjut Sar); ma, sebbene non sia escluso che si tratti di questo film, esso è già di data piuttosto tarda rispetto alla collocazione del racconto di Savina (fine anni Cinquanta). 19 28 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta sto non era particolarmente difficile [...]. Poi Marinuzzi mi chiese di “legarne” due, in modo da poter eseguire due note contemporaneamente e farle slittare su frequenze non temperate; poi di seguito tre, fino ad arrivare a dodici. Con dodici oscillatori in casa io finii per dormire per terra. Era diventato un mobile che mi occupava tutta la stanza. Fu un mese e mezzo di lavoro. Alla fine Marinuzzi mi chiese: «Sì, ma come faccio a suonare? Posso solo fare degli shifts, mi manca l’attacco, il sustain, il decay...» diventava una tecnologia che io non ero in grado di fare. Fu lì che Marinuzzi si rivolse a Ketoff. 20 Quest’ultima descrizione rappresenta a tutti gli effetti l’idea originaria del Fonosynth. Ciò che emerge dal racconto di Savina è che la molla che spinge Marinuzzi all’approfondimento tecnico è costituita dalla realizzazione di effetti sonori (nella fattispecie il vento) per la sonorizzazione filmica. Torneremo su questi aspetti in una sezione specificamente dedicata al compositore (CAPITOLO 2.II), ma fin da ora è abbastanza evidente come il valore aggiunto del Fonosynth risieda nel rappresentare le potenzialità di uno studio elettroacustico compatto, per quanto artigianale e lontano dalla precisione che sarebbe stata raggiunta negli anni successivi. Anticipando dunque le future caratteristiche del Synket, la cui ragguardevole novità saranno le dimensioni contenute, il Fonosynth racchiude al suo interno tre delle quattro funzioni primarie delle apparecchiature elettroacustiche: generazione, elaborazione e controllo del suono (rimanendo esclusa, ma facilmente integrabile mediante attrezzature esterne, la sola registrazione). 21 La versione definitiva del Fonosynth (FIGURA 2) consta di otto oscillatori22 a onde sinusoidali a frequenza variabile (da notare, a riprova dell’ingegnosa fattura artigianale, che la frequenza è approssimativamente selezionabile tramite un rullo di cartone inserito in ogni oscillatore, con le indicazioni di banda scritte a mano),23 sei oscillatori a onde quadre con sei filtri passa-banda ciascuno, due oscillatori di controllo a frequenza variabile, un modulatore, un generatore d’impulso, due filtri a ottava e una tastiera a pulsanti con sei file di ventiquattro tasti. Le dimensioni ragguardevoli dell’apparecchio impongono la sua collocazione presso una stanza della Fonolux, dove esso viene con tutta probabilità messo a punto e utilizzato in alcune colonne sonore dal compositore: ad esempio, 20 FEDERICO SAVINA, comunicazione personale, 28 marzo 2009. tale classificazione faccio riferimento a BRANCHI 1977, pp. 111-112. 22 Secondo la testimonianza di Branchi (com. pers. cit.), comprovata dalle immagini fotografiche del Fonosynth (fig. 1), il numero degli oscillatori a onde sinusoidi è otto, nonostante sia Savina che la notizia del Deutsches Museum di Monaco (sede dell’attuale collocazione dell’unico esemplare di Fonosynth mai costruito) da cui è tratto il resto della scheda tecnica da me riportata, ne indichino dodici. 23 BRANCHI, com. pers. cit. 21 Per 29 Maurizio Corbella oltre ai già citati documentari di Guido Guerrasio, anche L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens (1960), Ercole alla conquista di Atlantide di Vittorio Cottafavi (1960), La mandragola di Alberto Lattuada (1965) e Terrore nello spazio di Mario Bava (1965). Come ho già sottolineato in apertura di capitolo, la natura del luogo ospitante non è da intendersi in maniera neutra nel contesto di queste pratiche musicali. La Fonolux, se mi si passa l’espressione, costituisce nei primi anni Sessanta il “quartiere generale” di Paolo Figura 2: Il Fonosynth, conservato dal 1987 al Deutsches Museum di Ketoff il quale, avendo a dispo- Monaco di Baviera (Fonte: Suono Elettronico, <http://www.suonoelettronico.com/synket_fonosynth_ketoff.htm>). sizione un’attrezzatura avanzata, può operare sperimentazioni le cui appendici raggiungono anche l’avanguardia. Ketoff, che aveva iniziato la sua esperienza cinematografica curiosamente come attore sul set dell’Ebbrezza del cielo di Giorgio Ferroni (1940), fa le sue prime esperienze di tecnico del suono presso lo stabilimento Titanus (poi MGM, oggi del gruppo CDC 30 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Sefit) di via Margutta 24 al fianco dell’ingegner Piero Cavazzuti25 – è, tra le altre cose, accreditato come fonico in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini (1953) – per poi proseguire presso l’RCA Italiana in via Nomentana (verosimilmente nel periodo 1956-1959), 26 specializzata nel mercato discografico.27 A partire dal 30 luglio 1959, Paolo Ketoff entra a far parte del consiglio di amministrazione della Fonolux.28 Mentre l’appartenenza al consiglio d’amministrazione dura soltanto fino al 10 giugno 1961, è molto probabile che egli continui a lavorare presso la Fonolux ancora per alcuni anni successivamente, prima di approdare alla NIS Film (dove lavorerà per tutta la seconda parte degli anni Sessanta).29 Prima dell’avvento dell’International Recording, fondata nel 1959 e retta su un sistema organizzativo all’americana, la Fonolux rappresenta il più efficace tentativo italiano di adeguarsi agli standard sonori d’oltreoceano in un contesto di spese contenute ma di notevole aggiornamento tecnico. La società per azioni fondata nel 1957 dal conte Leone Senni, con quota di maggioranza della Lux Film e sede presso i locali dell’Istituto Luce a Cinecittà, si distingue per la capacità di utilizzare soluzioni sonore audaci e intraprendenti, in poche parole: nuo- L’indagine sull’ambiente della produzione sonora cinematografica romana della fine degli anni Cinquanta un terreno quasi vergine per quel che riguarda il materiale bibliografico e documentario. Riporto qui uno dei rari passaggi in cui appare in letteratura una panoramica riassuntiva della situazione della capitale sul fronte della post-produzione sonora cinematografica: «I principali stabilimenti romani specializzati nella postproduzione, compresa quella sonora, sono negli anni ‘50 Cinecittà, attrezzata con apparecchi Western Electric e RCA; la Fono Roma in via Maria Adelaide, fondata nel 1930 e considerata all’epoca il più grande stabilimento di sonorizzazione e doppiaggio d’Europa, attrezzata con apparecchi Western Electric; la MGM (poi Titanus, poi CDS) in via dei Villini; la NIS in via Rocca di Papa (ma in uno stabile diverso da quello della Staco Film, situata nella stessa via); la Titanus in via Margutta; la Fonolux presso l’Istituto Luce; la International Recording in via Urbana, aperta nel 1959, attrezzata con apparecchi RCA». APRÀ 2004, pp. 503-504. A integrazione si veda la parte iniziale della testimonianza di Savina (APPENDICE I). 25 SAVINA, com. pers. cit. Piero Cavazzuti è una delle prime figure ad avere introdotto fin dagli anni Trenta la riflessione sul suono cinematografico all’interno delle riviste di settore italiane: cfr. Piero CAVAZZUTI, Difetti e rimedi: I – Il problema del suono, «Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica», III/57, 10 novembre 1938; ID., Ripresa e riproduzione sonora, Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica», III/60, 25 dicembre 1938, p. 407. 26 FULVIA KETOFF, comunicazione personale, 27 giugno 2009. 27 Non si è invece trovata conferma dell’affermazione per cui Ketoff abbia lavorato presso la Fono Roma, come da ZACCONE 2005a, p. 111. 28 Cfr. FONOLUX 1959, 1961. 29 All’incirca nel 1971, in seguito a un brutto incidente in motoscafo sul lago di Bracciano insieme a Gino Marinuzzi jr., perde quasi del tutto l’uso di una mano e non torna mai attivo a livello professionale come in passato. Continua l’attività di insegnante che aveva iniziato qualche tempo prima presso l’Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione e si ritira progressivamente dalle scene; F. KETOFF, com. pers. cit. 24 31 Maurizio Corbella ve. Ketoff rappresenta quell’ingrediente essenziale di «genio italico» necessario all’eccellenza dello studio. [Il] conte Senni, probabilmente innamorato del cinema, aveva costituito questa società e voleva essere all’avanguardia. Così chiamò Ketoff. Lì c’erano già un teatro insonorizzato, due stanze di doppiaggio e una sala di mixage (le sale di mixage ai tempi coincidevano con le sale musica, con la consolle contro il muro per lasciare lo spazio per le orchestre). […] Gli americani [che] venivano a registrare a Roma tutti quei “filmoni”, iniziarono a preferire la Fonolux, perché la Fono Roma, pur essendo sempre stata un faro, aveva una tecnologia “casalinga”, le macchine venivano fatte “in casa” con criteri dell’epoca, non molto avanzati tecnicamente rispetto agli studi di Hollywood. Invece il conte Senni costruì questa struttura e chiamò Ketoff perché voleva essere upto-date. Quando andai a lavorare lì [nel maggio del 1959, ndr], Ketoff era il capo tecnico, poi c’era un certo signor Magni che invece era un tecnico della vecchia guardia, mentre Ketoff rappresentava “il nuovo”. 30 Secondo la perizia immediatamente successiva all’atto di fondazione, la Fonolux può contare su attrezzature immesse a mo’ di capitale dalla Lux Film, e su quattro sale adibite a differenti finalità di produzione. Limitandomi alle apparecchiature di ripresa e fissaggio, questo è ciò che emerge: Microfoni: Western RA1.142 (n. 2); Western 639 (n. 2); Western 618 (n. 3); Electro Voice 636 (n. 2); Western 640AA (n. 1); Altec 150A (n. 2); Noiman [sic; Neumann, ndr] Elettrostatico Cardioide con alimentatore (n. 3); Totale n. 15. [...] Impianti di registrazione: 1) Impianto Western 635 (Sala C): è un impianto completo di registrazione, costituito dl tavolo di mixage a due canali (tipo M2), da n. 2 armadi metallici contenenti gli amplificatori di registrazione e di ascolto, i relativi alimentatori, gli strumenti di controllo, l’altoparlante di ascolto, il recorder (apparecchio di registrazione sonora) completo di n. 2 chassis per le bobine delle colonne sonore; dell’impianto fanno parte n. 2 light-valves (cellule di incisione e registrazione sonora) di tipo speciale RA 1247 e altri accessori. [...] 2) Impianto di registrazione magnetico a nastro AEG (Sala C): è un canale completo di registrazione magnetica riunito in un solo armadio. [...] Ad esso è aggregato un tavolo di registrazione (mixer) a 2 canali, di fabbricazione nazionale. [...] 3) Impianto di registrazione a nastro Ampex (Sala D): è costituito da un canale completo di registrazione magnetica [...]. 30 SAVINA, 32 com. pers. cit. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Tra tutte è la sala M a destare il maggiore interesse, trattandosi di un assemblato di macchine, che non è costituito da un solo impianto completo, originario di una sola casa costruttrice, ma è stato formato con più elementi collegati in modo da ottenere cicli lavorativi di vario tipo (registrazioni di parlato o di musica con metodo tradizionale o con sistemi stereofonici, mixage complessi ed anche essi di tipo tradizionale o stereofonico). 31 Le caratteristiche di Ketoff inventore e sperimentatore sembrano inserirsi perfettamente nel contesto di questa sala assemblata. Egli costruisce o modifica personalmente consolle di mixaggio, introduce i faders di controllo al posto delle comuni manopole,32 costruisce le stanze di riverbero: Ricordo che iniziai alla Fonolux nel momento in cui arrivava dall’Inghilterra un registratore a nastro che aveva l’inconveniente di avere il pulsante di record senza sicura vicino al pulsante di play, con il rischio di cancellare per sbaglio quanto si era registrato. Il primo lavoro che vidi fare a Ketoff fu quello di “smantellare” la macchina per mettervi una sicura. Per fare un altro esempio, gli americani con cui Ketoff lavorava chiedevano il tre piste, ed egli ricavava tre piste dal registratore a due piste, utilizzando nastri più piccoli, da mezzo pollice; bisognava cambiare tutti i supporti, non era un lavoro semplice, ma c’erano meccanici all’interno dell’Istituto Luce in grado di farlo. Fatto sta che questa macchina era in continuo aggiornamento. Dato che la Fonolux lavorava spesso con americani, Ketoff aveva l’esigenza di adeguarsi allo standard statunitense e, per esempio, costruì una consolle sul modello di quelle americane. Probabilmente influenzato dagli americani, o forse per sua natura, costruì una stanza di riverbero. Cominciò a utilizzare un suono nuovo per gli standard italiani. Si dotò di due microfoni Neumann con cui cercavamo di fare tutto. Da lui imparai il tipo di suono, un certo rigore tecnico. Lavorava- 31 FONOLUX 1957. ANDREA KETOFF, comunicazione personale, aprile 2008. L’introduzione dei faders, avvenuta nel cinema americano fin dal 1941, è riconosciuta come un passaggio fondamentale al moderno concetto di mixaggio. È infatti facilmente intuibile come il controllo lineare dei parametri sonori consenta, rispetto a quello rotatorio, la gestione di decine di canali contemporaneamente, migliorando moltissimo la performance di miscela delle componenti sonore, cioè l’atto di mixaggio analogico per il quale occorre, oltre a una grande sensibilità acustica, una buona dose di manualità: «Mixing is a little like playing the organ. Tremendous dexterity is demanded. [...] It seems beyond comprehension that one mind can simultaneously control so many different physical operations at the same time. The technic must be mastered completely that when the eye sees a note on a sheet of music a hand of foot moves consciously to perform the operation it demands. In the case of re-recording, the picture on the screen is the sheet of music»; K. B. LAMBERT, An Improved Mixer Potentiometer, «Journal of the Society of Motion Picture Engineers», XXXVII/9, September 1941, p. 290; cit. in HANSON 2007, p. 37. 32 33 Maurizio Corbella mo bene insieme, fu un periodo molto eccitante, ci trovammo a un certo punto persino a dover fare i rumori elettronici di un documentario brasiliano. Facemmo questa esperienza ma decidemmo di comune accordo di lasciare fare queste cose ad altri.33 È dunque abbastanza ovvio che una simile struttura, resa molto flessibile dai suoi operatori, e particolarmente consona a intraprendere strade “poco battute”, sia anche il terreno ideale per compositori o registi interessati a sperimentazioni nel campo della musica per film. Non è un caso che, tra i film post-prodotti alla Fonolux, risultino due titoli particolarmente interessanti per le scelte sonore, nei quali il ruolo di Ketoff appare determinante: L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960) e Barabba di Robert Fleischer (1961). Nessuno dei due contempla soluzioni elettroniche, ma in entrambe il ruolo della costruzione tecnica è profondamente influente sul risultato raggiunto. Nell’Avventura, il mixaggio degli elementi naturali registrati dal vivo al largo delle Eolie, dà luogo a una “partitura di rumori”, secondo la celebre espressione adottata da Antonioni: Per L’avventura ho fatto registrare una gran quantità di effetti sonori: ogni tipo di mare possibile, più o meno agitato, le onde che rimbombano infrangendosi nelle grotte e via dicendo. Avevo a disposizione un centinaio di bobine di nastro magnetico solo per gli effetti. Poi ho selezionato quelli che costituiscono la colonna sonora del film. Secondo me è la giusta musica che meglio si adatta alle immagini. […] L’ideale sarebbe costituire con i rumori una meravigliosa colonna sonora e farla dirigere da un direttore d’orchestra... Anche se, forse, alla fin fine l’unico in grado di farlo sarebbe il regista. 34 Se Antonioni diventa il “direttore d’orchestra” dei rumori, allora Paolo Ketoff finisce per svolgere il ruolo dell’“orchestratore”. In Barabba si rintracciano invece i prodromi del cosiddetto mixerama di Mario Nascimbene, che sarà realizzato compiutamente solo negli anni successivi dal compositore milanese con la collaborazione del tecnico Gianni Mazzarini, ma che trova nella celebre sequenza della crocifissione filmata in concomitanza con l’eclisse romana del 1960 (la pellicola venne pubblicizzata nelle sale con l’epiteto «il film che ha fermato il sole»), la prima realizzazione concettuale: l’effetto di staticità atemporale e sovrumana costituito da una semplice sovrapposizione di seconda minore agli archi acuti non funzionerebbe così bene se l’impasto orchestrale non fosse realizzato da suoni pre-re33 SAVINA, com. pers. cit. 1960, p. 127. 34 LABARTHE 34 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta gistrati singolarmente e trattati con manipolazioni elettroacustiche. La sequenza è così particolarmente coesa e compatta negli elementi visivi e sonori e si presenta come uno di quegli esempi abbastanza rari di coerenza audiovisiva in cui ogni elemento è al proprio posto e indispensabile per la resa semantica del testo. Ripercorrendo con la memoria la genesi di quella musica, Nascimbene non nasconde i meriti di Paolo Ketoff: Passai giorni e giorni a pensare come avrei potuto musicare la sequenza dell’eclissi, una delle più importanti del film. Finalmente l’idea: togliere tutti gli effetti realistici, commentare la tensione “psicologica” del momento soltanto con un pedale acuto di Re diesis-Mi eseguito da violini, soprani e contralti un’ottava bassa; una riverberazione di un tam-tam a mezza velocità avrebbe “cementato” il semitono, indecifrabile e inesorabile. Sui totali dell’eclissi, un accordo formato da pianoforte, timpani, vibrafono, xilofono e campane riprodotto a mezza velocità (cioè un’ottava sotto al suono più basso dell’orchestra, suono che in realtà non esiste nella scala tradizionale) avrebbe creato un’emozione “quasi insopportabile”. Con i “suoni nuovi” per Barabba nasceva il mio concetto personale del Mixerama: un modo di interpretare musicalmente una sequenza cinematografica usando la tecnica al servizio dell’arte. [...] L’idea era molto allettante: registrare singolarmente nelle varie estensioni tutti i suoni di ogni strumento dell’orchestra tradizionale [...], tutte le note del coro [...], alcuni timbri di strumenti speciali ed insoliti (ad esempio gli indiani tampura, sitar, saranghi, tabla, ecc.), formando una “biblioteca di suoni” a mia disposizione. Questi suoni, registrati su nastro magnetico, sarebbero stati manipolati, vivisezionati, frantumati, alterati, “conditi” con una raffinata tecnica di missaggio finale [...]. Per Barabba lo studio della Fonolux era letteralmente invaso da centinaia di anelli di suoni, pronti ad essere montati sulle teste sonore. Schiavizzai per settimane il paziente amico Paolo Ketoff, i fonici Fausto Ancillai e Silvio Vallesi... richiedendo loro una collaborazione onora definita “assolutamente disumana”...35 35 NASCIMBENE 1992, pp. 226-228. 35 Maurizio Corbella I tempi sono maturi per la messa a punto del Synket che, per usare la definizione del suo artefice, è un II. Il Synket, ponte tra cinema e live electronics sistema elettronico che insieme genera e controlla il suono. Può essere considerato bona fide uno strumento musicale poiché la sua flessibilità permette l’esecuzione di composizioni di musica elettronica senza bisogno di pre-registrazione (cosa che non è stata possibile con i tradizionali sistemi di studio).36 Le proprietà performative del sintetizzatore costituiscono certamente la sua caratteristica più importante, come lo stesso Ketoff sottolinea a conclusione della sua presentazione: Dal momento che è difficile immaginare tutte le combinazioni ritmiche e i suoni che è possibile produrre, forse si può avere un’idea, da questa descrizione, di quali siano le possibilità dello strumento. Un importante vantaggio del Synket è che permette la composizione in tempo reale di musica elettronica, eliminando gran parte delle noiose interruzioni dovute alla giunta, al montaggio e al mixaggio di nastri. Ciò che un tempo richiedeva molte ore di lavoro e una moltitudine di macchine e processi può oggi essere fatto in breve tempo e con un singolo apparecchio. I problemi compositivi ed esecutivi con il Synket diventano, grosso modo, simili a quelli di strumenti tradizionali e, grazie alla possibilità della performance dal vivo, si evitano i disagi dell’impersonalità che abbiamo avvertito finora nella musica elettronica, esattamente come i molti svantaggi meccanici che presenta il nastro magnetico quando la musica elettronica è combinata con musica strumentale e/o vocale.37 Lo strumento di Paolo Ketoff si pone dunque come spartiacque della fase storica di passaggio tra l’epoca degli studi di musica elettronica, caratterizzati da attrezzature ingombranti e costose, e da un’attività di collaborazione/ dipendenza tra compositori e tecnici (in cui è spesso difficile stabilire i confini dell’atto creativo), e la nascita dei cosiddetti live electronics, caratterizzati dall’avvento dell’elemento performativo (sia esso di carattere improvvisativo o esecutivo). È bene precisare che il Synket, pur nelle sue potenzialità, rimane uno strumento di difficile utilizzo dal vivo, poiché dotato di un sistema di controllo estremamente complicato e soprattutto mai realmente approdato a una produzione in serie. È semmai il contemporaneo Moog a determinare 36 Per il testo originale inglese, cfr. KETOFF 1967a, p. 39, riprodotto in APPENDICE II. Altrove, in casi analoghi, riporto in nota la citazione in lingua originale, per segnalare che si tratta di una mia traduzione. Se il lettore non trova l’originale in nota, significa che mi baso su una traduzione edita, le cui informazioni sono reperibili in bibliografia. 37 Ivi, pp. 40-41. 36 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta una netta svolta rispetto alla direzione inizialmente intrapresa dalla musica elettronica del dopoguerra, svolta interpretata da alcuni studiosi come Pascal Decroupet in senso regressivo, in quanto «rimette l’elettroacustica nelle mani di quegli stessi esecutori dai quali, quindici anni prima, si era sperato di ritirare la musica per sempre». 38 L’altra novità introdotta dal Moog, sempre appoggiandosi al ragionamento dello studioso francese, sta nel fatto che l’instrumentarium e i suoni che esso implica migrano progressivamente da una musica in qualche misura marginale anche in seno alla musica contemporanea verso l’ambito pubblico delle musiche di massa, per divenire rapidamente la conditio sine qua non per la quale una musica pop si definisce d’attualità. Da questo punto di vista, la seconda metà degli anni ’60 potrebbe aver segnato la fine di un’epoca e aver fatto della «musica elettronica» un fenomeno storico concluso.39 È, in definitiva, il progressivo tramonto degli Studi come luoghi determinanti della musica elettroacustica, e l’approdo a una nuova fase che porterà, con la nascita delle tecnologie digitali, all’attuale dimensione casalinga individuale. Ora, che si voglia o meno interpretare l’avvento del Moog come un “ritorno” a una fase storica anteriore (e perciò meno interessante), implicando così un rimpianto delle possibilità non sfruttate in seno all’avanguardia, non deve fare dimenticare che esiste una storia parallela della musica elettronica legata principalmente proprio a strumenti. Vista in quest’ottica, quella degli Studi appare come una parentesi in un percorso più ampio che comincia ai primi del secolo XX con il Telharmonium e dura ancora ai giorni nostri. Sullo sfondo di tale storia c’è la ricerca di timbri e articolazioni, prima che di possibilità linguistiche nuove, e di un’immediatezza realizzativa improntata decisamente sull’estemporaneità (svilupperò questo argomento nel CAPITOLO 3). Tale ricerca, per quanto si ponga in continuità e non in rottura con il linguaggio musicale occidentale pre-modernista, ha un effetto indiretto sulla contemporaneità paragonabile a quello che può derivare dallo sfruttamento di nuove possibilità timbriche degli strumenti acustici nel jazz. Sposta, per così dire, l’asse dell’equilibrio dal pensiero compositivo (inteso come atto di DECROUPET 2000, p. 21. Di simile tenore la posizione di Walter Branchi: «[Il fatto] che l’operatore abbia a disposizione una serie di apparecchiature che rispecchiano quelle di uno Studio di musica elettronica in formato ridotto e che permettono quindi una facilità di spostamento tale da farne uno strumento per esecuzioni dal vivo, riportandosi immediatamente alla dimensione orchestrale tradizionale [probabilmente costituisce un atteggiamento involutivo dal punto di vista dello sviluppo e della ricerca, nel campo della realizzazione del pensiero musicale con mezzi elettronici»; 1977, p. 111. 39 Ibid. 38 37 Maurizio Corbella concepimento anteriore all’esprimersi fisico della musica) all’azione musicale, sia essa di esecuzione o di composizione estemporanea; una linea di tendenza peraltro riscontrabile proprio tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta anche in seno all’avanguardia d’area romana (Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza, Musica Elettronica Viva), fertile di ripercussioni in vari campi dell’attività musicale cosiddetta “applicata” (in primo luogo cinematografica e radiofonica, ma anche teatrale) e parte integrante delle “estetiche” popular. Proprio in tale misura il Synket costituisce una risposta a esigenze presenti, nell’ambiente romano degli anni Sessanta, almeno in due aree della pratica musicale: quella sperimentale e quella cinematografica. Dell’importanza che la performance dal vivo assume per la musica elettroacustica romana ho già detto in apertura di capitolo. Il sonoro cinematografico, dal canto suo, è invece caratterizzato da una necessità di immediatezza realizzativa: quanto più gli sviluppi delle tecnologie elettroacustiche consentono l’adattamento anche in tempo reale a esigenze drammaturgiche, tanto più esse sono gradite e praticate in sede di post-produzione. Il film è una cosa “cotta e mangiata”, devi avere un apparecchio, vai in sala, vedi il film, fai i suoni che servono, e il film è fatto, non si può tornare dopo due mesi per modificarlo. A Milano facevano composizioni musicali e non avevano il problema del tempo. Qui a Roma c’era l’immediatezza. 40 Il Synket, come si vedrà nel paragrafo appositamente dedicato ai suoi utilizzi cinematografici, costituisce un’enorme risorsa in più in mano tanto al compositore quanto al tecnico del suono, poiché consente di attingere a una gamma timbrica che infrange la consueta divisione tra musica e rumori. L’ambivalenza di funzioni a cui il Synket si conforma si esplicita anche nei dati relativi alla sua genesi storica, la quale rende evidente un panorama in cui attività cinematografica e sperimentale sono profondamente compenetrate, al punto che non è possibile stabilire se il Synket nasca originariamente per le une o per le altre. Per portare un esempio eclatante è sufficiente citare la trasmissione radiofonica del terzo canale RAI in cui il sintetizzatore viene presentato agli ascoltatori da Paolo Ketoff e Domenico Guaccero. Dopo una prima spiegazione tecnica, Ketoff precisa: con la stessa facilità [tramite il Synket] puoi ottenere dei rumori come il tuono, il mare o il vento e nello stesso tempo il cinguettio di uccelli, ritmi di 40 SAVINA, 38 com. pers. cit. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta tamburi, di gocce d’acqua, note musicali che possono rassomigliare assolutamente a degli strumenti tradizionali.41 E, poco dopo, si esibisce in alcuni “effetti marini” straordinariamente verosimili. È possibile che questi “effetti”, più che costituire un corollario delle possibilità del Synket, ne costituiscano una delle ragioni della sua invenzione? La mia risposta è affermativa e trova, come si è visto nel paragrafo precedente, conferme nelle testimonianze che riguardano il processo di genesi del Fonosynth. Il cinema dunque, in qualità di committente principale dell’attività musicale romana degli anni Sessanta, avrebbe lasciato anche un’impronta decisiva nel suo principale strumento. Ma procediamo con ordine. Per ricostruire la problematica genesi del Synket, è bene prendere le mosse dalle parole dello stesso Paolo Ketoff: La nascita del Synket può riportarsi al 1962, quando il maestro Gino Marinuzzi si rivolse a me per realizzare, in collaborazione, un’apparecchiatura comprendente un insieme di oscillatori, filtri e modulatori, che dovevano servire per ottenere suoni elettronici. Da questa collaborazione poi nacque il Fonosynth che molti di voi già conoscono. Contemporaneamente, l’Accademia Americana mi aveva incaricato invece della sistemazione di uno Studio di Fonologia, che avevo già iniziato con le macchine di incisione e un mixer. Per completare il laboratorio mi chiese di mettere a punto un’apparecchiatura fornita di generatori e filtri che ritenevo più idonei a soddisfare le esigenze dei loro musicisti interessati alla musica elettronica. Forte dell’esperienza fatta col M.° Marinuzzi preparai un apparecchio che, pur non essendo stato concepito con quello scopo, rivelò subito la possibilità di esser usato direttamente in orchestra come un normale strumento, possibilità fino ad non presentata da apparecchiature consimili in Italia e all’estero. Tant’è vero che un mese più tardi il M.° John Eaton lo usò in una sala di concerti nella sua composizione Songs for R.P.B., insieme a due pianoforti e al canto. Il Synket, il cui nome deriva da sintetizzatore e Ketoff (Syn-Ket) fu da me poi ulteriormente perfezionato fino al modello che Voi vedete, sia per renderlo ancora più maneggevole e di facile uso, che per aumentarne le potenzialità. Per cui, questo apparecchio, pur acquistando i vantaggi di un normale strumento, conserva le possibilità di un generatore di suoni elettronici, sia ottenuti direttamente che combinati con registrazioni successive, il che risulta parti- 41 KETOFF in MUSICA EX MACHINA-VI 1967. 39 Maurizio Corbella colarmente utile nella realizzazione delle colonne sonore che richiedono suoni insoliti.42 Ketoff pone all’origine del Synket due stimoli: la collaborazione con Gino Marinuzzi jr. e la richiesta, da parte di un comitato di compositori residenti presso l’Accademia Americana a Roma, dell’allestimento di un laboratorio elettroacustico basato, su piccola scala, sugli standard del Columbia-Princeton Electronic Music Center. Di tale richiesta sono responsabili John Eaton, William O. Smith e George Balch Wilson, con il coordinamento e l’incoraggiamento di Otto Luening, fiduciario dell’Accademia dal 1953 al 1970. Riguardo al Synket, ciò che venne chiesto di fare a Ketoff dal comitato dell’Accademia nei primi anni Sessanta fu di assemblare un tape studio tradizionale. L’intero equipaggiamento di generazione e modulazione del suono stava in una piccola custodia. Quando arrivò, ricordo che esclamai: «Ma Paul [Paolo], questo è uno strumento!».43 Evidentemente, i compositori dell’Accademia furono stupiti delle dimensioni contenute e ancor più delle potenzialità della nuova macchina. La versione che offre Joel Chadabe, informato sui fatti perché presente a Roma a metà anni Sessanta è, pur con una discrepanza riguardo alla professione di Ketoff in quel momento,44 complementare alle informazioni da me raccolte: William O. Smith, John Eaton, Otto Luening e George Balch Wilson […] si consultarono con Paolo Ketoff, un ingegnere del suono della RCA Italiana, e Ketoff portò Smith, che in quel momento si incaricava dello studio [dell’Accademia Americana] a vedere il Fonosynth, un grande sintetizzatore “da studio”, che Ketoff aveva costruito circa un anno prima per il compositore Gino Marinuzzi. Ketoff propose di costruire una versione più piccola del Fonosynth per l’Accademia Americana. Smith e gli altri furono d’accordo.45 42 KETOFF 1967b, in TORTORA 1994, p. 125. «What Ketoff was asked to do with the Synket by the committee from the Academy in the early 1960s, was to put together a classic tape studio. The whole sound generating and modulating equipment was in a small case. When it arrived, I remember exclaiming, “But Paul, this is an instrument!”»; EATON, com. pers. cit. 44 Rimando alla breve ricostruzione della vicenda biografica di Ketoff esposta nel precedente paragrafo. 45 «William O. Smith, John Eaton, Otto Luening, and George Balch Wilson […] consulted with Paolo Ketoff, a sound engineer for RCA Italiana, and Ketoff took Smith, who at the time was in charge of the studio, to see the Phonosynth, a large studio-oriented synthesizer that Ketoff had built a year or so earlier for composer Gino Marinuzzi. Ketoff then proposed that he build a smaller version of the Phonosynth for the American Academy. Smith and the others agreed»; CHADABE 1997, p. 144. 43 40 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta La velocità con cui nasce lo studio dell’Accademia Americana è indicativa del fervore delle iniziative intorno alla sperimentazione elettronica presente nei primi anni Sessanta nella capitale. La presenza e la competenza di Ketoff sono sicuramente determinanti al di là dell’apporto del Synket, un valore aggiunto che nessuno si sarebbe aspettato: Ketoff costruì il laboratorio dalle fondamenta, fornendoci un pannello di mixaggio, oltre al Synket. Credo che abbia anche acquistato i registratori a nastro per noi e altri elementi periferici, anche se quelli potrebbero essere stati recuperati da Otto Luening; infine svolgeva anche la manutenzione. 46 Ripercorrendo i pochi documenti rimasti, risulta chiaro come l’idea di fare del tape lab – già esistente negli anni precedenti, ma limitato a un registratore a nastro utilizzato per la ripresa e la duplicazione di concerti svolti dall’Accademia – uno studio di sperimentazione e ricerca, maturi nel corso di neanche due anni, tra il 1960 e il 1962. È probabile che l’idea fosse già nella testa di Luening quando, nel 1960, fu interpellato dalla direzione dell’Accademia per l’acquisto di un nuovo registratore da affiancare all’Ampex 600 in dotazione, allo scopo di «incrementare la nostra collezione di musica contemporanea, specialmente europea, attraverso la registrazione delle trasmissioni radiofoniche».47 Dopo due anni Smith, che aveva aggiornato costantemente Luening sulle attività romane, fa giungere a New York l’eco del suo eureka: Caro Otto, indovina? Il Tape Music Lab dell’Accademia Americana è finalmente in funzione. Ketoff ha ancora qualche problema da appianare, ma abbiamo un buon set-up; Leslie Basset e io abbiamo iniziato a sperimentare con l’aiuto del buon vecchio [Vittorio] Gelmetti […]. Speriamo di presentare qualcosa dell’Accademia per il festival di musica elettronica al Museo d’Arte Moderna di «Ketoff built the lab from the ground up, giving us a mixer panel in addition to the Synket. I believe he also acquired the tape recorders for us and other peripheral elements, although those may have been brought over by Otto Luening. He also kept it in good repair»; EATON, com. pers. cit. 47 «Tape recording has become increasingly more important to the composers here, not only as a means of playing already existing tapes and recording concerts, but also as an excellent method of adding to our library of contemporary music, especially European, by recording radio broadcasts. Our present Ampex Model 600 is in constant use. [...] The Academy was assured that the machine could be expected to give several more years of top performance. Recently, however, the main bearing has shown signs of wear, which makes the prediction doubtful. This is especially unfortunate when the repair cannot be competently obtained in Rome [...]»; WILSON 1960. 46 41 Maurizio Corbella quest’anno. Spero anche che riusciremo a presentare alcune composizioni del laboratorio di Columbia-Princeton. 48 Del Synket, in questa e altre lettere, nessuna notizia. Una novità così importante sarebbe stata di sicuro comunicata a Luening, a meno che questa non fosse già stata riportata in qualche altra lettera non ritrovata. D’altra parte il piccolo studio, già fornito di «tre oscillatori, una coppia di Ampex stereofonici, un’unità di riverbero, un mixer, un supporto per le giunte, qualche microfono e altre cianfrusaglie»,49 sarebbe già stato in grado di produrre tape music da subito, anche senza il Synket, come Smith auspica nella lettera. Più verosimile è che Ketoff inizi a lavorare alla sua nuova creazione a partire da questo momento; ciò spiegherebbe il suo riferimento al 1962 come l’anno a cui «si può fare risalire» l’invenzione del sintetizzatore, e non contraddirebbe d’altronde la consueta datazione dell’apparecchio al 1964, che lo stesso Ketoff sembra avvallare implicitamente nelle sue parole. 50 Ciò che è certo è che a partire dal momento della sua creazione, il Synket viene richiesto a Ketoff da vari compositori, e utilizzato in versioni personalizzate sia per la composizione di musiche elettroniche, sia per la performance, sia negli studi cinematografici.51 Particolarmente conosciute sono le migliorie che vengono apportate al modello di John Eaton, tra cui l’aggiunta di tre tastiere tra loro intonate su differenze microtonali (la microtonalità è infatti il campo di ri«Dear Otto, Guess what? The American Academy Tape Music Lab is finally functioning. Ketoff still has a couple of problems to iron out, but we have a nice set-up, and Leslie Bassett and I have started experimenting with the help of good old Gelmetti [...]. We’re hoping to have some Academy things on the Electronic Music Festival at the Modern Art Museum this year. I hope we can also present some compositions from the Columbia-Princeton Lab». SMITH 1962a. 49 «In early 1964, the equipment in the electronic studio at the American Academy in Rome, which had been specified by Vladimir Ussachevsky, consisted of three oscillators, a couple of Ampex stereo machines, a reverb unit, a mixer, a splicing block, a couple of microphones, and other odds and ends»; CHADABE 1997, ibid. 50 In generale, la maggior parte della letteratura angloamericana utilizza questa data. Si aggiunga che non bisogna considerare il 1964 come la data in cui le sperimentazioni terminano; in varie occasioni Eaton ha ribadito di avere continuato a lavorare sul Synket con Ketoff: «We probably worked together two or three times a week on the Synket as a performing instrument between 1962 and 1966»; com. pers. cit. 51 Stabilire quanti Synket fossero in circolazione alla fine degli anni Sessanta è affare arduo, che non affronterò. Sappiamo per certo dell’esistenza di un Synket (probabilmente il n. 1) presso lo Studio dell’Accademia Americana, di almeno uno in possesso di John Eaton (n. 2), di uno presso lo SR7 e di uno in possesso di Ennio Morricone (comunicazione personale, 7 settembre 2009). Oggi, accanto agli apparecchi di John Eaton, un esemplare è ancora conservato dall’Accademia Americana, un altro è conservato presso il Museo degli strumenti musicali di Milano con le apparecchiature dello Studio di Fonologia, quello del SR7 è in possesso di Walter Branchi, e uno non funzionante è conservato nell’abitazione di Paolo Ketoff (A. KETOFF, com. pers. cit.). Registro anche la richiesta di informazioni di Otto Luening a John Eaton, non sappiamo se andata a buon fine, riguardo alla possibilità di farsi costruire un nuovo Synket da Ketoff per una sua studentessa; LUENING 1972. 48 42 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta cerca principale del compositore americano a quel tempo), che lo rendono un vero e proprio strumento live, utilizzato da Eaton nei decenni successivi spesso accoppiato al Moog (FIGURA 3): Figura 3: Paolo Ketoff (sx) di fianco al modello di Synket personalizzato per John Eaton (dx); evidenti le tre tastiere. Per prima cosa, gli chiesi una tastiera in grado di trasmettere il “tocco” umano. Lui mi accontentò facendola sensibile alle dinamiche come un pianoforte, e soggetta a movimenti laterali come un clavicordo. Quindi volevo un pedale volume. Da ultimo, siccome ero interessato nella musica microtonale, gli chiesi di rendermi possibile di intonare ogni tasto delle tre tastiere in maniera differente; inserì viti sotto ogni tasto. Il Synket che fece per me – il numero 2 – aveva un timbro molto più ricco di quello dell’Accademia; tuttavia, io volli anche il suono più puro dell’originale, così egli mise un selettore in alto in modo da permettere lo spostamento da un set timbrico all’altro. Quindi, gli chiesi di aggiungere la possibilità di usare il generatore di rumore bianco co- 43 Maurizio Corbella me un modulatore. Gli chiesi anche di installare un riverbero a molla. Ci furono altre innovazioni, molte suggerite da Ketoff stesso. 52 Successivamente alla sua fondazione ufficiale nel marzo III. La difficile identità dello Studio R7 1968, lo Studio R7 (SR7), situato a Roma in Piazza delle Cinque Giornate, consta di sei magnetofoni (tra cui due Ampex e due Revox), sei altoparlanti, alcuni apparecchi per la trasformazione del suono (Varivox),53 miscelatori (mixer), filtri, e due sintetizzatori di suono: il Synket e il Fonosynth. 54 La costituzione dello SR7 giunge alla fine della parabola di utilizzo di questi due macchinari, già in parte superati dall’accessibilità sul mercato di attrezzature rapidamente giunte a fama mondiale come il Moog, che rispetto al coevo Synket presenta tre importanti caratteristiche: il fatto di essere prodotto in serie (a differenza del Synket), l’impiego di transistors invece che valvole e, soprattutto, l’introduzione del controllo di tensione (Voltage Control), una tecnologia rivoluzionaria che Ketoff non conosceva, ma che avrebbe potuto facilmente far propria quando Robert Moog gli offrì l’opportunità di un insegnamento ad Albany (NY). 55 Il rifiuto di Ketoff si iscrive nel suo temperamento schivo, poco condizionato da logiche di guadagno, ed è anche la ragione principale per cui il Synket non approda alla produzione seriale. Come del resto traspare dalla mia ricostruzione della genesi dello Studio dell’Accademia Americana, l’apporto di Ketoff al mondo dell’avanguardia è multiforme sia in termini di ruoli ricoperti, sia di contributi tecnologici. Egli predispone varie apparecchiature per John Cage, con il quale 52 «First, I asked him for a keyboard that was capable of transmitting human nuance. He responded by making it velocity sensitive like a piano, and affected by sideways movement like a clavichord. Then I wanted a volume pedal. Next, because I was interested in microtonal music, I asked him to enable me to tune each key of all three keyboards differently; he put screws under each key. The SynKet he made for me - no. 2 - had a much richer color than that of the academy; but, I also wanted the purer sound of the original one, so he put a switch on the top to turn from one set of tonal characteristics to another. Then, I asked him to add the possibility of using the noise generator as a modulator. I also asked for a spring reverb unit to be installed. There were other innovations, many suggested by Ketoff himself»; EATON, com. pers. cit. Le innovazioni di cui parla Eaton, compresa la triplice tastiera, si ritrovano anche nell’esemplare di Synket conservato nello SFdM, sebbene nel caso della tastiera ci siano differenze nella conformazione dei controlli posti a sinistra dei tasti. Tale esemplare è comunque posteriore a quello di Eaton, essendo stato acquisito dallo Studio solo nel 1968; RODÀ 2009, p. 82. 53 Il Varivox è un variatore di velocità del nastro magnetico che consente di mantenere invariata la frequenza. Utilizzato in particolare dagli studi radiofonici per esigenze di quadratura dei tempi dei programmi. Cfr. BRANCHI 1977, p. 161. 54 Cfr. GUACCERO [post-1968]. Le uniche trattazioni estensive sullo SR7 si trovano in ZACCONE 2005a/b. Accenni sono presenti in TORTORA 1990 e 1996, fondamentali per l’inquadramento cronologico nell’ambito delle coeve e correlate iniziative di Nuova Consonanza. Per le restanti notizie relative allo Studio, mi riferisco a BRANCHI, com. pers. cit. 55 F. KETOFF, com. pers. cit. 44 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta intrattiene un amichevole rapporto di frequentazione,56 è ricordato con affetto particolare da Ennio Morricone, che gli attribuisce il suggerimento iniziale per la sua composizione di Suoni per Dino, per viola e due magnetofoni dal vivo (1969), per cui Ketoff cura anche la realizzazione tecnica della prima esecuzione;57 e, naturalmente, accanto allo stretto rapporto con John Eaton, lo affianca anche in qualità di performer dal vivo e su disco. 58 Del resto, che Ketoff non fosse nuovo a salire sul palco, è confermato anche da un gustoso aneddoto di Richard Teitelbaum riguardante una delle movimentate performance di Musica Elettronica Viva a Palermo nel 1968.59 Fin dalla fine degli anni Cinquanta, peraltro, l’attività di hobby collaterale di Ketoff consistente nel mettere a punto e riparare i primi sistemi hi-fi, lo aveva portato a collaborare in varia misura con altri compositori dell’area romana come Gianfranco Maselli e Mario Peragallo, contribuendo tecnologicamente alle loro parentesi compositive in ambito elettroacustico.60 Lo SR7, pur nelle mille difficoltà di sopravvivenza in cui si destreggia nella sua breve vita – le sue attività cessano intorno al 1972-73 – 61 riveste una straordinaria importanza per la vita culturale romana: da un lato infatti costituisce un impulso decisivo alla nascita della cattedra d’insegnamento di musica elettronica del conservatorio, la quale nei primi tempi sarà ospitata dall’Accademia di S.ta Cecilia per la parte teorica e proprio dallo SR7 per la parte pratica; dall’altro riesce a porsi finalmente come punto di riferimento per i compositori dell’area, promuovendo iniziative e mettendo a disposizione di compositori esterni, in un’ottica di condivisione passaggio di conoscenze, competenze e attrezzature. 62 Come indicato nel nome, il nucleo fondato56 A. e F. KETOFF, comm. perss. citt. MORRICONE, comunicazione personale, 7 settembre 2009; MICELI 1994, pp. 222225, 362. 58 EATON s.d.; in una locandina dello stesso periodo, Ketoff figura tra i musicisti, e si parla curiosamente di uno strumento chiamato “synkettino”; cfr. LOCANDINA s.d. 59 «Perhaps my fondest memory of an unexpected “eventuality” of this sort was the MEV concert at the 1968 Palermo Festival on the night before New Year’s Eve, (with both Cage and Feldman in the audience). [...] Before the concert, Chiari told me: “Rzewski wants this to end in peace in love, but I don’t”. Toward the end of the final improv, Chiari began to perform a famous piece of his by repeatedly shouting the word “Luce!” [...] through his electric megaphone. Either by accident or design, this triggered a wild sequence of events: the people controlling the stage lights abruptly cut them and the power and turned up the house lights. With his power cut, synthesizer designer Paul Ketoff, who was doing sound for the concert and had joined in the improv by playing sounds by fast forwarding and rewinding a 10-inch open reel tape machine at high speed watched helplessly as masses of loose tape flew all over the control room. Then stagehands started pouring onto the stage, carrying away the instruments while we were still playing. I’ll never forget Alvin [Curran] swinging a mallet at a set of tubular orchestral chimes just as they were pulled out from in front of him, so that he hit nothing but air. It was like a scene of a Marx Brothers movie», TEITELBAUM 2008, pp. 28-29. 60 Cfr. SAVINA, com. pers. cit. (APPENDICE I). 61 TORTORA 1990, p. 57n. 62 BRANCHI, com. pers. cit. 57 45 Maurizio Corbella re dello studio è costituito da sette persone, cinque compositori e due tecnici: Walter Branchi, Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Egisto Macchi, Gino Marinuzzi jr., Guido Guiducci e Paolo Ketoff. Negli ultimi anni di attività sarebbero entrati anche Fiorenzo Carpi, Ennio Morricone e Bruno Nicolai, tramutando il nome in R10.63 La nascita del nostro studio si può dire che sia la conseguenza, anzi una delle conseguenze, di più che un decennio di musica elettronica a Roma; la sua denominazione appunto deriva dalle sette persone che vi hanno concorso alla sua costituzione […]. Lungi dall’affermare con questo che l’interesse per la musica elettronica a Roma si esaurisca in questi nomi, cito fra gli altri Gelmetti, Di Blasio, Clementi, Vlad, Bertoncini, Sifonia, oltre agli americani che risiedono a Roma, credo che per noi sia stato decisivo il fatto che ci siamo sempre occupati di organizzazione musicale e quindi a un certo momento abbiamo inteso unire le nostre forze, non solo per la nostra attività personale, ma per fornire ai colleghi uno strumento di lavoro, anche se modesto per ora, che fosse a diretta disposizione.64 Lo SR7 è il frutto dunque di uno sforzo collettivo per unire competenze e strumentazione con un intento non solo di mero sostentamento economico, ma anche di ideale convergenza di interessi, pur nell’indipendenza creativa alla base dei percorsi di ogni compositore: Accanto allo studio ufficiale della RAI di Milano e a quello di Firenze, di Torino, di Padova, che sono orientati, mi pare, più verso una ricerca pura, scientifica quasi, noi potevamo un po’ caratterizzarci proprio per gli apporti e le sperimentazioni personali di tutti noi. Intanto noi abbiamo inteso lasciarci aperta la possibilità di liberi indirizzi di ricerca e quindi anche estetici in questo senso, perché ciascuno potesse operare secondo il proprio talento; possibilità quindi di dedicarsi alla tape music tradizionale, al nastro quindi, che all’esecuzione dal vivo e perciò per esempio una collaborazione col Gruppo di Improvvisazione, di cui è animatore Evangelisti, e con la Compagnia del Teatro Musicale di cui ci occupiamo Macchi ed io. Nonché la formazione di un’attrezzatura adatta proprio a questo scopo, cioè allo scopo della musica viva, dal vivo; possibilità inoltre di realizzare musiche d’arte, diciamo, e musiche di consumo, cioè al fine di auto-sostentarsi, privi come siamo di altri aiuti esterni; e infine il laboratorio per esperienze di elettroacustica e per la costruzione di nuovi apparecchi.65 63 Ibid. 64 GUACCERO 65 Ibid. 46 in MUSICA EX MACHINA-X 1968. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Le radici di questo spirito solidale sono rintracciate da Guaccero in un decennio di sforzi che avevano dato riscontri sul fronte associativo, concertistico e, infine, anche tecnologico. Se da una parte Walter Branchi e Guido Guiducci avevano qualche anno prima (1964 ca.) costituito il piccolo Studio di Fonologia di Roma che, con il nominale intento emulativo del modello milanese, costituisce l’antecedente diretto dello SR7, le radici per Guaccero risalgono indietro di circa un decennio.66 Proprio in virtù del carattere di individualità espressiva che contraddistingue i membri fondatori dello SR7, è necessario operare una distinzione tra il ruolo che il cinema ha in termini strutturali per la sopravvivenza economica dello Studio, e la possibilità che esso costituisca una risorsa espressiva per alcuni compositori. In quest’ultima categoria rientrano senz’altro Marinuzzi e Macchi, mentre non particolarmente interessati al medium sembrano Evangelisti e Guaccero; il caso di Branchi è, infine, peculiare poiché, pur non essendo particolarmente attivo come compositore cinematografico, egli ha comunque un rilevante ruolo in qualità di esecutore esperto del Synket all’interno di colonne sonore di Macchi e Morricone. 67 La tentazione di leggere nell’ingresso di quest’ultimo insieme a Nicolai nello Studio R10 uno spostamento dell’asse delle attività verso l’ambito cinematografico è in realtà smentita da Morricone stesso, che ha dichiarato di non essersi mai avvalso dello Studio per finalità cinematografiche, ricordando la sua confluenza nel gruppo degli amici compositori come un gesto simbolico, «un atto di solidarietà e amicizia verso i miei colleghi».68 L’attività cine-televisiva è comunque ricordata come una delle principali fonti di sostentamento, insieme all’affitto a ore per compositori «Il compositore Marinuzzi, l’ingegner Ketoff ed io siamo quelli rimasti dal gruppo che diede vita nel ’57 allo Studio dell’Accademia Filarmonica Romana, ma già precedentemente sia Ketoff che Marinuzzi avevano fatto delle esperienze per la produzione di nuove apparecchiature e tape music. Ricordo ancora i contatti avuti nel ‘56 da Evangelisti e me con Berio e Maderna, che allora avevano costituito lo Studio di Fonologia musicale a Milano, ma già qualche anno prima Evangelisti si occupava in Italia, e fuori anche, di musica elettronica, poi nel ’56-’57 lavorò allo studio della radio di Colonia, dove realizzava un pezzo che veniva notato in partitura, ed è il secondo pezzo pubblicato e notato dopo lo “Studio II” di Stockhausen. Successivamente Ketoff e Marinuzzi approfondirono la ricerca per la costruzione di apparecchi sintetizzatori e così, intorno al ‘60, veniva costruito il Fonosynth che è un sintetizzatore appunto, e pochi anni dopo una nuova apparecchiatura del genere più maneggevole fu progettata e costruita da Ketoff, cioè il Synket. D’altra parte io e Macchi ci occupavamo del mezzo elettronico usato come musica concreta, viva, dal vivo come amplificazione di strumenti tradizionali oltre che occuparci di teatro musicale da camera, come è nel nostro attuale momento. Poi l’anno scorso l’incontro con i più giovani Branchi e Guiducci, che sono rispettivamente un compositore e un tecnico, veramente faceva un po’ coagulare queste sparse forze intorno ad un programma comune»; ibid. 67 BRANCHI, com. pers. cit. 68 MORRICONE, com. pers. cit. 66 47 Maurizio Corbella esterni, ma, mentre nelle aspirazioni di Domenico Guaccero dovrebbe costituire l’iniziale tappa di un’impostazione organicamente tesa verso uno Studio dotato di caratteri professionalizzanti (dunque inserito commercialmente nella società) e al contempo votato alla ricerca, il progetto così concepito non avrà in effetto né tempo né modo di realizzarsi: L’attività di autogestione dello Studio si è resa possibile in questo primo anno di vita anche mediante la realizzazione di musiche cine-televisive (ad es. le musiche composte da G. Marinuzzi per il Dottor Jekyll televisivo con la regia di Albertazzi). Hanno effettuato ricerche presso lo Studio i compositori Makoto Shinoara, Benno Amman e Walter Branchi, mentre hanno composto musiche i maestri Branchi, Gelmetti, Grano, Guaccero, Morricone, Macchi, Nicolai ecc. Si aggiungano, infine, le ricerche effettuate dagli ingegneri Ketoff e Guiducci per apparecchiature particolari per la musica elettronica.69 69 GUACCERO 48 [post-1968], p. 130. 2 Suono organizzato Risorse elettroacustiche, assetti produttivi e strategie drammaturgiche al cinema Alla fine degli anni Cinquanta il cinema è tra i protagonisti del “boom” economico italiano.1 Roma è il primo centro europeo di produzione, il secondo polo internazionale, in costante rapporto di scambio con l’industria hollywoodiana, la quale, complice la crisi giuridico-finanziaria degli Studios,2 sposta parte della produzione proprio a Cinecittà, dando origine alla celebre espressione “Hollywood sul Tevere”. È dunque abbastanza naturale riconoscere in esso il ruolo di committente principale anche sotto il profilo musicale, per ciò che riguarda il peso economico e la quantità di commissioni. Tuttavia, è bene ricordare la peculiarità del tipo di committenza musicale operata dal cinema, che si differenzia rispetto ad altre tipologie radicate nella tradizione musicale occidentale. Il cinema, perlomeno quello afferente al modello produttivo hollywoodiano che si afferma a partire dagli anni Trenta, non richiede al musicista una prestazione in termini di “opus”, secondo il significato del termine che si è venuto definendo a partire dal Classicismo; il carattere frammentario ed episodico della collaborazione compositiva all’opera cinematografica è tale che può accadere che l’operato del compositore possa arrivare a non coincidere nemmeno con l’intera componente musicale del film, poiché il regista o il produttore possono decidere di utilizzare 1 cfr. FARASSINO 2004. 2 Cfr. JOWETT 2004, pp. 206-210; SCHATZ 2004b, pp. 285-293. Maurizio Corbella anche musiche pre-esistenti o avvalersi di più compositori; e, d’altra parte, quand’anche l’apporto del compositore corrisponda alla totalità della musica del film, il cineasta ha il potere di eliminare, tagliare o rimescolare i numeri musicali, influendo pesantemente, se non addirittura alterando, il pensiero creatore originario. Si aggiunga che, nella stragrande maggioranza dei casi, il compositore è chiamato a intervenire a film girato, ed è pertanto privato della possibilità di avere un peso nella genesi della strategia drammaturgica. Ciò costituisce una ragione fondamentale perché, in una tradizione come quella italiana novecentesca, così legata all’idea di un pensiero musicale assoluto e autosufficiente, stenti a stabilizzarsi uno specialismo musicale cinematografico paragonabile a quello statunitense. Se lo specialismo cinematografico si afferma a partire dagli anni Sessanta come categoria priva dei riconoscimenti sociali e istituzionali e conseguentemente, talvolta, anche delle qualifiche musicali condivise, è indubbio che ciò contribuisca a un’importante ridefinizione della condizione e del concetto stesso di “composizione” musicale nella società contemporanea.3 La qualifica di compositore, esattamente come quella di “scrittore”, diventa nella pratica cinematografica, così come nelle musiche popular, densa e allo stesso tempo generica, non solo perché non identifica più necessariamente una figura che ha svolto un iter di formazione istituzionale e si presuppone faccia riferimento a una tradizione di modelli e pratiche condivise, ma anche perché si misura con un allargamento drammatico, avvenuto all’indomani della rivoluzione fonografica, dell’interesse per l’universo sonoro nei più disparati ambiti disciplinari artistici e scientifici, che può essere soggetto ad approcci “compositivi” in un senso più ampio e non strettamente afferente all’idea di musica “d’arte” radicata nella tradizione occidentale.4 Del resto, che il cinema sonoro, fondato sulla nozione di montaggio visivo, possa rappresentare di per sé un’alternativa all’idea di composizione musicale occidentale è chiaro in una quantità di casi che attraversano la sua storia, a partire da Wokonende di Walter Ruttmann (1930)5 fino ad arrivare ad alcune celebri sequenze di Apocalypse Now di Francis Ford Per quel che riguarda il concetto di specialismo cinematografico cfr. MICELI 2009a, pp. 348-396. 4 Per un quadro di riferimento storico-teorico sul concetto di composizione, cfr. BLUM 2001. 5 Film privo della “colonna visiva” nel quale si sussegue un montaggio di soli suoni. 3 50 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Coppola (1979).6 Nuove pratiche, nuove competenze assumono un peso sempre più determinante nella formazione di un autore di musiche cinematografiche, e allo stesso tempo forgiano nuove figure che mantengono una relazione problematica con l’universo musicale in senso tradizionale e ridimensionano il peso dell’apporto creativo del compositore all’opera cinematografica. Di fronte a questo dato si è assistito nei decenni passati a un sostanziale arretramento degli approcci storico-critici italiani nei confronti del suono cinematografico, prudentemente riparatisi in un atteggiamento di rimpianto per la constatazione del venir meno del patrimonio di conoscenze anche artigianali che la competenza compositiva in senso stretto ha sempre implicato.7 Tale punto di vista è sostanzialmente in linea con quello storico dei compositori “colti” nei confronti del mondo cinematografico e, in un certo senso, non fa che confermare la dicotomia tra cultura alta e bassa. La conseguenza principale di ciò è stata la concentrazione su casi indiscutibilmente rappresentativi e di primo piano, come Nino Rota ed Ennio Morricone, verso i quali gli strumenti della musicologia storica trovano ancora appigli relativamente solidi, a scapito di personalità che ponevano maggiori problemi valutativi, ancor prima che interpretativi; ciò a maggior ragione è accaduto alle figure che ricoprivano ruoli tecnici nella catena della produzione sonora, tanto che oggi è molto difficile ricostruire un panorama verosimile della storia della post-produzione nel cinema italiano, diversamente da quanto accade in area statunitense, dove i film studies hanno ormai da una ventina d’anni cominciato a raccogliere interviste, testimonianze, documenti audiovisivi, con un senso della preservazione talvolta feticistico e motivato dal solo interesse delle industrie cinematografiche, ma che sicuramente non sfocia nella mancanza di materiale di analisi. La celebre sequenza dell’attacco al napalm è presa spesso a esempio paradigmatico della pratica del sound design nel cinema contemporaneo: in essa l’attacco degli elicotteri americani a un avamposto vietnamita è realizzato con il supporto della diffusione tramite altoparlanti della celebre Cavalcata delle Valchirie wagneriana. Si tratta di una vera e propria composizione audiovisiva di musica, rumori e immagini della cui “partitura” (in realtà si tratta di un elaborato cue sheet) è possibile osservare un dettaglio riprodotto in ONDAATJE 2002, pp. 240-241. 7 Ma è doveroso constatare che nel corso dell’ultimo decennio si è con sempre più convinzione tentato un rinnovamento metodologico della disciplina musicologica nei confronti di fenomeni complessi come quelli cinematografici, innanzitutto aggiornando gli strumenti filologici tradizionali, mettendo in discussione il principio di autorialità delle musiche per film, indagando il complesso campo di sovrapposizione (sia sociale, che estetica) tra mercato discografico e musica per film, e, infine, sondando con rinnovato interesse “intrecci” audiovisivi messi in atto dal cinema d’autore italiano, partendo dalla concezione musicale propria dei cineasti. Per un inquadramento di questi problemi, cfr. CALABRETTO 2006. 6 51 Maurizio Corbella Ciò detto, due indispensabili capisaldi critici come la monografia su Morricone e il saggio su Rota a opera di Sergio Miceli,8 basterebbero comunque anche da soli a offrire un quadro delle fondamentali questioni metodologiche estensibili all’intero panorama della musica per film italiana, se è vero che i due compositori più noti del secondo Novecento italiano incarnano nelle loro vicende umane, biografiche e creative, le complesse questioni (di tipo ideologico, estetico, sociale) che la compenetrazione tra diversi ambiti di pratica musicale porta con sé. Lo sforzo dovrebbe essere quello di non considerare tali casi quali unica illustri, exempla sul modello di una storiografia dei “grandi nomi”, semmai di addentrarsi in quella oscura selva che è stata, con una troppo frettolosa classificazione basata su schemi estetico-critici ereditati dalla tradizione ottocentesca, identificata come “musica applicata” fin dai protagonisti di quella stagione. Le connotazioni di marginalità che questa categoria porta con sé, sia in termini di rilevanza estetica (contrapposta alla produzione “maggiore” di un compositore), sia in termini di occorrenza (è una musica “d’occasione”, che implica tempo e impegno minori), non devono distogliere l’attenzione dal fatto (rilevato proprio da Miceli) che proprio nella musica “applicata” si manifestano quei caratteri di sincretismo e di eclettismo, di superamento delle barriere socio-culturali, così fondanti le pratiche musicali occidentali del XX secolo, che necessiterebbero per quel che riguarda il contesto italiano di un attento approfondimento (con relativa riscoperta di figure significative quali Fiorenzo Carpi, Gino Negri, Bruno Nicolai ecc.).9 Proprio l’avvento delle pratiche elettroacustiche contribuisce a un ulteriore ampliamento del concetto di composizione per almeno due ragioni: 1) la competenza elettroacustica non è strettamente musicale, ma può avere vari ambiti di specializzazione di matrice teorica o tecnologica – ne deriva che una composizione di suoni elettroacustici non è automaticamente una composizione musicale, cioè presupponente un pensiero organizzativo di tipo musicale; 2) in ambito cinematografico la pratica elettroacustica si estende a coprire, o perlomeno a implicare, anche quegli ambiti produttivi che tradizionalmente non sono contemplati dalla scrittura musicale per film, vale a dire parola e rumori. I due aspetti finiscono per intrecciarsi nel sollevare una questione di rilevanza cruciale ai fini del presente lavoro: il cinema accoglie e, in alcuni casi, genera pratiche di sintesi ed elaborazione del suo8 1994 e 1982. «Tutto ciò [...] si traduce in musica nell’annullamento delle gerarchie con la conseguente affermazione dei sincretismi, delle mescolanze stilistiche e del citazionismo, inteso quest’ultimo come ammiccamento o dimensione metamusicale; senza contare il ricorso alla musica concreta ed elettronica e il contributo sempre più determinante di sorgenti riprodotte»; MICELI 2009a, p. 349. 9 52 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta no ma le volge a finalità che si incontrano a fatica, quasi sempre generando frizioni più o meno implicite, con le modalità attraverso le quali queste pratiche si vanno sviluppando nell’ambito delle esperienze musicali coeve; alla base di queste frizioni c’è un’irriducibilità di fondo nel modo di percepire e concepire il suono tra i due mondi cinematografico e musicale, che ha ripercussioni sulle modalità della sua organizzazione. Tale irriducibilità costituisce grosso modo il punto di partenza dal quale lo studioso americano Douglas Kahn muove per ricostruire nella sua opera una storia del suono nel pensiero e nelle arti occidentali a partire dal Modernismo di inizio XX secolo fino alle più recenti esperienze.10 Chiedendosi se sia possibile un percorso organico all’interno delle molteplici manifestazioni del suono nelle arti, egli parte dal presupposto che nel secolo scorso «malgrado la pervasività culturale del suono, non ci furono pratiche artistiche all’infuori della musica identificate primariamente con l’auralità»,11 pur essendoci stato un buon numero di artisti non compositori che avevano posto il suono a fondamento delle proprie poetiche: Marcel Duchamp, Antonin Artaud, Dziga Vertov, Piet Mondrian, William Burroughs, Jack Kerouac, per citarne alcuni. Non c’è una storia di un’arte autonoma e auto-descriventesi nella maniera in cui si potrebbe pensare alla storia della scultura, non un prospetto dotato di unità di propositi e continuità lineare, non un processo di intrecci biografici e scambi di influenze “libidinali”. Come oggetto Storico, il suono non è in grado di fornire una buona storia o un sistema di personaggi coerente, né può supportare alcuna surrogata nozione di progresso o di maturità generazionale. La sua Storia è dispersa, sfuggente e fortemente mediata – è un oggetto povero quanto lo è il suono stesso sotto ogni altro punto di vista.12 In questo contesto di dispersione, il pensiero musicale occidentale è stato l’unico “sistema” in grado di conferire organicità alle riflessioni sul suono, persino laddove esse apparivano come minacce radicali alle proprie fondamenta; la “strategia” dell’avanguardia da Russolo a Cage fu quella di portare progressivamente all’interno dell’universo musicale le nozioni di rumore e 10 KAHN 1992; 1999. despite the cultural pervasiveness of sound, there was no artistic practice outside music identified primarily with aurality»; KAHN 1992, p. 2. 12 «There is no history of a self-described and autonomous art in the way one might think of the history of sculpture, no facade of a purposeful unity and linear continuity, no ongoing biographical intrigues and libidinal exchanges of influence. As a historical object, sound cannot furnish a good story or consistent cast of characters nor can it validate any ersatz notions of progress or generational maturity. The history is scattered, fleeting, and highly mediated it is as poor an object in any respect as sound itself»; ibid. 11 «[...] 53 Maurizio Corbella di extra-musicale, con l’intento di rinnovare e rivoluzionare la pratica compositiva. 13 Conseguentemente però il suono dovette subire un processo di astrazione e intellettualizzazione, definito da Kahn musicalization, per conformarsi a nozioni di “sonicità”, vale a dire «idee di un suono spogliato dei suoi attributi associativi, minimamente codificato e situato in stretta prossimità con la percezione “pura”, distante dai contaminanti effetti del mondo».14 A differenza del pensiero musicale, altre discipline artistiche tra cui il cinema svilupparono percorsi alternativi, benché meno sistematici, addensando sul suono, all’indomani della rivoluzione fonografica, tutte le connotazioni culturali, gli effetti contaminanti del mondo, riassunti nell’espressione intraducibile worldliness: Il cinema, al contrario, fu più conciliante e meno difensivo. Non solo il film sonoro era una forma di fonografia, ma cinema e fonografia condividevano la discendenza da Thomas A. Edison. I precedenti del cinema erano anche bene collaudati per quel che riguarda le tecniche mimetiche. Esso si era sviluppato dal teatro e dalla fotografia, e certe tendenze del montaggio cinematografico trovarono il loro sviluppo oltre il naturalismo del teatro fotografato. Il cinema in più forniva un ampio modello per le pratiche artistiche che cercavano di operare nel nuovo mondo della tecnologia. Quando i principi del montaggio furono applicati all’interno del contesto del film sonoro a-sincronico, il suono – una volta che fu più non legato direttamente alle immagini visive, al dialogo, alla storia – fu capace di esistere in una relazione più complessa con esse. 15 Ecco in cosa consiste la frizione tra “suono organizzato” da una logica musicale e altri principi di organizzazione, come quella mimetica del cinema «Even this century’s most noted radical attacks upon music – conducted, as they were, under the sign of noise and sound – ultimately returned to music. [...] The main avant-garde strategy in music from Russolo through Cage quite evidently relied upon notions of noise and worldly sound as “extramusical”; what was outside musical materiality was then progressively brought back into the fold in order to rejuvenate musical practice»; ivi, p. 3. 14 «But for a sound to be “musicalized” in this strategy, it had to conform materially to ideas of sonicity, that is, ideas of a sound stripped of its associative attributes, a minimally coded sound existing in close proximity to “pure” perception and distant from the contaminating effect of the world»; ibid. 15 «Cinema, on the other hand, was more amenable and less defensive. Not only was film sound a phonographic form, but cinema and phonography shared parentage by Thomas A. Edison. The precedents of cinema were also well rehearsed in mimetic techniques. It had grown from theater and photography, and certain trends of cinematic montage went one better by developing beyond the naturalism of “photographed theater”. Cinema also provided an ample model for artistic practices that sought to work within the new world of technology. When the principle of montage were applied within the context of asynchronous sound film, sound – once it was no longer tied directly to visual images, speech, and story – was able to exist in a more complex relationship with them», KAHN 1999, p. 11. 13 54 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta narrativo. Naturalmente siamo nell’ambito di una generalizzazione – alle cui estreme polarità potremmo esemplificativamente porre l’esperienza elettronica post-darsmtadtiana e il mainstream hollywoodiano dei coniugi Barron di Pianeta proibito, 16 nella consapevolezza della varietà di esperienze intermedie dai contorni più sfumati – che pur tuttavia illumina di luce nuova i numerosi atti di sfiducia e di incomprensione riservati al mondo cinematografico da parte dei compositori delle seconde avanguardie, immersi nel clima ideologico degli anni Sessanta, in alcuni casi protagonisti di atteggiamenti comprensibilmente dissociati (celebre l’immagine del Giano bifronte utilizzata da Miceli in relazione a Ennio Morricone). A ben vedere, la stessa distinzione tra musica applicata e musica pura invocata precedentemente, tornata così decisamente alla ribalta con il fiorire delle musiche elettroacustiche all’indomani del secondo conflitto mondiale, non è altro che una strategia esplicativa con cui i compositori impegnati sul fronte di una riflessione musicale “assoluta”, in dialogo sovente acceso con la tradizione, giustificano le contingenze delle sonorizzazioni radiofoniche o cinematografiche a loro richieste per motivi di committenza. È, per così dire, una reazione storicamente comprensibile a una frattura interna al proprio ruolo nella società, accentuatasi ancor di più nel momento in cui il mondo del cinema dispone degli stessi strumenti di elaborazione del suono propri delle avanguardie (è quanto si verifica in area romana, come ho sufficientemente illustrato nel CAPITOLO 1). La costernazione sempre più frequente con cui i compositori si dolgono del fatto che i mezzi tecnologici mettono a disposizione di figure non dotate di alcuna competenza musicale soluzioni di sempre più facile realizzazione, lo “spauracchio” dell’improvvisazione a effetto, ribadite con frequenza costante da pressoché ogni compositore impegnato nel dibattito cinematografico, rappresentano la lenta presa di coscienza di uno iato sempre più incolmabile tra la tradizione musicale occidentale e i “fatti del mondo” così come essi vengono affrontati da discipline in possesso di una maggiore capacità di diffusione nell’ambito del pubblico generalista, prime fra tutte la letteratura, il cinema e le musiche popular. Di fronte a questo iato, accanto a un atteggiamento di ascetico o polemico distacco, se 16 Forbidden Planet (r. Fred Wilcox, 1956) è una sorta di trasposizione/parodia fantascientifica della Tempesta shakesperiana, primo film hollywoodiano che presenta una colonna sonora interamente elettronica preparata da Louis e Bebe Barron, due compositori attivi nei primi anni Cinquanta in area newyorchese e trasferitisi a Hollywood in cerca di fortuna professionale. Il film è diventato l’emblema dell’utilizzo a fini commerciali delle acquisizioni dell’avanguardia musicale da parte dell’industria cinematografica, attirando verso di sé critiche spesso feroci da parte di musicologi e compositori. D’altra parte è diventato un cult movie per gli appassionati del genere e anche l’opera compositiva è stata in anni recenti fortemente rivalutata in ambito musicologico; tornerò ampiamente su questo film nel corso del CAPITOLO 3. 55 Maurizio Corbella ne riscontra uno più pragmatico che, seppure con un certo ritardo, porta i compositori italiani a confrontarsi spesso in maniera comprensibilmente conflittuale con il mondo del cinema, facendo proprio l’invito lungimirante di Roman Vlad: [...] a convincere i migliori compositori contemporanei a non disertare del tutto il campo del cinematografo dovrebbe essere più che lo stimolo materiale appunto la coscienza di poter contribuire a rialzare il livello di un genere di spettacolo come il film il quale, che lo si voglia o no, ha una parte tanto preminente nella vita moderna ed esercita un enorme influsso sul gusto delle grandi masse.17 Dal nostro punto di vista, analizzare il confronto tra mondo della produzione sonora e compositori provenienti dal campo della ricerca elettroacustica significa valutare in atto campi di forza facenti capo a progetti espressivi differenti, non sempre o non necessariamente in sintonia. Sia chiaro che dalla mia prospettiva la presenza di tali dinamiche non può che essere una ricchezza che, pur ponendo problemi esegetici di difficile risoluzione, restituisce il grande fascino di una stagione cinematografica inesauribile sotto il profilo delle soluzioni espressive. Il terreno di analisi su cui è possibile verificare tali questioni è costituito nel caso italiano da una varietà eterogenea di manifestazioni che, sebbene non eclatante a livello numerico, è abbastanza frequente e trasversale (investe cioè uno spettro di produzione che va dal film di cassetta al cinema d’avanguardia, attraverso il cinema d’autore e la televisione) da permetterci di individuare negli anni Sessanta una stagione di interesse del cinema nei confronti delle novità elettroacustiche della sperimentazione musicale romana: i due pionieri dell’elettronica a Roma, Gino Marinuzzi jr. e Paolo Ketoff, dedicano gran parte della loro esistenza professionale e creativa al cinema maturando l’invenzione del Fonosynth e del Synket, i due sintetizzatori intorno ai quali si articola buona parte delle ricerche elettroacustiche della capitale (cfr. CAPITOLO 1); Egisto Macchi, una delle presenze più significative e influenti della musica romana, è autore di colonne sonore di migliaia di cor- 17 Enfasi dell’autore. Prosegue Vlad: «Certo bisognerebbe che un musicista al quale viene commissionata la musica per un film fosse messo effettivamente in condizioni di poter lavorare seriamente, che non gli si chiedesse di sfornare la sua partitura in quattro e quattr’otto, costringendolo con ci a tirar via, che non gli si desse insomma l’impressione di considerar la musica come un riempitivo, come l’ultima ruota del carro, della quale intanto nessuno parlerà, perché a parte qualche rarissima eccezione, i critici cinematografici la passano sotto silenzio, togliendo con ci al compositore anche la possibilità di una soddisfazione momentanea, poiché un riconoscimento a lunga scadenza da escludersi in partenza, dato il brevissimo ciclo vitale del lavoro cinematografico al quale tale musica è legata»; VLAD 1953, p. 16. 56 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta tometraggi18 e decine di lungometraggi, avendo dedicato una lunga fase della sua carriera compositiva (1968-1980) esclusivamente alla musica per film e televisione, ed essendo responsabile tra l’altro di un ruolo decisivo nella nascita del documentario etnografico italiano attraverso la sua intensa collaborazione con i registi Luigi Di Gianni, Cecilia Mangini e Michele Gandin; Ennio Morricone, il più celebrato compositore di musica per film italiano, stabilisce con il medesimo clima d’avanguardia un rapporto articolato e complesso, le cui ricadute in entrambi i campi sono state a lungo discusse.19 Se poi si scende sotto il livello delle evidenze per scavare un po’ più a fondo nelle collaborazioni tra registi cinematografici e protagonisti della neoavanguardia romana, il numero di casi aumenta, concretizzandosi in alcuni episodi estremamente interessanti: Michelangelo Antonioni ricorre per due volte (tre, se si include l’incipit della Notte con musiche elettroniche di Giorgio Gaslini) a collaborazioni con musicisti coinvolti in sperimentazioni elettroacustiche – Vittorio Gelmetti per Il deserto rosso e MEV per Zabriskie Point; l’utilizzo di musica ed effetti elettroacustici da parte di Federico Fellini nella parabola che va dalla Dolce vita a Satyricon è fondamentale per delineare i contorni della drammaturgia del suono messa in atto dal regista nel corso degli anni Sessanta; il sodalizio tra Elio Petri e Morricone trova una via musicalmente sperimentale in Un tranquillo posto di campagna, in cui viene coinvolto il GINC, che conta peraltro un’altra collaborazione cinematografica di minor conto; Marco Ferreri, nel Seme dell’uomo, attinge direttamente a una composizione di Richard Teitelbaum (MEV) che può essere considerata emblematica del clima di fermento culturale del Sessantotto; una delle più importanti esperienze dell’avanguardia cinematografica italiana, quella di Romano Scavolini, si muove in direzione di un linguaggio audiovisivo integrato, privo di gerarchie tra suono e immagine, avvalendosi delle collaborazioni di Vittorio Gelmetti (A mosca cieca) ed Egisto Macchi (La prova generale). Nel cinema italiano del periodo in esame, così come in quello internazionale, è possibile affrontare la questione del suono elettroacustico da due diverse angolazioni: la prima considera la parabola di utilizzo dei due sintetizzatori romani, il Fonosynth e il Synket, come risorsa sonora che i compositori per film accolgono progressivamente nelle loro partiture; la seconda punta a rintracciare, nell’ambito dell’utilizzo di materiale elettronico e di A testimonianza di come il campo di ricerca in questo senso sia quasi vergine dal punto di vista della ricerca, sta il fatto che Daniela Tortora segnala circa 1500 cortometraggi (cfr. TORTORA 1996), mentre la biografia di Macchi reperibile sul sito di Nuova Consonanza parla di più di 3000 (<http://www.nuovaconsonanza.it/storia_pages/soci_fond/macchi_e.html>, consultato Luglio 2009). 19 Cfr. MICELI 1994, in particolare pp. 173-194, 307-348. 18 57 Maurizio Corbella pratiche di manipolazione elettroacustica del suono, dinamiche di rottura o rinnovamento della struttura produttiva del suono cinematografico, mediante la messa in discussione della tradizionale partizione (drammaturgica e procedurale) in dialoghi, musica e rumori. Tale doppia angolazione corrisponde alla struttura secondo la quale è impostata la parte restante di questo capitolo. Nei prossimi due paragrafi mi dedicherò a illustrare come i due sintetizzatori romani si inseriscono gradualmente nella prassi compositiva cinematografica fino a diventare con il Synket una vera e propria estensione dell’orchestra che aprirà la strada all’uso del Moog negli anni Settanta, ripercorrendo in particolare i poco noti passaggi cinematografici della carriera compositiva di Gino Marinuzzi jr. La parte finale del capitolo cercherà invece di inquadrare le principali problematiche che le risorse elettroacustiche pongono sotto il profilo organizzativo delle fasi di creazione del suono per una pellicola, rilevando le ricadute di tipo estetico-drammaturgico. Verranno quindi ricapitolati i tratti fondamentali della interessante, anche se in un certo senso isolata, posizione rappresentata da Vittorio Gelmetti proprio nell’ambito delle riflessioni sul cambiamento del ruolo del compositore nella dinamica cinematografica, sulla base delle acquisizioni elettroacustiche. Sia che si tratti di simulare comportamenti sonori ambientali I. Fonosynth e Synket come (naturali o urbani) sia che si tratti, simbolicamente, di rappre- estensioni dell’orchestra sentare condizioni psicofisiche, Fonosynth e Synket sembrano assolvere i propri compiti almeno finché non vengono soppiantati da sintetizzatori di più recente generazione, quali il Moog o l’Arp 2600. Il principale limite di questi «geniali strumenti antidiluviani», 20 come li definisce Egisto Macchi, è così riassunto dal compositore grossetano: «avevano una grande difficoltà d’uso e alcuni limiti: se chiedevi una frequenza precisa non te la sapevano dare (il più o meno è grave in elettronica)».21 La stessa difficoltà mi è stata ribadita in un recente colloquio da Walter Branchi,22 ai tempi il più esperto interprete italiano di Synket, anche se tale informazione sarebbe da completare aggiungendo che il Synket, perlomeno nel modello personalizzato di John Eaton, permetteva di eseguire scale microtonali e dunque di ottenere con una certa accuratezza le frequenze, a prezzo naturalmente di un notevole lavoro di preparazione preliminare: le numerose composizioni di John Eaton per il sintetizzatore sono lì a 20 MACCHI in GADDI 1993, p. 153. 21 Ibid. 22 Com. 58 pers. cit. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta dimostrarlo.23 Ciò detto, l’utilizzo di tali strumenti a fini cinematografici verrà raramente indirizzato verso soluzioni “melodiche”, bensì a ricoprire ruoli di bordone, ostinati ritmici o atmosfere ed episodi bruitistici, in sintonia dunque con una funzione genericamente “d’atmosfera”. Dalla vasta gamma di funzioni musicali e sonore che i due sintetizzatori romani possono ricoprire discende la difficoltà di quantificare la loro presenza nel cinema di quel periodo. L’estrema verosimiglianza con cui il Synket è infatti in grado di riprodurre suoni naturalistici ed effetti bruitistici, lo rende facilmente mimetizzabile all’interno delle colonne sonore, legittimando il sospetto che esso sia più diffuso di quanto le testimonianze non confermino. L’unico esemplare di Fonosynth, di proprietà di Gino Marinuzzi jr., è nella prima parte degli anni Sessanta legato quasi esclusivamente all’attività cinematografica di quest’ultimo, anche se proprio tale attività sembra “sconfinare”, come mostrerò fra un attimo, in territori nei quali il compositore di nascita newyorchese non è accreditato; quando entra finalmente a far parte dell’equipaggiamento dello Studio R7 (1968) il Fonosynth è uno strumento già datato. Prima di ciò, come sappiamo, il Fonosynth è a lungo ubicato alla Fonolux e non c’è ragione di dubitare che Paolo Ketoff vi facesse ricorso in alcune delle sue sonorizzazioni. L’indagine sui sintetizzatori romani apre sorprendentemente uno spiraglio su un aspetto oscuro e in larga parte insondabile della post-produzione italiana, vale a dire la presenza di figure non accreditate che mettono le loro competenze riguardo a strumenti o risorse sonore inusuali al servizio della lavorazione di film in cui non sono coinvolti come compositori. Riallacciandoci a quanto scritto nel CAPITOLO 1 riguardo all’importanza dei luoghi per la musica elettronica, dobbiamo in via preliminare ipotizzare che coloro che possiedono la padronanza dei mezzi elettronici divengano punti di riferimento per l’intero ambiente cinematografico degli anni Sessanta. D’altronde, che tale ambiente celi una grande circolazione di personalità “invisibili” da un film all’altro è un fatto che non stupisce più di tanto: in un contesto sottoposto a forti pressioni commerciali, in cui il tempo concesso alla post-produzione è spesso limitato, e ancor di più lo sono i budget per la parte sonora,24 è più che verosimile che l’utilizzo di alcune soluzioni sonore o di strumenti musicali poco diffusi sia appannaggio delle poche figure in È stata recentemente pubblicata una raccolta di incisioni degli anni Sessanta di musiche di John Eaton per Synket e Moog: John EATON, First Performances. The Syn-Ket and the Moog Synthesizer in the 1960, cd, 056, EMF, 2007. 24 Ricorda Federico Savina come non fosse infrequente che i compositori non venissero pagati direttamente dalle produzioni, ma dagli editori musicali alle quali le produzioni si rivolgevano; com. pers. cit. 23 59 Maurizio Corbella grado di garantire realizzazioni di efficacia immediata; 25 un confronto con la situazione hollywoodiana coeva può aiutarci a chiarire quanto le nuove risorse tecnologiche impongano comportamenti analoghi anche altrove: la terza generazione di compositori hollywoodiani (comprendente Jerry Goldsmith, Lalo Schifrin, Johnny Mandel, Maurice Jarre, ecc.) fa affidamento per più di un decennio sullo studio E=Mcs (acronimo di Elektron=Muzics) diretto da Paul Beaver, il quale si dota di una serie di strumenti elettronici e proto-elettronici di cui è virtuoso interprete (tra cui gli Hammond Novachord e Solovox, gli storici Thomas Organ, Mellotron, Theremin, Ondes Martenot con varie modifiche e personalizzazioni, prima di acquisire sul finire degli anni Sessanta il Moog). 26 Così come Jerry Goldsmith in alcuni autografi indica esplicitamente il nome di Beaver a fianco al rigo del sintetizzatore, John Eaton viene chiamato in qualche occasione a improvvisare in pellicole musicate da Roman Vlad;27 allo stesso modo Ennio Morricone ed Egisto Macchi tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta utilizzeranno in orchestra il medesimo sintetizzatore suonato da Walter Branchi.28 Le testimonianze da me raccolte concordano nell’affermare che Marinuzzi e Ketoff fossero per il mondo cinematografico romano sinonimi di elettronica così come lo Studio di Fonologia lo era per quello milanese radiofonico e televisivo;29 ciò non è documentabile se non a livello aneddotico, ma avvalorato da più di una testimonianza: Roman Vlad conferma che Ketoff e Marinuzzi fossero interpellati ogni qualvolta a Roma ci fosse bisogno di soluzioni sonore “insolite”; Savina trova più che plausibile che Marinuzzi fosse raggiunto telefonicamente dal caro amico Nino Rota quando c’era bisogno di interventi elettronici: Credo che Rota abbia chiamato Marinuzzi in molte occasioni. Non saprei dire le circostanze specifiche. Queste necessità nascevano in maniera estemporanea. Io lavoravo in studio quindi ricordo se certe esigenze si manifestavano durante la registrazione o il mixaggio della musica, mentre se capitavano in altri momenti si andavano a realizzare da qualche parte. A poco a poco nacquero i primi piccoli studi, Marinuzzi da un certo momento in avanti ebbe il Synket, poi arrivò il Moog, inoltre c’erano anche altri compositori come Il discorso non vale soltanto per la musica elettronica, pensiamo alla frequenza con cui si ritrova nelle musiche per film di quel decennio la voce di Edda Dell’Orso, il coro dei Cantori Moderni di Alessandroni, quest’ultimo divenuto celebre anche per il distintivo timbro del fischio, vero e proprio emblema sonoro dello spaghetti-western. 26 Cfr. SHERK 2004. 27 VLAD, comunicazione personale, 2 aprile 2009; EATON, com. pers. cit. 28 BRANCHI, MORRICONE, comm. perss. citt.; cfr. MICELI 1994, pp. 160 e 249. 29 VLAD, SAVINA, comm. perss. citt. 25 60 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta [Marcello] Giombini, che nei suoi film ha sempre usato risorse elettroniche, o [Bruno] Nicolai, che era esperto di organo Hammond, sapeva sfruttare i suoni vibrati e la sua riverberazione interna: se tutto va bene molti effetti dei film di Fellini sono fatti con l’Hammond. Molti erano diventati trucchetti che si usavano per i sogni, tipo suoni al rovescio, effetti d’eco ecc. All’inizio erano tutti esperimenti, ti telefonava Marinuzzi e ti diceva: «ho bisogno di un suono che faccia così...», poi sono arrivati i pulsanti che facevano le stesse cose, allora il fascino si è un po’ polverizzato.30 Alla luce di tali considerazioni acquista un certo fascino l’ipotesi, pur priva di conferme documentarie, che dietro gli inserti elettronici di 8 ½ e Giulietta degli spiriti di Federico Fellini vi sia la mano di Gino Marinuzzi jr.:31 dopo un attento ascolto comparato, infatti, pare di riscontrare la “pasta sonora” distintiva del Fonosynth – ma su questo argomento non ci sono al momento elementi probanti, nonostante sia emerso nelle mie ricerche un clima di stretta frequentazione tra Rota e Marinuzzi.32 Per il momento ho comunque rilevato un dato significativo e finora inedito che, seppure non ci dice nulla sulla presenza marinuzziana nei corridoi delle produzioni felliniane, ci rivela invece il suo contributo al Giudizio universale di Vittorio De Sica (1961), con musiche di Alessandro Cicognini, come compositore delle sonorità elettroniche che accompagnano il giudizio di Dio prima che sfoci nella Ninna nanna per un negretto di Cicognini: i nastri, depositati in SIAE con il titolo Elettronica Giudizio ABCDE (dove le lettere indicano i cinque momenti narrativi in cui si divide il “processo” divino), sono attribuiti a entrambi i compositori. 33 Il timbro e le opzioni articolatorie del Fonosynth sono facilmente riconoscibili e denunciano chiaramente la parentela con altri utilizzi nelle pellicole marinuzziane, come il coevo Ercole alla conquista di Atlantide (1961) o Terrore nello spazio e La mandragola (entrambi del 1965). A questa prima fase, in cui i sintetizzatori sono utilizzati come attrezzature da studio, assolvendo funzioni di sonorizzazione distinte dall’incisione 30 SAVINA, com. pers. cit. In particolare mi riferisco a quelli da me categorizzati con le lettere f, g, j, l nella tavola sinottica dedicata al repertorio felliniano, cfr. CAPITOLO 4.VI. 32 Come risulta da alcuni contratti rinvenuti nell’abitazione di Marinuzzi, i due compositori sono cofirmatari di due film degli anni Settanta: Sunset, Sunrise (Hi wa shizumi, hi wa noboru, r. Koreyoshi Kurahara, 1973) e della miniserie televisiva Alle origini della mafia (r. Enzo Muzii, 1976); cfr. MARINUZZI–ROTA [ante-1973], 1975. 33 Archivio Opere Musicali della Siae, <http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali>, consultato settembre 2009. Tra Marinuzzi e Cicognini vi era un’intensa amicizia (anche professionale, sancita dalla doppia firma sulle musiche del film Il maestro di Don Giovanni, r. Milton Krims – Vittorio Vassarotti, 1954), rinforzata dal fatto che in una fase degli anni Cinquanta il primo operava in un piccolo studio in via Margutta vicino all’abitazione del secondo; A. M. MARINUZZI, com. pers. cit. 31 61 Maurizio Corbella musicale, segue una seconda che inizia sul finire degli anni Sessanta, in cui il Synket, per via delle sue dimensioni portatili che rivoluzionano l’approccio all’elettronica cinematografica, viene inserito nell’organico orchestrale. L’antecedente diretto è rappresentato dal Concert Piece for Syn-Ket and Symphony Orchestra di John Eaton (1966), in cui il sintetizzatore assurge a livello di strumento solista. Non altrettanto in evidenza esso sarà nella ventina di partiture cinematografiche di Ennio Morricone, tra i quali vanno annoverati la prima “trilogia” di Dario Argento 34 e quello che forse rimane l’esempio più significativo di questa seconda fase di utilizzo del Synket, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971):35 La caratteristica più evidente de La classe operaia è una sorta di bruitismo che si organizza gradatamente in forma musicale, coesistendo, nello svolgersi del pezzo, con gli altri strumenti dell’orchestra [...]. Morricone interpreta un rapporto uomo/macchina a cui contribuisce il Sinket [sic] di Paolo Ketoff [...] che dall’esordio del pezzo si incarica di dar voce alla Fresa e alla Pressa (così definite in partitura). La meccanicità [...] pare filtrata attraverso l’esperienza globale della condizione operaia, producendo una musica greve e violenta, rozza e caparbia, che riecheggia in modo straordinario non solo i rumori della fabbrica ma l’insieme dei suoni/rumori prodotti da quel modello di società, un modello a cui la fabbrica stessa, in un circolo vizioso, contribuisce: le moine del jingle televisivo accanto all’aggressività dello slogan politico; l’urlo disarticolato – orgasmico o di scherno: l’identificazione mi pare legittima – accanto ai rumori fisiologici.36 Il Synket viene suonato in orchestra da Walter Branchi, al quale Morricone spiega dettagliatamente gli effetti desiderati. Questa procedura si ripete per tutte le incisioni morriconiane che includono quel sintetizzatore37 e parimenti si riscontra nei film di Egisto Macchi. Con l’inserimento in orchestra L’uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971), 4 mosche di velluto grigio (1971). 35 È al momento impossibile e forse non del tutto significativo ricostruire per intero l’elenco dei film morriconiani in cui compare il Synket. Mi limito tuttavia a segnalare una discrepanza tra la testimonianza di Ennio Morricone rilasciatami e quanto riportato da Sergio Miceli (1994 e 2009b) riguardo alla presenza del Synket in due film rilevanti come Giù la testa e Sacco e Vanzetti, dal musicologo rintracciata sulle partiture autografe, mentre smentita dal compositore. A parte la possibilità di un comprensibilissimo errore di memoria, non è da escludere l’eventualità (suggeritami dallo stesso Miceli) che la registrazione finale non corrispondesse nell’organico a quanto prescritto in partitura; è infatti tutt’altro che infrequente che si opti all’ultimo minuto per soluzioni di scrittura o addirittura di timbro che si verificano essere più efficaci sul momento. 36 MICELI 1994, pp. 248-249. 37 BRANCHI, MORRICONE, comm. perss. citt. 34 62 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta del Synket si assiste a un procedimento di integrazione tra musica e rumore che è caratteristico non solo del modo di procedere morriconiano, ma di una tendenza che possiamo definire tipicamente italiana, che ha il suo antecedente principale in Mario Nascimbene,38 e che trova proprio all’inizio degli anni Settanta le cristallizzazioni più significative. La scrittura orchestrale che procede per strappi bruschi dotati sì di carattere percussivo, ma spesso connotati grazie alla presenza di elementi bruitistici (non necessariamente sintetici) da rimandi extra-musicali facilmente riconducibili alla tematica fondamentale del film, diventa cifra stilistica tesa a distillare in termini musicali la “scomodità” che caratterizza gli argomenti trattati dalle pellicole; non solo dunque le macchine industriali in La classe operaia, ma anche la mitragliatrice in Gott mit uns (m. Morricone, 1969) a evocare lo spettro della fucilazione dei due protagonisti disertori, o il rombo d’auto in Il delitto Matteotti (m. Macchi, 1972) con il suo rimando all’omicidio del politico socialista avvenuto appunto in un’autovettura: tali interpolazioni nella scrittura orchestrale di un paesaggio sonoro reso allegorico dal pensiero compositivo concorrono a una resa insieme enfatica e al contempo stilizzata della realtà contemporanea. Con l’ingresso del Synket in orchestra il sintetizzatore diventa a tutti gli effetti uno strumento musicale, e la maggiore maneggevolezza e diffusione di macchine come il Moog – all’indomani dell’esperienza allo SR7/R10, Ennio Morricone, Egisto Macchi e Bruno Nicolai fonderanno nei primi anni Settanta, insieme con Fiorenzo Carpi, lo studio M4 che annovera la macchina americana nel suo equipaggiamento 39 – si concreta in una grande diffusione di musiche per film che sfruttano le nuove gamme timbriche (si veda per esempio l’opera dei Goblin o di Marcello Giombini), ma che, allo stesso tempo, neutralizza le potenzialità che l’elettronica aveva rivestito in quanto ridefinizione del suono cinematografico. Del resto è lo stesso Ennio Morricone ad avermi precisato che in nessun caso egli ha inteso le risorse del Synket in qualità di elemento di contatto con le altre fasi della post-produzione sonora, bensì esclusivamente come estensione delle risorse compositive. È un punto di vista molto distante da quanti, come per esempio Vittorio Gelmetti, hanno teorizzato invece l’assunzione da parte del compositore di tutte le responsabilità sonore del progetto filmico. Ricordiamo tra i tanti esempi le quattro macchine da scrivere in Roma ore 11 (1951), le frustate in Barabba (1961), il ronzio della macchina da presa nella sequenza finale del Processo di Verona (1963), o l’“apoteosi” bruitistica di Un milione di anni fa (1966); cfr. NASCIMBENE 2002, p. 63 e segg. 39 BRANCHI, com. pers. cit.; Daniela Tortora sottolinea come in realtà lo studio non fu mai avviato in quella forma; 1996, pp. 202-203. 38 63 Maurizio Corbella Prima però di occuparmi del punto di vista rappreII. Tra rigore e gioco. Gino Marinuzzi jr. sentato da Vittorio Gelmetti e da quanti (compositocompositore per il cinema e la televisione ri, cineasti, video-artisti) intuiscono nelle risorse elettroacustiche un potenziale sovvertimento dell’ordine e del trattamento delle componenti sonore nel contesto audiovisivo, vorrei soffermarmi sulla figura che più di tutte a mio modo di vedere rappresenta lo spirito con cui l’elettronica si radica nel cinema italiano tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, non foss’altro perché ne è uno dei principali artefici e conoscitori: Gino Marinuzzi jr. Di lui molto si è già detto nelle pagine precedenti, ma è giunto il momento di provare a fornire un inquadramento di una personalità per molti versi difficile da descrivere, a causa della sua scelta di recitare un ruolo appartato, lontano dalle luci della ribalta, fossero quelle dell’avanguardia o della fama cinematografica: frutto sicuramente di un temperamento schivo, simile a quello dell’amico Ketoff, ma anche di un contegno che lo fa optare per una carriera produttiva di qualità, seppur lontana da una notorietà che avrebbe potuto anche materializzarsi in maniera eclatante se solo egli avesse risposto alle “sirene” hollywoodiane che suonarono almeno una volta alla sua porta, per invito dell’amico Jerry Goldsmith che negli anni Sessanta raggiungeva la celebrità internazionale: Un ricordo particolarmente vivido ho delle visite del suo carissimo amico californiano Jerry Goldsmith, anche lui famoso compositore di musiche per film, e la sua simpaticissima moglie. Si erano conosciuti a Roma, in occasione di qualche registrazione e, accomunati dall’interesse per la musica elettronica, avevano simpatizzato immediatamente pur nell’impossibilità di “parlarsi”. Mio padre non sapeva una parola d’inglese, né tanto meno loro di italiano. Tuttavia, un po’ a gesti, un po’ con l’uso del dizionarietto tascabile, un po’ grazie alla musica e un po’ grazie all’arte culinaria di mia madre, riuscivano a comunicare benissimo, tra grandi risate, tanto che le loro visite, quando venivano in Italia, erano per noi tutti una festa e un gran divertimento. Ci fu un momento in cui sembrò che Goldsmith avesse convinto mio padre a trasferirsi in California, dove, sosteneva, il suo talento si sarebbe affermato garantendogli una luminosa e proficua carriera. Tutti ci stavamo preparando all’evento. Io, che avevo appena finito la prima liceo ero già sul piede di guerra per frequentare due anni in uno e prendere la maturità prima di partire, ma poi la cosa rientrò. Tra i due rimase sempre una grande amicizia e stima. 40 40 A. 64 M. MARINUZZI 2009. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Nelle note di copertina della recente edizione discografica delle musiche di Terrore nello spazio, Claudio Fuiano segnala una diretta filiazione tra Alien di Ridley Scott (m. J. Goldsmith, 1979) e il cult-movie di Mario Bava (m. G. Marinuzzi jr., 1965), la cui evidenza risulterebbe nella ricostruzione Figura 4.1-2: Confronto tra i fotogrammi tratti da Terrore nello spazio (⇑) e Alien (⇒) raffiguranti il momento in cui viene scoperto uno scheletro alieno nel relitto dell’astronave. “millimetrica” dello scheletro alieno che si incontra nei relitti delle astronavi in entrambi i film;41 per quanto qualche incertezza sussista ponendo a confronto i fotogrammi tratti dalle due pellicole (FIGURA 4), le due partiture invece conservano perlomeno a livello epidermico molte familiarità, a questo punto confortate dal rapporto di amicizia tra i due compositori. Il luogo oscuro (non solo in riferimento al genere) rappresentato da Terrore nello spazio, film realizzato con un budget irrisorio, girato interamente in un teatro di posa, reso efficace solo grazie alla genialità fotografica ed effettistica di un regista allora ai margini della cinematografia italiana come Mario Bava e destinato a diventare oggetto di culto per una generazione di cineasti americani,42 potrebbe costituire il punto di partenza privilegiato per trattare la figura cinematografica di Gino Marinuzzi jr.: dopo tutto esso rappresenta al meglio la sintesi dei molteplici interessi del compositore, l’unione della sua 41 «The real experts know very well that the movie inspired Ridley Scott’s Alien (suffice it to think to the sequence of the spaceship wreck and the huge alien skeleton found inside which was reproduced step by step in the very expensive Fox blockbuster)»; FUIANO 2003. 42 A parte l’autoreferenzialità del genere fantascientifico, per il quale è sovente possibile tracciare una storia di modelli, epigoni e rifacimenti, noto quanto la cinematografia italiana degli anni Sessanta e Settanta, specialmente quella definita di “serie B”, costituisca una chiave di confronto per registi americani come Quentin Tarantino, che in più di un’occasione ha avuto parole particolari proprio per Mario Bava. 65 Maurizio Corbella anima di sperimentatore elettronico con la vena più autenticamente sinfonica insieme all’interesse per il jazz; inoltre il film incarna l’esempio forse più vivido della collaborazione di Marinuzzi con Paolo Ketoff; in Terrore nello spazio il primo cura le musiche mentre il secondo gli effetti sonori, e il lavoro di sonorizzazione appare organicamente intrecciato tanto da risultare difficilmente districabile. Marinuzzi costruisce una partitura sincretica, in cui una sezione ritmica da big band jazzistica costituita da due batterie, contrabbasso pizzicato, pianoforte e organo elettrico si incontra con un organico di archi, vibrafono, xilofono, timpani, arpa, tromboni e legni, dando vita a un impasto sonoro in grado di miscelarsi con i bordoni elettronici realizzati tramite il sintetizzatore di sua ideazione: il Fonosynth. La dominante drammaturgica a forte matrice ansiogena è così realizzata sfruttando a fondo alcune convenzioni del genere: la ripetitività ossessiva e perturbante affidata ai moduli elettronici montati a loop,43 alle figure oscillanti di flauti e viole, ai cluster tenuti dell’organo (FIGURA 5); i crescendo caratterizzati da “impennate” ritmiche affidate alla batteria, ai timpani, al basso, allo xilofono, agli ottoni e a progressioni ascendenti degli archi; due cellule tematiche che compaiono a intermittenza ai legni (t1, FIGURA 6.1-2) e agli ottoni (t2, FI- La conformazione a loop degli inserti elettronici è ben evidente nelle tracce Main Titles, The Living Dead, Evil Spirits tratte dalla colonna sonora citata. La componente elettronica del film è depositata presso la Siae con la dicitura Elettronica dal film Terrore; <http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali>, cosultato ottobre 2009. 43 66 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta GURA 7.1-2) senza tuttavia assumere ruoli guida. Figura 5: Prime battute del brano N. 3 di Terrore nello spazio (MARINUZZI [1965c], nella pubblicazione discografica corrisponde al brano intitolato Ship Landed on Planet Aura); si noti la ripetizione delle figure del flauto e delle viole che danno vita a un pedale ossessivo caratteristico in più punti del film. Piccolo apparato: B1 e B2 stanno per “batteria 1 e 2”; P.M., sul rigo della batteria 1 sta per “piatto medio”. 67 Maurizio Corbella Figura 6.1-2: t1, affidato il più delle volte al flauto, come in quest’occasione (N. 5, batt. 712, MARINUZZI [1965c], corrispondente al brano intitolato A Very Strange Planet della pubblicazione discografica). Figura 7.1-2: t2, affidato ai tromboni raddoppiato all’ottava (N. 7, batt. 8-13, MARINUZZI [1965c], corrispondente al brano Dead Crewman Found della pubblicazione discografica). Il film, povero come abbiamo detto di risorse economiche, basa gran parte della sua efficacia drammatica sul tessuto sonoro, completato dall’abile sonorizzazione di Ketoff, che dà alle apparecchiature tecnologiche una fisionomia in bilico tra un immaginario “hi-tech” e il kitsch. L’impressione che se ne ricava è che Marinuzzi ami le pellicole in cui gli viene concessa una certa libertà di azione, specialmente di integrare la scrittura tradizionale con mezzi più inusuali. L’unica vera costante della produzione filmica dell’autore di nascita newyorchese consiste forse nel riuscire a sposare il rigore stilistico con un vero e proprio gusto del gioco quando si tratta di “infrangere” la consuetudine: troviamo così un ingente uso della composizione elettronica, e allo stesso tempo di opzioni musicali che prendono spunto dalla tradizione musicale pre-classica, dai rifacimenti di frottole rinascimentali o di arie settecentesche (come accade rispettivamente nel coro di bambini e nel duetto interpretato da Paolo Ferrari e Sandra Milo in Le voci bianche), ai canti da locanda in stile Orff (prima sequenza della Mandragola), o addirittura spingendosi in scherzose commistioni di generi lontanissimi come il rock ’n roll e la canzone rinascimentale (si veda, per esempio, Bastiano Shake nel finale di Le piacevoli notti).44 D’altronde, se la produzione cine-televisiva è la più rilevante numericamente nel computo del suo catalogo, alla quale va aggiunta l’ampia mole di sigle per cinegiornali realizzata facendo ampio uso delle facilitazioni elet- 44 Per le edizioni discografiche dei film con musiche di Marinuzzi, si faccia riferimento all’APPENDICE III. 68 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta troniche,45 è pur vero che si fatica a vedere in Marinuzzi uno “specialista” dello schermo – troppo basso il numero delle sue partecipazioni cinematografiche per affiancarlo a contemporanei prolifici come Nascimbene, Trovaioli o Morricone – anche se è altrettanto azzardato inserirlo nella cerchia dei compositori d’avanguardia che trovano nel cinema anzitutto un mero motivo di sussistenza. Direi piuttosto che Marinuzzi appartiene a quel filone precipuamente italiano di compositori a tutto tondo che, senza preclusioni di sorta verso il genere cinematografico, trovano in esso un motivo di divertissement “serio”, ponendolo in continuità con la tradizione della musica di scena: uno dei più significativi interpreti è fuor di dubbio Roman Vlad, attento fautore di un impegno della tradizione compositiva nell’ambito cinematografico: la condizione del musicista dispost[o] a comporre per il cinema [...] come quella di un artigiano, che mette a disposizione del regista la sua abilità, la sua sapienza tecnica, la sua fantasia, se non sempre il suo gusto, e che, come afferma giustamente Roger Dèsomière, può dire di avere assolto il suo compito in maniera ideale, se gli riesce di scrivere una musica analoga a quella che il regista avrebbe composta se fosse stato anche musicista.46 Il senso del gioco, del mettere alla prova le proprie capacità artigianali in un campo privo di una tradizione consolidata, emerge nell’unico scritto di argomento cinematografico finora rintracciato nella già parca produzione letteraria del compositore, in cui un Marinuzzi neanche trentenne che non ha ancora esordito nel lungometraggio (il primo, 1860 – I mille di Garibaldi di Alessandro Blasetti, è del 1951),47 intravede le possibilità di sperimentazione di nuovi mezzi tecnici implicate nella composizione di musica per film: La scoperta della colonna sonora si può considerare certamente una della più importanti innovazioni che si siano verificate nella storia del cinema. Le possibilità espressive si estendono all’infinito, qualunque effetto diviene possibile; nasce così una nuova tecnica: la composizione di musica cinematografica; si instaura il regno del “sincrono”, tiranno sovrano dei compositori, direttori d’orchestra e montatori e delizia della maggior parte dei produttori e registi […]. Oggi, è vero, esiste una tecnica cine musicale abbastanza determinata […]. Purtroppo, però, bisogna constatare che ad un grande progresso di naMICHELANGELO CUNSOLO, titolare della Sermi Film Edizioni, comunicazione personale, 28 settembre 2009. 46 VLAD 1953, p. 15. 47 In realtà si tratta di una riedizione con musiche nuove di 1860 di Blasetti, film realizzato nella prima versione nel 1934. 45 69 Maurizio Corbella tura tecnica non ha fatto riscontro una eguale evoluzione sul piano artistico della musica cinematografica. 48 A distanza di diciotto anni, quello stesso spirito di intraprendenza si ritrova nelle parole di Marinuzzi in un campo apparentemente lontanissimo come quello della sperimentazione elettronica ma che, come abbiamo già visto, per il compositore condivide le stesse radici genetiche (CAPITOLO 1). Il modo in cui il compositore interloquisce con il più giovane Domenico Guaccero che giustamente lo considera il padre dell’elettronica romana, lascia trasparire la concezione del sapere musicale come un patrimonio tecnico-artigianale, paragonabile al lavoro di bottega per le arti figurative: Prima di tutto devo precisare che io non sono un tecnico perché a questo punto i veri tecnici potrebbero risentirsi di un’affermazione di questo genere; io sono un appassionato di queste cose, diciamo che l’elettronica è stata per me, inizialmente almeno, piuttosto un hobby, che altro? Naturalmente, sai come succede, che quando tu di certi problemi incominci ad appassionartene veramente a fondo, [...] specialmente in tanti anni, qualcosa finisci per imparare e siccome io ho voluto sempre vedere le cose da vicino, guardarle nel cuore, a un certo punto ho pensato che la cosa migliore era pigliare un saldatore, bruciare un po’ di valvole, un po’ di transistors, scottarsi le dita, pigliare qualche scossa e cercare di vedere come funzionavano questi circuiti e perché funzionavano in questa maniera.49 Come ho già ampiamente dimostrato, la sperimentazione marinuzziana nasce innanzitutto nel cinema e per il cinema, in sintonia con quanto sostiene Luigi Pestalozza in un articolo rinvenuto nell’abitazione del compositore: Le prime attrezzature, minime, le abbiamo conosciute in questo dopoguerra nella casa di Gino Marinuzzi jr. che se ne serviva per le sue colonne sonore. Intanto ricercava, ci scopriva un mondo, una ricerca. Naturalmente la musica elettronica non nasceva nel suo studio, ma quanto all’Italia, forse sì, forse è nata proprio in casa di Gino Marinuzzi jr. Ricordo come spiegava che il cinema lo aveva spinto a quel mezzo sconosciuto, a diventare il ricercatore. A spingerlo, invece, era stata la musica da film la sua forma in sviluppo o lo sviluppo di una forma musicale a contatto con tecnologie diverse da quelle tradizionali della musica. 50 48 MARINUZZI 1949, pp. 35-39. in MUSICA EX MACHINA-II 1967. 50 PESTALOZZA s.d. 49 MARINUZZI 70 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Nella carriera cinematografica di Marinuzzi non si riscontrano veri e propri sodalizi con registi, a eccezione di quello con Guido Guerrasio che dà luogo a una cinquantina di documentari; nell’ambito del lungometraggio solo in un paio di occasioni il compositore reitera collaborazioni per due o più film con lo stesso cineasta: con Vittorio Cottafavi, cinque titoli tra cinema e televisione, e con Alberto Lattuada, due soli titoli.51 Marinuzzi si inserisce nel percorso creativo di Vittorio Cottafavi offrendo proprio attraverso l’elettronica una solida base di partenza per l’articolata riflessione del regista sulle implicazioni estetico-linguistiche del neonato medium televisivo.52 Bisogna considerare che l’impossibilità di post-sincronizzare l’audio almeno fino al 1961,53 l’uso obbligato della presa diretta II.1 Marinuzzi e Cottafavi (a differenza del cinema, che in Italia in quel periodo è in gran parte doppiato), configura lo spettacolo televisivo come forma a sé – una trasmissione in diretta che deve essere molto stimolante per un regista che ha avuto esperienze tanto nel cinema quanto nel teatro, ma che pone notevoli problemi e limiti alla presenza musicale. Non è infrequente trovare nelle prime riduzioni televisive l’assenza totale di musica o, quand’anche essa sia presente, del nome del compositore, trattandosi probabilmente di riadattamenti e orchestrazioni di musiche edite. Più in generale, la musica svolge il ruolo di cornice o di raccordo, presente sui titoli di testa e nei cambi di scena, senza tuttavia interferire con la presa diretta per ovvi problemi di sincrono. In tale contesto, la presenza di musica elettronica firmata da Marinuzzi nell’Antigone diretta da Cottafavi nel 195854 ha una valenza significativa. Non solo perché è probabilmente uno dei primi se non addirittura il primo programma televisivo italiano con musica elettronica, ma anche perché esso non si appoggia a convenzioni di genere fantascientifico (per quanto sia problematico parlare di convenzioni a questa altezza cronologica), ma anzi, se proprio bisogna rintracciare una filiazione, si pone in relazione diretta sia con l’utilizzo di sperimentazioni elettroniche nei radiodrammi prodotti presso lo SFdM (Ritratto di città, di Luciano Berio e Bruno Maderna, è del 1955), sia con il contemporaneo teatro di ricerca, nel quale le sperimentazioni elettroniche e concrete iniziano a trovare fertile applicazione proprio in quegli anni, per 51 APPENDICE III. Cottafavi è autore di una ampia riflessione teorica incentrata sulla televisione, che si svolge in prevalenza sulle pagine dei periodici cinematografici. Cfr. in tal senso APRÀ-BURSI 2007. 53 Cottafavi può contare su una post-sincronizzazione sonora artigianale solo a partire dalla Trincea (1961); cfr. GUARNIER 1980. Ringrazio di cuore Simone Starace per questa segnalazione. 54 Trasmessa il 5 dicembre. 52 71 Maurizio Corbella inaugurare una tradizione di “nuovo teatro” che, almeno in Italia, avrà nel decennio successivo una notevole fioritura (di un anno precedente all’Antigone è per esempio King Lear di Orson Welles, regia teatrale e non televisiva, che si avvale della presenza pervasiva di musica elettronica composta da Vladimir Ussachevsky e Otto Luening al Columbia-Princeton Electronic Music Center di New York). Sebbene la musica composta da Gino Marinuzzi jr. per questo lavoro televisivo sia del tutto differente da quella dei suoi colleghi oltreoceano, essa, pur svolgendo ruolo funzionale di cornice e cambio-scena, agisce in maniera non neutra sull’interpretazione del classico greco, in linea anzi con l’impostazione brechtiana di Cottafavi. Il binomio tra voce e musica elettronica, che si trova nella composizione “mista” per coro e timbri sintetici, mette in diretta connessione l’universo umano dei personaggi e quello trascendente del fato e degli dei, la cui ineluttabilità trova una corrispondenza nelle sonorità elettroniche utilizzate da Marinuzzi per l’orchestrazione. Vale la pena rilevare come la musica di scena contribuisca a collocare la vicenda della tragedia fuori dallo spazio e dal tempo, in accordo con quelli che sembrano essere gli intendimenti della lettura “epica” dello stesso Cottafavi, che stilizza gli elementi scenografici e cerca il più possibile di portare la recitazione degli attori sul piano di una «prosa quotidiana», in antitesi con il declamato classico (riuscendoci, per la verità, solo in parte):55 Nella scenografia non c’erano altro che elementi allusivi. Sono ossessionato dallo spogliare l’immagine, e la prima cosa che serve a spogliare l’immagine è la scenografia, la prima cosa evidente che circonda gli attori. Venne disegnata una doppia fila di colonne con due salite, alla maniera di due soppalchi, con l’agorà nel mezzo. La scalinata del tempio era perfettamente regolare, mentre quella del palazzo – che rappresenta il potere – era fatta di scalinate più strette che si incrociavano da sinistra e da destra, in quattro o cinque fila; ciò esprimeva il disordine del potere, la disuguaglianza del potere, le linee spezzate davano l’idea della contraddizione che si trova talvolta nel potere. Al di fuori di questa semplificazione degli elementi scenografici – due scalinate tanto diverse una dall’altra – il resto non era molto sperimentale, basato su Parere personale, la recitazione degli attori è il limite maggiore di questo lavoro, poiché sembra andare in una direzione del tutto diversa dall’impostazione registica. Si tratta con tutta probabilità di un retaggio della recitazione classica, alla quale non tutti gli interpreti sanno rinunciare, nonostante Cottafavi li spinga in tale direzione. Fa eccezione Enrico Maria Salerno, interprete dei due ruoli del messaggero e di Emone; l’attore collaborerà in varie altre occasioni con il regista. 55 72 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta una declamazione la più quotidiana possibile. La televisione non permetteva allora di contrariare troppo lo spettatore con cose che si giudicavano strane.56 La musica, pur nella sua presenza discreta, è sperimentale nei timbri ma non nel linguaggio. Questa è d’altra parte una delle caratteristiche che Marinuzzi svilupperà con più costanza nella sua carriera cinematografica. La collaborazione tra regista e compositore trova esiti elettroacustici anche in alcune scene di Ercole alla conquista di Atlantide. In questo film la presenza di musica elettronica è caratterizzata da una serie di elementi che Marinuzzi consoliderà successivamente nella Mandragola e in Terrore nello spazio: l’utilizzo di bordoni elettronici costituiti dal brulicare di elementi sintetici, al di sopra dei quali può o meno innestarsi la partitura orchestrale. Una caratteristica che noteremo ancora in esempi successivi è la coincidenza tra timbri elettronici ed effetti visivi, stante a evidenziare come vi sia il tentativo di ottenere un’unità audiovisiva il più possibilmente compatta sulla base degli artifici di manipolazione e filtraggio elettronico tanto del suono che dell’immagine.57 In Ercole vi è il ricorso al viraggio dell’immagine nella prima apparizione di suoni elettronici: un vero e proprio presagio che funge da detonatore nella quiete del film, da scintilla che mette in moto la narrazione. Il paesaggio si tinge letteralmente di rosso, quasi che il sole (inquadrato) sprigioni d’un tratto energie negative (il tema della radioattività è, come già detto, al centro della vicenda). La presenza acustica preponderante è quella del vento, al di sotto del quale si fa strada il tessuto grave elettronico. La 56 «En la escenografía no había más que elementos alusivos. Me obsesiona la desnudez de la imagen y la primera cosa que sirve para desnudar la imagen es la escenografía, la primera cosa evidente que circunda a los actores. Se diseñó una doble fila de columnas con dos subidas, a la manera de dos altillos, con el ágora en medio. La escalinata del templo era perfectamente regular, mientras que la del palacio – lo que representa el poder – estaba hecha de escalones más estrechos que se cruzan de izquierda a derecha, en cuatro o cinco filas; esto expresada el desorden del poder, la desigualdad del poder, las líneas quebradas daban idea de la contradicción que hay también en el poder. Fuera de esta simplificación de los elementos escenográficos – dos escalinatas tan distintas la una de la otra – , el resto no era muy experimental, se basaba en una declamación lo más cotidiana posible. La televisión no admitía entonces contrariar demasiado al espectador con cosas que se juzgaban extrañas»; COTTAFAVI in GUARNIER 1980. 57 Esiste una consolidata tradizione di cinematografia di ricerca, che si interroga sulle possibilità di co-determinazione tra immagine e suono/musica, e che negli anni ‘50, in particolare grazie al canadese Norman McLaren, ma anche all’italiano Cioni Carpi, sonda le possibilità creative del suono sintetico disegnato. Accanto a ciò, non va dimenticata la produzione di corto-metraggi sperimentali che nello stesso decennio vede confluire attività di compositori e cineasti d’avanguardia. Si pensi ad esempio alla copiosa produzione audiovisiva del Group de Recherche Musicale (che tra l’altro coinvolge lo sceneggiatore italiano Enrico Fulchignoni), o alla contemporanea attività sull’East Coast americana: la produzione audiovisiva del Columbia-Princeton Electronic Music Center, o l’opera di Shirley Clarke. Si sa di quanto McLaren fosse presente a Berio, Boulez e soprattutto Cage, ma più in generale si può ritenere Cottafavi ben aggiornato sul fronte di questa produzione d’avanguardia, seppure non sono a conoscenza di documenti che lo attestino. 73 Maurizio Corbella convivenza di un vento sintetico e di un bordone elettronico, elementi che agiscono tanto sul piano simbolico che narrativo, è del resto un procedimento che Marinuzzi utilizza praticamente in tutte le sue avventure elettroniche cinematografiche. Possiamo affermare che nella collaborazione tra Marinuzzi e Cottafavi siano racchiusi tutti i temi successivamente affrontati dal regista quando si avvarrà di contributi elettronici. Nelle fasi successive della sua produzione, infatti, la presenza di effetti visivi in corrispondenza di sonorità elettroniche si fa più puntuale, anche se paga pegno ai mezzi limitati della televisione, dando luogo a esiti che per lo spettatore odierno paiono talvolta più datati rispetto ad alcuni coevi esempi cinematografici. In Operazione Vega, trasmesso il 2 luglio 1962, si lavora ancora una volta sulla valenza simbolica e allusiva della scenografia: dall’astronave a parete unica di tavole plastiche nere, lucide, che si apriva poi in una immensa finestra sul pianeta Venere avvolto dall’allucinante turbine della sua atmosfera, al lungo tubo con dentro i cinque attori che recitavano mentre il tubo ruotava in qua e in l come sbattuto dal mare venusiano, le voci rimbombavano nel tubo accompagnate dal frastuono delle lamiere, e la purezza geometrica della forma tubolare deformava i già contorti significati delle false parole degli uomini.58 Proprio la scena del tubo, nella sua fattura artigianale, denuncia tutti i suoi limiti. Ma ciononostante, Operazione Vega è interessante per la ricerca di unità drammaturgica da parte del regista, unità che coinvolge a un tempo tutti gli elementi della rappresentazione: la scena, gli attori e il suono. Non a caso, Cottafavi cita questo lavoro come esempio di applicazione dell’estetica brechtiana alla TV, prendendo atto al contempo del tiepido consenso con cui esso era stato accolto dal pubblico. Riguardo alle caratteristiche sonore del telefilm, così si esprime: Non fu utilizzato commento musicale per non correre il rischio di introdurre un elemento di ordine sentimentale, ma solo effetti elettronici, con la stessa funzione dei rumori, e anche i titoli, che apparvero sovraimpressi sulla riproduzione della testa dell’uomo di Neanderthal, erano accompagnati da musica elettronica.59 58 COTTAFAVI 59 Ibid. 74 1964, p. 122. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Gli effetti elettronici, preparati presso lo SFdM, concorrono alla volontà di costruire uno «straniamento in funzione del mezzo televisivo».60 Poiché, sempre secondo l’autore, gli strumenti di comunicazione di massa sono i mezzi «ideali per realizzare un teatro epico»; in essi è la tecnica a svolgere il ruolo fondamentale di mediazione «quasi magica». Non si tratta di un recupero dell’aura in senso benjaminiano, bensì di un meccanismo di stupore fisiologico e prevedibile, dovuto alla novità tecnologica. Essa sta alla base dello straniamento;61 proprio per questo, e qui sta il ruolo didattico attribuito al nuovo medium, lo spettatore deve essere messo in grado di trasformarlo criticamente, per non esserne alienato. Un esempio di particolare interesse audiovisivo, nel computo della convergenza tra immagine e suono elettronico nella poetica di Cottafavi, è La Fantarca, non solo perché si tratta di teatro musicale in cui l’aspetto musicale è preponderante, e l’autorialità principale è da attribuire all’estro compositivo di Roman Vlad, ma anche perché mi sembra che in essa si possano condensare alcuni degli assunti del regista sulla natura del mezzo televisivo. L’opera, commissionata per il Premio Italia del 1966 (che poi non vinse), viene trasmessa solo il 1° giugno 1968. Dal punto di vista linguistico, essa fa uso di tutte le tecniche della musica contemporanea – dodecafonia, alea, musica concreta, musica elettronica – in un impianto parodistico di opera buffa. Il materiale elettronico per La Fantarca è preparato ancora una volta presso lo SFdM; la partitura contiene alcune indicazioni abbozzate per l’elettronica, da sviluppare successivamente in studio.62 L’incontro del compositore con Vittorio Cottafavi, e di entrambi con Giuseppe Berto, è dei più felici. Da questa coesione di intenti si riesce a ottenere, nella prima parte dell’opera, il notevole risultato per cui mezzi musicali e mezzi visivi si fondono perfettamente in un prodotto audiovisivo che non può che essere specificamente televisivo, in linea con quanto Cottafavi aveva auspicato nei suoi scritti teorici. Il «balletto meccanico», espressione utilizzata da Vlad nella presentazione televisiva dell’opera,63 chiaramente ammiccante al Ballet mécanique di Fernand Léger e George Antheil, che rappresenta la celebrazione del po60 Ibid. La novità concettuale della televisione è per Cottafavi innanzitutto l’ubiquità dell’apparecchio televisore, che trovandosi in ogni casa determina un meccanismo d’intimità con lo spettatore. Attraverso di esso si configura un tipo di rappresentazione totalmente diverso da quello cinematografico, basato non più sull’immersione in un contesto esteriore (il cinematografo), ma sull’immedesimazione umana tra spettatore e attore (non tra spettatore e personaggio). Da qui la possibilità e l’esigenza di un modo di procedere epico, in cui il personaggio va ricreato «come nuovo ad ogni ripresa di frattura»; ibid. 62 VLAD, com. pers. cit. 63 VLAD 1968. 61 75 Maurizio Corbella tere del blocco del Triangolo (ovvero il blocco occidentale in lotta con il blocco orientale rappresentato dal simbolo del Quadrato) è realizzato registicamente mediante una stilizzazione visiva, che dovrebbe simbolizzare «l’umanità ridotta alla sua ombra»; la tecnica di ripresa alterna sovrapposizioni negative e positive delle immagini dei danzatori, e divide lo schermo in più settori. Le silhouette che si muovono danno luogo a una sorta di animazione visiva, mentre il coro inneggia al Triangolo su una linea melodica costruita tramite variazioni dodecafoniche su Yankee Doodle e un vecchio inno russo. La vicenda della Fantarca è ambientata su una vecchia astronave a forma di caffettiera (quando si dice un “macinino”...) con la quale un gruppo di italiani meridionali vengono spediti su Saturno perché dissidenti al regime del Triangolo. È la trovata per inserire nel pour-pourri dell’opera, già “esposto” sul piano dell’attualità con la Guerra Fredda e la conquista dello spazio, anche l’italianissima e attualissima questione meridionale. In questa bizzarra arca di Noé trovano posto anche gli animali, poiché i meridionali sono quasi tutti allevatori o contadini, testimoni di un mondo tramontato. Vlad non indietreggia di fronte a nessuno di questi stimoli, inserendo melodie registrate sul campo nel sud Italia – viene addirittura inserita una canzone calabrese cantata dal celebre cantastorie Otello Profazio – e divertendosi a fare anche musica concreta, manipolando e “intonando” i versi degli animali registrati dal vivo e costruendo un vero e proprio coro di bestie. Il tutto, inserito in una seconda parte d’impianto fine settecentesco, con arie, recitativi, e pezzi d’assieme. La mescolanza di tutta questa musica potrebbe apparire un po’ strana, in effetti, tuttavia io trovai molto intelligente e felice l’idea che le musiche di tutti i tempi potessero convivere congiunte, allo stesso modo in cui culture di tanti paesi e di tanti secoli si trovassero in ultima istanza su questa astronave, che trasporta gli emigranti fuori della Terra.64 Una scherzosa “eredità” musicale, affidata a una sgangherata navicella spaziale che, malgrado l’irrisione di tutti, sopravvive invece al collasso planetario della Terra, dovuto alla distruzione reciproca dei due blocchi, e si preannuncia pro-genitrice di una nuova specie umana (che alla fine, con un tipico paradosso fantascientifico, scopriamo essere la nostra attuale). Un’immagine, «La mezcla de toda esta música parecía un poco extraña, efectivamente, pero yo encontré muy inteligente y muy feliz la idea de que las músicas de todos lo tiempos pudiesen convivir conjuntamente, de la misma manera que la cultura de tantos países y tantos siglos tuviese como un último resultado en esta astronave, que se lleva a los emigrantes fuera de la Terra»; COTTAFAVI in GUARNIER 1980. 64 76 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta per usare le parole del compositore, «teneramente ironica» dell’Italia di quegli anni. È toccata una sorte singolare al secondo dei due II.2 Marinuzzi e Lattuada: l’intenso silenzio film di Lattuada che contengono musiche di Marinuzzi: Matchless (1967), che tra l’altro vede la par«Mi sono trovato una volta ad avere in mio potere uno strumento musicale che si chiama tecipazione anche di Ennio Morricone, è al giorno tam tam: è un disco metallico grandissimo d’oggi introvabile. Fortunatamente, però, La man[…]; percuotendolo al centro fino ai bordi ho provato dei piaceri, di vibrazioni profonde, di dragola (1965) rappresenta un esempio oltremodo suoni complessi. Nella musica elettronica io significativo dell’approccio compositivo di Marisento questo stesso piacere, che è forse pronuzzi il quale può in quest’occasione cimentarsi prio il più lontano e originario piacere emonei due ambiti musicali che più lo divertono: la zionale che si possa provare». “musica in costume”, echeggiante atmosfere rina[LATTUADA 1962] scimentali, e la musica elettronica, la cui presenza è probabilmente, nonostante il limitato minutaggio, una delle formulazioni più significative dell’operato marinuzziano. Essa diventa infatti indispensabile per intendere l’interpretazione che Lattuada offre dell’opera di Machiavelli. Tale contributo è limitato a due soli numeri musicali, su un totale di quaranta:65 la sequenza della raccolta della radice “magica” (N. 16)66 e la sequenza in cui fra’ Timoteo (Totò) parla con gli scheletri dei suoi predecessori nella cripta della chiesa.67 Quest’ultima scena viene poi scartata da Lattuada nel montaggio finale, prima di essere reintegrata parzialmente in una successiva realizzazione. La prima sequenza descrive l’incontro fortuito tra Callimaco (Philippe Leroy) e Ligurio (Jean-Claude Brialy) con un vecchio stregone (Ugo Attanasio), denominato in sceneggiatura “vecchione”, che si appresta a cogliere la radice di mandragola.68 Lattuada fa assistere lo spettatore all’intero rito, che ha una componente cruenta e macabra e che finirà per fornire allo spasi65 Cfr. MARINUZZI [1965a]. Come già notato per Terrore nello spazio, la prassi marinuzziana è quella di titolare i brani musicali con numerazione progressiva. Solo in fase di deposito SIAE con finalità discografica, i brani ricevono una titolazione spesso incentrata sul plot narrativo. 67 Per questo brano, essendo totalmente elettronico e dunque privo di partitura, la numerazione progressiva è solo intuibile non essendo annotata nell’autografo. Nel programma musicale SIAE conservato (MARINUZZI [1965b]), il brano non figura, in quanto il documento è incompleto. Considerato che la scena soppressa avrebbe dovuto porsi in fondo al film, l’indicazione che ci serve potrebbe essere in quel foglio mancante. Segnalo infine che il materiale elettronico della Mandragola è depositato separatamente in SIAE (evidentemente su supporto magnetico) con il titolo Elettronica dal film Mandragola, edizioni EMI General Music. Esistono anche due depositi afferenti allo stesso editore (non molto frequentato nel resto della produzione marinuzziana e dunque probabilmente legato allo stesso film) dal titolo Elettronica N. 1 ed Elettronica N. 2. 68 La sequenza in questione corrisponde a Scena 23 della sceneggiatura; cfr. MAGNI–STRUCCHI–LATTUADA 1965, pp. 67-74. 66 77 Maurizio Corbella mante Callimaco la soluzione per passare finalmente una notte con Lucrezia (Rosanna Schiaffino): sfruttando la credenza che la mandragola renda gravide le donne, Callimaco si improvviserà medico per risolvere il problema di sterilità tra Lucrezia e il marito, Messer Nicia (Romolo Valli). Il numero musicale è abbastanza trasparente sul piano della stratificazione delle componenti: un motivo melodico si dispiega su un bordone elettronico. Il motivo (m) compare nella prima parte della sequenza in tre occorrenze con diverse vesti timbriche: prima affidato al flauto (N. 16, FIGURA 8), poi a clarinetto e clarinetto basso trasposto di una sesta inferiore (N. 16a), e infine a un timbro manipolato, verosimilmente ottenuto filtrando il suono di flauto originale.69 Figura 8: Prima apparizione del motivo melodico al flauto (N.16, MARINUZZI [1965a]). La linea tratteggiata verticale, da me aggiunta, delimita ciò che effettivamente sentiamo nel montato finale. Il bordone elettronico può essere a sua volta scomposto in tre componenti dotate di caratteristiche timbriche distinguibili: un pedale (a) sul registro grave, che stabilisce il “centro tonale” della sequenza (Fa), e la pulsazione ritmica regolare; una componente ondulatoria (b), anch’essa ritmica, che si incastra nella pulsazione del basso, e che ricorda il rumore del passaggio dell’acqua da un collo di bottiglia; una serie di oscillazioni di arco temporale più ampio (c), che mettono in scena una sorta di effetto di vento. La riuscita ambiguità, sul piano del ruolo drammaturgico, del brano di Marinuzzi è attribuibile al diverso “orientamento” delle sue singole componenti: laddove m e a rispondono a direttrici di matrice prettamente “musicale” (stabilendo la pulsazione ritmica e le relazioni “tonali”), b e c instaurano invece un rapporto di evocazione simbolica del reale diegetico (fornendo, per così dire, il “colore sonoro” della sequenza). Attraverso l’evocazione elettronica di timbri naturali, b e c trasfigurano elementi che fanno parte del paesaggio visivo e sonoro della narrazione: l’acqua (la vicenda si svolge sulle sponde di un torrente) e il sibilo del vento (le fronde degli alberi si muovono). Se tuttavia poniamo attenzione alla sonorizzazione della campagna fiorentina realizzata in studio, ci accorgiamo che dei due elementi sentiamo effettiC’è una discrepanza tra quanto nel manoscritto è indicato come N. 16b e la terza ricorrenza del tema: nella partitura esso è trasposto di una terza minore inferiore, mentre nel montato esso appare non trasposto, ma filtrato e più lento. 69 78 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta vamente solo lo scorrere dell’acqua, che si va ad amalgamare con la componente b, una volta che il brano elettroacustico comincia. Il vento invece non è sonorizzato, e ciò crea discrepanza tra c – il sibilo sinistro che fa parte della composizione – e il silenzio surreale delle fronde che si muovono. L’effetto “iperreale” del vento elettronico è ciò che maggiormente conferisce alla scena il suo tono lugubre, che si avvicina sinistramente al lamento dei morti viventi utilizzato in Terrore nello spazio. Il tema del lugubre è del resto comune ai due film, e nell’interpretazione che Lattuada offre della commedia di Machiavelli sembra essere una delle chiavi più affascinanti e audaci. La musica elettronica, dunque, mette in moto l’allegoria su cui si regge l’intera commedia, che inscena l’ipocrisia morale e il cinismo della società fiorentina e rende il divertente adulterio perpetrato da Lucrezia e Callimaco nei confronti di Messer Nicia il minore dei mali, se comparato al clima di stucchevole perbenismo del mondo che Messer Nicia e, ancor di più, fra’ Timoteo rappresentano. Non a caso il “lieto” fine non consiste nel ristabilirsi dell’ordine iniziale, bensì al contrario nella completa riuscita del piano adulterino. La mandragola del resto è il vero “fiore del male” di Lattuada se, come ci ricorda il vecchione, cresce bagnata dal seme prodotto dall’agonia degli impiccati, e causa la morte in chi la coglie. Ancora più esplicativa in tal senso è la sequenza tagliata di Totò nella cripta. Lattuada ammette esplicitamente di averla creata apposta per il principe De Curtis, permettendosi una delle poche licenze rispetto alla trama di Machiavelli: Nel copione non era prevista una parentesi di follia medianica, come quelle che Totò crea di sua iniziativa sulla scena o nei film. È stato necessario inventarla apposta per lui: alla fine della commedia, quando Callimaco e Lucrezia passano la notte insieme, e Machiavelli canta il trionfo dell’amore, il turpe fra’ Timoteo avrà un dialogo con la morte; o meglio, ci sarà un agitato monologo di Totò con questa realtà invisibile, o visibile solo per lui. Da solo, Totò farà una rappresentazione comico-macabra, una specie di danza degli scheletri, come se ne vedono tante nell’iconografia medievale [...]. 70 La follia medianica, il dialogo con una realtà invisibile, la danza macabra sono tutte espressioni che si legano strettamente alle scelte musicali di Marinuzzi, le quali sembrano apparentarsi anche con la terminologia usata nella sceneggiatura per descrivere l’espressione con cui i teschi “guardano” fra’ Timoteo: «i frati lo fissano nel loro “intenso drammatico silenzio”».71 La 70 LATTUADA 1965. 71 MAGNI–STRUCCHI–LATTUADA 1965, p. 206. 79 Maurizio Corbella musica elettronica è la rappresentazione udibile del silenzio della morte, qualcosa che per sua natura ha a che fare con il non-umano, con l’ultra-percezione. E in questo caso Marinuzzi rinuncia del tutto ad apparati melodici e si concentra sulla composizione di un bordone caratterizzato da un pulsare tellurico, con la presenza di una componente percussiva nel registro grave, che può ricordare i rintocchi di una campana a morto. Il monologo grottesco di Totò, unitamente al montaggio alternato tra primi piani del volto scavato del frate e dei teschi, sono l’elemento che completa l’impasto drammaturgico di questa sequenza. La potenza della scena, che non può dirsi spaventosa, semmai grottesca, è forgiata dal sapiente tocco umoristico dell’attore che, con il suo impareggiabile repertorio espressivo, porta il personaggio del cinico frate sull’orlo della trance paranormale. In un articolo del 1963, tradotto in Italia nel 1966 dal cine-arti- III. Verso una ridefinizione del sta Alfredo Leonardi, John Cage esprime con il consueto tono suono cinematografico? accattivante e provocatorio alcune considerazioni sul rapporto tra sperimentazione musicale e cinematografica. Tre sono i punti che il compositore affronta: a) il concetto di ritmo, che deve essere svincolato da nozioni musicali mutuate dalla tradizione occidentale (soprattutto dalle idee di accompagnamento, sincronismo, contrappunto ecc.), ma al contrario deve essere basato su un’organizzazione di tutte le componenti filmiche (visive e sonore) secondo un principio generativo anteriore alla realizzazione materiale; b) l’applicazione del concetto varèsiano di “suono organizzato” all’intera componente acustica del film, quindi l’abolizione dell’idea di “effetto sonoro”, in nome di una composizione di elementi considerati paritari sul piano della funzione finale; c) la stretta aderenza della musica cinematografica ai mezzi tecnici che la rendono possibile, con la conseguente esclusione del concetto di registrazione di musica non nata originariamente per quelle finalità (quella acustica di derivazione ottocentesca), e la predilezione per «una musica che nasce solo dai mezzi tecnici della nostra epoca (meccanici, elettronici, cinematografici, ecc.)».72 La chiusa del breve scritto è degna di essere riportata interamente, perché centra in pieno alcuni degli argomenti che abbiamo anticipato. Ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno in America è un laboratorio per attività musicali inutili, votato ai fallimenti più che ai successi e qui ricordo che per primo Varèse cercò di interessare a tale iniziativa delle società di Hol- 72 CAGE 80 1963, pp. 417-418. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta lywood e del New Jersey e che io stesso persi un anno (1940) cercando di realizzare lo stesso sogno. Il sogno è semplice: un luogo ben equipaggiato dove compositori e ingegneri del suono possano collaborare; in termini di Hollywood semplicemente l’unione dei Dipartimenti di Musica e Suono (in Canadà è una realtà: Norman McLaren e il National Film Board a Ottawa). Forse ciò è stato realizzato negli Stati Uniti e io non sono aggiornato ma se c’è un posto simile, portateci là. Ne abbiamo di lavoro da fare!73 John Cage solleva un problema che mi pare profondamente caratterizzante gli anni dell’introduzione di pratiche elettroacustiche nel processo cinematografico e che, seppure non necessariamente sviluppato nella direzione sperimentale che il compositore americano propone, condiziona un buon numero di produzioni d’autore degli anni Sessanta. Tradotto in termini italiani, per un contesto in cui l’assetto produttivo cinematografico è meno strutturato rispetto a quello hollywoodiano, «l’unione dei Dipartimenti di Musica e Suono» significa una più stretta collaborazione tra compositore, regista e ingegnere del suono, sulla base della presa di coscienza che la materia trattata non sia più scomponibile in orizzonti d’appartenenza e di competenza che possono procedere autonomamente. Naturalmente ciò implica una profonda messa in discussione delle strategie rappresentative, le quali, per fare appello a categorie di respiro generale, devono superare o affrancarsi dai capisaldi del “realismo” hollywoodiano affermatosi a partire dagli anni Trenta. Il terreno nel quale vanno trasferite queste riflessioni provocatorie è quello italiano che ha conosciuto la parabola neorealista, la quale tuttavia ha coinvolto (per motivi perlopiù economici, ma sovente culturali) il suono in misura molto minore rispetto all’assetto visivo. Non a caso il neorealismo è stato spesso stigmatizzato per non aver saputo operare, sotto il profilo musicale, quelle rivoluzioni che aveva propiziato dal punto di vista visuale e narrativo. Il dato negativo che colpisce e accomuna in misura diversa queste collaborazioni [tra protagonisti del neorealismo e compositori] risiede nella discrepanza fra l’innovazione linguistica che caratterizza i film e il riproporsi di stereotipi musicali già utilizzati nel cinema del ventennio, a riprova non solo della loro inadeguatezza ma ancor prima di un’assenza generalizzata di esigenze specifiche da parte degli sceneggiatori e dei registi. 74 73 Ivi, p. 418. 74 MICELI 2009a, p. 333. 81 Maurizio Corbella C’è da chiedersi se, al giro di boa degli anni Sessanta, qualcosa sia cambiato in questa situazione. Non si può certo registrare una vera svolta, semmai alcune crepe alimentate da percorsi di ricerca individuale intrapresi da “autori” cinematografici, o dall’adeguamento del gusto “comune” a pratiche musicali coeve provenienti dall’influenza popular americana. E tuttavia, al 1963, quando Cage scrive il suo articolo, sono accaduti alcuni fenomeni significativi che possono fare pensare a un processo di rinnovamento che coinvolge la concezione del suono nel cinema internazionale non propriamente d’avanguardia: Antonioni, con L’avventura e L’eclisse è ormai avviato in un percorso di ricomposizione dell’universo audiovisivo che passa precisamente attraverso l’elemento acustico del “rumore”; 75 Fellini, con La dolce vita e 8 ½, ha iniziato a esplorare scelte di “polifonia” vocale tramite un uso spregiudicato del doppiaggio e il supporto (del quale discuterò approfonditamente nel CAPITOLO 4.VI) di un repertorio di sonorità elettroacustiche; in Francia, i protagonisti della nouvelle vague hanno saggiato soluzioni sonore inconsuete come quelle del film “quasi” muto La jetée, di Chris Marker (1962);76 oltreoceano, un “classico” come Alfred Hitchcock sconvolge gli equilibri tradizionali di musica e suono, optando per la pressoché totale assenza della prima in un film dall’impostazione narrativa tutto sommato tradizionale come gli Uccelli (1963). Tutti questi esempi immettono procedure elettroacustiche nel tessuto produttivo minandone, in varia misura, i capisaldi. Se «il disinteresse e la scarsa sensibilità mostrati dai giovani Zavattini, Rossellini e De Sica» 77 erano stati la cifra distintiva del neorealismo, allora si può affermare che una rinnovata sensibilità, unita alla volontà di far propri i risvolti delle contemporanee ricerche musicali, contraddistingua almeno quei cineasti che interpretano il decennio della loro maturità artistica in un’ottica sperimentale. È interessante rilevare che tale nuova sensibilità si presta a essere interpretata, almeno nei casi da me studiati, come una modalità di ricezione di una nozione di suono organizzato intesa non tanto nel suo senso “ortodosso”, ma allargato quel tanto che basta per mettere in crisi la classica tripartizione hollywoodiana del sonoro cinematografico in dialoghi, rumori e musica. Quest’ultima funziona sulla base di un modello rappresentativo vococentrico, in cui la parola è governata dal principio di intelligibilità e le altre due componenti fungono da complemento in varie direzioni. Nella storia della pratica hollywoodiana, le tre categorie sonore si impongono nella loro pragmatica funzionalità rappresentativa, influenzando dalla base il comples- 75 Cfr. 76 Cfr. 77 Ibid. 82 CALABRETTO 1999, 2005. WHITTINGTON 2007, pp. 62-64. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta so processo di produzione del suono, che risulta tripartito fin dalle prime fasi di lavorazione. Prima dunque di abbandonarsi a ulteriori speculazioni, ritengo sia necessario chiarire le fasi di produzione, cercando, e questa è al momento l’operazione più difficile, di individuare alcuni passaggi storici importanti nell’evoluzione di tale pratica. Solo a quel punto sarà possibile capire il potenziale destabilizzante in possesso delle opzioni elettroacustiche. Tra le tre categorie, quella dei rumori è indubbiamente dotata di maggiore ambiguità teorica a causa della vaghezza insita nel termine, usato alternativamente con l’ancor più problematico “effetti”. Se consideriamo, in un film finito, tutte le componenti sonore che non sono riconducibili alla musica né tanto meno al dialogo, ci troviamo di fronte a una varietà di elementi. Una prima macro-distinzione infatti può essere fatta, almeno a livello teorico, tra artifici sonori ed elementi “accidentali” connessi alla presa diretta. I primi possono essere a ragione considerati effetti, in quanto presuppongono un rapporto azione-reazione tra artefice e fruitore; i secondi sono chiamati fondi nel linguaggio tecnico e possono essere collocati nella sfera dei rumori, intendendo con questo termine componenti acustiche non deliberatamente desiderate che si sommano nel segnale all’oggetto della registrazione.78 Naturalmente un prodotto cinematografico ben “confezionato” sarà in grado di ridurre il rumore al minimo o, meglio, di integrarlo nelle proprie finalità espressive – d’altronde tutti i fonici sanno che il fondo è un elemento imprescindibile per conferire spazialità e localizzazione alle voci. Potremmo dunque parlare di un’intenzionalità “indotta”, nella misura in cui un fondo viene piegato alle necessità della drammaturgia. A livello di produzione, vale a dire della fase dei lavori coincidente con le riprese del film, può esistere una categoria sonora che i manuali chiamano ambienti, per distinguerla dai fondi: gli ambienti sono elementi sonori ripresi deliberatamente dal fonico sul set o nei suoi pressi, disgiuntamente dalla ripresa delle voci. Il fonico di presa diretta riprende elementi del paesaggio sonoro in cui è ambientato il film in condizioni ideali, rendendo possibile in post-produzione l’equilibrio con i fondi. Non bisogna esagerare il potenziale creativo di questa fase, come non bisogna sottovalutarlo; d’altronde è chiaro che se il progetto drammaturgico è coeso in tutte le sue fasi di produzione, se esistono figure in grado di garantire continuità tra le fasi, se infine esiste un cineasta che è particolarmente conscio delle potenzialità di tutti i passaggi legati al sonoro, non c’è motivo per non riconoscere che, nei casi più avanzati, il lavoro creativo sulla drammaturgia sonora inizi molto prima che le bobine o, 78 Cfr. CORELLI–FELICI–MARTINELLI 2006, pp. 233-238. 83 Maurizio Corbella al giorno d’oggi, i files digitali, raggiungano i banchi di montaggio e mixaggio.79 Sono, infine, tecnicamente definiti effetti quei suoni che costituiscono, insieme alla musica, la cosiddetta colonna internazionale, chiamata anche colonna M&E (musica ed effetti), una versione della colonna sonora priva dei dialoghi, realizzata appositamente per il mercato in lingua straniera, atta a consentire il doppiaggio in altre lingue.80 Gli effetti di post-produzione sono così generalmente suddivisi: d’ambiente (background nella terminologia anglosassone), speciali (sfx o fx), di sala (foley) (per una panoramica riassuntiva di quanto fin qui esposto, cfr. TABELLA 1).81 Tale punto di vista è svolto limpidamente da Corelli, Felici e Martinelli che da una parte sono comprensibilmente cauti su questo aspetto, dovendo nel loro manuale rendere conto della norma in cui avvengono le fasi di lavorazione sonora di un film: «Le libertà che di solito ci si prende col suono sono spesso assai limitate. Siamo ancora ben lontani dalla visione ardita di Ejzenštejn, Pudovkin e Alexandrov quando nel 1928 con il loro Statement on Sound rifuggivano dall’idea di utilizzare il suono come banale giustapposizione sincrona agli eventi visivi, ipotizzando invece un utilizzo contrappuntistico, orchestrale, delle “immagini visive e sonore”. Chiaramente volendo potenziare l’uso del sonoro utilizzandolo in modo creativo o semplicemente per garantire una cura ed un’uniformità di alto livello è necessario prevedere una supervisione che raccordi con grande competenza e gusto uniforme, e valorizzi quantomeno il montaggio del suono, il doppiaggio e i rumoristi, con l’ovvio beneplacito della regia»; ivi, p. 245 Dall’altra, gli autori riconoscono che esistono casi particolari in cui le condizioni di cui sopra si realizzano: «Oggi questi collegamenti tra le diverse figure citate esistono, ma sono spesso il faticoso frutto di libera iniziativa dei singoli, in modo talvolta disordinato, incompleto, e a rischio di provocare antipatie o invidie quando non sia stato deciso ufficialmente dalla produzione di affidare il compito della supervisione al suono a qualcuno di specifico, con la preparazione necessaria e riconosciuta da tutti»; ivi, p. 246. 80 «Nei film realizzati in presa diretta, per ottenere la colonna internazionale non è possibile agire per sottrazione eliminando il parlato, dato che quasi tutto il materiale sonoro costituito da rumori e ambienti di presa diretta è registrato irreversibilmente insieme ai dialoghi, captato per forza di cose dagli stessi microfoni dedicati alla voce [fondi, ndr]. È dunque necessario ricostruire artificialmente il sonoro del film, anche se magari sarà possibile recuperare quelle rare parti in cui gli attori non parlano (ad esempio sono recuperate volentieri scene complicate e dense di suoni come inseguimenti a cavallo, colluttazioni, incidenti stradali, azioni sportive)»; ivi, p. 286. 81 Il testo virgolettato presente nella tabella è tratto da ivi, pp. 286-293. 79 84 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta TABELLA 1: Rumori ed effetti dalla produzione alla post-produzione Produzione (rumori) Fondi Ambienti Elementi incorporati nella presa diretta delle voci. Di norma sono indipendenti dalla volontà del fonico. Questi però, di prassi, si premura di registrarli anche senza le voci per facilitare il lavoro di montaggio della presa diretta. Continui: dotati di una certa regolarità nel tempo, «eventualmente con micro variazioni anche udibili ma più brevi di 1 secondo circa». Discontinui: includono «eventi sonori la cui evoluzione dura più di 1 secondo circa». Elementi ambientali ripresi indipendentemente dalla registrazione delle voci. Essi sono sempre frutto della volontà del fonico il quale, sebbene non “crei” necessariamente ad hoc l’evento da registrare, si preoccupa che esistano le condizioni acustiche ideali perché l’evento corrisponda alle sue aspettative. Dunque essi sono a tutti gli effetti elementi integrativi del progetto drammaturgico. Post-produzione (effetti) Ambienti (backgrounds) Speciali (sfx o fx) Sala (foley) «Coprono uniformemente ogni scena, ovvero sono per così dire sincronizzati a livello di scena, tagliati su di essa». Eventi sonori occasionali, «legati ad un preciso avvenimento all’interno della scena e necessitanti di sincronizzazione precisa». «[E]lementi sonori legati alla corporeità che vanno non semplicemente sincronizzati, ma opportunamente modulati ad hoc sulle immagini, sullo svolgersi dell’azione». Esempi: «fondo traffico, aria generica, fronde, brusio indistinto, mare calmo, [...] rumori di luna park, [...] aeroporto». Esempi: «aperture e [...] chiusure porte [...], colpi di clacson, sirene d’ambulanza e rumori d’automezzi [...]». Esempi: «passi, strisciamenti di vestiti, carezze, pacche sulle spalle, poggiate o spostamentei sul tavolo di oggetti [...]». Tra i principali punti di svolta del cinema tra gli anni Sessanta e la decade successiva vi è un cambiamento nel modo di concepire ed elaborare gli effetti. L’interesse per il suono, tanto nella sua entità oggettiva quanto nella sua portata evocativa, subisce un accrescimento senza precedenti in tutti i campi della cultura, e arriva al cinema principalmente attraverso la mediazione delle esperienze musicali elettroacustiche. Il suono elettroacustico, infatti, si posiziona per sua natura trasversalmente rispetto alle categorie di effetti appena presentati. La tipizzazione offerta da Corelli, Felici e Martinelli, rispecchiante la consuetudine delle produzioni contemporanee, è chiaramente incentrata sul paradigma narrativo: gli effetti sono il risultato della necessità di far rivivere sullo schermo l’idea di un ambiente, con tutto quello che esso comporta. Ecco perché normalmente suoni sintetici, o eventi sonori sottoposti a pesanti procedimenti manipolatori sono utilizzati in topoi fanta- 85 Maurizio Corbella scientifici o, più genericamente, di trasfigurazione (sogno, ultraterreno, ecc.): è l’inconsuetudine del mondo rappresentato a richiedere tale uso. Ma cosa accade quando suoni, o addirittura musiche elettroacustiche, vengono inseriti in un contesto altrimenti “quotidiano”, o comunque non connotato da devianze esplicite rispetto ai canoni del realismo cinematografico? Si crea innanzitutto uno scompenso nell’assetto produttivo, poiché si inseriscono pratiche eterogenee in un meccanismo già collaudato (è quanto succede, ad esempio, quando vengono coinvolti compositori esterni all’industria cinematografica); in secondo luogo si hanno delle ricadute di tipo interpretativo. Non a caso, i più consumati approcci analitici all’audiovisione – il “tricerchio” di Chion o i livelli di Miceli – presentano alcuni limiti quando sono alle prese con casi del genere.82 L’evento elettroacustico, infatti, si pone in una zona intermedia in grado di pesare sia sul versante della funzionalità (“effetti” ambientali) che su quello della semanticità (di norma appannaggio delle altre due tipologie sonore della tripartizione, musica e dialoghi) nella misura in cui esso mantiene un legame con una sorgente sonora visualizzabile o predilige un’organizzazione del materiale sonoro di tipo “musicale”. Non ci potrebbe essere esempio più paradigmatico sotto il III.1 Gli uccelli come caso profilo metodologico, per illustrare i termini della doppia ambi- metodologicamente significativo guità del suono elettroacustico (doppia in quanto coinvolge l’assetto produttivo e la stratificazione drammaturgico/interpretativa), di quello rappresentato da Gli uccelli di Alfred Hitchcock. La coincidenza di poter disporre di ampio materiale documentario, caso abbastanza raro nel campo degli studi audiovisivi, grazie all’esistenza di due archivi come quello di Alfred Hitchcock e quello del compositore Remi Gassmann, consente a questo film di funzionare a mo’ di pietra di paragone rispetto ai casi italiani che affronterò (spesso con maggiore penuria di fonti) nel CAPITOLO 4. Quando Remi Gassmann, compositore americano di origini tedesche, che nei primi anni Sessanta aveva sperimentato il Mixtur-Trautonium di Oskar Sala, una versione avanzata del “vecchio” Trautonium, nel suo ballet- Ciò vale fin dalla scoperta del suono ottico, del quale abbiamo un lampante esempio di utilizzo narrativo nella prima metamorfosi di Fredrich Marc in Dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, r. di Rouben Mamoulian, 1931): in questo lungometraggio, in cui gli interventi musicali sono praticamente tutti di livello interno, questo strano inserto sonoro è solo apparentemente collocabile nel livello esterno. È un suono ambiguo per sua natura, il cui carattere inaudito (soprattutto a quell’altezza cronologica) ha la capacità di spiazzare le griglie interpretative dello spettatore-uditore, senza però risolversi in una spiegazione. È un suono che potrebbe al contempo essere udito dal personaggio (come suono “mentale” – sorta di livello mediato), in quel momento in una situazione di trasfigurazione, ma anche appartenere alla sfera degli effetti sonori speciali, e dunque avere funzione di sottolineatura di un evento soprannaturale (livello esterno acritico). 82 86 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta to Electronics,83 spedisce ad Alfred Hitchcock la sua candidatura per le musiche per il nuovo film del regista americano, pone l’accento sulle risorse timbriche potenzialmente illimitate del sintetizzatore, in grado di rivoluzionare l’approccio al suono cinematografico: Per la prima volta abbiamo a nostra disposizione, attraverso la generazione elettronica, ciò che è stato giustamente chiamato “la totalità dell’acustico”. Suoni familiari – dal rumore comune alla musica e agli effetti esoterici – così come un quasi illimitato supplemento di suoni non familiari, possono essere oggi prodotti elettronicamente. La conseguenza sembra essere una nuova dimensione nella produzione cinematografica. 84 Hitchcock, nell’accettare la proposta di Gassmann, ha probabilmente in testa un progetto drammaturgico che si discosta molto dai suoi film anteriori. Del resto si tratta indubbiamente di un’opera particolare, dove se c’è un giallo esso non è risolto dall’ambiguo e discusso finale, non c’è un cerchio che si chiude, bensì un’ombra tetra (rappresentata dagli uccelli) che aleggia sull’intera vicenda e le conferisce una vena insolitamente pessimista e intrisa di uno humour a tinte se possibile ancora più ciniche di quanto l’autore non sia abituato a trattare. Probabilmente è proprio questa anomalia, di cui l’aspetto sonoro rappresenta la corrispondenza più eclatante, a determinare il tiepido riscontro del pubblico e della critica. 85 Al regista, alle prese con le sonorità elettroniche di Gassmann e Sala, si pone innanzi tutto un problema organizzativo, apparentemente banale, testimoniato da una breve nota con la quale la segretaria di produzione Peggy Robertson riferisce al direttore del Sound department Paul Donnelly un dubbio del regista: Il signor Hitchcock ha posto le seguenti domande: 1) Questo sistema elettronico [si riferisce al Mixtur-Trautonium di Sala, ndr] farà i suoni del traffico, Balletto composto inizialmente con il nome Paean e presentato alla Staedtische Oper di Berlino nel maggio 1960, con coreografia di Tatjana Gavosky. Electronics fu poi presentato il 22 marzo 1961 dal New York City Ballet diretto da George Balanchine al New York City Center; GASSMANN s.d., in RGP. 84 «For the first time, we have at our disposal, through electronic generation, what has aptly been called he totality of the acoustical. Familiar sounds from common noise to music and esoteric effects as well as an almost limitless supply of completely unfamiliar sounds, can now be electronically produced, controlled, and utilized for film purposes. The result is much like a new dimension in film production»; GASSMANN 1962a. 85 Di grande interesse è la tavola rotonda organizzata dalla redazione di «Filmcritica», alla quale partecipano Armando Plebe, Adriano Aprà, Edoardo Bruno, Stefano Roncoroni, Piero Anchisi, Mario Zucconi e Roberto Alemanno; cfr. AA.VV. 1964, pp. 67-83. 83 87 Maurizio Corbella ecc., o li facciamo noi? 2) Possiamo miscelare i suoni elettronici con i nostri suoni ordinari? Per esempio, abbiamo suoni naturali di uccelli sotto il nostro dialogo nel negozio di uccelli e, in questa particolare scena, la questione di usare suoni elettronici non si pone. 86 È chiaramente deducibile come la risposta a questi due dubbi apparentemente contingenti influenzi profondamente la strategia drammaturgica a cui Hitchcock pensa: se, per esempio, non fosse possibile accontentare la richiesta del regista in merito al punto 2, verrebbe a cadere la premessa fondante buona parte dell’impianto drammaturgico del film, che trova definizione in una sinossi intitolata Background sounds for The Birds, che Hitchcock distribuisce a tutti i membri del sound department, ai compositori, al consulente musicale Bernard Herrmann e al direttore del montaggio George Tomasini, 87 nella quale specifica la successione e l’amalgama, sequenza per sequenza, delle componenti sonore, sulla base di una classificazione esplicitata fin dalle prime righe: «ci saranno due tipologie di suoni in questo film. La prima consiste in suoni naturali, la seconda, in suoni elettronici».88 Figura 9: Dettaglio dell’inizio della sinossi Background sounds for The Birds (HITCHCOCK 1962b, p. [1]). Quando termino la sceneggiatura di un film detto a una segretaria una vera e propria sceneggiatura dei suoni. Guardiamo il film bobina per bobina e detto man mano tutto quello che desidero sentire. Fin qui si trattava solo di rumori 86 «Mr. Hitchcock has asked the following questions: 1) Will this electronic system do traffic sounds, etc., etc.; or do we do our own? 2) Can we blend the electronic sounds with our ordinary sounds? e.g. we have natural bird sounds behind our dialogue in the Bird Shop and, in this particular scene, the question of using electronic sounds does not arise»; ROBERTSON 1962a. 87 ROBERTSON 1962b. 88 HITCHCOCK 1962b, p. [1]; cfr. FIGURA 9. 88 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta naturali, ma adesso, grazie al suono elettronico, devo non solo indicare i suoni da ottenere, ma descrivere minuziosamente il loro stile e la loro natura.89 Tale «sceneggiatura dei suoni» costituisce la traccia concettuale che Remi Gassmann e Oskar Sala seguono nella loro realizzazione delle sonorità elettroniche in Germania, fissate su nastro e consegnate, insieme a un dettagliato cue sheet, alla responsabilità di Tomasini. Per comprendere meglio le ricadute che le problematiche produttive hanno sul progetto narrativo che Hitchcock ha in mente, possiamo analizzare le prime inquadrature del film, che fungono da introduzione proprio alla sequenza del negozio di uccelli a cui faceva riferimento la nota di Peggy Robertson. L’incipit del film può essere suddiviso in tre segmenti di narrazione ai quali corrispondono tre diversi “luoghi” del set.90 Nella parte inferiore della TABELLA 2 è possibile leggere come nella sua sinossi Hitchcock prescriva di strutturare la scena sotto il profilo sonoro. 89 HITCHCOCK in TRUFFAUT 1983, p. 246. Preciso che con “luoghi” non intendo riferirmi letteralmente alle locations in cui si svolgono le riprese. Sappiamo infatti che la scena in “esterno” corrispondente alla sequenza II è stata girata parte in una strada di San Francisco, parte in teatro di posa (dal marciapiede in poi, utilizzando la colonna come raccordo). Utilizzo invece il termine nella sua accezione più astratta di “luogo della narrazione”. 90 89 Maurizio Corbella TABELLA 2: Incipit di The Birds I. Titoli di testa: Inquadratura fissa, su fondo bianco appaiono in sovrimpressione i titoli mentre sagome nere di uccelli si susseguono attraversando velocemente il quadro. II. San Francisco, esterno giorno: Melanie Daniels (Tippi Hedren) attraversa una strada trafficata dirigendosi verso un negozio di uccelli; la sua attenzione per un attimo è attirata dal rumore inconsueto di uno stormo di uccelli in cielo. III. Davidson’s Pet Shop, interno giorno: Melanie, trattenutasi per un contrattempo nel negozio, incontra Mitch Brenner (Rod Taylor) e, approfittando della momentanea assenza della proprietaria, si finge commessa. Prescrizioni sonore della sinossi (testo originale a FIGURA 10) «(Elettronico) Sfondo dei titoli[,] come si vedrà, dietro ai titoli avremo sagome di uccelli in volo. Essi varieranno in dimensioni, e partiranno molto ravvicinati. In realtà, tanto ravvicinati che quasi assumeranno forme astratte. Per i suoni elettronici potremmo provare solo con alcuni rumori d’ala, con una variazione di volume e una variazione di espressione di questa in termini di ritmo. Potremmo anche considerare se avere qualche suono di uccello tipo corvo o gabbiano o il loro equivalente elettronico, o una combinazione di ali e versi di uccello. Qualsiasi sarà il suono che avremo sotto i titoli, la questione del volume sarà da prendere attentamente in considerazione in relazione al fatto che non stiamo facendo nessun utilizzo di musica. Per questo il volume è un fattore molto importante in questo caso». 90 «(Naturale) Questa sequenza richiede il suono delle strade di San Francisco incluso quello dei tram e quello dei generici rumori passeggeri. Quando Melanie guarda in alto verso il cielo, potremmo inserire alcuni indistinti versi di gabbiani in modo da rendere l’idea dell’inusuale natura del loro numero. Sarà il caso discutere se questo vago suono distante debba forse non essere di tipo naturale ma stilizzato e fatto elettronicamente». «(Naturale) Negozio di uccelli, l’esistente sfondo di uccelli che cantano e cinguettano dovrebbe rimanere. Nell’inquadratura iniziale, nel momento in cui Melanie entra dalla porta, dovremmo sentire i rumori del traffico e magari il suono di un altro tram [...]». Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Notiamo un’alternanza di sezioni elettroniche e sezioni “naturali”, con un’unico dubbio del regista nel merito di un’interpolazione elettronica (poi realizzata) in corrispondenza dell’inquadratura del cielo di San Francisco. Tale interpolazione è evidenziata in effetti da una sottolineatura (FIGURA 10) a opera di Oskar Sala o Remi Gassmann, ai quali la copia della sinossi appartiene, con l’ovvia funzione di promemoria sulle scene che sarebbe spettato loro di sonorizzare. Come risulta da questo esempio, l’assetto produttivo delineatosi grazie alla collaborazione con i compositori – sui generis rispetto alla prassi “classica” hollywoodiana – consente al suono degli Uccelli di essere riconducibile a tre differenti matrici che, piegate agli scopi hitchcockiani, diventano elementi del disegno drammaturgico: a) la famiglia di suoni prodotti in Germania dallo studio di Sala; b) la famiglia di suoni prodotti dal Revue Studio di Los Angeles, che svolge le tipiche mansioni di sonorizzazione e mixaggio; c) la presa diretta (wild track), alla quale appartiene parte dei suoni animali nella Figura 10: Dettaglio da Background sounds for The Birds, cit., p. [1]. scena del negozio (cfr. terza colonna TABELLA 2). Il regista, inoltre, non soltanto dispone di una più ampia varietà di opzioni, ma è messo in condizione di poter scegliere l’esatto dosaggio di ele- 91 Maurizio Corbella menti sonori minimi trattabili singolarmente, che andranno a comporre il paesaggio sonoro che egli ha in mente: si tratta di una grande novità dal punto di vista della regia, che mette in campo valori nuovi basati su nozioni mutuate dalle sperimentazioni in campo elettroacustico. Ciò traspare in particolare dalla modalità con cui Hitchcock si riferisce ai dettagli del suono elettronico, affrontando il suono degli uccelli come un corpus composito dotato di elementi definibili singolarmente, ognuno con determinate caratteristiche acustiche e relative connotazioni: [...] potremmo provare solo con alcuni rumori d’ala, con una variazione di volume e una variazione di espressione di questa in termini di ritmo. Potremmo anche considerare se avere qualche suono di uccello tipo corvo o gabbiano o il loro equivalente elettronico, o una combinazione di ali e versi di uccello. 91 Tale terminologia usata dal regista trova d’altronde corrispondenza nella procedura compositiva di Gassmann e Sala, che avvicina in effetti gli elementi sonori come oggetti singoli per poi orchestrarli, come appare chiaro fin dalla prima pagina del cue sheet preparato dai compositori in concorso con George Tomasini (si vedano termini come flutter curtain, vocal curtain, effects curtain in FIGURA 11), il rinvenimento del quale ha recentemente legittimato approcci analitici di tipo musicologico ad alcune sezioni del film, facendo tra le altre cose chiarezza intorno al ruolo di “consulente musicale” ricoperto da Bernard Herrmann.92 91 Ibid. Herrmann, di fatto, interviene solo alla fine dei lavori di Gassmann e Sala, chiedendo ai compositori di integrare il mix con tre «extra sounds»; la logica che sottosta l’intervento di Herrmann è preminentemente acustico-musicale, e mira a “bilanciare” l’equilibrio delle componenti sonore in determinate sequenze. Si veda WIERZBICKI 2008, che tra le altre cose tenta anche un’analisi musicologica della sequenza dell’attacco degli uccelli alla casa. 92 92 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Figura 11: Dettaglio dal cue sheet di The Birds (p. 1), preparato da Remi Gassmann e Oskar Sala e consegnato al direttore del montaggio George Tomasini (GASSMANN–SALA [1962]). Anche il rumore, dunque, è scomponibile in unità minime di suoni e, viceversa, a partire da queste, può essere ricomposto. Benché non si tratti di una novità assoluta (la cinematografia d’avanguardia degli anni Venti e Trenta perseguiva medesime finalità, ma con strumenti di più difficile utilizzo), si può parlare a questo punto di una vera e propria messa in pratica da parte del cinema narrativo degli anni Sessanta di acquisizioni avvenute nell’ambito delle musiche elettroacustiche del secondo dopoguerra. La stupefacente capacità emulativa dei sintetizzatori, l’introduzione del nastro magnetico e delle relative opzioni di taglio e montaggio, comunicano il fatto che la tecnologia ha raggiunto il traguardo di strutturare la sfera dell’acustico analogamente a quanto era già possibile per la sfera visiva. Il suono può dunque essere trattato congiuntamente all’immagine; si prefigura quella omogeneità tra suono e fotogramma che sta alla base della nozione di “testo audiovisivo” come struttura costituita da immagine, parola e suono, il cui significato si determina nell’interazione delle componenti: 93 Maurizio Corbella Le due dimensioni [suono e immagine] sono [...] correlate grazie all’analogia (e in certi momenti identità) dei procedimenti tecnici con cui vengono trattate. L’impiego di questi mezzi richiama inevitabilmente una delle acquisizioni principali della musica elettronica, cioè la scoperta che il suono singolo è a sua volta risultato di un’addizione di elementi parziali. Tale unità del molteplice è proiettata su vasta scala nella dimensione sonora del testo audiovisivo: il suono è una mistura di suoni.93 Le conseguenze di tale assunto in termini rappresentativi sono notevoli, in parte già intuite a proposito degli Uccelli: l’autore cinematografico ha finalmente in mano, grazie alla consapevolezza fornitagli dalla musica elettroacustica, un formidabile strumento di invenzione e organizzazione dell’universo sonoro. Per descrivere bene un rumore, bisogna immaginare ciò che darebbe il suo equivalente in dialogo. Volevo ottenere nella mansarda un suono che significasse la stessa cosa come se gli uccelli dicessero a Melanie: «Adesso sei nelle nostre mani. E arriviamo su di te. Non abbiamo bisogno di emettere delle grida di trionfo, non abbiamo bisogno di andare in collera, commetteremo un assassinio silenzioso». Ecco ciò che gli uccelli stanno dicendo a Melanie Daniels ed è quello che sono riuscito a ottenere dai tecnici del suono elettronico. Per la scena finale, quando Rod Taylor apre la porta della casa e vede per la prima volta degli uccelli a perdita d’occhio, ho chiesto un silenzio, ma non un silenzio qualsiasi; un silenzio elettronico di una monotonia che potesse evocare il rumore del mare che giunge da molto lontano. Trasposto nel dialogo degli uccelli, il suono di questo silenzio artificiale significa: «Non siamo ancora pronti ad attaccarvi, ma ci stiamo preparando. Siamo come un motore che sta per rombare. Stiamo per spiccare il volo». È questo che si deve capire con dei suoni piuttosto dolci, ma il mormorio è talmente debole che non si sa con certezza se lo si sente o lo si immagina.94 La predisposizione del “nuovo cinema” degli anni Sessanta a utilizzare in senso poetico, ad affrontare criticamente, quando non sperimentalmente, ogni componente del linguaggio cinematografico, non può non trarre ulteriore linfa da questo fatto. Alle tensioni estetiche delle cosiddette new waves si aggiungono, nel panorama cinematografico globale, gli effetti della crisi dello Studio System hollywoodiano, iniziata nel 1948 con la sentenza della Corte Suprema americana contro il monopolio delle storiche case di produzione; 93 BORIO 2007. 94 HITCHCOCK in 94 TRUFFAUT 1983, pp. 246-247. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta con il collasso del collaudato sistema produttivo “classico”, l’assetto sonoro delle pellicole è uno dei principali aspetti a incontrare una sostanziale ridefinizione.95 Vittorio Gelmetti (Milano 1926 – Firenze 1992) è senza dubbio il più attivo “ideologo” della militanza compositiva nel cinema degli anni Sessanta. Nonostante il non altissimo numero di titoli cinematografici a cui collabora, circa una trentina in trent’anni di attività, è uno dei pochi compositori a prender parte all’acceso dibattito cinematografico di quella decade, anche perché è uno dei pochi a investire buona parte della propria poetica sulla cosiddetta musica “applicata”, aggettivo contro il quale si è scagliato più volte nel corso della sua attività. IV. Vittorio Gelmetti e la “musica-verità” [P]urtroppo è invalsa l’abitudine di pensare alla musica applicata come a una musica di categoria B, a un sottoprodotto musicale. Ma la musica da concerto, cioè la musica come tale, ha un arco storico abbastanza breve (150 anni) e oggi possiamo anche dire che è morta o sta morendo. La musica è sempre esistita in funzione di qualche cosa: o in funzione del teatro o con una funzione sociale ben precisa.96 Autodidatta, trasferitosi a Roma nel 1938 dopo un’infanzia trascorsa a Bardolino, sul lago di Garda, giunto “solo” trentaduenne alla prima pubblica esecuzione di una sua composizione,97 non è forse casuale che la sua vicenda musicale sia animata da interessi “di confine” (numerose sono le musiche di scena oltre alla musica cinematografica, tra le quali spicca la collaborazione con Carmelo Bene), da una partecipazione critica all’avanguardia, e da una fervente attività di animatore culturale (nella seconda metà degli anni Sessanta è responsabile della sezione musicale del periodico «Marcatrè»),98 uniti «In terms of film presentation, the quality of sound reproduction declined radically. When the studios owned the theaters, technical advances could be implemented during the production process with assurances that the theater environment would be able to handle the advance. It can be argued that speaker technology and noise reduction may have advanced much faster if the studios had not been required to divest. [...] The breakup of the studio system affected sound production and sound personnel as well. [...] As a result, films were no longer produced entirely within the confines of the major studio facilities, and the impact on film sound production was immediately apparent. Sound departments were dismantled or spun off as separate corporate entities. Production shifted to the independent production companies, and house styles at the studios – which had developed because of the shared assets of film libraries and sound personnel – dissipated»; WHITTINGTON 2007, pp. 2830. 96 GELMETTI 1975, p. 92. 97 Musica per quattro archi (1957), eseguita e radiodiffusa nel 1958; cfr. GELMETTI 1984, pp. 17-20. 98 DE MEZZO 2007, p. 543. 95 95 Maurizio Corbella a una buona propensione all’attività polemista e divulgativa. Marco Alunno lo ha definito un «intellettuale “sospettoso” [...], in primis un osservatore che, con spirito assai critico, ha operato sovente in reazione a quelle che erano le scuole di pensiero accreditate [...] senza, per questo, abbandonare mai la strada della ricerca e dell’avanguardia».99 Egli è forse il compositore in cui si avverte la maggiore continuità tra ricerca musicale e attività cinematografica; tale continuità è nel segno della sperimentazione, inizialmente legata alla composizione elettronica. Dopo un esordio caratterizzato da studi sui parametri sonori realizzati grazie alle attrezzature l’Istituto Superiore delle Poste e delle Telecomunicazioni, della Discoteca di Stato e, successivamente, dello S2FM di Firenze, egli si concentra sull’idea di allargamento della sfera del musicale all’intera gamma dei fenomeni sonori della società contemporanea, avvalendosi della tecnica del collage. [Con] Treni d’onda a modulazione di intensità (1963) mi ero reso conto di essere affrancato da qualsiasi legame (positivo o negativo) con l’avanguardia. Il passo successivo, infatti, dopo circa tre anni di silenzio, è il collage Nous irons à Tahiti (1965). In quel momento divengo assolutamente un isolato, le influenze intellettuali che mi agiscono come compositore non vengono quasi più dalla musica, vengono da altrove, e preciso: per me è stato decisivo l’incontro con la pop art. L’appropriazione del già esistente (di ascendenza dada) e l’inserzione del preesistente in un contesto inconsueto, il significato “secondo” che assume il preesistente se inserito in un contesto desueto, sono le determinazioni che si è trovato alla base di una lunga fase di attività che potrei definire la mia seconda maniera. 100 È proprio in relazione a quest’attitudine da «predatore» dell’esistente, resa possibile dalla fonografia, che prende forma la poetica cinematografica del compositore, esposta compiutamente in un intervento presentato in occasione del convegno “Il film sonoro” organizzato dalla rivista «Filmcritica» ad Amalfi nel 1968, intitolato provocatoriamente Musica-verità?. Gelmetti è l’unico compositore a prendere la parola in quest’occasione, accanto a lui ci sono critici cinematografici e intellettuali dell’ambiente di «Filmcritica» (Edoardo Bruno, Armando Plebe), semiologi, filosofi e studiosi di comunicazione (Guido Marpugno-Tagliabue, Antonio Napolitano, Emilio Garroni), 99 ALUNNO 2004, p. 190. 60. 100 GELMETTI 1984, p. 96 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta cineasti come Alberto Lattuada e Alfredo Leonardi, e tecnici del suono come Paolo Ketoff.101 La riflessione di Gelmetti parte dall’amara constatazione che il cinema contemporaneo si trova nella situazione ormai endemica di negarsi come medium dotato di specificità e autonomia linguistiche, avendo piegato i suoi mezzi ai contenuti del romanzo e del melodramma, e avendo di conseguenza imposto alla musica la patina dell’affabilità impersonale, destinata a collocarsi su un livello di accondiscendenza delle convenzioni più consumate, attraverso «abili maquillages che i musicisti specializzati in cinema hanno imparato a fare con abilità ed indifferenza, confortati dalla facilità con cui il prodotto cinematografico tende a distruggere ogni residuo di naturalezza». Un linguaggio stereotipo, alienante e leggero è stato via via codificato con la compiacente complicità di editori, registi e produttori. [...] Tuttavia non bisogna dimenticare che il potere qui detenuto da una serie di musicisti che, nel momento in cui stavano per disperare, hanno trovato un provvidenziale impiego di imbalsamatori.102 L’atto d’accusa non potrebbe essere più netto e severo, e si inserisce a pieno titolo nel generale clima di rottura tra avanguardia e disimpegno che negli anni a cavallo del Sessantotto assume spesso toni aspri e apodittici, e allo stesso tempo richiama indirettamente temi da sempre dibattuti nell’ambito teorico, come la questione dello specifico musicale cinematografico, al centro del testo di riferimento di Adorno e Eisler.103 Solo che, mentre i due autori alla fine degli anni Quaranta si muovevano sul versante morfologico, sostenendo che non esiste una “forma cinematografica” della scrittura musicale, la quale deve semmai attingere al rinnovato patrimonio formale della Purtroppo la pubblicazione degli atti del convegno, spesso ricordato anche come “Amalfi 2” (l’anno precedente si era tenuto nella stessa località un convegno intitolato “Popolarità, comunicazione, rivoluzione” nel quale, per inciso, aveva partecipato anche Gelmetti), avviene in maniera frammentaria e spezzettata nelle diverse uscite di «Filmcritica», la rivista promotrice dell’iniziativa, fino al 1970. Dopo evidenti problemi di pubblicazione, alcuni interventi vedono infine la luce sotto forma di riassunti. Ecco comunque un elenco dei titoli relativi al convegno usciti sul periodico: «Filmcritica», 185, gennaio 1968: Armando PLEBE, Introduzione al Convegno su “Il film sonoro”; Guido MORPURGO-TAGLIABUE, Fattore visivo e fattore auditivo nel film; Vittorio GELMETTI, Musica-verità?; Emilio GARRONI, Per una teoria del film sonoro; «Filmcritica» 186, febbraio 1968: Edoardo BRUNO, Amalfi 2; AAVV, Il manifesto di Amalfi; «Filmcritica» 187, marzo 1968: Giorgio TURI, Il suono nella comunicazione filmica; Paolo KETOFF, Presa diretta e colonna guida; Antonio NAPOLITANO, Correlazione audio-visiva nel film; «Filmcritica», 194, gennaio 1969: Il film sonoro, a cura di Gianni L. Dalla Valle [riporta i riassunti degli interventi di Alberto Lattuada, Nuccio Lodato, Renato Tomasino, Bruno Widmar]. 102 GELMETTI 1968, p. 111. 103 ADORNO-EISLER 1947. 101 97 Maurizio Corbella musica del primo Novecento, sul modello dell’op. 34 di Arnold Schönberg, Gelmetti, forte della propria esperienza sperimentale, avanza una proposta interessante, per quanto apparentemente poco seguita nel prosieguo della disciplina cinematografica (ma in compenso imparentata abbastanza strettamente con sviluppi della neonata video-arte): accogliere, attraverso le moderne tecniche del collage e della rielaborazione elettroacustica, la molteplicità delle manifestazioni musicali e sonore della società contemporanea, vale a dire compiere una vera e propria operazione di fonografia. Oggi il mondo sonoro in cui siamo immersi si presenta con caratteri di complessità e con una presenza massiccia e talvolta opaca che non può in nessun caso essere ignorat[a]. […] Ciascuno ritaglia una sua audiosfera in cui isolarsi; ma c’è ancora la radiolina a transistors, l’autoradio, la radio sui pullmans, sui treni, nei supermarkets, i juke-bokes, i dischi da consumare in casa: la musica è ovunque disponibile […]. E tutto ciò si mescola con la gamma di tutti i rumori industriali, dal boato dei jets al complesso background sonoro della città. Di questa situazione complessa soltanto un’area ristretta della musica contemporanea si è resa chiaramente conto, facendo definitivamente saltare le barriere tra suono e rumore, tra strumento e oggetto, dichiarando decadute tutte le distinzioni di genere, ogni differenziazione nobiliare (nobiltà del canto sul parlato, della musica da concerto su quella di consumo, ecc.).104 Non sfugge a Gelmetti che l’abbattimento delle barriere testé descritto ha, almeno in potenza, per il cinema una conseguenza diretta sull’assetto produttivo. Il compositore inteso in senso tradizionale si trova a svolgere nel cinema contemporaneo un ruolo ridondante, e spesso dannoso, poiché una musica per film costruita sui «cascami di una cultura musicale di seconda mano» non produce che danni in opere di buon livello, immettendo in esse elementi «del tutto estrane[i] al prodotto di cui [avrebbe] dovuto far parte integrante», al punto che «molti registi si sono resi conto che la musica (almeno in tali condizioni) non serve al loro film e ne hanno fatto a meno, puntando sui rumori, sugli effetti, sul dialogo, ottenendo a volte singolari risultati». 105 La pars construens del ragionamento gelmettiano sta nella proposta di tenere conto delle recenti acquisizioni della musica contemporanea, in modo da recepire l’intero spettro del suono di un film come una categoria unica da approcciare con un progetto unitario e coerente. 104 GELMETTI 1968, pp. 105 Ivi, 98 pp. 113-114. 112-113. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Soltanto nella misura in cui cadranno tutte le distinzioni tra musica ed effetti sonori, tra dialogo e colonna internazionale, per intendere tutti gli eventi sonori come musica o, se lo si preferisce, ogni musica come evento sonoro non privilegiato, soltanto a queste condizioni può iniziare ad istituirsi un discorso sulla possibilità di un film sonoro. 106 Quando Gelmetti parla di far cadere le distinzioni tra queste componenti «per intendere tutti gli eventi sonori come musica» o «ogni musica come evento sonoro non privilegiato» sta in un certo senso invocando senza citarla una delle acquisizioni più importanti del Novecento musicale, con la quale si confrontano gran parte delle esperienze elettroacustiche del secondo dopoguerra: l’idea di musica come suono organizzato formulata da Edgar Varèse. La novità della sua posizione sta, tuttavia, nello smarcarsi dagli approcci debitori della tradizione concreta francese, in cui gli eventi sonori erano trattati «come materiale sonoro primario da elaborare e trasformare», per optare invece su un loro utilizzo «nella loro piena identità (cioè con il massimo di riconoscibilità) e spesso soltanto contrapposti e sovrapposti ad altri eventi (il che poi conferisce loro un significato secondo)», richiamandosi dunque esplicitamente a quelle tendenze collagistiche percorse in Italia in quegli stessi anni da Giuseppe Chiari, Aldo Clementi e Sylvano Bussotti (con i quali peraltro Gelmetti condivide molteplici esperienze). [Tutto] ciò che mi sta intorno diviene oggetto di un cosciente saccheggio. Mi interessa la storia della musica (tutta), le tradizioni popolari europee e no, il mondo dei suoni – naturali o artificiali che siano – nella sua complessità e totalità. 107 Questo modo di procedere, apparentemente fuori dalla linea di ciò che per convenzione comune (stereotipa) si denomina musica, è l’unico modo per tentare di cogliere il senso della realtà odierna e per tentare di esprimere l’intelligenza del nostro tempo con mezzi musicali (o se lo si preferisce sonori). In alcuni casi si è giunti ad una sorta di reportage fonografico, in cui l’intervento del musicista è stato minimo o nullo, registrando su nastro magnetico una serie di eventi sonori quotidiani tra i più comuni (traffico stradale, stazione ferroviaria, interno di chiesa, officina, partenza di jet); in tal caso si è avuto soltanto una scelta dei momenti e dei luoghi in cui registrare, accettando tut- 106 Ivi, pp. 115. 107 GELMETTI 1984, p. 60. 99 Maurizio Corbella ta l’aleatorietà di tali eventi e le immancabili distorsioni derivate da tali registrazioni. Si è parlato a tale proposito di musica-verità o di fonografia. 108 Nel 1968, quando il compositore presenta questo intervento, può basarsi su un corpus di partecipazioni cinematografiche nelle quali ha già messo in atto il principio di “musica-verità” esposto in queste righe. In Nous irons à Tahiti [1965],109 mediometraggio di Christian Motter e Paolo Brunatto che «riproduce la giornata di un impiegato svizzero girato con lui stesso per protagonista», [l]a colonna sonora nasce, evidentemente, per contestare e per convalidare tale realtà di alienazione e di totale integrazione. A tale scopo viene elaborato del materiale sonoro tratto dal flusso eruttato dalla filodiffusione, e montato in modo da conservare al nuovo significato che viene via via assumendo, l’originale, o buona parte della originale, semanticità. Si opera, quindi colla musica stessa presa come materiale oggettivo ma non si rinuncia ad agire in modo razionale. I materiali impiegati sono prevalentemente musica di consumo (canzoni, arrangiamenti noti, ecc.), jazz, e in minor misura musica romantica (Chopin, Concerto n. 1) e frammenti di opere dello stesso autore. La firma dell’autore è giustificata dalla elaborazione elettronica ottenuta mediante filtraggio di banda, variazione di velocità (accelerato, decelerato in modo costante oppure glissato), spazializzazione con riverberatore. Procedimento che non intende annullare in un pastiche la realtà accettata ma solo citarla. Ne risulta un effetto strano di realismo in quanto ci accorgiamo spesso che quella deformazione di Chopin o di una canzone che rileviamo in Nous irons à Tahiti la riconosciamo già nell’ascolto-radio, nel ricevere casualmente più fonti sonore da più punti dello spazio, nell’ascoltare, per un’attimo, musica passando a gran velocità con l’automobile davanti ad un bar e in tante altre esperienze che la nostra vita nelle città moderne ci offre spesso.110 Con La tana di Luigi Di Gianni [1967], mediometraggio che racconta di un «un uomo che vive rintanato in una vecchia casa... e assiste impotente alla propria disgregazione»,111 siamo praticamente in presenza di un film muto, dal punto di vista della componente verbale. La stratificata presenza sonora comprendente musica elettronica, acustica e concreta, effetti di sottofondo di pp. 115-116.. Mentre non mi è stato possibile rintracciare il film, segnalo che la composizione musicale omonima è stata pubblicata in GELMETTI 1997, cfr. DISCOGRAFIA. 110 CHIARI 1966, p. 43. 111 DE SANTIS s.d. 108 Ivi, 109 100 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta vento, integrati a suoni che ricordano le Ondes Martenot o il Theremin, creano un continuum in metamorfosi perpetua che di volta in volta emerge e si re-inabissa. A intermittenza compaiono lunghi accordi di flauti e archi e il suono di un clavicembalo che gradualmente diventa lo strumento conduttore. Voci umane, esplosioni, voce della radio e della televisione, parole incomprensibili: diventa evidente che il “punto d’ascolto” dello spettatore è l’interno della mente del protagonista in inesorabile disgregazione. In Hermitage di Carmelo Bene (1967), il contributo di Gelmetti, se si eccettua l’incipit sulla linea degli esempi già citati, consiste in un montaggio dalle ultime scene di Un ballo in maschera di Verdi, mentre il progetto più ambizioso a cui Gelmetti prende parte nell’ambito di questa produzione d’avanguardia è A mosca cieca di Romano Scavolini (1968), lungometraggio inizialmente di sei ore ridotto nel corso della lavorazione. Anche in questo caso, per stessa ammissione del regista, siamo alle prese con un film muto in cui la colonna sonora doveva in sostanza sostituire il dialogo. Gelmetti fu coinvolto in A mosca cieca verso la fine del montaggio. La lavorazione di A mosca cieca fu abbastanza lunga per un cortometraggio di quel tipo. Inizialmente il film durava sei ore ed era articolato su tre livelli distinti. Decisi di tagliare un livello del racconto e ristrutturare il film su due livelli, poi alla fine mi convinsi che ne sarebbe comunque scaturita un’opera non omogenea, da come l’avevo concepita, quindi decisi di focalizzare il racconto su un solo piano narrativo. Fra riprese e montaggio il film durò un anno. [...] [A] Gelmetti [...] dissi testualmente che il film sarebbe stato praticamente muto e che la colonna sonora che desideravo doveva in sostanza sostituire il “dialogo”. Gelmetti aveva realizzato per Il deserto rosso solo alcuni brani. A mosca cieca era in sostanza il vero primo film che Gelmetti avrebbe musicato integralmente dal primo all’ultimo fotogramma. Si trattava di una colonna sonora molto particolare, dato che doveva coprire tutto l’arco narrativo. Ancora oggi considero la colonna sonora del film un esempio straordinario di come il suono (da chiavi di lettura sinfoniche ad estrapolazioni di rumori e parole) dovrebbe partecipare alla drammaturgia filmica. La casa discografica CAM mise a disposizione di Vittorio Gelmetti un’orchestra di oltre cento elementi ed io seguii tutta l’esecuzione e la registrazione diretta dallo stesso Gelmetti con proiezione di volta in volta delle scene del film di fronte all’orchestra. Fu un’esperienza incredibile!112 ROMANO SCAVOLINI, comunicazione personale, 19 luglio 2009. Su questo film e su La prova generale, il successivo di Scavolini con musica di Egisto Macchi, cfr. anche D’ARBELA e SCAVOLINI 1967. Per una panoramica sulla figura dell’autore, segnalo il documentario Ritratto di Romano Scavolini, (r. Paolo Brunatto, 2004), all’interno del ciclo televisivo in 12 puntate Schegge di utopia. L’underground italiano questo sconosciuto, a cura di P. Brunatto, Cult Network Italia, 2004. 112 101 Maurizio Corbella La frequente occorrenza di tipologie filmiche in cui prevale l’idea di film “muto”, in cui cioè vi è una dissociazione tra l’evento visivo e gli eventi sonori che si ascoltano, non è certamente casuale, bensì una diretta conseguenza dell’approccio gelmettiano. Il dispiegarsi nel tempo della componente sonora non coincide con quello della componente visiva, non si creano cioè effetti di sincrono se non strettamente necessari, e ciò determina (o così dovrebbe) nello spettatore un atteggiamento critico, vigile, o comunque opposto a quello rapito di fronte a un cliché in stile hollywoodiano. Alla sincronizzazione non ho mai prestato eccessivo credito: penso che possa funzionare in quei casi di musiche ed immagini senza spessore, bidimensionali, lucide come cartoline colorate in cui si tratta tout court di arredare con qualche gradevole ed anonimo oggetto sonoro alcune immagini altrettanto gradevoli ed anonime. Dunque montaggio: fase in cui è possibile collocare esattamente la musica ove si vuole e dove è possibile creare quelle sovrapposizioni di elementi ritenuti necessari. 113 Ciò si presta particolarmente alle modalità narrative scelte dagli autori con cui Gelmetti collabora anche al di fuori della cinematografia cosiddetta “d’avanguardia”. In collaborazioni quali quella con i fratelli Taviani per Sotto il segno dello scorpione (1969), o con Giuseppe Ferrara per Il sasso in bocca (1970) la musica, pur tornando a ricoprire un ruolo circoscritto, si integra profondamente con il progetto drammaturgico dei registi. Sappiamo, sulla base delle dichiarazioni dello stesso compositore che, nel caso dei Taviani, egli viene coinvolto fin dalla fase di stesura della sceneggiatura, in questo senso rispettando gli auspici manifestati nell’intervento di “Amalfi 2”. Il peculiare impianto narrativo del film coinvolge in larga parte l’elemento sonoro, contravvenendo una serie di convenzioni, prima fra tutte quella della comprensibilità della parola; le voci di questa narrazione corale e polifonica, ricostruite in sala di doppiaggio prendendosi ampie libertà creative, in più di un’occasione si sovrappongono le une sulle altre, vengono superate dai rumori ambientali o dalla musica; il risultato è un distacco critico dello spettatore, che è forzato a seguire la vicenda con uno sguardo esterno e vigile, quasi che su alcune parti del racconto, in alcuni dialoghi solamente intuiti, si possa inserire la didascalia “eccetera”: [...] il doppiaggio è per noi un momento creativo: scoperta di nuove possibilità, invenzioni e variazioni: possibili solo sulla base del già fatto, del materiale 113 GELMETTI 1974, pp. 102 c68-c69. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta girato, montato, musicato. Una possibilità che la presa diretta escluderebbe, condizionandoci a scelte fatte una volta per tutte La presa diretta può risolversi in una scelta che alla fine risulta di tipo naturalistico. Ti impedisce di inventare dei fondi sonori, legati non tanto al dato realistico della scena stessa, ma al ritmo musicale di tutto il film. Noi [...] non vogliamo togliere all’atteso momento del mixage la sua potenzialità espressiva dell’ultimo minuto.114 Potremmo quasi spingerci ad affermare che la musica, per come è concepita da Gelmetti, entri a far parte delle componenti del doppiaggio, proprio come una voce tra le altre, anche se dotata naturalmente di qualifiche espressive non verbali. In larga misura costruita su procedure aleatorie, consente al compositore (in concorso con i registi) la massima flessibilità fino al momento della registrazione. Implicito poi nella scelta delle lunghe fasce sonore orchestrali e corali, l’impiego della tecnica aleatoria che, con la sua flessibilità, mi avrebbe dato modo, al momento della registrazione, di apportare seduta stante quelle modifiche che si fossero rese necessarie. Tale tecnica, nel caso specifico, consisteva nell’assegnare a ciascun esecutore un suono soltanto ed un tipo solo di emissione del suono per ciascun brano da registrare (e precedentemente già assegnato ad una sequenza). 115 Ne scaturisce un impiego della musica in funzione né di commento né tanto meno di ambientazione “realistica”, bensì di “escrescenza” metatestuale: la componente musicale si impone infatti attraverso le sue caratteristiche metamusicali, come per esempio la dimensione temporale “pura”. Le «scansioni ritmiche» che costituiscono una delle matrici aleatorie composte dall’autore,116 assumono una funzione simile a quella delle frequenti dissolvenze a nero che frammentano la narrazione visuale, condensano il “non detto” del film in una breve e densissima cellula musicale: Le scene musicali sono legate fra loro da pezzi di pellicola nera, per permettere al pubblico di distanziarsi dal film onde giudicarlo (e quindi, precisano i Taviani, «le code nere divengono anche misure, battute musicali, ritmo car114 TAVIANI 1971, pp. c49-c50. p. c68. 116 Gelmetti precisa di avere lavorato predisponendo differenti matrici sonore di natura aleatoria (peraltro chiaramente percepibili nello svolgersi del film) «da cui estrarre, all’atto dell’esecuzione stessa (e pertanto ripetibile e modificabile), la musica desiderata. Infatti, una volta assegnato a ciascun esecutore un suono ed un modo di emissione, all’atto dell’esecuzione tutto il resto rimaneva affidato al direttore (e cioé: suono o silenzio, durata dei suoni, intensità dei suoni e, soprattutto, gli impasti timbrici contenuti nella matrice iniziale)»; ibid. 115 GELMETTI 1974, 103 Maurizio Corbella diaco in un film come lo Scorpione che, se ha dei riferimenti negli altri linguaggi, li trova non nella letteratura o nella pittura, ma nella musica»).117 La componente temporale del testo audiovisivo è sicuramente quella che presenta i maggiori margini di creatività nel contesto dell’apporto gelmettiano anche nell’altro film citato, vale a dire Il sasso in bocca di Giuseppe Ferrara. In una sequenza centrale del film, nella quale vengono illustrati i rapporti tra mafia siciliana ed americana, dal punto di vista visivo osserviamo un découpage imperniato sui simboli del consumismo americano e della società siciliana, mentre acusticamente avvertiamo la sovrapposizione (fortemente debitrice delle esperienze collagiste di Gelmetti) di musiche tradizionali sicule e scampoli del repertorio americano contemporaneo, da Hollywood a Broadway passando per il surf, alla quale si aggiunge una narrazione verbale organizzata attraverso una coralità di voci sovrapposte come in uno zapping radiofonico. L’impressione che se ne ricava è di una forte accelerazione temporale basata sull’estrema capacità di sintesi che il tessuto audiovisivo così orchestrato possiede, ma soprattutto di una condensazione semantica prettamente e specificamente audiovisiva. La forma coincide con il contenuto. 117 COMUZIO 1977, p. 104 112. 3 Alla ricerca di un immaginario Funzioni culturali del suono elettroacustico nel cinema narrativo Il 20 gennaio 1967 il Synket viene presentato a Roma da John Eaton di fronte a una platea di compositori americani e italiani, ingegneri del suono, e giornalisti. Tra questi ultimi, c’è una scrittrice di nome Joan Marble, corrispondente dell’edizione internazionale del «New York Times», che sarebbe poi stata autrice di alcuni libri di “costume” sulla sua vita romana divisa tra la città e la campagna a nord della capitale, e che in quest’occasione offre una gustosa recensione dell’evento. Per il modo in cui descrive le sue impressioni di spettatrice non addentro il mondo della sperimentazione, ma immersa nella vita culturale romana (moglie, tra le altre cose, dello scultore Robert Cook), penso valga la pena di riportare l’articolo quasi per intero. Una macchina che sfiata come una balena, sibila come una cetra ed emette rumori inquietanti e supersonici è stata presentata a Roma. La macchina, chiamata Synket, è invenzione di un tecnico del suono italiano di nome Paolo Ketoff e assomiglia a un centralino telefonico sovrapposto a una pianola da bambino. Poiché il signor Ketoff è prevalentemente un tecnico del suono per film e studi di registrazione, la supposizione era che si trattasse soltanto di un altra scatola per produrre rumori per il cinema italiano. Ma tale supposizione era sbagliata. I musicisti seri, specialmente i musicisti elettronici, sono particolarmente seriosi e nervosi riguardo al Synket. In realtà quando settimana scorsa a Roma si tenne un meeting scientifico per dimostrare la macchina, Maurizio Corbella c’erano molti più compositori italiani e americani nel pubblico che ingegneri elettronici. E quando John Eaton, un giovane compositore americano con una rossa barba edoardiana si sedette e indossò gli auricolari per la sua Composition for Synket 1 nella grande sala si sarebbe potuta sentire cadere una foglia. Spine e luci Il signor Eaton si guardava intorno come un centralinista, staccando spine, osservando luci abbaglianti e ascoltando. Quindi, cinque minuti dopo, si tolse gli auricolari e cominciò a suonare. (Più tardi avrebbe spiegato che il suo daffare preliminare serviva ad accertarsi che tutte le spine fossero negli ingressi giusti e che nessuno dei cavi fosse incrociato). Quando cominciò a suonare, a molti del pubblico sembrò che il compositore stesse cercando di mescolare rumori da altri pianeti con suoni di uccelli e animali. Dapprima c’erano uccelli che cantavano, forse usignoli, poi il verso del grillo e quindi sembrò di udire bambini che giocavano a campana. I grilli ripeterono il verso, sbatterono ali, un bulldog arrivò e abbaiò e quindi un disco volante planò ed espulse un acuto (highpitched) gentiluomo di Marte che non perse tempo a liberare un incredibile strillo. Cinque signore di Marte volarono immediatamente dietro di lui e mescolarono i loro strilli con il suo e quindi l’intera area cominciò a vibrare come una macchina demolitrice. I grilli persero la testa e cominciarono a strepitare all’unisono, il gioco dei bambini diventò un tutti-contro-tutti e infine una balena rollò su una riva tempestosa fischiando una gioiosa melodia che solo un’altra balena avrebbe potuto capire. A questo punto le impressioni si fecero confuse. Le onde dell’oceano si ruppero sui grilli, qualcuno tese selvaggiamente un arco aborigeno, un banshee gemette,2 una motocicletta cominciò a carburare, un matto lunatico strepitò, scoppiò la guerra in Mongolia, una Mercedes si schiantò contro una casa di cristallo e sette miliardi di zanzare volarono dallo spazio e cominciarono a bombardare in picchiata il pubblico. Nostalgicamente piacevole La musica che proviene dal Synket sembra sistematicamente e persino nostalgicamente piacevole. Secondo gli esperti questo è precisamente lo scopo del nuovo macchinario musicale. Fornisce ai compositori elettronici un sintetizzatore portatile; fino a oggi i musicisti hanno dovuto affaccendarsi in stanze piene di costosi equipaggiamenti elettronici per ottenere i loro rumori e hanno dovuto pre-registrarli per i loro concerti. Con il Synket il compositore ha un intero repertorio di nuovi suoni affascinanti nelle sue dita. «Cose che necessiterebbero di parecchi giorni e di differenti macchine e processi possono ora essere ottenute istantaneamente», ha detto il signor Eaton. Parimenti, il Synket offre ai compositori una possibilità di pensare nuovi motivi musicali, È verosimile che si tratti di un titolo generico dato a un’improvvisazione. Il Banshee è una creatura mitologica irlandese; inoltre indica anche due modelli di bombardieri statunitensi usati nella Seconda Guerra Mondiale. Banshee è anche il nome di una composizione di Henry Cowell del 1925. 1 2 106 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta combinarli e filtrarli in differenti ritmi, eliminarli, raggrupparli, trascriverli, e infine ascoltare cosa ne vien fuori.3 Figura 12: Riproduzione di MARBLE 1967; nella foto Paolo Ketoff (sx) e John Eaton (dx) intorno al Synket. 3 MARBLE 1967. 107 Maurizio Corbella Credo di non essere troppo zelante, se affermo che questa recensione offre un campione rappresentativo della reazione a un evento che potremmo classificare a metà tra il culturale e il mondano, in cui la narratrice è un buon esempio di pubblico tipico di una certa fascia culturale medio-elevata, perfetto spettatore da cinema d’autore con rare incursioni “alla moda” nell’avanguardia. Il registro giornalistico, brillante, leggero e compiaciuto, rende a mio modo di vedere manifesto l’inconsapevole spaesamento nei confronti di un evento del quale la cronista non riesce a cogliere il senso; ella è perciò portata, per descriverlo, a fare ricorso all’arte affabulatoria, basata su un pastiche di immagini esotiche, continui giochi di parole difficilmente traducibili e ironie leggere che ben si addicono al taglio del pezzo: sin dal titolo Something New in Serious Noise, dove l’aggettivo serious è da un anglofono istantaneamente associato alla musica “d’arte” (serious music), ma è giustapposto a noise (rumore), l’autrice cela la difficoltà, risolta con velata ironia, di circoscrivere l’orizzonte di azione dell’invenzione di Paolo Ketoff. Di fronte all’impulso di “liquidare” il Synket come il solito marchingegno, la solita scatola rumorosa («just another box to make noises»), che può esaltare forse i cinefili di serie Z ma non certo gli intellettuali impegnati, l’attenta cronista si trattiene per il fatto che i «musicisti seri sono molto seri[osi] e nervosi riguardo al Synket» (l’espressione inglese gioca in maniera quasi intraducibile sulla doppia valenza dell’aggettivo: «serious musicians [...] are very serious and nervous about Synket»). In altre parole, Marble avverte che l’intellighenzia intellettuale costituita dai compositori italiani e americani, convenuti in numero maggiore rispetto agli ingegneri, sta di fatto sancendo che si tratta di un momento importante e non dell’ennesimo specchietto per le allodole; ciò è legittimato dal fatto che a esibirsi è un compositore poco o nulla interessato al cinema come John Eaton. Ma, malgrado le migliori intenzioni, la reporter del «New York Times» finisce ella stessa per mettere in atto una descrizione che altro non è se non un “film verbale” che, ammesso non sia di serie Z, di sicuro non potrebbe ambire al Leone d’oro. Il candore dell’immagine della balena che intona una melodia che sarebbe anche gioiosa, se non fosse comprensibile esclusivamente a un’altra balena, è la manifestazione più palese che Marble delega ad altri di apprezzare il senso (se c’è) di quell’evento musicale. Nelle parole della scrittrice traspare in filigrana una società in cui il cinema che accoglie quel tipo di sonorità rappresenta la cultura bassa, triviale, mentre la musica, «specialmente elettronica», è l’emblema della cultura alta, «seria» appunto, anche se inconfessabilmente incomprensibile dal punto di vista dell’autrice dell’articolo: è quella frattura, ripetutamente denunciata negli anni Sessanta, tra due mondi che si scoprono irrimediabilmente lontani e sempre meno in comunicazione. Naturalmente si tratta di un’im- 108 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta magine provocatoria che va interpretata nei suoi limiti poco pretenziosi; tuttavia è utile per stilizzare la dinamica conflittuale eppure ancora sostanzialmente fertile che si instaura tra i compositori del milieu elettroacustico e il mondo della produzione sonora cinematografica. Ma anche volendo prescindere da una polarizzazione gerarchica del panorama culturale (alto/serio/d’arte – basso/triviale/d’intrattenimento), il tipo di descrizione fantasiosa offerta dalla recensione lascia emergere due paradigmi culturali entro cui viene letta e interpretata la novità sonora del Synket (e, per estensione, di tutti i sintetizzatori): da una parte un paradigma musicale, di cui Marble non è buona interprete, che poggia su una concezione del suono elettroacustico come elemento di un’organizzazione timbrica e sintattica all’interno di logiche compositive, dall’altra un paradigma cinematografico-visivo, che si avvale del patrimonio di associazioni e connotazioni attinte dall’immaginario culturale addensatosi intorno al suono all’indomani della rivoluzione fonografica. Per tutto il corso dell’articolo, Joan Marble si serve, nel descrivere gli inauditi suoni del Synket, di metafore e similitudini che fanno riferimento a un immaginario ben presente ai lettori del quotidiano, in quanto anche spettatori cinematografici: da una parte topoi narrativi raffiguranti l’ultra-tecnologico, come il mondo extraterrestre (marziani, dischi volanti), il mondo industriale (la macchina demolitrice) e la natura nelle sue manifestazioni sublimi o ancestrali (uccelli, cani, grilli, balene, zanzare, banshee e persino bambini); dall’altra situazioni caratterizzate da dinamismo narrativo, che fanno riferimento a condizioni di instabilità psichica, ambientale o sociale: «la situazione si fece confusa», «le onde dell’oceano si ruppero sui grilli», «un matto lunatico strepitò», addirittura «scoppiò la guerra in Mongolia» (significativa la collocazione esotica – che Marble faccia inconsciamente riferimento alle “invasioni barbariche” di Giulietta degli spiriti?). Perché le scelte descrittive di Marble risultino efficaci, la scrittrice deve chiaramente attingere a un repertorio di cliché largamente condiviso, ma così facendo testimonia anche della decodificazione automatica a cui il suono elettronico, nelle varie configurazioni possibili attraverso il Synket, è sottoposto alla metà degli anni Sessanta, se recepito da un ascoltatore non specialista. È questo un passaggio fondamentale, che ci dice quanto il suono elettronico e, più in generale, un certo tipo di elaborazioni elettroacustiche di materiali sonori, possiedano fin dalle loro caratteristiche primarie (timbro, grana, massa, morfologia, ecc.) un potenziale latente di innesco dell’immaginario dell’ascoltatore, superiore a quello dei timbri dell’orchestra tradizionale, fatto che li rende estremamente connotati ma in un certo senso limitanti sotto il profilo del linguaggio audiovisivo – in quanto si sa che, quando un mezzo è troppo 109 Maurizio Corbella connotato unidirezionalmente, esso può costituire un’arma a doppio taglio per un autore. Probabilmente questa è una delle ragioni che chiama molti protagonisti dell’avanguardia musicale degli anni Sessanta a una mal celata ostilità, almeno a parole, verso l’utilizzo dei mezzi elettroacustici nel cinema. Possiamo anzi affermare che il compositore, proprio perché conosce le ricerche connesse alle sperimentazioni elettroacustiche, è l’avversario più convinto di quella che ai suoi occhi appare come una degenerazione. Nel più volte citato programma radiofonico “Musica ex machina”, che rappresenta un’importante cartina di tornasole dell’atteggiamento dell’avanguardia romana nei confronti della divulgazione, proprio nella misura in cui cerca di fare il punto sulle tendenze italiane e internazionali della musica elettroacustica, si parla di cinema nella puntata intitolata “Musiche di consumo e collages”.4 L’accostamento è di per sé indicativo del taglio della trasmissione: lo scopo dei curatori è tracciare una demarcazione in quel nebuloso panorama che divide il consumo, sottomesso alle regole e all’impero del mercato capitalista, dall’utilizzo a fini estetici di elementi prodotti dalla stessa società dei consumi. È uno dei grandi temi della contemporaneità e uno dei filoni portanti del dibattito degli anni Sessanta, che ha consegnato a questo problema alcune delle pagine ancora oggi fondamentali. Ma torniamo alla trasmissione. La puntata comincia in medias res, portandoci nel bel mezzo di un dialogo tra Vittorio Gelmetti e l’architetto Paolo Portoghesi. In sottofondo viene diffuso quello che di fatto è l’argomento della conversazione, il brano Modulazione per Michelangelo dello stesso Gelmetti. La scelta della prospettiva sonora da dare alla composizione non è casuale, dato che, come ci spiegano i due interlocutori, essa è stata concepita per essere diffusa nell’ambito della Mostra di Michelangelo (Palazzo dell’Esposizione, Roma, 1964) curata da Portoghesi, in particolare in corrispondenza con l’allestimento delle fortificazioni fiorentine, «il momento di massimo impegno civile di Michelangelo». In tale contesto, la composizione gelmettiana deve favorire l’immersione nell’ambiente architettonico ma al contempo stimolare una certa «tensione mentale», nel merito dell’oggetto dell’esperienza estetica: le fortificazioni michelangiolesche come «esperienza sostanzialmente eterogenea rispetto al resto della sua opera». Il discorso così impostato tematizza la più generale questione della musica “ambientale”, una musica che non va ascoltata in piena solitudine (interiore), bensì si inserisce a vari livelli nell’ambiente sociale. Nel consumo contemporaneoessa lo fa sempre più frequentemente attraverso il canale della registrazione e della 4 MUSICA EX MACHINA-VII 110 1967. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta diffusione, dunque ponendosi in omogeneità di condizioni con i mezzi dell’avanguardia e, soprattutto, nella «possibilità di intervenire con un tipo di suono sulla sensibilità acustica di decine di migliaia, addirittura di milioni di ascoltatori, quanti un concerto non potrà mai pretendere nello stesso tempo». Dall’ambientazione sonora alla diffusione radiotelevisiva, ai film, il suono deve corrispondere alla destinazione meccanica del mezzo e alla consumazione del prodotto, deve essere connesso ad altro tipo di manifestazione o espressione, deve essere realizzato e diffuso in maniera economicamente conveniente, deve quindi essere su nastro. 5 La musica elettronica, la tape music, la musica concreta, i prodotti insomma più recenti dell’avanguardia internazionale sono per loro natura anche i più adatti ai nuovi media. Dove sta dunque il problema nell’ottica di Domenico Guaccero e Pietro Grossi, curatori del programma? Nel fatto che tali media, e in particolare il cinema, al quale viene dedicato un ampio passaggio, si limitano a utilizzare i mezzi di fissaggio e riproduzione sonora come mera duplicazione di suoni noti, emarginando le ampie possibilità espressive delle pratiche elettroacustiche ad ambiti circoscritti della narrazione di genere. 6 Ci chiediamo: è valido in senso estetico, quando la musica per film ha almeno pretese estetiche [...], il processo di fotografare degli strumenti, di fissarli su nastro e non come surrogato di un ascolto dal vivo, come nel caso del disco o della radio, proprio per una sua destinazione che si presume naturale? Quando ascoltiamo un flauto, un violino in una colonna sonora per film, sentiamo subito l’inautenticità dell’operazione: aver fissato, fotografato, non un materiale vissuto, una realtà materiale, ma una realtà già artificiale – lo strumento con la sua scala di frequenze, il suo timbro, che è un fatto non della natura o della vita umana, sottospecie della quotidianità, ma dell’artifizio già artistico. Altra cosa sarebbe se si filmasse un flautista o un violinista che suona. Ben inteso, questa inautenticità può essere sfruttata nel contesto del fatto filmico tutto interno per opposizione o per subordinazione, o per predominio sull’immagine visiva. Pure, quello che sembra congeniale, visto così in astratto, al tipo di tecnica, trasposizione, montaggio del visivo filmico, è proprio la tape music.7 5 Ibid. 6 L’argomentazione è in linea con la riflessione di Cage discussa nel CAPITOLO 2.III. 7 Ibid. 111 Maurizio Corbella L’argomentazione è qui sensibilmente involuta, perché in essa si sovrappongono più piani evidentemente sentiti come urgenti nel ragionamento, che non si riescono a tenere separati. Spostare la questione in termini di “autenticità” vuol dire in sostanza sottintendere una posizione alquanto diffusa nel dibattito culturale del periodo: il cinema mainstream, figlio dell’impostazione classica hollywoodiana, è mistificatore, in quanto vende un prodotto ampiamente costruito, per di più seguendo un repertorio di convenzioni e regole piuttosto ferreo, come se rispondesse a logiche di naturalezza, come se restituisse una copia autentica della realtà, quando invece plasma l’inerme spettatore somministrandogli “valori” dell’ideologia borghese. Ciò succede tanto per l’immagine quanto per il suono, con in più il fatto, sembrano sottolineare Guaccero e Grossi, che in ambito musicale esso sceglie di far passare come naturale, attraverso la registrazione, il repertorio musicale meno adatto a tale scopo, vale a dire quello della musica da concerto suonata con strumenti tradizionali. Il suono elettronico e i procedimenti di manipolazione o montaggio del nastro magnetico, quando ci sono, compaiono relegati in una prospettiva topica (ambientazioni fantascientifiche, situazioni narrative che inscenano stati psico-fisici alterati), fornendo ancora una volta un mendace suggerimento di autenticità, per cui il suono elettroacustico diventa in un certo senso lo strumento di verosimiglianza dell’inverosimile o della devianza, con un potenziale espressivo neutralizzato in partenza. Ahi noi, la musica elettronica per film è divenuta moneta corrente, è stata consumata, in quanto commento fantascientifico, proprio per quel che di astrale, di tellurico, di estremamente libero, sperimentale, parascientifico, magico hanno i mezzi elettronico-concreti.8 Se l’equivalenza musica elettronica=fantascienza/devianza del reale è ciò da cui il compositore sente di dover fuggire, ecco spiegato perché egli si rivolga con sguardo attento verso esperienze cinematografiche contemporanee che mettono in questione da principio il linguaggio cinematografico stesso, o lo utilizzano con particolare padronanza e ironia: è il caso del cinema d’autore italiano di Antonioni, Fellini, Pasolini o Bellocchio, del cinema d’avanguardia di Scavolini (intervistato proprio in occasione di questa puntata radiofonica) o Leonardi, della nouvelle vague o ancora del cinema americano di Hitchcock o Welles. Fin qui il ragionamento è noto, e comune a molti altri ambiti del dibattito intellettuale di quegli anni. Ma i problemi, per chi analizza, comin- 8 Ibid. 112 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta ciano proprio nel momento in cui si prendono in esame i film di questo tipo che fanno uso di procedimenti sonori elettroacustici e ci si rende conto che molti di essi sono pienamente apprezzabili solo utilizzando come termine di riferimento proprio la norma che caratterizza il mainstream, la quale può essere rovesciata, elusa o trattata con maestria, ma sempre in quanto tale funziona. Ciò accade sostanzialmente perché anche sui registi agisce, seppure in maniera sorvegliata, l’immaginario che connota il suono elettroacustico. Dopotutto, dal momento che anche Guaccero e Grossi riconoscono ai mezzi elettronici la proprietà di rimandare a un’immaginario archetipico «di astrale, di tellurico, di estremamente libero, sperimentale, parascientifico, magico», è abbastanza evidente che è in questo aspetto del problema che dobbiamo addentrarci per comprendere il tipo di utilizzo cinematografico dei mezzi elettronici. Invece di trattarlo come un dato di fatto che dà luogo a cliché, è opportuno comprenderne il più possibile le ragioni di necessità storica, le cifre personali di elaborazione espressiva e, casomai, anche quelle del suo rifiuto. Il primo passo consisterà dunque nel provare a rintracciare, sulla scorta di un campo di studi già ampiamente dibattuto, la genesi storico-culturale di tale potenziale, individuando, nel nesso tra la riflessione sul suono e l’introduzione delle tecnologie generativo/riproduttive di inizio XX secolo, la materializzazione di archetipi dell’immaginario occidentale moderno. Successivamente, si tratterà di domandarsi come tale immaginario si riconfiguri nel dopoguerra, in particolare negli anni Sessanta, come conseguenza delle acquisizioni scientifiche, del fiorire delle neoavanguardie musicali e dell’affermazione del cosiddetto cinema d’autore. Infine, proveremo (CAPITOLO 4) a calare tali tematiche nella realtà italiana degli anni Sessanta, individuando triangolazioni tra cinema, sperimentazione musicale e dibattito intellettuale. È difficile stabilire con esattezza l’origine delle connotazioni associate al suono elettroacustico. È possibile, comunque, mettere in successione una serie di constatazioni che ci aiutino a far luce, anche se solo parzialmente, sulle cause del fenomeno. Il primo sintetizzatore dell’epoca elettrica, il Telharmonium – chiamato anche Dynamophone dal suo creatore Thaddeus Cahill, per via del suo procedimento di sintesi tramite dinamo – rivoluziona profondamente le modalità di creazione ma soprattutto di percezione della musica sotto il profilo socio-culturale. Per quasi un decennio, dal 1904 al 1912, la città di New York vive un’esperienza di ascolto rivoluzionaria e sorprendentemente anticipatrice sui tempi, tanto che alcuni studiosi si sono spinti fino a vedere nel Tel- I. Sintesi sonora e fonografia nell’immaginario: estensione e spettro 113 Maurizio Corbella harmonium la prima manifestazione del concetto di muzak:9 il mastodontico sintetizzatore infatti, attraverso un complesso sistema che si serve delle linee telefoniche, trasmette musica prodotta in tempo reale in svariati punti della città, clubs, ristoranti, alberghi, negozi, ma anche strade. Reynold Weidenaar ha intitolato la sua fondamentale opera sul Telharmonium Magic Music From the Telharmonium, 10 riproponendo per intero il titolo di un articolo apparso sul «New York Times» nel 1906.11 L’idea di magia e di mistero evocata dal cronista deriva non tanto dallo stupore di ascoltare musica senza avere a portata d’orecchio la fonte diretta (per quello esisteva già il fonografo), quanto dal fatto di sapere che quella musica è suonata in contemporanea altrove, esattamente come accade nelle comunicazioni telefoniche. C’è una sottile differenza tra i due tipi di fruizione sonora, che vale la pena di rimarcare: nel sistema del Telharmonium è insito il fondamentale concetto di simultaneità, che permette di immaginarsi dall’altro capo del “filo” un essere vivente avvolto nel mistero che genera suoni e li fa giungere a noi attraverso l’etere, da cui la qualifica di musica eterea.12 In questa elementare nozione di simultaneità convivono in nuce numerose questioni destinate a esplodere con la diffusione della radiofonia e della televisione, che hanno interpellato categorie di grande impatto storico-sociale, dal potere (Attali) all’ecologia (Schafer), fino a realizzazioni estetiche (l’impianto narrativo di un film come American Graffiti di George Lucas si regge su questo nucleo concettuale).13 Ultima caratteristica da non sottovalutare è il timbro del Telharmonium: lo strumento che, nelle numerose versioni successive che perfezionano gradualmente le sue caratteristiche sonore, ha come scopo dichiarato l’emulazione della maggior parte dei timbri orchestrali, ha al contempo un suo colore timbrico letteralmente inaudito, che dobbiamo supporre essere stato motivo di stupore per un ascoltatore del tempo. A tale novità timbrica si aggiungono alcuni inconvenienti dovuti alla trasmissione elettrica, come gli improvvisi cali di tono conseguenti ai frequenti rallentamenti del meccanismo a dinamo, la diminuzione del volume in corrispondenza dell’aggiunta di voci simultanee, il peculiare attacco metallico delle note staccate, il brontolio 9 «[That] was, in fact, early musak; but with one difference. It could be turned off at the will of the subscriber»; LINCOLN 1972, p. 7; idea ripresa in CHADABE 1997, p. 3. 10 WEIDENAAR 1995. 11 S.A. 1906, p. 3. 12 «There is a suggestion of magic in it all that lends color to the wonder impression, but the kernel is still missing. For all that has been seen the music might be the reproduction of a wonderfully versatile and sweet-toned phonograph. But it is not reproduction. On the contrary, it is the original production of music in a simple telephone receiver. The secret of what produces the sounds is in the hidden chambers below»; ibid. 13 ATTALI 1977; SCHAFER 1977. 114 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta delle note gravi suonate a intervalli limitrofi e, non ultimo, la fastidiosa interferenza della musica nelle comunicazioni telefoniche, dovuta alla condivisione delle linee di trasmissione. 14 Un suono delocalizzato, un timbro che ricorda esperienze note ma in realtà manifesta la propria unicità e la propria alterità: se nel Telharmonium tutto questo si esprime in nuce, è con il Theremin che esplode definitivamente. Ancora una volta c’è l’invisibilità della sorgente sonora, ma in più c’è il timbro vagamente antropomorfo che innesca tutte le connotazioni perturbanti di cui esso si è fatto tramite nella storia del cinema hollywoodiano. Infine, va aggiunta la straordinaria teatralità implicata dallo strumento, che lo rende ottimo anche in contesti di concerto dal vivo: l’esecutore, quasi immobile nella sua rigorosa disciplina corporea, governa l’etere con movimenti delle mani appena percettibili, suggerisce l’idea che egli stia effettivamente suonando l’aria. Il fascino esercitato dal Theremin sull’immaginario non si è spento a novant’anni dalla sua creazione, fatto che ne fa uno dei pochi strumenti elettronici a essere sopravvissuto quasi indenne all’inesorabile scorrere del tempo, che ha invece relegato molte innovazioni tecnologiche del secolo scorso a oggetti da museo. Orbene, è proprio la “famiglia” di strumenti elettronici nati negli anni Venti, che oltre al Theremin annoverava apparecchi quali lo Spärophon di Jörg Mager, il Trautonium di Friederich Trautwein, le ondes musicales di Maurice Martenot (più tardi ribattezzate col nome del loro inventore) ad agire direttamente sull’immaginario cinematografico. La loro introduzione nel cinema, nel teatro e nella musica da concerto è da subito, quasi senza eccezioni, associata ad archetipi del sovrannaturale e del sublime. Ricorda James Wierzbicki come lo Spärophon fosse utilizzato come suono di campane per la rappresentazione del Parsifal al festival di Bayreuth del 1931, per effetti sonori ad accompagnare il sorgere del sole, l’abbaiare di un cane, la scena delle streghe e i rumori del diavolo nel Faust di Goethe messo in scena nel 1932 a Francoforte e Darmstadt e, infine, nel suo unico utilizzo cinematografico conosciuto, per le scene di allucinazione nel film Stärker als Paragraphen (1936). Le onde Martenot, dopo essere state utilizzate come voce divina nell’oratorio Jeanne d’Arc au bûcher di Arthur Honneger (1934-35) e aver debuttato al cinema con Šostakovič in Contropiano (1932), hanno una considerevole storia di apparizioni nel cinema francese e hollywoodiano. Infine il Theremin segna profondamente l’immaginario cinematografico in una serie di film degli anni Quaranta, associato quasi esclusivamente a scene di sogno (Le schiave della città, m. Robert Emmett Dolan, 1945) o di devianza mentale, (psicosi, Io ti salverò, m. Miklós Rósza, 1945; ubria14 WEIDENAAR 1995, p. 186. 115 Maurizio Corbella chezza, Giorni perduti, m. M. Rósza, 1945). 15 Non c’è dunque troppo da stupirsi se, con la loro introduzione nel corso degli anni Cinquanta, i suoni sintetici elettronici e i procedimenti manipolatori su nastro magnetico abbiano trovato primo terreno di sfogo proprio nella fantascienza, genere cinematografico che all’alba dell’era post-atomica, con il delinearsi della Guerra Fredda e la gara all’allunaggio, conosce in quella decade una vera e propria età dell’oro, rielaborando e rimettendo in circolo stilemi tratti da situazioni narrative tipiche di altri generi (giallo, noir, avventura, ecc.).16 Prima di interrogarci su quale sia lo scarto esistente tra il tipo di immaginario attivo negli anni Cinquanta e quello della prima parte del secolo – mi dedicherò a questo nella parte finale del capitolo – è forse opportuno provare a chiarire quale sia il meccanismo generativo attraverso il quale il suono elettroacustico si sia caricato di un complemento visivo-narrativo di tipo archetipico in maniera quasi automatica. James Lastra ha utilmente notato come fin dall’inizio del XX secolo il comportamento umano nei confronti del campo generale della riproduzione meccanica – comprendente fotografia, cinematografia e fonografia – sia consistito nel tentativo di tradurre, interpretare, e insieme neutralizzare, controllare e ri-antropomorfizzare ciò che le tecnologie di fissaggio e riproduzione svelano di inquietante e sfuggente: «lo spettro nascente dell’inumano all’interno dell’esperienza umana».17 Il concetto di spettro è da sempre riconosciuto come strettamente derivante dalla nozione di riproduzione o, più precisamente, dalla nozione di doppio in esso implicata. È ciò che si riscontra fin nella prima tecnologia di riproduzione che conosciamo, lo specchio. Parlare di spettro è già in sé un’operazione che si richiama a un archetipo, capace di dotarsi di positività o di negatività a seconda della prospettiva dalla quale la si vuole inquadrare: «alla radice vi è una sorta di terrore metafisico, lo stesso che assale il primitivo quando si accorge che qualcuno lo sta ritraendo, e ritiene che, con l’immagine, gli venga sottratta l’anima».18 Umberto Eco vi si riferisce nel passo citato stigmatizzando la posizione di condanna di Günther Anders nei confronti dello “specchio moderno” rappresentato dalla televisione, rilevando come tale espressione invece che funzionare come strumento di critica, finisca per rappresentare l’indizio attraverso il quale si svela la fascinazione esercitata dalla stessa televisione proprio nei confronti del critico che la WIERZBICKI 2005, pp. 18-21. Ivi, pp. 22-28. 17 «The rising specter of the inhuman within human experience posed by mechanical inscription in general»; LASTRA 2000, p. 7. 18 ECO 1964, p. 15. 15 16 116 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta condanna.19 Quella stessa fascinazione esercitata da ogni forma di riproduzione è spiegata da Marshall McLuhan in riferimento al mito di Narciso che scambia la sua immagine nello specchio d’acqua per un’altra persona. «Il senso di questo mito è che gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di cui sono fatti».20 Adorno e Eisler ricordano che la ragione fondamentale della musica d’accompagnamento nel cinema muto non fosse solo quella “pratica” di coprire il rumore del proiettore, bensì quella ben più significativa di allontanare l’effetto spettrale delle ombre in movimento sullo schermo. [Esso] deve aver avuto effetti spettrali, come il gioco delle ombre – ombre e spettri sono da tempo immemorabile appartenuti allo stesso genere. La funzione “magica” della musica […] doveva consistere nel placare gli spiriti maligni della percezione inconscia. La musica fu introdotta in certo qual modo come antidoto contro l’immagine. Poiché il cinema fu sin dall’origine legato alla fiera ed al piacere, in quanto forme originarie dell’odierno calcolato nesso effettuale, esso ha voluto risparmiare allo spettatore l’elemento spiacevole insito nel fatto che venivano esibite riproduzioni di uomini viventi, agenti e perfino parlanti, che tuttavia erano contemporaneamente muti. Vivono e non vivono nello stesso tempo, questo è l’elemento spettrale, e la musica non vale tanto a surrogare la loro vita assente [...] quanto piuttosto a placare l’angoscia, ad assorbire lo shock.21 Il filosofo e il compositore si spingono oltre affermando che lo stesso rumore del cinematografo «sembrava appartenere alla sfera dello spettrale»: Il rumore di strofinio e ronzio prodotto doveva in effetti essere “neutralizzato”, non coperto. [...] L’esperienza di cui si parla dovrebbe essere più collettiva che individuale e prossima al panico: la coscienza balenante di come la impotente massa inarticolata è in potere del meccanismo. Razionalizzata, questa sensazione diviene qualcosa come l’angoscia per l’incendio. In fondo, è la sensazione che qualche cosa ci può succedere anche se si è in molti. Esattamente la si chiama coscienza della propria meccanizzazione. 22 Dunque, accanto allo spettro insito nell’immagine, c’è anche uno spettro insito nel suono meccanico. La musica aveva la primaria «magica» funzione di «Così facendo il critico non ci aiuta ad uscire dalla fascinazione ma, al massimo, a soggiacervi ancor di più»; ivi, p. 16. 20 MCLUHAN 1964, p. 58. 21 ADORNO-EISLER 1947, p. 76. 22 Ivi, p. 76n. 19 117 Maurizio Corbella neutralizzare tale spettro. Tuttavia, nel momento in cui anch’essa diventa riprodotta e sincronizzata (è quanto accade con l’introduzione del cinema sonoro) o sintetizzata (è quanto accade fin dai primi strumenti elettronici), quella stessa musica si fa portatrice di un nuovo spettro analogo a quello dell’immagine fotografica e cinematografica. Negli ultimi vent’anni un filone dei cultural studies anglosassoni di matrice “mediologica”, ha provato a indagare le dinamiche attraverso le quali il suono, nello specifico quello “fonografico”,23 si rapporta con le discipline artistiche; il risultato è l’enunciazione di alcune figure fondamentali da intendersi come modalità mediante le quali il suono fonografico è posto in relazione a concetti cardine della comunicazione umana. Kahn isola tre “figure sonore” (figures of sound) – vibrazione, inscrizione e trasmissione –24 mentre Lastra pone alla base del suo studio sulla tecnologia sonora nel cinema americano la polarizzazione tra le figure dell’inscrizione e della simulazione.25 Tali figure sono da intendersi come categorie antropologiche astratte, e insieme come tropi, figure di pensiero attraverso le quali si rende conto di come «i suoni siano allocati o dislocati, contenuti o realizzati, registrati o generati». 26 Sono, cioè, nessi concettuali che aiutano a illuminare sotto prospettive di volta in volta diverse le dinamiche di relazione che si instaurano tra uomo, suono e ambiente e che costituiscono polarità ideali attorno alle quali si articola l’immaginario culturale di un dato luogo o contesto storico. Il concetto di vibrazione, che trova una corrispondenza se- II. Genesi dell’immaginario: mantica nel termine “oscillazione” con cui la fisica acustica vibrazione, inscrizione, descrive i fenomeni sonori,27 esprime la corrispondenza tra emulazione, trasmissione l’armonia dell’universo e la possibilità umana di farsene agente. È un’idea di chiare ascendenze neopitagoriche, con prevedibili risvolti esoterici e occultisti, che si viene concependo presso i circoli teosofici russi di fine XIX secolo: Vasilij Kandiskij, nel celebre saggio Sulla composizione scenica, definisce la vibrazione «la reviviscenza dell’anima, inde- La definizione “suono fonografico” va intesa in senso ampio, relativamente a qualsiasi pratica di fissaggio di un suono su un supporto; altrove, per esempio, Michel Chion ha usato l’espressione “suono fissato”; cfr. CHION 1991. 24 KAHN 1992. 25 LASTRA 2000. 26 «We can detect three figures of a more abstract character – vibration, inscription, transmission – that begin to account for how sounds are located or dislocated, contained or released, recorded or generated»; KAHN 1992, p. 14. 27 «L’oscillazione è un moto periodico di un corpo elastico intorno alla sua posizione d’equilibrio. Si dice che una quantità è nello stato di oscillazione quando il suo valore varia con continuità passando da un massimo ad un minimo»; BRANCHI 1977, p. 15. 23 118 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta terminata e nello stesso tempo assolutamente determinata».28 La vibrazione si pone come legge universale poiché si riscontra tanto nel cosmo quanto nel moto dell’animo umano. L’arte è dunque il mezzo attraverso cui l’artista accoglie questa vibrazione cosmica e la trasmette al pubblico, il giusto mezzo di espressione trovato dall’artista, [...] la forma materiale della vibrazione della sua anima che egli non può fare a meno di materializzare a qualunque costo. Se questo mezzo di espressione è realmente giusto, provoca una vibrazione pressoché identica nell’anima dello spettatore. 29 L’arte si esprimerebbe dunque mediante una complessa rete sinestesica in cui le manifestazioni contingenti sono sempre rapportabili a una catena di relazioni facente capo a un sistema più ampio.30 Tale concezione presuppone un universo governato da pochi principi ordinatori, in cui il suono ha un valore centrale in quanto diretta emanazione della vibrazione cosmica. Nei circoli teosofici, così come più in generale nell’ambito del futurismo e del costruttivismo russo, i suoni fondano sistemi linguistici direttamente collegati alle leggi del mondo, destinati a comunicare verità rivelate, dotati di corrispondenze tra fonemi, colori, note musicali e stati emotivi o psicologici. Al di là delle derive spiritualiste, la figura della vibrazione rimane importante per le successive esperienze artistiche in quanto presuppone un’idea di suono privo di «autonomia ma sempre relazionato, essendo altrove o qualcos’altro, una costante digressione che in ultima analisi si estendeva a organizzare spiritualmente ogni cosa dall’essenza al cosmo, sempre risuonando con la voce e la musica».31 Come ho già sufficientemente illustrato nel paragrafo precedente, i primi sintetizzatori elettrici si prestano a essere messi in relazione privilegiata con il concetto di vibrazione testé esplicato (e nomi come Sphärophon ed Aeterophone, appellativo originario del Theremin, ne costituiscono le manifestazioni iconicamente più pregnanti). L’inscrizione, invece, è primariamente riferita all’aspetto fonografico della produzione sonora. L’area semantica del concetto di inscrizione è molto vasta e interdisciplinare, avendo chiare parentele con quella di scrittura. 28 KANDISKIJ 1919, p. 15. p. 16. La sinestesia, teorizzata come «l’invisibile legame tra diverse sensazioni fisiologiche» è alla base della dottrina teosofica, nata in Russia per mano di Helena Petrovna Blavatskij e destinata ad avere una grande influenza su molti compositori, scrittori e intellettuali; Kandiskij, i compositori Thomas Von Hartmann e Aleksandr Scrjabin, furono strettamente legati alla Blavatsky. Cfr. GORDON 1992. 31 «[...] a sound had no autonomy but was always relational, being somewhere or something else, a constant deflection that ultimately stretched out to spiritually organize everything from essence to cosmos, always ringing with the voice and music»; KAHN 1992, p. 15. 29 Ivi, 30 119 Maurizio Corbella Se la vibrazione sottolinea i caratteri eterei del suono e di fatto, nella sua formulazione filosofica, non presuppone l’intervento del medium tecnologico, l’inscrizione ne costituisce la “traduzione” materialista,32 individuata dal solco lasciato dalla puntina sul rullo o sul disco di cera. Il solco è il negativo speculare, l’Ur-Image 33 della vibrazione emessa dalla fonte sonora e trasmessa dalla membrana: è la firma del suono stesso, leggibile e, dall’introduzione del fonografo in poi, riascoltabile. La traccia lasciata dal suono nel solco del rullo fonografico oltre a rappresentare l’inizio delle possibilità documentative della tecnologia sonora (si possono registrare potenzialmente infiniti suoni) che apriranno la via all’industria discografica e all’etnomusicologia, prelude un ulteriore importante passaggio logico: il suono riprodotto, in quanto lettura di un’incisione, non deve necessariamente restituire all’udito qualcosa di precedentemente registrato, ma può potenzialmente trasformare in suono qualsiasi tipo di segno prodotto anche arbitrariamente su una superficie, essere dunque medium di qualcosa che non esiste in natura. Uno dei primi a rendersi conto di questa possibilità è Rainer Maria Rilke, che nel suo scritto Ur-Geräusch ([Rumore primordiale], 1919)34 è colpito dalla somiglianza tra i solchi fonografici e i solchi della sutura coronale del cranio umano; la domanda che si pone il poeta, nella sua logica stringente, è destinata ad aprire nuovi scenari: quale suono produrrebbe un grammofono che “leggesse” tale solco? «Prima di Rilke, nessuno aveva mai suggerito di decodificare una traccia che nessuno aveva [precedentemente] codificato e che non codificava nulla. Mai dall’invenzione del fonografo c’era stata una scrittura priva di contenuto».35 In sostanza, Rilke intuisce la capacità del fonografo di decodificare (cioè tradurre da segno a suono) inscrizioni che non sono mai state prima codificate (cioè tradotte da suono a segno), bensì scritte da un agente diverso, come per esempio l’uomo stesso: siamo agli esordi della sintesi sonora, vale a dire della possibilità dell’uomo di incidere manualmente su un supporto suoni completamente nuovi. 32 KAHN 1992, p. 17. Riferendosi alla scoperta del padre dell’acustica Ernst Florens Friedrich Chladni (1756-1827), lo scopritore delle cosiddette Klangfiguren (figure sonore: granelli di polvere di quarzo su un foglio di vetro sottoposto a vibrazione tramite lo sfregamento di un arco di violino si dispongono secondo forme distinte e motivi regolari), Thomas Y. Levin scrive: «What was so exciting about these acoustic ur-images (as a contemporary of Chladni called them) was that they seem to arise from the sound themselves, requiring for their intelligibility not the hermeneutics appropriate to all other forms of musical notation but instead something more akin to an acoustic physics»; LEVIN 2003, p. 39. 34 RAINER MARIA RILKE, Ur-Geräusch, in Sämtliche Werke, vol. 6, Frankfurt a. M.: Insel, 1987, pp. 1085-1093. 35 «Before Rilke, nobody had ever suggested decoding a trace that nobody had encoded and that encoded nothing. Ever since the invention of the phonograph, there has been writing without a subject»; KITTLER 1986, p. 44; cit. in LEVIN 2003, p. 70n. 33 120 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Il suono che questa ipotetica fonografia della sutura cefalica produrrebbe in realtà, avrebbe molto probabilmente le sembianze di ciò che tendiamo a chiamare rumore, nella misura in cui ci “riferiamo” acusticamente più alla materialità della mediazione tecnica e cioè alla letterale topografia del solco sonoro. 36 La nascita della sintesi sonora spezza il legame, da molti considerato naturale, tra suono reale e suono riprodotto, tra originale e copia, consentendo all’artista di esplorare l’ignoto invece che riprodurre il familiare. Essa è inoltre di enorme importanza per il linguaggio cinematografico in quanto, dopo i primi esperimenti dell’artista e teorico ungherese László Moholy-Nagy sul supporto di cera,37 varie personalità giungono quasi contemporaneamente e per vie indipendenti intorno alla fine degli anni Venti ai primi esperimenti di suono disegnato su pellicola ottica: tra questi l’ingegnere svizzero Rudolf Pfenninger, i compositori e teorici Oskar Fischinger (tedesco) e Arsenij Mikhaylovich Avraamov (russo) e numerosi altri rappresentanti dell’avanguardia sovietica.38 La pellicola introduce un fattore di novità poiché è in grado di rendere l’atto di inscrizione contemporaneamente visibile e udibile mediante la proiezione cinematografica, fatto che dà una spinta decisiva agli interessi sinestesici di Oskar Fischinger, il quale si interroga sui rapporti tra alcune composizioni grafiche e il suono da esse generato. Tuttavia, ciò che più interessa al fine del nostro ragionamento è che, malgrado le intraviste possibilità di costituire un nuovo linguaggio musicale, il suono ottico venga utilizzato prevalentemente in chiave di imitazione di suoni noti: sono di Rudolf Pfenninger le celebri trasposizioni sintetiche del Largo händeliano o della Barcarole di Offenbach da Hoffmanns Erzählungen; è del fisico britannico E. A. Humphries la prima imitazione di voce umana completamente riuscita, per un film inglese del 1931.39 «[...] the sound that this hypothetical phonography of the cephalic suture would in fact produce would most probably resemble what we tend to call noise and as such would refer acoustically more to the materiality of technical mediation as such – that is, to the literal topography of the sonic groove»; LEVIN 2003, p. 44. 37 MOHOLY-NAGY 1922, pp. 289-290. 38 Cfr. LEVIN 2003 e DAVIES 2001. 39 La fonte, un articolo del «New York Times» del 16 febbraio 1931, già segnalata in LEVIN 2003, purtroppo non riporta il titolo del film; S.A. 1931. 36 121 Maurizio Corbella Humphries sfrutta le potenzialità del suono sintetico ottico per interpolare la voce dell’attore protagonista Constance Bennett, con la frase all-of-a-tremble.40 Ciò che rese queste interpolazioni così inquietanti era precisamente il fatto che, pur indistinguibile dal resto delle parole pronunciate, la voce sintetica di Humphries era proprio quello: sintetica; e dunque spalancava un dubbio fondamentale rispetto allo statuto di qualsiasi cosa nella colonna sonora.41 Figura 13: Riproduzione dell’articolo del «New York Times» del 16 febbraio 1931 che racconta della creazione di E. A. Humphries. Siamo precisamente al passaggio dalla figura dell’inscrizione a quella dell’emulazione. La tecnologia è in grado di simulare i comportamenti umani, sino a sostituirli. Ovviamente, il modo in cui il suono sintetico tende al suono “naturale” è asintotico, come d’altronde dimostra la storia della recente tecnologia digitale che, attraverso il campionamento, la computazione e la coSembra che la necessità di questa interpolazione fosse nata da un caso di omonimia: il nome del personaggio cattivo del film era lo stesso di una famiglia aristocratica inglese che minacciò una causa di diffamazione se il nome non fosse stato espunto; LEVIN 2003, p. 33. 41 «But what had made these changes so disturbing was precisely the fact that, while indistinguishable from the rest of spoken words, Humphries’s synthetic voice was just that – synthetic – and thus opened up a fundamental doubt about the status of everything on the soundtrack»; ivi., p. 61. 40 122 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta struzione di modelli psicoacustici fa ogni anno passi verso la resa virtuale di fenomeni meccanici. Ma il tropo dell’emulazione ci aiuta a capire la specificità del suono cinematografico, in particolare di quello elettroacustico. Paolo Ketoff, quando precisa che grazie al Synket «con la stessa facilità [si possono] ottenere dei rumori come il tuono, il mare o il vento e nello stesso tempo il cinguettio di uccelli, ritmi di tamburi, di gocce d’acqua, note musicali che possono rassomigliare assolutamente a degli strumenti tradizionali»,42 ha ben presente di avere a disposizione uno strumento che non “fotografa” la realtà sonora, ma piuttosto costruisce un doppio del suono in grado di spaziare nello spettro continuo che ha come estremi il familiare e il non familiare. Si afferma così nel cinema una categoria sonora che affianca le librerie e gli effetti ambientali realizzati dai rumoristi o registrati on location per mimare la realtà (fase inscrittoria), e contiene dentro di sé l’alterità destinata a comunicare quei contenuti perturbanti, esoterici, onirici, fantastici di cui la rappresentazione filmica è di per sé portatrice, in quanto anch’essa mediazione (fase emulatoria). Tale categoria ha investito storicamente l’ambigua qualifica produttiva di “effetto speciale sonoro”, che ho discusso nel CAPITOLO 2.III. Negli Uccelli Hitchcock sfrutta il concetto di doppio in chiave di motore narrativo; è proprio la verosimiglianza perturbata del rumore elettronico degli uccelli assassini, contrapposta al verso naturale degli “inseparabili” (lovebirds), a fondare il terrore del film, molto più di quanto non riescano a fare gli effetti speciali visivi,43 che puntano invece a non essere notati in quanto tali dallo spettatore: perché l’effetto visivo funzioni, gli uccelli “fittizi” devono infatti essere il più possibile simili a quelli veri, per creare una generale sensazione di realtà, al contrario dell’effetto sonoro che, paradossalmente, trova la sua efficacia proprio grazie al suo scarto dalla realtà (ergo, gli uccelli “cattivi” devono produrre un rumore quasi irreale, pur conservando una certa familiarità, per risultare davvero terrorizzanti).44 Laddove l’occhio si deve “ingannare”, preservando l’illusione di realtà, l’orecchio deve cogliere subliminalmente l’aspetto perturbante e animico della presenza sullo schermo. La tecnologia del Mixtur-Trautonium, utilizzata nelle sue proprietà 42 KETOFF in MUSICA EX MACHINA-VI 1967; cfr. CAPITOLO 1. Per la realizzazione dei celebri attacchi dei corvi e dei gabbiani, vennero utilizzate degli effetti visivi all’avanguardia, che tuttavia oggi paiono molto più datati degli effetti sonori. 44 Questo discorso, naturalmente, potrebbe essere fatto per molti altri film che mettono in scena una realtà perturbata e che, non a caso, sono considerati pietre miliari nell’evoluzione del sound design; si pensi, ad esempio, al riuscitissimo uso diabolico della vocalità in The Exorcist (L’esorcista, r. William Friedkin, 1973). 43 123 Maurizio Corbella emulatorie, è dunque in grado di rivelare lo “spettro” inumano (in questo caso anti-umano) degli uccelli hitchcockiani. Il tropo della trasmissione è fondamentalmente «il ritorno e il rinvigorimento di oggetti e corpi che erano stati fissati dall’inscrizione allo spazio implicato dalla vibrazione».45 Con la trasmissione andiamo a individuare l’ultima grande categoria delle creazioni tecnologiche legate al suono: la comunicazione delocalizzata, alla base della quale stanno concetti “classici” come la schizofonia di Schafer. Nel recente film Coffee and Cigarettes (2003), Jim Jarmusch fa proprio il concetto di trasmissione nella sua dimensione archetipica: mettere in comunicazione dimensioni temporali e spaziali diverse. Sull’intero lungometraggio – strutturato a episodi slegati accomunati apparentemente dal solo fatto che in ognuno di essi i personaggi interagiscono tra loro intorno a un tavolo fumando sigarette e bevendo caffè, conversando del più e del meno e raggiungendo sovente situazioni ai limiti dell’assurdo – aleggia la figura di Nikola Tesla (1856-1943), fisico, inventore e ingegnere slavo naturalizzato americano che può essere considerato uno dei padri della radio e della corrente alternata e la cui figura di “scienziato pazzo” ai limiti del misterioso alimenta ancor oggi numerose suggestioni. Tesla viene evocato in due occasioni nel film come colui che «vedeva la Terra come un conduttore di risonanza acustica». In una di queste due sequenze, quella che chiude il film, l’anziano Taylor Mead dialoga con Bill Rice (l’episodio si intitola Champagne, i due attori interpretano due operai di un’armeria in pausa caffè). Taylor esordisce affermando di non sentirsi bene, di sentirsi divorziato dal mondo («I feel so divorced from the world, I’ve lost touch with the world»); questo stato d’animo gli fa venire in mente un Lied tratto dai Rückert Lieder di Mahler (1905), Ich bin der Welt abhanden gekommen, il brano più meraviglioso e triste mai scritto,46 tanto che quasi gli pare di sentirlo in lontananza. Non c’è tempo di stupirsi per l’associazione (singolare per un operaio in pausa pranzo), poiché in effetti anche lo spettatore avverte il Lied dapprima in modo quasi impercettibile, poi più nitidamente, finché svanisce; perdutolo, Taylor domanda a Bill se è riuscito a sentirlo, e anche Bill conferma. La conversazione prosegue per scampoli di frasi, quasi aforismi, con Taylor a tratti sempre più assente; è a questo punto che Bill cita la frase su Tesla, quasi che il fenomeno appena accaduto gliel’abbia portata alla mente. Taylor ribatte proponendo di far finta che il pessimo caffè che i due stanno bevendo sia champagne, tanto per celebrare la vita, e i due finiscono per brindare alla «In other words, transmission was basically the return and invigoration of objects and bodies that had been fixed by inscription to the space implied by vibration»; KAHN 1992, p. 20. 46 Per essere precisi Taylor lo traduce con «I’ve Lost Track of the World», «one of the most beautiful saddest songs ever written». 45 124 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Parigi anni Venti, a Joséphine Baker,47 al Moulin Rouge, mentre Bill risponde con un brindisi alla New York di fine anni Settanta. La conversazione si chiude con Taylor che si addormenta, probabilmente per sempre, nei pochi minuti che restano prima della fine della pausa. E con il sonno di Taylor si riavverte il Lied di Mahler. In un certo senso l’evocazione di Tesla equivale ad un abbattimento delle barriere del tempo e dello spazio, come se ci fosse una dimensione che non risente delle stesse leggi fisiche materialiste, la dimensione metafisica a cui Taylor gradatamente tende con la morte. Se la Terra è un conduttore di risonanza acustica, allora quella melodia triste e meravigliosa può trasmettersi da Mahler a Joséphine Baker, da Parigi a New York fino all’armeria, dagli anni Venti al Duemila, dal caffè allo champagne. E Jim Jarmusch sembra suggerire che quell’abbattimento miracoloso del tempo e dello spazio può realizzarsi solo attraverso il cinema, che non ha nulla di miracoloso, semmai è una sorta di «aggeggio» 48 che produce effetti stupefacenti dotati di un valore inattingibile nei suoi risvolti profondi, paragonabile ai fasci luminosi prodotti dalla bobina di Tesla (FIGURE 14-15). Figura 15: ⇓ Fotogramma da Coffee and Cigarettes in cui si vede in funzione la bobina di Tesla costruita da Jack White. Figura 14: ⇑ Interno del laboratorio a Pikes Peak, Colorado, in cui operò Nikola Tesla (fonte: <http://www.bioenergyresearch.com/ita/tesla.htm >. I lampi che si vedono sono creati dalla bobina di Tesla. Joséphine Baker (1906-1975), celebre ballerina e cantante icona degli anni Venti, lavorò anche nel cinema. 48 «Parentesi fluida, oggetto slegato dalla sua funzione, ciò che l’“aggeggio”, l’“affare” lascia intuire, è una funzionalità vaga, senza limiti, l’immagine mentale di una funzionalità immaginaria»; BAUDRILLARD 1968, p. 148. 47 125 Maurizio Corbella Pianeta proibito (1956) è solitamente annoverato come III. L’immaginario negli anni Sessanta: un film spartiacque dal punto di vista del ruolo della dal suono del futuro al suono del presente musica elettroacustica. C’è del vero: questo film configura in più di un senso un “prima” e un “dopo” nella storia del cinema narrativo, non solo perché è la prima produzione “mainstream” a fare uso di una musica generata esclusivamente da processi elettronici, ma anche perché rappresenta un emblematico caso di ricezione culturale. Esso attira su di sé la più grande meraviglia del pubblico e dei cultori del genere, che in poco tempo lo eleggono capolavoro fantascientifico degli anni Cinquanta, e contemporaneamente la più accesa condanna da parte di critici e compositori coinvolti nella sperimentazione elettroacustica. Diviene, in un colpo, immagine dell’innovazione ed emblema del cliché più trito. In entrambi i punti di vista c’è, come vedremo, una radicalizzazione di aspetti la cui analisi ci può aiutare a fare chiarezza sulla natura del problema sotteso all’incontro tra cinema e suono elettroacustico negli anni Sessanta. Nel cinema di fantascienza americano degli anni Cinquanta, le sonorità elettroniche, ottenute perlopiù attraverso procedimenti di sintesi, erano state, fino a Pianeta proibito, confinate da una parte nella categoria degli effetti speciali associati diegeticamente a apparecchiature o entità aliene – è il caso, ad esempio, della Guerra dei mondi (m. Leith Stevens, 1953) e di Assalto alla Terra (m. Bronislau Kaper, 1954) – dall’altra a suggestioni musicali incorporate in partiture sinfoniche, coerentemente con l’uso che era stato fatto del Theremin e delle Onde Martenot nel cinema del decennio precedente – si veda Ultimatum alla Terra ( m. Bernard Herrmann, 1951).49 In entrambi i casi, dunque, si era optato per valorizzare il portato connotativo del timbro e dell’articolazione (il vibrato tipico del Theremin come dell’organo Hammond) nei codici hollywoodiani, ma non si era preteso di rifunzionalizzare l’assetto sonoro del tessuto drammaturgico. Le “tonalità elettroniche” di Pianeta proibito – è questa la definizione per la quale i compositori Louis e Bebe Barron vengono accreditati nei titoli del film – assolvono invece il compito di dare spessore sonoro all’intero mondo galattico, costruendo un’architettura che comprende in sé le categorie funzionali della musica “diegetica”, “extradiegetica” e degli effetti ambientali.50 Esse, perciò, sintetizzano perfettamente le due ricadute dirette che il suono elettroacustico ha sul cinema narrativo: chiarire i contorni dell’immaginario sonoro riferito al topos ultra-tecnologico e subconscio, e mettere in discussione l’assetto sonoro tradizionale del film narrativo, superando significativamente i confini tra le componenti 49 50 126 Per un elenco dettagliato cfr. WIERZBICKI 2005, p. 26. Cfr. WIERZBICKI 2005, pp. 37-42. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta (parola, rumore, musica) delineatesi nella cinematografia classica hollywoodiana e recepite in larga misura dalle altre cinematografie occidentali (cfr. CAPITOLO. 2.III).51 Il fondamentale punto di convergenza tra grandi entusiasmi e aspre critiche al Pianeta proibito consiste senza dubbio nel fatto che a essere coinvolti nella composizione delle musiche per il film sono due compositori esterni al sistema produttivo hollywoodiano e provenienti dall’area della sperimentazione newyorchese.52 Essi sono, di fatto, i responsabili tecnici del progetto denominato Music for Magnetic Tape, del quale fanno parte anche John Cage, Earle Brown, David Tudor, Morton Feldman e Christian Wolff, che darà alla luce quattro composizioni, tra cui Williams Mix (1952) di Cage e For an Electronic Nervous System (1953-54), degli stessi Barrons. Il “cortocircuito” culturale è causato dal fatto che essi immettono in una produzione hollywoodiana il nucleo della ricerca che stavano già conducendo in seno al gruppo cageano, vale a dire la possibilità di costruire circuiti elettronici capaci di emulare comportamenti elementari del sistema nervoso animale. Per far ciò si ispirano esplicitamente all’opera del matematico Norbert Wiener, fondatore della scienza cibernetica. Louis e Bebe Barron notano che un circuito ha un comportamento “vitale” simile a quello di una forma biologica elementare, strutturato secondo un’esplosione di energia iniziale, un livellamento stabile per un certo tempo, e infine una morte irreversibile.53 La ricerca dei due compositori consiste nell’indirizzare questo comportamento (prevedibile nella struttura ma, per molti versi, imprevedibile nei contenuti) verso l’emulazione di “tipologie caratteriali” umane. Per far ciò, naturalmente, gran parte del lavoro di preparazione consiste nel fare esperienza di casistiche e di possibilità di intervento tecnico sui circuiti, cioè, per dirla con Wiener, nell’elaborare La stessa espressione Electronic tonalities chiarisce del resto l’imbarazzo della struttura produttiva e industriale di fronte a un materiale sonoro inclassificabile secondo i parametri in auge. È questa quasi una costante del manifestarsi di innovazioni sonore nel cinema hollywoodiano, che ritroveremo con caratteri analoghi occupandoci della nascita del sound design (CAP. 4). 52 Creando un precedente significativo, ai Barrons è consentito dai vertici della MGM di svolgere l’intero lavoro di composizione nel loro studio di New York. Secondo James Wierzbicki, le radici dell’originalità del loro contributo vanno ricercate in questa anomalia produttiva; ivi, pp. 9, 41-42. 53 Ivi, p. 34. 51 127 Maurizio Corbella modelli di comportamento dei circuiti e loro corrispondenze con i modelli del comportamento animale e umano. 54 Nonostante la cibernetica non si occupi di espressioni artistiche e nemmeno udibili, le leggi scientifiche esistono per essere prese in prestito, e un sistema nervoso elettronico può essere progettato attraverso la costruzione di modelli di comportamento che richiamino tipologie di personalità. Quando questi circuiti sono opportunamente progettati, controllati e stimolati, essi reagiscono emozionalmente con strani e significativi suoni. Se pensiamo a questi circuiti dalla personalità elettronica come a personaggi o attori, e quindi componiamo per loro, ci comportiamo come drammaturghi o registi. Come drammaturghi, prima decidiamo un cast di personaggi, progettiamo e costruiamo circuiti che interpretino le parti. Poi strutturiamo una drammaturgia nella quale questi personaggi elettronici interagiscano tra loro man mano che la trama si dispiega. Quindi diventiamo registi e ci accertiamo che i circuiti-attori abbiano i tempi giusti, e interpretino i loro personaggi autenticamente ed efficacemente. Ciò è possibile solo comprendendo e controllando la loro attività elettronica. Amplificandola e registrandola su nastro magnetico, siamo in grado di tradurre il comportamento elettronico in forma udibile. L’aspetto più significativo dell’intero fenomeno è che i suoni che scaturiscono da questi sistemi nervosi elettronici veicolano significati emozionali distinti tra gli ascoltatori. 55 Non è mio interesse decretare in che misura il procedimento dei Barrons possa essere giudicato naïve, semmai evidenziare come il metodo esposto immetta una significativa sovrastruttura concettuale all’interno del genere 54 Il termine modello (pattern) designa tutto ciò che si ripete in una successione di eventi o ciò che è comune a un insieme di oggetti. Tra insiemi di oggetti diversi sono così isolabili “schemi” di comportamento analoghi che mettono in corrispondenza biunivoca tali insiemi. «Un modello è essenzialmente una disposizione caratterizzata dall’ordinamento degli elementi di cui si compone anziché dalla natura intrinseca di questi elementi. Due modelli sono identici se il rapporto dei loro ordinamenti può essere espresso come corrispondenza biunivoca [...]»; WIENER 1950, pp. 17-18. 55 «Although Cybernetics does not concern itself with artistic or even audible expressions, the scientific laws are there to be borrowed, and electronic nervous systems can be specifically designed with built-in behavior patterns resembling emotional personality types. When these circuits are properly designed, controlled, and stimulated, they react emotionally with strange and meaningful sounds. If we think of these electronic personality circuits as character actors, then we compose for them, we function like writer-director. Like writers, we first decide on a cast of characters, and design and build the circuits to act out the character parts. Then we structure a dramatic plot in which these electronic characters inter-act with each other as the plot unfolds. Now we become directors and see to it that the actor-circuits get their cues at the right times, and express their characters authentically and effectively. This is possible by properly understanding and controlling their electronic activity. By amplifying the electronic activity and recording it on magnetic tape, we are able to translate the electronic behavior into audible form. The most remarkable aspect of this whole phenomenon is that the sounds which result from these electronic nervous systems convey distinct emotional meaning to listeners»; BARRONS 1956, p. 18. 128 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta cinematografico a cui è applicato. La musica, almeno nell’ottica dei compositori, non dovrebbe limitarsi a commentare la vicenda, a suggerire allo spettatore una prospettiva emozionale o interpretativa, bensì letteralmente impersonificare i traguardi attuali della scienza, come a suggerire subliminalmente che il confine della fantascienza si è drammaticamente spostato più in là, e ciò che un tempo era fantasia, oggi è diventato realtà. Se l’elemento verbale e visuale del film ci consegna una vicenda più o meno verosimile, l’elemento sonoro ci dovrebbe, almeno nelle intenzioni dei compositori, mettere lo spettatore direttamente e drammaticamente in contatto con la realtà della cibernetica.56 Il punto, nell’ottica del mio ragionamento, non è che ci riesca o meno, quanto che ci provi, o dichiari di averci provato. Se, nelle copiose spiegazioni fornite a posteriori dai Barrons, alimentate certo dal circuito commerciale in cui il film si era inserito, sembra verosimile non si debba rintracciare un mero tentativo di legittimare agli occhi dell’establishment culturale un’operazione fatta per ragioni essenzialmente economiche, allora questo film davvero segna una svolta nelle modalità con cui una parte della cinematografia integra a sé il suono e la musica elettroacustica rispetto al passato. La novità sostanziale, che ritroveremo in una buona percentuale dei film del decennio successivo, consiste nell’utilizzare suoni e musica elettroacustica non tanto o non solo a fini di evocazione diretta di effetti riferibili a un immaginario condiviso, quanto come immissione nel proprio tessuto di questioni nevralgiche della società contemporanea, delle quali la sperimentazione elettroacustica si fa interprete concreta. Negli anni Sessanta la musica elettroacustica non è più esclusivamente una musica del futuro, bensì una musica del presente, di un presente che sfugge in continuazione caricandosi di interpretazioni ideologiche. Il cinema diventa così una spia particolarmente indicativa di nodi problematici che serpeggiano nella società, nella cultura e nello stesso mondo della produzione musicale. Una tendenza del cinema d’autore in particolare è quella di assorbire i cliché trovando in essi una profondità inesplorata o, d’altra parte, smascherandone (non sempre consapevolmente) la natura di feticci. 56 Almeno questo è l’intento dei Barrons, certamente colpevole di ingenuità, ma confortato dal fatto di riscontrare negli spettatori il frequente commento, rimarcato fino in anni recenti da Bebe Barron, che essi ritrovassero nei suoni del film il suono dei loro sogni. Forse, ribaltando la prospettiva, è il caso di dire che i sogni di molti spettatori suonarono effettivamente in quel modo per alcuni anni dopo l’uscita del film, suggestionati dalla forza evocativa del lavoro dei compositori. 129 4 «Lo sfondo ai sentimenti di domani» Percorsi tematici e proposte critiche sull’immaginario elettroacustico nel cinema italiano «Si lanciano uomini nel cosmo, si scopre la struttura della ADN, la molecola che sovraintende all’ereditarietà e quindi ci si avvicina alla possibilità di trasformare la specie umana, gli animali e le piante; la cibernetica sta per affrontare macchine che penseranno come l’uomo: ed ecco che la scienza trasportata dal suo stesso slancio comincia a trovarsi in zone che avevano polarizzato fino ad ora lo studio e la passione dei maghi, dei mistici, degli alchimisti e naturalmente anche dei filosofi». Gillo PONTECORVO, Il fantastico nel reale, «Filmcritica», XIV/135-136, luglio-agosto, 1963. «Una materia che sembra un’altra. Legno che sembra carne, stoffa che sembra roccia, carbone che sembra ferro, carta che sembra stoffa, plastica che sembra tutto. Si prepara lo sfondo ai sentimenti di domani». Michelangelo ANTONIONI, Comincio a capire, Catania: Il girasole, 1999, p. 53. È possibile selezionare alcuni “grandi temi culturali” attorno ai quali si struttura l’immaginario legato al suono elettroacustico negli anni Sessanta? A seconda di come la si vuole interpretare, la domanda è o troppo generica o troppo ambiziosa. Nel secondo caso presupporrebbe un lavoro di ricerca interdisciplinare molto più ampio di quello che sono in grado di portare avanti in queste pagine. Tanto vale limitarsi da subito, provando a riformulare la questione nei termini di una proposta parziale, che selezioni, tra le tante possibilità, alcuni percorsi tematici nell’ambito della sola cinematografia italiana di quella decade. I contorni di tali percorsi si sono già tangen- Maurizio Corbella zialmente delineati nel riordinare vicende individuali di compositori quali Marinuzzi o Gelmetti, o semplicemente nell’indagare l’uso dei sintetizzatori romani a scopi cinematografici (cfr. CAPITOLO 2). È giunto ora il momento di seguire più estensivamente il filo di riflessioni dall’ampia portata culturale sviluppate all’interno del discorso cinematografico, nella speranza di mettere in rilievo qualche legame con i temi cardine della ricerca sperimentale elettroacustica coeva. Per far ciò partirò ancora una volta da un esempio significativo, per aprire in seguito la trattazione a un respiro più generale. Gli anni Sessanta si aprono in Italia con un film che affronta emblematicamente i principali nuclei tematici dell’utilizzo di musica e suono elettroacustici da parte del cinema. Il documentario L’Italia non è un paese povero, commissionato dall’allora presidente dell’ENI Enrico Mattei al regista olandese Joris Ivens (1960), ha il fine di rendere pubblica l’entità delle risorse energetiche presenti nel sottosuolo italiano, scoperte e valorizzate dall’Ente in quegli stessi anni, e «soprattutto [di] combattere l’influenza americana nel campo dell’estrazione e della raffinazione degli idrocarburi liquidi e gassosi in Italia».1 Il film viene realizzato tramite la collaborazione dei giovani fratelli Taviani, di Tinto Brass e di Valentino Orsini, e il testo viene preparato da Alberto Moravia e Corrado Sofia. Si sviluppa in tre episodi, pensati per una trasmissione televisiva, raffiguranti rispettivamente tre aree geografiche in cui si è concentrata in quegli anni l’attività dell’ENI: la pianura Padana, Grottole in Lucania e Gela in Sicilia. La trasmissione televisiva, tuttavia, non avverrà, se non dopo una pesante vicenda di “censura” della RAI, che porterà addirittura a rigirare, senza il consenso di Ivens, alcune scene dell’ultimo episodio.2 È opportuno chiarire che il taglio del film non è in alcun modo di denuncia, anzi, a uno spettatore odierno potrebbe apparire semmai fin troppo edulcorato nell’incensare le «magnifiche sorti e progressive» della visione matteiana. L’esaltazione dell’industrializzazione come salvifico avvenire del paese è figlia del “boom” economico che si respira in quegli anni nella penisola, ed è significativo che il problema, per la dirigenza RAI, risieda invece 1 BRASS s.d. «Quando Ivens ebbe finito il film, lo fece vedere a Mattei e a Mattei piacque molto. Non ci fu assolutamente nessun contrasto tra i due. I problemi nacquero con i funzionari RAI che, come al solito più realisti del re, temevano che il potere democristiano, il pubblico televisivo non apprezzassero un film che mostrava un’Italia povera. Quindi chiesero a Ivens di operare dei tagli che naturalmente lui si rifiutò di fare. Addirittura allora fecero girare delle scene, quelle di Gela, ad altri operatori, scene che dovevano dare un’idea di una Sicilia assolutamente falsa ed edulcorata, con i carretti siciliani... La situazione si fece molto complessa perché Mattei in quel periodo stava vivendo una situazione politica ed economica estremamente difficile per cui fu costretto, sebbene a malincuore, ad abbandonare Ivens e il destino del film»; ibid.; per un resoconto delle vicende legate al film, cfr. SALVATORI 2002. 2 132 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta nelle immagini che raffigurano al di fuori degli stilemi folklorici (ma ben lontane da procedimenti in stile cinèma-verité) le condizioni della popolazione meridionale.3 A maggior ragione è interessante entrare in alcune delle strategie narrative approntate da Ivens per comprendere la coniugazione delle risorse sonore elettroacustiche utilizzate. La musica per il film, sonorizzato alla Fonolux, è affidata a Gino Marinuzzi jr. Come di consueto, ma se possibile ancora più approfonditamente, vista l’occasione propizia di misurarsi con ben tre mediometraggi di contenuto eterogeneo, il compositore utilizza ecletticamente svariate risorse musicali: dalla magniloquente partitura sinfonica che ha in comune i toni con le coeve musiche per peplum, allo sfruttamento di documenti sonori etnografici lucani,4 all’uso esteso di risorse elettroacustiche. Nel primo episodio, Fuochi in Valpadana è possibile distinguere tra due tipologie di intervento elettronico. La prima, e più frequente, è costituita dall’accostamento tra musiche elettroniche e inserti d’animazione di carattere didattico-esplicativo, tipici del genere del documentario televisivo, in cui vignette animate d’ispirazione fumettistica vengono utilizzate per spiegare al pubblico non preparato complessi processi tecnologici come l’estrazione o la lavorazione del metano. La musica elettronica in questi casi assume profili motivici, mimando tipologie espressive del linguaggio musicale tonale, e diventa, secondo un trend da tempo consolidato nella cinematografia di ricerca, Non c’è spazio qui per indagare le implicazioni più profonde della politica economico-energetica di Mattei, verosimilmente scomode a frange influenti del potere democristiano che controlla in quegli anni la televisione pubblica. Il fatto che argomento del contendere del documentario sia proprio l’episodio siciliano non può non portare alla mente la tesi sulla morte del petroliere esposta dal celebre film-inchiesta di Francesco Rosi, Il caso Mattei (1972). 4 Risale all’autunno del 1952 la famosa spedizione nell’entroterra lucano organizzata da Ernesto De Martino per il Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare (CNSMP, oggi Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia), a cui partecipano Diego Carpitella, Vittoria de Palma, Franco Pinna e Marcello Venturoli, che toccò fra gli altri centri anche la località di Grottole e produsse la famosa raccolta 18, riconosciuta oggi come punto di svolta nella metodologia della ricerca su campo in Italia (GIANNATTASIO 1998, p. 68). Date le condizioni di fruizione dell’unica copia del film di Ivens da me reperita presso la Cineteca di Bologna, e soprattutto a causa del diverso orientamento della mia ricerca, non mi è stato possibile verificare se i canti lucani presenti nel secondo episodio siano tratti dalla raccolta 18, magari tramite la mediazione di Carpitella, che ebbe con Marinuzzi alcuni scambi, come dimostrano le annotazioni su due bobine reperite in FMAR. 3 133 Maurizio Corbella espressione didascalica e umoristica dei disegni animati.5 La seconda tipologia deriva dall’accostamento tra i suoni elettronici e le attrezzature avveniristiche del Laboratorio Geochimico di San Donato Milanese dell’ENI. La metafora futuristico-fantascientifica è svolta in maniera esplicita dalla voce narrante che non perde occasione per sottolineare la corrispondenza tra fantascienza e scienza: «il laboratorio non è forse un’immagine di fantascienza?»,6 si chiede retoricamente il narratore mentre sullo sfondo sonoro brulicano suoni di sintesi; l’elaboratore di dati del laboratorio è presentato come un «cervello elettronico», adeguatamente sonorizzato. Spunto per una riflessione che riprenderò poco oltre sulla parziale sovrapposizione tra musica sperimentale e scienza nell’immaginario culturale degli anni Sessanta, è il simpatico cameo riservato a Gino Marinuzzi jr., che interpreta la comparsa di uno scienziato, totalmente aderente, nell’iconografia fantascientifica e giornalistica post-einsteiniana, all’idea di scienziato pazzo in camice bianco che scrive formule astruse su una lavagna. Il secondo episodio del film, Due città, è sicuramente il più significativo, per l’interesse delle situazioni che sviluppa in corrispondenza dell’utilizzo di musica elettronica. La prima parte è ambientata nel polo industriale veneto-romagnolo situato tra Marghera e Ravenna. Le scelte narrative di Ivens, unitamente a quelle musicali di Marinuzzi, risultano determinanti nel configurare un vero e proprio topos dell’immaginario italiano degli anni Sessanta, che sarà affrontato in maniera indelebile appena quattro anni più tardi da Michelangelo Antonioni nel suo Il deserto rosso. Rispettivamente polo dell’industria metallurgica e di quella chimica (produzione di concimi fertilizzanti e gomma), Marghera e Ravenna sono, insieme alla Fiat di Torino, i luoghi eletti dell’avvenire tecnologico italiano, motori del benessere capitalista nazionale e, al contempo, buchi neri in cui la natura arretra di fronte agli “ecomostri” industriali – per usare un’espressione che entrerà nell’uso solo in seguito al mutamento di sensibilità attuatosi sul finire degli anni Settanta. Ma già tra il film di Ivens e quello di Antonioni è possibile verificare due prospettive diverse, per non dire opposte, che tuttavia ruotano intorno a un’analoga configurazione dell’elemento sonoro. Lo schema narrativo scelto dal regista olandese è quello della favola esemplare, che tornerà di nuovo negli 5 Senza risalire indietro fino alla cinematografia degli anni Venti, è sufficiente ricordare il percorso creativo di Norman McLaren che, a partire dagli anni Quaranta, realizza esperimenti con il suono ottico costruendo piccoli gioielli dell’animazione, caratterizzati spesso dal ricorso a minime unità narrative di tipo umoristico. Contemporaneo di Marinuzzi è inoltre l’italiano Cioni Carpi, che fa dell’animazione supportata da risorse sonore elettroacustiche uno dei suoi principali campi espressivi; cfr. CARAMEL–MADESANI 2002. 6 Questa e le successive citazioni della voce narrante sono state desunte dal film. 134 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta episodi lucano e siciliano. Protagonista è Nane, un bambino veneziano, appassionato, come molti altri coetanei, dei fumetti di fantascienza: «Nane legge i fumetti di fantascienza e sogna». Tramite l’espediente della favola si realizza la convergenza tra i sogni avveniristici del bambino e la stretta attualità di quanto accade nel “boom” industriale, come a dire che i sogni non sono poi tanto lontani dal realizzarsi.7 Nane si addormenta mentre legge il fumetto e il suo sogno si sviluppa come un volo sugli scenari industriali di Ravenna; la sonorizzazione è in partenza completamente elettronica, poi diventa mista, con la presenza di un flauto, elaborazioni di tipo concreto (versi di animali, gallo, gatto, fischio del bambino, voce del bambino); alle manipolazioni sonore si aggiungono manipolazioni dell’immagine, inserti del fumetto, sdoppiamenti del viso del bambino. Il sogno si conclude con la sovrapposizione del viso dell’eroe del fumetto, chiuso in un casco avveniristico, con quello di un operaio che indossa un simile copricapo. La saldatura tra subconscio, fantascienza e attualità è compiuta. Le pulsioni dell’inconscio individuale o collettivo (positive o negative che siano) non vengono più proiettate su una dimensione necessariamente spostata avanti nel tempo, ma trovano un loro possibile sfogo nel presente, e la musica elettronica diventa il mezzo principale di tale transizione. La continuità con i procedimenti narrativi del Deserto rosso (analizzati nel dettaglio più avanti in questo capitolo) è lampante: suono elettronico come trasfigurazione del rumore naturale, distorsione dell’elemento visivo, presenza di sostrato psicanalitico, elemento infantile (ma quanto sarà diverso, nel suo cinismo, il Valerio di Antonioni dal Nane di Ivens!). Se questo esempio evidenzia il nodo dell’incontro dell’immaginazione (infantile) con le promesse della tecnologia, il seguente, tratto dalla seconda parte dell’episodio Due città, ambientata a Grottole, completa idealmente il campionario di tipologie, prendendo in considerazione la giustapposizione tra modernità e ancestralità, tra urbanità e ruralità, tra razionalità e magia. È questo uno dei topoi più ricorrenti nelle narrazioni italiane del dopoguerra, che trova nel racconto del Meridione un terreno privilegiato d’indagine specialmente in ottica cinematografica. Oggetto dell’interesse etnografico a partire dalle spedizioni demartiniane dei primi anni Cinquanta, il Meridione diventa anche la culla di un immaginario autoriale che stabilisce un rapporto contraddittorio con i nascenti interessi scientifici e le pressioni politico-i- Il nocciolo del ragionamento consiste nel suggerire che grazie all’energia prodotta dal sottosuolo italiano e portata in superficie da ENI, uno tra i più importanti poli industriali italiani (Ravenna è famosa per i fertilizzanti chimici e la gomma, Marghera per l’industria metallurgica) potrà determinare il successo dell’Italia nel mondo e la realizzazione dei sogni della nuova generazione. 7 135 Maurizio Corbella deologiche; il film etnografico, che si sviluppa tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, è lo specchio di queste contraddizioni: le immagini relative ai rituali e al magismo meridionale, filmate da cineasti come Luigi Di Gianni, caratterizzate da una coerente poetica autoriale orientata verso una rappresentazione espressionista della realtà (dunque non verso un suo resoconto scientifico), le musiche di Egisto Macchi che contribuiscono alla creazione di paesaggi onirici e interiori più che esteriori, risultano fortemente appesantite dall’enfasi retorica e ideologica delle voci narranti sovra-imposte, spesso proiettata in un orizzonte scientifico di derivazione demartiniana.8 Ivens, e soprattutto il commento di Moravia, subiscono l’influenza di tale clima, ma il carattere “promozionale” di questo documentario favorisce inevitabilmente lo stereotipo, aggravato dalla forma narrativa scelta per descrivere l’irruzione della “modernità” nel mondo pastorale: nuovamente la favola, stavolta basata sull’espediente della storia d’amore. Il collegamento con Ravenna è attuato attraverso la semplice constatazione della dipendenza del sud dall’industria settentrionale: «i concimi [prodotti nel ravennate] servono soprattutto al Meridione». Pochi tratti, per configurare una storia lontana nel tempo e nello spazio, e tuttavia familiare, in cui il telespettatore ancora legato o recentemente emancipatosi dalla vita agraria, possa riconoscere i contorni di esperienze note: Qui comincia la storia di due alberi, uno di legno e uno di ferro. L’albero di legno è un ulivo, del quale vivono sette famiglie. Un albero solo, infiniti litigi. Marina, una contadina come tante, ma con una sua storia d’amore; Enrico è il suo fidanzato. Un canto femminile, tratto dal repertorio lucano, viene variato da un flauto che ne imita il procedere non temperato, prima di riprendere il tema principale e magniloquente del film. Enrico, il personaggio maschile della favola, trova per caso un geofono, lo strumento utilizzato dalla squadra di ricercatori dell’ENI per le rilevazioni dei giacimenti di metano. Esso si rivela il trait d’union tra due mondi non meno distanti di quelli tenuti insieme simbolicamente dal monolito kubrickiano: «ora mangiano insieme coloro che da secoli lavorano insieme questa terra e coloro che in pochi anni le strapperanno il suo tesoro [i ricercatori dell’ENI]». Ed ecco che sul suono delle campane si innesta il vento elettronico tanto caro a Marinuzzi, che abbiamo già incontrato a proposito di Terrore nello spazio e La mandragola (CAPITOLO 2.II), e che Savina ci ricordava essere ricercato dal compositore fin dalla fine degli anni 8 Per un resoconto sulla cinematografia “demartiniana” e sul dibattito da essa generato negli anni Settanta e Ottanta, cfr. MARANO 2007, pp. 28-67. 136 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Cinquanta per i documentari con Guerrasio (CAPITOLO 1). Tutto il prosieguo del racconto è giocato sulla continua (e francamente ridondante) similitudine tra gli elementi simbolici del mondo ancestrale e quelli del mondo moderno (ulivo/torre di trivellazione, fiamma della passione tra i due innamorati/fiamma di combustione del metano finalmente trovato): Durante la notte la sonda penetra la Terra più profondamente delle radici dell’ulivo […]. Enrico non è già più un contadino, è un operaio. […] Si pianta l’albero di Natale, è un albero di ferro che scende nella terra, invece di salirne. L’albero di ferro è delicato come l’albero di legno, e per piantarlo ci vuole prudenza e accortezza. L’albero di Natale è color argento, come le foglie dell’ulivo quando soffia il Ponente. La torre [di trivellazione] è smontata, non resta che aspettare i fiori dell’albero di Natale. [I due innamorati ridono felici, giocano intorno all’ulivo e corrono nei campi]. [...] Enrico e Marina non hanno mai avuto dubbi: questa [la fiamma del metano] è la loro fiamma. Dalle terrazze di Grottole già si vede fuggire il vecchio nemico: la miseria. E alla ricerca del petrolio e del metano il viaggio continua; presto l’Italia non sarà più un paese povero. 9 Su un piano d’impostazione generale, L’Italia non è un paese povero offre una sintesi emblematica delle situazioni narrative d’impiego delle risorse elettroacustiche nel cinema italiano nel decennio alle porte. Se proviamo a operare un’astrazione, riducendo le sequenze estrapolate dalla pellicola di Ivens alle loro strutture drammaturgico-narrative, notiamo una tendenza in cui il suono elettroacustico qualifica situazioni di trascendenza da una condizione culturale, storica, sociale, antropologica o psicologica data come acquisita e sicura, verso una meno nota e dialetticamente opposta. In un certo senso tale canovaccio ci riporta a caratteristiche già incontrate nella maggior parte dei casi fin qui citati: nelle sequenze della Mandragola (CAPITOLO 2.II) l’elemento di transizione aveva connotazione addirittura metafisica; nella recensione ad alto tasso “cinematografico” di Joan Marble (CAPITOLO 3) l’insistenza su elementi narrativi dinamici aveva una spiccata tendenza all’apocalittico. Ora, il punto su cui mi piacerebbe insistere, risiede nella constatazione che tali vettorialità narrative, altrimenti generali e generiche, corrispondono a particolari nodi culturali della società italiana degli anni Sessanta, e finiscono per trasformarsi, in un certo qual modo, in strumenti di rappresentazione e analisi della stessa. I. Funzioni narrative del suono elettroacustico: l’automatismo In tondo le parole della voce narrante desunte dal film, in corsivo tra parentesi quadre il riassunto sommario dell’azione del film. 9 137 Maurizio Corbella Innanzitutto, si tratta di isolare le polarità che assumono il valore di categorie culturali, all’interno della cui dialettica è configurabile una transizione. Nella TABELLA 3 ho provato a enumerarne alcune, mettendo in evidenza come il percorso di transizione si possa compiere in entrambe le direzioni. TABELLA 3: Dinamiche di transizione tra polarità culturali, attraverso il suono elettroacustico Razionalismo, materialismo, cinismo, positivismo Spiritualismo, esoterismo, magia, occultismo Subconscio ⇐ Ruralità Trascendenza: sperimentazione, sogno, alterazione psicofisica, allucinazione, orgasmo, automazione, alienazione, programmazione, rivoluzione, rituale ecc. Natura ⇒ Infanzia Ancestralità Innocenza Coscienza Maturità Modernità Urbanità Artificio Maturità Se accettiamo che i procedimenti di manipolazione sonora di natura elettroacustica operino come “motori” della transizione tra le polarità testé elencate, è opportuno proseguire con una tipizzazione ulteriore, stavolta di matrice eminentemente narrativa. Procedendo per ampie generalizzazioni, che si prestano inevitabilmente a essere sfumate man mano che ci si addentri nella specificità dei singoli casi, si può operare una prima macro-distinzione tra transizioni con dominante “ambientale” e transizioni con dominante “psicologica”: nel primo caso (“luoghi della transizione”) si individuano spazi (geografici, sociali, antropologici) in cui la narrazione è immersa; nel secondo (“stati della transizione”) ci si cala, per così dire, in spazi interiori, avendo a che fare con rappresentazioni comportamentali di personaggi. Sono “luoghi della transizione”: spazi a dominante automatico/elettronica (laboratorio scientifico, nave spaziale, spazi che ospitano elaboratori automatici o elettronici); spazi industriali (fabbrica, macchinari industriali); luoghi naturali “alterati” o “estremi” (cataclisma, devastazioni belliche o post-atomiche, spazio intergalattico, ventre terrestre, abissi marini ecc.); spazi domestici “alterati” (popolati da oggetti automatizzati quali elettrodomestici o “gadgets” dell’indu138 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta stria). Sono “stati della transizione”: condizioni oniriche o patologiche (nevrosi, psicosi ecc.); traumi e alterazioni temporanee di coscienza (causate da sostanze stupefacenti, conflitti fisici e affettivi, condizioni esistenziali problematiche ecc.); stati di trascendenza metafisica (estasi, rituali, transizioni vitamorte ecc.). In una zona “franca” tra le due macro-tipologie si collocano situazioni che potremmo definire “astrazioni” spazio-temporali, consentite dalla tecnica cinematografica – come per esempio il montaggio di immagini afferenti a diverse sfere semantiche che rendono metaforicamente spazi mentali, “totali” socio-culturali ecc. La TABELLA 4 prova a offrire una sintesi di tale classificazione appoggiandosi a sequenze di film esemplificative (mi sono limitato a includere solo film che fanno uso di risorse sonore elettroacustiche). TABELLA 4: Situazioni narrative tipicamente associate a suono elettroacustico LUOGHI DELLA TRANSIZIONE Tipologia narrativa Spazi a dominante automatico/ elettronica Spazi industriali Film Descrizione sequenza Descrizione intervento elettroacustico L’Italia non è un paese povero, 1960 Laboratorio Geochimico di S. Donato (I episodio) Episodi di sintesi sonora (Marinuzzi) Operazione Vega, 1961 Viaggio verso Vega e interni della nave spaziale Episodi di sintesi sonora (SFdM) Ai poeti non si spara, 1965 Elaborazione da parte di Gordon I in risposta alla domanda del presidente della società Bordone elettronico con episodi di sintesi sonora Terrore nello spazio, 1965 Titoli di testa/ Sequenze in “esterni” sul pianeta ostile Episodi di sintesi sonora (Ketoff) Panoramica del polo industriale ravennate (II episodio) Composizione elettroacustica (suoni di sintesi, manipolazione di fonti concrete) (Marinuzzi) L’Italia non è un paese povero, 1960 139 Maurizio Corbella Omicron viene assunto alla catena di montaggio Composizione elettroacustica (suoni di sintesi e pianoforte) (Umiliani) Titoli di testa, panoramica delle ciminiere dell’industria di nerofumo Composizione elettroacustica (frammenti di composizioni preesistenti di Gelmetti, rumori industriali, brano per voce sola di Fusco) (Gelmetti-Antonioni) La classe operaia va in paradiso, 1971 Varie sequenze di lavoro dei cottimisti Suono di sintesi in composizione orchestrale che richiama le macchine industriali (Morricone) Ercole alla conquista di Atlantide, 1961 Presagio soprannaturale che annuncia l’imminente minaccia di Antinea/Ercole nel sottosuolo di Atlantide, alle prese con la pietra soprannaturale del dio Urano Episodi di sintesi sonora ed effetti di vento elettronico (Marinuzzi) Operazione Vega, 1961 Distruzione atomica del Pianeta Vega Episodi di sintesi sonora (SFdM) Barabba, 1961 Crocifissione di Cristo durante l’eclissi solare Composizione di strumenti acustici pre-registrati e manipolati (Nascimbene) La notte, 1961 Titoli di testa, inquadratura dall’alto di Milano in movimento discendente. Composizione elettronica (Gaslini) Omicron, 1963 Il deserto rosso, 1964 Luoghi naturali “alterati” o “estremi” 140 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Spazi domestici “alterati” 8 ½, 1963 Sequenza del cantiere dell’astronave sulla spiaggia Bordone d’organo elettrico, episodi di sintesi (Rota) Terrore nello spazio, 1965 Titoli di testa/ Sequenze in “esterni” sul pianeta ostile Bordoni elettronici (Marinuzzi) Un milione di anni fa, 1966 Titoli di testa: rappresentazione del big bang Effetto di glissando realizzato tramite composizione di strumenti acustici e rumori pre-registrati e manipolati (Nascimbene) La fantarca, 1966 Apocalisse elettromagnetica nella guerra tra Triangolo e Quadrato Composizione elettronica (Vlad) Il seme dell’uomo, 1969 Situazione di pandemia postatomica, dopo l’uscita di Cino e Dora dalla galleria Composizione elettroacustica preesistente per onde cerebrali, pulsazioni cardiache e Moog (In Tune, Teitelbaum) Gott mit uns, 1969 Titoli di testa, esercito in marcia Suono di sintesi che richiama mitragliatrice in composizione orchestrale (Morricone) Il deserto rosso, 1964 Il robot giocattolo nella stanza di Valerio causa il risveglio di Giuliana/Ugo spiega a Valerio il funzionamento della trottola Rumori manipolati e resi ipertrofici La tana, 1967 Durante tutto il film, ambientato in un interno Collage elettroacustico (Gelmetti) 141 Maurizio Corbella Astrazione spazio-temporale 142 Un tranquillo posto di campagna, 1968 Leonardo cerca di dipingere nella sua casa milanese Rumore del traffico e del vociare cittadino manipolato, squillo insistente del telefono Antigone, 1958 Titoli di testa, fondale fisso con disegnato tempio greco Composizione per coro ed elettronica (Marinuzzi) Ai poeti non si spara, 1965 Giustapposizione di volti di poeti e macchinari tecnologici Bordone elettronico Il seme dell’uomo, 1969 Titoli di testa, montaggio di foto raffiguranti volti umani Frequenza elettroacustica fissa (In Tune, Teitelbaum) Nerosubianco, 1969 Montaggio di scene di scene reali di violenza, guerra e miseria Collage elettroacustico (Gelmetti-Lanzillotti) Zabriskie Point, 1970 Titoli di testa, primi piani di volti di ragazzi in assemblea/Primi piani di insegne pubblicitarie mentre Mark attraversa Los Angeles/Sospensione aerea ed esplosione di simboli del capitalismo Composizione elettroacustica (Heart Bit, Pig Meat, Pink Floyd)/Improvvisazione elettroacustica (MEV)/Composizione elettroacustica (Come in Number 51, Your Time Is Up, Pink Floyd) Il sasso in bocca, 1970 Montaggio di simboli del benessere americano e immagini di crimini mafiosi Collage elettroacustico (Gelmetti) Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta STATI DELLA TRANSIZIONE Condizione onirica o patologica Sogno di Nane (II episodio) Composizione elettroacustica (suoni di sintesi, manipolazione di fonti concrete) (Marinuzzi) 8 ½, 1963 Sogno iniziale di Marcello Montaggio di rumori (timpani, rumore bianco, gemiti, vento) Il deserto rosso, 1964 Due sequenze “erotiche” (Giuliana e Ugo/Giuliana e Corrado) Episodi di sintesi (elaborazioni di Modulazione per Michelangelo, Gelmetti) (Gelmetti-Antonioni) Giulietta degli spiriti, 1965 Visioni di Giulietta Montaggi di suoni di sintesi e rumori Sogni di Leonardo Improvvisazioni su strumenti acustici (GINC) con sovrapposizioni di rumori La classe operaia va in paradiso, 1971 Sequenza finale, Lulù racconta il sogno del muro Suono di sintesi in composizione orchestrale che richiama le macchine industriali (Morricone) La dolce vita, 1960 Morte di Steiner, Marcello accorre sul luogo della tragedia Bordone elettroacustico (Rota) Ercole alla conquista di Atlantide, 1961 Combattimento tra Ercole e Proteo/Combattimento tra Ercole e i soldati di Antinea Composizioni elettroniche (Marinuzzi) L’Italia non è un paese povero, 1960 Un tranquillo posto di campagna, 1968 Traumi, alterazioni temporanee della coscienza 143 Maurizio Corbella Giuliana scopre l’inganno di suo figlio e si precipita per strada diretta da Corrado Episodi di sintesi (elaborazioni di Modulazione per Michelangelo, Gelmetti) (Gelmetti-Antonioni) Un tranquillo posto di campagna, 1968 Omicidio (immaginato) di Flavia Improvvisazione su strumenti acustici e manipolazioni elettroacustiche (GINC) Il giudizio universale, 1962 Sequenza del giudizio divino Bordoni elettronici (Marinuzzi) Le tentazioni del Dottor Antonio, 1962 Il corpo gigantesco di Anita Ekberg prende vita dal manifesto. Effetti elettroacustici sulla voce. Omicron, 1963 “Resurrezione” dell’operaio per opera di Omicron entrato nel suo corpo. Vibrati acuti d’organo elettrico e suoni di sintesi (Umiliani) La mandragola, 1965 Raccolta della radice di mandragola/Monologo di Fra’ Timoteo nella cripta Bordoni elettronici ed elaborazione di strumenti acustici (Marinuzzi) Terrore nello spazio, 1965 Resurrezione degli zombie Bordoni elettronici (Marinuzzi) Toby Dammit, 1968 Sequenza dell’intervista televisiva/Ritiro del premio e monologo macbethiano Bordone elettroacustico Il deserto rosso, 1964 Trascendenza metafisica Siamo partiti, fenomenologicamente, da una constatazione statistica: il suono elettroacustico accompagna situazioni narrative di transizione dinamica. Ma ciò che è importante stabilire, sempre a livello generale e riservandoci una verifica più puntuale nelle analisi di singole poetiche, è come esso connoti 144 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta tali transizioni. In altre parole: si può intendere come elemento neutro, oppure il suo impiego condiziona la natura stessa della transizione? Partiamo dal basilare presupposto che la presenza del suono non sia indispensabile perché si verifichi una transizione del tipo di quelle elencate, avvenendo esse su un diverso piano strutturale del discorso narrativo. Ciò nondimeno esistono particolari tipologie per le quali, invece, si verifica il fenomeno opposto, e cioè: senza il suono la transizione non sarebbe percepita, in altri termini la situazione narrativa sarebbe statica; tipico è il caso delle scene con calcolatori elettronici (prima tipologia dei “Luoghi della transizione” in TABELLA 4): è il suono a rendere “pensanti” tali macchine, trasformandole perciò da oggetti ad automi. La parola automa non è scelta a caso, poiché il suono elettroacustico, nella sua natura di evento risultante da un processo di elaborazione meccanica, è portatore di una componente automatica. Se ciò appare didascalico nel contesto dell’elaboratore, diventa portatore di un segno non neutrale in altre tipologie narrative elencate. Prima di addentrarci in questo concetto è bene chiarire la portata filosofico-culturale della nozione di automatismo. Per Jean Baudrillard, l’automatismo è la connotazione tecnica essenziale degli oggetti della contemporaneità, dove per connotazione egli intende il sistema di significati prodotto da un’ideologia. L’ideologia, nello specifico, è il trionfalismo meccanicistico: «l’automatismo è l’oggetto che assume una connotazione di assoluto nella funzione specifica».10 Il filosofo francese illustra il paradosso del funzionalismo, che consiste nel fatto che, se è vero che da una parte il grado di automatismo di una macchina è direttamente proporzionale alla sua perfezione, è anche vero che per rendere una macchina altamente automatizzata, occorre sacrificarne alcune potenzialità di funzionamento, rendere le sue funzioni stereotipate e, nel complesso, rendere la macchina più fragile: l’esempio è quello degli accessori servo-comandati delle automobili, «il cui effetto più immediato è rendere più fragili gli oggetti, di alzare il loro prezzo e di favorirne l’obsolescenza e l’esigenza di sostituzione».11 Assurto a modello tecnico dell’ideologia capitalista, l’automatismo è lontano da avere un significato tecnico. L’automatismo è ridondanza, «è il sogno di un mondo asser- 10 11 BAUDRILLARD 1968, p. 141. Ivi, p. 142. 145 Maurizio Corbella vito, di una tecnicità formalmente compiuta al servizio di un’umanità inerte e sognatrice». 12 Il suono elettroacustico è portatore di un principio di automatismo, nella misura in cui è esso stesso frutto di un’automazione; sono proprio le “figure sonore” indicate nel CAPITOLO 3.II come caratterizzanti il percorso di elaborazione culturale del suono fonografico e sintetico da parte dell’immaginario novecentesco, a delineare la metafora automatica attraverso la quale il suono elettroacustico si integra nei contesti audiovisivi sopra elencati: il fattore di emulazione si fa carico dell’aspetto meccanico; il fattore di trasmissione, suggerendo la comunicazione tra stati e mondi diversi, apre la via ai punti di fuga spiritualisti; il fattore di vibrazione suggerisce la componente emotiva. Il cinema è probabilmente l’agente narratore principale dell’avvento dell’automatismo nella società contemporanea, e delle contraddizioni sociali, economiche e politiche in esso implicate. Le declinazioni possono essere a vari livelli: così come nella narrazione fantascientifica assistiamo, sulla scorta delle ricerche cibernetiche, alla rappresentazione di cervelli elettronici sempre più autonomi, sempre più in grado di compiere scelte, addirittura di provare emozioni, con il complementare incremento di tangibile inquietudine, a mano a mano che la tecnologia rivela i suoi lati oscuri,13 il cinema si fa carico di narrare l’ingresso della “fantascienza” nella vita quotidiana, realizzato soprattutto mediante l’automatizzazione delle operazioni domestiche. Gli elettrodomestici, in particolare frigorifero, lavatrice e televisione, provocano un cambiamento profondo degli stili di vita. Il focolare diventa uno spazio potenzialmente avveniristico, amico come ostile, dotato di una sua “vita” automatica sotto o fuori dal controllo dei suoi abitanti; inoltre, come ha notato Simone Venturini, la tecnologia domestica, oltre ad avere implicato l’ingresso dei paradigmi di narrazione fantascientifica all’interno della sfera intima del nucleo familiare, ha anche determinato una nuova organizzazione dello spazio dell’inquadratura, nel quale i nuovi oggetti diventano Baudrillard non esclude l’effettivo progresso tecnologico come perfezionamento della macchina, semmai lo colloca su un versante opposto rispetto all’illusione “automatica”: «[...] il perfezionamento reale delle macchine, quello di cui si può dire in buona fede che eleva il loro grado di tecnicità, la “funzionalità” vera dunque, non corrispondono a una iper-crescita d’automatismo, ma ad un certo margine di indeterminazione, che permette alla macchina di essere sensibile a un’informazione che giunge dall’esterno. La macchina altamente tecnologica è una struttura aperta, l’insieme delle macchine aperte presuppongono un uomo organizzatore e interprete vivente»; Ivi, p. 143. 13 Naturalmente l’apice di questa tendenza si riscontra in 2001: Odissea nello spazio (1968). 12 146 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta elementi strutturali.14 Il terzo polo dell’automatismo, dopo gli spazi fantascientifico e domestico, è quello che potremmo definire “biologico”. La narrazione fantascientifica ci ha consegnato un’ampia variazione sul tema dell’automa per eccellenza – il robot, sempre più simile a uno smisurato cervello elettronico che sviluppa estensivamente i meccanismi intellettuali del cervello umano – mentre la scienza ha approfondito i meccanismi biologici delle funzioni cerebrali. L’uomo stesso viene affrontato come una macchina complessa, i cui comportamenti, stati fisici ed emotivi, possono essere programmati. In parziale reazione a questa tendenza si assiste alla fioritura di contributi provenienti da filoni della ricerca scientifica che indagano i cosiddetti fenomeni paranormali, come la parapsicologia, fiorente in Italia in quegli anni grazie agli studi dello psicanalista freudiano Emilio Servadio,15 e la stessa antropologia, che apre grazie ad Ernesto De Martino finestre fondamentali nell’ambito delle pratiche magiche.16 Il cinema italiano si confronta in vario modo con queste tematiche, subendone il fascino sotto il profilo della rappresentazione, e generalmente stigmatizzando le tendenze spiritistico-occultiste alla moda nei settori della borghesia agiata, bisognosa di guru, santini e santoni più o meno esotici. Soprattutto, il cinema ha il merito di intuire come da un’approfondimento di questi temi passi una chiave fondamentale per l’interpretazione delle dinamiche profonde della società contemporanea. Non sarà possibile indagare tutte le combinazioni tematiche testé elencate, delle quali semmai viene offerto un campione all’interno delle quattro analisi monografiche in coda al capitolo. Proporrò ora di restringere il campo a una particolare conformazione che consente numerose vie di fuga e, soprattutto, ci consente di spostare il piano del discorso dal suono elettroacustico alla musica elettroacustica. Mi pare valga la pena di domandarsi il tipo di relazione che si instaura tra le ricerche scientifiche, in particolar modo legate all’orizzonte cibernetico e le poetiche musicali, per poi sondare la modalità in cui questa convergenza si depositi nel cinema narrativo. 14 «[...] un oggetto tecnologico statico e razionale come il frigorifero impone, nei film che lo ritraggono, un’organizzazione dello spazio della ripresa, inserendosi come oggetto dello sguardo in una dialettica tra macchina domestica e macchina da presa; contribuisce a definire la rappresentazione delle relazioni tra i personaggi, fissando i tempi del dialogo, gli spostamenti e la prossemica, i ritmi del racconto»; VENTURINI 2005, p. 92. 15 Cfr. BIONDI 1995. 16 Cfr. DE MARTINO 1948. 147 Maurizio Corbella Il solo fatto che il principale responsabile dell’introduzione II. Cibernetica, musica e cinema. della scienza cibernetica in Italia sia un intellettuale eclettico Aspetti di una “triangolazione” e poliedrico come Silvio Ceccato – filosofo, linguista, diplomato in composizione, con alle spalle un passato di critico affascinante musicale – autorizza a ipotizzare un incrocio tra cultura e scienza particolarmente fertile nel nostro paese. Ceccato, nella sua sterminata e interdisciplinare produzione, negli anni Sessanta scrive di cinema, di arte, di musica con grande lucidità e capacità divulgativa e intrattiene rapporti con intellettuali, compositori, artisti e cineasti. 17 Uno dei suoi campi d’attività è consistito in anni più recenti nell’aprire la via per un possibile scambio tra la cosiddetta “terza cibernetica”, o logonica, e le dinamiche della creazione e della ricezione estetica, in particolare musicale. 18 Impegnato fin dagli anni Cinquanta nella costruzione di automi (il suo Adamo II è del 1956) e attivo in quel gruppo internazionale di scienziati finanziati dagli Stati Uniti in piena Guerra Fredda, per lo sviluppo di modelli di traduzione simultanea dal russo all’inglese, ebbe senz’altro una profonda influenza nell’indirizzare, anche inconsapevolmente, le sorti della rappresentazione tecnologica nelle discipline artistiche italiane degli anni Cinquanta. Il grande ritratto dell’amico Dino Buzzati (1960) è un romanzo di fantascienza per così dire “originato” dalla sconvolgente impressione che lo scrittore riceve dalla conoscenza del “cronista meccanico”, un progetto mai portato a termine di costruzione di un automa in grado di formulare descrizioni verbali di realtà fisiche elementari.19 A una simile miscela di stupefazione e fascino, avvenuta in un incontro analogo, si deve fare risalire anche la scintilla che infiamma la genesi del Deserto rosso, come ricorda lo stesso Antonioni in una conversazione con JeanLuc Godard. Tra il 1964 e il 1975 collabora con il periodico d’arte «D’Ars»: cfr. CECCATO 1968, 1971. 18 La logonica si differenzia dalle altre due branchie principali della cibernetica (quella dell’automazione, facente capo a Wiener, e quella anatomo-fisiologica o “bionica”) in quanto «si propone di riprodurre in forme meccaniche il nostro pensiero, le nostre cosiddette attività superiori»; CECCATO–ZOTTO 1980, p. [4]. 19 «Il modello in costruzione del “cronista meccanico” avrebbe avuto a sua disposizione non più di 100 vocaboli e avrebbe guardato e riconosciuto situazioni e movimenti su un tavolo in cui si sarebbero trovati una pera, una mela, un limone, un cespo di lattuga, un piatto, un bicchiere e una tartaruga viva. Buzzati sembrava stregato dagli occhi della macchina: due tubi dalla cui coda partivano centinaia di fibre di vetro. Mentre si udiva un ronzio di motorini, lo scrittore continuava a porre domande: quanti anni ancora per completare il lavoro? Il “cronista meccanico” sarebbe stato capace in futuro di descrivere una partita di calcio? O, portato a teatro, di raccontare una commedia? Il sorriso di Ceccato accompagnava le risposte: “Sì, Dino, ma sarebbe un’impresa immensa, dai costi incalcolabili...”»; NASCIMBENI 1997. 17 148 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Sono rimasto stupefatto, e lo sono tuttora, da una conversazione che ho avuto con un professore di cibernetica di Milano, Silvio Ceccato, che gli americani considerano una specie di Einstein. Un tipo formidabile, che ha inventato una macchina capace di guardare e di descrivere, di guidare l’automobile, di fare un reportage da un punto di vista estetico, etico, giornalistico, ecc. Non è una televisione, è un cervello elettronico. Quest’uomo, che peraltro ha dato prova di una lucidità straordinaria, non ha mai pronunciato, nel corso della nostra conversazione, termini tecnici che io avrei rischiato di non capire. Ciononostante, ci stavo perdendo la testa. Nel giro di cinque minuti già non capivo più nulla di quello che mi stava dicendo. Lui si sforzava di servirsi della mia lingua, ma si finiva per ritrovarsi in un altro mondo. [...] Sei mesi fa, un altro scienziato, Robert M. Stewart, è passato a farmi visita a casa mia, a Roma. Aveva inventato un cervello chimico, ed era diretto a Napoli, ad un congresso di cibernetica, per dar conto della sua scoperta, una delle più straordinarie al mondo. [...] Mi parlava di questa scoperta, era tutto molto chiaro, ma talmente incredibile che a un certo punto mi sembrava di non riuscire più a seguirlo. Invece chi sin da bambino ha sempre giocato con i robot potrà capire molto bene, e se gli viene voglia non avrà problemi a partire per lo spazio a bordo di un razzo. Io guardo tutto questo con invidia, e vorrei essere già in questo nuovo mondo. Ma purtroppo non ci siamo ancora, ed è un dramma per più di una generazione: la mia, la sua, quella dell’immediato dopoguerra. [...] Allora mi sono detto: «che cosa c’è da raccontare, oggi, al cinema?», e ho avuto voglia di raccontare una storia fondata sulle motivazioni di cui le parlavo poco fa.20 Non c’è niente di nuovo nel fatto che forme della narrazione (letteraria o cinematografica) operino rappresentazioni della realtà e colgano a vari livelli, sulla base di diversi gradi di competenza o di rielaborazione fantasiosa, le implicazioni delle scoperte scientifiche sentite come maggiormente rivoluzionarie, affascinanti o pericolose (valga su tutti il mito di Frankestein, archetipo letterario e cinematografico): la descrizione ironica che ci viene offerta del processo di funzionamento dell’organismo umano in Omicron di Ugo Gregoretti è in un certo senso basata su una semplificazione dei modelli meccanici offerti dalla cibernetica; l’elaboratore Gordon I che è in grado di sintetizzare i contenuti di tutto lo scibile letterario umano e, sulla base di ciò, di produrre testi poetici e rispondere a quesiti esistenziali ultimi, in Ai poeti non si spara di Vittorio Cottafavi trae ancora una volta ironicamente le conseguenze di ricerche che hanno una matrice comune a quanto Ceccato sta facendo in quegli anni. 20 ANTONIONI in GODARD 1964, pp. 171-172. 149 Maurizio Corbella MUSICA Immaginario SCIENZA Figura 16 CINEMA Ragionare a partire da una prospettiva musicologica, ci aiuta tuttavia a cogliere, più che una dimensione di diretta dipendenza del cinema dalla scienza, una sorta di triangolazione in cui la musica svolge un ruolo di mediatore e insieme a sua volta di catalizzatore di immaginario. Inoltre la sperimentazione musicale si pone, come vedremo tra poco, nei confronti della scienza come un’importante appendice di ricerca e terreno di verifica, dunque non meramente come ricettore di suggestioni. Abbiamo già visto come nel Pianeta proibito, i coniugi Barrons immettevano in uno schema narrativo aderente agli stilemi della fantascienza hollywoodiana un livello di lettura e significazione completamente nuovo, interponendo una personale interpretazione della cibernetica alla base del processo di creazione musicale. Nel caso di un certo cinema d’autore italiano, il meccanismo si complica: registi come Antonioni, Ferreri o Petri costruiscono narrazioni legate a doppio filo con ricerche scientifiche e filosofiche coeve ma vi immettono informazioni di tipo musicale che vantano a loro volta un tragitto di derivazione, spesso indipendente, da speculazioni scientifiche. Ci troviamo così nella singolare situazione in cui il cinema rimette in circolo narrativamente la scienza, avvalendosi del contributo di musica che con la scienza ha un rapporto più diretto e interdipendente. Il prodotto bizzarro dell’equazione è che il cinema offre, in un certo qual senso, una narrazione anche di quella musica, aprendo una via ulteriore alla sua ricezione nella società, al prezzo tuttavia di un cortocircuito che sovente “tradisce” i contenuti e gli scopi per cui quella musica era stata originariamente pensata. La costruzione dell’immaginario passa dunque attraverso un doppio canale: quello di un artefatto cinematografico che ingloba e risemantizza un artefatto musicale che aveva a sua volta già instaurato un processo di sedimentazione nella società, e dunque nello stesso autore cinematografico (FIGURA 16). È sicuramente vero che ciò accade con qualsiasi presenza musicale in strutture audiovisive, in special misura quando si tratta di composizioni precedentemente esistenti. Ma la musica elettroacustica, forse a causa dello scarso grado di decodificazione che presenta presso il pubblico generalista contemporaneo – spesso a fronte di un altissimo grado di concettualizzazio- 150 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta ne a monte del processo creativo, che nei casi che vedremo tra poco diventa imprescindibile per la comprensione stessa del progetto compositivo – si presta particolarmente a solubilizzarsi e rigenerarsi nel vortice di relazioni di un tessuto audiovisivo. Diventa dunque necessario riallacciare i nodi originari della composizione con la speculazione scientifica per poi capire in che modo essi si distillino e si rimescolino nella narrazione filmica. La speculazione musicale ha sempre potuto vantare un canale privilegiato di scambio con la ricerca scientifica, fin da quando era inserita nel quadrivium del sapere, accanto ad aritmetica, geometria e astronomia. «One night I had a dream, or hypnagogic vision, in which I saw three reclining figures spaced along the In tempi recenti si è posta sempre maggiore attenzioperimeter of a round, diaphanous “tent”, all bathed in a soft blue light and all wired together in a loop so ne al rapporto tra le avanguardie musicali del secondo that one person’s alpha brain waves controlled strobe dopoguerra e le istituzioni che perseguono a vario tilights and sounds perceptible to the next, he in turn passing his alpha signals similarly on to a third, and tolo finalità di ricerca scientifica, come enti statali o the third back to the first to close the loop. governativi, strutture accademiche o addirittura miliThe image haunted me, and I decided to try and tari. Se in un certo senso già enti radio-televisivi come realize it electronically and musically». [TEITELBAUM 1974, p. 35] la RAI in Italia, l’RTF e in Francia, la WDR in Germania rientrano in questa tipologia di collaborazioni scientifiche in senso ampio, nella misura in cui si avvalgono della consulenza di compositori e tecnici per avviare percorsi di ricerca sulla sintesi elettroacustica, sulla fonologia o, più in generale, sulla comunicazione, in area americana sono intense le collaborazioni tra istituzioni governative e militari e protagonisti della sperimentazione musicale,21 quali per esempio Alvin Lucier, il cui studio sulle onde cerebrali “alfa” Music for Solo Performer (1965) è frutto dell’incontro con il fisico Edmond Dewan dell’Air Force Cambridge Research Laboratory,22 o Gordon Mumma, il cui ciclo di composizioni intitolato Size Mograph (gioco di parole fondato sull’assonanza con “seismograph”) deriva dallo studio della propagazione e della differenziazione delle onde III. Teitelbaum, Ferreri e il biofeedback: il suono dell’uomo e il Seme dell’uomo È questo un aspetto attualmente affrontato da Douglas Kahn e sviluppato in due opere di prossima pubblicazione The Source Book: Music of the Avant-garde, 1966-1973, a cura di D. Kahn e L. Austin, e ID., Arts of the Spectrum: In the Nature of Elettromagnetism; io mi riferisco a ID., The Cybernetic Hi-Fi of Brainwave, “Sound Effects” Sound Studies Conference, Center for Cultural Analysis, Rutgers University, New Brunswick (NJ), ottobre 2008. 22 «At that time, Dewan was engaged in brainwave research particularly as it pertained to flying: it was believed that certain periodic visual rhythms of slow propellor speeds were locking onto corresponding brainwave frequencies of aircraft pilots, causing dizziness, blackouts and epileptic fits [...]. Inspired by the imagery and technology of electroencephalography, I immediately set to work to discover all I could about alpha [brainwaves]»; LUCIER 2006. 21 151 Maurizio Corbella sismiche, precedentemente sviluppato in un periodo di ricerca presso un laboratorio sismografico. 23 Significativo è che un consistente numero di compositori americani attivi in questo ambito sia transitato per l’Italia e per Roma in particolare: Alvin Lucier, dopo una borsa Fulbright spesa al conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia, dove tra le altre cose assiste allo storico concerto di John Cage e David Tudor alla Fenice ricevendone un’impressione determinante per il prosieguo delle sue ricerche, 24 fa tappa per un paio di anni all’Accademia Americana. Richard Teitelbaum, componente di Musica Elettronica Viva, lungamente a Roma nella seconda parte degli anni Sessanta, è colui che introduce in Italia il concetto di biofeedback. Come dice la parola, il biofeedback studia essenzialmente i meccanismi di produzione di segnali di ritorno (feedback) generati solitamente da attrezzature elettroacustiche in risposta a stimoli provenienti da stati psicofisici di un essere vivente. Per usare le parole di uno dei suoi principali teorizzatori, il pianista e compositore David Rosenboom, il biofeedback è «un sistema [...] per la produzione di musica e di fenomeni visuali per mezzo di precise informazioni elettriche estratte da soggetti che hanno imparato ad attuare un controllo conscio di stati psicofisici associati». 25 Determinati aspetti del comportamento di un soggetto che sono monitorabili elettronicamente sono usati per generare o controllare un segnale di ritorno, fornendo al soggetto quantità variabili di informazioni riguardo al suo comportamento. Viene quindi chiesto a esso di modificare il suo comportamento in modo tale da cambiare il segnale di ritorno. 26 23 Si tratta di un ciclo di sei composizioni che ruotano intorno a varie combinazioni pianistiche (pianoforte solista, pianoforte con appendici elettroacustiche, più pianoforti) elaborate tra il 1962 e il 1964; a Medium Size Monograph per pianoforte e consolle cybersonica (1963), si fa normalmente risalire l’origine del concetto mummiano di “cibersonica” (cybersonics), «a technique in which specially designed circuits permit to sounds to effect both their own development and the generation and manipulation of subsequent sounds»; JAMES 1987, p. 374. il termine è naturalmente imparentato con il concetto di cibernetica già acquisito dai Barrons: «Gordon had designed the circuits to change, depending on the sounds and how the space responded to them [...]. It was as if the circuits were alive and had the capacity of memory. Sometimes the system would get out of balance and try to balance itself, hence the prefix “cyber” from cybernetics, the science of self-governing control systems»; LUCIER 1998, p. 6. 24 Ivi, p. 5 25 «[...] a system [...] currently in use for production of music and visual phenomena by precise electrical information extracted from subjects who have learned conscious control of associated psychophysical states»; ROSENBOOM 1971, p. 1. 26 «[...] certain aspects of a subject’s behaviour which are electronically monitorable are used to generate or control a feedback signal, giving the subject varying amounts of information about his behaviour. He is then asked to modify in such a way as to change the feedback signal»; ibid. p. 4. 152 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Composizioni come Spacecraft, Organ Music e In Tune consistono essenzialmente nella conversione di segnali provenienti dall’organismo (onde cerebrali, pulsazione cardiaca, respiro) in segnali udibili o visibili che il compositore può controllare tramite l’ausilio di sintetizzatori a controllo di tensione (il Moog o altri apparecchi costruiti dallo stesso Teitelbaum con l’aiuto di David Behrman)27 e il mixaggio. Per via del fatto che i segnali biologici provengono da un essere umano, quest’ultimo è addestrato a governarli in vari modi, mediante lo sfruttamento di alcune funzioni psico-motorie (per esempio chiusura-apertura delle palpebre), e associazioni mentali legate al modo in cui il soggetto percepisce la resa sonora e visiva dei suoi segnali, o ad altri tipi di stimoli concordati con il compositore. La formulazione concettuale del principio compositivo che sottosta a tali opere avviene dopo un periodo di ricerca di Teitelbaum presso il dipartimento di psicologia del Queens College di New York, speso in collaborazione con Lloyd Gilden, scienziato dalla formazione eclettica, che consta anche di approfondimenti nel campo della filosofia Zen.28 Con queste composizioni Teitelbaum compie il passo dalla sperimentazione all’immaginario, poiché l’evento musicale diventa una performance che coinvolge tutti gli astanti, un happening che parte da un’ipotesi scientifica e si carica di contenuti etici ed estetici, sociali e politici. In Spacecraft, opera collettiva realizzata insieme al MEV, «ogni musicista [...] portava avanti una ricerca interiore nei risvolti della propria coscienza» perché i risultati fossero tradotti attraverso strumenti elettroacustici (sintetizzatori, microfoni a contatto ecc.) in potenti segnali sonori riprodotti da altoparlanti: «un “doppio” trasformato elettronicamente riflettente gli stati soggettivi interiori dei performer». 29 Il salto verso una prospettiva etica dell’agire musicale nella società è comprensibile fin da queste poche righe. Il “suono interiore” materialmente trasmesso a volumi altissimi ad investire il pubblico convenuto, che a sua volta agisce come meccanismo di feedback su di esso, con le proprie reazioni ad influenzare il performer: i concetti di armonia interiore, di tempo, di ritmo assumono tutto a un tratto una palpabilità fisica senza precedenti. La risonanza creata tramite il connettere temporalmente la coscienza di un soggetto con l’attività neuronale sincronizzata della corteccia che il ritmo alfa TEITELBAUM 1974, p. 37. Ibid., p. 36. 29 «[...] each musician [...] carried on an inner search through the recesses of his own consciousness. The images and experiences encountered on this inner space journey were translated by the performers’ gestures through electronic instruments (contact microphones, synthesizers and others) into highly amplified sounds fed back from spatially distant loudspeakers – an electronically transformed “double” mirroring the performers’ internal subjective states»; ibid., p. 37. 27 28 153 Maurizio Corbella apparentemente rappresenta, sembra rinforzare e accrescere significativamente quell’attività sincrona, e a sua volta produce effetti sulla coscienza: un sentirsi in “unità”, un essere in unisono con il Tempo, in armonia con il Sé. 30 In Tune è, tra questo tipo di composizioni, sicuramente la più eseguita. La storica prima performance romana avviene presso la chiesa americana di San Paolo entro le Mura di Roma, il 4 dicembre 1968. La “sorgente sonora” è impersonificata dall’attrice Barbara Mayfield alla quale vengono applicati microfoni a contatto (cuore e gola) e un elettroencefalogramma accoppiato a un amplificatore differenziale con il compito di captare e amplificare i segnali in bassa frequenza delle sue onde alfa. I segnali cardiaco e respiratorio giungono, preamplificati, direttamente al mixaggio stereofonico, mentre i segnali cerebrali passano attraverso il sistema di controllo di tensione del Moog, che a sua volta viene utilizzato come fonte sonora. Al termine di questa complessa catena c’è il compositore-performer. Fatto non secondario, l’allestimento visivo della performance presso la cattedrale di San Paolo è curato da Milton Cohen, l’ideatore dello Space Theater che aveva fatto scalpore alla Biennale di Venezia del 1964.31 Vestita in un fluente abito bianco, Barbara era seduta di fronte all’altare in un enorme trono vescovile dallo schienale ligneo. Alla sua destra c’era lo schermo di un oscilloscopio rivolto al pubblico, visualizzante le sue onde cerebrali. L’alta chiesa dalla volta di pietra era oscurata, eccezion fatta per l’oscilloscopio e un singolo faro ad alta intensità su Barbara. 32 Dobbiamo fare lo sforzo di immaginare il tipo di spettacolo di fronte al quale lo spettatore si trovò in questa e nell’occasione successiva, in cui In Tune venne presentato in una versione “espansa” (cfr. FIGURA 17) all’Accademia «The resonance created by time-locking one’s consciousness with the cortically synchronized neuronal activity that the alpha rhythm apparently represents seems to significantly reinforce and increase that synchronous activity, and in turn produces positive effects on the consciousness; a feeling of “at oneness”, of being in unison with Time, in harmony with Self»; TEITELBAUM 1974, p. 37. 31 Lo Space Theater può essere considerato rappresentante di un passaggio fondamentale nell’ambito della sperimentazione audiovisiva contemporanea. Fondato nel 1957 da Milton Cohen, artista poliedrico formatosi come pittore, lo Space Theater persegue la finalità di costruire forme di percezione audiovisiva basate su una concezione innovativa dello spazio, facendo largo uso delle possibilità della tecnologia elettronica. Fondamentale per lo Space Theater è la collaborazione musicale di Gordon Mumma e Robert Ashley, che conosce uno dei momenti più alti proprio nell’esibizione del 1964 alla Biennale di Venezia, avvenuta su invito di Luigi Nono; cfr. JAMES 1987, pp. 363-368. 32 «Dressed in a flowing, white robe, Barbara was seated directly in front of the altar in a huge, high backed wooden “bishop’s” chair. To her right was an oscilloscope screen facing the audience, providing a visual display of her brain waves. The high, stone vaulted church was darkened except for the scope and a single, high intensity spot light on Barbara»; TEITELBAUM 1974, pp. 39-43. 30 154 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Americana, e la gamma delle impressioni che dovette riceverne: il manifestarsi, sotto forma di suono e luce, dell’inconscio, capace di generare eventi sonori spaventosi eppure estremamente connessi con stati emozionali noti al pubblico. Figura 17: Schema costitutivo della seconda versione di In Tune [fonte: TEITELBAUM 1974, p. 44]. Le “sorgenti sonore” umane sono costituite da due attrici a ognuna delle quali sono applicati un elettroencefalogramma (EEG) e due microfoni a contatto (alla gola e al cuore, per captare respiro e pulsazione). Questi ultimi due elementi, preamplificati vengono diffusi senza elaborazioni da due altoparlanti posti alle spalle del pubblico, ai quali giungono anche i suoni prodotti da Teitelbaum con il Moog. Il segnale cerebrale, invece, captato dagli elettroencefalogrammi subisce un complesso processo di elaborazione: parte di esso viene smistato attraverso un generatore d’inviluppo agli altoparlanti frontali, mentre parte, attraverso il controllo di voltaggio, viene miscelato con suoni registrati su nastro. I nastri ospitano suoni vocali di natura erotico-sessuale e musica tibetana vocale e strumentale tratta dal disco della serie UNESCO Eternal Voice. Teitelbaum precisa che lo scopo di quest’architettura sonora fosse di «rendere al massimo l’effetto di allucinazione onirica dell’orecchio». In qualità di guida, cercai di raccogliere insieme i suoni e i bioritmi in una visione sonora che conducesse i soggetti attraverso un viaggio di scoperta sia interiore che esteriore, perché si fondessero infine in uno stato di coscienza alterata. Persino il pubblico sembrò raggiungere una sorta di trance, in tal modo entrando esso stesso nel ciclo di feedback, rinforzando positivamente l’intero processo. Descrivendo il suo responso soggettivo a posteriori, Barbara Mayfield disse che era stato “come possedere un corpo astrale attraverso i cavi”.33 Se l’inconscio si ribella..., verrebbe da dire citando il titolo di un film di quegli stessi anni, opera di un cineasta d’avanguardia come Alfredo Leonardi, immerso nel medesimo clima culturale; ma, mentre non sappiamo se quest’ul- 33 «As guide, I sought to gather together the sounds and bio-rhythms into a sound vision which would guide the subjects through a voyage of discovery both internal and external, and to eventual merging in an altered state of consciousness. Even the audience seemed to enter into a trance-like state, thereby entering into the feedback loop themselves and lending positive reinforcement to the whole process. Describing her own subjective response later, Barbara Mayfield said it was “like having an astral body through the wires»; ivi, p. 45. 155 Maurizio Corbella timo avesse potuto assistere a una delle esecuzioni romane di In Tune, è più che probabile che tra gli spettatori di una delle due performance ci fosse Marco Ferreri, amico di Teitelbaum e futuro responsabile dell’incontro di quest’ultimo con Antonioni, che avrebbe poi dato vita alla collaborazione di MEV a Zabriskie Point.34 Il fatto che l’inconscio potesse avere una veste sonora dovette impressionarlo nell’ottica del tema del film al quale stava lavorando in quei mesi, Il seme dell’uomo, al punto da spingerlo a chiedere a Teitelbaum di utilizzare la registrazione del brano.35 Ora: cosa accade di In Tune nel film di Ferreri? Il seme dell’uomo racconta della vicenda di due giovani fidanzati, Cino (Marco Margine) e Dora (Anne Wiazemsky), che tornano dalle vacanze estive mentre nel mondo aleggia la minaccia di una pandemia radioattiva, comunicata perlopiù attraverso la televisione. Durante il loro viaggio in macchina i due si immettono in un lungo tunnel e, all’uscita, l’“apocalisse” è già accaduta: il tunnel li ha evidentemente protetti dalle nefaste conseguenze. Cino e Dora vengono sottoposti ad analisi da parte di squadre speciali e, trovati sani, vengono intimati a cercarsi da vivere nei pressi di quella zona. Prendono possesso di un’abitazione in riva al mare il cui proprietario (Marco Ferreri) giace cadavere sull’uscio. Da qui inizia la loro esistenza di nuovi Adamo ed Eva; le città sono state distrutte, i pochi esseri umani sopravvissuti sono sparsi sul suolo terrestre, mentre squadre di sedicenti “funzionari” girovagano impartendo a chi incontrano l’ordine di procreare per mantenere viva la specie. È la stessa convinzione che matura in Cino, mentre Dora sfugge continuamente a questo desiderio del suo uomo («Non ne abbiamo il diritto» dirà nel finale). Cino istituisce nell’abitazione un vero e proprio museo della civiltà estinta, raccogliendo oggetti che trova intorno (una forma di parmigiano, un mangiadischi a due velocità, un frigorifero, un’automobile, ecc.). L’esistenza della coppia è turbata dall’arrivo di eventi esterni, come lo spiaggiamento di un cadavere di una balena, esplicitamente soprannominata da Cino “Moby Dick”,36 o come la misteriosa donna (Anne Girardot) che mette in crisi l’equilibrio della coppia fin quando Dora non la uccide per poi darla in pasto a Cino, all’insaputa di quest’ultimo. Scampata la pestilenza causata dalla carcassa del gigantesco animale putrefatto, Cino è sempre più convinto nel volere un discendente, e per far ciò prende con l’inganno la donna, fecon- 34 TEITELBAUM, comunicazione personale, 29 ottobre 2008. TEITELBAUM, com. pers. cit. Non esistendo pubblicazioni discografiche di In Tune, è spontaneo dedurre che Ferreri attinse proprio a una delle due versioni romane. 36 È come se anche ciò che nella società estinta era il simbolo della dimensione ultima della conoscenza, al di là del bene e del male – la balena bianca – si sia consegnato alla catastrofe. 35 156 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta dandola dopo averla addormentata con un intruglio d’erbe; ai primi sintomi di gravidanza di Dora, Cino esulta fuori di sé girando intorno alla donna a terra disperata, e scandendo come un ritornello la frase: «Ti ho fecondata, il seme dell’uomo ha germogliato». Ma nel suo girare esaltato Cino scava un solco sulla spiaggia, dissotterrando probabilmente una mina, che esplode portando con sé anche i due fidanzati. Nell’ambito di un film laconico, in cui gli interventi musicali (composti da Teo Usuelli) sono ridotti all’osso, In Tune rappresenta il contributo sonoro di gran lunga predominante nel film. Le occorrenze in cui si presenta sono cinque, ma in corrispondenza di sequenze particolarmente lunghe. Le caratteristiche sonore e il suo comparire e scomparire privo di significativi punti di sincrono ne fa una componente di difficile decifrazione, integrata nell’ambiente naturale al punto da sembrarne una sorta di escrescenza acustica. Probabilmente questo è proprio l’effetto che Ferreri persegue, e che al lettore sarà ora più chiaro considerando l’originale concezione del brano di Teitelbaum. In una civiltà post-atomica desertificata, quei suoni sono echi di una presenza umana ormai estinta, l’onda lunga di un secondo big bang che affiora qua e là come un lamento, ma anche come una minaccia, ombra di una contaminazione che non è placata, pandemia acustica che si fermerà solo con l’esplosione che estingue anche Cino e Dora, lasciando spazio al brusio indistinto del mare. Analizzando le occorrenze del brano, è fin da subito evidente che esso è associato con lo stato pandemico e con il manifestarsi di presenze oscure (infette?) nella vicenda di Dora e Cino, l’ultima delle quali è proprio il seme dell’uomo nel ventre della donna. Durante i primi tempi della permanenza della coppia nella casa in riva al mare, essi assistono a una trasmissione televisiva messa in onda «in condizioni di fortuna», che riporta le immagini della devastazione planetaria, concentrandosi su Londra e Roma rase al suolo; come già era successo nella sequenza iniziale del film, le immagini trasmesse sono in realtà relative alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Ferreri sceglie di commentare questa sequenza di immagini storiche con il Va pensiero verdiano. L’invocazione di Verdi «va pensiero sull’ali dorate» sembra trovare nell’uso di In Tune una singolare corrispondenza simbolica: nella composizione di Teitelbaum il pensiero è sostanza sonora che si propaga, nel film di Ferreri è addirittura presenza inquietante che si propaga «sull’ali dorate» di un onda contaminata. 157 Maurizio Corbella Nella stanza di Valerio, figlio di Giuliana, la protagonista IV. Il deserto elettronico di Antonioni. di Il deserto rosso, c’è un robot giocattolo. La sequenza in La musica elettronica e lo sguardo cui, per la prima volta agli occhi dello spettatore, Giuliasperimentale na (Monica Vitti) manifesta un comportamento “strano” (che poi rivelerà gravi tratti nevrotici), si apre con un IV.1 Il “laboratorio giocattolo” rumore fuori campo, che causa nella donna un brusco ri- del piccolo Valerio. sveglio nel mezzo della notte (0:14:22).37 L’apparenza sinistra del rumore viene ben presto smentita dalla sua associazione visiva con il piccolo robot, dimenticato acceso, e per questo vagante avanti e indietro tra il letto del bambino e la parete. Giuliana lo spegne facendo cessare il rumore meccanico e, dopo avere dato una carezza al volto del figlio, spegne la luce della stanza. L’oscurità improvvisa è turbata dai due occhi del giocattolo, che rimangono accesi come fari nel buio, quasi a presagire che l’inquietudine non sia cessata. Tant’è vero che nell’inquadratura successiva si avverte un suono elettronico, che si interromperà solo con la comparsa di Ugo (Carlo Chionetti), il marito di Giuliana. È in assoluto il primo momento nel film in cui abbiamo a che fare con un simile accadimento acustico. Esso disorienta lo spettatore, che fino a quel momento non ha abbastanza elementi per decodificare il comportamento della protagonista e questa informazione sonora. Se fossimo in un thriller, o in un giallo, essa potrebbe fungere da meccanismo di suspence, preludendo a una svolta narrativa, e a un conseguente sviluppo “musicale” della risonanza sinistra. Per un attimo potremmo addirittura crederci, visto che Giuliana si comporta come se fosse spaventata da qualcosa che ha visto oltre la rampa delle scale e che lo spettatore non vede. Ma è solo un attimo, perché ben presto è chiaro che invece di preludere a uno sviluppo qualsivoglia musicale, quella presenza sonora si fa intermittente e ostinata lungo tutta la sequenza. Giuliana è in crisi, il marito Ugo compare sulla porta e cerca di consolarla; ben presto, però, questi non nasconde le sue intenzioni sessuali, alle quali Giuliana soccombe, dopo vane resistenze. L’elemento sonoro è come bloccato in una stasi senza possibilità, e ciò che l’orecchio avverte come un “vicolo cieco”, è associato dall’occhio alla situazione esistenziale della protagonista. Lo stesso uso “segnaletico” a intermittenza, verrà attuato da Antonioni in fasi più avanzate del film, con il risultato di conferire un carattere di ossessività ai comportamenti di Giuliana. Si può dire che l’intermittenza del suono sia misura del suo farsi sempre Le indicazioni cronometriche sono ricavate dall’edizione in dvd Film Prestige, FP066, 2004. Preciso, anche per i casi analoghi successivi, che mi sono avvalso del software di default Apple Dvd Player. La stessa operazione condotta tramite altri software potrebbe risultare in discrepanze nell’ordine di qualche secondo. 37 158 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta più segnale (vero e proprio “campanello d’allarme” o, se si preferisce, sintomo) dello stato mentale della protagonista. Ogni qual volta sembra sulla via di calmarsi, la donna è scossa da questi suoni. Sotto certi aspetti essi sembrano avvertiti dalla mente di Giuliana quando si rifugia nel conforto di un abbraccio (del marito o, più avanti, dell’amante Corrado) e cessano quando lei se ne libera. Da un altro punto di vista essi funzionano anche come segnale per lo spettatore, contribuendo a fornire un’ipotesi d’interpretazione della condizione psicologica in cui Giuliana versa nei confronti dei rapporti umani. Ciò è ribadito in un’altra sequenza che colloca il robot in posizione di evidenza. Da un primo piano sul giocattolo (1:05:26), la macchina da presa si sposta sulla mano di Ugo che rimette una provetta al suo posto, per poi rivelare padre e figlio intenti in un’osservazione al microscopio giocattolo di Valerio. La stanza del figlio è un vero e proprio laboratorio in miniatura, tra le cui attrezzature il bambino si muove con padronanza: «grazie a questo tipo di giocattoli il bambino si adatterà molto bene alla vita che l’aspetta. [...] I giocattoli sono un prodotto dell’industria, che in questo modo riesce ad influenzare anche l’educazione dei nostri figli».38 Valerio non ha il problema di integrare il robot e gli altri oggetti nel suo mondo, essi ne fanno parte fin dal principio, e per questo sono il simbolo dello scarto generazionale incolmabile e lacerante che la madre manifesta in forma nevrotica, in quanto incapace di assimilare il mondo intorno a lei, il mondo del “boom” capitalista, invaso dai prodotti dell’industria fin nell’angolo più intimo e personale della propria dimora. [Q]uella specie di nevrosi che si vede in Il deserto rosso è soprattutto una questione di adattamento. C’è chi è riuscito ad adattarsi e chi non l’ha ancora fatto, perché è rimasto ancora troppo legato a strutture e a ritmi di vita ormai superati. È il caso di Giuliana: è la violenza dello scarto, dello sfasamento tra la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua psicologia, e la cadenza che le viene imposta a provocare la crisi del personaggio. 39 Valerio utilizza il suo “laboratorio” per svolgere operazioni di conoscenza, e ne dà dimostrazione alla madre mettendo in atto un procedimento di confutatio basato su osservazioni empiriche: «quanto fa 1+1?» è la domanda retorica rivolta alla madre. «Che domande: 2», risponde Giuliana stando al gioco. Ed ecco che comincia la dimostrazione: con sicurezza, Valerio, versa due gocce di liquido azzurro sul vetrino di un microscopio e, fiero, può doman38 39 ANTONIONI in GODARD 1964, p. 171. Ivi, p. 169. 159 Maurizio Corbella dare «quante sono queste?». Il padre sorride compiaciuto (è evidente che egli è il mentore-complice del figlio, configurando così un equilibrio sbilanciato nel triangolo famigliare, in cui Giuliana è in minoranza). La madre minimizza («Guarda un po’...»), e intenerita bacia sulla fronte Valerio. Ma, a questo punto, a sancire l’impossibilità del congiungimento affettivo, è di nuovo il segnale sonoro. Il bambino sta seguendo un iter formativo inesorabile, ha capito il valore logico dei suoi giochi, e vi aderisce sempre più cinicamente. Prima di quello che sarà il suo esperimento più riuscito e, insieme, più crudele, c’è ancora un episodio su cui insiste Antonioni. È il semplice gioco della trottola. Ugo illustra il funzionamento dell’oggetto, spiegando al figlio che il principio del giroscopio si ritrova anche nelle navi (1:07:31). L’ossessione, quasi didascalica di Giuliana, ci fa vedere in una semplice trottola un oggetto quasi mostruoso, che produce un rumore ormai ipertrofico. Ecco che la favola che spezza in due il racconto del Deserto rosso, l’unica evasione che Giuliana si concede dalla realtà, l’unico contatto nel rapporto con Valerio, diventa il contro-bilanciamento più puntuale della stanza del figlio, nella quale Giuliana ritrova spaventata tutti gli elementi che la terrorizzano al di fuori delle mura domestiche (e che sono stati ampiamente mostrati nei loro aspetti visivi e sonori nel corso delle 75 inquadrature che compongono la lunga sequenza iniziale del film, quasi priva di dialoghi). Tuttavia tale evasione è solo apparente, poiché è in realtà il frutto dell’ultimo, più terribile esperimento partorito dalla logica del bambino. Tutt’altro che innocentemente, Valerio finge di aver perso l’uso delle gambe, causando la disperazione di Giuliana. Egli prefigura per sé la condizione estrema dell’integrazione dell’automatismo: la protesi corporea. A questo spettro, che per Giuliana è puro terrore, mentre per il bambino pura conseguenza logica, rimandano le riviste aperte sul tavolo, raffiguranti arti artificiali. Non si può dire che il bambino goda nel mettere in atto questa crudeltà nei confronti della madre, semmai egli ha trasceso il valore della scoperta e ha trovato il nesso di potere che in essa risiede: è Giuliana ora a diventare oggetto della sua osservazione “scientifica”, dal “trono” del suo letto egli può impartire ordini, studiarne le reazioni, come si fa con le cavie da laboratorio. La favola altro non è che il frutto di uno di questi comandi impartiti dal figlio («Sono stanco di questo gioco qui... fammi un disegno nuovo... perché non mi racconti una favola?»). Egli vorrebbe la favola del giorno prima, quella dell’aquilone ma, in tutta risposta, la madre racconta una storia che non ha 160 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta nulla a che vedere con gli aquiloni.40 Essa parla di un luogo incontaminato, una spiaggia scoperta da una bambina, che vive per scelta il suo distacco dal mondo dei grandi e dei coetanei. Mentre intorno si deve supporre che la vita vada avanti, lei rimane in questa condizione di comunione con la natura dal mattino al tramonto. Finché il suo mondo non è turbato da un avvenimento: un veliero entra nel suo campo visivo, esso appare disabitato e avvolto nel mistero; il suo significato non è chiarito, se non per il fatto che appartiene a una delle «stranezze degli uomini», anche se non è difficile trovare corrispondenze con il mondo quotidiano di Giuliana, popolato da petroliere e navi che fanno scalo nei pressi di casa sua (Corrado, l’uomo di cui si innamora, è del resto venuto dal mare e al mare ritorna alla fine del film). Ma il procedere dilatato della narrazione della favola porta lo spettatore a soffermarsi sugli aspetti percettivi dell’ambiente rappresentato, un vero e proprio squarcio di luce nel grigiore del Deserto rosso. Dal punto di vista visivo esso è reso da tonalità talmente vive da costituire una sorta di epifania, rispetto al colore a cui il regista ci ha abituato nel resto del film. Interessante è che il profilo sonoro sia giocato complessivamente sulla sottrazione di elementi:41 «nulla faceva rumore», specifica Giuliana nel racconto; la sonorizzazione ambientale è completamente polarizzata secondo la prospettiva d’ascolto della narratrice, che ci fa sentire soltanto quello che ritiene importante: il mare è uno sciacquio più simile a quello di una vasca, privo del tipico rumore di fondo (animato solo dall’apparizione del veliero), i versi degli L’incongruenza è in realtà chiarita dal fatto che inizialmente Antonioni aveva in effetti pensato a una favola diversa, che sopravvive nella sceneggiatura conservata presso il Centro Sperimentale di Cinematografia; cfr. ANTONIONI–GUERRA s.d., pp. 124-137. Essa narra di un aquilone il cui volo attraversa il mondo e ci offre una prospettiva della terra dall’alto. L’aquilone è collegato a terra da un filo lunghissimo costituito da molti gomitoli colorati legati insieme, ed è “governato” dagli abitanti di un villaggio in festa (la precisazione dell’autore che la maggior parte delle bandiere sia di colore rosso [p. 124] potrebbe fare pensare a una sorta di “allegoria socialista”, ma d’altra parte non ci sono ulteriori elementi che giustifichino tale interpretazione). L’aquilone sopravvive a varie intemperie e anche al lancio di alcuni razzi, che lo «bruciacchiano» ma non lo abbattono. Aldilà delle possibili interpretazioni di questo racconto ermetico (la cui realizzazione avrebbe sicuramente chiarito i numerosi punti oscuri), è impossibile non notare un fortissimo richiamo al volo dell’aereo hippie in Zabriskie Point e più in generale alla visione “panteistica” presente in quel film. 41 Sul modo di procedere “per sottrazione” attuato da Antonioni in relazione ai mezzi cinematografici e, nello specifico, musicali, si è già espresso Roberto Calabretto: «Le sue perplessità nei confronti delle tradizionali partiture cinematografiche nascono così da una serie di motivazioni, quali l’esigenza di rigore stilistico, sostenuta dalla convinzione di utilizzare il minor numero di mezzi possibile, il rifiuto di essere troppo espliciti, per cui spesso il regista lavora per sottrazione rispetto alle consuetudini del tradizionale commento sonoro, e la constatazione della problematicità del rapporto fra l’elemento visivo e il commento sonoro»; CALABRETTO 2007, p. 24; cfr. anche la dichiarazione di Antonioni «[...] sento il bisogno di essere asciutto, di dire le cose il meno possibile, di usare i mezzi più semplici e il minor numero di mezzi», 1961, p. 42. 40 161 Maurizio Corbella uccelli sono in primo piano, tutto il resto è immerso in un silenzio cosmico. Si capisce che il rumore da cui fugge Giuliana è quello delle fabbriche, ma è soprattutto la trasfigurazione che di esso avviene nella sua psiche, e che lo spettatore percepisce attraverso le sonorizzazioni elettroniche. Non è un caso che la controparte di queste, nel mondo narrato da Giuliana, sia rappresentata dal puro canto: la voce sola 42 come unica possibilità della musica di dispiegarsi, come canto della natura incontaminata della spiaggia, delle rocce che sembrano «di carne».43 Considerando la psicologia di Giuliana, mi sembra naturale che per lei questa storia diventi – inconsciamente – una fuga dalla realtà che la circonda, verso un mondo in cui i colori appartengono alla natura, in cui il mare è azzurro e la sabbia è rosa. Anche gli scogli prendono forma umana, l’abbracciano e cantano con dolcezza.44 È stato già notato come la musica elettronica in questo film sia IV.2 Il “laboratorio sonoro” responsabile di connettere la sfera della realtà industriale, vera di Antonioni e Gelmetti sovrana dell’ambientazione del Deserto rosso, con la sfera psicologica, portando con sé il bagaglio di ambiguità drammaturgica che la contraddistingue, e che abbiamo già verificato a proposito della Mandragola (CAPITOLO 2.II):45 ambiguità sul piano delle risorse sonore (delle sorgenti, innanzitutto), sul piano della fenomenologia timbrica (da cui il valore di «trasfigurazione dei rumori» industriali),46 sul piano della rappresentazione (una continua incertezza tra l’ordine soggettivo della psiche di Giuliana e quello oggettivo di una realtà trasfigurata), e infine sul piano della paternità (di chi sono queste musiche? di Gelmetti? di Fusco? di Antonioni?). Il problema della soggettività delle impressioni sonore è in qualche modo sovrapponibile a quello della visione, che si manifesta in un uso espressivo del colore più volte fatto oggetto di studio dalla critica.47 Nelle Si tratta della composizione Favola di Giovanni Fusco, interpretata da sua figlia Cecilia, la cui unica altra occorrenza è nei titoli di testa, ma stavolta sovrapposta a mo’ di “ouverture” ai rumori industriali e a elaborazioni elettroniche gelmettiane. 43 L’unico altro punto in tutto il film in cui c’è musica è la sequenza “orgiastica” della capanna, ma in quel caso si ascolta una musica di tipo diverso, un Surf (è anche il titolo del brano) strumentale proveniente da una radiolina, che bene interpreta il carattere edonistico del momento – Giuliana avverte il potere afrodisiaco delle uova di quaglia che ha appena mangiato – ma dopo tutto è anche questo un tentativo di evasione autentica da parte della protagonista che esclama: «voglio fare l’amore!». 44 ANTONIONI in GODARD 1964, p. 169. 45 Cfr. ALUNNO 2004, p. 193; CALABRETTO 1999, pp. 73-75; BOSCHI 1999, pp. 9095. 46 ANTONIONI 1994, p. 253. 47 A cominciare da DI CARLO 1964, p. 15. 42 162 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta interviste, Antonioni sembra ammettere una soggettivizzazione della realtà attraverso gli occhi e le orecchie di Giuliana, salvo poi segnalare di avere evitato, nella realizzazione finale, una rappresentazione troppo didascalica e ai limiti della psichedelia: […] Ci sono nevrotici che vedono i colori in modo diverso. I medici hanno fatto degli esperimenti in materia, con la mescalina ad esempio, per cercare di scoprire cosa vedono. C’è stato un momento in cui ho pensato di realizzare effetti di questo genere. Ma nel film è rimasta solo una scena così, in cui si vedono delle macchie su un muro. Avevo anche pensato di modificare il colore di certi oggetti, ma poi il fatto di adoperare tutti questi trucchi è diventato immediatamente qualcosa di molto artificiale ai miei occhi. Era un modo artificiale per dire cose che potevano essere dette in modo più semplice. Allora ho eliminato questi effetti. Ma si può anche pensare che Giuliana veda i colori in modo diverso.48 Il «modo più semplice» con cui Antonioni intende dire le stesse cose è il suono. Esso ha il vantaggio di essere semanticamente più indefinito dell’immagine: laddove quella potrebbe apparire più didascalica, più «artificiale», esso concede spazio alla suggestione dello spettatore, ma veicolando comunque l’aspetto informativo a cui tiene l’autore. Un esempio di questo modo di procedere ci è offerto da un confronto tra la sceneggiatura e la realizzazione finale. Quando Giuliana scopre l’inganno del figlio, la sceneggiatura recita: Il letto del bambino, rosa chiaro, diventa a poco a poco rosso fiamma. Sulle pareti bianche della stanza si stende un’ombra viola. Giuliana ha di nuovo la sensazione della realtà che sfugge, del pavimento che sprofonda sotto i piedi. 49 Nulla della trasfigurazione coloristica di questo frammento è visibile nel montaggio definitivo (ammesso che fosse stato in effetti realizzato), tuttavia la Modulazione per Michelangelo di Gelmetti sopperisce tale compito, con in più il vantaggio di stabilire una connessione emotiva con la sequenza successiva, in cui Giuliana cerca disperatamente Corrado, raggiungendolo nella sua camera d’albergo. È questa «l’unica scena» a cui Antonioni si riferisce nel passo citato precedentemente, nella quale in almeno tre momenti alla “deformazione” cromatica corrisponde l’intervento sonoro: non si può dire una 48 49 ANTONIONI in GODARD 1964, pp. 178-179. ANTONIONI–GUERRA s.d., p. 162. 163 Maurizio Corbella scelta casuale, trattandosi del momento di climax del film. Nel caso forse più emblematico dei tre, Giuliana [...] sta guardando il soffitto, dove le venature dell’intonaco diventano una foglia enorme. La sua crisi aumenta sensibilmente. Guarda il muro: sul bianco appare a poco a poco una macchia viola che continua a ingrandirsi. Giuliana guarda i vetri appannati sui quali i colori riflessi dall’esterno vanno e vengono con un ritmo scandito e ossessivo. Torna a guardare il muro e dice: GIULIANA: Viene sempre più giù... Indica la parete. Corrado guarda ma per lui non c'è nulla di anormale. CORRADO: Che cosa? GIULIANA: Quella macchia lì... non la vedi? Si copre il viso con la coperta per non vedere. 50 Nella realizzazione, Antonioni procede ancora una volta per sottrazione, laconicamente.51 Tutto è ridotto a una sorta di “soggettiva irreale” (utilizzata ripetutamente nella stessa sequenza), ottenuta posizionando la macchina da presa dietro la nuca di Giuliana sdraiata sul letto e lasciando intravedere sullo sfondo, sfuocato e schiacciato dall’ottica grandangolare, una macchia cangiante. Proprio come nella Fabbrica illuminata di Luigi Nono, la cui straordinaria contemporaneità con Il deserto rosso è stata messa in evidenza da Roberto Calabretto 52 – entrambe le opere furono presentate alla Biennale di Venezia del 1964 – protagonista è una realtà che lancia messaggi complessi, che neIvi, pp. 178-179. Si noti come il principio della sottrazione sia riscontrabile fin nella differente versione della sceneggiatura pubblicata da Cappelli, con tutta probabilità posteriore alla prima, visto il maggior numero di congruenze con il montato; ecco il trattamento riservato alla medesima sequenza: «[Giuliana] si lascia andare sul letto. Il suo sguardo va al soffitto sul quale appare una macchia di vario colore. Allora si copre con la coperta per non vedere. Corrado rimane a guardare quella forma nel letto»; DI CARLO 1964, p. 131. 52 1999, p. 75. 50 51 164 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta cessitano di codifiche su più livelli linguistici da parte del cervello. Solo che i personaggi di Antonioni appartengono a una borghesia che per motivi essenzialmente generazionali si trova impreparata di fronte a questa esplosione comunicativa. La “malattia” di Giuliana consiste nel non potere esimersi dal prendersi carico di questi messaggi, «portata a pensare che le cose intorno a lei, quando non le guarda, non esistono. Si sente quindi moralmente costretta, per quanto le è possibile, a fissare le cose poiché si ritiene larvatamente colpevole della loro eventuale perdita di realtà».53 In tal senso, il confine tra oggettività e soggettività, nel mondo tecnologico della Ravenna industriale, perde in nitidezza. La mente di Giuliana produce suoni e colori, esattamente come la ciminiera dell’industria nerofumo con cui si apre e si chiude il film, come il robot nella stanza del figlio, come la nave in quarantena che attracca nel porto di Ravenna nei pressi della capanna in cui i personaggi indugiano in un’orgia che non si concreta, come il “suono” delle stelle che i ripetitori dell’Università di Bologna captano dal cielo. Tali suoni “mentali” diventano oggettivi e irriconoscibili per lei stessa, fino ad assumere un peso insostenibile. La società può essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di comunicazione relativi ad essi; [...] nello sviluppo futuro di questi messaggi e mezzi di comunicazione, i messaggi fra l’uomo e le macchine, fra le macchine e l’uomo, e fra macchine e macchine sono destinati ad avere una parte sempre più importante.54 L’opera di Norbert Wiener torna a echeggiare nel nucleo espressivo del Deserto rosso, probabilmente tramite la mediazione di Ceccato. Vittorio Gelmetti, che in uno dei suoi fondi conserva Il pensiero artificiale di Pierre de Latil,55 è in quel momento uno dei fautori più convinti della necessità di differenziare la musica elettronica dalla «mimesi della musica strumentale precedente», fondata in gran parte sull’emulazione del «gesto dell’esecutore», attraverso il trasferimento di principi formali derivati strettamente dalla metodologia scientifica. Ora proprio il nuovo tipo di materiale di cui ora ci serviamo che si lascia preordinare, prefabbricare, esclude di per sé, come ipotesi, proprio questa mimesi. Ma questo non è possibile farlo sulla base di scelte esclusivamente di gusto, perché il gusto è condizionato da tutta la nostra acquisizione culturale, 53 ANTONIONI 1963, p. 45. WIENER 1950, pp. 23-24. 55 Si tratta dell’edizione italiana del 1962; cfr. DE LATIL 1953. 54 165 Maurizio Corbella e quindi avevamo bisogno di uno strumento che ci garantisse questo tipo di indagine sulle strutture razionali. Le ipotesi di lavoro che si vengono così a formulare, sono ipotesi di lavoro da verificare o falsificare sperimentalmente: in questo senso c’è, evidentemente, un atteggiamento conoscitivo nei riguardi del materiale sonoro che è di tipo scientifico [...].56 I brani elettronici utilizzati come fonti di partenza per il lavoro di adattamento al film, durato circa un mese e fatto in stretta collaborazione con Antonioni57 – Misure I (1959), Tensioni (1961), Treni d’onda a modulazione d’intensità (1963) e Modulazioni per Michelangelo I (1964) – 58 sono tutti riconducibili alla prima fase della produzione del compositore, che sviluppa, a differenza di quanto farà in seguito con la svolta “collagista” (CAPITOLO 2.IV), modalità di “arte programmata”, «che si contraddistingue, fra i vari rapporti tra avanguardia e cultura scientifica, per l’adozione da questa ultima di procedimenti formali e non di analogie o suggestioni».59 È lecito chiedersi cosa succeda al rigoroso progetto formale di questi brani una volta calati in un contesto audiovisivo narrativo. Naturalmente un discorso esaustivo dovrebbe passare tramite un’attento confronto analitico dei materiali, che non è stato possibile compiere nei tempi di questa ricerca. Possiamo però avanzare un’ipotesi che necessiterebbe di verifiche poggianti su riscontri filologici: per le due composizioni più lunghe e conosciute (Treni d’onda e Modulazione per Michelangelo) si pone un evidente problema strutturale. Poiché la categoria temporale, fondante il concetto stesso di modulazione alla base di entrambe le opere, è quella che sopra ogni altra viene compromessa nell’immersione nel contesto audiovisivo, soprattutto alla luce delle operazioni frammentazione realizzate da compositore e regista, è possibile parlare ancora di musica? La domanda può sembrare cavillosa, e a essa si potrebbe rispondere semplicemente che qualsiasi partecipazione musicale a un contesto audiovisivo implica una trasformazione tanto sotto il profilo formale quanto sotto quello semantico.60 Ma non è da escludere che la scelta di tali composizioni sia influenzata proprio dal loro carattere contestuale Stralcio dell’intervento di Gelmetti in PORTOGHESI–MENNA–PLEBE–GELMETTI 1964, p. 18. 57 Cfr. GELMETTI intervistato in COMUZIO 1988, pp.11-14. 58 Cfr. DI CARLO 1964; Il primo brano risulta realizzato presso la Discoteca di Stato; i rimanenti tre e la rielaborazione per il film sono invece realizzati presso il Laboratorio di elettroacustica dell’Istituto Superiore delle Poste e Telecomunicazioni [DAVIES 1967]. Di Tensioni esiste un esemplare in OLP. Per una dettagliata ricognizione delle fonti di Treni d’onda a modulazione d’intensità, cfr. DE MEZZO 2006. 59 DE MEZZO 2006, p. 545. A De Mezzo (p. 541) si deve la proposta di adottare per il periodo elettronico di Gelmetti la categoria di “arte programmata” elaborata da Gillo Dorfles (Visualità e tecnologia, «Marcatrè», 11-13, pp. 109-111). 60 Cfr. BORIO 2007. 56 166 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta principale, vale a dire il loro essere studi scientifici preparatori e non realizzazioni che pongono la priorità su una fruizione di tipo estetico. Antonioni non ha bisogno di situazioni musicali che funzionino empaticamente o anempaticamente rispetto al personaggio principale, bensì di manifestazioni acustiche che suonino “oggettive”, che appaiano prolungamenti sonori dello stato psicologico della protagonista. Di qui la “stasi senza possibilità” di cui si parlava in apertura. La sintassi musicale “tradizionale”, che tanto aveva permeato con i suoi vettori tensivi il cinema narrativo classico, è in questo film negata al punto da trasformare l’evento acustico in un fenomeno da osservare, tanto da parte del pubblico quanto della stessa Giuliana, che in più di un’occasione sembra accorgersi di questi suoni; la differenza tra lo spettatore e la donna è tuttavia fondamentale: quest’ultima è vittima, addirittura “cavia”, del mondo in cui è immersa, mentre lo spettatore è un osservatore non già distaccato, ma nemmeno empatico; la sua è semmai un’immedesimazione razionale, simile a quella di colui che valuta il comportamento di una cavia immersa in una condizione sperimentale, e diventa critica nel momento in cui è in grado di cogliere i fattori in gioco (il ruolo dell’industrializzazione massiccia sull’ambiente, i sintomi della malattia della donna, il limite dei rapporti familiari e affettivi in un simile contesto ecc.). Il tipo di fruizione “critica” configurata in questo film di Antonioni non è propriamente “brechtiana”, nella misura in cui non propone una tesi risolutrice sotto il profilo ideologico, semmai è “naturalista” nel senso letterario ottocentesco del termine. Il finale, in questo senso, è emblematico. Il tono falsamente consolatorio dell’ultima battuta di Giuliana appare, per il carattere assunto dal personaggio nel corso della vicenda, una soluzione chiaramente inaccettabile rispetto al problema posto dal figlio, ancora una volta capace di una logica stringente, come a suggerire che forse solo la generazione dei figli avrà gli strumenti intellettuali per affrontare gli enormi problemi sociali, politici ed economici che il capitalismo industriale ha creato. VALERIO (indicando una ciminiera davanti a sé): «Perché quel fumo è giallo?» GIULIANA: «Perché c’è il veleno» VALERIO: «Allora, se l’uccellino passa lì in mezzo muore» GIULIANA: «Ma ormai gli uccellini lo sanno, e non ci passano più; andiamo».61 61 Dialoghi desunti dal film. 167 Maurizio Corbella Il fatto che nel cinema si possa realizzare quella par- V. Un tranquillo posto di campagna: ticolare alchimia che consente la confluenza di di- cortocircuito tra pop e avanguardia. verse arti in un risultato che non si riduce meramenche nelle persone è di origine sessuale, te alla somma delle singole componenti; che il cine- «L’isteria nella società deriva da rivoluzioni inesplose. E ma si confronti con quell’ambizione che già in passa- così, ecco, per me è quasi impossibile ideare un racconto lineare, che non abbia riferimenti meto era appartenuta al melodramma o al romanzo taforici e simbolici, e credo che, in tutti i miei realista ottocentesco di riunire “avanguardia” e “po- film, ci sia una traccia di questa generale isteria italiana» [PETRI s.d.a] polare” in un testo che non solo parli in differenti registri ma sia concepito contemporaneamente per fruizioni a vario livello; che un film si possa configurare al tempo stesso come prodotto commerciale di massa e opera d’arte resistente all’usura dei decenni; tutte queste considerazioni riguardano trasversalmente un buon numero di cineasti della stagione precedente al 1968. Ma ciò non toglie che con Un tranquillo posto di campagna Elio Petri si sia reso protagonista di un’operazione caratterizzata da una difficoltà e da un’ambizione che potremmo azzardarci a definire acrobatica. Il film che Petri confeziona è un concentrato di citazioni pittoriche e artistiche, attinge a musica della più recente avanguardia, e nel frattempo manipola categorie dei generi cinematografici tra i meno “nobili”, dall’horror-thriller alla pornografia, non tanto per farne oggetto di parodia con un atteggiamento di fastidioso autocompiacimento intellettuale, ma per usufruire attivamente dei loro meccanismi narrativi d’intrattenimento. Il rigore iconico delle inquadrature, unito alla concentrazione di simboli che affolla il film, si instaura su un plot che ha i crismi e i ritmi di quel cinema che in quegli anni comincia a riunirsi negli Stati Uniti sotto l’etichetta “grindhouse”. Lo spettatore rimane spiazzato, e probabilmente non sa a che tipo di atteggiamento aderire; forte di quest’ambiguità di fondo, che è insieme il limite e l’aspetto di maggiore interesse del film, io assumerò in queste pagine, nei confronti della pellicola, proprio quell’attitudine che Petri avrebbe forse deprecato, tesa a “smontare il giocattolo” per isolare gli elementi di un processo creativo che mi paiono particolarmente significativi nell’ambito del discorso più ampio condotto fino a questo momento. Sulla base dell’analisi dei materiali preparatori (le sceneggiature), metterò a fuoco un tema che mi sembra costituire il nucleo generatore dell’intero progetto cinematografico, per poi interrogare le peculiari scelte musicali operate nella pellicola. 168 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta VI.1 «L’impossibilità della figura». Materia e corpo La città è piena di belle sorprese... ho trovato un televisore nuovissimo, guarda, è subacqueo... uno spazzolino da denti elettrico, un frigidaire a transistor... un’affilatrice elettrica... un’elettro-calamita erotica... e un’elettro-caffettiera... e un elettro-lucidascarpe... e un elettro-trita-rifiuti... e un elettro-spruzzadenti... e una piccola automobile per andare da una stanza all’altra... Felice?62 Leonardo è legato seminudo a una sedia. Ha un’aria annoiata. Flavia, sua compagna, è appena rientrata a casa carica di oggetti. Elenca a Leonardo, in un crescendo di tenFigura 18: Fotogramma dalla prima sequenza di Un sione sadica, i suoi acquisti, arrivando a tranquillo posto di campagna. puntare un coltello al petto dell’uomo. Sacerdotessa di un rituale erotico di cui gestisce ogni dettaglio, la donna si sfila le mutandine da sotto la gonna, poggiandole sugli oggetti deposti di fronte a Leonardo, e comincia a mordere il suo corpo; aziona i marchingegni elettrici collegando le numerose spine e completando così la sua “installazione”: il piccolo televisore subacqueo, posizionato tra i piedi di Leonardo, trasmette il totale della scena, mentre l’elettrolucidascarpe è azionato sui piedi nudi dell’uomo e il resto degli oggetti è disposto intorno a lui, come su un altare sacrificale (FIGURA 18). Leonardo ha un moto di ribellione, si libera dalle corde che lo imprigionano alla sedia e insegue con il coltello in mano Flavia, che nel frattempo è andata a farsi la doccia. Ma la donna lo sorprende, e compie l’azione di pugnalarlo, senza tuttavia colpirlo. I rantoli di Leonardo nel suo letto chiariscono finalmente la situazione: era tutto un sogno. La vicenda di Un tranquillo posto di campagna narra di Leonardo Ferri (Franco Nero), pittore affermato, da qualche tempo in crisi creativa, tormentato da incubi e visioni che coinvolgono Flavia, sua compagna e manager (Vanessa Redgrave). Egli decide di spostarsi dalla città in campagna, in cerca di quiete, ma, contrariamente al parere di Flavia, che lo vorrebbe ospite di un ricco mercante d’arte, opta per una villa cadente, che si trova nei pressi delle ville palladiane sul Brenta. Il fascino del luogo, dapprima misterioso, si chiarisce gradualmente per il fatto di celare la controversa morte, avvenuta durante la guerra, di Wanda, un’avvenente ragazza del cui spirito il pittore si convince di avvertire la presenza. Il confine tra realtà e visione sfuma sempre di più dal momento in cui incidenti frequenti e inspiegabili minacciano l’in62 Dialogo desunto dal film. 169 Maurizio Corbella columità di Flavia; per Leonardo è evidente che la presenza della donna è sgradita al fantasma di Wanda. Nel frattempo la sua personale indagine sulla morte della ragazza si fa sempre più morbosa e lo porta a scoprire il colpevole di quello che si rivela essere stato un omicidio, e non un semplice incidente. Nel finale del film, Leonardo, in preda a delirio, assale e uccide Flavia, ma l’evento a cui assistiamo si rivela essere un’allucinazione del protagonista ormai inguaribilmente schizofrenico; Flavia, incolume, lo fa chiudere in manicomio, luogo da cui il pittore ricomincia a produrre opere in serie, per la cinica soddisfazione della donna. Il film è interamente impostato sull’asse città-campagna, poli opposti di una condizione esistenziale che ormai non può più redimersi. [...] Era il ritratto di un artista, di un intellettuale borghese e della sua scissione. Era un artista borghese che, almeno per quanto stava nei suoi mezzi espressivi, aveva tentato di rivoluzionare le forme, le formule, e che si trovava prigioniero del sistema della produzione in serie. Di qui la sua fuga verso i fantasmi della cultura romantica. Il film era una critica, dall’interno certo, dell’intellettuale. Insomma eravamo alle soglie del ’68, e questo è il mio ultimo prima di Indagine, prima cioè di film che potessi sentire utili a qualcosa.63 Leonardo fugge in cerca della sua autentica vena creatrice e crede di trovarla nella rinuncia all’attività pittorica, dedicandosi alla comunione con la natura, in una prospettiva di rifiuto delle implicazioni del mercato («non mi interessa più niente, ho perfino smesso di dipingere, sono gli altri che dovrebbero dipingere – bambini, vecchi, tutti gli altri; dovrebbero dipingere tutti: le tele, i colori gratis a tutti quanti, un’ora al giorno»);64 tuttavia questa rinuncia non porta alla pace interiore, ma a un acuirsi del suo disagio psichico, che lo ricaccia indietro allo stadio opposto: la produzione seriale, nell’emarginazione del manicomio, ma in uno stato di non completa incoscienza, che lascia il dubbio conclusivo che una parte della personalità del pittore sia in realtà padrona e manovratrice della situazione. In tale oscillazione tra due estreme condizioni è possibile leggere l’ambiguità insita nella pop art, che è, nell’accezione allargata del termine, in un certo senso il vero oggetto su cui si concentra la riflessione di Petri, buon conoscitore dell’arte contemporanea, che già nel precedente La decima vittima aveva impiegato un’iconografia profondamente incentrata sul pop.65 Per Un tranquillo posto di campagna, 63 PETRI s.d.b. 64 Dialogo 65 170 desunto dal film. Cfr. CARDONE 2005. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Petri attinge direttamente all’opera di Jim Dine,66 e popola il film di continui ed espliciti riferimenti pittorici, aiutato dal fatto che l’intero mondo della narrazione giunge allo spettatore mediato dal filtro prospettico del protagonista. L’ossessione per l’oggetto è, come detto, visivamente sublimata da Petri attraverso un continuo ricorso all’iconografia pittorica. Su tale aspetto si potrebbe scrivere un libro intero, denso com’è il film di rimandi alla storia dell’arte (su tutti appare determinante l’opera di Magritte, artista particolarmente “comodo” per le sue implicazioni concettuali, e d’altra parte riferimento determinante per l’opera di Jim Dine). Se la pop art si appropria ambiguamente degli oggetti quotidiani mandando in corto-circuito il sistema consumistico, «paradossalmente in bilico tra critica feroce ed esaltazione orgiastica»,67 l’intera vicenda di Leonardo Ferri può essere interpretata come un drammatico conflitto dell’artista con gli oggetti, che mostra tratti di sudditanza, altri di dominio e infine un’improbabile equilibrio, raggiunto a scapito della propria libertà. Leonardo fugge in un posto incontaminato, popolato di oggetti di un’altra epoca e di un diverso contesto sociale, ma è Flavia a introdurre anche lì elementi della contemporaneità consumistica, portandovi il frigorifero e la macchina per lavare i pennelli. Entrambi gli elettrodomestici si “ritorceranno” contro la donna quando Leonardo li utilizzerà rispettivamente come contenitore del corpo smembrato di Flavia e come lavatrice dei coltelli utilizzati per compiere il macabro gesto, pur “solo” immaginato.68 Nel film di Petri siamo ben oltre l’iniziale inebriamento per la novità tecnologica, caratterizzante la prima metà degli anni Sessanta. Se ancora in Il deserto rosso, Antonioni era cauto nell’escludere un avvenire positivo per la nuova generazione cresciuta sulla spinta del “boom” economico, in Un tranquillo posto di campagna percepiamo, al di sotto della sottile superficie avveniristica, un principio di putrefazione, di decadenza che apre la porta a quella che negli anni Settanta sarà una delle note ricorrenti del cinema italiano: gli elettrodomestici casalinghi diventano teatri di drammi familiari, suicidi, si- Con il pittore c’è un prolungato contatto personale, che si potrebbe concretizzare addirittura nell’acquisto di un suo quadro a cui Petri è particolarmente affezionato, se il regista non cambiasse idea in extremis; cfr. PETRI 1968a, c, d; DINE [1968]. Apprendo da Lucia Cardone che Petri, mentre sta lavorando al film, dedica un corto in 16 mm al pittore, mai montato; CARDONE 2005, p. 49. 67 Ivi, p. 50. 68 In una scena descritta in sceneggiatura, che non sopravvive nella pellicola, si assiste addirittura alla caduta immotivata del frigorifero, una volta attaccato all’elettricità – quasi il suggerimento di un’energia autonoma e incontrollabile: «EGLE: “Io non l’ho neanche toccato... Ho attaccato la spina... ma giuro su Dio che non l’ho neanche toccato»; PETRI–VINCENZONI s.d.a, pp. 82-83; 1967a, p. 99; s.d.b, pp. 131-133. 66 171 Maurizio Corbella tuazioni paradossali; 69 quegli stessi prodotti dell’industria che entravano nella casa di Giuliana e producevano nella sua mente suoni ipertrofici, e che ritroveremo più astrattamente nelle insegne pubblicitarie di una delle sequenze iniziali di Zabriskie Point, accostate ai suoni elettronici di Musica Elettronica Viva prima dell’esplosione finale che coinvolgerà tutti i simboli del capitalismo moderno, popolano lo studio in cui Leonardo lavora come una sorta di natura morta post-industriale (FIGURA 19 ). Figura 19: Pagina di sceneggiatura, in cui si elencano gli oggetti presenti nel luogo dell’abitazione milanese di Leonardo in cui è solito lavorare; nella seconda parte vengono date indicazioni sull’accompagnamento musicale che il pittore sceglie per lavorare [Fonte: PETRI-VINCENZONI 1967a, p. 9]. Gli oggetti a cui fa riferimento il personaggio di Flavia nel suo campionario erotico all’inizio del film, rappresentano lo stadio mitico raggiunto dal rapporto tra l’uomo e i suoi manufatti, mediante l’elevazione a potenza dell’automatismo: l’elettrificazione. Il suffisso “elettro-” applicato a sostantivi di per sé già composti, perché già indicanti automazioni meccaniche del capitalismo storico (lucidascarpe, spruzzadenti, tritarifiuti), denota proprio la trascendenza funzionale, il bisogno di aggiungere all’oggetto il mistero del suo funzionamento e della sua funzione non precisabile. L’elettrificazione sancisce la discrasia tra l’oggetto “tradizionale”, protesi o estensione antropomorfa atta a sopperire carenze umane, e l’oggetto “tecnico”, che è una 69 172 VENTURINI 2005. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta protesi non più del corpo ma dell’inconscio: ciò che Jean Baudrillard definisce “aggeggio”.70 La vera funzionalità dell’aggeggio risiede a livello inconscio: da lì ha origine il fascino che esercita. Se è assolutamente funzionale, assolutamente adattato – ma a che? – risponde a esigenze diverse da quelle pratiche. Il mito di una funzionalità miracolosa del mondo è omogeneo al fantasma di una funzionalità miracolosa del corpo. Lo schema di esecuzione tecnica del mondo è legato allo schema della soddisfazione sessuale del soggetto: in questa prospettiva l’aggeggio, strumento per eccellenza, fondamentalmente è un sostitutivo del pene, medium operativo della funzione per eccellenza. Qualunque oggetto è un aggeggio: nella misura in cui la sua strumentalità pratica sparisce, può essere investito di una strumentalità libidica. [...] L’evoluzione dell’immaginario è indicata dal passaggio da una struttura animica a una struttura energetica: gli oggetti tradizionali furono testimoni della nostra presenza, simboli statici degli organi del corpo. Gli oggetti tecnici esercitano un fascino diverso, poiché rimandano a un’energia virtuale, e dunque non sono più ricettacolo della nostra presenza, ma supporti della nostra immagine dinamica. 71 La continuità, illustrata da Baudrillard, tra corpo e aggeggio, ovvero tra funzionalità sessuale e strumentalità libidica, si rivela corrispondere al motivo dominante, quasi il nesso concettuale generativo del film di Elio Petri. L’oggetto è affrontato dall’arte nel film non solo nella sua evidenza visiva, ma soprattutto nella sua consistenza materica. È intorno a tale corporeità che ruota l’ossessione del protagonista (che non a caso, in uno stadio anteriore della sceneggiatura, di cognome era chiamato Materia) 72 destinata a trasformarsi in pazzia. Leonardo parte dagli oggetti, dalla materia inerte, per arrivare al corpo umano, in special modo femminile, dotato anch’esso di una consistenza oggettiva, eppure costantemente sfuggente. La materialità è quella che si ritrova nei corpi di Flavia e di Egle, la domestica della casa di campagna, mentre la sfuggevolezza è quella dello spettro di Wanda. «Ciò che riassume esaurientemente il funzionalismo a vuoto è il concetto di “aggeggio”. Ogni “aggeggio” è dotato di virtù operativa. Se la macchina declina la sua funzione nel suo nome, l’“aggeggio”, nel paradigma funzionale, rimane termine indeterminato, con la sfumatura peggiorativa di “ciò che non ha nome”, o che non si sa definire (l’immoralità di un oggetto di cui non si sa l’esatta funzione). Ma funziona. Parentesi fluida, oggetto slegato dalla sua funzione, ciò che l’“aggeggio”, l’“affare” lascia intuire, è una funzionalità vaga, senza limiti, l’immagine mentale di una funzionalità immaginaria»; BAUDRILLARD 1964, p. 148. 71 Ivi, pp. 150-151. 72 Si vedano le correzioni manoscritte apportate al nome (da Materia a Ferri) in PETRI–VINCENZONI 1967a, passim. 70 173 Maurizio Corbella Se non risultasse sensibilmente ridimensionato nella versione del film uscita nelle sale, sarei tentato di porre a motivo centrale del film un problema di rappresentazione: Leonardo impersona la crisi dell’arte nei confronti della rappresentazione del corpo, questione che fino al secolo precedente veniva risolta tramite il ritratto. Gli elementi che concorrono a questa tesi sono molteplici, ma dispersi nel film, quasi che l’autore abbia voluto mitigare una linea che fino allo stadio di sceneggiatura risultava portante. Nella prima versione del soggetto da me rintracciata, un documento intitolato Scaletta di “Un tranquillo posto”,73 non datato ma riportabile circa al 1962, anno in cui Petri afferma di avere scritto la prima versione del soggetto del film con Tonino Guerra,74 il protagonista (chiamato significativamente Marcello M.) si trasferisce in una villa veneta abitata da un vecchio aristocratico, il quale, in cambio di ospitalità, chiede un ritratto della figlia morta durante la guerra in circostanze misteriose (i tratti della figura di Wanda sono già delineati, compresi i suoi torbidi retroscena erotici). Per realizzare il ritratto, il conte fornisce a Marcello una serie di fotografie. Il pittore, dapprima disinteressato nei confronti della “commissione”, snobba il ritratto, con motivazioni intellettuali: «parla dell’arte figurativa in generale per poi dire comunque che un ritratto, per essere un’opera d’arte, non potrebbe essere la riproduzione di lineamenti ecc.». 75 Nonostante il disinteresse iniziale, comincia a dedicarvisi anima e corpo una volta che entra in contatto con il fantasma della ragazza, con cui conversa a lungo di arte, trovando in lei un’attenta confidente; la ragazza diventa evidentemente rivale della compagna di Marcello (che sarebbe diventata Flavia, ma che nella scaletta si chiama Giulia). La ritrovata vena creativa del pittore lo conduce tuttavia a confrontarsi con un dilemma al quale non riesce a venire a capo: come ritrarre la donna, che risorse creative usare? Impossibilità di farlo, impossibilità e autentica incapacità figurativa. Marcello quasi si vergogna come se qualcuno lo vedesse. Buffo monologo interiore e accademico sulle proporzioni anatomiche, sui primi studi all’accademia, insomma sull’arte del disegno.76 Quando, capitanati da Giulia, due mercanti d’arte possibili “mecenati” del pittore giungono alla villa, essi «trovano Marcello che ha soltanto tagliato le tele con gli abbozzi del ritratto della donna». 73 PETRI [ante-1967] 74 PETRI s.d.b. 75 PETRI [ante-1967], 76 Ivi, 174 p. 28. p. 10. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Interpretazione del mercante gaglioffamente parafilosofica: il rifiuto del figurativo. Marcello fa discorsi incomprensibili, come tentando di spiegare la sua impossibilità al figurativo. Ma completamente oscuro. I due mercanti trovano i quadri molto importanti. L’esperienza più importante di Marcello.77 Il passo finale, per andare a fondo nel problema della «impossibilità della figura»,78 sarà per il pitFigura 20.1-2: Fotogrammi tratti dal film. In tore fare a pezzi il corpo di Giulia. Dunque, l’ucentrambi i casi Leonardo utilizza il colore rosso cisione di Giulia è esplicitamente collegata alper ricoprire i corpi. l’impossibilità di ritrarre il fantasma. Da una parte abbiamo un corpo di carne, dall’altra uno spettro inafferrabile e alcune fotografie (a rigore ciò che dovrebbe rappresentare il massimo di “fedeltà” ritrattistica). È importante tenere presente che, fatte salve le varianti narrative, tale collegamento tra impossibilità della rappresentazione figurativa e smembramento dell’amante, si mantiene saldo per l’intero percorso di sceneggiatura documentabile,79 segno che, se modifiche in tal senso intervengono, sono molto tarde, verosimilmente a riprese già cominciate. Solo nella versione finale del film, infatti, senza alcuna corrispondenza sceneggiata, al posto dei resti del cadavere smembrato di Flavia, nel frigorifero si trovano i lenzuoli sui quali Leonardo, nel suo delirio, aveva tentato di “areografare” direttamente i corpi seminudi della domestica e del fratello, laddove nelle sceneggiature compaiono invece brandelli delle foto di Wanda e dei tentativi del pittore di raffigurarla. Il parallelo con il problema figurativo è così facendo molto più allentato nella versione finale del film, seppure non del tutto eliminato, dato che il gesto compiuto sui corpi di Egle e del fratello è in tutto e per tutto analogo all’opera di manipolazione che Leonardo compie sulle foto di Wanda quando le invade di colore rosso (FIGURA 20.1-2). L’ultimo passaggio dalla rappresentazione del corpo alla rappresentazione del sé, avviene nella coincidenza finale, narrata nelle sceneggiature (in tutte, fatta eccezione per la prima scaletta), tra il fantasma di Wanda e la p. 29. p. 31. 79 Per un ordinamento cronologico delle sceneggiature reperite, cfr. Bibliografia. 77 Ivi, 78 Ivi, 175 Maurizio Corbella proiezione schizoide pittore. Dopo l’uccisione di Flavia, Leonardo si accinge a far l’amore con il fantasma ma realizza che lo spettro non è altri che se stesso, una scissione-unione che ritroviamo nella scena finale al manicomio, in cui il pittore veste una parrucca bionda. Ancora una volta, Petri non persegue con convinzione questa via nel film girato, eliminando completamente il travestimento finale e togliendo forza anche allo sdoppiamento del personaggio mentre fa l’amore con il fantasma. Traendo un bilancio di tali decisioni, sembra che il regista abbia volutamente sottratto vigore, almeno da una prospettiva narrativa, alla lettura meta-linguistica propendendo per il versante thrilling della pellicola: il personaggio di Leonardo, spogliato di questa riflessione sui propri mezzi artistici – infatti, ad eccezione delle poche battute citate riguardo alla sua rinuncia al linguaggio pittorico, nel film non parla mai della sua arte – si presta con più facilità a essere assimilato a un matto psicopatico, il suo rapporto conflittuale con Flavia a una comune crisi di coppia, la vicenda del fantasma a un fatto misterioso. Fa sorridere, in tal senso, una breve battuta, indirizzata probabilmente al co-sceneggiatore Luciano Vincenzoni, che si ritrova manoscritta sulla prima pagina della copia a questi destinata, che, alla luce di queste considerazioni, suona quasi come un’auto-esortazione sibillina: «Se è un mistero deve essere misterioso».80 Sarà a questo punto interessante interpretare in V.2 La materia sonora e musicale dalle quale direzione vadano le scelte sonoro-musicali fatte per sceneggiature alla realizzazione filmica il film. Anche sotto questo profilo è possibile seguire un percorso tormentato, e per questo pieno di fascino, che sembra condurre Petri a continui ripensamenti, a partire dalle sceneggiature fino a giungere alla realizzazione cinematografica, che risulterà in una delle più peculiari collaborazioni con Ennio Morricone, oltre che una delle predilette dal compositore.81 La componente musicale del film può essere suddivisa in due matrici generative che si intrecciano nel corso della pellicolla ma che sono, a mio parere, riconducibili ad altrettante linee di impostazione sonora ricavabili dal processo di sceneggiatura: da una parte c’è il coinvolgimento del Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza (la prima di due collaborazioni cinematografiche in cui il gruppo è accreditato – la seconda, con esiti decisamente meno significativi, è per Gli occhi freddi della paura, 1971); dall’altra c’è il lavoro compositivo di Morricone, che prende come punto di par80 PETRI–VINCENZONI 1967b, copertina. Nella celebre intervista di Sergio Miceli, Morricone si riferisce a Un tranquillo posto di campagna e a Un uomo a metà come a quel dieci per cento di film della sua produzione che «preferir[ebbe] fare», caratterizzati dalla grande complessità dell’impianto formale e semantico, che purtroppo non va “a nozze” con il meccanismo commerciale del cinema; MICELI 1982, pp. 312-313. 81 176 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta tenza il brano Musica per 11 violini, scritto dieci anni prima (1958) per destinazione concertistica, e riadattato secondo modalità che discuterò tra non molto.82 Le linee di impostazione sonora a cui facevo riferimento sono quella di natura bruitistica (GINC) e quella che potremmo definire di natura pulsionale o viscerale (Morricone). La prima si pone da “tramite” fra il paesaggio sonoro e gli organi ricettivi dell’artista, la seconda è la voce delle pulsioni interiori, di carattere morboso, riconducibili alla connessione spiritica con il fantasma di Wanda, che si riconoscerà nel finale essere una proiezione schizoide dell’io del pittore. Se volessimo tenere salda l’ambivalenza tra oggetto e corpo registrata come nucleo concettuale dell’opera, la prima componente musicale rappresenterebbe la componente materica, oggettuale, dell’ossessione di Leonardo, mentre la seconda sarebbe cifra della sua componente corporea, libidica. Per esplicitare questa argomentazione, è necessario osservare con attenzione il percorso generativo che conduce dalla concezione di Petri e Vincenzoni alla resa interpretativa (che nulla ci vieta di pensare come un parziale aggiustamento o addirittura un cambio di rotta) offerta da Morricone e dai compositori-esecutori del Gruppo d’Improvvisazione. La miriade di oggetti con cui Petri e Vincenzoni popolano la vicenda, esprime, fin dalle prime pagine della sceneggiatura più antica [1967a], una fenomenologia sonora dettagliata e determinante in qualità di motore narrativo della vicenda. Gli oggetti possono chiaramente essere divisi in due famiglie: quelli che rimandano alla dimensione urbana e alienante – automatici ed elettrificati, che popolano l’ambientazione milanese della prima parte della pellicola – e quelli che rimandano al fantasma di Wanda, dunque a una dimensione ancestrale della campagna, come luogo non tanto della purezza e dell’innocenza, quanto di un’inesplorata condizione emotiva ed espressiva. Sotto il profilo sonoro, nella prima parte della vicenda, gli squilli del telefono e dei clacson sono una costante interruzione dei ritmi creativi e vitali di Leonardo, e così il rumore del traffico. Il protagonista, già in fuga interiore da tale paesaggio sonoro assediato da un «coro insistente, penetrante, intenso di clacson d’automobili»83, si immerge nel lavoro scegliendo un accompagnamento musicale costituito da percussioni sole e «da una voce di donna che sembra in preda ad orgasmo erotico» che egli stesso mette in ri- Musica per 11 violini (1958) è una composizione dall’impianto seriale, appartenente al primo periodo della produzione morriconiana. Per un’approfondita analisi del brano, cfr. MICELI 1994, pp. 54-60. 83 In tutta la prima scena, e in tutti gli esemplari di sceneggiatura, si fa riferimento costante ai clacson; cfr. PETRI–VINCENZONI 1967a, pp. 4, 5, 7. 82 177 Maurizio Corbella produzione su un grammofono.84 La scissione, che sarà manifesta nella migrazione del pittore verso la campagna, e nell’annientamento del corpo di Flavia (e del suo mondo) in nome di un congiungimento con lo spettro di Wanda è, in un certo qual modo, già prefigurata da questa conformazione sonora. La dominante acustica nella villa di campagna è invece constituita dall’ambiguità delle fonti. Man mano che in Leonardo si fa strada la convinzione dell’esistenza del fantasma di Wanda, cresce l’attenzione per fenomeni sonori legati al manifestarsi della presenza spettrale: tra questi si segnalano, per importanza “segnaletica” nell’economia narrativa, il «fruscio serico» prodotto da un pettine tra i biondi capelli della ragazza e il rumore «curiosissimo, trasparente» di una chiusura lampo. 85 Nell’oscurità il silenzio sembra ancora più completo. D’un tratto Leo si riscuote. Avverte nella stanza un rumore curiosissimo, trasparente, un lieve lungo raspìo, qualcosa che scivola su qualche altra cosa: i rumori di una chiusura lampo per esempio. Nel buio Leo ascolta il rumore. D’un tratto prende a parlare, con dolcezza, senza più nessuna paura. LEO: Chi sei? Vuoi mettermi paura? Sei Wanda? Rispondimi ti prego... Il rumore continua sempre meno individuabile, sempre più lieve. Nell’oscurità Leo si muove sul letto, a sedere. Non accende la luce. LEO: Sei Wanda? E cos’è il rumore che fai? Cosa mi vuoi dire, cosa vuoi farmi capire? Il rumore cessa d’un tratto, Leonardo tace. Accende la luce. Si guarda attorno con calma. La paura è svanita. Leonardo scende dal letto, va vicino al cassettone: sul ripiano una chiusura p. 9. L’idea di inserire l’elemento della chiusura lampo si registra a partire da PETRI–VINCENZONI 1967b, dove in un appunto manoscritto figura la seguente indicazione: «sostituire con abito di seta e zip-zip»; p. 60. 84 Ivi, 85 178 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta lampo di vecchia foggia. Prende la chiusura lampo, la manovra, la osserva contro la lampadina. Se la passa sul viso, come accarezzandosi, gli occhi socchiusi, un impercettibile sorriso morboso. Va a distendersi sul letto, come disponendosi ad un incontro d’amore e spegne la luce. 86 Tali rumori, per esigenze di tensione drammatica, vengono caricati di tutte le ambiguità possibili, come nel seguente caso in cui Leonardo, ormai convinto della presenza dello spirito, lo insegue stregato finendo per sorprendere la domestica Egle alle prese semplicemente con una lampo del suo vestito. D’un tratto sente un rumore misterioso. LEONARDO: Wanda, Wanda. Leonardo si guarda intorno. Il fruscio non s’arresta. Lo sguardo di Leonardo è riconoscente. Si muove verso l’uscita. Il rumore sembra provenire dal lungo corridoio buio che conduce alla camera da letto. I movimenti di Leonardo si fanno febbrili. Cammina precipitosamente lungo il corridoio, arrestandosi d’un tratto accanto ad una porta chiusa. Ma il rumore adesso si è spostato. Leonardo riprende a camminare, accendendo le luci. Si ferma davanti a una porta chiusa. Il rumore si distingue meglio. Leonardo è molto emozionato. Mette la mano sulla maniglia. Vi preme sopra lentamente. La porta adagio si schiude. Un improvviso urlo lo raggela. Urlo 86 PETRI–VINCENZONI s.d.a, pp. 117-118. 179 Maurizio Corbella Davanti a lui, col viso sfigurato dalla paura, è Egle in sottoveste con un vestito in mano. Leonardo a sua volta è spaventato: LEONARDO: Che fai? EGLE (tremante): Niente ho aggiustato il vestito. E così dicendo fa scorrere su e giù col caratteristico rumore la chiusura a lampo. Rumore zippo EGLE: Si era rotta la lampo. Leonardo la fissa un istante come stesse per dire qualcosa, poi si stringe nelle spalle ed esce.87 Gli sceneggiatori si spingono addirittura a prevedere presenze di natura musicale, anch’esse dotate di funzione segnaletica e narrativa. Le prime apparizioni della villa sono accompagnate da un «trillo, un motivo musicale che si ripeterà in seguito».88 Una volta che l’alone di mistero che circonda la villa assume i contorni della presenza dello spettro di Wanda, il leit motiv viene chiamato «motivo musicale fantasma». Nella Scaletta di “Un tranquillo posto”, lo spettro della ragazza non aveva nulla di inquietante, era anzi una presenza affascinante con cui il pittore dialogava animatamente. Nelle sceneggiature successive, invece, il fantasma non parla più, ma tuttavia produce un suono pre-verbale, «una specie di zufolio, che ricorda una vecchia canzone italiana: Ma l’amore no...». La presenza della canzone, grande successo dei tempi bellici,89 riconoscibilissima per il pubblico degli anni Sessanta per via delle molte rivisitazioni discografiche offerte dagli interpreti in voga (tra i quali per esempio Claudio Villa), è il trait d’union che conduce all’identificazione dello spettro con la proiezione schizoide di Leonardo. Il dolce refrain assume una sembianza isterica e perturbante quando, catturato dai medici per essere trasportato in manicomio, Leonardo scopre Flavia viva: Leonardo si irrigidisce di colpo trattenendo gli infermieri[;] il suo viso si Ivi, pp. 152-154; da notare che in PETRI–VINCENZONI 1967a (pp. 144-147) lo stesso equivoco sonoro è costruito intorno al rumore del pettine. 88 L’indicazione compare in tutte le sceneggiature firmate da Petri e Vincenzoni. Ometto per questo di segnalare i numeri di pagina. 89 Firmata da Giovanni D’Anzi e Michele Galdieri, è presente nel film Stasera niente di nuovo (r. Mario Mattoli, 1942) e nel 1943 viene portata al successo da Lina Termini. 87 180 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta distende calmissimo[,] fissa Flavia sorride e imitandone la voce dice: LEONARDO: «Leonardo sono io Flavia... (con la sua voce normale) Cretina sei morta. A pezzi dentro il frigidaire». E cerca di sputarle addosso. Gli infermieri lo trascinano via mentre Leonardo si mette a cantare a squarciagola LEONARDO: «Ma l’amore no, l’amore mio non può...»90 Un po’ come era successo nel confronto tra le sceneggiature e il film in relazione alla chiave di lettura della trama, si rischia di rimanere delusi se si va in cerca nella pellicola finale di un riscontro della iper-dettagliata pianificazione sonora testé descritta. Paradossalmente, però, le ragioni sono opposte. Avevo infatti rilevato un sostanziale allentamento del nesso concettuale della «impossibilità della figura» sul versante degli elementi narrativi; nella conformazione sonora e soprattutto musicale del film rileviamo al contrario una notevole complicazione dei piani semantici, laddove i suoni e le musiche, per come le ho illustrate, evidenzierebbero nelle sceneggiatura una netta aderenza al vettore thrilling della fabula. In una recente conversazione, Morricone mi ha confermato che Petri volesse costruire un film in cui la fisionomia dei rumori fosse particolarmente pronunciata; l’idea di coinvolgere il GINC non è tuttavia del regista, bensì del compositore. 91 Il metodo di lavoro del gruppo consiste nell’improvvisare sulle sequenze del film montate ad anello, procedimento che consente la visione delle singole scene in ciclo continuo. Morricone ricorda come sostanzialmente solo il primo take fosse “pura” improvvisazione, mentre le ripetizioni servissero a perfezionare i materiali, fino ad arrivare a versioni convincenti. Al termine delle registrazioni il compositore sceglie, insieme a Petri, i takes migliori; significativo è il fatto che non si proceda con montaggi di materiali tratti da diverse versioni, ma si lavori in linea di massima su takes unici; questo esclude di fatto interventi sostanziali di manipolazione elettroacustica dei brani musicali in post-produzione. La registrazione dei materiali avviene in due sessioni; Petri sostanzialmente accetta tutte le soluzioni proposte dai musicisti ma, nella seconda sessione, chiede di aggiungere “ulteriori rese 90 PETRI–VINCENZONI 1967a, p. 209. MORRICONE, comm. pers. cit.; le affermazioni che seguono si avvalgono anche della testimonianza di BRANCHI, comm. pers. cit. 91 181 Maurizio Corbella rumoristiche”. A una cernita complessiva, nel film compaiono 11 diversi interventi musicali del GINC, (cfr. la sinossi desunta delle musiche in TABELLA 5). È possibile raggruppare tali numeri secondo macro-caratteristiche musicali: • nn. 1, 4, 6, 7, 8, 10, 11: rarefazione (risorse timbriche vicine al rumore, ampio spettro di frequenze, ritmi assenti o dilatati, continua metamorfosi dei timbri e delle dinamiche); • n. 2: crescendo (passaggio da momenti di rarefazione a momenti di addensamento ritmico e dinamico); • n. 5: evento “collagistico” (inserimento di eventi temperati, come le scale del pianoforte); • nn. 3, 9: tendenza alla forma chiusa in senso jazz/popular (rintracciabili cellule ritmico-motiviche, una certa coerenza strutturale, germi di orchestrazione). Le improvvisazioni del GINC conferiscono al film una veste ruvida, la superficie visiva è largamente “increspata” da sonorità aspre, che intrattengono con le immagini rapporti complessi e mai propriamente didascalici. L’impressione che ne ricaviamo è quella di una deformazione acustica della realtà, mediata dalla prospettiva allucinata di Leonardo. Questo tipo di magma sonoro rovescia, o meglio approfondisce, le iniziali intenzioni registiche così come si erano manifestate in sceneggiatura (rumori definiti al punto da essere identificabili come chiavi narrative): a bilanciare una partitura fortemente bruitistica, c’è una componente di post-produzione, altrettanto magmatica, apportata dai tecnici del suono, che si amalgama con la musica risultando a tratti inscindibile. Se prendiamo come termine di confronto la sequenza in cui ci siamo già imbattuti, nella quale Leonardo tenta di dipingere nello studio della casa milanese (0:07:17),92 notiamo che non c’è traccia del «coro infernale dei clacson»: tutto ciò che è riconducibile ai rumori urbani perde la sua riconoscibilità particolare per trasformarsi in un alone indistinto (nel quale si intuiscono il rumore dei motori e un vociare filtrato e perturbante) fortemente evocativo della confusione mentale del protagonista; sopra tale alone si staglia distintamente solo lo squillo ossessivo del telefono. La pulsazione regolare e percussiva che accompagna le azioni di Leonardo rimanda direttamente alla sceneggiatura, anche se non si configura come una musica diegetica trasmessa da una fonte sonora interna alla scena (grammofono), bensì come una sorta di ritmo interiore del pittore, che ricompare identico e non ca- Per le indicazioni cronometriche faccio riferimento all’edizione in dvd, Artwork & Design, 861946CVDO, 2007. 92 182 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta sualmente nell’analoga situazione in cui Leonardo dipinge nella sua nuova dimora rurale (0:27:52). Nella sequenza successiva (0:10:20), Leonardo scappa fuori di casa e comincia a vagare per Milano. Fin da questo momento la sua esperienza ottica è popolata da visioni di Flavia in vari travestimenti (figlia dei fiori, infermiera che lo trasporta in sedia a rotelle ecc.). Il numero musicale del GINC (Improvvisazione n. 3) è uno tra i più “composti”, caratterizzato da una certa coerenza strutturale e da una conformazione che potremmo azzardarci a definire “bi-tematica” (primo “tema” affidato al fischio, secondo “tema” a una voce bianca). 93 La componente rumoristica, attribuibile alla città, rimane sullo sfondo rispetto alla musica, dapprima in maniera “naturalistica” , per andare via via incontro a una mutazione, tornando a conformarsi a mo’ di alone perturbante come nella sequenza precedente. Da una parte, dunque, il contributo del GINC si iscrive nel progetto sonoro di Petri in quanto amplificazione dell’aspetto rumoristico; dall’altra reinserisce sotto forma di sembianze musicali l’elemento metalinguistico. Un tranquillo posto di campagna è un film violento, dove la violenza è innanzitutto una reazione distruttiva del linguaggio dell’arte verso la realtà, e per riflesso verso l’arte stessa; Leonardo è coinvolto in un vortice di distruzione e, in qualità di artista, riesce per un certo tempo a rispondere con i propri mezzi espressivi; egli si immerge nella sua condizione con un atteggiamento bulimico, fa incetta di pornografia, aggredisce le sue tele con gesti violenti, invade con il rosso (che è anche il colore del vestito di Wanda) gli elementi del suo mondo, compresi gli alberi e i corpi di Egle e di suo fratello. I gesti di Leonardo sono costantemente estremi. È un’avanguardia tanto necessaria quanto sconfitta in partenza. L’equivalenza tra avanguardia pittorica e avanguardia musicale, per quanto possa apparirci scontata, è realizzata in questo film senza mai indietreggiare, senza mai cedere alle “lusinghe” di una musica accomodante. Il GINC prolunga l’atteggiamento “distruttivo”, “iconoclasta”, forzando gli strumenti musicali nelle zone estreme delle loro possibilità timbriche, producendo stridii, cacofonie, tensioni irrisolte. Una musica violenta per un film violento, purché ci intendiamo sull’accezione con cui uso questo aggettivo: a differenza di altre modalità improvvisative del tempo (rock-blues, free jazz, lo stesso MEV), non c’è nel GINC pulsione irrazionale o estatica; la violenza è frutto del paradosso generato dall’estremo rigore, dalla costante disciplina che controlla ogni aspetto della generazione e della ge- È questo il numero in cui più che altrove si esplicita l’approccio ripetitivo del GINC su una singola sequenza, fino a ottenere un brano che ha le sembianze di un composizione arrangiata, che addirittura contempla nell’organico elementi non abituali nella formazione, quale la voce bianca. 93 183 Maurizio Corbella stione del suono.94 L’estremo controllo è ciò che crea la discrasia maggiore tra lo stato mentale del protagonista e le sue azioni e, in ultima analisi, ciò che meglio restituisce la dimensione schizofrenica del suo comportamento. Viviamo avvolti in una fascia di suoni espressivi dei nostri stati d’animo esistenziali, come nel tentativo di isolarci dagli altri suoni, quelli della realtà collettiva, il cozzo di un’automobile contro un albero, lo scoppio del napalm, le urla di un’adunata fascista.95 Veniamo ora alla seconda matrice musicale del film: la parte composta dal solo Morricone. Non sarà sfuggito che proprio quel riferimento alle percussioni e alla «voce di donna che sembra in preda ad orgasmo erotico», corrisponde perfettamente all’aspetto più evidente della rielaborazione che Morricone compie su Musica per 11 violini, aggiungendovi una percussione (Enzo Restuccia) e la voce sola (Edda Dell’Orso). Nel film sopravvivono di fatto tre vesti della composizione: l’originale, per soli archi; la composizione con l’aggiunta di voce e percussione, intitolata Fantasma;96 una versione senza violini, che compare in un breve frammento tagliato dal montaggio (1:18:00-1:19:17). Gli altri numeri musicali presenti nel film sono comunque apparentati con il nucleo generativo della composizione “madre” (vedi la sinossi delle musiche da me compilata in coda al paragrafo, TABELLA 5). La voce femminile è chiaramente riferibile allo spirito della ragazza, la sua presenza è conturbante, una sorta di richiamo che a tratti si fa gemito e lamento, con tutte le connotazioni erotiche, oniriche e conturbanti del caso. Vale la pena di riportare per intero un’importante riflessione di Sergio Miceli, riferita in generale all’impiego delle risorse timbriche di Edda Dell’Orso, ma che In questo senso non trovo contraddizione con l’affermazione di Egisto Macchi in merito: «Ricordo che per tutti il trovare un nuovo timbro era considerato un passo avanti ed era qualcosa che veniva assimilato ad un materiale collettivo che ognuno poteva usare. Il fatto di “violentare”, credo che nel gruppo non vi sia mai stato; io non userei questo termine: di “violentare” uno strumento: a me non è mai passato per l’anticamera del cervello e sicuramente neanche a Franco che trattava con rispetto il pianoforte (che costava trenta milioni)»; GADDI 1992, p. 152. 95 PETRI s.d.c. 96 Sergio Miceli (1994) adopera per quest’ultimo adattamento il titolo Distanze per 11 violini, voce di donna e percussione, riferendosi alla pubblicazione lp della General Music (Gm 33/01-1). Io ho optato invece per l’utilizzo del titolo Fantasma, che si trova nella citata edizione discografica in cd (Saimel, 3994710), per un semplice motivo: di quest’ultimo esiste un riferimento SIAE, mentre non altrettanto si può dire per la titolazione scelta da Miceli che, tra le altre cose, rischia di creare confusione rispetto all’altra composizione di Morricone intitolata Distanze, per violino, violoncello e pianoforte, anch’essa del 1958. Ben più confusione crea invece la recentissima edizione discografica pubblicata nella Complete Edition dell’opera morriconiana (GDM 0194392ERE), che utilizza addirittura il titolo originale Musica per 11 violini per la versione con voce e percussione. 94 184 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta in questa particolare occasione mi pare centrare in pieno le caratteristiche della presenza spettrale a cui fanno riferimento gli sceneggiatori. [S]i tratta di una particolare voce di soprano [...] di registro chiaro, non troppo corposo e perciò dall’emissione fluida; una voce educata ma non impostata in senso propriamente lirico, quindi vibrata ma senza notevoli variazioni d’ampiezza (salvo una inquietante eccezione, di gola, nella tessitura grave), e come tale capace di garantire un accordo timbrico neutro negli impasti strumentali molto eterogenei, così frequenti nella musica per film. Sul piano delle valenze estetiche, si può osservare che con l’utilizzazione di una simile voce, sempre vocalizzante, Morricone apre un capitolo ampio, forse fin troppo, di angelici orgasmi – immateriali quanto allusivi – in cui gioca una componente di idealizzazione (cosa è più “puro” della voce umana?) accanto a un’altra di ambiguità (cosa e più sensuale di una voce femminile?), e dove il rischio del Kitsch medium è pressoché ineliminabile. 97 Pur restituendo le caratteristiche profonde dell’immaginario delle sceneggiature, sono praticamente assenti tutti i rimandi leit-motivici preventivati in tali testi, tanto per quanto riguarda il «motivo musicale fantasma», quanto per Ma l’amore no.98 Questo accade a mio parere perché il ruolo svolto dalle composizioni di Morricone nel film non è di carattere strettamente narrativo – a meno che non lo si voglia interpretare molto genericamente come immissione di un elemento di tensione in chiave horror – bensì simbolico. La serialità di Musica per 11 violini, per quanto “allentata” dagli adattamenti applicativi dei brani derivati, funge da “alter ego” dei numeri del GINC, ancora una volta su un piano che si richiama esplicitamente all’avanguardia. Laddove la componente musicale del GINC assume i connotati del tentativo artistico di Leonardo di comprendere la materia sonora della società (così come egli fa nelle sue opere nei confronti della materia tattile e visiva), la componente morriconiana rappresenta il versante di ricerca interiore, della propria identità esistenziale, corporea e sessuale. Ivi, p. 139. La canzone si riaffaccerà curiosamente nella carriera di Morricone trent’anni più tardi, in occasione di Malèna (r. Giuseppe Tornatore, 2000), film ambientato in periodo bellico, con analoghe tinte torbide a sfondo erotico, e guarda caso sceneggiato da Luciano Vincenzoni. Oltre alla versione originale della canzone, nel film è presente anche un adattamento orchestrale del compositore. 97 98 185 Maurizio Corbella Nota a TABELLA 6: La seguente sinossi desunta denuncia una carenza sostanziale: un confronto con un programma musicale ufficiale del film, per esempio il foglio SIAE, che fino a questo momento non è stato reperito. Fatta salva la provvisorietà di tale operazione, mi è sembrato comunque importante mostrarne i risultati temporanei, perché hanno il merito di fare chiarezza perlomeno sull’effettiva suddivisione delle competenze tra Ennio Morricone e il GINC. L’attribuzione delle tracce si è avvalsa, oltre che di considerazioni relative ad aspetti musicali (in particolare all’organico), del confronto con l’edizione discografica delle musiche del film (cd, Saimel, 3994710), la quale contiene 11 tracce attribuite a Morricone e una lunga suite di 34 minuti ottenuta montato le varie improvvisazioni del GINC. Non in tutti i casi è stata trovata corrispondenza tra quanto è contenuto nella suite e quanto compare nel film, vale a dire che ampia parte della prima non è stata utilizzata nella versione montata del film, come d’altronde alcuni dei numeri presenti nel film sono assenti dalla scelta discografica (per evidenziare questi ultimi si è scelto di utilizzare uno sfondo grigio). Per la titolazione dei brani ho optato per una doppia scelta: un indice progressivo (prima colonna); un titolo (seconda colonna), che per gli interventi del GINC utilizza la dicitura arbitraria Improvvisazione seguita da un numero progressivo (con ciò non si vuole suggerire per forza che ogni numero, per quanto breve, corrisponda effettivamente a un’improvvisazione distinta del gruppo, ma semplicemente differenziare gli interventi ed evidenziare eventuali ripetizioni di materiale), mentre per gli altri numeri ci si rifà ai titoli dell’edizione discografica (peraltro corroborati dal deposito SIAE). Anche per questi ultimi vale la constatazione che non tutti si ritrovano nel film, così come in tre casi (N. 4, 8, 20, evidenziati da sfondo grigio e con titolazioni arbitrarie tra parentesi quadre) non si trovano corrispondenze con l’edizione discografica. La terza colonna riporta una breve descrizione indicativa della sequenza narrativa in cui compare il brano musicale, mentre la quarta riporta gli estremi temporali dei brani musicali. Un’ultima precisazione riguarda le indicazioni fornite tra parentesi quadre in corrispondenza dei brani Musica per 11 violini e Fantasma. Trattandosi di una composizione pre-esistente, che nella versione da concerto dura circa sei minuti, ma non è mai impiegata interamente nell’ambito delle sequenze del film, ho optato per indicare le sezioni adoperate, basandomi sulla suddivisione analitica che della composizione ha fatto Sergio Miceli (1994, pp. 50-55). TABELLA 5: Sinossi dei numeri musicali di Un tranquillo posto di campagna N. Brano Descrizione sequenza Tempo 1 GINC, Improvvisazione n. 1 Titoli 0:00:00-0:01:44 2 GINC, Improvvisazione n. 2 Primo incubo 0:01:44-0:05:40 3 [Percussioni] Leonardo dipinge nel suo studio milanese 0:08:17-0:09:57 4 GINC, Improvvisazione n. 3 Leonardo girovaga per Milano 0:10:20-0:13:19 5 GINC, Improvvisazione n. 4 6 GINC, Improvvisazione n. 4 7 Morricone, Musica per 11 violini [sez. A] 186 Leonardo vede per la prima volta la villa Leonardo torna a villa Wanda e la visita anche internamente 0:14:06-0:14:41 0:15:17-0:15:53 0:21:49-0:23:09 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta 8 [Percussioni] Leonardo dipinge nella villa di campagna 0:27:52-0:28:31 9 GINC, Improvvisazione n. 7 Secondo incubo 0:31:08-0:32:40 Morricone, Fantasma [sez. A] Leonardo riflette dopo essere stato in paese. Inseguela misteriosa figura che mette i fiori nel luogo della morte di Wanda 0:36:43-0:38:00 11 Morricone, Vuoi essere felice? Leonardo, mentre fa l’amore con Flavia, ha una visione della donna vestita da infermiera che lo trasporta su una sedia elettrica a rotelle 0:41:20-0:41:45 Morricone, Musica per 11 12 violini [fine sez. B, cerniera II, inizio sez. C] Crolla il pavimento sotto i piedi di Flavia 0:43:29-0:44:18 GINC, Improvvisazione n. 6 / 13 Morricone, Il fantasma di Wanda Wanda appare per la prima volta a Leonardo 0:50:12-0:52:43 Il macellaio racconta di quando incontrò per la prima volta Wanda 0:55:17-0:56:20 Leonardo si reca a casa Valier 0:58:35-0:58:54 Morricone, Lo spirito di Wanda La contessa Valier mostra a Leonardo il vestito rosso e le foto di Wanda 1:00:16-1:01:17 17 GINC, Improvvisazione n. 8 Attilio racconta a Leo di come ha ammazzato il soldato tedesco 1:07:38-1:08:52 Morricone: Fantasma [fine 18 sez. A, cerniera I, sez. B, cerniera II] Leonardo è attirato dal suono di un campanello: è Wanda in bicicletta, la insegue 1:09:27-1:11:02 19 Morricone, Un amore violento Leo cerca di prendere Flavia con violenza 1:15:35-1:16:25 Morricone, [Fantasma?] 20 [frammento di sez. A, ma senza violini] Dopo l’incidente nella doccia di Flavia, i due fanno l’amore 1:18:00-1:19:17 21 GINC, Improvvisazione n. 4 Arrivano gli ospiti per la seduta spiritica 1:19:18-1:20:08 22 GINC, Improvvisazione n. 9 Uccisione di Flavia 1:28:27-1:30:55 23 GINC, Improvvisazione n. 10 Confessione di Attilio 1:31:01-1:32:16 10 14 Morricone, L’automobile della contessina 15 GINC, Improvvisazione n. 7 16 187 Maurizio Corbella Morricone, Fantasma (ma24 nipolato con effetti di delay) [fine sez. C] Leonardo si rifugia nel nascondiglio di Wanda e si appresta e fare l’amore con il suo fantasma 1:32:33-1:34:05 GINC, Improvvisazione n. 11 25 sovrapposta a Morricone, Delirio secondo Leonardo in manicomio/Titoli 1:37:33-1:42:22 Nei film di Federico Fellini degli anni Sessanta ci sono VI. La sostanza di cui sono fatti i sogni. alcuni frammenti sonori isolati, che passano inosserva- Primi appunti per una drammaturgia ti senza quasi lasciar memoria di sé, in mezzo al turbi- del suono felliniano nio babelico di brani musicali, voci, strilli e versi, che popola l’universo semi-onirico del regista riminese. Ma dato che La dolce vita, 8 ½, Giulietta degli spiriti, Satyricon sono pellicole che sembrano chiedere allo spettatore un processo di assimilazione lento, condotto per avvicinamenti progressivi e continui ritorni, ecco che ci si imbatte di nuovo in quei frammenti che forse, a una riconsiderazione più attenta, tanto insignificanti non sono. Marginali sì, ma nella misura in cui può essere marginale un dettaglio in un sogno, come le smorfie e le linguacce di alcune comparse appena inquadrate in Satyricon, o come la faccia disegnata che compare dissacrante in ogni inquadratura della sequenza iniziale di Casanova. Nella Dolce vita, durante l’aspro litigio tra Marcello ed VI.1 “Rimossi” sonori nella Emma, si avverte un bordone, probabilmente di organo elet- Dolce vita trico, portatore di un «effetto ansiogeno assai degno di nota»;99 non ci si può nascondere che esso, un cluster caratterizzato da un leggero vibrato, ostinatamente fisso nel tempo e animato solo da un saltuario movimento del basso su un intervallo di quinta (Reb3–Lab3), sia fonte di un certo imbarazzo per l’esegeta, per almeno una ragione intuitiva: dura cinque minuti abbondanti senza mai cambiare, un’eternità cinematografica! C’è, in quella presenza sonora, qualcosa di profondamente anti-musicale, nella “sintassi” (appunto, l’assenza di uno sviluppo – anzi, ci sono tutte le evidenze perché si possa affermare che l’intero episodio sia in realtà il risultato di un breve frammento montato a loop), e allo stesso tempo un’attitudine spudoratamente effettistica (l’uso di espedienti che nel contesto possono apparire fin dozzinali, tanto sono “esposti”, come la dissonanza, il vibrato, il timbro “asessuato” della sintesi sonora); si aggiunga che, per le constatazioni che esporrò tra poco, si affaccia l’inquietante probabilità che anche dietro a questo bordone, per quanto escluso dal programma musicale depositato in 99 SALA 188 2009b. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta SIAE, ci sia proprio Nino Rota, o comunque il suo avvallo di supervisore.100 Siamo, forse, al corrispettivo su un piano “suggestivo-atmosferico” del «pezzaccio» della Marcia dei gladiatori, «che fin dai titoli dello Sceicco bianco il Riminese vuol cacciar dentro a ogni film, e che sempre, magari in extremis, immancabilmente il garbato Nino Rota riesce ad ottenere di sostituirglielo sotto il naso con una sua mimetica sublimazione».101 E allora, se è vero che nella Dolce vita proprio quel «pezzaccio» ci finisce così com’è, non “sublimato”,102 dobbiamo per analogia ammettere che il nostro bordone non sia poi del tutto fuori luogo, per quanto possa apparire una caduta di stile neanche poi troppo necessaria, dal momento che sarebbe facile ipotizzare altre soluzioni (compresa l’assenza totale di suoni) per una sequenza che si reggerebbe probabilmente comunque sulla dinamicità del dialogo infuocato tra i due personaggi. A questo punto, la domanda che si profila è di carattere interpretativo: c’è una necessità espressiva che spinge Fellini a utilizzare quell’espediente o si deve pensare a un diverso ordine di ragioni? Due sono le ipotesi: a) il regista si è accorto che la sequenza ha poco ritmo, è troppo lunga o troppo piatta, e, in uno stadio avanzato dei lavori, quando ormai non è più possibile chiedere a Rota di scrivere un brano nuovo, va in cerca di un “effetto” rivolgendosi a qualche tecnico o a Rota stesso, che, con un organo elettrico a disposizione, fa la cosa più semplice che gli viene in mente; b) Fellini sceglie deliberatamente quell’effetto a scapito di altre soluzioni, per ragioni drammaturgiche. Se ci limitiamo a interrogare la sequenza in questione, stando all’impossibilità di indagare i retroscena della produzione, non ne veniamo fuori: la prima ipotesi potrebbe essere plausibile, considerando anche l’alto grado di improvvisazione nei “cantieri” felliniani, ma c’è comunque qualcosa che non torna. Nulla avrebbe impedito al regista o al compositore di riciclare qualche brano rotiano, come del resto già ampiamente fatto nel corso del film, o di inserire qualche motivo non originale. La questione è senza dubbio da porre diversamente: non è di “musica” nel senso tradizionale del termine, che Fellini ha bisogno. Ma, prima di spingerci oltre su questo punto, proviamo ad allargare leggermente la prospettiva d’indagine all’intero film. Scorrendolo ci si rende conto che l’evento sonoro preso in considerazione è sì il più evidente, ma non l’unico di questo tipo. Ce ne sono infatti almeno altri due degni di attenzione. La mattina successiva alla lite con Emma e all’avvenuta rappacificazione, Marcello viene svegliato dalla telefonata che gli 100 È proprio Emilio Sala a segnalare la sua assenza dal programma musicale SIAE, da lui integrato criticamente in ibid. 101 MORELLI 2001, p. 382. 102 Cfr. i numeri 39 e 42 della sinossi musicale del film redatta da Sala in 2009b. 189 Maurizio Corbella annuncia la tragedia avvenuta in casa del suo caro amico Steiner: l’uomo si è ucciso dopo avere ammazzato i due figli. Alla notizia, Marcello si precipita sconvolto presso l’abitazione dell’amico. Un bordone rarefatto, caratterizzato da un andamento ripetitivo d’intensità oscillante, ancora una volta privo di sviluppi morfologici o sintattici, accompagna l’intera sequenza. Questa volta, però, a differenza del caso precedente, ci sono pochi dubbi sull’efficacia espressiva di tale espediente. La presenza sonora contribuisce perfettamente al senso di smarrimento e di inspiegabile tragedia che opprime Marcello, anche perché il mixaggio la rende scarsamente avvertibile come fenomeno sonoro a sé stante, integrandola perfettamente nella scena come veicolo della vertigine esistenziale provocata dal gesto estremo di un uomo moralmente integro, considerato dal protagonista un vero modello di vita inarrivabile.103 Se torniamo indietro al loro incontro in casa Steiner, non possiamo non soffermarci, alla luce di quanto emerso sin qui, su un terzo fenomeno sonoro (il primo in ordine di comparsa) che fa capolino proprio mentre Steiner conduce Marcello a osservare i lettini dei figli addormentati: una pulsazione percussiva, ancora una volta quasi inavvertibile, scandisce il momento; quel tanto che basta per gettare un’ombra inquietante sulle parole amare di Steiner che anticipano terribilmente la successiva, inaspettata, tragedia cruenta. Qualche volta, la notte, questa oscurità e questo silenzio mi pesano. È la pace che mi fa paura, temo la pace più di ogni altra cosa. Mi sembra che sia soltanto un’apparenza, e che nasconda l’inferno. Pensa a cosa vedranno i miei figli domani: il mondo sarà meraviglioso, dicono, ma da che punto di vista, se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto? Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato... dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori del tempo, distaccati... distaccati.104 Ecco che, sorprendentemente, un disegno drammaturgico che coinvolge l’uso di risorse elettroacustiche comincia a profilarsi. Le tre sequenze prese in considerazione non sono secondarie. Anzi, sono vere e proprie scene-madri per quella che è la presa di coscienza definitiva da parte di Marcello che la sua vita è un fallimento: prima la visione di un’alternativa illuminata e inarrivabile come la dimensione famigliare di Steiner, apparentemente 103 «La tua casa è un vero rifugio, sai», aveva detto Marcello a Steiner nel loro ultimo recente incontro, «i tuoi figli, tua moglie, i tuoi libri, i tuoi amici straordinari, io sto perdendo i miei giorni, non combinerò più niente»; dialogo desunto dal film. 104 Dialogo desunto dal film. 190 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta l’esempio più alto di come si possa condurre una vita serena e appagata, circondati d’amore e di cultura, poi il tentativo di liberarsi di un rapporto ipocrita e parassitario come quello con Emma, “fallito” nella pacificazione finale, ed infine il crollo delle residue certezze nella constatazione dell’illusorietà del progetto di vita dell’amico. In questa prospettiva, l’ipotesi di un Fellini che corre ai ripari “riempiendo” le sequenze di effetti elettroacustici dozzinali perde definitivamente consistenza. Evidentemente i suoni scelti in questo disegno narrativo hanno per il regista un’entità espressiva particolare, che li distingue dalla musica e dai consueti rumori ambientali. In un suo recente scritto, Emilio Sala ha messo in evidenza un primo asse drammaturgico-musicale della Dolce vita, individuato dai due temi maggiormente ricorrenti del film – il cosiddetto I cinesi e la discussa elaborazione da Moritat von Mackie Messer di Kurt Weill – che “scolpisce”, per così dire, le due facce della dolce vita romana: quella arcaica, «barocca e bizantineggiante»105 e quella moderna, alla moda, entrambe decadenti manifestazioni di quel «vascello pencolante da tutte le parti, sontuosissimo e miserabile» 106 che è il microcosmo rappresentato nel film.107 I tre interventi elettroacustici da me descritti possono essere letti invece come manifestazioni sonore di un secondo asse, di natura intimista, che riguarda la vicenda esistenziale di Marcello, la sua personale decadenza che si specchia nel modello tragico di Steiner: sono eventi sonori che, più che contribuire con un portato semantico di tipo musicale, esprimono una dimensione in divenire (quasi fenomenologica) dello scacco esistenziale, come un peso sulla coscienza che si trasferisce sul piano sonoro in un’ossessività perturbante, dalla quale derivano la staticità e la ripetitività dei fenomeni descritti.108 La disposizione degli interventi sonori favorisce la saldatura tra il quadro narrativo di Steiner e la vicenda tra Emma e Marcello. Laddove la pulsazione associata ai bambini rimane isolata in chiave anticipatoria, i due bordoni più lunghi si susseguono in due sequenze contigue (litigio di Marcello ed Emma – morte di Steiner) e caratterizzano dunque sonoramente una zona del film in cui, altrimenti, non si avrebbe musica per ben quattordici minuti, caso unico in tutto il lungometraggio:109 questa disposizione costruisce, se vogliamo, una lunga 105 FELLINI 1960, p. 42. 106 Ibid. 107 Cfr. SALA 2009b. Una fissità in un certo senso analoga era stata incontrata a proposito di Il deserto rosso. 109 Confronta, ancora una volta, la tavola sinottica in SALA 2009b, tra il n. 57, ripresa di Mattutino, e il n. 58, Orgia. 108 191 Maurizio Corbella pausa cupa che segna in modo inequivocabilmente tetro l’umore della Dolce vita. Una prova di quanto un simile “equilibrio” narrativo sia cercato o, per dirla con Giovanni Morelli, «trovato» probabilmente solo in sede di mixaggio, ci viene dal confronto con il preziosissimo carnet del programma musicale della Dolce vita redatto da Nino Rota durante la lavorazione del film e trascritto dallo stesso Morelli; 110 gli unici riferimenti in esso a «musica elettronica» sono spostati nella sequenza dell’invito a casa Steiner, e non c’è accenno alla lite con Emma né tanto meno alla morte di Steiner (sequenze presumibilmente concepite prive di interventi sonori). Una «musica elettronica misteriosa» dovrebbe accompagnare la prima parte dell’episodio a casa Steiner, dopo la «canzone in casa di Steiner» (che si risolverà essere la Canzone giapponese), «poco prima che mostri il quadro astratto [che sarà invece un Morandi] e continua sotto discorsi vari», per poi smettere quando un giovane riproduce sul magnetofono il «dialogue between female [sic, per “feminine”] wisdom and masculine uncertainty», vale a dire la (quasi) registrazione delle ultime battute del dialogo tra Steiner e la poetessa (Iris Tree).111 Una “quasi” registrazione in quanto non restituisce fedelmente il dialogo:112 il nastro si prende delle “licenze” rispetto alla realtà, quella stessa realtà che pretenderebbe di restituirci attraverso la registrazione dei suoni naturali che parte subito dopo il dialogo registrato, di fronte alla quale Emma tradisce un’ingenuità infantile, riconoscendo uno per uno i suoni, mentre il sibilo sinistro del vento carica di un senso spettrale l’apparizione dei bambini di Steiner. Non c’è dubbio che, se Fellini e Rota avessero rispettato i loro propositi di mantenere nella sequenza la musica elettronica, ne sarebbe uscita una scena infinitamente più perturbata, ma probabilmente troppo. Ciò che sopravvive è invece soltanto la seconda occorrenza elettronica nella sequenza, ad accompagnare la visione dei lettini dei bambini: «quando Steiner entra e scosta i veli del letto dei bambini e durante tutta scena di nuovo musica elettronica 2’ circa finirla quando si accende la luce».113 Tutta la tensione accumulata in questa sequenza troverà spiegazione (sonora) soltanto nella simmetria strutturale secondo cui è architettata la visita di Marcello a casa Steiner a tragedia consumata. Viene risentita la registrazione, ma a questo punto le parole di Steiner in risposta alla poetessa – 110 MORELLI 2001, pp. 398-411. p. 402. 112 Laddove la poetessa dice «primitivo come una guglia gotica, sei così alto che non puoi sentire più nessuna voce da lassù», la registrazione “ripete” «primitivo come guglia gotica, sei tanto alto che non puoi sentire più nessuna voce da lassù»; dialogo desunto dal film. 113 MORELLI 2001, ibid. 111 Ivi, 192 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta «se mi potessi vedere nella mia vera statura ti accorgeresti che non sono più alto di così» – spalancano un abisso di dolore in Marcello; dopo aver risposto brevemente a qualche domanda dell’investigatore, egli si volge in macchina sotto shock, e si dirige verso l’orrore della stanza dei figli. Qui compare il bordone elettronico che si fa più presente quando Marcello va verso il balcone in cui aveva avuto il suo ultimo dialogo con l’amico. Si percepisce chiaramente, nel “testamento” registrato di Steiner, il dilemma morale, esplicato nel concetto di “altezza” e “bassezza” e nella metafora della guglia gotica. Steiner è un personaggio gotico, e la sua austerità quasi sacrale (di una sacralità tutta diversa da quella della Roma papale) restituisce in pieno quel senso di conflitto e sublimazione tra bene e male, paradiso e inferno, tipico delle cattedrali gotiche.114 Steiner è il diavolo (così si autodefinisce lui stesso) che suona Bach all’organo della chiesa dove avviene il primo incontro tra lui e Marcello. Già, l’organo. Mi si conceda a questo proposito una possibile forzatura interpretativa, se cerco un legame tra quell’organo e l’unica sequenza elettroacustica che rimane fuori dal computo, proprio quel bordone da me tanto stigmatizzato all’inizio di questo paragrafo, che “accompagna” la lite tra Marcello ed Emma. L’organo della chiesa subisce, sotto le mani di Steiner, una metamorfosi timbrica che mette in cortocircuito il sacro e il profano. In un primo momento è un’organo jazz, dal tipico suono tanto in voga in quegli anni, che Rota ama inserire spessissimo nelle sue musiche. Steiner improvvisa un frammento ballabile,115 prima di interrompersi e chiedere a Marcello di poggiare le mani sulla tastiera.116 «Che voce misteriosa, sembra venire dalle viscere della Terra», osserva. Questo registro dell’organo, prima che si trasformi per simulare il ripieno “a canne” consono alla Toccata e fuga in Re minore, si lega inevitabilmente al timbro che ascoltiamo nella lunga sequenza della lite con Emma, e forse non è un caso che sia proprio Marcello a produrlo. Di nuovo saremmo alle prese con una reminiscenza inconscia – Marcello (Federico) collega il tentativo di rottura con Emma alla presa di coscienza avvenuta a casa di Steiner e Rota ci restituisce subliminalmente il “colore” sonoro del primo incontro in chiesa – e con un presagio sinistro – quel cluster perturbante anticipa come un nodo in gola la ben più dolorosa Kezich attribuisce a Pier Paolo Pasolini, consulente di Fellini per la difficile decisione sull’attore che interpreterà Steiner (in ballottaggio ci sono Enrico Maria Salerno e Alain Cuny, che poi avrà la parte), il paragone tra la presenza di Cuny e quella di una cattedrale gotica; 2002, p. 198. 115 N. 22, Chiesa (jazz organo); SALA 2009b. 116 N. 23, Chiesa (accordi); ibid. 114 193 Maurizio Corbella consapevolezza raggiunta da Marcello il giorno dopo sul luogo della tragedia.117 Non abbiamo neanche finito di spendere paragoni impe- VI.2 La valigia del mago: il repergnativi e costruire ampie parabole interpretative su una sempli- torio di “trucchi” sonori di Fellini ce dissonanza, che già ci troviamo di fronte alla necessità di rimescolare le carte. Ma, d’altronde, questo significa avere a che fare con il cinema di Fellini, dove nulla è mai dato per definitivo, dove tutto si ripete e si rimette in circolo, travisato, mascherato, contraddetto. Il bordone elettronico, faticosamente assurto a nodo simbolico-concettuale fondamentale della Dolce vita, ci sorprende tornando tale e quale nei due lungometraggi successivi, 8 ½ e Giulietta degli spiriti. Il regista Guido Anselmi visita il cantiere dell’astronave che si sta allestendo sulla spiaggia di Fregene per il suo film; ancora una volta, per i sei minuti e rotti della sequenza siamo accompagnati dal bordone elettronico. Il medesimo evento sonoro ha poi una presenza a tratti “pervasiva” in Giulietta degli spiriti, dove ricorre in ben quattro occasioni. Se non fosse per tutto l’inchiostro consumato, saremmo tentati di tornare alla buona e vecchia ipotesi a) del riempitivo sonoro. Eppure, lo stimolo ad andare avanti sulla strada tracciata rimane, anche perché, al di là di quello che, se non proprio felliniano, è diventato almeno il leit motiv di queste pagine, i due film successivi alla Dolce vita configurano l’ambito elettroacustico come una vera e propria risorsa espressiva. Si profila un repertorio di suoni che diventano essi stessi ricorrenti, una biblioteca (per mutuare un concetto dalla terminologia hollywoodiana) alla quale evidentemente regista e compositore attingono per necessità drammaturgiche. Dopotutto, le assonanze tematiche tra la scena della lite della Dolce vita e le occorrenze del bordone in 8 ½ e Giulietta degli spiriti sono abbastanza evidenti. Nella sequenza dell’astronave avvengono due importanti dialoghi incrociati, tra Guido e l’amica di famiglia Rossella, e tra la moglie Luisa e il suo confidente-pretendente Enrico, che ancora una volta pongono al centro, anche se organizzata in una struttura narrativa più intricata, una crisi di coppia che lascia emergere il dilemma esistenziale del protagonista, e che darà luogo alla lite tra i coniugi nella sequenza successiva. In Giulietta la crisi coniugale è addirittura il motore narrativo della vicenda, il che giustificherebbe l’ampio ricorso alla soluzione sonora. Ma le reminiscenze intertestuali non finiscono qui, poiché la pulsazione ritmico-percussiva avvertita nell’in117 Il bordone simil-organistico come presagio di morte sarà importante anche in Toby Dammit, film nel quale l’atmosfera da “discesa agli inferi” è esplicitata in modo tale, per prendere a prestito un’idea di Tullio Kezich, da configurarsi come ideale approfondimento del tema escatologico proposto nella Dolce vita; cfr. 2002, p. 277. 194 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta quadratura dei letti dei bambini di Steiner, è del tutto analoga nel carattere (benché più veloce) a quella che apre 8 ½, accompagnando il sogno iniziale di Guido; stavolta, però, il carnet del programma musicale del film118 si pronuncia più dettagliatamente a riguardo, identificando la percussione con i timpani, dunque non un intervento propriamente elettroacustico, ma alle soglie del bruitismo. A livello sonoro, quindi, nel confronto tra i due film accade ciò che è intuibile sotto il profilo contenutistico: 8 ½ raccoglie il testimone della Dolce vita nel suo tratto più intimista e lirico e ne ribalta le proporzioni;119 laddove nel turbinio di eventi “corali” della Dolce vita affiorava il dramma dello svuotamento morale e intellettuale del mondo di Marcello, in 8 ½ la “dolcezza” della vita non ha più bisogno di essere increspata e sfatata, semmai è essa che fa capolino, in una veste totalmente trasfigurata, aprendo squarci in un flusso di coscienza dilagante fin dalle prime inquadrature del film. La dolce vita rappresenta proprio il momento di una transizione verso una dimensione narrativa che non ha più nulla dell’oggettività (neo)realista che, pure in una cifra personalissima, aveva retto tutto sommato solidamente nei film felliniani degli anni Cinquanta. Se in ognuno di questi, dallo Sceicco bianco in poi, l’esile fabula si imperniava su una o più digressioni erratiche che rappresentavano la vera chiave interpretativa, la cui dimensione espressiva virava sensibilmente il profilo “realistico” delle narrazioni verso l’orizzonte del sogno e del ricordo (entrambe dimensioni in cui, attraverso la rottura spazio-temporale degli equilibri narrativi, ai personaggi si rende manifesta la possibilità di essere diversi da come si è) dalle Notti di Cabiria in poi (1958), il peso di tali digressioni diventa predominante. Ciò che nell’ultimo film degli anni Cinquanta “conserva” la dimensione oggettiva è sostanzialmente il tipo di protagonista scelto, che, come già in La strada, rimane una “maschera” fortemente caratterizzata, che aiuta lo spettatore a un’immedesimazione, ma mantenendolo contemporaneamente sulla superficie dell’introspezione psicologica. Le fattezze clownesche di Gelsomina e Cabiria (così come di Alberto nei Vitelloni) consentono alle storie di risolversi nello straordiTrascritto in parte in MORELLI 2001, pp. 386-387. Inutile sottolineare che la consultazione dell’originale intero, da me non ancora attuata, porterà nuove considerazioni al mio ragionamento. La parte trascritta da Morelli aggiunge un ulteriore tassello al problema dell’identità autoriale di questo bordone e, come vedremo, degli altri effetti elettronici sovrapposti ad esso, laddove Rota scrive «musica elettronica mia» per la durata di 8’30’’, conteggio che fa tornare i conti tra i circa sei minuti di bordone e il restante tempo degli effetti. Tutto ciò non risolve i dubbi relativi alla paternità degli effetti elettronici, dietro i quali non sarebbe a mio parere troppo improbabile riconoscere la figura di Marinuzzi jr. Si tratta comunque di ricerche a uno stadio troppo embrionale per fornire qualsiasi ipotesi d’attendibilità. 119 «Se La dolce vita è stata una rassegna di quadri d’ambiente, ora l’autore intende concentrarsi sul personaggio»; KEZICH 2002, p. 229. 118 195 Maurizio Corbella nario potenziale espressivo delle “maschere” di Giulietta Masina o di Alberto Sordi (esempio perfetto è la sequenza finale della Notti di Cabiria, in cui la presa di coscienza della protagonista si realizza in quella complessa espressione mista di sorriso e pianto che meglio di tutte sembra sintetizzare il concetto di “dolce vita” di là da venire). Gli equilibri cambiano quando, con La dolce vita e 8 ½, si realizza una ben più marcata sovrapposizione tra protagonista e autore. Analogamente a come era avvenuto con Moraldo Rossi nei Vitelloni, l’alter ego del regista, rappresentato da Marcello Mastroianni, è il contrario della maschera: la sua recitazione piana, la sua gamma espressiva misurata e piena di contegno, ne fanno l’esatto opposto dei protagonisti precedenti. 120 Marcello e Guido, nei due capolavori degli anni Sessanta, sono innanzi tutto personaggi propensi all’introspezione, segnati da una forte disillusione e da un latente senso di colpa, in un certo senso generati dal prestigio raggiunto nel microcosmo disprezzato a cui appartengono, segretamente aspiranti a una dimensione artistica “assoluta” 121 (mentre al contrario Wanda, Alberto, Gelsomina e Cabiria erano a loro modo innocenti e generosi nel loro “darsi in pasto” agli eventi, al punto da diventarne vittime);122 tutto ciò ha un riflesso immediato sotto il profilo narrativo: le “digressioni erratiche”, sia che il protagonista si muova nello spazio (La dolce vita) che nel tempo (8 ½), debordano, mentre la fabula si riduce ai minimi termini; allo stesso tempo la vicenda si popola di una moltitudine di presenze che compensano anche visivamente e acusticamente, attraverso il trucco espressionistico che esagera le fattezze dei visi e l’accentuazione grottesca o pittoresca degli eloqui, la “normale” umanità del protagonista. È interessante a questo punto capire cosa accade sul versante sonoro. Nei film degli anni Cinquanta il paesaggio “naturale” trascendeva il “qui e ora” della fabula essenzialmente tramite il ricorso a un solo elemento sonoro: il vento, forse l’unica vera costante sonora di tutto il cinema felliniano, che sopravvive anche alle sperimentazioni degli anni Sessanta. Puntuale, il 120 A questa gamma di personaggi può essere associato, per analogie caratteriali, il divo interpretato da Amedeo Nazzari in Le notti di Cabiria. 121 «Guido, il regista, sta preparando un film inafferabile, ha al proprio fianco un intellettuale, antipatico ma non stupido, che lo sospinge nell’abisso del dubbio smascherando la sua presunta impotenza creativa [...]. Il contraltare è rappresentato da Maurice, un veggente da varietà [...] che leggendo nel pensiero del protagonista ne estrae l’enigmatica formula “Asa Nisi Masa” (contiene la parola anima. Per questo pagliaccio in frac fare spettacolo è l’unico modo naturale di esistere; ed è anche l’anello che lo lega al “Mistero”, quando riferendosi all’insondabilità dei giochi di magia assicura: “Qualcosa c’è...”»; KEZICH 2002, p. 237. 122 «Le figure femminili dei primi film di Fellini, così come quelle tratteggiate nelle sceneggiature scritte durante l’apprendistato neorealista, sono spesso vittime (molte di loro sono prostitute), ma non v’è dubbio che, quando confrontate con i loro partner maschili, il ruolo di portatrici di umanità in un mondo crudele e dominato dai valori maschili risulta molto più importante»; BONDANELLA 1992, p. 309. 196 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta rumore del vento fa capolino in ogni film, raggiungendo, in casi estremi come Casanova, lo stato di onnipresenza praticamente incessante; sin dagli esordi si fa carico delle componenti del vago, dell’indefinito, dell’onirico, che si addicono alla trasfigurazione poetica dei ricordi, sovvertendo spesso le “norme” della verosimiglianza.123 In quanto suggestione naturalistica, esso concorre insieme ad altri elementi dell’ambiente visivo, su tutti la spiaggia e il mare, a costruire il tipico paesaggio mentale felliniano in cui avvengono i “cambi di dimensione”: pensiamo alla digressione sul set del fotoromanzo nello Sceicco bianco, ai Vitelloni, al finale della Dolce vita, all’inizio e al finale di 8 ½, alla prima visione di Giulietta, via via fino alla chiusa di Satyricon e all’incipit di Amarcord. Carica di tutte le caratterizzazioni psicanalitiche, ma anche del simbolismo joyciano (come non pensare alla camminata sulla spiaggia di Dublino che “genera” il flusso di coscienza di Stephen Dedalus nel terzo capitolo dell’Ulisse?), la spiaggia felliniana è un paesaggio liminale, reale in quanto ricordo dell’infanzia riminese, fantastica in quanto sull’orlo del dissolvimento nel nulla e, dunque, della rigenerazione continua in qualcosa di nuovo; è il luogo della possibilità, del cambiamento e della paura, ma anche del ritorno a una condizione autentica ed essenziale, eterna. Il vento è perciò l’espressione sonora, e insieme iconica, di quel turbinio di elementi, di quell’eterno soffiare che sottosta al cinema felliniano, del quale le singole vicende, i singoli film, sembrano essere materializzazioni temporanee ed effimere. A partire da 8 ½ , e in più larga misura in Giulietta degli spiriti, il suono del vento “migra” da un versante comunque naturalistico, anche se evocativo, a uno espressionistico. Il suo utilizzo è spesso sincronizzato con eventi circoscritti, come l’apparizione di un personaggio o un’azione specifica: è quanto accade nella sequenza iniziale di 8 ½, quando Guido avanza “volando” a braccia aperte sopra le vetture bloccate nell’ingorgo; oppure in Giulietta degli spiriti, in corrispondenza delle apparizioni dello spirito di Iris in altalena. Il vento non è che un elemento, il più riconoscibile, di un repertorio sonoro che si arricchisce notevolmente in 8 ½ e raggiunge con Giulietta degli spiriti un’evidenza eclatante, prima d’essere sostanzialmente abbandonato da Sul ruolo nel vento nelle sonorizzazioni felliniane rimando a un significativo aneddoto raccontato dal tecnico del suono di La città delle donne: «In sala di registrazione [Fellini] era un improvvisatore. Per la scena della Città delle donne preparammo il treno dell’inizio del film, i rumori del treno: bagno, corridoio, scompartimento. Lo preparammo benissimo, in moviola coi nostri collaboratori: “qui metti questo, qui metti un fischio....” Quando ci presentammo in sala di registrazione a Cinecittà, lui disse: “va tutto bene, bravi, ma avete un anello di vento?”, “a cosa serve il vento?” domandammo noi, e lui: “voi procuratemi un anello di vento”. Noi procurammo un anello di vento e lui al posto di tutto quello che noi avevamo fatto mise solo il vento»; tratto da The Magic of Fellini (r. Carmen Piccinni, 2001). 123 197 Maurizio Corbella Satyricon in poi. Indispensabile, per individuare reti di ricorrenze e funzioni drammaturgiche, redigere una sorta di sinossi riassuntiva come quella presentata nella TABELLA 6, che ha il merito di evidenziare una gamma di risorse sonore collocata in una zona grigia tra i consueti effetti rumoristici ambientali e i numeri musicali, a sua volta internamente articolabile in una virtuale tripartizione a seconda dell’orizzonte timbrico-funzionale d’appartenenza (concreto-bruitistico, elettronico, paramusicale).124 Gli effetti sonori compaiono indicizzati da una lettera alfabetica che rende evidente la ricorrenza di alcuni di essi, e descritti sulla base delle loro caratteristiche “morfologiche” (bordone, effetto isolato, impulso ritmico), e di quelle timbriche (in questo caso mi sono affidato a una descrizione acustica supportata da un’analisi spettrografica che, lungi dal restituire le proprietà sonore, è però utile a individuare certe analogie tra eventi sonori differenti).125 Dalla tabella sono stati esclusi, per evidenti motivi di spazio, suoni riconducibili a precisi eventi atmosferici, come vento, fuoco, mare, ecc., ferma restando la tendenza già rilevata a un loro utilizzo di tipo espressionistico, nei film considerati. 125 Annotazione metodologica: per ognuno di questi suoni si è proceduto a un isolamento digitale del segnale acustico dal supporto audiovisivo (dvd), alla normalizzazione, e a un’analisi spettrografica dei picchi di frequenza e delle forme d’onda tramite il software freeware Audacity. È doveroso precisare che un’analisi condotta con strumenti professionali sui supporti originali magnetici o sulla pellicola cinematografica condurrebbe verosimilmente a risultati sensibilmente più approfonditi e definitivi e, potenzialmente, correttivi rispetto a quanto qui presentato. 124 198 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Legenda: oltre a essere indicizzati da lettere alfabetiche, i suoni del repertorio elettroacustico sono contraddistinti da diversi colori, che vorrebbero categorizzarli entro ambiti di appartenenza timbrico-funzionale. Le sfumature cromatiche stanno a indicare l’ambivalenza funzionale di alcuni suoni. Paramusicale Sintetico Concreto-bruitistico TABELLA 6: Il repertorio elettroacustico di Fellini Film Sequenza Descrizione morfologica Descrizione timbrico-acustica La dolce vita “Visita di Marcello da Steiner” a: impulso ritmico [1:23:31-1:25:15] Pulsazione percussiva. b: bordone [2:11:46-2:16:30] Cluster di frequenze, probabilmente di organo elettrico, con leggero vibrato e un periodico movimento di basso su un intervallo di quinta. c: bordone [2:20:01-2:21:20] Di natura elettroacustica. Timbro rarefatto nel registro medio-acuto, con oscillazioni periodiche d’intensità. “Litigio tra Marcello ed Emma” “Morte di Steiner” 199 Maurizio Corbella 8½ “Sogno iniziale” d: impulso ritmico [0:00:20-0:02:18] Pulsazione percussiva di timpani. e: bordone [0:01:15-0:02:14] Rumore bianco filtrato a ottenere un sibilo. “Primo incontro fortuito di Guido col cardinale” e [0:23:25-0:23:34; 0:23:52-0:24:19] “Bagno termale e visita al cardinale” e [1:12:15-1:13:33] f: bordone [1:18:37-1:19:18; 1:19:58;1:20:18; 1:20:38-1:20:40] “Visita al cantiere dell’astronave” b [1:19:01-1:25:10] g: effetto [1:19:39-1:19:54; 1:20:05-1:20:15; 1:21:24-1:21:35] 200 Suono di sintesi Suono di sintesi Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Giulietta degli spiriti “Visione dello zatterone” “Visita al santone Bishma” “Recita di Giulietta bambina” e [0:19:49-0:20:08] h: bordone [0:20:05;0:21:19] Suono di sintesi i: bordone [0:38:38-0:44:29] Sibilo acuto, come prodotto da ventilatore. e [1:09:57-1:12:12] b [1:11:29-1:12:12] “Prima visita di Giulietta a casa di Susy” b [1:16:38-1:18:18; 1:19:49-1:20:22 “Incontro d’amore di Giulietta nella camera di Susy” e [1:45:36-1:47:33] f [2:05:58-2:06:16] “Visione finale” j: bordone [2:06:17-2:06:35] Suono di sintesi k: figura ritmicomelodica [2:07:07-2:07:22; 2:08:38-2:08:51] Idiofono a percussione non temperato, tipo gamelan. e [2:07:37-2:08:28; 2:10:09-2:10:15; 2:10:32-2:10:38; 2:10:50-2:11:32] l: effetto [2:08:58-2:09:18] Suono di sintesi b’: [2:09:29-2:09:37; 2:09:43-2:09:48; 2:09:52-2:09:58] Rispetto a b si differenzia perché appare a intermittenza per brevi istanti. k’: effetto [2:10:09-2:10:32] Filtraggio di k. La personalità registica di Fellini è stata spesso accostata, a partire da egli stesso, a quella dei maghi di varietà, così come dei clown, che popolano le sue messe in scena: personaggi che giocano la loro performance su numeri di efficacia sicura, anche se spesso proprio per questo di “basso artigianato”, quasi che la messa in mostra di una cialtroneria di facciata sia l’unico modo di rivelare “sotto il cerone” la dignità di un’arte onesta e senza fronzoli. È 201 Maurizio Corbella nella dialettica tra la necessità di continuare a stupire e quella di smascherarsi sondando dimensioni profonde, che dobbiamo inquadrare l’utilizzo, che talora diventa sfoggio, di risorse sonore elettroacustiche da parte del regista riminese. I suoni che il mago estrae dalla sua “valigia” sono, alla stessa stregua del make-up eccessivo delle comparse e delle barocche ricostruzioni scenografiche, i “trucchi del mestiere” che gli servono a preparare il terreno al numero eccezionale, «proprio come se dal lavoro artigianale [debba] scaturire la risposta a tutti i problemi».126 Il loro effetto, cioè, non è basato sull’originalità dei singoli “trucchi”, ma sull’organizzazione della loro successione, che conduce lo spettatore a inebriarsi nella dimensione «oniroide» 127 dei flussi di coscienza felliniani. Il regista fa nei riguardi dello spettatore né più né meno di quanto il mago di varietà fa con Cabiria nel numero che determinerà la rovina della donna. Mette in fila una serie di trucchi, di bassa lega se vogliamo, ma che incontrando l’innocenza della donna rivelano la sua natura estremamente fragile e indifesa, la sua bellezza; è a quel punto che il mago capisce di essere andato troppo oltre, e spegne l’illusione come l’aveva accesa. Ma c’è di più. Esattamente come succede negli spettacoli illusionistici, non si punta all’annullamento della coscienza dello spettatore tramite procedimenti quali l’immedesimazione, semmai si fornisce a quest’ultimo l’illusione di avere il controllo dei meccanismi, mostrando l’artificio, cosa che Fellini fa spesso quando svela (anzi finge di svelare) il carrozzone del set cinematografico. In altre parole si instaura un rapporto di ingannevole complicità con il proprio spettatore, fingendo di fornirgli tutti gli elementi per smascherare l’inganno e, nel momento più opportuno, aggirarlo con un colpo di scena, che nel caso di Fellini coincide con la “rivelazione” della natura profonda e contraddittoria del proprio personaggio. Il bordone b, mescolato con le sonorità elettroniche f e g, di sicura connotazione fantascientifica, potrebbero perciò essere interpretati come i mezzi attraverso i quali si giunge all’estremo atto di confessione in 8 ½ . Nel momento chiave del film, il numero di repertorio non si vende per ciò che non è: dichiara, nella sua lunghezza spropositatamente uguale a se stessa, la sua bellezza posticcia, tutto quello che rimane in mano al clown, che non potrebbe diversamente mostrare la sua natura tragica, se non facendo la pernacchia. Quando il Commendatore, produttore di Guido, enuncia tronfio a coloro che visitano il set dell’astronave i tratti da kolossal apocalittico del suo film che non vedrà mai la luce («La sequenza comincia con una visione del Pianeta Terra completamente distrutto da una guerra termonucleare [...] 126 KEZICH 127 SALA 202 2002, p. 238. 2009b. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta ecco la nuova Arca di Noè, l’astronave, che tenta di salvarsi dalla peste atomica»), Rossella – nel ruolo di spettatore interno che si sta giusto chiedendo se il regista pecchi di cattivo gusto – punzecchia Guido dicendogli: «Ma va! Davvero vedremo tutta questa roba nel tuo film? Mamma mia, il profeta fa la voce grossa, si è messo in testa di far paura a tutti quanti!». Il tono provocatorio di Guido potrebbe ugualmente stare in bocca a Fellini in risposta al critico che gli chiedesse cosa ci fanno tutti questi suoni da fantascienza in un film come il suo: «Perché, anche a te ti entusiasmano le storie in cui non succede niente? Nel mio film invece succede di tutto, guarda un po’... ci metto dentro tutto [...]»; e, già che c’è, chiama un pescatore che passa di lì a ballare un improbabile “tip tap”. Solo a questo punto può arrivare la vera confessione del protagonista, che suona estremamente toccante nella misura in cui ci trova completamente impreparati, raggirati come siamo stati dai trucchetti audiovisivi del prestigiatore; il “mago” ci ha fatto credere di essersi perso, quando invece ci ha “tenuto in pugno”, per il suo colpo di scena: la sincerità.128 Mi sembrava di avere le idee così chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere, mi pareva di avere qualcosa di così semplice da dire, un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che ci aiutasse a seppellire per sempre quello che di morto ci portiamo dentro... e invece io sono il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio niente: adesso ho la testa piena di confusione, questa torre fra i piedi... chissà perché le cose sono andate così, a che punto avrò sbagliato strada... non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso.129 VI.3 Giulietta degli spiriti, orrvero il miracolo dell’esistenza nuda Pur non mutando nella sostanza i grandi temi già affrontati nei film precedenti, in Giulietta degli spiriti Fellini vira sensibilmente la sua prospettiva, approfondendo un filone che era solo marginalmente emerso in La dolce vita e 8 ½: il problema del rapporto tra realtà e visione è sviscerato con un’attenzione spasmodica al momento percettivo, mettendo in collisione le sue ricadute estetiche, sociali, psicologiche, e persino scientifiche. Come noto, si tratta del primo approdo del regista al colore, A proposito di 8 ½, Kezich così si esprime, rendendo chiaro il ruolo degli artifici cinematografici come strumenti di preparazione e insieme di creazione di una sincerità costruita: «Un film in cui il personaggio dovrà raccontare se stesso con la massima sincerità. Un film da inventare totalmente affidandosi alla fantasia costumistica e scenografica di Gherardi, alle musiche di Rota, alla fotografia arrischiata di un nuovo formidabile complice, l’operatore Gianni Di Venanzo [...]»; 2002, p. 232. E ancora: «8 ½ è una delle opere più ammirate e amate dalla storia del cinema perché insegna il coraggio (la difficoltà, lo sforzo, il dolore e la gioia) di dire “io”»; ivi, p. 234. 129 Dialoghi desunti dal film. 128 203 Maurizio Corbella fatta eccezione per Le tentazioni del dott. Antonio, episodio di Boccaccio 70 (1962), che ha in comune con Giulietta anche uno dei temi musicali. Come già era accaduto un anno prima ad Antonioni con Il deserto rosso, la scelta del colore è da porsi in stretta relazione con l’interesse per le fiorenti ricerche coeve intorno agli stati alterati della percezione. Seguendo le orme di Aldous Huxley,130 nell’estate del 1964 Fellini decide di fare diretta esperienza dell’acido lissergico (LSD), e per far ciò si rivolge a Emilio Servadio, presso il quale era stato brevemente in cura a seguito della forte depressione che l’aveva colpito al termine della Strada.131 L’esperienza è da intendersi intimamente collegata con la lavorazione del film e, in particolare, proprio con la meditazione sul colore: Fu un’esperienza abbastanza spiacevole. Non ricordo di aver provato una sensazione speciale, ma il dottore mi diede una spiegazione con cui concordo. Egli sostiene che l’artista vive costantemente nell’immaginazione, a tal punto che la barriera tra realtà sensibile e immaginazione è molto indefinita. L’artista è sempre da entrambe le parti. [...] Tuttavia ricordo di aver provato un’esaltazione riguardo al colore. Vidi i colori non come sono normalmente – noi vediamo i colori negli oggetti, vediamo oggetti colorati; in quel caso vidi i colori per quello che sono, distaccati dall’oggetto. Ho avuto per la prima volta il senso della presenza del colore.132 L’idea che il colore si manifesti nella sua essenza, privato delle sue connessioni con gli oggetti, ciò che Huxley chiama «il miracolo dell’esistenza nuda», 133 è parte integrante di un processo che estremizza ancora di più la tendenza espressionistica della rappresentazione felliniana, e aiuta ad avvicinare il racconto della realtà a una visione perpetua in cui prevalgono le caratteristiche puramente sensoriali sull’elaborazione intellettuale; infine si salda 130 Huxley, come è noto, si sottopose a somministrazione di mescalina e raccolse le sue riflessioni nel celebre saggio The Doors of Perception (1954), estremamente influente sulla psichedelia figurativa e musicale degli anni Sessanta (oltre a essere fonte del nome dei Doors di Jim Morrison). Che Fellini avesse tratto ispirazione dal saggio di Huxley è testimoniato da egli stesso in FELLINI-BBC [1965]. 131 L’esperienza d’analisi negativa con Servadio nel 1954 segna di fatto l’allontanamento dalla psicanalisi freudiana e l’approdo a quella junghiana; Fellini intraprende un lungo periodo di analisi con Ernst Bernhard, che si concluderà soltanto con la morte dell’analista proprio nel periodo di conclusione di Giulietta degli spiriti (29 giugno 1965, il film uscirà nelle sale il 22 ottobre); cfr. KEZICH 2002, pp. 249-250, 390395; sul rapporto tra Fellini e la psicanalisi, cfr. CAMON 2007. 132 FELLINI-BBC [1965]; la traduzione dall’inglese è mia, ma in questo caso non riporto l’originale, dato che è ben noto il “singolare” modo di esprimersi in inglese di Fellini. 133 HUXLEY 1954, p. 13. 204 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta precisamente con il nucleo contenutistico di Giulietta, incentrato sulle capacità medianiche della protagonista. Come i consumatori di mescalina, molti mistici percepiscono colori di uno splendore soprannaturale, non soltanto con l’occhio interiore, ma anche nel mondo oggettivo che li circonda. Descrizioni simili vengono rese dai soggetti medianici e ipnotici. Vi sono alcuni medium per i quali la breve rivelazione del consumatore di mescalina è questione, per lunghi periodi, di esperienze di ogni giorno e di ogni ora.134 Il suono si comporta in Giulietta esattamente come il colore. Quanto affermato precedentemente sui suoni che si presentano sempre più svincolati dai loro referenti semantici, trova in questo film un’applicazione quasi ossessiva. Essi diventano elementi cardine della visione felliniana, e ancor di più delle “visioni nella visione” di Giulietta. Non c’è contraddizione con il loro carattere posticcio, dato che esso fa parte integrante della logica “barocca” della rappresentazione, che il colore non fa che accentuare. Le visioni spiritiche di Giulietta sono impostate su un completo appiattimento della prospettiva sonora, procedimento che si trova già in nuce in alcune sequenze oniriche di 8 ½ : le voci compaiono sovente in primissimo piano, quasi sussurrate nello “orecchio dello schermo” e dissociate dai personaggi ai quali sarebbero ricondotte dalla logica dello spettatore, i rumori atmosferici (come il vento, il fuoco o il mare), para-atmosferici (come il sibilo di rumore bianco filtrato, indicato nella mia sinossi con la lettera e), sintetici o para-musicali si susseguono come epifanie acustiche, alla stregua dei personaggi che popolano l’universo subconscio di Giulietta; su tutto ciò regna un silenzio completamente surreale, il silenzio del cinema muto. L’eco di quanto osservato da Huxley nella sua esperienza psichedelica è, ancora una volta, diretto: [...] i rapporti di spazio avevano cessato di avere gran peso e la mia mente percepiva il mondo in termini diversi dalle categorie di spazio. [...] Posto e distanza cessano di avere grande interesse. La mente percepisce in termini di intensità di esistenza, profondità di significato, relazioni entro uno schema. [...] E con l’indifferenza per lo spazio venne un’indifferenza ancora più completa per il tempo. 135 134 Ivi, 135 Ivi, pp. 21-22. pp. 15-16. 205 Maurizio Corbella Le visioni felliniane diventano dunque interessanti dal punto di vista audiovisivo per l’organizzazione che impongono alla materia spazio-temporale del film. Fellini riesce, ancora una volta attraverso la sapienza artigianale del prestigiatore, più che grazie alla fattura dell’effetto speciale, ad accompagnare lo spettatore entro prospettive spazio-temporali diverse, servendosi per far ciò ampiamente della componente sonora, intesa in un orizzonte di completezza che ha molto in comune con le contemporanee esperienze di sperimentazione elettroacustica alla radio. Come si può facilmente notare nelle due tabelle in coda al paragrafo, analisi audiovisive rispettivamente dell’incipit di 8 ½ e della prima visione complessa di Giulietta, il regista preferisce presentare i fenomeni sonori uno alla volta, economizzando sulle sovrapposizioni e orientando altresì l’attenzione dell’orecchio. Particolarmente significativo è il ruolo di cornice svolto dalla musica di Rota nella visione di Giulietta: il brano che precede la visione, Vascello di Susy, si chiude con una coda rarefatta, accentuata dalla riverberazione del wood block e del colpo finale del gong, che sembra introdurre teatralmente, o se si preferisce ritualmente, gli sviluppi successivi;136 la musica tace per tutta la sequenza, per poi riprendere bruscamente con il brano Amore per tutti, che aveva aperto titoli di testa, in sincrono con il rinsavimento di Giulietta, che con un sospiro sembra volersi tranquillizzare. Il procedimento di escludere la musica dalle manifestazioni spiritiche più evidenti è mantenuto per tutto il film, con la conseguenza più evidente di stabilire due ritmi diversi, il primo della vita, scandito dai ritmi ballabili dei temi rotiani che naturalmente però sono intrisi di “fughe” verso l’inconscio e di reminiscenze interne, il secondo della visione, che sembra fuori dalla dimensione temporale. A differenza di altri procedimenti visionari coevi, ad esempio quelli di Petri in Un tranquillo posto di campagna, non c’è un senso di precipitazione convulsa del tempo, che sottende dinamiche di suspence o comunque di accumulo di tensione, bensì prevale un senso di sospensione a-temporale, contemplativa, e tuttavia non estatica, non serena. Giulietta non arriva a un’accettazione dei suoi spiriti come parte del suo bagaglio psicologico, è costantemente alle prese con un senso di colpa che, dopotutto, non è alleviato neanche nel finale in fuga sulla mongolfiera del nonno. Forse per questo Giulietta degli spiriti è un film che non risolve, ma semmai apre un’indagine spirituale, riguardante grandi temi escatologici come la morte e la morale, destinati a diventare il nocciolo concettuale di Quello del gong è anche il suono che sancisce l’inizio e la fine dei numeri ipnotici del mago delle Notti di Cabiria. Nel raccontare lo scarso interesse nutrito da Fellini nei confronti della materia musicale, Kezich riporta l’aneddoto secondo il quale «da bambino ha visto I cavalieri di Ekebù di Zandonai in braccio al nonno, in un palco a picco di un enorme gong che qualcuno pestava»; KEZICH 2002, p. 319. 136 206 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta quel progetto irrealizzato, e probabilmente irrealizzabile, che è Il viaggio di G. Mastorna. Con la difficile e contrastata archiviazione del progetto, coincisa anche con una grave crisi psicofisica personale,137 ne esce un Fellini diverso, che sarà in grado di aggirare (e arginare) tali grandi temi attraverso un tentativo di distacco oggettivo, che sa di ricorso all’archetipo. Gli approdi pseudoletterari di Toby Dammit, Satyricon e Casanova sublimano l’“incubo” del soggettivismo e al contempo consentono all’autore di perseguire nuovi e stimolanti percorsi formali. Non sarà forse un caso che quel repertorio elettroacustico di importanza così crescente nei primi tre lungometraggi degli anni Sessanta si disintegri esplodendo letteralmente in Satyricon, spersonalizzando completamente il gesto creatore (non più trucchi sonori osservabili uno per uno, non più il susseguirsi di reminiscenze rotiane) in un oceano “etno-elettronico” onnivoro, senza lasciare traccia di sé nelle successive realizzazioni felliniane.138 Dopo, sopravviveranno solo quegli effetti ambientali dalla storia più antica rispetto alla Dolce vita, come per esempio il vento, ritenuti sufficienti per una più matura, ma forse anche ridimensionata, vena creativa. Legenda: Le fasce cromatiche corrispondono alla durata degli eventi sonori; per quelli appartenenti al “repertorio elettroacustico” enunciato in TABELLA 6, ho mantenuto i colori usati in quell’occasione. Per tutti gli altri la scelta dei colori è puramente distintiva. Abbreziazioni • a/b; b/a • Carr. • CL • CLL • CM • Dett. • Diss. (inc.) • dx/sx; sx/dx • Est. • FI • F.c. • Int. • Mdp • MF • MP • PA • Pan. • PP • PPP • PR • Tot. alto/basso; basso/alto carrellata campo lungo campo lunghissimo campo medio dettaglio dissolvenza (incrociata) destra/sinistra; sinistra/destra esterno figura intera fuori campo interno macchina da presa mezza figura medio piano piano americano panoramica primo piano primissimo piano piano ravvicinato totale 137 KEZICH 2002, pp. 258-272. La complessità della stratificazione musicale di Satyricon, con tutte le problematiche filologiche e tecniche che si possono intuire, impone un rimando a prossime ricerche che si stanno compiendo, ma che non consentono allo stato attuale di approfondire l’argomento. Senz’altro il film è una delle interpretazioni più personali e affascinanti del rapporto tra musica elettroacustica e audiovisione negli anni Sessanta. Limitandomi a rimandare, per un inquadramento delle questioni relative al film, al contributo di Emilio Sala di prossima pubblicazione (2009a), spero che il presente lavoro di ricerca e analisi costituisca una base metodologica preliminare sufficiente per un inquadramento di una drammaturgia del suono in Fellini. 138 207 Maurizio Corbella TABELLA 7: Incipit di 8 ½ Tempo Inq. Descrizione inquadrature 0:00:12 1 Titoli (corpo bianco su fondo nero): «Angelo Rizzoli presenta (diss.) 8 ½ di Federico Fellini» 0:00:25 2 Est./Giorno: Diss. Sotto la tettoia di un tunnel o garage. Mdp posizionata sul retro esterno dell’autovettura di Guido (al volante, MF di spalle) che, ingorgata tra altre auto, procede a passo d’uomo sullo sfondo si intravvede che la coda prosegue a perdita d’occhi. Mdp si avvicina leggermente a Guido. 0:00:42 3 Dolly bdx/asx: Mdp percorre l’intera larghezza del tunnel, fino al Tot. dal retro delle automobili ferme. 0:00:53 4 Int. auto di G.: PPP di G. (di spalle) dall’interno della vettura. Voci e rumori di doppiaggio Sonorizzazione d Pan dx/sx: seguendo il movimento della testa di G., a inquadrare: 1) un uomo coi baffi sulla vettura limitrofa che guarda G. 2) Una donna semiaddormentata al volante della stessa auto (G. esce di c.). Pan sx/dx: percorso inverso, si lascia il PPP di G. sulla sx e inquadra dett. della mano di G. che pulisce il parabrezza con un panno. Mdp verso dx fino alla MF di due persone nell’automobile alla destra della vettura di G.. Mdp verso sx: dett. del cruscotto all’altezza del sedile del passeggero: del vapore bianco entra nell’auto di G.; dett. della mano di Guido che armeggia sul cruscotto; PPP di G. (di spalle) che si agita cercando di uscire dall’auto. 208 e Gemiti di G. Rimbombo dei colpi di G. contro le pareti dell’auto. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta 0:01:28 5 Est.: in PP tre auto con i passeggeri immobili; sullo sfondo un autobus con i passeggeri immobili, le braccia a penzoloni fuori dal finestrino e i volti nascosti dalla parete dell’autobus. Gemiti di G. 0:01:33 6 Est.: PP di G. di spalle che si agita cercando di uscire. Gemiti di G. Mdp verso bdx: PP di G. che si china verso il posto del passeggero cercando di aprire l’altra portiera. Mdp verso dx: PP del produttore di G., sull’auto accanto che, sporto dal finestrino lo guarda impassibile. Pan dx/sx in allontanamento: MP di G. allungato verso il finestrino posteriore della vettura che batte cercando di uscire. 0:01:56 7 Est.: MP di Carla e del direttore di prod. che palpeggia la donna, in un’altra vettura. Pan sx/dx arretrando: inquadrata l’auto che sta dietro la vettura di G. con due persone dentro, PP del piede di G. dentro l’auto, ormai satura di fumo. G. ha trovato un varco attraverso il finestrino, dalla parte opposta dell’inquadratura. 0:02:13 8 MF di G., di spalle, si arrampica sul tetto dell’auto. 0:02:18 9 Est.: PPP dall’alto di una persona dentro una macchina, guarda verso dx con area severa; sullo sfondo, sfuocato, un volto femminile. Rimbombo dei colpi di G.; strofinio dei polpastrelli sul vetro del finestrino. Strofinio dei polpastrelli... Rimbombo dei colpi Rimbombo dei colpi Gemiti di G. Zoom out, Pan b/a: MP del conducente dell’autobus e di una signora al suo fianco. Carr. in avanti: FI di G. di spalle, a braccia aperte avanza come volando sopra i tetti delle auto. 209 Maurizio Corbella 0:02:25 10 Vento Est:: Pan b/a: dal dett, delle ginocchia di G. (di spalle) al suo PP dal basso in controluce. Carr. sx/dx: G. avanza sempre come volando uscendo f.c. a dx. Diss. inc. 0:02:34 11 Est./Giorno: FI dal basso di G. (di spalle) sospeso nel cielo, le nuvole di sfondo e del fumo bianco, come di nuvole trafitte dal corpo di G., attraverso l’inq. Diss. 0:02:38 12 Est./Giorno: Cielo; Mdp avanza fluttuando andando incontro alle nuvole in controluce. Diss. 0:02:42 13 Est./Giorno: CM: si intravede la cima del cantiere dell’astronave avvolta nella foschia. Mdp avanza fluttuando. Diss. 0:02:45 14 Est./Giorno: Spiaggia. CL: l’avvocato cavalca da sx a dx, avvicinandosi. Pan sx/dx: Mdp segue il cavaliere fino al CM, lasciandolo f.c. a sx. UOMO (f.c.): «Avvocato l’ho preso» MF dall’alto di un uomo, sdraiato sulla sabbia. Pan bdx/asx: MF dell’uomo che si mette in ginocchio, tirando una fune dal cielo. AVVOCATO: «Ehi... Giù, vieni giù» Zoom in fino a PP dal basso dell’uomo che tende la corda guardando in alto (sullo sfondo anche l’avvocato guarda in alto). 0:02:59 15 CLL dall’alto: in primo piano dett. della gamba di G., con l’estremità della fune legata alla caviglia. Sullo sfondo la spiaggia con l’uomo dall’altro capo della fune e l’avvocato poco lontano. 0:03:02 16 CM dall’alto: l’uomo in piedi armeggia con la fune. 0:03:04 17 Come 15: dett. della mano di G. che cerca di liberare la caviglia dalla fune. 210 Risata dell’uomo Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta 0:03:06 18 Zoom in: da PP a PPP del volto dell’avvocato che legge un taccuino. AVVOCATO: «Giù definitivamente» [riverberazione sulla sillaba finale] 0:03:07 19 CLL dall’alto: sullo sfondo il mare. Guido precipita da dx, sempre appeso alla fune Lungo gemito ispirato di Guido TABELLA 8: “Visione dello zatterone” in Giulietta degli spiriti Tempo Inq 0:19:09 Descrizione inquadrature 109 Est. giorno: Spiaggia: MF di Giulietta: porge un asciugamano e una crema solare alla domestica che esce a sx. Mdp si avvicina fino a PP di Giulietta: toglie gli occhiali, si guarda allo specchio; sullo sfondo a dx fuori fuoco le nipotine e la badante sedute sulla sabbia. G. guarda f.c. 0:19:27 110 CL: in fondo, la postazione di Susy, seduta appena fuori dal suo “baldacchino” scosso dal vento, attorniata da due accompagnatori 0:19:32 111 Come 109: G. si appoggia allo schienale della sdraio. Mdp si avvicina fino a PPP. G. chiude gli occhi e china il capo in avanti addormentata; il volto è coperto dal copricapo. 0:19:53 Voci e rumori di doppiaggio DOMESTICA (f.c.): «Vado a fare il bagno, signora» Sonorizzazione Mare Musica Il vascello di Susy DON RAFFAELE (f.c.): «Eh... la nostra simpatica Giulietta che vede sempre arcani dappertutto» G. Ride BADANTE (f.c.) [racconta una fiaba in francese alle bambine]: «[...] robustes et laborieux [...] Et le femmes [...]» gong e 112 CM: Occhio di lince, indossando una vestaglia rossa e una bombetta sta uscendo dal mare, tirando sulla spalla una fune. 211 Maurizio Corbella 0:19:57 113 Come 111: G. geme muovendo la testa, addormentata. Gemiti di G. 0:20:03 114 Come 112: G. entra in campo da sx, guardandosi intorno smarrita. Odl. le porge la fune ed esce di campo a sx. G. comincia a tirare la fune. OCCHIO DI LINCE: «Giulietta, mi aiuti per favore... sono vecchio... del resto, riguarda proprio lei. 0:20:21 115 PP: G., il volto coperto dal cappello, tira la fune, arretrando. Mdp avanza. 0:20:25 116 CL: il mare tranquillo e la linea dell’orizzonte. Da sx entra in campo, galleggiando una specie di imbarcazione. 0:20:34 117 Come 115: G. finisce affaticata di tirare e solleva la testa, guarda f.c. sorpresa e turbata. 0:20:39 118 CM: il mare tranquillo. L’imbarcazione è ferma parzialmente in campo a sx. Al centro del campo c’è una zattera galleggiante con due cavalli in piedi e un cavallo morto a pancia in su. Mdp avanza lentamente. 0:20:46 119 PP: l’imbarcazione schiude il suo arrugginito scafo, lasciando intravedere delle persone immobili alcune delle quali seminude. Mdp si avvicina lentamente. 0:20:54 120 PPP: G. spaventata guarda la scena. 0:20:56 121 CM zatterone. Zoom in e Pan dx/sx in PR sugli individui sulla barca. 212 h rumori di sfregamento rumori di sfregamento Vento G.: «Dottore... Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta 0:21:01 122 Come 120: Pan sx/dx lasciando G. f.c. sulla sx. In CL, infondo alla spiaggia c’è Don Raffaele seduto su una sedia che scuote la testa in maniera automatica. 0:21:07 123 CM zatterone. Sulla dx una donna e un uomo seminudi, l’uomo imbraccia una spada; dietro di loro un uomo vestito di tutto punto. Sulla sx in primo piano le gambe di un gigante. Pan a/b e sx/dx: un uomo nuota sott’acqua e un altro si è portato, armato, sulla zattera dei cavalli. 0:21:13 124 PP: un guerriero dalle fattezze orientali (di spalle) gira il volto verso la Mdp minaccioso. Sullo sfondo si intravedono altri guerrieri. 0:21:15 125 CM: G. (di spalle) cammina a lunghi passi misurati sulla spiaggia 0:21:22 126 CM: la testa di un guerriero emerge dall’acqua, mentre sullo sfondo si la zattera gremita di guerrieri immobili in assetto bellicoso solca il mare da dx a sx. Improvvisamente il guerriero nell’acqua emerge con una lancia pronto all’attacco. 0:21:29 127 PP: G. sulla sdraio si sveglia di soprassalto. Dopo un attimo in cui rimane spaventata, si rilassa rassicurata che fosse tutto un sogno. ...Dottore aiuto!» Aer opla no Amore per tutti [...] 213 Appendice I Conversazione con Federico Savina Federico Savina (Torino, 1935) da molti anni insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma; è lì che mi diede appuntamento nel marzo del 2009. Al mio arrivo, ebbi l’onore di assistere a una delle sue “lezioni”: si stava affrontando la fase di post-produzione del cortometraggio che avrebbe costituito l’esame di diploma di uno degli allievi del Centro. Il giorno prima, a L’Aquila, erano state effettuate le registrazioni della musica, e quel pomeriggio si trattava di fare la scelta dei takes migliori con il relativo editing. In studio, Savina – al centro, con il giovane regista alla sua sinistra e il giovane compositore alla sua destra – si trovava in una situazione analoga a quanto era successo nella sua vita ogni giorno da quel momento del 1959 in cui era entrato alla Fonolux ad affiancare Paolo Ketoff. In quel momento, in cui dirigeva i suoi allievi con mano sicura, ma al contempo con la discrezione e il rispetto che si deve agli artisti, sceglieva con cura forma e parole per indirizzare senza frustrarle le decisioni di coloro che alla fine avrebbero firmato come autori quell’opera, non era difficile immaginarlo tra Rota e Visconti, tra Argento e Morricone, tra Losey e Macchi, o tra Fusco e Antonioni, giostrarsi tra sinergie e tensioni inevitabili, svolgere un ruolo di mediatore essenziale tra i linguaggi tanto distanti che rendono il cinema così affascinante. Questa fu la prima vera lezione, di cui sono grato a Federico Savina: avere reso evidente ai miei occhi, attraverso le azioni che fanno parte del suo quotidiano, quale delicato equilibrio si instaura tra individualità forti nelle fasi di Maurizio Corbella lavorazione di un film e, nello specifico, quale immensa ipoteca la post-produzione sonora pone sulla riuscita finale dell’opera. Ciò ha rafforzato in me la convinzione che conoscere le condizioni di produzione di un film, le dinamiche interne tra le personalità che concorrono alla sua realizzazione, sia metodologicamente imprescindibile per chi si interessa di questi argomenti nei suoi studi. La seconda, più importante lezione, Savina me la diede qualche minuto dopo. Quando, accomodatici nel suo studio, avremmo dovuto cominciare il nostro colloquio, egli si interruppe dicendomi qualcosa del tipo: «Vede, quando insegno, così come quando lavoravo con i maestri di cui dovremmo parlare, io mi emoziono sempre molto. Lei mi sta chiedendo di ricordare una parte importante della mia vita, ma io ora non me la sento di fare questo sforzo, sono un po’ stanco». E mi invitò a casa sua per il giorno successivo, per una conversazione che sarebbe durata circa cinque ore, nel tentativo di ripercorrere sul filo della memoria circa vent’anni di vita. La seconda lezione di quel pomeriggio consisté nel fatto che per la prima volta fu per me lampante come la Storia e la vita siano due entità irriducibili una all’altra. Avevo messo Savina nella singolare condizione di pensare alla propria vita non come esperienza intima, personale, contraddittoria, ma come Storia. Ciò metteva senz’altro alle strette il mio ragionamento, fatto di date, nomi e pregiudizi, di fronte al suo racconto fatto di persone vive e ricordi. I temi cardine della nostra conversazione il giorno seguente furono la sua esperienza di apprendistato con Paolo Ketoff alla fine degli anni Cinquanta, il suo rapporto con Gino Marinuzzi jr. e lo stato della tecnologia elettronica negli stabilimenti di sincronizzazione, e moltissime altre questioni delle quali non ho dato resoconto scritto, se non indirettamente nei miei ragionamenti. Tuttavia, per quanto il nostro incontro fosse registrato, la sua trascrizione letterale è un’operazione pressoché impossibile: nel tentativo di rendere i toni e i tempi del dialogo accessibili alla lettura, mi sono presa più d’una licenza redazionale, cercando ovviamente di non influire sui contenuti della comunicazione di Savina; d’altra parte, non ho ecceduto nel forzare la scrittura verso una schematicità di domanda-risposta che poco si confà con il tipo di colloquio avuto; ho optato per un modello di domande ad ampio raggio che, sebbene non rispecchino esattamente il mio reale interloquire, hanno il pregio di suddividere il discorso di Savina nei macro-argomenti toccati. 216 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Roma, 18 marzo 2009 Maurizio Corbella: Quali erano gli stabilimenti di sincronizzazione più importanti a Roma nel periodo che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta? Federico Savina: Ho cominciato più o meno nel 1957. A quell’epoca c’erano degli stabilimenti molto importanti, come la Fono Roma, che aveva la sede in piazza del Popolo, che era nata prima della guerra [1931, ndr] ed era il più importante. C’era lo studio “Margutta”, che oggi è della società di doppiaggio CDC Sefit. A quei tempi era diventato della Metro Goldwyn Mayer. La MGM faceva i propri film in lingua localmente, perché in precedenza [prima della Guerra, ndr] la versione italiana dei film americani veniva fatta in America, ma venivano fuori cose poco comprensibili, poi c’era il fascismo che non voleva importare i film, eccetera. Dunque, alla fine della guerra, la MGM prese la sala che ancora esiste in via Margutta, assunse degli ingegneri come Piero Cavazzuti e altri nomi, e li incaricò di fare lo studio. Lì facevano tutto: doppiaggio, mixaggio e incisione delle musiche (la sala era attrezzata con gradini per mettere l’orchestra e aveva tutte l’equipaggiamento necessario). Dopodiché c’era un altro stabilimento, la Nis Film. Stava in via Rocca di Papa, era uno stabilimento strano, perché si entrava salendo al secondo piano, per poi scendere tre piani e arrivare in una sala grandissima, credo di tre o quattromila metri cubi; c’era una sala di ripresa alta una quindicina di metri, poi c’erano sale di doppiaggio e di montaggio, una stabilimento cinematografico nato ad hoc, che però ebbe molte vicissitudini finanziarie. A quel tempo,1 Ketoff lavorava già in via Margutta, era uno dei tecnici con Cavazzuti; era colui che “faceva” lo studio: si usavano ad esempio consolle Westrex, bisognava però cablare tutto per la trascrizione su ottico, non c’era ancora il magnetico, o meglio, cominciava allora; ma la presa diretta andava su ottico, si montavano le moviole, c’erano tante stanzette di moviola. Intorno al 1956 nacque la Fonolux, 2 situata a Cinecittà, all’interno dell’Istituto Luce. Un certo conte [Leone] Senni, probabilmente innamorato del cinema, aveva costituito questa società e voleva essere all’avanguardia. Così chiamò Ketoff. Lì c’erano già un teatro insonorizzato, due stanze di doppiaggio e una sala di mixage (le sale di mixage ai tempi coincidevano con le sale musica, con la consolle contro il muro per lasciare lo spazio per le orSavina si riferisce al momento del suo arrivo a Roma, prima del servizio militare, nel 1955-56. 2 Come ho in seguito verificato presso la CCIAA, l’anno di fondazione della Fonolux è in realtà il 1957. 1 217 Maurizio Corbella chestre). Nel periodo 1955-58, in cui gli americani venivano a registrare a Roma tutti quei “filmoni”, iniziarono a preferire la Fonolux, perché la Fono Roma, pur essendo sempre stata un faro, aveva una tecnologia “casalinga”, le macchine venivano fatte “in casa” con criteri dell’epoca, non molto avanzati tecnicamente rispetto agli studi di Hollywood. Invece il conte Senni costruì questa struttura e chiamò Ketoff perché voleva essere up-to-date. Quando andai a lavorare lì [nel maggio del 1959, ndr], Ketoff era il capo tecnico, poi c’era un certo signor Magni che invece era un tecnico della vecchia guardia, mentre Ketoff rappresentava “il nuovo”. Nel 1959 a Roma c’era l’RCA, con presidente l’ingegner [Giuseppe Antonio] Biondo, che durante il fascismo Mussolini aveva mandato negli Stati Uniti a specializzarsi. In America, Biondo divenne molto amico di Sarnoff, 3 finché, dopo la guerra, divenne il dealer italiano della RCA, introducendo in Italia grossissimi impianti: fornì ad esempio la stazione radio per il Vaticano.4 L’ingegner Biondo era presidente dell’RCA Italiana per la parte discografica, e fece costruire lo stabilimento RCA in via Tiburtina.5 Lì durante gli anni Sessanta costruirono uno studio enorme, di circa ottomila metri cubi, per incidere soprattutto opere. Prima di ciò, però, l’ingegner Biondo, dopo avere avviato l’RCA, si mise in proprio e fondò l’International Recording. Da persona molto in gamba quale era, sapeva che cosa significava essere al top della qualità. Costruì uno studio in via Urbana, con i migliori apparecchi esistenti, una sala acustica moderna di dimensioni classiche, circa duemila metri cubi, che in brevissimo tempo divenne il top per la registrazione della musica. Per riassumere, agli inizi degli anni Sessanta i principali studi a disposizione per l’incisione di sonoro cinematografica erano: la Fono Roma, l’International Recording, la Nis Film, Margutta, la Fonolux, il cine-fonico di Cinecittà (c’erano poi altre realtà più piccole, residui della guerra, durante la quale ci si era arrangiati con ogni mezzo). Dalla sua fondazione, infatti, Cinecittà aveva il suo cine-fonico, ma all’interno non si è mai fatta musica, a essi interessava il doppiaggio e il mixaggio dei film di loro produzione. Sotto David Sarnoff (Minsk, 1891 – New York, 1971), massimo dirigente della RCA (Radio Corporation of America) dal 1919 al 1970, e fondatore della NBC (National Broadcasting Company), può essere considerato il padre della televisione, oltre a essere un personaggio di importanza capitale per tutti i sistemi di comunicazione della prima parte del Novecento. 4 Fondata nel 1951, la RCA Italiana era per il 90 per cento posseduta dall’omonima casa madre americana, mentre per il restante 10 per cento dall’Istituto per le Opere di Religione (IOR) del Vaticano. 5 Il presidente della RCA Italiana era in realtà il conte Enrico Pietro Galeazzi, mentre Biondo, come ricorda Savina, era il presidente della parte industriale vera e propria, con sede in via Tiburtina. 3 218 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta il profilo delle attrezzature, mentre la Fono Roma era più “all’italiana”, Cinecittà era abbastanza allineata con gli standard americani, mentre la Fonolux era lo studio di eccellenza soprattutto per la musica, finché non si impose l’International Recording. L’International Recording era la realtà che più di tutte tendeva verso il modello americano: c’erano amplificatori Macintosh, macchine Ampex, microfoni Neumann, la sala disegnata da un americano; la Fono Lux era una “piccola” International, ma con il “genio italico”, rappresentato da Ketoff. Non spendevano molti soldi, ma avevano idee, macchinari, e genialità. La fortuna della Fonolux fu che gli americani che venivano a incidere in Italia trovavano un ambiente favorevole, competente economicamente, perché tra le altre cose il conte Senni e Paolo Ketoff parlavano inglese correntemente. Quando venne l’International Recording, si spostò il baricentro musicale, e la Fonolux cominciò ad accusare il colpo. MC: Come arrivò a conoscere Paolo Ketoff ? FS: Ho studiato a Torino fino a diciotto anni, poi ho lavorato due anni a Milano, facendo un corso serale di perfezionamento in elettronica industriale. Un anno e mezzo dopo [nel 1955, ndr] capitai al sole di Roma la mattina di Pasqua – venivo dalla nebbia di Milano – ripartii il lunedì sera, martedì mattina alle sette arrivai in stazione a Milano, alle otto andai nella ditta dove lavoravo, alle nove e mezza mi licenziai, perdendo metà della liquidazione, ripresi il treno e mercoledì mattina ero di nuovo a Roma. Trovai una camera sull’Aventino, non potevo avere posto più bello. Tramite mio fratello [Carlo Savina, ndr], che lavorava già in RAI a Roma, trovai lavoro a Casa Ricordi. Ero nel reparto tecnico, quando vendevano gli apparecchi, andavo a installarli in casa. Per conto di Ricordi iniziai a seguire le registrazioni di [Renzo] Rossellini e altri maestri che ora non ricordo, dovevo prendere nota di quando iniziavano e finivano i turni degli orchestrali. Quello fu il mio primo approccio col cinema e allo stesso tempo con il mondo della registrazione. Decisi di iscrivermi alla scuola di cinema. Intorno al 1956 conobbi Gino Marinuzzi jr. Con lui nacque un rapporto per cui si cominciò a parlare di alcune sue idee sperimentali. Tutto però si interruppe perché dovetti andare in marina per il servizio militare. Il servizio in marina a quel tempo durava 28 mesi. Passati questi due anni e mezzo cercai di riprendere i contatti con il mondo con cui ero riuscito a mantenere qualche sporadico contatto. Casa Ricordi mi riprese a lavorare. Da quel momento cominciai a frequentare più spesso Marinuzzi, con il quale venne l’idea di realizzare alcune delle idee di cui si era parlato anche prima della mia partenza. Cominciai a fare qualche strumento elettronico: il 219 Maurizio Corbella primo fu lo Scopacordo, un manico di scopa con una corda metallica, un pezzo di legno a mo’ di ponticello per tenere la corda tirata, un pick-up magnetico americano per amplificare il suono. Marinuzzi, o qualcuno del suo giro, aveva comprato un registratore americano che si chiamava Viking, una piastra con un nastro. Si poteva incidere e risentire. A questo punto siamo arrivati circa al 1958-59. Marinuzzi mi fece conoscere Ketoff, che mi propose di andare a lavorare da lui. Fu così che lasciai Ricordi e iniziai [intorno a maggio del 1959, ndr] il mio periodo di apprendistato con Paolo Ketoff alla Fonolux che durò per sedici mesi, fino al 1961. Ketoff era sempre stato un inventore geniale; era il tipo che se gli serviva un altoparlante se lo costruiva. Subito dopo la guerra, infatti, costruiva altoparlanti con Romano Pampaloni.6 Ricordo che iniziai alla Fonolux nel momento in cui arrivava dall’Inghilterra un registratore a nastro della Epsilon che aveva l’inconveniente di avere il pulsante di record senza sicura vicino al pulsante di play, con il rischio di cancellare per sbaglio quanto si era registrato. Il primo lavoro che vidi fare a Ketoff fu quello di “smantellare” la macchina per mettervi una sicura. Per fare un altro esempio, gli americani con cui Ketoff lavorava chiedevano il tre piste, ed egli ricavava tre piste dal registratore a due piste, utilizzando nastri più piccoli, da mezzo pollice; bisognava cambiare tutti i supporti, non era un lavoro semplice, ma c’erano meccanici all’interno dell’Istituto Luce in grado di farlo. Fatto sta che questa macchina era in continuo aggiornamento. Dato che la Fonolux lavorava spesso con americani – ricordo benissimo quando venne Dimitri Tiomkin a registrare le musiche di Unforgiven – Ketoff aveva l’esigenza di adeguarsi allo standard statunitense e, per esempio, costruì una consolle sul modello di quelle americane. Probabilmente influenzato dagli americani, o forse per sua natura, costruì una stanza di riverbero. Cominciò a utilizzare un suono nuovo per gli standard italiani. Si dotò di due microfoni Neumann con cui cercavamo di fare tutto. Da lui imparai il tipo di suono e un certo rigore tecnico. Lavoravamo bene insieme, fu un periodo molto eccitante, ci trovammo a un certo punto persino a dover fare i rumori elettronici di un documentario brasiliano. Facemmo questa esperienza ma decidemmo di comune accordo di lasciare fare queste cose ad altri. Nel corso della mia esperienza alla Fonolux a Roma c’era un certo fermento intorno alla musica elettronica. Io e Paolo Ketoff eravamo gli unici due tecnici a disposizione esperti di queste cose. Lui molto più bravo di me, io forse con più sensibilità musicale. Ketoff faceva anche dei lavori Romano Pampaloni è un tecnico del suono molto attivo nelle post-produzioni italiane fino a tempi recentissimi (l’ultima sua partecipazione documentata è a 7/8, r. Stefano Landini, 2007; nel periodo che ci interessa è accreditato per il mixaggio delle Piacevoli notti con musiche di Gino Marinuzzi jr., cfr. POPPI–PECORARI 1992, p. 399. 6 220 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta esterni, a cui spesso partecipavo in qualità di “segretario tecnico”. Cominciava ad andare di moda l’hi-fi, e Ketoff era molto impegnato nel progettare e costruire impianti. Per me fu un periodo di apprendistato molto felice. MC: Può dirmi qualcosa di più in merito alle sperimentazioni con Gino Marinuzzi jr.? FS: Già prima di partire per il militare, lavorando a Ricordi, conobbi Marinuzzi e venne spontaneo di fare qualcosa insieme. Per prima cosa mi fece fare lo Scopacordo, seconda cosa mi fece intervenire sul registratore [il Viking, cfr. supra]. Allora le classiche domande di Marinuzzi erano: «si può rallentare la velocità del registratore (per ottenere il cambio di altezza del suono)?»; era un continuo porre nuove questioni che io cercavo di risolvere. Dopo di che mi chiese: «Sai avrei bisogno di un suono così [ululato del vento]». Io avevo comprato, non so come, un grosso libro dell’RCA che leggevo la sera. Avevo trovato che c’era un circuito che poteva fare questo effetto, era praticamente un filtro modulabile. Solo che per muovere la [frequenza], cosa che oggi si farebbe con un potenziometro, allora bisognava farlo in radiofrequenza. Così mi misi a costruirlo nella casa dove abitavo: cominciai con l’alimentatore per le valvole e feci un primo apparecchio con una manopola, praticamente un filtro molto selettivo che si muove. Il problema successivo fu come farlo muovere, da che punto a che punto. Le richieste di Marinuzzi si facevano sempre più esigenti: voleva che il filtro si muovesse da un punto a un punto, nonostante non fosse possibile con quei mezzi farlo in banda continua. Appena gli risolvevo un problema era contentissimo sul momento, però tre giorni dopo tornava e mi diceva: «Sai, però, tu me l’hai fatto su un ottava, mi servono due ottave»; facevo due, quattro ottave, per fare ciò bisognava risolvere parecchi problemi, la banda era molto ampia. Aveva fatto un film sul K2 con Guerrasio. Aveva bisogno di fare i venti, si chiedeva quale potesse essere l’origine [la sorgente, ndr] dei suoni. Lo Scopacordo andava bene, perché filtrato dava un ottimo effetto di vento. Gli feci varie versioni del filtro. Poi venne fuori un altro strumento. Allora andava di moda fare le scale diatoniche non temperate. Lo scopo era avere 12 oscillatori da “accordare a piacimento”. Quindi mi misi a fare gli oscillatori, questo non era particolarmente difficile (Milano ne aveva nove, noi avevamo il manico di scopa!). Poi Marinuzzi mi chiese di legarne due, in modo da poter fare due note contemporaneamente e farle slittare su frequenze non temperate; poi di seguito tre, fino ad arrivare a dodici. Con dodici oscillatori in casa io finii per dormire per terra. Era diventato un mobile che mi occupava tutta la stanza. Fu un mese e mezzo di lavoro. Alla fine Marinuzzi mi chiese: «Sì, ma come faccio a suonare? Posso solo fare degli shift, mi manca l’attac- 221 Maurizio Corbella co, il sustain, il decay...»; diventava una tecnologia che io non ero in grado di fare. Fu lì che Marinuzzi si rivolse a Ketoff. MC: Può fare un’ipotesi su quale fosse l’origine di questo interesse di Marinuzzi per l’elettronica? Era per il cinema che nutriva quest’interesse? FS: Il cinema dava da vivere; Marinuzzi, a differenza di altri compositori, pensava per il film una certa cosa e poi la realizzava. Altri, come Peragallo e Maselli si comportavano diversamente. Per esempio, Maselli aveva in mente di lavorare sulle sovrapposizioni: io gli feci una macchina che gli portai personalmente nella mia Topolino; era un Grundig TK9 modificato: siccome aveva due testine, una incideva e l’altra leggeva, tu facevi «bla» e quello dopo un po’ faceva «bla»; se prendevi questo «bla» e lo rimettevi dentro faceva «bla bla bla» ripetuto.7 Ketoff spese molto tempo all’Accademia Americana. Lì aveva degli artisti che erano come Marinuzzi. Solo che Marinuzzi ha lavorato con Ketoff dopo avere acquisito certe esperienze di base; le prime esperienze elementari le ha fatte con me; poi si è rivolto a Ketoff anche perché il mio livello in quel momento era quello che le ho detto. Ketoff fece tesoro delle esperienze fatte da tutto il giro di compositori (Marinuzzi, Peragallo, Macchi) e da quel momento andò avanti, e cominciò a fare la “tastiera”. Il problema per questi compositori fu quando si trovavano davanti tutti questi suoni. A Milano potevano basarsi sul fatto di avere uno studio completo e dunque potevano registrare una cosa alla volta, le operazioni potevano impiegare molto tempo. Il film è una cosa “cotta e mangiata”, devi avere un apparecchio, vai in sala, vedi il film, fai i suoni che servono, e il film è fatto, non si può tornare dopo due mesi per modificarlo. A Milano facevano composizioni musicali e non avevano il problema del tempo. Qui a Roma c’era l’immediatezza. E, di tutto il gruppo, l’unico che viveva di cinema era Marinuzzi. Era lui che scriveva sia le partiture e che aveva la genialità di pensare agli apparecchi che poi io o Ketoff costruivamo. Io costruivo, ma la genialità era sua. Oggi tante cose nascono dopo avere sentito i milioni di suoni e campioni che si hanno a disposizione nei sintetizzatori e negli archivi digitali. La genialità di Marinuzzi stava nel fatto che lui sapeva prima quale suono voleva. Qui Savina fa riferimento a una delle primarie possibilità elaborative del registratore/riproduttore magnetico, cosiddetta “eco di testine”, utilizzata per i primi effetti di riverbero e di ritardo: «essa si basa sul principio per cui possibile sovrapporre un segnale a sé stesso o ad altri, per un certo numero di volte, ci ottenibile per mezzo del rinvio del segnale registrato di nuovo in registrazione. Il risultato di quest’operazione consiste nella ripetizione periodica del segnale, dopo un tempo t, che dipende dalla distanza che passa fra le due testine e la velocità di scorrimento del nastro [...]»; BRANCHI 1977, p. 158. 7 222 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta MC: Trovo molto interessante l’esempio del suono del vento, perché è una costante nelle sue sonorizzazioni. FS: Oggi ho capito che sarebbe stato molto più facile realizzarlo con due mono che si sfasano: allora non avevamo il concetto del pick noise, vale a dire del fruscio, che aumentato di volume può essere lavorato; se ci avessimo pensato allora di fruscio con le valvole ne avevamo quanto volevamo... Prendendo due suoni ricchi identici, sfasandoli di una piccola unità di tempo ne viene fuori un “filtro a pettine”. Comunque Marinuzzi voleva un vento che fosse modulabile secondo le sue esigenze. Era l’unico tra gli altri compositori che scriveva per il cinema, forse perché facendo cinema sapeva ciò che gli serviva non scriveva per l’«eternità», scriveva cose che servivano per esigenze specifiche. MC: Marinuzzi era amico di Jerry Goldsmith, che provò a farlo andare a Hollywood, anche se egli alla fine rifiutò poiché, secondo la figlia Anna Maria, non gli interessava più di tanto la notorietà. FS: Marinuzzi era un’idealista; Jerry Goldsmith era un innovatore ma estremamente attento all’aspetto economico. In effetti fu Marinuzzi a presentarmi Jerry Goldsmith quando venne a fare un film in Italia; Marinuzzi faceva delle cose elettroniche per lui. Dopodiché lavorai spesso con Goldsmith sia in Italia che a Londra; una volta capitai a casa sua negli Stati Uniti: lì aveva alcune persone che lavoravano fisse per lui, il montatore delle musiche, due orchestratori, poi aveva un accordo con qualche ditta produttrice che gli forniva i primi elaboratori per la computer music prima che fossero in commercio, lui così era in grado di studiarli. Quando lo conobbi, non so se la prima volta che venne in Italia o più tardi (perché venne in Italia cinque o sei volte) – feci vari film tra cui uno con Sofia Loren di un autore greco –,8 aveva una specie di roto-tom amplificati e trattati che usava dal vivo in orchestra: pelli con applicati dei sensori che, a seconda di come erano toccate producevano suoni diversi. Ricordo che rimasi stupito perché mi aspettavo di dover microfonare un intero set di batteria, invece arrivò un suo assistente come esecutore, che suonava con le dita in modo quasi pianistico queste pelli, che producevano un suono stranissimo. MC: Mi sta dando un’informazione molto interessante: leggendo alcune partiture autografe di Goldsmith a Los Angeles rimasi stupito da uno strumento che produceva un suono simile a un rototom, annotato in partitura con il nome “loo-johns”... FS: Goldsmith aveva delle persone che ricercavano esclusivamente questi suoni che poi lui utilizzava. Ogni suo film aveva uno strumento biz- 8 Cassandra Crossing (The Cassandra Crossing), r. George P. Cosmatos, 1976. 223 Maurizio Corbella zarro diverso. In America ci sono figure pagate dalle produzioni il cui lavoro è la ricerca di suoni. Questo in Italia non è mai esistito, anche perché spesso erano gli editori a pagare i compositori, senza che le produzioni dovessero tirare fuori una lira per la parte musicale dei film. MC: Accanto ai compositori che inserivano la musica elettronica nei loro film si è verificato anche il processo inverso di registi che chiedevano a compositori che non appartenevano alla tradizionale cerchia cinematografica di comporre musica elettronica: mi riferisco ad Antonioni con Gelmetti e Musica Elettronica Viva, allo stesso Fellini nel Satyricon, che prese musiche elettroniche già edite, a Ferreri del Seme dell’uomo; però mi pare di notare, specialmente in alcuni film, una sorta di via di mezzo: in particolare in corrispondenza di momenti topici come sequenze oniriche, magia, ecc. si riscontrano elementi sonori che pur non arrivando a essere definibili “musica elettronica” sembrano attingere allo stesso patrimonio di tecniche e procedure maturate dagli studi in quegli anni – mi riferisco, per esempio, alle sequenze spiritiche di Giulietta degli spiriti, in cui sono presenti risonanze, effetti sintetici, lo stesso vento usato in modalità non naturalistiche. Mi chiedevo che ruolo e che autonomia avessero gli studi e i tecnici in questi frangenti, dato che non mi sembra che possiamo attribuire tali sonorità a compositori come Rota. FS: Credo che Rota abbia chiamato Marinuzzi in molte occasioni. Non saprei dirle le circostanze specifiche. Queste necessità nascevano in maniera estemporanea. Io lavoravo in studio quindi ricordo se certe esigenze si manifestavano durante la registrazione o il mixaggio della musica, mentre se capitavano in altri momenti si andavano a fare da qualche parte. A poco a poco nacquero i primi piccoli studi, Marinuzzi da un certo momento in avanti ebbe il Synket, poi arrivò il Moog, inoltre c’erano anche altri compositori come il M.° Giombini, che nei suoi film ha sempre usato risorse elettroniche, o Nicolai, che era esperto di organo Hammond, sapeva sfruttare tutti i suoni vibrati, la riverberazione: se tutto va bene molti effetti dei film di Fellini sono fatti con l’Hammond. Molti erano diventati trucchetti che si usavano per i sogni, tipo suoni al rovescio, effetti d’eco ecc. All’inizio erano tutti esperimenti, ti telefonava Marinuzzi e ti diceva: «ho bisogno di un suono che faccia così...», poi sono arrivati i pulsanti che facevano le stesse cose, allora il fascino si è un po’ polverizzato. 224 Appendice II Paolo Ketoff presenta il Synket Riporto qui di seguito l’articolo pubblicato da Paolo Ketoff su «Electronic Music Review» [KETOFF 1967b], in cui il Synket viene descritto nel dettaglio, con l’ausilio di schematizzazioni. Appendice III Filmografia di Gino Marinuzzi jr. Il seguente catalogo non ambisce a completezza. Si limita a rendere conto di quanto finora appurato riguardo alla produzione musicale cinematografica di Gino Marinuzzi jr. Ho scelto di dividere la sua produzione in tre tipologie: lungometraggi,1 sceneggiati televisivi, cortometraggi e documentari. Per ogni film, a margine delle consuete informazioni di produzione, ho aggiunto, dove possibile, dati riguardo a particolarità musicali, alla sonorizzazione, alle edizioni musicali e discografiche, e recensioni in cui si fa accenno alle musiche. Abbreviazioni d. Distribuzione ed. mus. Edizioni musicali r. Regia p. Produzione s. Soggetto e sceneggiatura 1 Ho incluso in questa prima sezione anche L’Italia non è un paese povero e Alle origini della mafia che, nonostante la destinazione televisiva, sono girati con tecnica cinematografica; Kan Jut-Sar, pure incluso, è invece un documentario anomalo rispetto al resto della produzione documentaristica di Guerrasio, per lunghezza e circolazione. Maurizio Corbella Lungometraggi cinematografici 1860 - I Mille di Garibaldi, r. Alessandro Blasetti, 1951 (1934) p. Emilio Cecchi per Cines; s. Alessandro Blasetti, Emilio Cecchi, Gino Mazzucchi. Suono: Fono Roma. Amo un assassino, r. Baccio Bandini, 1951 p. Baccio Bandini per Lux Film; d. Lux Film; s. B. Bandini, Sandro Continenza, Mario Monicelli, Ennio De Concini, Steno. Romanzo d’amore, r. Duillio Coletti, 1951 p. Domenico Forges Davanzati per Lux Film; d. Lux Film; s. Duilio Coletti, Suso Cecchi d’Amico, Fulvio Palmieri, Antonio Pietrangeli, Aldo De Benedetti. Direzione d’orchestra: Enzo Masetti. La serenata Rimpianto è di Toselli. «Ispirato alla vita del musicista Toselli (qui interpretato da un pesante e senza espressione Rossano Brazzi), riporta alcune belle pagine musicali [...]» 2 A fil di Spada (Don Ruy), r. Carlo Ludovico Bragaglia, 1952 p. Francesco Alliata per Panaria Film; d. Panaria Film; s. Leo Benvenuti, Furio Scarpelli, Age. La carrozza d’oro (La carrosse d’or), r. Jean Renoir, 1952 p. Delphinus (Roma),3 Hoche Production (Parigi); d. DCN; s. Jean Renoir, Giulio Macchi, Jack Kirkland, Renzo Avanzo, Ginette Doynell. Musiche di Antonio Vivaldi adattati e diretti da G. M. Adattamenti e direzione di musiche della Commedia dell’Arte. Il maestro di Don Giovanni, r. Milton Krims e Vittorio Vassarrotti (non accreditato), 1954 p. Vittorio Vassarotti – J. Barrett per Vi.Va Film, Errol Flynn; d. Titanus; s. Milton Krims. Musiche di Gino Marinuzzi e Alessandro Cicognini. Il mantello rosso (Les revoltés), r. Giuseppe Maria Scotese, 1955 p. Trio Film, Franca Film (Roma), Centre Cinéma (Parigi); d. Zeus; s. Guglielmo Santangelo, Albino Principe. 2 E. FECCHI, «Intermezzo», 3/4, 28 febbraio 1951, in CHITI-POPPI 1991, p. 314. Ivi, p. 85; altri cataloghi segnalano invece Panaria Film; entrambe le case sono comunque di proprietà di Francesco Alliata. 3 230 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Vento del sud, r. Enzo Provenzale, 1959 p. Franco Cristaldi per Lux Film, Vides, Cinecittà; s. Giuseppe Mangione, Elio Petri, Armando Crispino, Enzo Provenzale. Canzone Sole freddo (G. M.) cantata da Miranda Martino. Suono: Fonolux. Kan Jut-Sar (La montagna che ha in vetta un lago), r. Guido Guerrasio, 1961 p. Guido Monzino; d. De Laurentiis. Canzone Kan Jut-sar di G.M. e Guerrasio. Discografia: lp, Cenacolo M 708. L’Italia non è un paese povero, r. Joris Ivens, con la collaborazione di Valentino Orsini e Paolo Taviani, 1960 Episodi: Fuochi in Valpadana, Due città, Appuntamento a Gela. Film per la televisione. p. Produttori Associati. Suono: Fonolux Mix: Renato Cadueri; Commento: Alberto Moravia, Corrado Sofia; Voce: Enrico Maria Salerno; Aiuto regista: Giovanni (Tinto) Brass; Ercole alla conquista di Atlantide, r. Vittorio Cottafavi, 1961 p. Achille Pazzi per S.P.A. (Roma), Cin.ca, Comptoir Français du Film (Parigi); s. Vittorio Cottafavi, Sandro Continenza, Duccio Tessari. Ed. mus. CAM Discografia: cd, Digitmovies CDDM090 «È un’opera riuscita, ricca com’è di trovate ben concepite e ben realizzate, fotografata con colori lieti e pastosi [...]. Sembra, a volte, che Cottafavi si diverta a “spararle” sempre più grosse [...] senza tuttavia mai offendere il garbo né il senso della misura [...]»4 Il giudizio universale, r. Vittorio De Sica, 1961 p. Dino De Laurentiis (Roma), Standard Film (Parigi); d. De Laurentiis, s. Cesare Zavattini. Musiche di Alessandro Cicognini. Canzone ’Na musica di Modugno e Pugliese. Ed. mus. Radiofilmusica. Composizione dei numeri elettronici (non accreditata) di G. M. e Alessandro Cicognini.5 Discografia: lp, RCA Pml 10295 Hong Kong un addio, r. Gian Luigi Polidoro, 1962 p. Alessandro Jacovoni per Ajace Compagnia Cin.ca; d. Dino De Laurentiis; s. Gian Luigi Polidoro, Paolo Levi, Ennio Flaiano. V. SPINAZZOLA, Film 1963, Milano: Feltrinelli, 1963, in POPPI–PECORARI 1992, p. 195. 5 Vedi Archivio Opere Musicali della SIAE, <http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali>, consultato gennaio 2010. 4 231 Maurizio Corbella Canzoni: Le stelle d’oro di Lepore, Naddeo, cantata da Mei Lang Chang; Non dimenticar (t’ho voluto bene), di Redi; Gelsomina di Rota; Ed. mus. [Radiofilmusica].6 Discografia: lp, CAM Cms. 30-053. Le voci bianche, r. Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, 1964 p. Nello Meniconi – Luciano Perugia per Franca Film e Cin.ca Federiz (Roma), Franco Riz (Parigi); d. Cineriz; s. Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile, Luigi Magni; r. P. Festa Campanile, M. Franciosa. Ed. mus. CAM Discografia: lp, CAM Cms. 30-110 «[...] La satira vien fuori da una efficace collaborazione fra i diversi elementi creativi: i gustosi costumi e le scenografie di P. L. Pizzi (ma il merito è prima ancora dei registi, che hanno saputo fondere i costumi dei personaggi con gli sfondi autentici della Roma barocca), la recitazione guidata da un Paolo Ferrori scatenato, le argute citazioni musicali di Gino Marinuzzi jr. [...]. Gli autori non hanno avuto il coraggio di sviluppare fino in fondo l’impostazione della sceneggiatura [...] [e] dirottano il discorso verso le facili soluzioni della commedia all’italiana [...]. Con tutto ciò riteniamo il film non privo di una sua validità e di un suo interesse curioso [...]»7 Terrore nello spazio, r. Mario Bava, 1965 p. Italian International (Roma), Castilla Coop. Cin.ca (Madrid); d. Sidis; s. Mario Bava, Callisto Cosulich, Antonio Román, Rafael J. Salvia, I.B. Melchior, Alberto Bevilacqua; r. M. Bava. Ed. mus. Bixio. Effetti sonori: Paolo Ketoff. Discografia: cd, DRG Records 32903; Cinevox CDMDF-346; Digitmovies CDDM007. «[...] Il film, a colori, ricorda per la scenografia alcune opere dell’espressionismo tedesco: suoni, luci, nebbie variopinte e sempre fluttuanti, melme in ebollizione, situazioni dense di mistero sono gli elementi che Bava ha mescolato per darci un discreto racconto di quel tipo di fantascienza che ignora i problemi della terra, ambientando personaggi e avvenimenti in mondi extragalattici e di pura fantasia» 8 La mandragola, r. Alberto Lattuada, 1965 p. Alfredo Bini per Arco Film (Roma), Lux de France (Parigi); d. Titanus; s. Alberto Lattuada, Stefano Strucchi, Luigi Magni. Ed. mus. Emi. Discografia: cd, Vivi Musica VCDS 7012. Le piacevoli notti, r. Armando Crispino e Luciano Lucignani, 1966 p. Mario Cecchi Gori per Fair Film; d. Titanus; s. Sandro Continenza, Steno, L. Lucignani. Poppi e Pecorari indicano CAM (1992, p. 253); io riporto invece l’indicazione dell’Archivio Opere Musicali della SIAE per i titoli Hong Kong un addio film e Hong Kong un addio comp orch,; cfr. ibid. 7 E. COMUZIO, «Cineforum», 38/39, novembre 1964, in POPPI–PECORARI, p. 606. 8 G. B. CAVALLARO, «Avvenire d’Italia», febbraio 1966, in ivi, p. 540. 6 232 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Canzone Le piacevoli notti di G.M. e Lucignani cantata dai Cantori Moderni di A. Alessandroni; Ed. mus. General Music/Slalom, oggi Emi. Discografia: cd, Vivi Musica VCDS 7012; Digitmovies/GDM Music CDDM001; Cecchi Gori Music/Sony CGM 483560 2. Operazione tre gatti gialli, r. John Eastwood, Cehett Cooper [Gianfranco Parolini],9 1966 p. Danny Film (Roma), Danubia Film (Vienna), Filmidis, Les Films Jacques Willemetz (Parigi), Parnass Film (Monaco), Ceylon Tours (Colombo); s. Mike Ashley [Mino Roli] Rudolf Zehetgruber. Ed. mus. Emi. Matchless, r. Alberto Lattuada, 1967 p. Ermanno Donati e Luigi Carpentieri per Dino De Laurentiis Cin.ca; d. Medusa; s. Alberto Lattuada, Dean Craig, Jack Pulman, Luigi Malerba. Ed. mus. Radiofilmusica. Musiche di Gino Marinuzzi jr. ed Ennio Morricone. Discografia: lp Cometa CMT 1015/29. Amore o qualcosa del genere, r. Dino B. Partesano, 1968 [incompiuto] p. Vittorugo Moretti per Cinevic; s. Dino B. Partesano. Ed. mus. CAM. Canzoni Amore o qualcosa del genere e Donne di cartone (C. Gigli, G. Sanjust e G.M.) cantate da Giulia Ray e Gianni Davoli. Hi wa shizumi, hi wa noboru (Sunset Sunrise), r. Koreyoshi Kurahara, 1973 p. Nikkatsu International. Musiche di Nino Rota Musiche di sottofondo, arrangiamenti, orchestrazione, direzione di G.M. Alle origini della mafia, r. E. Muzii, 1976 Episodi: Gli antenati, La legge, Gli sciacalli, Omertà. Film per la televisione girato in pellicola. p. Anna Muzii per Fraia Film, ITC RAI Radiotelevisione Italiana, s. Brando Giordani, E. Muzii, David Rintels. Musiche di Nino Rota e G.M.; Canzoni L’ultima notte di Lauzi, Rota e Muzii, E così sia di Endrigo e Rota, cantate da Sergio Endrigo e orchestrate e dirette da Ennio Morricone. Ed. Mus. ATV Music – Fono Film Ricordi 9 Entrambi i nomi inglesi sono pseudonimi di Gino Parolini, ivi, p. 377. 233 Maurizio Corbella Sceneggiati televisivi Umiliati e offesi, 1958 (4 episodi) r. Vittorio Cottafavi Antigone, 1958 r. Vittorio Cottafavi Quando amor comanda, 1960 r. Vittorio Cottafavi Tom Jones, 1960 (6 episodi) r. Enzo Macchi. Colloquio con un uomo disprezzato, 1962 r. Vittorio Cottafavi. Demetrio Pianelli, 1963 (4 episodi) r. Sandro Bolchi. Quel signore che venne a pranzo, 1964. r. Alessandro Brissoni. (partecipazione di G. M. non verificata) Le inchieste del commissario Maigret, 1964-1965 (10 episodi di cui 3 con musiche di G. M.) Una vita in gioco, 1965 Un Natale di Maigret, 1965 L'affare Picpus, 1965 r. Mario Landi. Il conte di Montecristo, 1966 (10 episodi, di cui 7 musicati da G. M.: 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8). r. Edmo Fenoglio. Jeckyll,1969 4 puntate r. Giorgio Albertazzi. 234 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Documentari e cortometraggi La leggenda di Verona, r. Guido Guerrasio, 1949 Il testamento dei poveri, r. Guido Guerrasio, 1950 Il millesimo di millimetro, r. Virgilio Sabel, 1950 Quelli che soffrono per noi, r. Alessandro Blasetti, 1951 Vivo di te, r. Dino B. Partesano, 1951 Miracoli della chimica, r. Guido Guerrasio, 1951 T9, r. Guido Guerrasio, 1951 Dall’aria al pane, r. Guido Guerrasio, 1951 La valle del carburo, r. Guido Guerrasio, 1951 Gamba di legno, G. Guerrasio, 1952 Signora Volpe, G. Guerrasio, 1952 Fuori porta, r. G. Guerrasio, 1952 Dolce Lombardia, r. Guido Guerrasio, 1953 Hanno bisogno di noi, r. Guido Guerrasio, 1953 Ritmo in tre, r. Guido Guerrasio, 1953 Basilica segreta, r. Guido Guerrasio, 1953 I nostri nonni, r. Guido Guerrasio, 1953 Toce 28, r. Guido Guerrasio, 1953 Oggi la scultura, r. Guido Guerrasio, 1954 Masolino, Guido Guerrasio, 1954 Una vita per il colore, r. Guido Guerrasio, 1955 Il cavaliere di via Morone, r. Guido Guerrasio, 1955 Il lago dei romantici, r. Guido Guerrasio, 1955 Gente dei navigli, r. Guido Guerrasio, 1955 Teatro Gerolamo, r. Guido Guerrasio, 1955 Buongiorno inverno, r. Guido Guerrasio, 1955 Diario di un lago, r. Guido Guerrasio, 1956 Bancarellai, r. Guido Guerrasio, 1956 Cinque anni in un giorno, r. Guido Guerrasio, 1956 Un bicchiere d’acqua, r. Guido Guerrasio, 1956 Il romanzo del Sempione, r. Guido Guerrasio, 1956 Novembre, r. Guido Guerrasio, 1956 L’inverno dei cavalli, r. Guido Guerrasio, 1956 La carrozza di tutti, r. Guido Guerrasio, 1957 Milano XXXV Fiera, r. Guido Guerrasio, 1957 Il paesaggio di Carducci, r. Guido Guerrasio, 1957 Viaggio nelle terre basse, r. Giulio Questi, 1957 Amsterdam, r. Giulio Questi, 1958 Ragazzi al bivio, r. Guido Guerrasio, 1958 Italia in Patagonia, r. G. Guerrasio, 1958 L’indimenticabile ’59, r. Guido Guerrasio, 1959 Grandes Murailles, r. Guido Guerrasio, 1959 Quella notte a Betlemme, r. Guido Guerrasio, 1960 Lacco ameno Incantesimo di Ischia, r. Guido Guerrasio, 1960 Lacco ameno termale, r. Guido Guerrasio, 1960 Masaccio, r. Guido Guerrasio, 1990 235 Riferimenti bibliografici Fondi e archivi di riferimento AARA AMERICAN ACADEMY IN ROME ARCHIVES New York City. ede americana dell’archivio dell’Ente, in cui sono conservati prevaS lentemente documenti a carattere amministrativo. AFA ANTHOLOGY FILM ARCHIVES New York City. Archivio cinematografico specializzato nel cinema indipendente. Conserva parte del materiale audiovisivo realizzato presso il CCMC e alcuni film italiani, come Organum Multiplum e Se l’inconscio si ribella di Alfredo Leonardi. AHP ALFRED HITCHCOCK PAPERS Margaret Herrick Library, Academy of Motion Picture Arts and Sciences, Beverly Hills (CA). Conserva il materiale cartaceo di produzione di tutti i film del regista americano, compreso Gli uccelli. MEBA MARY ELLEN BUTE ARCHIVE einecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University, B New Haven (Conn). Raccoglie tutte le carte e i film della cineasta americana. Maurizio Corbella CINB CINETECA DI BOLOGNA Biblioteca “Renzo Renzi”, Bologna. CCMC COLUMBIA COMPUTER MUSIC CENTER Columbia Computer Music Center, New York City. Archivio del Centro (ex Columbia-Princeton Electronic Music Center), contiene schede di tutte le composizioni ivi realizzate, in aggiunta alcuni carteggi di Vladimir Ussachevsky e Otto Luening, bozze di lezioni, articoli e conferenze. FBIN FONDO BINI Biblioteca “L. Chiarini”, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma. Contiene il materiale appartenuto al produttore cinematografico Alfredo Bini, comprendente sceneggiature di film e ritagli stampa. FFON FONDO FONOLUX Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, Roma. Due fascicoli contenenti atti amministrativi e giudiziari della società (fondazione, capitale, soci, fallimento ecc.) conservati rispettivamente dalla Camera di Commercio e dal Tribunale. FGELa FONDO GELMETTI “A” Abitazione di Vittorio Gelmetti, San Martino Buon Albergo (VR). Contiene materiale personale del compositore in corso di catalogazione a opera di Giovanni De Mezzo, comprendente carte, partiture, bobine. FGELb FONDO GELMETTI “B” Biblioteca “L. Chiarini”, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma. Di piccola consistenza, conserva libri relativi al periodo di insegnamento del compositore presso il CSC. FMAR FONDO MARINUZZI Abitazione di Gino Marinuzzi jr., Roma. Contiene materiale personale del compositore non catalogato, consistente in carte, partiture, bobine magnetiche, dischi e la biblioteca del compositore. FPET FONDO PETRI Biblio-mediateca “Mario Gromo”, Torino. Contiene materiale cartaceo (carteggi, sceneggiature, appunti, interviste) relativo a tutto la parabola artistica del cineasta. 238 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta IRTEM ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE Roma. Conserva un’ampia selezione di film etnografici degli anni Sessanta e di cortometraggi realizzati con musiche di compositori dell’avanguardia romana. OLP OTTO LUENING PAPERS Rodgers and Hammerstein Archives of Recorded Sound, New York Public Library, New York City. Collezione completa delle carte e del materiale musicale e sonoro del compositore americano. RAI RAI TECHE RAI Radio Televisione Italiana, via Asiago, Roma. Registrazioni di trasmissioni radiofoniche non digitalizzate. Dalla Mediateca Santa Teresa di Milano è invece possibile l’accesso multimediale al materiale digitalizzato relativo a palinsesti, trasmissioni radiofoniche e televisive. RGP REMI GASSMANN PAPERS University of California Irvine Library, Irvine (CA). Collezione completa delle carte e del materiale musicale e sonoro del compositore americano. SFdM STUDIO DI FONOLOGIA DI MILANO RAI Radio Televisione Italiana, C.so Sempione, Milano. Archivio dello studio milanese, contenente tutte le carte e il materiale sonoro. VUC VLADIMIR USSACHEVSKY COLLECTION Music Division, Library of Congress, Washington D.C. Contiene tutte le bobine del compositore catalogate. Bibliografia AA.VV.1964 La paura moderna di Alfred Hitchcock. Dibattito su Gli uccelli, E. Bruno, A. Plebe, A. Aprà, M. Zucconi, P. Anchisi, «Filmcritica», XV/142, febbraio 1964, pp. 67-83. ACC.FIL.1959 Adriana PANNI, dichiarazione, Roma, 6 marzo 1959, riproduzione digitale in ZACCONE 2005a, ora in ZACCONE 2005b, p. 122. 239 Maurizio Corbella Dichiarazione firmata dalla vicepresidente dell’Accademia Filarmonica Romana che attesta l’utilizzo di un locale dell’Ente da parte di Gino Marinuzzi jr. In una nota manoscritta al documento, Gino Marinuzzi scrive «il laboratorio funziona dal 1956». ACHILLI–BOSCHI–CASADIO 1999 Le sonorità del visibile. Immagini, suoni e musica nel cinema di Michelangelo Antonioni, a cura di A. Achilli, A. Boschi, G. Casadio, Ravenna: Longo–Regione Emilia-Romagna, 1999. ADORNO1945 Theodor W. ADORNO, A Social Critique of Radio Music, «Kenyon Review», 7, 1945, pp. 208-217. ADORNO–EISLER 1947 Theodor W. ADORNO – Hanns EISLER, Composing for the Films, Oxford University Press, New York, 1947; trad. it. (consultata), La musica per film, Roma: Newton Compton, 1975. ALUNNO2004 Marco ALUNNO, Vittorio Gelmetti. Sperimentazione e cinema, “La musica nel cinema. Tematiche e metodi di ricerca”, a cura di S. Miceli, «Civiltà musicale», 19, gennaio-agosto 2004. ANTONIONI1961 Michelangelo ANTONIONI, La malattia dei sentimenti, Colloquio al Centro Sperimentale di Cinematografia del 16 marzo 1961, «Bianco e Nero»; XII/2-3, febbraio-marzo 1961, ora in ANTONIONI 1994, pp. 20-46. 1963 ⎯, 1963. Ravenna. Durante le riprese de Il deserto rosso, 1963, in ID. 1999, p. 45. 1994 ⎯, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, a cura di C. Di Carlo e G. Tinazzi, Venezia: Marsilio, 1994; II ed. (consultata), 2001. 1999 ⎯, Comincio a capire, Catania: Il girasole, 1999. ANTONIONI–GUERRA s.d. Michelangelo ANTONIONI – Tonino GUERRA, Il deserto rosso, sceneggiatura, ms., s.d. Copia della sceneggiatura depositata al Centro Sperimentale di Cinematografia. Riscontrabili notevoli differenze con la sceneggiatura pubblicata da Cappelli, cfr. DI CARLO 1964. APRÀ2004 Adriano APRÀ, Lo stato della tecnica: dalla pellicola al film, dal film alla sala, in BERNARDI 2004, pp. 503-504. APRÀ–BURSI2007 La prima stanza. Vittorio Cottafavi, a cura di A. Aprà e G. Bursi, «Bianco e Nero», 559/1, 2007. 240 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta BARRONS 1956 Louis & Bebe Barron, Forbidden Planet, «Film Music», XV/5, Summer 1956. BAUDRILLARD1968 Jean BAUDRILLARD, Le système des objets, Paris: Gallimard, 1968; trad. it. (consultata), Il sistema degli oggetti, Milano: Bompiani, 2004 (1972). BELTON 1992 John BELTON, 1950s Magnetic Sound: The Frozen Revolution, in Sound Theory Sound Practice, a cura di R. Altman, New York-London: Routledge, 1992, pp. 154-167. BERNARDI2004 Storia del cinema italiano, IX (1954-1959), a cura di S. Bernardi, 2004, in Storia del cinema italiano, a cura del Centro Sperimentale di Cinematografia, 13 voll., 8 pubblicati (V, VII-XIII), Venezia-Roma: Marsilio-Bianco e nero, 2001-. BERTINI1980 Tecnica e ideologia, a cura di A. Bertini, Roma: Bulzoni, 1980. BIONDI2005 Massimo BIONDI, Psicoanalisi e parapsicologia, «Luce e Ombra», 95, 1995, pp. 27-36. BLUM2001 Stephen BLUM, Composition, in New Grove Music Online, consultato agosto 2008. BONDANELLA1992 Peter BONDANELLA, The Cinema of Federico Fellini, Princeton: Princeton University Press, 1992; trad. it. (consultata), Il cinema di Federico Fellini, Rimini: Guaraldi, 1994. BORIO2007 Gianmario BORIO, Riflessioni sul rapporto tra struttura e significato nei testi audiovisivi, «Philomusica Online», 6, 2007, <http://philomusica.unipv.it/annate/2007/intro.html>, consultato ottobre 2009. BOSCHI1999 Alberto BOSCHI, «La musica che meglio si adatta alle immagini»: suoni e rumori nel cinema di Antonioni, in ACHILLI–BOSCHI–CASADIO 1999, pp. 85-92. BRANCHI1977 Walter BRANCHI, Tecnologia della musica elettroacustica, Cosenza: Lerici, 1977. BRASS s.d. Tinto BRASS, nota, s.d., in CB. Nota di presentazione del film L’Italia non è un paese povero, allegata alla copia in visione presso CB. CAGE1963 John CAGE, A Few Ideas About Music & Films, «Film Culture», 29, summer 1963; trad. it. di A. Leonardi (consultata), Alcune idee sulla musica e i film, in Gregory MAKROPOULOS – Ken KELMAN – John CAGE, New American Cinema, 169-170, agosto-settembre 1966, pp. 416-418. 241 Maurizio Corbella CALABRETTO1999 Roberto CALABRETTO, Giovanni Fusco: Musicista per il cinema di Antonioni, in ACHILLI–BOSCHI–CASADIO 1999, pp. 45-75. 2005 ⎯, La musica che meglio si adatta alle immagini. Il rumore della vita nell’Eclisse di Michelangelo Antonioni, «AAM-TAC», 2, 2005, pp. 79-120. 2006 ⎯, Disco, cinema e musica da film, in CANAZZA–CASADEI 2006, pp. 641-666. 2007 ⎯, Michelangelo Antonioni e la musica, in MARTINI 2007, pp. 18-41. CAMON2007 Ferdinando CAMON, I sogni di Federico Fellini: cosa c’è sotto le cancellature?, Convegno internazionale sul Libro dei sogni di Federico Fellini, Rimini, 10 novembre 2007, <http://www.ferdinandocamon.it/articolo_2007_11_10 _SognFell.htm>, consultato dicembre 2009. CANAZZA–CASADEI 2006 Ri-mediazione dei documenti sonori, a cura di S. Canazza e M. Casadei Turroni Monti, Udine: Forum, 2006, CARAMEL–MADESANI 2002 Luciano CARAMEL – Angela MADESANI, Luigi Veronesi e Cioni Carpi alla Cineteca Italiana, Milano: Il Castoro, 2002. CARDONE 2005 Lucia CARDONE, Elio Petri. Impolitico. La decima vittima (1965), Pisa: ETS, 2005, (Scritture della visione, 9). CECCATO1968 Silvio CECCATO, Lo spazio visivo della città: urbanistica e cinematografo, «D’Ars», IX, 38-39, 1968, pp. 6-8. 1971 ⎯, Musica e cibernetica, «D’Ars», XII, 56-57, 1971, pp. 97103. 1974 ⎯, La terza cibernetica. Per una mente creativa e responsabile, Milano: Feltrinelli, 1974. CECCATO–ZOTTO1980 Silvio CECCATO – Gastone ZOTTO, La logonica, in Dalla cibernetica all’arte musicale, a cura di G. Zotto, Milano: Zanibon, pp. 4-5. CHADABE1997 Joel CHADABE, Electric Sound: The Past and Promise of Electronic Music, Upper Saddle River (NJ): Prentice Hall, 1997. CHIARI1966 Giuseppe CHIARI, Vittorio Gelmetti, Nous irons à Tahiti, «Collage. Rivista internazionale di nuova musica e arti visive contemporanee», VI/3, settembre 1966, p. 43. 242 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta CHION1990 Michel CHION, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris: Nathan, 1990; trad. it. (consultata), L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino: Lindau. 1991 ⎯, L’Art des sons fixés ou La Musique Concrètement, Fontaine: Metamkine – Nola-Bene – Sono-Concept, 1991; trad. it. (consultata), L’arte dei suoni fissati o la Musica Concretamente, Roma: Edizioni Interculturali, 2004. CHION–REBEL1976 Michel CHION – Guy REBEL, Les musiques électroacoustiques, Aix-en-Provence: INA GRM, Edisud, 1976. CHITI–POPPI1991 Dizionario del cinema italiano. I Film, 6 voll., Roma: Gremese, 1991-2002, II (Dal 1945 al 1959), a cura di R. Chiti e R. Poppi, 1991. COMUZIO1977 Ermanno COMUZIO, Musica e suoni protagonisti nel cinema dei fratelli Taviani, «Bianco e Nero», XXXVIII/5-6, settembre-dicembre 1977, pp. 104-121. 1988 ⎯, Vittorio Gelmetti, avanguardia ma non dentro alle mode, «Cineforum», 28/12, 1988, pp. 11-14. 2004 ⎯, Musicisti per lo schermo. Dizionario ragionato dei compositori cinematografici, 2 voll. (I: A-L; II: M-Z) Roma: Ente dello Spettacolo, 2004. CONWAY–SIEGELMAN 2005 Flo CONWAY – Jim SIEGELMAN, Dark Hero of the Information Age. In Search of Norbert Wiener, the Father of Cybernetics, New York: Basic Books, 2005; trad. it. (consultata), L’eroe oscuro dell’età dell’informazione. Alla ricerca di Norbert Wiener, il padre della cibernetica, Torino: Codice, 2005. CORELLI–FELICI–MARTINELLI 2006 Simone CORELLI – Fabio FELICI – Gilberto MARTINELLI, Elementi di Cinematografia Sonora, Roma: Lambda Edizioni, 2006. CORY1992 COSSU Mark E. CORY, Soundplay: the Polyphonous Tradition of German Radio Art, in KAHN–WHITEHEAD 1992, pp. 331-372. s.d. Duilio COSSU, Gino Marinuzzi jr. fra sogno e realtà, ms., s.d., in FMAR; ora in ZACCONE 2005a. Bozza manoscritta con molte correzioni a penna; nell’intestazione vi è l’indicazione “Controcampo”, probabile la destinazione per l’omonima rivista. COTTAFAVI1964 Vittorio COTTAFAVI, L’estetica brechtiana e la TV, «Televisione», I, marzo-aprile 1964; in Gianni RONDOLINO, Vittorio Cottafavi. Cinema e televisione, Bologna: Cappelli, 1980; ora in APRÀ–BURSI 2007 (consultato), p. 122. 243 Maurizio Corbella D’ARBELA1967 Simona D’ARBELA, Le illuminazioni di Scavolini, «Filmcritica», 176, aprile 1967, pp. 145-146, DE BENEDICTIS 2004 Angela Ida DE BENEDICTIS, Radiodramma e arte radiofonica in Italia, Torino: De Sono-Edt, 2004, (Tesi, 5), p. 62. DE BERTI2004 Raffaele DE BERTI, Internazionalizzazione del cinema italiano e importazione di modelli, in BERNARDI 2004, pp. 329-342. DE MARTINO1948 Ernesto DE MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino: Einaudi, 1948; ed. consultata, Milano: Bollati Boringhieri, 2007. DE MEZZO2006 Giovanni DE MEZZO, L’edizione di Treni d’onda a modulazione d’intensità di Vittorio Gelmetti. Fonti scritte e documenti sonori, in CANAZZA–CASADEI 2006, pp. 535-575. DE LATIL1953 Pierre DE LATIL, La pensée artificielle. Introduction à la cybernétique, Paris: Gallimard, 1953); trad. it. (consultata), Il pensiero artificiale. Introduzione alla cibernetica, Milano: Feltrinelli, 1962. Si tratta dell’edizione conservata presso FGELb. DE SANTIS s.d. Tiziana DE SANTIS, La tana, s.d., <http://www.irtem.it/ITA/archivi/corto/cortometraggi. htm>, consultato gennaio 2010. Scheda del film La tana di Luigi Di Gianni, con dati di produzione e riassunto. DECROUPET 2000 Pascal DECROUPET, Archeologia di una fenice. La musica elettronica/elettroacustica: una categoria storica?, in Nuova musica alla radio. Esperienze allo Studio di Fonologia della Rai di Milano 1954-1959, a cura di V. Rizzardi e A. I. De Benedictis, Roma: Eri-RAI-Cidim, 2000, pp. 2-25. DI CARLO1964 Michelangelo Antonioni. Il deserto rosso, a cura di C. Di Carlo, Bologna: Cappelli, 1964. Contiene la sceneggiatura del film, da confrontare, complessivamente più vicina al film di quanto non sia ANTONIONI–GUERRA 1964. DINE [1968] Jim DINE, lettera a Elio Petri, s.d. [ma 1968], in FPET. Dine apprende da Sandy Lieberson che Un tranquillo posto di campagna è terminato. Spera che i suoi quadri siano stati utili al regista e gli chiede se è ancora intenzionato a comprarne uno. EATON s.d. John EATON, lettera a Otto Luening, Roma, s.d., in OLP. «I’m just finishing a new song for Michiko [Hirayama], two Syn-Kets, staircase generator, and two new “instruments” Ketoff and I cooked up. I hope to perform it in Rome the beginning of March». 244 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta ECO1962 Umberto ECO, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano: Bompiani, 1962. 1964 ⎯, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano: Bompiani, 1964. FARASSINO2004 Alberto FARASSINO, Produttori e autori della produzione, in BERNARDI 2004, pp. 407-430. FELLINI1960 intervistato in «L’Europeo», XVI/8 (n. 749), 21 febbraio 1960, pp. 40-43. 1965 ⎯, G. degli spiriti, ms., s.d. Copia della sceneggiatura conservata al CSC; sul frontespizio appare scritto «Sceneggiatura provvisoria (Ma in fondo non è tutto provvisorio in questo mondo?)». -BBC [1965?] ⎯, intervista televisiva, BBC, [1965?], in Juliet of the Spirits (contenuti extra), dvd, Criterion Collection, 2002. 1989 ⎯, Giulietta, Zürich: Diogenes Verlag, 1989; trad. it. (consultata), Genova: Il melangolo, 1994. FERRERI–BAZZINI 1969 Marco FERRERI – Sergio BAZZINI, Il seme dell’uomo, ms., 1969. Copia della sceneggiatura conservata al CSC; il deposito ministeriale è datato 12 aprile 1969. FONOLUX1957 Nota per trascrizione dell’atto a rogito del Notaio in Roma dr. Marco Panvini Rosati in data 28 novembre 1957..., ms., 1957, in FFON. Atto di rogito della società, depositato presso il Tribunale. Il documento presenta una dettagliata descrizione della struttura societaria e dei capitali, comprese le strutture e l’equipaggiamento tecnico di partenza. 1959 Denuncia di modificazione, ms., 1959, in FFON. Denuncia del subentro di Paolo Ketoff in qualità di consigliere d’amministrazione, in data 30 luglio 1959. 1961 Alla cancelleria del Tribunale di Roma..., ms., 1960, in FFON. Si comunicano le dimissioni di Paolo Ketoff dal consiglio d’amministrazione; la registrazione della comunicazione da parte del Tribunale avviene in data 13 giugno 1961. FUIANO2003 Claudio FUIANO, nota di copertina, in Gino MARINUZZI JR., Terrore nello spazio/Planet of the Vampires, cd, Digitmovies, CDDM007, 2003. GADDI1993 P. GADDI, Il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Intervista a Egisto Macchi (Fiesole, 27 luglio 1990), 1993, in TORTORA 1996, pp. 146-153. 245 Maurizio Corbella GASSMANN s.d. Remi GASSMANN, programma di sala, ms., s.d., in RGP. Programma di sala dattiloscritto per un concerto comprendente Electronics di Remi Gassmann e Five Improvisations on Magnetic Tape di Oskar Sala. 1962 ⎯, Lettera di Remi Gassmann ad Alfred Hitchcock, 18 Aprile 1962, in RGP. Lettera di candidatura di Remi Gassmann per la candidatura alla composizione delle musiche per Gli uccelli. GASSMANN–SALA [1962]Remi GASSMANN – Oskar SALA, Cue Sheet, ms., [1962], in RGP. Cue Sheet degli Uccelli, redatto nello Studio di Oskar Sala a Berlino e consegnato al direttore del montaggio George Tomasini, il cui nome figura nell’intestazione del plico. GELMETTI1964 Vittorio GELMETTI, Aspetti della musica nel film, «Filmcritica», XV/143-144, marzo-aprile 1964, pp. 143-144. 1968 ⎯, Musica-verità?, «Filmcritica», 185, gennaio 1968, pp. 21-28; in BERTINI 1980 (consultato), pp. 111-122. 1973 ⎯, I muti messaggi dell’avanguardia musicale, «Cinema nuovo», XXII/226, novembre-dicembre 1973, pp. 408-413. 1974 ⎯, Una musica per lo Scorpione, in I fratelli Taviani, ovvero, il significato dell’esagerazione, a cura della Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma: Nuovi Quaderni, 1974, (Cinema e utopia), pp. c67-c69. 1975 ⎯, Connotazioni plebee della musica per film, «Cinema nuovo», XXIV/234, marzo-aprile 1975, pp. 90-97. 1984 ⎯, Nostalgia d’Europa, Roma: Le parole gelate, 1984. GIANNATTASIO1998 Francesco GIANNATTASIO, Il concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca musicologica, Roma: Bulzoni, 1998. GODARD1964 Jean-Luc GODARD, Intervista a Michelangelo Antonioni, novembre 1964, ora in MARTINI 2007, pp. 166-179. GORDON 1992 Mel GORDON, Songs From the Museum of the Future: Russian Sound Creation, in KAHN–WHITEHEAD 1992, pp. 197-244. GUACCERO [post-1968] [Domenico GUACCERO], Promemoria per la Fondazione Agnelli, s.d., in ZACCONE 2005b, pp. 129-131. La datazione è deducibile sulla base della data di fondazione dello SR7. 246 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta GUARNIER1980 José Luis GUARNIER, Vittorio Cottafavi. Dossier realizado por el equipo de redaccion de la Filmoteca Nacional, Barcelona: Filmoteca Nacional D’España, 1980. HANSON2007 Helen HANSON, Sound Affects. Post-production Sound, Soundscapes and Sound Design in Hollywood’s Studio Era, «Music, Sound, and the Moving Image», I/1, Spring 2007. HITCHCOCK1962 Alfred HITCHCOCK, Background Sounds for The Birds, 23 ottobre 1962, in RGP e AHP. “Sceneggiatura” in cui il regista prescrive la fisionomia sonora degli Uccelli. La sceneggiatura viene fatta girare tra i membri del Sound department e i compositori; cfr. ROBERTSON 1962b. HUXLEY1954 Aldous HUXLEY, The Doors of Perception, New York: Harper, 1994; trad. it. (consultata), Le porte della percezione – Paradiso e Inferno, Milano: Mondadori, 2009, pp. 7-63. JAMES 1987 Richard S. JAMES, Microcosm of the 1960s Musical and Multimedia Avant-Garde, «American Music», V/4, Winter 1987, pp. 359-390. JOWETT2004 Garth JOWETT, Decline of an Institution, in SCHATZ 2004, I, pp. 127-196. JULLIER 2006 Laurent JULLIER, Le son au cinéma, Paris: Éditions Cahiers du cinéma – Sceren-Cndp, 2006; trad. it. (consultata), Il suono nel cinema. Storia, regole, mestieri, Torino: Lindau, 2007. KAHN 1992 Douglas KAHN, Introduction. Histories of Sound Once Removed, in KAHN–WHITEHEAD 1992, pp. 1-29. 1999 ⎯, Noise, Meat, Water. A History of Sound in the Arts, Cambridge (MA): Mit Press, 1999, pp. 1-29. KAHN–WHITEHEAD 1992 Wireless Imagination. Sound, Radio and the Avant-Garde, a cura di D. Kahn e G. Whitehead, Cambridge (MA), London: Mit Press, 1992. KANDISKIJ1919 Vasilij KANDISKIJ, La composizione scenica, (1919) in Id., Il suono giallo e altre composizioni sceniche, Milano: Abscondita, 2002. KETOFF1967 aPaolo KETOFF, The Synket, «Electronic Music Review», 4, ottobre 1967. 1967bPaolo KETOFF, Synket, generatore elettronico di suoni sintetici, quale elaboratore di effetti e strumento musicale per esecuzioni dirette in orchestra, 12 gennaio 1967; in TORTORA1994, p. 125. 247 Maurizio Corbella Intervento nel corso “XX Incontro con la tecnica”, promosso dall’ATIC (Associazione Tecnica Italiana per la Cinematografia) presso la NIS Film. KEZICH2002 Tullio KEZICH, Federico. Fellini, la vita e i film, Milano: Feltrinelli, 2002. KITTLER 1986 Friederich KITTLER, Grammophon, Film, Typewriter, Berlin: Brinkman & Bose, 1986; trad. inglese (consultata), Gramophone, Film, Typewriter, Stanford: Stanford University Press, 1999. LABARTHE 1960 André S. LABARTHE, Entretien avec Michelangelo Antonioni, «Cahiers du Cinéma», 112, ottobre 1960, pp. 1-10; trad. it. (consultata), All’origine del cinema c'è una scelta, in ANTONIONI 1994, pp. 121-127. LASTRA2000 James LASTRA, Sound Technology and the American Cinema. Perception, Representation, Modernity, New York: Columbia University Press, 2000. LATTUADA 1962 Alberto LATTUADA, intervista televisiva in La fabbrica dei suoni, puntata della rubrica Arti e scienze – Cronache di attualità, Rai, 13 dicembre 1962. 1965 ⎯, ritaglio, «L’espresso», 20 giugno 1965, in FBIN. Ritaglio di giornale contenente un’intervista al regista riguardo La mandragola. LEVIN 2003 Thomas Y. LEVIN, “Tones from out of Nowhere”: Rudolph Pfenninger and the Archeology of Synthetic Sound, «Grey Room», 12, summer 2003, pp. 33-79. LEVIN–VON DER LINN 1994 Thomas Y. LEVIN – Michael VON DER LINN, Elements of a Radio Theory: Adorno and the Princeton Radio Research Project, «The Musical Quarterly», LXXVIII/2, Summer 1994, pp. 316-324. LINCOLN1972 Stoddard LINCOLN, The Rise and Fall or the New York Music Company; A Study in Early Musak, of the Wonderful Telharmonium, ms., 1972, <http://magneticmusic.ws/mmlincolns.PDF>, consultato ottobre 2009. LOBRUTTO1994 Vincent LOBRUTTO, Sound-on-Film. Interviews with Creators of Film Sound, Westport (Conn.)-London: Praeger, 1994. LOCANDINA s.d. LOCANDINA, Roma, Teatro Goldoni, s.d., in OLP. «Teatro Goldoni | Roma | Vicolo de’ Soldati (Piazza Navona) | April 1 – 5,30 p.m. and 9,30 p.m. | John Eaton world famous electronic music virtuoso | Contemporary Music and Free Jazz | “Brilliant” – Time | 248 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta “Dazzling” – Downbeat | “Incredibly virtuoso” – Electronic music | Featuring: | Michiko Hirayama – soprano | Paolo Ketoff – Syn-ket | Giovanni Tomasso [sic.; Tommaso, ndr] – bass | Franco Tonanni – drums | John Eaton – piano, Syn-ket, Syn-kettino, Vibrator [...]» LUCIER1998 Alvin LUCIER, Origins of a Form: Acoustical Exploration, Science and Incessancy, «Leonardo Music Journal», “Ghosts and Monsters”: Technology and Personality in Contemporary Music, 8, 1998, pp. 5-11. 2006 ⎯, Music for Solo Performer, programma di sala, 15 settembre 2006, <http://www.virginia.edu/music/archives/pressrelease/ 06-07/programs/lucier091506.pdf>, consultato dicembre 2009. Programma di sala del concerto “Alvin Lucier & Friends”, Old Cabel Hall, University of Virginia. LUENING1972 Otto LUENING, lettera a John Eaton, New York, 24 marzo 1972, in OLP. «One of my students by the name Violette is a great admirer of yours and the Synket. Will there be any chance that Ketoff will make some of these for use in the U.S. and what do you think they will cost?» MAGNI–STRUCCHI–LATTUADA 1965 Luigi MAGNI – Stefano STRUCCHI – Alberto LATTUADA, “La mandragola” di Niccolò Machiavelli, sceneggiatura, ms. giugno 1965, in FBIN. Copia della sceneggiatura posseduta dal produttore Alfredo Bini per la Arco Film. MARANO2007 Francesco MARANO, Il film etnografico in Italia, Bari: Pagina, 2007. MARBLE 1967 Joan MARBLE, Something New in Serious Noise, «New York Times International Edition», 21-22 gennaio 1967. A.M. MARINUZZI2009 Anna Maria MARINUZZI, “Biografia di Gino Marinuzzi” (titolo provv.), 2009, in Gino Marinuzzi jr., Lecce: Nireo, in preparazione. MARINUZZI 1949 Gino MARINUZZI JR., Aspetti della musica nel film, in La musica nel film, a cura di E. Masetti, Roma: Bianco e nero, 1950 (Quaderni della Mostra Internazionale dʼArte Cinematografica di Venezia), pp. 35-39. [1965a]⎯, La mandragola, partitura autografa, ms., s.d. Partitura autografa completa delle musiche per l’omonimo film. [1965b] La mandragola, Programma musicale SIAE, incompleto. 249 Maurizio Corbella Si tratta di un fac-simile del programma musicale SIAE, non firmato: 37 numeri su 40. [1965c] ⎯, Terrore nello spazio, partitura autografa, ms., s.d. Partitura autografa completa delle musiche per l’omonimo film. [post-1965] ⎯, Curriculum, ms., s.d., in ZACCONE 2005b, pp. 125-126. La datazione è deducibile dal fatto che viene citato La mandragola (1965). MARINUZZI-ROTA [ante-1973] Contract by and between Nikkatsu Corporation, Nino Rota, Gino Marinuzzi jr., s.d. [ma ante-1973], in FMAR. Scrittura, cofirmata da entrambi i compositori, per un film dal titolo provvisorio Sun to Sun, che sarebbe poi diventato Sunrise, Sunset, vedi FILMOGRAFIA. 1975 Accordo fra Gino Marinucci [sic] e Atv Music Limited, 1975, in FMAR. Accordo provvisorio non firmato per la serie televisiva Le origini della mafia, qui indicata con il titolo provvisorio inglese The Roots of Mafia. Nella scrittura si fa esplicito riferimento a Nino Rota come coautore delle musiche. MARTINI 2007 Michelangelo Antonioni, a cura di G. Martini, Bologna: Regione Emilia-Romagna, 2007, (Una Regione piena di Cinema). MCLUHAN 1964 Marshall MCLUHAN, Understanding Media: The Extensions of Man, New York: New American Library, 1964; trad. it. (consultata), Gli strumenti del comunicare, Milano: Il Saggiatore, 2008. MICELI1982 Sergio MICELI, La musica nel film: arte e artigianato, Discanto, Firenze, 1982. 1994 ⎯, Morricone, la musica, il cinema, Modena-Milano: Mucchi-Ricordi, 1994, (Le Sfere, 23). 2000 ⎯, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Firenze: Sansoni, 2000. 2009a⎯, La musica per film. Storia, estetica, analisi, tipologie, LuccaMilano: Lim-Ricordi, 2009, (Le Sfere, 49). 2009b ⎯, L’evoluzione della musica di Ennio Morricone, in Storia del cinema italiano, a cura del Centro Sperimentale di Cinematografia, 13 voll., 8 pubblicati (V, VII-XIII), Venezia-Roma: Marsilio-Bianco e nero, 2001-, XII (1970-1976), a cura di F. De Bernardinis, 2009, pp. 453-459. 250 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta MILLET2007 Thierry MILLET, Bruit et cinéma, Aix-en-Provence: Publications de l’Université de Provence, 2007, (Hors Champ). MOHOLY-NAGY 1922 László MOHOLY-NAGY, Produktion-Reproduktion, «De Stijl, 7, 1922, pp. 97-101; trad. inglese, Production-Reproduction, in Krisztina PASSUTH, Moholy-Nagy, London: Thames and Hudson, 1985, pp. 289-290. MORELLI2001 Giovanni MORELLI, Mackie? Messer? Nino Rota e la quarta persona singolare del soggetto lirico, in Storia del candore. Studi in memoria di Nino Rota nel ventesimo della scomparsa, a cura di G. Morelli, Firenze, Olschki, 2001, pp. 355-429. MORIN 1978 Edgar MORIN, Le cinéma ou l’homme immaginaire. Essai d’anthropologie, Paris: Les Éditions de Minuit, II ed., 1978 (I ed., 1956); trad. inglese (consultata), The Cinema or the Imaginary Man, Minneapolis: University of Minnesota Press, 2005. MUSICA EX MACHINA Musica ex machina, a cura di D. Guaccero e P. Grossi, 1967-1968, in RAI. Programma radiofonico in dieci puntate, all’interno della rubrica “Club d’ascolto”. Di seguito il numero romano indica il numero della puntata. VI 1967Esecuzione dal vivo, 26 luglio 1967. Interventi: Italo Gómez, Ivan Vandor, Allan Bryant, John Phetteplace, John Eaton, Bill [William O.] Smith, Paolo Ketoff. Brani trasmessi: I. Gómez – Giuliana Zaccagnini, Grafico 3; I. Vandor, Project 2; A. Bryant, Pitch Out; J. Phetteplace, Paesaggio naturale; J. Eaton, Song for R.P.B.; W. O. Smith, Make Love, Not War; P. Ketoff – D. Guaccero, Improvvisazione per Synket. VII 1967Musiche di consumo e collages, 12 ottobre 1967. Interventi: intervista di Vittorio Gelmetti a Paolo Portoghesi, intervista di Domenico Guaccero a Romano Scavolini, intervista di Pietro Grossi ad Aldo Clementi. Brani trasmessi: V. Gelmetti, Modulazione per Michelangelo; Josef Anton Riedl, Komposition für elektronische und konkrete Klänge; Peter Schat, De Aleph; Ivo Malec, Reflets; Giuseppe Chiari, Omaggio a René Clair; A. Clementi, Collage 3 (Dies Irae). X 1968 Studi sperimentali italiani a confronto, 14 maggio 1968. Interventi: Angelo Paccagnini, Pietro Grossi, Enore Zaffiri, Teresa Rampazzi, Domenico Guaccero; moderatore: Luciano Alberti. NASCIMBENE 1992 Mario NASCIMBENE, Malgré moi, musicista, Venezia: Edizioni del Leone, 1992. 2002 ⎯, L’impronta del suono. La mia musica per il cinema, Ravenna: Longo, 2002, (Musica, cinema, immagine, teatro, 31). 251 Maurizio Corbella NASCIMBENI1997 Giulio NASCIMBENI, Una macchina fantastica per Ceccato e Buzzati, «Corriere della sera», 28 dicembre 1997; ora in «Working Papers – Methodologia», 91, <http://www.methodologia.it/wp0.htm>, consultato dicembre 2009. NOVATI2009 Lo Studio di Fonologia. Un diario musicale 1954-1983, a cura di M. M. Novati, Milano: Ricordi, 2009. ONDAATJE2002 Michael ONDAATJE, The Conversations. Walter Murch and the Art of Editing Film, New York: Knopf, 2002. PESTALOZZA s.d. Luigi PESTALOZZA, ritaglio, «Rinascita», s.d., in FMAR; ora in ZACCONE 2005b. Ritaglio di un articolo del musicologo milanese, rinvenuto in FMAR da Leonardo Zaccone e pubblicato. Nel ritaglio compare cerchiato, evidentemente dal compositore stesso o da un suo famigliare, il passo relativo a Marinuzzi. Non è stato possibile fino a questo momento rintracciare indicazioni più precise sulla data del pezzo. PETRI s.d.a Elio PETRI, Acquario, s.d. <http://www.urbanskin.org/acquario.html>, consultato gennaio 2010. s.d.b ⎯, Un tranquillo posto di campagna, s.d., <http://www.urbanskin.org/tranquillo.html>, consultato gennaio 2010. s.d.c ⎯, s.t., s.d., in FPET. Appunto dattiloscritto di Petri sull’elemento sonoro nella vita moderna. [ante-1967]⎯, Scaletta “Tranquillo posto”, s.d., in FPET. Sintetico trattamento per una storia imparentata con il futuro film, ma con sensibili differenze. 1968a⎯, lettera a Sandy [Lieberson], 1 ottobre 1968, in FPET. Petri chiede a Lieberson di intercedere con Jim Dine per l’acquisto di un suo quadro che riveste per il cineasta un particolare valore affettivo, e di trattare un prezzo con lui. 1968b⎯, lettera ad Alberto Grimaldi, 4 ottobre 1968, in FPET. Petri chiede al produttore un riscontro riguardo a un soggetto basato sul romanzo Nostra Signora Metredina che gli ha mandato. Comunica che Un tranquillo posto di campagna è giunto alla fine del doppiaggio. 1968c ⎯, lettera a Jim Dine, ms., 23 ottobre 1968, in FPET. Petri rinuncia all’acquisto di un quadro del pittore e lo avvisa che i quadri utilizzati per il film rientreranno in Inghilterra intorno a metà novembre. 252 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta 1968d⎯, lettera a Jim Dine, 28 ottobre 1968, in FPET. Copia dattiloscritta e in lingua inglese di 1968a. PETRI–VINCENZONI s.d.a Elio PETRI – Luciano VINCENZONI, Un tranquillo posto di campagna, s.d. La sceneggiatura, conservata in forma dattiloscritta al CSC, reca titolo Una tranquilla casa di campagna, corretto a penna nel titolo definitivo, e porta indicazione «prima stesura». La data di acquisizione del Ministero è 24 marzo 1969, ma la stesura è sicuramente anteriore, dato che il film esce nelle sale nel 1968. Da notare che, tra gli autori di questa stesura. s.d.b ⎯, Un tranquillo posto di campagna (La paura), s.d., in FPET. È la sceneggiatura più recente tra quelle da me rinvenute. Sul retro della copertina reca la scritta a mano «Vanessa»; è con tutta probabilità una copia destinata a Vanessa Redgrave, che presenta anche stralci di dialogo tradotti in inglese in manoscritto. Il fatto che sia posteriore a tutte le altre copie si deduce dal contenuto più aderente al film, con aggiunte molte sequenze non presenti nelle versioni precedenti. 1967a⎯, Un tranquillo posto di campagna, 1967, in FPET. È la sceneggiatura più antica tra quelle da me rinvenute, fatta eccezione per PETRI [ante-1967]. Presenta moltissime correzioni e annotazioni manoscritte, e si segnala come precedente a s.d.a per una serie di elementi di minore congruità narrativa, rispetto alla realizzazione filmica finale: tra questi c’è il nome di alcuni personaggi, nonché il cognome di Wanda e della contessa, oltre che il cognome di Leonardo (Materia, corretto in Ferri a penna). 1967b ⎯, Un tranquillo posto di campagna, 1967, in FPET. Copia dattiloscritta di 1967a, fa proprie tutte le correzioni di questa. Sul frontespizio c’è scritto a penna, «per Vincenzoni»; con tutta probabilità si tratta dunque della copia sottoposta al co-sceneggiatore. POPPI–PECORARI1992 Dizionario del cinema italiano. I Film, 6 voll., Roma: Gremese, 1991-2002, III (Dal 1960 al 1969), a cura di R. Poppi e M. Pecorari, 1991. 1996 Dizionario del cinema italiano. I Film, 6 voll., Roma: Gremese, 1991-2002, IV (Dal 1970 al 1979), a cura di R. Poppi e M. Pecorari, 1996. PORTOGHESI–MENNA–PLEBE–GELMETTI 1964 Paolo PORTOGHESI – Filiberto MENNA – Armando PLEBE – Vittorio GELMETTI, Scienza ed Arte. La metodologia della ricerca scientifica nelle tecniche artistiche, (antologia del dibattito), «Marcatré», 6-7, maggio-giugno 1964, pp. 16-21. 253 Maurizio Corbella PYE–MYLES1979 Michael PYE – Lynda MYLES, The Movie Brats: How the Film Generation Took Over Hollywood, New York: Holt, Rinehart & Winston, 1979. ROBERTSON 1962 aPeggy ROBERTSON, lettera a Paul Donnelly, 7 agosto 1962, in AHP. Nota di produzione in cui la segretaria di Alfred Hitchcock chiede per conto del regista al responsabile del Sound Department degli Uccelli ragguagli sul modo di produzione di alcuni suoni. 1962b⎯, lettera a George Tomasini, 23 ottobre 1962, in AHP. Nota di produzione in cui Peggy Robertson consegna al direttore del montaggio degli Uccelli copie della sceneggiatura sonora del film, specificando anche gli altri destinatari. «Subject: Background sound notes – “The Birds”. Enclosed please find two copies of Mr. Hitchcock's background sound notes. I have sent six copies to Mr. Watson, Sound Dept., four copies to Paul Donnelly and one copy to Bennie Herman [sic]». RODÀ2009 Antonio RODÀ, Evoluzione dei mezzi tecnici dello Studio di fonologia musicale, in NOVATI 2009, pp. 39-83. ROSENBOOM1971 David ROSENBOOM, Homuncular Homophony, 1971, in ROSENBOOM 1976, pp. 1-26. 1976 Biofeedback and the Arts. Results of Early Experiments, a cura di D. Rosenboom, Vancouver: Aesthetic Research Centre of Canada, 1976. RZEWSKI2007 Frederic RZEWSKI, Nonsequiturs. Writing & Lectures on Improvisation, Composition and Interpretation / Unlogische Folgerungen. Schriften und Vorträge zu Improvisation, Komposition und Interpretation, Köln: Musiktexte, 2007. s.a.1906 s.a., Magic Music from the Telharmonium, «New York Times», 16 dicembre 1906, <http://magneticmusic.ws/mmclip19061216.pdf>, consultato ottobre 2009. SALA2009 a Emilio SALA, «Qualcosa di arcaico e di modernissimo al tempo stesso». Primi appunti sulle musiche di Nino Rota per il FelliniSatyricon, 2009, in Fellini-Satyricon: l’immaginario dell’antico, Atti del convegno (Milano, 2007), Milano: Cisalpino, in corso di stampa. 254 2009b⎯, Riscrittura, mimetismo e familiarità perturbata nelle musiche di Nino Rota per La dolce vita di Fellini, 2009, in Atti del Convegno internazionale “Ascoltare lo schermo”, Università di Roma-Tor Vergata, 10-12 novembre 2008, in preparazione. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta SALVATORI2002 Alessandra SALVATORI, La censura in Italia. Il caso de L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens, tesi di laurea, Università degli Studi Roma Tre, 2002. SCALDAFERRI 1997 Nicola SCALDAFERRI, Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milano e la ricerca musicale negli anni Cinquanta, Lucca, Lim, 1997, (Quaderni di Musica/Realtà, 41). SCAVOLINI1967 Romano SCAVOLINI, La parola e il gesto, «Filmcritica», 176, aprile 1967, pp. 147-153. Conversazione con Alfredo Leonardi. SCHATZ 2004 aHollywood. Critical Concepts in Media and Cultural Studies, a cura di T. Schatz, 4 voll. (I: Historical dimensions: the development of the American Film Industry; II: Formal-aesthetic dimensions: autorship, genre and stardom; III: Social dimensions: technology, regulation and the audience; IV: Cultural dimensions: ideology, identity and cultural industry studies), London-New York: Routledge, 2004. 2004bThomas SCHATZ, The New Hollywood, in SCHATZ 2004a, I, pp. 285-314. SCHERK2004 Warren M. SHERK, Paul Beaver: Analog Synthesist Extraordinaire, in Film Music 2. Hystory, Theory, Practice, a cura di C. Gorbman e W. M. Sherk, Sherman Oaks (CA): Film Music Society, 2004, pp. 113-143. SMITH1962 aWilliam O. SMITH, lettera a Otto Luening, 29 ottobre 1962, in OLP. SONNENSCHEIN2001 David SONNENSCHEIN, Sound Design: The Expressive Power of Music, Voice, And Sound Effects in Cinema, Studio City (CA): Michael Wiese, 2001. TAVIANI1971 Paolo e Vittorio TAVIANI, Intervista a «Filmcritica», 18 novembre 1971, in I fratelli Taviani, ovvero, il significato dell’esagerazione, a cura della Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma: Nuovi Quaderni, 1974, (Cinema e utopia), pp. c49c62. TEITELBAUM1974 Richard TEITELBAUM, In Tune: Some Early Experiments in Biofeedback Music (1966-1974), 1974, in ROSENBOOM 1976, pp. 35-76; <http://inside.bard.edu/teitelbaum/writings/biofeedbac k.pdf>. 2008 ⎯, Composer’s Note, nota di copertina a MUSICA ELETTRONICA VIVA, MEV 40 (1967-2007), cd, 80675-2, New World Records, 2008. 255 Maurizio Corbella TORTORA1990 Daniela TORTORA, Nuova Consonanza: trent’anni di musica contemporanea in Italia, 1959-1988, Lucca: Lim, 1990, (Musicalia, 2). 1994 ⎯, Nuova Consonanza. 1989-1994, Lucca: Lim, 1994, (Musicalia, 2A). 1996 Numero monografico dedicato a Egisto Macchi, a cura di D. Tortora, Palermo: CIMS, 1996, (Archivio Musiche del XX Secolo. Studi e ricerche del Centro di Documentazione della Musica Contemporanea). TRUFFAUT1983 François TRUFFAUT, Le cinéma selon Hitchcock, Paris: Ramsay, 1983; trad. it. (consultata), Il cinema secondo Hitchcock, Milano: NET, 2002. VENTURINI2005 Simone VENTURINI, La tecnologia e lo spazio domestico, in La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta, a cura di L. Gandini, Roma: Carocci, 2005, pp. 81-98. VLAD1953 Roman VLAD, Condizione del Musicista che compone per il cinema, «Il Diapason», IV/3-4, 1953, pp. 15-16. 1968 ⎯, introduzione televisiva alla messa in onda della Fantarca, 1 giugno 1968. Il compositore offre un’ampia sintesi delle caratteristiche principali della sua operetta e delle ragioni della sua composizione. WEIDENAAR 1995 Reynold WEIDENAAR, Magic Music From the Telharmonium, Lanham (MD): Scarecrow Press, 1995. WEISS 1992 Allen S. WEISS, Radio, Death, and the Devil: Artaud’s En finir avec le jugement de dieu, in KAHN–WHITEHEAD 1992, pp. 269-308. WHITTINGTON2007 William WHITTINGTON, Sound Design & Science Fiction, Austin: University of Texas Press, 2007. WIENER 1950 Norbert WIENER, The Human Use of Human Beings, Boston: Houghton Mifflin, 1950; trad. it. (consultata), Introduzione alla cibernetica, Torino: Bollati Boringhieri, 2008, pp. 23-24. WIERZBICKI2005 James WIERZBICKI, Louis and Bebe Barron’s Forbidden Planet. A Film Score Guide, Lanham (MD): Scarecrow Press, 2005, (Film Score Guides, 4). 256 2008 ⎯, Shrieks, Flutters and Vocal Curtains: Electronic Sound/Electronic Music in Hitchcock’s The Birds, «Music and the Moving Image», I/2, 2008. Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta WILSON 1961 George Balch WILSON, lettera a Otto Luening, 9 settembre 1960, Office of the President Files – Michael Rapuano, in AAR. ZACCONE 2005 aLeonardo ZACCONE, L’esperienza elettroacustica di Domenico Guaccero, tesi di laurea, Università di Roma-Tor Vergata, 2005. 2005b ⎯, Gino Marinuzzi jr. e l’elettronica nella Roma del dopoguerra, «Musica/Realtà», XXVI/78, novembre 2005. Filmografia citata1 Wochenende, r. Walter Ruttmann, Germania, 1930 suono Walter Ruttmann Dottor Jekyll (Dr. Jekyll & Mr. Hyde), r. Rouben Mamoulian, USA, 1931 Contropiano (Vstrechnyi), r. Fridrikh Ermler, URSS, 1932 m. Dmitrij Dmitrievič Šostakovič Stärker als Paragraphen, r. Jürgen von Alten, Germania, 1936 Ebbrezza del cielo, r. Giorgio Ferroni, Italia, 1940 m. Amedeo Escobar Le schiave della città (Lady in the Dark), r. Mitchel Leisen, USA, 1945 m. Robert Emmett Dolan Io ti salverò (Spellbound), r. Alfred Hitchcock, USA, 1945 m. Miklós Rósza Giorni perduti (The Lost Weekend), r. Billy Wilder, USA, 1945 m. Miklós Rósza Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still), r. Robert Wise, USA, 1951 m. Bernard Herrmann Roma ore 11, r. Giuseppe De Santis, Italia, 1951 m. Mario Nascimbene 1 In questo elenco non si riportano i titoli già presenti nella filmografia di Gino Marinuzzi jr. 257 Maurizio Corbella Lo sceicco bianco, r. Federico Fellini, Italia, 1952 m. Nino Rota I vitelloni, r. Federico Fellini, Italia, 1953 m. Nino Rota Pane, amore e fantasia, r. Luigi Comencini, Italia, 1953 m. Alessandro Cicognini La guerra dei mondi (The War of the Worlds), r. Byron Haskin, USA, 1953 m. Leith Stevens La strada, r. Federico Fellini, Italia, 1954 m. Nino Rota Assalto alla Terra (Them!), r. Gordon Douglas, USA, 1954 m. Bronislau Kaper Pianeta proibito (Forbidden Planet), r. Fred Wilcox, USA, 1956 m. Louis & Bebe Barron Le notti di Cabiria, r. Federico Fellini, Italia, 1958 m. Nino Rota Gli inesorabili (The Unforgiven), r. John Huston. USA, 1960 m. Dimitri Tiomkin La dolce vita, r. Federico Fellini, Italia, 1960 m. Nino Rota L’avventura, r. Michelangelo Antonioni, Italia-Francia, 1960 m. Giovanni Fusco Barabba (Barabbas), r. Robert Fleischer, Italia-USA, 1961 m. Mario Nascimbene La trincea, r. Vittorio Cottafavi, Italia, 1961 (tv) La notte, r. Michelangelo Antonioni, Italia, 1961 m. Giorgio Gaslini L’eclisse, r. Michelangelo Antonioni, Italia, 1962 m. Giovanni Fusco Operazione Vega, r. Vittorio Cottafavi, Italia, 1962 (tv) 258 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta sonorizzazioni elett. SFdM Le tentazioni del dott. Antonio, r. Federico Fellini, in Boccaccio ’70, Italia, 1962 m. Nino Rota Il processo di Verona, r. Carlo Lizzani, Italia, 1962 m. Mario Nascimbene La jetée, r. Chris Marker, Francia, 1962 m. Trevor Duncan, Jean-Pierre Sudre 8 ½, r. Federico Fellini, Italia, 1963 m. Nino Rota Omicron, r. Ugo Gregoretti, Italia, 1963 m. Piero Umiliani Gli uccelli (The Birds), r. Alfred Hitchcock, 1963 m. Remi Gassmann, Oskar Sala, Bernard Herrmann (consulenza) Il deserto rosso, r. Michelangelo Antonioni, Italia-Francia, 1964 m. Giovanni Fusco, Vittorio Gelmetti Ai poeti non si spara, r. Vittorio Cottafavi. Italia, 1965 (tv) sonorizzazioni elett. SFdM Giulietta degli spiriti, r. Federico Fellini, Italia, 1965 m. Nino Rota Nous irons à Tahiti, r. Christian Mottier – Paolo Brunatto, Svizzera, 1965 m. Vittorio Gelmetti La decima vittima, r. Elio Petri, Italia, 1965 m. Piero Piccioni Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution), r. Jean-Luc Godard, Francia 1965 m. Paul Misraki Un milione di anni fa (One Milion Years B.C.), r. Don Chaffey, Gran Bretagna, 1966 m. Mario Nascimbene La fantarca, r. Vittorio Cottafavi, Italia, 1966 (tv, trasm. 1968) 259 Maurizio Corbella m. Roman Vlad La tana, r. Luigi Di Gianni, Italia, [1967] m. Vittorio Gelmetti Se l’inconscio si ribella, r. Alfredo Leonardi, Italia, 1967 Hermitage, r. Carmelo Bene, Italia, 1967 m. Giuseppe Verdi, Vittorio Gelmetti A mosca cieca, r. Romano Scavolini, Italia, 1967 m. Vittorio Gelmetti La prova generale, r. Romano Scavolini, Italia, 1968 m. Egisto Macchi Un tranquillo posto di campagna, r. Elio Petri, Italia, 1968 m. Ennio Morricone, GINC Toby Dammit, r. Federico Fellini, in Tre passi nel delirio (Histoires extraordinaires), Francia-Italia, 1968 m. Nino Rota 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey), r. Stanley Kubrick, Gran Bretagna-USA, 1968 Il seme dell’uomo, r. Marco Ferreri, Italia, 1969 m. Teo Usuelli, Richard Teitelbaum Gott mit uns - Dio è con noi, r. Giuliano Montaldo, Italia-Croazia, 1969 m. Ennio Morricone Nerosubianco, r. Tinto Brass, Italia, 1969 m. Freedom, elaborazioni sonore Vittorio Gelmetti, sonorizzazioni elettroniche Luciano Lanzillotti Fellini Satyricon, r. Federico Fellini, Italia, 1969 m. Nino Rota, et a. Sotto il segno dello scorpione, r. Paolo e Vittorio Taviani, Italia, 1969 m. Vittorio Gelmetti Il sasso in bocca, r. Giuseppe Ferrara, Italia, 1970 m. Vittorio Gelmetti 260 Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta Zabriskie Point, r. Michelangelo Antonioni, Italia-USA, 1970 m. Pink Floyd, Jerry Garcia, MEV, et a. Sacco e Vanzetti, r. Giuliano Montaldo, Italia-Francia, 1970 m. Ennio Morricone Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, r. Elio Petri, Italia, 1970 m. Ennio Morricone La classe operaia va in paradiso, r. Elio Petri, Italia, 1971 m. Ennio Morricone Giù la testa, r. Sergio Leone, Italia, 1971 m. Ennio Morricone Occhi freddi della paura, r. Enzo G. Castellari, Italia, 1971 m. Ennio Morricone e GINC Il caso Mattei, r. Francesco Rosi, Italia, 1972 m. Piero Piccioni Amarcord, r. Federico Fellini, Italia-Francia, 1973 m. Nino Rota Il delitto Matteotti, r. Florestano Vancini, Italia, 1973 m. Egisto Macchi American Graffiti, r. George Lucas, USA, 1975 Cassandra Crossing (The Cassandra Crossing), r. George P. Cosmatos, Italia, 1976 m. Jerry Goldsmith Il Casanova di Federico Fellini, r. Federico Fellini, Italia, 1976 m. Nino Rota Guerre stellari (Star Wars), r. George Lucas, USA, 1977 m. John Williams, sound design Ben Burtt Alien, r. Ridley Scott, Gran Bretagna, 1979 m. Jerry Goldsmith Apocalypse Now, r. Francis Ford Coppola, USA, 1979 m. Carmine Coppola, Francis Ford Coppola, sound design Walter Murch 261 Maurizio Corbella Coffee and Cigarettes, r. Jim Jarmusch, USA, 2003 262