Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
DIPARTIMENTO DI
STORIA DELLE ARTI, DELLA MUSICA E DELLO SPETTACOLO
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
STORIA E CRITICA DEI BENI ARTISTICI E AMBIENTALI
XXII Ciclo
TESI DI DOTTORATO DI RICERCA:
MUSICA ELETTROACUSTICA E CINEMA
IN ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA
L-ART/07
Maurizio Corbella
TUTOR:
Prof. Cesare Fertonani
COORDINATORE DEL DOTTORATO:
Prof. Gianfranco Fiaccadori
Firma
Anno Accademico 2009/2010
Musica elettroacustica e cinema
in Italia
negli anni Sessanta
Maurizio Corbella
Sommario
Introduzione
Considerazioni metodologiche
13
1
Il sintetizzatore: sperimentazione e cinema
21
Dal Fonosynth al Synket attraverso
i luoghi dell’elettronica romana
2
I. Il laboratorio dell’Accademia Filarmonica,
la Fonolux e il Fonosynth
25
I. Il Synket, ponte tra cinema e live electronics
36
II. La difficile identità dello Studio R7
44
Suono organizzato
49
Risorse elettroacustiche, assetti produttivi
e strategie drammaturgiche al cinema
I. Fonosynth e Synket come estensioni
dell’orchestra
58
II. Tra rigore e gioco. Gino Marinuzzi jr.,
compositore per il cinema e la televisione
64
III. Verso una ridefinizione del suono
cinematografico?
80
IV. Vittorio Gelmetti e la musica-verità
95
Maurizio Corbella
3
Alla ricerca di un immaginario
105
Funzioni culturali del suono elettroacustico
nel cinema narrativo
I. Sintesi sonora e fonografia nell’immaginario:
estensione e spettro
113
II. Genesi dell’immaginario: vibrazione, inscrizione,
emulazione, trasmissione
118
III. L’immaginario negli anni Sessanta: dal suono
del futuro al suono del presente
4
«Lo sfondo ai sentimenti di domani»
126
133
Percorsi tematici e proposte critiche sull’immaginario
elettroacustico nel cinema italiano
I. Funzioni narrative del suono elettroacustico:
automatismo
137
II. Cibernetica, musica e cinema: aspetti di una
“triangolazione” affascinante
148
III. Teitelbaum, Ferreri e il biofeedback:
il suono dell’uomo e Il Seme dell’uomo
151
IV. Il deserto elettronico di Antonioni.
La musica elettronica e lo sguardo sperimentale 158
6
V. Un tranquillo posto di campagna di Petri.
Cortocircuito tra pop e avanguardia
168
VI. La sostanza di cui sono fatti i sogni.
Primi appunti per una drammaturgia
del suono felliniano
188
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Appendice I
Conversazione con Federico Savina
215
Appendice II
Paolo Ketoff presenta il Synket
225
Appendice III
Filmografia di Gino Marinuzzi jr.
229
Riferimenti bibliografici
237
•Fondi e archivi di riferimento
237
• Bibliografia
239
• Filmografia citata
257
7
a Michela e ai miei genitori
Ringraziamenti
Ringraziare le persone che hanno reso possibile la mia ricerca non è solo un
atto di dovuta cortesia, ma un riconoscimento agli stimoli umani che mi
hanno arricchito al di là del merito contingente di questo lavoro.
Sincera gratitudine va a coloro che hanno messo il loro tempo a mia
disposizione, ripercorrendo vicende personali proprie o dei propri cari, mettendomi nelle condizioni di visionare documenti, scambiare considerazioni,
formarmi un’idea articolata riguardo al periodo storico in esame, oltre a impreziosire il mio racconto con aneddoti e retroscena: Walter Branchi, John
Eaton, Andrea e Fulvia Ketoff, Liana Santarone Marinuzzi, Güngör Mimaroglu, Ennio Morricone, Caterina Nascimbene, Federico Savina, Romano
Scavolini, Pril Smiley, Roman Vlad. Tra essi, sono particolarmente grato ad
Anna Maria Marinuzzi, sempre prodiga di disponibilità e ospitalità.
Tra gli studiosi e gli operatori che hanno saputo indirizzare il mio lavoro, fornendo indispensabili indicazioni metodologiche e documentarie o
confrontandosi con me sul lavoro in corso d’opera, ringrazio: Sergio Bassetti, Stephen Blum, Gianmario Borio e il gruppo di studio WorldsofAudioVision, Alessandra Ciucci, Ermanno Comuzio, Marco Esposito (Camera di
Commercio di Roma), Ann Horton-Line (Yale Film Study Center), Harald
Kisiedu, Andrew Lampert (Anthology Film Archives), Francesco Libetta,
Sergio Miceli, Maria Maddalena Novati (Studio di Fonologia di Milano),
Terence Pender (Columbia Computer Music Center), Stefano Poggelli (Rai
Teche), Veniero Rizzardi, Warren M. Sherk (Academy of Motion Pictures,
Arts, and Sciences), Daniela Tortora, Jed Winokur e Richard Trythall (American Academy in Rome), Leonardo Zaccone. Un pensiero a parte va a Antonio Ferrara, Paul B. Price e Roberta Vespa, generosi ospiti delle mie “peregrinazioni”.
Infine, vorrei esprimere la mia profonda riconoscenza, piena di stima e
amicizia, a Davide Daolmi, Cesare Fertonani, Emilio Sala e Nicola Scaldaferri, che hanno svolto un ruolo fondamentale di confronto critico e di sostegno alla mia attività.
Introduzione
Considerazioni metodologiche
La cellula biolettrica agisce magneticamente sul fondo culturale comune...
Entrano in gioco anche i complessi freudiani, in certa misura... Si crea una
catena di cariche elettromagnetiche... la cellula biolettrica mia con la tua, con
la sua... Niente acqua, per carità di Dio... vino... Cara signora, sono esperienze assolutamente sconsigliabili, agiscono negativamente sul sistema
nervoso...1
A pronunciare questo passaggio di dialogo, estrapolato da una sceneggiatura
preparatoria di Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, è il personaggio di Don
Raffaele, medico e amico di famiglia di Giulietta, che viene consultato dalla
donna in merito ad alcune visioni paranormali che l’avevano turbata la sera
precedente, nel corso di una seduta spiritica organizzata tra amici. Il contesto in cui avviene questo dialogo è quello di una chiacchierata leggera, mentre i personaggi, attorniati da una piacevole compagnia, si rilassano sulla
spiaggia di Fregene appena fuori dalla casa di Giulietta. La battuta di Don
Raffaele ha la funzione di minimizzare il racconto della donna, facendo
sfoggio di un repertorio di nozioni che oscillano tra la medicina, la sapienza
da osteria e un’infarinatura di parapsicologia. Fellini è sicuramente animato
da intenzione ironica, il personaggio del dottore è caricaturale, eco probabi1 FELLINI
[1965], p. 39.
Maurizio Corbella
le di qualche trascorso biografico del regista, chissà se verificatosi durante le
sedute spiritiche alle quali pare prendesse parte nel periodo del concepimento del film. 2
Dal momento in cui sono entrato in contatto con tale passaggio dialogico, che non sopravvive nella versione del film uscita nelle sale, ho avuto la
sensazione di intuire la direzione verso cui indirizzare la mia ricerca, sebbene non mi fosse ancora del tutto chiaro razionalmente in che modo farlo. La
mia ricerca era infatti partita, come spesso accade in casi simili, da una constatazione tra l’empirico e l’istintivo: il fenomeno della presenza di sonorità e
musiche elettroacustiche nel cinema italiano degli anni Sessanta riveste un
interesse che va al di là del mero adeguamento a una moda lanciata oltreoceano da film come Pianeta proibito (1956).3 Soprattutto, mi pareva interessante che le procedure elettroacustiche (sintesi e processo sonori, manipolazione del supporto magnetico), introdotte in Italia da pochissimi anni in
campo musicale (la fondazione dello Studio di Fonologia di Milano è del
1955), fossero state assorbite dal cinema italiano praticamente da subito, secondo modalità che non sono del tutto sovrapponibili al repertorio di convenzioni del cinema d’oltreoceano. Sequenze poco note come i titoli di testa
dell’Antigone televisiva di Vittorio Cottafavi (1958), “il sogno di Nane” in
L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens (1960), altre più celebri come l’incipit
della Notte e del Deserto rosso di Michelangelo Antonioni (1961-1964), le stesse
visioni di Giulietta nel film citato sopra (1965), sono manifestazioni di stilemi
che non si prestano a essere ricondotte serenamente a stereotipi o cliché, dato che, perché un cliché esista, è necessario almeno che abbia avuto il tempo
di sedimentarsi nell’uso.
Orbene, la sequenza immediatamente successiva allo scambio di battute tra Giulietta e don Raffaele, vede Giulietta assopirsi sulla sdraio e cominciare a sognare; nel sogno trascina a sé, tramite una gomena, uno zatterone che giunge dal mare, carico di guerrieri dalle fattezze orientali e di figure umane grottesche seminude che “invadono” il suo mondo, finché il rumore di un aeroplano non la sveglia riportandola alla “realtà”, proprio quella
realtà sui cui contorni, da quel momento in poi, lo spettatore non avrà più
certezze per tutto il corso del film. La caratterizzazione sonora dalla sequenza è dominata da una sorta di risonanza continua, realizzata mediante l’impiego di una semplice onda sinusoidale prodotta con un elementare procedimento di sintesi. Tale oggetto sonoro rappresenta l’affascinante anello di
KEZICH 2002, pp. 249-251.
Quando possibile citerò i film stranieri con il titolo della loro edizione italiana, rimandando alla Filmografia citata in coda a questo scritto per maggiori informazioni,
compreso il titolo originale.
2
3
14
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
congiunzione con il riferimento, nella battuta espunta di Don Raffaele, alla
«cellula biolettrica [che] agisce magneticamente sul fondo culturale comune». L’oggetto sonoro elettronico diventa in Fellini la manifestazione fenomenica dell’energia medianica della protagonista, e insieme esprime, più
indefinitamente e forse per questo più efficacemente rispetto alle battute di
un dialogo, le connotazioni implicate dall’idea di elettromagnetismo nell’universo espressivo del regista: qualcosa di portentoso, magico, inquietante,
posticcio e miserabile al tempo stesso, al punto da assumere le sembianze di
un trucchetto di prestidigitazione, un miracolo di bassa fattura non privo
tuttavia di potere seduttivo. Fellini, servendosi di un mezzo sonoro peculiare
rispetto alle sue abitudini espressive, ne rende evidente il lato kitsch, perseguendo in questo modo un suo originale disegno drammaturgico. Ma su
queste considerazioni ci sarà tempo e modo di tornare più nel dettaglio (cfr.
CAPITOLO 4.VI).
La “epifania” felliniana procuratami dalla conoscenza di quello stralcio di dialogo inedito, ha avuto il merito di rendere chiaro a me stesso che la
comprensione dell’oggetto di studio della mia ricerca – il ruolo delle risorse
sonore elettroacustiche nel cinema italiano degli anni Sessanta – avrebbe
dovuto svolgersi su un doppio binario: la rivisitazione storica delle vicende
relative alle sperimentazioni musicali elettroacustiche della Roma di quel
periodo, sulla base dell’acquisizione di nuovi materiali e di testimonianze
inedite, e lo studio della cristallizzazione culturale a cui tali esperienze sono
state soggette nella società contemporanea, in particolare tramite la mediazione cinematografica. Ciò ha dato vita a un lavoro che ha cercato di mantenere salda tale doppia anima strutturale, avvertita come necessaria.
Il CAPITOLO 1, dedicato alla ricostruzione storica, ruota attorno alla
difficoltà di individuare, relativamente all’esperienza elettroacustica romana,
un confine netto tra aree d’azione rispettivamente dell’avanguardia e della
committenza messa in atto dal cinema nei confronti del mondo musicale.
Arrivo addirittura a ipotizzare che la radice di procedure di azione sul suono
sia sostanzialmente in comune tra i due ambiti disciplinari, per seguire solo
in un secondo momento linee di sviluppo autonome. Tale ipotesi non vale
tanto a livello di considerazione teorica generale, sulla base di un principio
di contiguità dei media musicale e cinematografico «nell’epoca della loro
riproducibilità tecnica», ma piuttosto rappresenta una caratteristica peculiare dell’area romana. Il fulcro di tale comunanza genetica si manifesta in un
aspetto tecnologico che condiziona nella sostanza l’avvento e lo sviluppo della stagione elettroacustica. Il patrimonio elettronico romano ruota in buona
parte intorno a due equipaggiamenti adibiti alla generazione e la manipolazione del suono che trovano i natali proprio a Roma: il Fonosynth prima e il
15
Maurizio Corbella
Synket qualche anno dopo. In un periodo in cui possedere un sintetizzatore
significa avere la possibilità (e, a tratti, l’esclusiva) di fare musica elettronica,
la presenza del Fonosynth e dei Synket (quest’ultimo sarà costruito in più
esemplari) rende la città un polo musicale dotato di una propria cifra distintiva rispetto ad altri centri della musica elettroacustica del dopoguerra. La
principale differenza strutturale rispetto ad altre aree, come Milano, Colonia
o Parigi (ma anche New York), dove l’intervento di istituzioni (RAI, WDR,
RTF, Columbia University) imprime una continuità più o meno determinante alla ricerca sperimentale, consiste nel fatto che quello romano sia un
microcosmo musicale composito e frammentario, tutto da sondare, costituito
da aggregazioni temporanee di varie personalità intorno a luoghi o, meglio,
equipaggiamenti, che forniscono determinate e limitate possibilità di azione.
Una materia sfuggente nella quale, a maggior ragione, è necessario rintracciare punti di riferimento. Tra le scelte possibili, la strategia di seguire le migrazioni del Fonosynth e del Synket, macchine soggette a una continua dislocazione, che cambiano più volte luogo ospitante prestandosi a molteplici
funzionalità, si è rivelata la metodologia più fertile per ricostruire le tappe
della vicenda elettroacustica romana, sebbene molti buchi permangano nella
cronologia da me messa a punto con l’ausilio di testimoni, documenti, e bibliografia.
È su questo piano che la saldatura con il mondo cinematografico si fa
determinante, allorché si constata che le esigenze che diedero vita alla progettazione delle due apparecchiature furono fortemente debitrici nei confronti dell’attività cinematografica dei loro due principali artefici: il compositore Gino Marinuzzi jr. e l’ingegner Paolo Ketoff, due figure stranamente
trascurate dalle cronache, tanto più che qualsiasi protagonista di quella stagione riconosce ancor oggi il loro fondamentale apporto. La difficoltà da me
incontrata nel ricostruire le loro vicende personali non è tuttavia inspiegabile, risiede anzi nel loro situarsi costantemente in bilico tra due ambiti disciplinari, fatto che ha largamente influito sulla loro valutazione storica. Essendosi basata quest’ultima, comprensibilmente, su schematizzazioni e categorie funzionali a una storia del pensiero musicale “colto” o, per contro, della
musica per film, essa ha conseguentemente marginalizzato un compositore
come Marinuzzi, che non si distingue particolarmente per l’apporto compositivo “sperimentale” in senso stretto, e in fondo nemmeno per quello cinematografico, presentando un catalogo numericamente più limitato di quello
di altri contemporanei; analogamente, è ancora più immediato intendersi
riguardo al parziale oblio che circonda la figura di un tecnico come Ketoff:
se, per un panorama strutturato come quello milanese dello Studio di Fonologia, solo in anni recenti è stata riconosciuta la strategica importanza di
16
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Marino Zuccheri, tecnico di riferimento dello Studio, perché stupirsi che
Ketoff, vera presenza ubiqua delle manifestazioni musicali e cinematografiche romane (e, in una certa misura, internazionali), sia quasi scomparso?
Non è forse un caso che approcci storico-critici tradizionalmente più sensibili al lato tecnologico delle arti, come quelli di area anglosassone, citino Ketoff più di quanto non venga fatto in ambito italiano.
La focalizzazione su queste due personalità consente perciò di far luce
su un’angolazione dell’attività musicale romana precedentemente rimasta in
ombra, fatto che finisce trasformarsi in compendio a una più completa
comprensione del conflittuale rapporto tra compositori e cinema, più volte
analizzato negli studi musicologici dal punto di vista del dibattito culturale.
A ciò si aggiunge il fatto che l’analisi delle funzioni dei sintetizzatori nelle
pratiche di sonorizzazione cinematografica, lascia emergere un aspetto profondo di tale dibattito, che investe questioni generali della riflessione musicale in quel periodo storico (in particolare le dinamiche di organizzazione del
suono, il concetto di rumore, il rapporto suono/sorgente, il concetto di spazio sonoro) e le mette in “collisione” con un parallelo processo di ripensamento del suono filmico, portato avanti tanto dalle “new waves” cinematografiche, quanto dal sistema produttivo hollywoodiano. Il CAPITOLO 2 tratta
a fondo tale questione sul filo di esempi che offrono sfaccettature problematiche di tale convergenza: su tutte spicca l’esperienza di Vittorio Gelmetti, il
compositore che in Italia ha creduto forse maggiormente nella possibilità di
mettere la propria visione al servizio del rinnovamento linguistico cinematografico.
Una volta illustrata la problematica sovrapposizione di piani culturali
nell’ambito della materia fatta oggetto della mia indagine, il CAPITOLO 3
pone finalmente la questione del travaso degli stilemi elettroacustici da un
medium all’altro. Per far ciò è necessario misurarsi con la nozione di cliché
che accompagna il giudizio sull’impiego di sonorità sintetiche e di procedure
elettroacustiche nel cinema, in special modo quello narrativo, fin dalle origini del sonoro (con il suono ottico e i primi strumenti elettronici), e che è fatta
propria con particolare fervore dai compositori dell’avanguardia romana. La
matrice ideologica di tale nozione è messa da parte in nome di una riconsiderazione della sedimentazione del suono elettroacustico4 nell’immaginario
culturale “medio”. Rifacendomi alla discussione dei “livelli” di cultura operata da Umberto Eco nel suo saggio Cultura di massa e “livelli” di cultura,5 individuo nell’avanguardia musicale il livello “alto” e nella produzione cinemaCon questa espressione sintetica mi riferirò genericamente alle procedure di sintesi,
ripresa e manipolazione del suono tramite appendici tecnologiche.
5 ECO 1964, pp. 29-64.
4
17
Maurizio Corbella
tografica a cui faccio riferimento (perlopiù quella poggiante sulla media e
grande distribuzione), il livello “medio”. Si tratta pertanto di osservare la
«trasposizione a livello di consumo di stilemi ormai acquisiti dalla sensibilità
e dalla cultura corrente, e tuttavia motivati dalle esigenze di un certo discorso» dotato di interesse estetico,6 senza per questo stabilire una pregiudiziale
di valore o una gerarchia di priorità storico-critica tra i differenti “livelli”,
tanto più che, come già appurato nell’analisi storica, essi risultano fortemente mescolati e interdipendenti. I meccanismi connotativi messi in moto da
associazioni di particolari conformazioni sonore con immagini o situazioni
narrative, vengono da me presi in considerazione come fatti culturali, e non
come degenerazioni, soprattutto alla luce del fatto che non è sufficiente motivarli come meri adeguamenti a convenzioni d’uso o a norme sovra-imposte
da assetti sociopolitici, ma al contrario si debba rintracciarne le ragioni
d’esistenza nei processi di assimilazione culturale del suono fonografico. A
partire da questi presupposti è venuta precisandosi gradualmente nel tempo,
nel corso del mio lavoro, un’opzione di carattere epistemologico: considerare
la pratica elettroacustica come indipendente dalla sua appartenenza a un
ambito disciplinare specifico. Con “pratica elettroacustica” definisco l’insieme delle procedure di azione sul suono (ripresa, generazione, manipolazione, mixaggio, spazializzazione) a fini estetici, intendendo quest’ultimo termine in un’accezione ampia. Prendendo tale definizione come punto di partenza, avranno uguale interesse per me, almeno in senso generale, le dinamiche di sonorizzazione cinematografica come le pratiche musicali sperimentali. Se queste ultime sono conseguenza e origine di poetiche compositive, le prime sono determinate da tendenze operative ad ampio raggio storico, ed esse stesse fondano e orientano un gusto. Non c’è dunque da parte
mia un’attitudine gerarchizzante, ma un punto di partenza pragmatico: laddove, da un certo momento in avanti, determinati procedimenti sonori fatti
propri dal cinema condividono caratteristiche, e sovente gli stessi agenti, con
la sperimentazione musicale coeva, sarà opportuno indagarli considerandoli
strumenti di progetti espressivi in un contesto creativo dotato di proprie regole.
Alla luce di tale constatazione è possibile inquadrare l’azione di tali
dinamiche sulla società italiana degli anni Sessanta. Da un punto di vista
narratologico, il mezzo elettroacustico è risultato funzionare genericamente
come elemento di dinamismo, in particolare agendo nell’ambito di transizioni tra opposti poli situazionali, configurando momenti di instabilità narraIl riferimento è alla parte finale del celebre saggio, in cui Eco utilizza l’esempio di
Comma 22 di Heller per illustrare un caso di fruttuoso trasferimento di stilemi da un
ambito di cultura d’avanguardia a uno di fruizione più esteso; ivi, p. 62.
6
18
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
tiva (per esempio, nel sogno di Giulietta citato in apertura, il suono elettronico è chiaramente portatore di una tensione che coincide con lo stato onirico
di “evasione” dalla realtà da parte della protagonista). Sotto il profilo semantico, esso si pone invece in relazione feconda con una categoria particolarmente rappresentativa del sistema socio-culturale degli anni Sessanta: l’automatismo. Discusso ampiamente da Jean Baudrillard,7 l’automatismo mi
pare assumere nel cinema tre principali “declinazioni narrative” (fantascientifica, domestica, biologica), mentre nella società presenta vari piani di sviluppo, a livello scientifico, estetico, economico. Sulla base di tali assunti il
CAPITOLO 4 formula alcune proposte di percorsi critici, isolando quattro
esperienze autoriali che rappresentano altrettante vie di sviluppo di una
triangolazione instauratasi tra ricerca scientifica (in particolare in campo cibernetico), sperimentazione musicale e rappresentazione cinematografica.
Sintetizzando, la chiave di lettura secondo cui interpretare l’impiego degli
stilemi elettroacustici da parte del cinema italiano di quel periodo, risiede nel
tentativo di compiere affermazioni sul mondo, rimettendo in circolo le connotazioni di cui il suono elettroacustico è portatore fin dalle origini in un
contesto socio-culturale in cui la sua attualità è diventata particolarmente
pregnante.
Una ricerca sulle dinamiche di interazione tra il campo d’azione della
musica elettroacustica e quello del cinema dovrebbe avere il merito di gettare nuova luce su un momento di fondamentale interesse storico per il cambiamento della concezione e del ruolo del suono nella società degli anni Sessanta. L’opportunità di guardare a opere significative della cultura contemporanea, quali la cinematografia di Antonioni o Fellini, o a luoghi particolarmente emblematici dell’incontro tra ricerca scientifica, avanguardia e
film, dalla prospettiva dell’impiego di procedure elettroacustiche, apre nuove
vie interpretative o, nella peggiore delle ipotesi, conferma e completa anche
sotto un profilo musicologico le interpretazioni filmiche, ampliando la possibilità di analisi sul testo audiovisivo, mediante l’introduzione di strumenti
atti a comprendere gli aspetti sonori complessivi (e non solo musicali) di una
pellicola. L’auspicio è che si realizzi, sulla base della materia studiata, l’apertura a una drammaturgia del suono che non rinunci agli strumenti della
drammaturgia musicale.
7 1968,
pp. 141-171.
19
1
Il sintetizzatore: sperimentazione e cinema
Dal Fonosynth al Synket attraverso i luoghi dell’elettronica romana
Conoscere le caratteristiche dei luoghi in cui si svolge la produzione artistica
e musicale di una data fase storica è un aspetto fondamentale per la sua
comprensione. Non è solo una generica questione di “contesto”; il luogo,
oltre a essere campo d’azione di forze antropologiche e sociali, può talvolta
determinare in profondità la natura di alcune pratiche musicali, diventandone la condizione di esistenza. Per le musiche elettroacustiche ciò è ancora
più valido che in altri casi, poiché esse dipendono precipuamente dalla componente tecnologica che, nell’epoca della loro prima diffusione a livello planetario (a partire dalla fine degli anni Quaranta), è stata appannaggio di alcuni luoghi specifici. Essi diventarono identificativi delle attività che avvenivano al loro interno, per il semplice fatto di essere sinonimo, ancor prima
che di una linea di ricerca condivisa da più compositori (occorrenza anzi
abbastanza rara), delle risorse tecnologiche che ivi si situavano e delle possibilità creative correlate. Se consideriamo le tre sedi principali della ricerca
elettroacustica europea del dopoguerra, il Group de Recherches Musicales
(GRM) di Parigi,1 la Westdeutscher Rundfunk (WDR) di Colonia, lo Studio
1 In questo come in altri casi la denominazione di un gruppo si sovrappone all’identificazione di un luogo, slittamento semantico che si può rintracciare nell’evoluzione
dei nominativi del gruppo francese: da Studio d’Essai, fondato nel 1942 da Pierre
Schaeffer e J. Copeau presso la Radiodiffusion-Télévision Française (RTF), diventa
nel 1946 Club d’Essai, quindi nel 1951 Group de Recherche de Musique Concrète
(GRMC) e infine GRM nel 1958. Cfr. SCALDAFERRI 1997. pp. 35n-36n.
Maurizio Corbella
di Fonologia della RAI di Milano (SFdM), è evidente la stretta connessione
tra l’ambiente radiofonico e lo sviluppo delle musiche elettroniche e concrete. Nelle sedi radiofoniche si trova un equipaggiamento tecnologico che stimola l’approfondimento sperimentale, ed è altresì frequente per i compositori avere a che fare con apparati organizzativi (gli organi di dirigenza delle
società di comunicazione) che hanno interesse in direzione dello sviluppo
tecnico e della legittimazione culturale: la radio è d’altra parte, dagli anni
Venti fino all’avvento del medium televisivo, il più potente mezzo di comunicazione e di propaganda di massa, su cui può valere la pena investire economicamente. Non a caso, proprio in seno alla radiofonia, si è andata originando una tradizione di riflessioni teoriche e filosofiche, nonché di sperimentazioni artistiche e musicali, che a metà secolo può contare ormai su tre
decenni di storia:2
Il forte coinvolgimento delle radio non è un caso poiché fin dagli inizi della
radiofonia, negli anni Venti, si erano sviluppate discussioni sul problema di
una musica “radiogenica”, che comportasse orchestrazioni adatte alla trasmissione sulle onde [...] e che d’altra parte postulasse lo sviluppo di una
forma artistica specificamente radiofonica: vale a dire la rappresentazione
radiofonica o drammaturgica che associasse a un testo (ponendolo in rilievo
per mezzo della differenziazione dei piani acustici) elementi sonori d’illustrazione o di interpretazione psicologica.3
È appunto nel secondo dopoguerra che si avvia «una seconda fase dell’esperienza radiofonica, affrancata da tematiche o problematiche a essa estranee
e proiettata gradualmente verso un’espressione idiomatica autonoma».4
L’esperienza milanese si caratterizza, rispetto agli altri studi europei, per un
aspetto di «forte singolarità»: «se a Parigi e a Colonia il contributo determinate per la fondazione degli studi era venuto da personaggi provenienti dall’esperienza radiofonica o tecnologica, a Milano i pionieri della ricerca musicale elettronica saranno due musicisti, Berio e Maderna, con l’aiuto di musicologi e critici come Rognoni, Leydi e Santi»,5 ai quali si aggiunge la convergenza di competenze tecniche (Alfredo Lietti) e dirigenziali (Guido
Dal punto di vista teorico ricordo la partecipazione di Adorno al Princeton Radio
Research Project (cfr. LEVIN–VON DER LINN 1994) e il suo primo contributo sul mezzo radiofonico (ADORNO 1945). Tra le realizzazioni artistiche legate al mondo radiofonico cito, solo a titolo di esempio, l’esperienza di Orson Welles con The War of the
Worlds (1938), quella di Antonin Artaud (cfr. WEISS 1992), oltreché la fiorente tradizione di arte radiofonica tedesca (cfr. CORY 1992).
3 DECROUPET 2000, p. 3.
4 DE BENEDICTIS 2004, p. 30.
5 SCALDAFERRI 1997, p. 59.
2
22
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Razzi). 6 Una delle indirette conseguenze della costituzione dello SFdM è che
in Italia mancheranno altre istituzioni disponibili a un investimento tecnologico paragonabile a quello milanese della RAI. A Roma, così come in altri
centri italiani (Firenze, Torino, Padova), le vicende elettroacustiche sono affidate all’iniziativa di individualità che, attraverso risorse proprie o la messa
in comune di energie, fronteggiano difficoltà spesso legate a luoghi tendenzialmente poveri di risorse tecnologiche. A questa satellizzazione non corrisponde tuttavia un vuoto, semmai una grande vitalità di iniziative che, in
continua dialettica con la mancanza di appoggi economici, ha scavato il letto nel quale si sono incanalati filoni di ricerche dotati di propri caratteri distintivi rispetto alle contemporanee vicende milanesi:
Se altrove in Europa – e così anche a Milano – gli studi di musica elettronica
sono stati in gran parte impiantati nelle sedi radiofoniche, garantendosi in tal
modo la possibilità di utilizzare apparecchiature sofisticate e costose, a Roma,
per quanto si imponga la necessità pratica di appoggiarsi a qualche istituzione già esistente, l’attività in campo elettronico procede essenzialmente sganciata dal supporto radiofonico. In un certo senso sarà proprio tale mancato
appoggio, non soltanto a livello di strutture di elaborazione, ma anche di effettiva possibilità di diffusione delle opere prodotte, a forzare la ricerca di altri
canali di circolazione, inducendo qui l’organizzazione dei primi concerti per
l’ascolto delle musiche elettroniche.7
Le attività associative come Nuova Consonanza, le iniziative concertistiche
promosse dall’Accademia Filarmonica, dalla Società Italiana di Musica
Contemporanea (SIMC), il gruppo di compositori residenti dell’Accademia
Americana, e più in generale il fermento culturale della Roma degli anni
Sessanta, ne fanno un polo estremamente importante nella rete dei centri
musicali europei e occidentali, in cui si «avvia una complessa riflessione sul
rapporto tra [le opere elettroacustiche] e il pubblico (mancanza dell’interprete, abolizione dell’evento-spettacolo dell’esecuzione)»:8 l’importanza della
performance dal vivo, il problema della fruibilità pubblica della musica
d’avanguardia (e, più in particolare, della musica elettroacustica) sono alcuni
dei temi che appartengono alla specificità della musica elettroacustica romana, complice la condizione di estrema mobilità in cui versa; le istituzioni che
danno un sostegno minimo all’attività di sperimentazione, a cominciare
proprio dall’Accademia Filarmonica, dall’Istituto Superiore delle Poste e
6 DE BENEDICTIS
7 TORTORA
8
2004, p. 191.
1990, pp. 23-24.
Ibid.
23
Maurizio Corbella
delle Telecomunicazioni o dal piccolo studio dell’Accademia Americana,9
non riescono a proporsi come luoghi stabili di ricerca, e tanto meno di affermazione di poetiche condivise, lontanamente paragonabili allo SFdM.
Bisognerà aspettare il 1968, con la formazione dello Studio R7 (SR7) per
avere a Roma una struttura adibita espressamente alla sperimentazione,
poggiante sul solo sostegno economico e logistico dei sette membri fondatori, e ciononostante attiva per pochi anni (fino al 1972-73).
Nell’ambito di un contesto così mutevole eppur vitale, mi pare che fino
a oggi sia stata messa poco in evidenza la rilevanza che gli ambienti cinematografici hanno sull’avanguardia romana, sia in qualità di luoghi in cui si
concentrano risorse economiche e tecnologiche per i compositori, sia come
fonte di idee per successivi sviluppi sperimentali. L’indagine su due pionieri
dell’elettronica a Roma, il compositore Gino Marinuzzi jr. e il tecnico Paolo
Ketoff, ha chiarito il ruolo che tanto i luoghi quanto le esigenze della musica
e del suono per il cinema hanno avuto nello scandire i primissimi passi della
sperimentazione, con la conseguenza di orientarne in misura determinante i
successivi sviluppi. In un certo senso si può affermare che lo sviluppo della
musica elettroacustica a Roma si radichi in maniera inversa rispetto a quanto avviene negli stessi anni a Milano. Qui è l’attenzione di due compositori
(Berio e Maderna) verso gli sviluppi musicali internazionali a determinare la
pressione e la fortunata convergenza di intenti con l’apparato dirigente della
Rai di Milano per la costituzione dello SFdM; l’attività compositiva radiodrammatica costituirà per Berio e Maderna un campo di “compromesso”
professionale, per quanto fondamentale per gli esiti intenti dell’attività di
ricerca, con gli scopi della struttura radiofonica.10 A Roma, invece, la situazione può dirsi rovesciata, poiché è l’attività cinematografica di Gino Marinuzzi jr. (cominciata alla fine degli anni Quaranta) a dettare tempi e modi (e,
chissà, forse a generare la scintilla iniziale) della ricerca sperimentale, così
come la genialità inventiva di Paolo Ketoff, sviluppatasi all’interno degli stabilimenti di post-produzione cinematografica, approderà solo in seguito agli
ambienti dell’avanguardia col suo ineludibile bagaglio di esperienza. Per dirla più sinteticamente, a Milano i compositori intravvedono nella radio lo
strumento ideale per la loro ricerca, mentre a Roma le esigenze sonore dell’ambiente cinematografico trovano, nell’intraprendenza sperimentativa di
un compositore e di un tecnico, terreno fertile per il loro sviluppo. Sia chiaro
9 Su
tutti questi luoghi tornerò nelle prossime pagine.
«Tra musica funzionale e musica d’arte comincia a stabilirsi man mano una sorta
di rapporto sinergico: i tentativi e/o i lavori compiuti per le sonorizzazioni occasionali, condotti dapprima su attrezzature di fortuna, poi su macchinari per l’epoca
avveniristici, erano considerati come preparazione e palestra per le coeve composizioni di musica elettronica o elettroacustica»; DE BENEDICTIS 2004, p. 32.
10
24
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
che non intendo con ciò limitare le radici della ricerca elettroacustica romana alla sola influenza marinuzziana, ben consapevole che altre linee di sviluppo approdano a Roma attraverso canali diversi che col cinema hanno
poco a che vedere – fondamentale su tutte l’esperienza darmstadtiana di
Franco Evangelisti – , quanto segnalare come i due frutti più significativi dell’attività di Marinuzzi e Ketoff, l’invenzione dei due sintetizzatori Fonosynth
e Synket, rimangano sostanzialmente connessi al cinema per tutta la loro
parabola di utilizzo (fino ai primi anni Settanta). In particolare metterò poi
in rilievo come il Synket, tra i primi sintetizzatori portatili al mondo, rappresenti un passo fondamentale proprio nella determinazione di quella peculiarità dell’elettronica romana che Daniela Tortora individuava nell’attenzione
alla performance dal vivo e, nel contempo, sia una risposta a esigenze sonore
del cinema di quel periodo.
Tenendo fede all’importanza del luogo nell’economia della musica
elettroacustica, come punto di raccolta della tecnologia, di circolazione delle
competenze e di scambio delle linee poetiche, ho scelto di seguire il percorso
di genesi e spostamento dei due sintetizzatori summenzionati, i quali, in virtù delle loro caratteristiche di generazione e controllo, costituiscono anche la
strumentazione più avanzata presente a Roma in quel periodo e dunque, se
si escludono le procedure di manipolazione del nastro magnetico, il principale strumento di composizione elettroacustica. Attraverseremo così circa tre
lustri a partire dal primo locale preso in uso presso l’Accademia Filarmonica
Romana da Marinuzzi e altri colleghi compositori, l’invenzione del Fonosynth e la contemporanea attività di Paolo Ketoff presso la Fonolux, stabilimento di sincronizzazione cinematografica, per toccare con l’invenzione
del Synket la genesi dello studio elettronico dell’Accademia Americana, dello Studio di Fonologia di Roma e, infine dello Studio R7.
I. Il Laboratorio dell’Accademia
Filarmonica, la Fonolux e il Fonosynth
Domenico Guaccero, in più di un’occasione, pone alle
origini dell’attività di sperimentazione elettronica romana la presa in uso di un locale dell’Accademia Filarmonica tra il 1957 e il 1959 da parte di un gruppo
di compositori.
Il compositore Marinuzzi, l’ingegner Ketoff ed io siamo quelli rimasti dal
gruppo che diede vita nel ’57 allo Studio dell’Accademia Filarmonica Ro-
25
Maurizio Corbella
mana, ma già precedentemente sia Ketoff che Marinuzzi avevano fatto delle
esperienze per la produzione di nuove apparecchiature e tape music.11
La conferma di tale fatto è stata rinvenuta da Leonardo Zaccone in un documento che attesta a Marinuzzi la paternità dell’iniziativa, avendo egli «attrezzato, a sue complete spese, un laboratorio di musica elettronica» senza
aver «usufruito di alcuna sovvenzione» da parte dell’Ente.12 Qui finiscono le
certezze a proposito del cosiddetto Laboratorio dell’Accademia Filarmonica:
permangono molti dubbi su quali fossero gli altri compositori che presero
parte a tale iniziativa e, soprattutto, su quale tipo di attrezzatura fosse a quel
tempo disponibile presso lo spazio. La partecipazione di Goffredo Petrassi,
Guido Turchi, Roman Vlad e Pietro Fellegara alla costituzione del laboratorio è stata recentemente messa in discussione,13 mentre necessita di precisazioni per le ragioni che esporrò a breve l’affermazione secondo cui la messa
a punto del Fonosynth sarebbe «sicuramente connessa alla nascita di tale
centro».14 Nel primo caso, la vaghezza delle informazioni riguardo ai componenti di questo primo gruppo di compositori risiede a mio parere nella
parziale sovrapposizione tra il Laboratorio, inteso come luogo di sperimentazione dotato di un equipaggiamento tecnologico, e la riflessione teorica di
quello che Marinuzzi stesso ha definito un «gruppo di studio per la musica
elettronica e concreta» costituito «già nel 1954»,15 nel secondo caso la questione è più complicata, poiché, a rigore, è lo stesso documento appena citato a datare il Fonosynth al 1957:
Nel 1957 [Marinuzzi] ha realizzato con la collaborazione di P. Ketoff e G.
Strini il “Fonosynth”, primo impianto in Europa specificamente ideato e realizzato per la produzione di musica elettronica nonché per la elaborazione di
musica prodotta con mezzi strumentali tradizionali e successivamente elaborata (tape music). 16
11 GUACCERO
in MUSICA EX MACHINA-X 1968; la trascrizione a cui faccio riferimento, qui come altrove, è in ZACCONE 2005a, che ringrazio per avermela gentilmente
resa disponibile.
12 ACC.FIL. 1959, p. 122. In una nota autografa in fondo al documento, Marinuzzi
precisa anche la data di inizio delle attività del laboratorio nel 1956.
13 Cfr. ZACCONE 2005b, p. 113.
14 TORTORA 1990, p. 24; tesi ripresa da ZACCONE, ivi, pp. 110-115.
15 MARINUZZI [post-1965], pp. 125-126.
16 Ibid.; da notare che in un articolo di Duillio Cossu, rinvenuto in forma dattiloscritta
in FMAR [COSSU s.d., ora in ZACCONE 2005a], l’informazione relativa a Giuliano
Strini è stata cancellata a mano. Che il compositore sia intervenuto redazionalmente
sul testo speditogli dall’autore, in tal caso modificando l’informazione citata anche
nel curriculum da me riportata? Riguardo a Strini, peraltro, non sono stato in grado
di reperire alcuna informazione.
26
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
La presenza di musiche elettroniche marinuzziane di una certa complessità
nell’Antigone televisiva diretta da Vittorio Cottafavi (1958) 17 darebbe ulteriore
credito alla datazione qui presente, sebbene non sia possibile essere certi che
esse non siano realizzate tramite procedimenti elettroacustici differenti.18 Se,
come sembra plausibile e tuttavia non accertabile allo stato delle conoscenze, il Fonosynth viene inizialmente ospitato dal Laboratorio dell’Accademia
Filarmonica, esso è negli anni successivi sicuramente trasferito presso la Fonolux, lo stabilimento di sincronizzazione cinematografica dove lavora Paolo
Ketoff in qualità di ingegnere del suono. Tale
collocazione non solo non stona nel contesto
che stiamo analizzando, ma semmai conferma la finalità fondamentale per cui è concepito il sintetizzatore: la sonorizzazione di pellicole cinematografiche. A tale proposito risulta di straordinario valore integrativo la testimonianza di Federico Savina da me raccolta (cfr. APPENDICE I), poiché funziona sia da
complemento ai molti buchi cronologici relativi all’epoca in esame, sia come chiarimento
tanto del modo di procedere marinuzziano,
quanto del peso della figura di Ketoff.
Savina conosce Marinuzzi intorno al 1956,
poco dopo il suo arrivo a Roma da Milano.
Dopo un’iniziale frequentazione, i due intraprendono alcuni esperimenti elettronici, che
danno vita a un primo bizzarro proto-sintetizzatore, battezzato Scopacordo. Dopo
un’interruzione dei rapporti di due anni e
Figura 1: Gino Marinuzzi jr. alle prese con il Fonosynth (Fonte: brochure, in FMAR).
mezzo dovuta al servizio militare in marina
di Savina, i due si rincontrano; è a questo
punto che Marinuzzi fa conoscere Savina a Ketoff, il quale lo vuole con sé
come assistente alla Fonolux. È un apprendistato di sedici mesi, al termine
dei quali Savina è pronto per intraprendere la sua lunga carriera di tecnico
17 Cfr.
CAPITOLO 2.
esempio le attrezzature dello SFdM: la bobina R.013 conservata presso l’archivio dello studio milanese contiene preparatori relativi all’Antigone (NOVATI 2009, p.
190), che corrispondono con quanto presente in una bobina conservata presso FMAR
e da me rinvenuta.
18 Per
27
Maurizio Corbella
del suono all’International Recording. Così questi ricorda gli inizi della sua
frequentazione con Gino Marinuzzi jr.:
Cominciammo a fare qualche strumento elettronico: il primo fu lo Scopacordo, un manico di scopa con una corda metallica, un pezzo di legno a mo’ di
ponticello per tenere la corda tirata, un pick-up magnetico americano per amplificare il suono. Marinuzzi, o qualcuno del suo giro, aveva comprato un
registratore americano che si chiamava Viking, una piastra con un nastro. Si
poteva incidere e risentire. Allora le classiche domande di Marinuzzi erano:
«si può rallentare la velocità del registratore (per ottenere il cambio di altezza
del suono)?»; era un continuo porre nuove questioni che io cercavo di risolvere. Dopodiché mi chiese: «Sai, avrei bisogno di un suono tipo quello del vento». Io avevo comprato un grosso libro dell’RCA che leggevo la sera. Avevo
trovato che c’era un circuito che poteva fare questo effetto, era praticamente
un filtro modulabile. Solo che per muovere la [frequenza], cosa che oggi si
farebbe con un potenziometro, allora bisognava farlo in radiofrequenza. Così
mi misi a costruirlo nella piccola casa dove abitavo: cominciai con l’alimentatore per le valvole e feci un primo apparecchio con una manopola, praticamente un filtro molto selettivo che si muove. Il problema successivo fu come
farlo “muovere”, da che punto a che punto. Le richieste di Marinuzzi si facevano sempre più esigenti: voleva che il filtro si muovesse da un punto a un
punto, nonostante non fosse possibile con quei mezzi farlo in banda continua.
Appena gli risolvevo un problema era contentissimo sul momento, però tre
giorni dopo tornava e mi diceva: «Sai, però, tu me l’hai fatto su un ottava, a
me servono due ottave»; facevo due, quattro ottave, per fare ciò bisognava
risolvere parecchi problemi, la banda era molto ampia.
Aveva fatto un film sul K2 con Guerrasio.19 Aveva bisogno di fare i venti, si
chiedeva quale potesse essere l’origine [la sorgente, ndr] dei suoni. Lo Scopacordo andava bene, perché filtrato dava un ottimo effetto di vento. Gli feci
varie versioni del filtro. Poi venne fuori un altro strumento. Allora andava di
moda fare le scale diatoniche non temperate. Lo scopo era avere dodici oscillatori da “accordare a piacimento”. Quindi mi misi a fare gli oscillatori, que-
Il documentario in questione potrebbe essere Grandes Murailles (1957), da Guido
Guerrasio ricordato come il primo a utilizzare risorse sonore elettroniche, sebbene
già in esperienze precedenti Marinuzzi era ricorso a risorse bruitistiche (La valle del
carburo e Miracoli della chimica del 1951); Guido GUERRASIO, comunicazione personale, aprile 2008. Tuttavia, tale documentario non parla del K2 ma delle Alpi. L’alternativa, all’interno della prolifica collaborazione tra il compositore e il regista (una
cinquantina di titoli dai primi anni Cinquanta a metà anni Sessanta), potrebbe essere
Kanjut Sar – La montagna che ha in vetta un lago (1961), che tratta in effetti della storica
spedizione italiana del 1959 sull’omonima cima del Karakorum (sarebbe dunque
plausibile una confusione mnemonica di Savina tra K2 e Kanjut Sar); ma, sebbene
non sia escluso che si tratti di questo film, esso è già di data piuttosto tarda rispetto
alla collocazione del racconto di Savina (fine anni Cinquanta).
19
28
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
sto non era particolarmente difficile [...]. Poi Marinuzzi mi chiese di “legarne” due, in modo da poter eseguire due note contemporaneamente e farle
slittare su frequenze non temperate; poi di seguito tre, fino ad arrivare a dodici. Con dodici oscillatori in casa io finii per dormire per terra. Era diventato un mobile che mi occupava tutta la stanza. Fu un mese e mezzo di lavoro.
Alla fine Marinuzzi mi chiese: «Sì, ma come faccio a suonare? Posso solo fare
degli shifts, mi manca l’attacco, il sustain, il decay...» diventava una tecnologia
che io non ero in grado di fare. Fu lì che Marinuzzi si rivolse a Ketoff. 20
Quest’ultima descrizione rappresenta a tutti gli effetti l’idea originaria del
Fonosynth. Ciò che emerge dal racconto di Savina è che la molla che spinge
Marinuzzi all’approfondimento tecnico è costituita dalla realizzazione di
effetti sonori (nella fattispecie il vento) per la sonorizzazione filmica. Torneremo su questi aspetti in una sezione specificamente dedicata al compositore
(CAPITOLO 2.II), ma fin da ora è abbastanza evidente come il valore aggiunto del Fonosynth risieda nel rappresentare le potenzialità di uno studio elettroacustico compatto, per quanto artigianale e lontano dalla precisione che
sarebbe stata raggiunta negli anni successivi. Anticipando dunque le future
caratteristiche del Synket, la cui ragguardevole novità saranno le dimensioni
contenute, il Fonosynth racchiude al suo interno tre delle quattro funzioni
primarie delle apparecchiature elettroacustiche: generazione, elaborazione e
controllo del suono (rimanendo esclusa, ma facilmente integrabile mediante
attrezzature esterne, la sola registrazione). 21 La versione definitiva del Fonosynth (FIGURA 2) consta di otto oscillatori22 a onde sinusoidali a frequenza
variabile (da notare, a riprova dell’ingegnosa fattura artigianale, che la frequenza è approssimativamente selezionabile tramite un rullo di cartone inserito in ogni oscillatore, con le indicazioni di banda scritte a mano),23 sei
oscillatori a onde quadre con sei filtri passa-banda ciascuno, due oscillatori
di controllo a frequenza variabile, un modulatore, un generatore d’impulso,
due filtri a ottava e una tastiera a pulsanti con sei file di ventiquattro tasti. Le
dimensioni ragguardevoli dell’apparecchio impongono la sua collocazione
presso una stanza della Fonolux, dove esso viene con tutta probabilità messo
a punto e utilizzato in alcune colonne sonore dal compositore: ad esempio,
20 FEDERICO SAVINA,
comunicazione personale, 28 marzo 2009.
tale classificazione faccio riferimento a BRANCHI 1977, pp. 111-112.
22 Secondo la testimonianza di Branchi (com. pers. cit.), comprovata dalle immagini
fotografiche del Fonosynth (fig. 1), il numero degli oscillatori a onde sinusoidi è otto,
nonostante sia Savina che la notizia del Deutsches Museum di Monaco (sede dell’attuale collocazione dell’unico esemplare di Fonosynth mai costruito) da cui è tratto il
resto della scheda tecnica da me riportata, ne indichino dodici.
23 BRANCHI, com. pers. cit.
21 Per
29
Maurizio Corbella
oltre ai già citati documentari
di Guido Guerrasio, anche
L’Italia non è un paese povero di
Joris Ivens (1960), Ercole alla
conquista di Atlantide di Vittorio
Cottafavi (1960), La mandragola
di Alberto Lattuada (1965) e
Terrore nello spazio di Mario Bava
(1965).
Come ho già sottolineato
in apertura di capitolo, la natura del luogo ospitante non è da
intendersi in maniera neutra
nel contesto di queste pratiche
musicali. La Fonolux, se mi si
passa l’espressione, costituisce
nei primi anni Sessanta il
“quartiere generale” di Paolo Figura 2: Il Fonosynth, conservato dal 1987 al Deutsches Museum di
Ketoff il quale, avendo a dispo- Monaco di Baviera (Fonte: Suono Elettronico,
<http://www.suonoelettronico.com/synket_fonosynth_ketoff.htm>).
sizione un’attrezzatura avanzata, può operare sperimentazioni
le cui appendici raggiungono anche l’avanguardia. Ketoff, che aveva iniziato
la sua esperienza cinematografica curiosamente come attore sul set dell’Ebbrezza del cielo di Giorgio Ferroni (1940), fa le sue prime esperienze di tecnico
del suono presso lo stabilimento Titanus (poi MGM, oggi del gruppo CDC
30
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Sefit) di via Margutta 24 al fianco dell’ingegner Piero Cavazzuti25 – è, tra le
altre cose, accreditato come fonico in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini (1953) – per poi proseguire presso l’RCA Italiana in via Nomentana (verosimilmente nel periodo 1956-1959), 26 specializzata nel mercato
discografico.27 A partire dal 30 luglio 1959, Paolo Ketoff entra a far parte
del consiglio di amministrazione della Fonolux.28 Mentre l’appartenenza al
consiglio d’amministrazione dura soltanto fino al 10 giugno 1961, è molto
probabile che egli continui a lavorare presso la Fonolux ancora per alcuni
anni successivamente, prima di approdare alla NIS Film (dove lavorerà per
tutta la seconda parte degli anni Sessanta).29 Prima dell’avvento dell’International Recording, fondata nel 1959 e retta su un sistema organizzativo all’americana, la Fonolux rappresenta il più efficace tentativo italiano di adeguarsi agli standard sonori d’oltreoceano in un contesto di spese contenute
ma di notevole aggiornamento tecnico. La società per azioni fondata nel
1957 dal conte Leone Senni, con quota di maggioranza della Lux Film e
sede presso i locali dell’Istituto Luce a Cinecittà, si distingue per la capacità
di utilizzare soluzioni sonore audaci e intraprendenti, in poche parole: nuo-
L’indagine sull’ambiente della produzione sonora cinematografica romana della
fine degli anni Cinquanta un terreno quasi vergine per quel che riguarda il materiale
bibliografico e documentario. Riporto qui uno dei rari passaggi in cui appare in letteratura una panoramica riassuntiva della situazione della capitale sul fronte della
post-produzione sonora cinematografica: «I principali stabilimenti romani specializzati nella postproduzione, compresa quella sonora, sono negli anni ‘50 Cinecittà,
attrezzata con apparecchi Western Electric e RCA; la Fono Roma in via Maria Adelaide, fondata nel 1930 e considerata all’epoca il più grande stabilimento di sonorizzazione e doppiaggio d’Europa, attrezzata con apparecchi Western Electric; la
MGM (poi Titanus, poi CDS) in via dei Villini; la NIS in via Rocca di Papa (ma in
uno stabile diverso da quello della Staco Film, situata nella stessa via); la Titanus in
via Margutta; la Fonolux presso l’Istituto Luce; la International Recording in via
Urbana, aperta nel 1959, attrezzata con apparecchi RCA». APRÀ 2004, pp. 503-504.
A integrazione si veda la parte iniziale della testimonianza di Savina (APPENDICE I).
25 SAVINA, com. pers. cit. Piero Cavazzuti è una delle prime figure ad avere introdotto fin dagli anni Trenta la riflessione sul suono cinematografico all’interno delle riviste di settore italiane: cfr. Piero CAVAZZUTI, Difetti e rimedi: I – Il problema del suono,
«Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica», III/57, 10 novembre 1938;
ID., Ripresa e riproduzione sonora, Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica», III/60, 25 dicembre 1938, p. 407.
26 FULVIA KETOFF, comunicazione personale, 27 giugno 2009.
27 Non si è invece trovata conferma dell’affermazione per cui Ketoff abbia lavorato
presso la Fono Roma, come da ZACCONE 2005a, p. 111.
28 Cfr. FONOLUX 1959, 1961.
29 All’incirca nel 1971, in seguito a un brutto incidente in motoscafo sul lago di Bracciano insieme a Gino Marinuzzi jr., perde quasi del tutto l’uso di una mano e non
torna mai attivo a livello professionale come in passato. Continua l’attività di insegnante che aveva iniziato qualche tempo prima presso l’Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione e si ritira progressivamente dalle scene; F. KETOFF, com.
pers. cit.
24
31
Maurizio Corbella
ve. Ketoff rappresenta quell’ingrediente essenziale di «genio italico» necessario all’eccellenza dello studio.
[Il] conte Senni, probabilmente innamorato del cinema, aveva costituito questa società e voleva essere all’avanguardia. Così chiamò Ketoff. Lì c’erano già
un teatro insonorizzato, due stanze di doppiaggio e una sala di mixage (le sale
di mixage ai tempi coincidevano con le sale musica, con la consolle contro il
muro per lasciare lo spazio per le orchestre). […] Gli americani [che] venivano a registrare a Roma tutti quei “filmoni”, iniziarono a preferire la Fonolux,
perché la Fono Roma, pur essendo sempre stata un faro, aveva una tecnologia “casalinga”, le macchine venivano fatte “in casa” con criteri dell’epoca,
non molto avanzati tecnicamente rispetto agli studi di Hollywood. Invece il
conte Senni costruì questa struttura e chiamò Ketoff perché voleva essere upto-date. Quando andai a lavorare lì [nel maggio del 1959, ndr], Ketoff era il
capo tecnico, poi c’era un certo signor Magni che invece era un tecnico della
vecchia guardia, mentre Ketoff rappresentava “il nuovo”. 30
Secondo la perizia immediatamente successiva all’atto di fondazione, la Fonolux può contare su attrezzature immesse a mo’ di capitale dalla Lux Film,
e su quattro sale adibite a differenti finalità di produzione. Limitandomi alle
apparecchiature di ripresa e fissaggio, questo è ciò che emerge:
Microfoni: Western RA1.142 (n. 2); Western 639 (n. 2); Western 618 (n. 3);
Electro Voice 636 (n. 2); Western 640AA (n. 1); Altec 150A (n. 2); Noiman
[sic; Neumann, ndr] Elettrostatico Cardioide con alimentatore (n. 3); Totale
n. 15. [...] Impianti di registrazione: 1) Impianto Western 635 (Sala C): è un
impianto completo di registrazione, costituito dl tavolo di mixage a due canali (tipo M2), da n. 2 armadi metallici contenenti gli amplificatori di registrazione e di ascolto, i relativi alimentatori, gli strumenti di controllo, l’altoparlante di ascolto, il recorder (apparecchio di registrazione sonora) completo di n.
2 chassis per le bobine delle colonne sonore; dell’impianto fanno parte n. 2
light-valves (cellule di incisione e registrazione sonora) di tipo speciale RA 1247
e altri accessori. [...] 2) Impianto di registrazione magnetico a nastro AEG
(Sala C): è un canale completo di registrazione magnetica riunito in un solo
armadio. [...] Ad esso è aggregato un tavolo di registrazione (mixer) a 2 canali, di fabbricazione nazionale. [...] 3) Impianto di registrazione a nastro Ampex (Sala D): è costituito da un canale completo di registrazione magnetica
[...].
30 SAVINA,
32
com. pers. cit.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Tra tutte è la sala M a destare il maggiore interesse, trattandosi di un assemblato di macchine, che
non è costituito da un solo impianto completo, originario di una sola casa
costruttrice, ma è stato formato con più elementi collegati in modo da ottenere cicli lavorativi di vario tipo (registrazioni di parlato o di musica con metodo tradizionale o con sistemi stereofonici, mixage complessi ed anche essi di
tipo tradizionale o stereofonico). 31
Le caratteristiche di Ketoff inventore e sperimentatore sembrano inserirsi
perfettamente nel contesto di questa sala assemblata. Egli costruisce o modifica personalmente consolle di mixaggio, introduce i faders di controllo al posto delle comuni manopole,32 costruisce le stanze di riverbero:
Ricordo che iniziai alla Fonolux nel momento in cui arrivava dall’Inghilterra
un registratore a nastro che aveva l’inconveniente di avere il pulsante di record
senza sicura vicino al pulsante di play, con il rischio di cancellare per sbaglio
quanto si era registrato. Il primo lavoro che vidi fare a Ketoff fu quello di
“smantellare” la macchina per mettervi una sicura. Per fare un altro esempio,
gli americani con cui Ketoff lavorava chiedevano il tre piste, ed egli ricavava
tre piste dal registratore a due piste, utilizzando nastri più piccoli, da mezzo
pollice; bisognava cambiare tutti i supporti, non era un lavoro semplice, ma
c’erano meccanici all’interno dell’Istituto Luce in grado di farlo. Fatto sta che
questa macchina era in continuo aggiornamento. Dato che la Fonolux lavorava spesso con americani, Ketoff aveva l’esigenza di adeguarsi allo standard
statunitense e, per esempio, costruì una consolle sul modello di quelle americane. Probabilmente influenzato dagli americani, o forse per sua natura, costruì una stanza di riverbero. Cominciò a utilizzare un suono nuovo per gli
standard italiani. Si dotò di due microfoni Neumann con cui cercavamo di
fare tutto. Da lui imparai il tipo di suono, un certo rigore tecnico. Lavorava-
31 FONOLUX
1957.
ANDREA KETOFF, comunicazione personale, aprile 2008. L’introduzione dei faders,
avvenuta nel cinema americano fin dal 1941, è riconosciuta come un passaggio fondamentale al moderno concetto di mixaggio. È infatti facilmente intuibile come il
controllo lineare dei parametri sonori consenta, rispetto a quello rotatorio, la gestione
di decine di canali contemporaneamente, migliorando moltissimo la performance di
miscela delle componenti sonore, cioè l’atto di mixaggio analogico per il quale occorre, oltre a una grande sensibilità acustica, una buona dose di manualità: «Mixing is a
little like playing the organ. Tremendous dexterity is demanded. [...] It seems beyond comprehension
that one mind can simultaneously control so many different physical operations at the same time. The
technic must be mastered completely that when the eye sees a note on a sheet of music a hand of foot
moves consciously to perform the operation it demands. In the case of re-recording, the picture on the
screen is the sheet of music»; K. B. LAMBERT, An Improved Mixer Potentiometer, «Journal of
the Society of Motion Picture Engineers», XXXVII/9, September 1941, p. 290; cit.
in HANSON 2007, p. 37.
32
33
Maurizio Corbella
mo bene insieme, fu un periodo molto eccitante, ci trovammo a un certo
punto persino a dover fare i rumori elettronici di un documentario brasiliano.
Facemmo questa esperienza ma decidemmo di comune accordo di lasciare
fare queste cose ad altri.33
È dunque abbastanza ovvio che una simile struttura, resa molto flessibile dai
suoi operatori, e particolarmente consona a intraprendere strade “poco battute”, sia anche il terreno ideale per compositori o registi interessati a sperimentazioni nel campo della musica per film. Non è un caso che, tra i film
post-prodotti alla Fonolux, risultino due titoli particolarmente interessanti
per le scelte sonore, nei quali il ruolo di Ketoff appare determinante: L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960) e Barabba di Robert Fleischer (1961).
Nessuno dei due contempla soluzioni elettroniche, ma in entrambe il ruolo
della costruzione tecnica è profondamente influente sul risultato raggiunto.
Nell’Avventura, il mixaggio degli elementi naturali registrati dal vivo al largo
delle Eolie, dà luogo a una “partitura di rumori”, secondo la celebre espressione adottata da Antonioni:
Per L’avventura ho fatto registrare una gran quantità di effetti sonori: ogni tipo
di mare possibile, più o meno agitato, le onde che rimbombano infrangendosi
nelle grotte e via dicendo. Avevo a disposizione un centinaio di bobine di nastro magnetico solo per gli effetti. Poi ho selezionato quelli che costituiscono
la colonna sonora del film. Secondo me è la giusta musica che meglio si adatta alle immagini. […] L’ideale sarebbe costituire con i rumori una meravigliosa colonna sonora e farla dirigere da un direttore d’orchestra... Anche se,
forse, alla fin fine l’unico in grado di farlo sarebbe il regista. 34
Se Antonioni diventa il “direttore d’orchestra” dei rumori, allora Paolo Ketoff finisce per svolgere il ruolo dell’“orchestratore”.
In Barabba si rintracciano invece i prodromi del cosiddetto mixerama
di Mario Nascimbene, che sarà realizzato compiutamente solo negli anni
successivi dal compositore milanese con la collaborazione del tecnico Gianni
Mazzarini, ma che trova nella celebre sequenza della crocifissione filmata in
concomitanza con l’eclisse romana del 1960 (la pellicola venne pubblicizzata
nelle sale con l’epiteto «il film che ha fermato il sole»), la prima realizzazione
concettuale: l’effetto di staticità atemporale e sovrumana costituito da una
semplice sovrapposizione di seconda minore agli archi acuti non funzionerebbe così bene se l’impasto orchestrale non fosse realizzato da suoni pre-re33 SAVINA,
com. pers. cit.
1960, p. 127.
34 LABARTHE
34
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
gistrati singolarmente e trattati con manipolazioni elettroacustiche. La sequenza è così particolarmente coesa e compatta negli elementi visivi e sonori e si presenta come uno di quegli esempi abbastanza rari di coerenza audiovisiva in cui ogni elemento è al proprio posto e indispensabile per la resa
semantica del testo. Ripercorrendo con la memoria la genesi di quella musica, Nascimbene non nasconde i meriti di Paolo Ketoff:
Passai giorni e giorni a pensare come avrei potuto musicare la sequenza dell’eclissi, una delle più importanti del film. Finalmente l’idea: togliere tutti gli
effetti realistici, commentare la tensione “psicologica” del momento soltanto
con un pedale acuto di Re diesis-Mi eseguito da violini, soprani e contralti
un’ottava bassa; una riverberazione di un tam-tam a mezza velocità avrebbe
“cementato” il semitono, indecifrabile e inesorabile. Sui totali dell’eclissi, un
accordo formato da pianoforte, timpani, vibrafono, xilofono e campane riprodotto a mezza velocità (cioè un’ottava sotto al suono più basso dell’orchestra, suono che in realtà non esiste nella scala tradizionale) avrebbe creato
un’emozione “quasi insopportabile”.
Con i “suoni nuovi” per Barabba nasceva il mio concetto personale del Mixerama: un modo di interpretare musicalmente una sequenza cinematografica
usando la tecnica al servizio dell’arte. [...]
L’idea era molto allettante: registrare singolarmente nelle varie estensioni
tutti i suoni di ogni strumento dell’orchestra tradizionale [...], tutte le note del
coro [...], alcuni timbri di strumenti speciali ed insoliti (ad esempio gli indiani
tampura, sitar, saranghi, tabla, ecc.), formando una “biblioteca di suoni” a
mia disposizione. Questi suoni, registrati su nastro magnetico, sarebbero stati
manipolati, vivisezionati, frantumati, alterati, “conditi” con una raffinata tecnica di missaggio finale [...].
Per Barabba lo studio della Fonolux era letteralmente invaso da centinaia di
anelli di suoni, pronti ad essere montati sulle teste sonore. Schiavizzai per
settimane il paziente amico Paolo Ketoff, i fonici Fausto Ancillai e Silvio Vallesi... richiedendo loro una collaborazione onora definita “assolutamente
disumana”...35
35 NASCIMBENE
1992, pp. 226-228.
35
Maurizio Corbella
I tempi sono maturi per la messa a punto del Synket che, per
usare la definizione del suo artefice, è un
II. Il Synket, ponte tra cinema
e live electronics
sistema elettronico che insieme genera e controlla il suono. Può essere considerato bona fide uno strumento musicale poiché la sua flessibilità permette
l’esecuzione di composizioni di musica elettronica senza bisogno di pre-registrazione (cosa che non è stata possibile con i tradizionali sistemi di studio).36
Le proprietà performative del sintetizzatore costituiscono certamente la sua
caratteristica più importante, come lo stesso Ketoff sottolinea a conclusione
della sua presentazione:
Dal momento che è difficile immaginare tutte le combinazioni ritmiche e i
suoni che è possibile produrre, forse si può avere un’idea, da questa descrizione, di quali siano le possibilità dello strumento. Un importante vantaggio
del Synket è che permette la composizione in tempo reale di musica elettronica, eliminando gran parte delle noiose interruzioni dovute alla giunta, al
montaggio e al mixaggio di nastri. Ciò che un tempo richiedeva molte ore di
lavoro e una moltitudine di macchine e processi può oggi essere fatto in breve
tempo e con un singolo apparecchio. I problemi compositivi ed esecutivi con
il Synket diventano, grosso modo, simili a quelli di strumenti tradizionali e,
grazie alla possibilità della performance dal vivo, si evitano i disagi dell’impersonalità che abbiamo avvertito finora nella musica elettronica, esattamente come i molti svantaggi meccanici che presenta il nastro magnetico quando
la musica elettronica è combinata con musica strumentale e/o vocale.37
Lo strumento di Paolo Ketoff si pone dunque come spartiacque della fase
storica di passaggio tra l’epoca degli studi di musica elettronica, caratterizzati da attrezzature ingombranti e costose, e da un’attività di collaborazione/
dipendenza tra compositori e tecnici (in cui è spesso difficile stabilire i confini dell’atto creativo), e la nascita dei cosiddetti live electronics, caratterizzati
dall’avvento dell’elemento performativo (sia esso di carattere improvvisativo
o esecutivo). È bene precisare che il Synket, pur nelle sue potenzialità, rimane uno strumento di difficile utilizzo dal vivo, poiché dotato di un sistema di
controllo estremamente complicato e soprattutto mai realmente approdato a
una produzione in serie. È semmai il contemporaneo Moog a determinare
36 Per
il testo originale inglese, cfr. KETOFF 1967a, p. 39, riprodotto in APPENDICE II.
Altrove, in casi analoghi, riporto in nota la citazione in lingua originale, per segnalare
che si tratta di una mia traduzione. Se il lettore non trova l’originale in nota, significa
che mi baso su una traduzione edita, le cui informazioni sono reperibili in bibliografia.
37 Ivi, pp. 40-41.
36
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
una netta svolta rispetto alla direzione inizialmente intrapresa dalla musica
elettronica del dopoguerra, svolta interpretata da alcuni studiosi come Pascal
Decroupet in senso regressivo, in quanto «rimette l’elettroacustica nelle mani di quegli stessi esecutori dai quali, quindici anni prima, si era sperato di
ritirare la musica per sempre». 38 L’altra novità introdotta dal Moog, sempre
appoggiandosi al ragionamento dello studioso francese, sta nel fatto che
l’instrumentarium e i suoni che esso implica migrano progressivamente da una
musica in qualche misura marginale anche in seno alla musica contemporanea verso l’ambito pubblico delle musiche di massa, per divenire rapidamente la conditio sine qua non per la quale una musica pop si definisce d’attualità. Da questo punto di vista, la seconda metà degli anni ’60 potrebbe aver
segnato la fine di un’epoca e aver fatto della «musica elettronica» un fenomeno storico concluso.39
È, in definitiva, il progressivo tramonto degli Studi come luoghi determinanti della musica elettroacustica, e l’approdo a una nuova fase che porterà, con
la nascita delle tecnologie digitali, all’attuale dimensione casalinga individuale. Ora, che si voglia o meno interpretare l’avvento del Moog come un “ritorno” a una fase storica anteriore (e perciò meno interessante), implicando
così un rimpianto delle possibilità non sfruttate in seno all’avanguardia, non
deve fare dimenticare che esiste una storia parallela della musica elettronica
legata principalmente proprio a strumenti. Vista in quest’ottica, quella degli
Studi appare come una parentesi in un percorso più ampio che comincia ai
primi del secolo XX con il Telharmonium e dura ancora ai giorni nostri. Sullo sfondo di tale storia c’è la ricerca di timbri e articolazioni, prima che di
possibilità linguistiche nuove, e di un’immediatezza realizzativa improntata
decisamente sull’estemporaneità (svilupperò questo argomento nel CAPITOLO 3). Tale ricerca, per quanto si ponga in continuità e non in rottura con il
linguaggio musicale occidentale pre-modernista, ha un effetto indiretto sulla
contemporaneità paragonabile a quello che può derivare dallo sfruttamento
di nuove possibilità timbriche degli strumenti acustici nel jazz. Sposta, per
così dire, l’asse dell’equilibrio dal pensiero compositivo (inteso come atto di
DECROUPET 2000, p. 21. Di simile tenore la posizione di Walter Branchi: «[Il fatto] che l’operatore abbia a disposizione una serie di apparecchiature che rispecchiano quelle di uno Studio di musica elettronica in formato ridotto e che permettono
quindi una facilità di spostamento tale da farne uno strumento per esecuzioni dal
vivo, riportandosi immediatamente alla dimensione orchestrale tradizionale [probabilmente costituisce un atteggiamento involutivo dal punto di vista dello sviluppo e
della ricerca, nel campo della realizzazione del pensiero musicale con mezzi elettronici»; 1977, p. 111.
39 Ibid.
38
37
Maurizio Corbella
concepimento anteriore all’esprimersi fisico della musica) all’azione musicale, sia essa di esecuzione o di composizione estemporanea; una linea di tendenza peraltro riscontrabile proprio tra la fine degli anni Sessanta e i primi
anni Settanta anche in seno all’avanguardia d’area romana (Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza, Musica Elettronica Viva), fertile di ripercussioni in vari campi dell’attività musicale cosiddetta “applicata” (in primo
luogo cinematografica e radiofonica, ma anche teatrale) e parte integrante
delle “estetiche” popular.
Proprio in tale misura il Synket costituisce una risposta a esigenze presenti, nell’ambiente romano degli anni Sessanta, almeno in due aree della
pratica musicale: quella sperimentale e quella cinematografica. Dell’importanza che la performance dal vivo assume per la musica elettroacustica romana ho già detto in apertura di capitolo. Il sonoro cinematografico, dal
canto suo, è invece caratterizzato da una necessità di immediatezza realizzativa: quanto più gli sviluppi delle tecnologie elettroacustiche consentono
l’adattamento anche in tempo reale a esigenze drammaturgiche, tanto più
esse sono gradite e praticate in sede di post-produzione.
Il film è una cosa “cotta e mangiata”, devi avere un apparecchio, vai in sala,
vedi il film, fai i suoni che servono, e il film è fatto, non si può tornare dopo
due mesi per modificarlo. A Milano facevano composizioni musicali e non
avevano il problema del tempo. Qui a Roma c’era l’immediatezza. 40
Il Synket, come si vedrà nel paragrafo appositamente dedicato ai suoi utilizzi
cinematografici, costituisce un’enorme risorsa in più in mano tanto al compositore quanto al tecnico del suono, poiché consente di attingere a una
gamma timbrica che infrange la consueta divisione tra musica e rumori.
L’ambivalenza di funzioni a cui il Synket si conforma si esplicita anche nei
dati relativi alla sua genesi storica, la quale rende evidente un panorama in
cui attività cinematografica e sperimentale sono profondamente compenetrate, al punto che non è possibile stabilire se il Synket nasca originariamente
per le une o per le altre. Per portare un esempio eclatante è sufficiente citare
la trasmissione radiofonica del terzo canale RAI in cui il sintetizzatore viene
presentato agli ascoltatori da Paolo Ketoff e Domenico Guaccero. Dopo
una prima spiegazione tecnica, Ketoff precisa:
con la stessa facilità [tramite il Synket] puoi ottenere dei rumori come il tuono, il mare o il vento e nello stesso tempo il cinguettio di uccelli, ritmi di
40 SAVINA,
38
com. pers. cit.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
tamburi, di gocce d’acqua, note musicali che possono rassomigliare assolutamente a degli strumenti tradizionali.41
E, poco dopo, si esibisce in alcuni “effetti marini” straordinariamente verosimili. È possibile che questi “effetti”, più che costituire un corollario delle
possibilità del Synket, ne costituiscano una delle ragioni della sua invenzione? La mia risposta è affermativa e trova, come si è visto nel paragrafo precedente, conferme nelle testimonianze che riguardano il processo di genesi
del Fonosynth. Il cinema dunque, in qualità di committente principale dell’attività musicale romana degli anni Sessanta, avrebbe lasciato anche
un’impronta decisiva nel suo principale strumento.
Ma procediamo con ordine. Per ricostruire la problematica genesi del
Synket, è bene prendere le mosse dalle parole dello stesso Paolo Ketoff:
La nascita del Synket può riportarsi al 1962, quando il maestro Gino Marinuzzi si rivolse a me per realizzare, in collaborazione, un’apparecchiatura
comprendente un insieme di oscillatori, filtri e modulatori, che dovevano servire per ottenere suoni elettronici.
Da questa collaborazione poi nacque il Fonosynth che molti di voi già conoscono. Contemporaneamente, l’Accademia Americana mi aveva incaricato
invece della sistemazione di uno Studio di Fonologia, che avevo già iniziato
con le macchine di incisione e un mixer. Per completare il laboratorio mi
chiese di mettere a punto un’apparecchiatura fornita di generatori e filtri che
ritenevo più idonei a soddisfare le esigenze dei loro musicisti interessati alla
musica elettronica.
Forte dell’esperienza fatta col M.° Marinuzzi preparai un apparecchio che,
pur non essendo stato concepito con quello scopo, rivelò subito la possibilità
di esser usato direttamente in orchestra come un normale strumento, possibilità fino ad non presentata da apparecchiature consimili in Italia e all’estero.
Tant’è vero che un mese più tardi il M.° John Eaton lo usò in una sala di
concerti nella sua composizione Songs for R.P.B., insieme a due pianoforti e al
canto.
Il Synket, il cui nome deriva da sintetizzatore e Ketoff (Syn-Ket) fu da me poi
ulteriormente perfezionato fino al modello che Voi vedete, sia per renderlo
ancora più maneggevole e di facile uso, che per aumentarne le potenzialità.
Per cui, questo apparecchio, pur acquistando i vantaggi di un normale strumento, conserva le possibilità di un generatore di suoni elettronici, sia ottenuti direttamente che combinati con registrazioni successive, il che risulta parti-
41 KETOFF
in MUSICA EX MACHINA-VI 1967.
39
Maurizio Corbella
colarmente utile nella realizzazione delle colonne sonore che richiedono suoni insoliti.42
Ketoff pone all’origine del Synket due stimoli: la collaborazione con Gino
Marinuzzi jr. e la richiesta, da parte di un comitato di compositori residenti
presso l’Accademia Americana a Roma, dell’allestimento di un laboratorio
elettroacustico basato, su piccola scala, sugli standard del Columbia-Princeton Electronic Music Center. Di tale richiesta sono responsabili John Eaton,
William O. Smith e George Balch Wilson, con il coordinamento e l’incoraggiamento di Otto Luening, fiduciario dell’Accademia dal 1953 al 1970.
Riguardo al Synket, ciò che venne chiesto di fare a Ketoff dal comitato dell’Accademia nei primi anni Sessanta fu di assemblare un tape studio tradizionale. L’intero equipaggiamento di generazione e modulazione del suono stava in una piccola custodia. Quando arrivò, ricordo che esclamai: «Ma Paul
[Paolo], questo è uno strumento!».43
Evidentemente, i compositori dell’Accademia furono stupiti delle dimensioni
contenute e ancor più delle potenzialità della nuova macchina. La versione
che offre Joel Chadabe, informato sui fatti perché presente a Roma a metà
anni Sessanta è, pur con una discrepanza riguardo alla professione di Ketoff
in quel momento,44 complementare alle informazioni da me raccolte:
William O. Smith, John Eaton, Otto Luening e George Balch Wilson […] si
consultarono con Paolo Ketoff, un ingegnere del suono della RCA Italiana, e
Ketoff portò Smith, che in quel momento si incaricava dello studio [dell’Accademia Americana] a vedere il Fonosynth, un grande sintetizzatore “da studio”, che Ketoff aveva costruito circa un anno prima per il compositore Gino
Marinuzzi. Ketoff propose di costruire una versione più piccola del Fonosynth per l’Accademia Americana. Smith e gli altri furono d’accordo.45
42 KETOFF
1967b, in TORTORA 1994, p. 125.
«What Ketoff was asked to do with the Synket by the committee from the Academy in the early
1960s, was to put together a classic tape studio. The whole sound generating and modulating equipment was in a small case. When it arrived, I remember exclaiming, “But Paul, this is an instrument!”»; EATON, com. pers. cit.
44 Rimando alla breve ricostruzione della vicenda biografica di Ketoff esposta nel
precedente paragrafo.
45 «William O. Smith, John Eaton, Otto Luening, and George Balch Wilson […] consulted with
Paolo Ketoff, a sound engineer for RCA Italiana, and Ketoff took Smith, who at the time was in
charge of the studio, to see the Phonosynth, a large studio-oriented synthesizer that Ketoff had built a
year or so earlier for composer Gino Marinuzzi. Ketoff then proposed that he build a smaller version
of the Phonosynth for the American Academy. Smith and the others agreed»; CHADABE 1997, p.
144.
43
40
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
La velocità con cui nasce lo studio dell’Accademia Americana è indicativa
del fervore delle iniziative intorno alla sperimentazione elettronica presente
nei primi anni Sessanta nella capitale. La presenza e la competenza di Ketoff sono sicuramente determinanti al di là dell’apporto del Synket, un valore aggiunto che nessuno si sarebbe aspettato:
Ketoff costruì il laboratorio dalle fondamenta, fornendoci un pannello di
mixaggio, oltre al Synket. Credo che abbia anche acquistato i registratori a
nastro per noi e altri elementi periferici, anche se quelli potrebbero essere
stati recuperati da Otto Luening; infine svolgeva anche la manutenzione. 46
Ripercorrendo i pochi documenti rimasti, risulta chiaro come l’idea di fare
del tape lab – già esistente negli anni precedenti, ma limitato a un registratore
a nastro utilizzato per la ripresa e la duplicazione di concerti svolti dall’Accademia – uno studio di sperimentazione e ricerca, maturi nel corso di
neanche due anni, tra il 1960 e il 1962. È probabile che l’idea fosse già nella
testa di Luening quando, nel 1960, fu interpellato dalla direzione dell’Accademia per l’acquisto di un nuovo registratore da affiancare all’Ampex 600 in
dotazione, allo scopo di «incrementare la nostra collezione di musica contemporanea, specialmente europea, attraverso la registrazione delle trasmissioni radiofoniche».47 Dopo due anni Smith, che aveva aggiornato costantemente Luening sulle attività romane, fa giungere a New York l’eco del suo
eureka:
Caro Otto,
indovina? Il Tape Music Lab dell’Accademia Americana è finalmente in funzione. Ketoff ha ancora qualche problema da appianare, ma abbiamo un
buon set-up; Leslie Basset e io abbiamo iniziato a sperimentare con l’aiuto del
buon vecchio [Vittorio] Gelmetti […]. Speriamo di presentare qualcosa dell’Accademia per il festival di musica elettronica al Museo d’Arte Moderna di
«Ketoff built the lab from the ground up, giving us a mixer panel in addition to the Synket. I believe he also acquired the tape recorders for us and other peripheral elements, although those may have
been brought over by Otto Luening. He also kept it in good repair»; EATON, com. pers. cit.
47 «Tape recording has become increasingly more important to the composers here, not only as a means
of playing already existing tapes and recording concerts, but also as an excellent method of adding to
our library of contemporary music, especially European, by recording radio broadcasts. Our present
Ampex Model 600 is in constant use. [...] The Academy was assured that the machine could be
expected to give several more years of top performance. Recently, however, the main bearing has
shown signs of wear, which makes the prediction doubtful. This is especially unfortunate when the
repair cannot be competently obtained in Rome [...]»; WILSON 1960.
46
41
Maurizio Corbella
quest’anno. Spero anche che riusciremo a presentare alcune composizioni del
laboratorio di Columbia-Princeton. 48
Del Synket, in questa e altre lettere, nessuna notizia. Una novità così importante sarebbe stata di sicuro comunicata a Luening, a meno che questa non
fosse già stata riportata in qualche altra lettera non ritrovata. D’altra parte il
piccolo studio, già fornito di «tre oscillatori, una coppia di Ampex stereofonici, un’unità di riverbero, un mixer, un supporto per le giunte, qualche microfono e altre cianfrusaglie»,49 sarebbe già stato in grado di produrre tape
music da subito, anche senza il Synket, come Smith auspica nella lettera. Più
verosimile è che Ketoff inizi a lavorare alla sua nuova creazione a partire da
questo momento; ciò spiegherebbe il suo riferimento al 1962 come l’anno a
cui «si può fare risalire» l’invenzione del sintetizzatore, e non contraddirebbe
d’altronde la consueta datazione dell’apparecchio al 1964, che lo stesso Ketoff sembra avvallare implicitamente nelle sue parole. 50 Ciò che è certo è che
a partire dal momento della sua creazione, il Synket viene richiesto a Ketoff
da vari compositori, e utilizzato in versioni personalizzate sia per la composizione di musiche elettroniche, sia per la performance, sia negli studi
cinematografici.51 Particolarmente conosciute sono le migliorie che vengono
apportate al modello di John Eaton, tra cui l’aggiunta di tre tastiere tra loro
intonate su differenze microtonali (la microtonalità è infatti il campo di ri«Dear Otto, Guess what? The American Academy Tape Music Lab is finally functioning. Ketoff
still has a couple of problems to iron out, but we have a nice set-up, and Leslie Bassett and I have
started experimenting with the help of good old Gelmetti [...]. We’re hoping to have some Academy
things on the Electronic Music Festival at the Modern Art Museum this year. I hope we can also
present some compositions from the Columbia-Princeton Lab». SMITH 1962a.
49 «In early 1964, the equipment in the electronic studio at the American Academy in Rome, which
had been specified by Vladimir Ussachevsky, consisted of three oscillators, a couple of Ampex stereo
machines, a reverb unit, a mixer, a splicing block, a couple of microphones, and other odds and
ends»; CHADABE 1997, ibid.
50 In generale, la maggior parte della letteratura angloamericana utilizza questa data.
Si aggiunga che non bisogna considerare il 1964 come la data in cui le sperimentazioni terminano; in varie occasioni Eaton ha ribadito di avere continuato a lavorare
sul Synket con Ketoff: «We probably worked together two or three times a week on the Synket as
a performing instrument between 1962 and 1966»; com. pers. cit.
51 Stabilire quanti Synket fossero in circolazione alla fine degli anni Sessanta è affare
arduo, che non affronterò. Sappiamo per certo dell’esistenza di un Synket (probabilmente il n. 1) presso lo Studio dell’Accademia Americana, di almeno uno in possesso di John Eaton (n. 2), di uno presso lo SR7 e di uno in possesso di Ennio Morricone (comunicazione personale, 7 settembre 2009). Oggi, accanto agli apparecchi di
John Eaton, un esemplare è ancora conservato dall’Accademia Americana, un altro è
conservato presso il Museo degli strumenti musicali di Milano con le apparecchiature
dello Studio di Fonologia, quello del SR7 è in possesso di Walter Branchi, e uno non
funzionante è conservato nell’abitazione di Paolo Ketoff (A. KETOFF, com. pers.
cit.). Registro anche la richiesta di informazioni di Otto Luening a John Eaton, non
sappiamo se andata a buon fine, riguardo alla possibilità di farsi costruire un nuovo
Synket da Ketoff per una sua studentessa; LUENING 1972.
48
42
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
cerca principale del compositore americano a quel tempo), che lo rendono
un vero e proprio strumento live, utilizzato da Eaton nei decenni successivi
spesso accoppiato al Moog (FIGURA 3):
Figura 3: Paolo
Ketoff (sx) di fianco
al modello di Synket
personalizzato per
John Eaton (dx);
evidenti le tre tastiere.
Per prima cosa, gli chiesi una tastiera in grado di trasmettere il “tocco” umano. Lui mi accontentò facendola sensibile alle dinamiche come un pianoforte,
e soggetta a movimenti laterali come un clavicordo. Quindi volevo un pedale
volume. Da ultimo, siccome ero interessato nella musica microtonale, gli
chiesi di rendermi possibile di intonare ogni tasto delle tre tastiere in maniera
differente; inserì viti sotto ogni tasto. Il Synket che fece per me – il numero 2
– aveva un timbro molto più ricco di quello dell’Accademia; tuttavia, io volli
anche il suono più puro dell’originale, così egli mise un selettore in alto in
modo da permettere lo spostamento da un set timbrico all’altro. Quindi, gli
chiesi di aggiungere la possibilità di usare il generatore di rumore bianco co-
43
Maurizio Corbella
me un modulatore. Gli chiesi anche di installare un riverbero a molla. Ci furono altre innovazioni, molte suggerite da Ketoff stesso. 52
Successivamente alla sua fondazione ufficiale nel marzo III. La difficile identità dello Studio R7
1968, lo Studio R7 (SR7), situato a Roma in Piazza delle
Cinque Giornate, consta di sei magnetofoni (tra cui due Ampex e due Revox), sei altoparlanti, alcuni apparecchi per la trasformazione del suono (Varivox),53 miscelatori (mixer), filtri, e due sintetizzatori di suono: il Synket e il
Fonosynth. 54 La costituzione dello SR7 giunge alla fine della parabola di utilizzo di questi due macchinari, già in parte superati dall’accessibilità sul
mercato di attrezzature rapidamente giunte a fama mondiale come il Moog,
che rispetto al coevo Synket presenta tre importanti caratteristiche: il fatto di
essere prodotto in serie (a differenza del Synket), l’impiego di transistors invece che valvole e, soprattutto, l’introduzione del controllo di tensione (Voltage Control), una tecnologia rivoluzionaria che Ketoff non conosceva, ma che
avrebbe potuto facilmente far propria quando Robert Moog gli offrì l’opportunità di un insegnamento ad Albany (NY). 55 Il rifiuto di Ketoff si iscrive nel
suo temperamento schivo, poco condizionato da logiche di guadagno, ed è
anche la ragione principale per cui il Synket non approda alla produzione
seriale. Come del resto traspare dalla mia ricostruzione della genesi dello
Studio dell’Accademia Americana, l’apporto di Ketoff al mondo dell’avanguardia è multiforme sia in termini di ruoli ricoperti, sia di contributi tecnologici. Egli predispone varie apparecchiature per John Cage, con il quale
52 «First,
I asked him for a keyboard that was capable of transmitting human nuance. He responded
by making it velocity sensitive like a piano, and affected by sideways movement like a clavichord.
Then I wanted a volume pedal. Next, because I was interested in microtonal music, I asked him to
enable me to tune each key of all three keyboards differently; he put screws under each key. The SynKet he made for me - no. 2 - had a much richer color than that of the academy; but, I also wanted
the purer sound of the original one, so he put a switch on the top to turn from one set of tonal characteristics to another. Then, I asked him to add the possibility of using the noise generator as a modulator. I also asked for a spring reverb unit to be installed. There were other innovations, many suggested
by Ketoff himself»; EATON, com. pers. cit. Le innovazioni di cui parla Eaton, compresa
la triplice tastiera, si ritrovano anche nell’esemplare di Synket conservato nello
SFdM, sebbene nel caso della tastiera ci siano differenze nella conformazione dei
controlli posti a sinistra dei tasti. Tale esemplare è comunque posteriore a quello di
Eaton, essendo stato acquisito dallo Studio solo nel 1968; RODÀ 2009, p. 82.
53 Il Varivox è un variatore di velocità del nastro magnetico che consente di mantenere invariata la frequenza. Utilizzato in particolare dagli studi radiofonici per esigenze
di quadratura dei tempi dei programmi. Cfr. BRANCHI 1977, p. 161.
54 Cfr. GUACCERO [post-1968]. Le uniche trattazioni estensive sullo SR7 si trovano in
ZACCONE 2005a/b. Accenni sono presenti in TORTORA 1990 e 1996, fondamentali
per l’inquadramento cronologico nell’ambito delle coeve e correlate iniziative di
Nuova Consonanza. Per le restanti notizie relative allo Studio, mi riferisco a BRANCHI, com. pers. cit.
55 F. KETOFF, com. pers. cit.
44
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
intrattiene un amichevole rapporto di frequentazione,56 è ricordato con affetto particolare da Ennio Morricone, che gli attribuisce il suggerimento iniziale per la sua composizione di Suoni per Dino, per viola e due magnetofoni
dal vivo (1969), per cui Ketoff cura anche la realizzazione tecnica della prima esecuzione;57 e, naturalmente, accanto allo stretto rapporto con John Eaton, lo affianca anche in qualità di performer dal vivo e su disco. 58 Del resto,
che Ketoff non fosse nuovo a salire sul palco, è confermato anche da un gustoso aneddoto di Richard Teitelbaum riguardante una delle movimentate
performance di Musica Elettronica Viva a Palermo nel 1968.59 Fin dalla fine
degli anni Cinquanta, peraltro, l’attività di hobby collaterale di Ketoff consistente nel mettere a punto e riparare i primi sistemi hi-fi, lo aveva portato a
collaborare in varia misura con altri compositori dell’area romana come
Gianfranco Maselli e Mario Peragallo, contribuendo tecnologicamente alle
loro parentesi compositive in ambito elettroacustico.60
Lo SR7, pur nelle mille difficoltà di sopravvivenza in cui si destreggia
nella sua breve vita – le sue attività cessano intorno al 1972-73 – 61 riveste
una straordinaria importanza per la vita culturale romana: da un lato infatti
costituisce un impulso decisivo alla nascita della cattedra d’insegnamento di
musica elettronica del conservatorio, la quale nei primi tempi sarà ospitata
dall’Accademia di S.ta Cecilia per la parte teorica e proprio dallo SR7 per la
parte pratica; dall’altro riesce a porsi finalmente come punto di riferimento
per i compositori dell’area, promuovendo iniziative e mettendo a disposizione di compositori esterni, in un’ottica di condivisione passaggio di conoscenze, competenze e attrezzature. 62 Come indicato nel nome, il nucleo fondato56 A.
e F. KETOFF, comm. perss. citt.
MORRICONE, comunicazione personale, 7 settembre 2009; MICELI 1994, pp. 222225, 362.
58 EATON s.d.; in una locandina dello stesso periodo, Ketoff figura tra i musicisti, e si
parla curiosamente di uno strumento chiamato “synkettino”; cfr. LOCANDINA s.d.
59 «Perhaps my fondest memory of an unexpected “eventuality” of this sort was the MEV concert at
the 1968 Palermo Festival on the night before New Year’s Eve, (with both Cage and Feldman in the
audience). [...] Before the concert, Chiari told me: “Rzewski wants this to end in peace in love, but I
don’t”. Toward the end of the final improv, Chiari began to perform a famous piece of his by repeatedly shouting the word “Luce!” [...] through his electric megaphone. Either by accident or design, this
triggered a wild sequence of events: the people controlling the stage lights abruptly cut them and the
power and turned up the house lights. With his power cut, synthesizer designer Paul Ketoff, who was
doing sound for the concert and had joined in the improv by playing sounds by fast forwarding and
rewinding a 10-inch open reel tape machine at high speed watched helplessly as masses of loose tape
flew all over the control room. Then stagehands started pouring onto the stage, carrying away the
instruments while we were still playing. I’ll never forget Alvin [Curran] swinging a mallet at a set of
tubular orchestral chimes just as they were pulled out from in front of him, so that he hit nothing but
air. It was like a scene of a Marx Brothers movie», TEITELBAUM 2008, pp. 28-29.
60 Cfr. SAVINA, com. pers. cit. (APPENDICE I).
61 TORTORA 1990, p. 57n.
62 BRANCHI, com. pers. cit.
57
45
Maurizio Corbella
re dello studio è costituito da sette persone, cinque compositori e due tecnici:
Walter Branchi, Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Egisto Macchi,
Gino Marinuzzi jr., Guido Guiducci e Paolo Ketoff. Negli ultimi anni di attività sarebbero entrati anche Fiorenzo Carpi, Ennio Morricone e Bruno
Nicolai, tramutando il nome in R10.63
La nascita del nostro studio si può dire che sia la conseguenza, anzi una delle
conseguenze, di più che un decennio di musica elettronica a Roma; la sua
denominazione appunto deriva dalle sette persone che vi hanno concorso
alla sua costituzione […]. Lungi dall’affermare con questo che l’interesse per
la musica elettronica a Roma si esaurisca in questi nomi, cito fra gli altri
Gelmetti, Di Blasio, Clementi, Vlad, Bertoncini, Sifonia, oltre agli americani
che risiedono a Roma, credo che per noi sia stato decisivo il fatto che ci siamo sempre occupati di organizzazione musicale e quindi a un certo momento abbiamo inteso unire le nostre forze, non solo per la nostra attività personale, ma per fornire ai colleghi uno strumento di lavoro, anche se modesto
per ora, che fosse a diretta disposizione.64
Lo SR7 è il frutto dunque di uno sforzo collettivo per unire competenze e
strumentazione con un intento non solo di mero sostentamento economico,
ma anche di ideale convergenza di interessi, pur nell’indipendenza creativa
alla base dei percorsi di ogni compositore:
Accanto allo studio ufficiale della RAI di Milano e a quello di Firenze, di Torino, di Padova, che sono orientati, mi pare, più verso una ricerca pura,
scientifica quasi, noi potevamo un po’ caratterizzarci proprio per gli apporti e
le sperimentazioni personali di tutti noi. Intanto noi abbiamo inteso lasciarci
aperta la possibilità di liberi indirizzi di ricerca e quindi anche estetici in questo senso, perché ciascuno potesse operare secondo il proprio talento; possibilità quindi di dedicarsi alla tape music tradizionale, al nastro quindi, che all’esecuzione dal vivo e perciò per esempio una collaborazione col Gruppo di
Improvvisazione, di cui è animatore Evangelisti, e con la Compagnia del
Teatro Musicale di cui ci occupiamo Macchi ed io. Nonché la formazione di
un’attrezzatura adatta proprio a questo scopo, cioè allo scopo della musica
viva, dal vivo; possibilità inoltre di realizzare musiche d’arte, diciamo, e musiche di consumo, cioè al fine di auto-sostentarsi, privi come siamo di altri aiuti
esterni; e infine il laboratorio per esperienze di elettroacustica e per la costruzione di nuovi apparecchi.65
63 Ibid.
64 GUACCERO
65 Ibid.
46
in MUSICA EX MACHINA-X 1968.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Le radici di questo spirito solidale sono rintracciate da Guaccero in un decennio di sforzi che avevano dato riscontri sul fronte associativo, concertistico e, infine, anche tecnologico. Se da una parte Walter Branchi e Guido
Guiducci avevano qualche anno prima (1964 ca.) costituito il piccolo Studio
di Fonologia di Roma che, con il nominale intento emulativo del modello
milanese, costituisce l’antecedente diretto dello SR7, le radici per Guaccero
risalgono indietro di circa un decennio.66 Proprio in virtù del carattere di
individualità espressiva che contraddistingue i membri fondatori dello SR7,
è necessario operare una distinzione tra il ruolo che il cinema ha in termini
strutturali per la sopravvivenza economica dello Studio, e la possibilità che
esso costituisca una risorsa espressiva per alcuni compositori. In quest’ultima
categoria rientrano senz’altro Marinuzzi e Macchi, mentre non particolarmente interessati al medium sembrano Evangelisti e Guaccero; il caso di
Branchi è, infine, peculiare poiché, pur non essendo particolarmente attivo
come compositore cinematografico, egli ha comunque un rilevante ruolo in
qualità di esecutore esperto del Synket all’interno di colonne sonore di Macchi e Morricone. 67 La tentazione di leggere nell’ingresso di quest’ultimo insieme a Nicolai nello Studio R10 uno spostamento dell’asse delle attività
verso l’ambito cinematografico è in realtà smentita da Morricone stesso, che
ha dichiarato di non essersi mai avvalso dello Studio per finalità cinematografiche, ricordando la sua confluenza nel gruppo degli amici compositori
come un gesto simbolico, «un atto di solidarietà e amicizia verso i miei
colleghi».68 L’attività cine-televisiva è comunque ricordata come una delle
principali fonti di sostentamento, insieme all’affitto a ore per compositori
«Il compositore Marinuzzi, l’ingegner Ketoff ed io siamo quelli rimasti dal gruppo
che diede vita nel ’57 allo Studio dell’Accademia Filarmonica Romana, ma già precedentemente sia Ketoff che Marinuzzi avevano fatto delle esperienze per la produzione di nuove apparecchiature e tape music. Ricordo ancora i contatti avuti nel ‘56 da
Evangelisti e me con Berio e Maderna, che allora avevano costituito lo Studio di Fonologia musicale a Milano, ma già qualche anno prima Evangelisti si occupava in
Italia, e fuori anche, di musica elettronica, poi nel ’56-’57 lavorò allo studio della
radio di Colonia, dove realizzava un pezzo che veniva notato in partitura, ed è il secondo pezzo pubblicato e notato dopo lo “Studio II” di Stockhausen. Successivamente Ketoff e Marinuzzi approfondirono la ricerca per la costruzione di apparecchi
sintetizzatori e così, intorno al ‘60, veniva costruito il Fonosynth che è un sintetizzatore appunto, e pochi anni dopo una nuova apparecchiatura del genere più maneggevole fu progettata e costruita da Ketoff, cioè il Synket. D’altra parte io e Macchi ci
occupavamo del mezzo elettronico usato come musica concreta, viva, dal vivo come
amplificazione di strumenti tradizionali oltre che occuparci di teatro musicale da
camera, come è nel nostro attuale momento. Poi l’anno scorso l’incontro con i più
giovani Branchi e Guiducci, che sono rispettivamente un compositore e un tecnico,
veramente faceva un po’ coagulare queste sparse forze intorno ad un programma
comune»; ibid.
67 BRANCHI, com. pers. cit.
68 MORRICONE, com. pers. cit.
66
47
Maurizio Corbella
esterni, ma, mentre nelle aspirazioni di Domenico Guaccero dovrebbe costituire l’iniziale tappa di un’impostazione organicamente tesa verso uno Studio dotato di caratteri professionalizzanti (dunque inserito commercialmente
nella società) e al contempo votato alla ricerca, il progetto così concepito
non avrà in effetto né tempo né modo di realizzarsi:
L’attività di autogestione dello Studio si è resa possibile in questo primo anno
di vita anche mediante la realizzazione di musiche cine-televisive (ad es. le
musiche composte da G. Marinuzzi per il Dottor Jekyll televisivo con la regia di
Albertazzi). Hanno effettuato ricerche presso lo Studio i compositori Makoto
Shinoara, Benno Amman e Walter Branchi, mentre hanno composto musiche i maestri Branchi, Gelmetti, Grano, Guaccero, Morricone, Macchi, Nicolai ecc. Si aggiungano, infine, le ricerche effettuate dagli ingegneri Ketoff e
Guiducci per apparecchiature particolari per la musica elettronica.69
69 GUACCERO
48
[post-1968], p. 130.
2
Suono organizzato
Risorse elettroacustiche, assetti produttivi e strategie drammaturgiche al cinema
Alla fine degli anni Cinquanta il cinema è tra i protagonisti del “boom” economico italiano.1 Roma è il primo centro europeo di produzione, il secondo
polo internazionale, in costante rapporto di scambio con l’industria hollywoodiana, la quale, complice la crisi giuridico-finanziaria degli Studios,2 sposta parte della produzione proprio a Cinecittà, dando origine alla celebre
espressione “Hollywood sul Tevere”. È dunque abbastanza naturale riconoscere in esso il ruolo di committente principale anche sotto il profilo musicale, per ciò che riguarda il peso economico e la quantità di commissioni. Tuttavia, è bene ricordare la peculiarità del tipo di committenza musicale operata dal cinema, che si differenzia rispetto ad altre tipologie radicate nella
tradizione musicale occidentale. Il cinema, perlomeno quello afferente al
modello produttivo hollywoodiano che si afferma a partire dagli anni Trenta, non richiede al musicista una prestazione in termini di “opus”, secondo il
significato del termine che si è venuto definendo a partire dal Classicismo; il
carattere frammentario ed episodico della collaborazione compositiva all’opera cinematografica è tale che può accadere che l’operato del compositore possa arrivare a non coincidere nemmeno con l’intera componente musicale del film, poiché il regista o il produttore possono decidere di utilizzare
1 cfr.
FARASSINO 2004.
2 Cfr. JOWETT 2004, pp.
206-210; SCHATZ 2004b, pp. 285-293.
Maurizio Corbella
anche musiche pre-esistenti o avvalersi di più compositori; e, d’altra parte,
quand’anche l’apporto del compositore corrisponda alla totalità della musica
del film, il cineasta ha il potere di eliminare, tagliare o rimescolare i numeri
musicali, influendo pesantemente, se non addirittura alterando, il pensiero
creatore originario. Si aggiunga che, nella stragrande maggioranza dei casi,
il compositore è chiamato a intervenire a film girato, ed è pertanto privato
della possibilità di avere un peso nella genesi della strategia drammaturgica.
Ciò costituisce una ragione fondamentale perché, in una tradizione come
quella italiana novecentesca, così legata all’idea di un pensiero musicale assoluto e autosufficiente, stenti a stabilizzarsi uno specialismo musicale cinematografico paragonabile a quello statunitense. Se lo specialismo cinematografico si afferma a partire dagli anni Sessanta come categoria priva dei riconoscimenti sociali e istituzionali e conseguentemente, talvolta, anche delle
qualifiche musicali condivise, è indubbio che ciò contribuisca a un’importante ridefinizione della condizione e del concetto stesso di “composizione” musicale nella società contemporanea.3 La qualifica di compositore, esattamente come quella di “scrittore”, diventa nella pratica cinematografica, così come nelle musiche popular, densa e allo stesso tempo generica, non solo perché
non identifica più necessariamente una figura che ha svolto un iter di formazione istituzionale e si presuppone faccia riferimento a una tradizione di
modelli e pratiche condivise, ma anche perché si misura con un allargamento drammatico, avvenuto all’indomani della rivoluzione fonografica, dell’interesse per l’universo sonoro nei più disparati ambiti disciplinari artistici e
scientifici, che può essere soggetto ad approcci “compositivi” in un senso più
ampio e non strettamente afferente all’idea di musica “d’arte” radicata nella
tradizione occidentale.4 Del resto, che il cinema sonoro, fondato sulla nozione di montaggio visivo, possa rappresentare di per sé un’alternativa all’idea
di composizione musicale occidentale è chiaro in una quantità di casi che
attraversano la sua storia, a partire da Wokonende di Walter Ruttmann (1930)5
fino ad arrivare ad alcune celebri sequenze di Apocalypse Now di Francis Ford
Per quel che riguarda il concetto di specialismo cinematografico cfr. MICELI 2009a,
pp. 348-396.
4 Per un quadro di riferimento storico-teorico sul concetto di composizione, cfr.
BLUM 2001.
5 Film privo della “colonna visiva” nel quale si sussegue un montaggio di soli suoni.
3
50
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Coppola (1979).6 Nuove pratiche, nuove competenze assumono un peso
sempre più determinante nella formazione di un autore di musiche cinematografiche, e allo stesso tempo forgiano nuove figure che mantengono una
relazione problematica con l’universo musicale in senso tradizionale e ridimensionano il peso dell’apporto creativo del compositore all’opera cinematografica.
Di fronte a questo dato si è assistito nei decenni passati a un sostanziale arretramento degli approcci storico-critici italiani nei confronti del suono
cinematografico, prudentemente riparatisi in un atteggiamento di rimpianto
per la constatazione del venir meno del patrimonio di conoscenze anche artigianali che la competenza compositiva in senso stretto ha sempre
implicato.7 Tale punto di vista è sostanzialmente in linea con quello storico
dei compositori “colti” nei confronti del mondo cinematografico e, in un
certo senso, non fa che confermare la dicotomia tra cultura alta e bassa. La
conseguenza principale di ciò è stata la concentrazione su casi indiscutibilmente rappresentativi e di primo piano, come Nino Rota ed Ennio Morricone, verso i quali gli strumenti della musicologia storica trovano ancora appigli relativamente solidi, a scapito di personalità che ponevano maggiori
problemi valutativi, ancor prima che interpretativi; ciò a maggior ragione è
accaduto alle figure che ricoprivano ruoli tecnici nella catena della produzione sonora, tanto che oggi è molto difficile ricostruire un panorama verosimile della storia della post-produzione nel cinema italiano, diversamente
da quanto accade in area statunitense, dove i film studies hanno ormai da una
ventina d’anni cominciato a raccogliere interviste, testimonianze, documenti
audiovisivi, con un senso della preservazione talvolta feticistico e motivato
dal solo interesse delle industrie cinematografiche, ma che sicuramente non
sfocia nella mancanza di materiale di analisi.
La celebre sequenza dell’attacco al napalm è presa spesso a esempio paradigmatico
della pratica del sound design nel cinema contemporaneo: in essa l’attacco degli elicotteri americani a un avamposto vietnamita è realizzato con il supporto della diffusione
tramite altoparlanti della celebre Cavalcata delle Valchirie wagneriana. Si tratta di una
vera e propria composizione audiovisiva di musica, rumori e immagini della cui
“partitura” (in realtà si tratta di un elaborato cue sheet) è possibile osservare un dettaglio riprodotto in ONDAATJE 2002, pp. 240-241.
7 Ma è doveroso constatare che nel corso dell’ultimo decennio si è con sempre più
convinzione tentato un rinnovamento metodologico della disciplina musicologica nei
confronti di fenomeni complessi come quelli cinematografici, innanzitutto aggiornando gli strumenti filologici tradizionali, mettendo in discussione il principio di autorialità delle musiche per film, indagando il complesso campo di sovrapposizione
(sia sociale, che estetica) tra mercato discografico e musica per film, e, infine, sondando con rinnovato interesse “intrecci” audiovisivi messi in atto dal cinema d’autore
italiano, partendo dalla concezione musicale propria dei cineasti. Per un inquadramento di questi problemi, cfr. CALABRETTO 2006.
6
51
Maurizio Corbella
Ciò detto, due indispensabili capisaldi critici come la monografia su
Morricone e il saggio su Rota a opera di Sergio Miceli,8 basterebbero comunque anche da soli a offrire un quadro delle fondamentali questioni metodologiche estensibili all’intero panorama della musica per film italiana, se
è vero che i due compositori più noti del secondo Novecento italiano incarnano nelle loro vicende umane, biografiche e creative, le complesse questioni
(di tipo ideologico, estetico, sociale) che la compenetrazione tra diversi ambiti di pratica musicale porta con sé. Lo sforzo dovrebbe essere quello di non
considerare tali casi quali unica illustri, exempla sul modello di una storiografia
dei “grandi nomi”, semmai di addentrarsi in quella oscura selva che è stata,
con una troppo frettolosa classificazione basata su schemi estetico-critici ereditati dalla tradizione ottocentesca, identificata come “musica applicata” fin
dai protagonisti di quella stagione. Le connotazioni di marginalità che questa categoria porta con sé, sia in termini di rilevanza estetica (contrapposta
alla produzione “maggiore” di un compositore), sia in termini di occorrenza
(è una musica “d’occasione”, che implica tempo e impegno minori), non devono distogliere l’attenzione dal fatto (rilevato proprio da Miceli) che proprio
nella musica “applicata” si manifestano quei caratteri di sincretismo e di
eclettismo, di superamento delle barriere socio-culturali, così fondanti le pratiche musicali occidentali del XX secolo, che necessiterebbero per quel che
riguarda il contesto italiano di un attento approfondimento (con relativa riscoperta di figure significative quali Fiorenzo Carpi, Gino Negri, Bruno Nicolai ecc.).9
Proprio l’avvento delle pratiche elettroacustiche contribuisce a un ulteriore ampliamento del concetto di composizione per almeno due ragioni: 1)
la competenza elettroacustica non è strettamente musicale, ma può avere
vari ambiti di specializzazione di matrice teorica o tecnologica – ne deriva
che una composizione di suoni elettroacustici non è automaticamente una
composizione musicale, cioè presupponente un pensiero organizzativo di
tipo musicale; 2) in ambito cinematografico la pratica elettroacustica si
estende a coprire, o perlomeno a implicare, anche quegli ambiti produttivi
che tradizionalmente non sono contemplati dalla scrittura musicale per film,
vale a dire parola e rumori. I due aspetti finiscono per intrecciarsi nel sollevare una questione di rilevanza cruciale ai fini del presente lavoro: il cinema
accoglie e, in alcuni casi, genera pratiche di sintesi ed elaborazione del suo8 1994
e 1982.
«Tutto ciò [...] si traduce in musica nell’annullamento delle gerarchie con la conseguente affermazione dei sincretismi, delle mescolanze stilistiche e del citazionismo,
inteso quest’ultimo come ammiccamento o dimensione metamusicale; senza contare
il ricorso alla musica concreta ed elettronica e il contributo sempre più determinante
di sorgenti riprodotte»; MICELI 2009a, p. 349.
9
52
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
no ma le volge a finalità che si incontrano a fatica, quasi sempre generando
frizioni più o meno implicite, con le modalità attraverso le quali queste pratiche si vanno sviluppando nell’ambito delle esperienze musicali coeve; alla
base di queste frizioni c’è un’irriducibilità di fondo nel modo di percepire e
concepire il suono tra i due mondi cinematografico e musicale, che ha ripercussioni sulle modalità della sua organizzazione.
Tale irriducibilità costituisce grosso modo il punto di partenza dal quale lo studioso americano Douglas Kahn muove per ricostruire nella sua opera una storia del suono nel pensiero e nelle arti occidentali a partire dal Modernismo di inizio XX secolo fino alle più recenti esperienze.10 Chiedendosi
se sia possibile un percorso organico all’interno delle molteplici manifestazioni del suono nelle arti, egli parte dal presupposto che nel secolo scorso
«malgrado la pervasività culturale del suono, non ci furono pratiche artistiche all’infuori della musica identificate primariamente con l’auralità»,11 pur
essendoci stato un buon numero di artisti non compositori che avevano posto il suono a fondamento delle proprie poetiche: Marcel Duchamp, Antonin
Artaud, Dziga Vertov, Piet Mondrian, William Burroughs, Jack Kerouac, per
citarne alcuni.
Non c’è una storia di un’arte autonoma e auto-descriventesi nella maniera in
cui si potrebbe pensare alla storia della scultura, non un prospetto dotato di
unità di propositi e continuità lineare, non un processo di intrecci biografici e
scambi di influenze “libidinali”. Come oggetto Storico, il suono non è in grado di fornire una buona storia o un sistema di personaggi coerente, né può
supportare alcuna surrogata nozione di progresso o di maturità generazionale. La sua Storia è dispersa, sfuggente e fortemente mediata – è un oggetto
povero quanto lo è il suono stesso sotto ogni altro punto di vista.12
In questo contesto di dispersione, il pensiero musicale occidentale è stato
l’unico “sistema” in grado di conferire organicità alle riflessioni sul suono,
persino laddove esse apparivano come minacce radicali alle proprie fondamenta; la “strategia” dell’avanguardia da Russolo a Cage fu quella di portare progressivamente all’interno dell’universo musicale le nozioni di rumore e
10 KAHN
1992; 1999.
despite the cultural pervasiveness of sound, there was no artistic practice outside music identified primarily with aurality»; KAHN 1992, p. 2.
12 «There is no history of a self-described and autonomous art in the way one might think of the
history of sculpture, no facade of a purposeful unity and linear continuity, no ongoing biographical
intrigues and libidinal exchanges of influence. As a historical object, sound cannot furnish a good
story or consistent cast of characters nor can it validate any ersatz notions of progress or generational
maturity. The history is scattered, fleeting, and highly mediated it is as poor an object in any respect
as sound itself»; ibid.
11 «[...]
53
Maurizio Corbella
di extra-musicale, con l’intento di rinnovare e rivoluzionare la pratica
compositiva. 13 Conseguentemente però il suono dovette subire un processo
di astrazione e intellettualizzazione, definito da Kahn musicalization, per conformarsi a nozioni di “sonicità”, vale a dire «idee di un suono spogliato dei
suoi attributi associativi, minimamente codificato e situato in stretta prossimità con la percezione “pura”, distante dai contaminanti effetti del
mondo».14 A differenza del pensiero musicale, altre discipline artistiche tra
cui il cinema svilupparono percorsi alternativi, benché meno sistematici, addensando sul suono, all’indomani della rivoluzione fonografica, tutte le connotazioni culturali, gli effetti contaminanti del mondo, riassunti nell’espressione intraducibile worldliness:
Il cinema, al contrario, fu più conciliante e meno difensivo. Non solo il film
sonoro era una forma di fonografia, ma cinema e fonografia condividevano
la discendenza da Thomas A. Edison. I precedenti del cinema erano anche
bene collaudati per quel che riguarda le tecniche mimetiche. Esso si era sviluppato dal teatro e dalla fotografia, e certe tendenze del montaggio cinematografico trovarono il loro sviluppo oltre il naturalismo del teatro fotografato.
Il cinema in più forniva un ampio modello per le pratiche artistiche che cercavano di operare nel nuovo mondo della tecnologia. Quando i principi del
montaggio furono applicati all’interno del contesto del film sonoro a-sincronico, il suono – una volta che fu più non legato direttamente alle immagini
visive, al dialogo, alla storia – fu capace di esistere in una relazione più complessa con esse. 15
Ecco in cosa consiste la frizione tra “suono organizzato” da una logica musicale e altri principi di organizzazione, come quella mimetica del cinema
«Even this century’s most noted radical attacks upon music – conducted, as they were, under the
sign of noise and sound – ultimately returned to music. [...] The main avant-garde strategy in music
from Russolo through Cage quite evidently relied upon notions of noise and worldly sound as “extramusical”; what was outside musical materiality was then progressively brought back into the fold in
order to rejuvenate musical practice»; ivi, p. 3.
14 «But for a sound to be “musicalized” in this strategy, it had to conform materially to ideas of
sonicity, that is, ideas of a sound stripped of its associative attributes, a minimally coded sound existing in close proximity to “pure” perception and distant from the contaminating effect of the world»;
ibid.
15 «Cinema, on the other hand, was more amenable and less defensive. Not only was film sound a
phonographic form, but cinema and phonography shared parentage by Thomas A. Edison. The
precedents of cinema were also well rehearsed in mimetic techniques. It had grown from theater and
photography, and certain trends of cinematic montage went one better by developing beyond the naturalism of “photographed theater”. Cinema also provided an ample model for artistic practices that
sought to work within the new world of technology. When the principle of montage were applied
within the context of asynchronous sound film, sound – once it was no longer tied directly to visual
images, speech, and story – was able to exist in a more complex relationship with them», KAHN
1999, p. 11.
13
54
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
narrativo. Naturalmente siamo nell’ambito di una generalizzazione – alle cui
estreme polarità potremmo esemplificativamente porre l’esperienza elettronica post-darsmtadtiana e il mainstream hollywoodiano dei coniugi Barron di
Pianeta proibito, 16 nella consapevolezza della varietà di esperienze intermedie
dai contorni più sfumati – che pur tuttavia illumina di luce nuova i numerosi
atti di sfiducia e di incomprensione riservati al mondo cinematografico da
parte dei compositori delle seconde avanguardie, immersi nel clima ideologico degli anni Sessanta, in alcuni casi protagonisti di atteggiamenti comprensibilmente dissociati (celebre l’immagine del Giano bifronte utilizzata da
Miceli in relazione a Ennio Morricone).
A ben vedere, la stessa distinzione tra musica applicata e musica pura
invocata precedentemente, tornata così decisamente alla ribalta con il fiorire
delle musiche elettroacustiche all’indomani del secondo conflitto mondiale,
non è altro che una strategia esplicativa con cui i compositori impegnati sul
fronte di una riflessione musicale “assoluta”, in dialogo sovente acceso con la
tradizione, giustificano le contingenze delle sonorizzazioni radiofoniche o
cinematografiche a loro richieste per motivi di committenza. È, per così dire,
una reazione storicamente comprensibile a una frattura interna al proprio
ruolo nella società, accentuatasi ancor di più nel momento in cui il mondo
del cinema dispone degli stessi strumenti di elaborazione del suono propri
delle avanguardie (è quanto si verifica in area romana, come ho sufficientemente illustrato nel CAPITOLO 1). La costernazione sempre più frequente
con cui i compositori si dolgono del fatto che i mezzi tecnologici mettono a
disposizione di figure non dotate di alcuna competenza musicale soluzioni di
sempre più facile realizzazione, lo “spauracchio” dell’improvvisazione a effetto, ribadite con frequenza costante da pressoché ogni compositore impegnato nel dibattito cinematografico, rappresentano la lenta presa di coscienza di uno iato sempre più incolmabile tra la tradizione musicale occidentale
e i “fatti del mondo” così come essi vengono affrontati da discipline in possesso di una maggiore capacità di diffusione nell’ambito del pubblico generalista, prime fra tutte la letteratura, il cinema e le musiche popular. Di fronte
a questo iato, accanto a un atteggiamento di ascetico o polemico distacco, se
16 Forbidden Planet (r. Fred Wilcox, 1956) è una sorta di trasposizione/parodia fantascientifica della Tempesta shakesperiana, primo film hollywoodiano che presenta una
colonna sonora interamente elettronica preparata da Louis e Bebe Barron, due compositori attivi nei primi anni Cinquanta in area newyorchese e trasferitisi a Hollywood in cerca di fortuna professionale. Il film è diventato l’emblema dell’utilizzo a
fini commerciali delle acquisizioni dell’avanguardia musicale da parte dell’industria
cinematografica, attirando verso di sé critiche spesso feroci da parte di musicologi e
compositori. D’altra parte è diventato un cult movie per gli appassionati del genere e
anche l’opera compositiva è stata in anni recenti fortemente rivalutata in ambito
musicologico; tornerò ampiamente su questo film nel corso del CAPITOLO 3.
55
Maurizio Corbella
ne riscontra uno più pragmatico che, seppure con un certo ritardo, porta i
compositori italiani a confrontarsi spesso in maniera comprensibilmente
conflittuale con il mondo del cinema, facendo proprio l’invito lungimirante
di Roman Vlad:
[...] a convincere i migliori compositori contemporanei a non disertare del
tutto il campo del cinematografo dovrebbe essere più che lo stimolo materiale
appunto la coscienza di poter contribuire a rialzare il livello di un genere di spettacolo
come il film il quale, che lo si voglia o no, ha una parte tanto preminente nella
vita moderna ed esercita un enorme influsso sul gusto delle grandi masse.17
Dal nostro punto di vista, analizzare il confronto tra mondo della produzione sonora e compositori provenienti dal campo della ricerca elettroacustica
significa valutare in atto campi di forza facenti capo a progetti espressivi differenti, non sempre o non necessariamente in sintonia. Sia chiaro che dalla
mia prospettiva la presenza di tali dinamiche non può che essere una ricchezza che, pur ponendo problemi esegetici di difficile risoluzione, restituisce
il grande fascino di una stagione cinematografica inesauribile sotto il profilo
delle soluzioni espressive.
Il terreno di analisi su cui è possibile verificare tali questioni è costituito nel caso italiano da una varietà eterogenea di manifestazioni che, sebbene
non eclatante a livello numerico, è abbastanza frequente e trasversale (investe cioè uno spettro di produzione che va dal film di cassetta al cinema
d’avanguardia, attraverso il cinema d’autore e la televisione) da permetterci
di individuare negli anni Sessanta una stagione di interesse del cinema nei
confronti delle novità elettroacustiche della sperimentazione musicale romana: i due pionieri dell’elettronica a Roma, Gino Marinuzzi jr. e Paolo Ketoff,
dedicano gran parte della loro esistenza professionale e creativa al cinema
maturando l’invenzione del Fonosynth e del Synket, i due sintetizzatori intorno ai quali si articola buona parte delle ricerche elettroacustiche della capitale (cfr. CAPITOLO 1); Egisto Macchi, una delle presenze più significative e
influenti della musica romana, è autore di colonne sonore di migliaia di cor-
17 Enfasi dell’autore. Prosegue Vlad: «Certo bisognerebbe che un musicista al quale
viene commissionata la musica per un film fosse messo effettivamente in condizioni
di poter lavorare seriamente, che non gli si chiedesse di sfornare la sua partitura in
quattro e quattr’otto, costringendolo con ci a tirar via, che non gli si desse insomma
l’impressione di considerar la musica come un riempitivo, come l’ultima ruota del
carro, della quale intanto nessuno parlerà, perché a parte qualche rarissima eccezione, i critici cinematografici la passano sotto silenzio, togliendo con ci al compositore
anche la possibilità di una soddisfazione momentanea, poiché un riconoscimento a
lunga scadenza da escludersi in partenza, dato il brevissimo ciclo vitale del lavoro
cinematografico al quale tale musica è legata»; VLAD 1953, p. 16.
56
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
tometraggi18 e decine di lungometraggi, avendo dedicato una lunga fase
della sua carriera compositiva (1968-1980) esclusivamente alla musica per
film e televisione, ed essendo responsabile tra l’altro di un ruolo decisivo nella nascita del documentario etnografico italiano attraverso la sua intensa collaborazione con i registi Luigi Di Gianni, Cecilia Mangini e Michele Gandin; Ennio Morricone, il più celebrato compositore di musica per film italiano, stabilisce con il medesimo clima d’avanguardia un rapporto articolato e
complesso, le cui ricadute in entrambi i campi sono state a lungo discusse.19
Se poi si scende sotto il livello delle evidenze per scavare un po’ più a fondo
nelle collaborazioni tra registi cinematografici e protagonisti della neoavanguardia romana, il numero di casi aumenta, concretizzandosi in alcuni episodi estremamente interessanti: Michelangelo Antonioni ricorre per due volte (tre, se si include l’incipit della Notte con musiche elettroniche di Giorgio
Gaslini) a collaborazioni con musicisti coinvolti in sperimentazioni elettroacustiche – Vittorio Gelmetti per Il deserto rosso e MEV per Zabriskie Point;
l’utilizzo di musica ed effetti elettroacustici da parte di Federico Fellini nella
parabola che va dalla Dolce vita a Satyricon è fondamentale per delineare i
contorni della drammaturgia del suono messa in atto dal regista nel corso
degli anni Sessanta; il sodalizio tra Elio Petri e Morricone trova una via musicalmente sperimentale in Un tranquillo posto di campagna, in cui viene coinvolto il GINC, che conta peraltro un’altra collaborazione cinematografica di
minor conto; Marco Ferreri, nel Seme dell’uomo, attinge direttamente a una
composizione di Richard Teitelbaum (MEV) che può essere considerata
emblematica del clima di fermento culturale del Sessantotto; una delle più
importanti esperienze dell’avanguardia cinematografica italiana, quella di
Romano Scavolini, si muove in direzione di un linguaggio audiovisivo integrato, privo di gerarchie tra suono e immagine, avvalendosi delle collaborazioni di Vittorio Gelmetti (A mosca cieca) ed Egisto Macchi (La prova generale).
Nel cinema italiano del periodo in esame, così come in quello internazionale, è possibile affrontare la questione del suono elettroacustico da due
diverse angolazioni: la prima considera la parabola di utilizzo dei due sintetizzatori romani, il Fonosynth e il Synket, come risorsa sonora che i compositori per film accolgono progressivamente nelle loro partiture; la seconda
punta a rintracciare, nell’ambito dell’utilizzo di materiale elettronico e di
A testimonianza di come il campo di ricerca in questo senso sia quasi vergine dal
punto di vista della ricerca, sta il fatto che Daniela Tortora segnala circa 1500 cortometraggi (cfr. TORTORA 1996), mentre la biografia di Macchi reperibile sul sito di
Nuova Consonanza parla di più di 3000
(<http://www.nuovaconsonanza.it/storia_pages/soci_fond/macchi_e.html>,
consultato Luglio 2009).
19 Cfr. MICELI 1994, in particolare pp. 173-194, 307-348.
18
57
Maurizio Corbella
pratiche di manipolazione elettroacustica del suono, dinamiche di rottura o
rinnovamento della struttura produttiva del suono cinematografico, mediante la messa in discussione della tradizionale partizione (drammaturgica e
procedurale) in dialoghi, musica e rumori. Tale doppia angolazione corrisponde alla struttura secondo la quale è impostata la parte restante di questo
capitolo. Nei prossimi due paragrafi mi dedicherò a illustrare come i due
sintetizzatori romani si inseriscono gradualmente nella prassi compositiva
cinematografica fino a diventare con il Synket una vera e propria estensione
dell’orchestra che aprirà la strada all’uso del Moog negli anni Settanta, ripercorrendo in particolare i poco noti passaggi cinematografici della carriera
compositiva di Gino Marinuzzi jr. La parte finale del capitolo cercherà invece di inquadrare le principali problematiche che le risorse elettroacustiche
pongono sotto il profilo organizzativo delle fasi di creazione del suono per
una pellicola, rilevando le ricadute di tipo estetico-drammaturgico. Verranno quindi ricapitolati i tratti fondamentali della interessante, anche se in un
certo senso isolata, posizione rappresentata da Vittorio Gelmetti proprio nell’ambito delle riflessioni sul cambiamento del ruolo del compositore nella
dinamica cinematografica, sulla base delle acquisizioni elettroacustiche.
Sia che si tratti di simulare comportamenti sonori ambientali I. Fonosynth e Synket come
(naturali o urbani) sia che si tratti, simbolicamente, di rappre- estensioni dell’orchestra
sentare condizioni psicofisiche, Fonosynth e Synket sembrano
assolvere i propri compiti almeno finché non vengono soppiantati da sintetizzatori di più recente generazione, quali il Moog o l’Arp
2600. Il principale limite di questi «geniali strumenti antidiluviani», 20 come
li definisce Egisto Macchi, è così riassunto dal compositore grossetano: «avevano una grande difficoltà d’uso e alcuni limiti: se chiedevi una frequenza
precisa non te la sapevano dare (il più o meno è grave in elettronica)».21 La
stessa difficoltà mi è stata ribadita in un recente colloquio da Walter Branchi,22 ai tempi il più esperto interprete italiano di Synket, anche se tale informazione sarebbe da completare aggiungendo che il Synket, perlomeno
nel modello personalizzato di John Eaton, permetteva di eseguire scale microtonali e dunque di ottenere con una certa accuratezza le frequenze, a
prezzo naturalmente di un notevole lavoro di preparazione preliminare: le
numerose composizioni di John Eaton per il sintetizzatore sono lì a
20 MACCHI
in GADDI 1993, p. 153.
21 Ibid.
22 Com.
58
pers. cit.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
dimostrarlo.23 Ciò detto, l’utilizzo di tali strumenti a fini cinematografici verrà raramente indirizzato verso soluzioni “melodiche”, bensì a ricoprire ruoli
di bordone, ostinati ritmici o atmosfere ed episodi bruitistici, in sintonia
dunque con una funzione genericamente “d’atmosfera”. Dalla vasta gamma
di funzioni musicali e sonore che i due sintetizzatori romani possono ricoprire discende la difficoltà di quantificare la loro presenza nel cinema di quel
periodo. L’estrema verosimiglianza con cui il Synket è infatti in grado di riprodurre suoni naturalistici ed effetti bruitistici, lo rende facilmente mimetizzabile all’interno delle colonne sonore, legittimando il sospetto che esso sia
più diffuso di quanto le testimonianze non confermino.
L’unico esemplare di Fonosynth, di proprietà di Gino Marinuzzi jr., è
nella prima parte degli anni Sessanta legato quasi esclusivamente all’attività
cinematografica di quest’ultimo, anche se proprio tale attività sembra “sconfinare”, come mostrerò fra un attimo, in territori nei quali il compositore di
nascita newyorchese non è accreditato; quando entra finalmente a far parte
dell’equipaggiamento dello Studio R7 (1968) il Fonosynth è uno strumento
già datato. Prima di ciò, come sappiamo, il Fonosynth è a lungo ubicato alla
Fonolux e non c’è ragione di dubitare che Paolo Ketoff vi facesse ricorso in
alcune delle sue sonorizzazioni.
L’indagine sui sintetizzatori romani apre sorprendentemente uno spiraglio su un aspetto oscuro e in larga parte insondabile della post-produzione italiana, vale a dire la presenza di figure non accreditate che mettono le
loro competenze riguardo a strumenti o risorse sonore inusuali al servizio
della lavorazione di film in cui non sono coinvolti come compositori. Riallacciandoci a quanto scritto nel CAPITOLO 1 riguardo all’importanza dei
luoghi per la musica elettronica, dobbiamo in via preliminare ipotizzare che
coloro che possiedono la padronanza dei mezzi elettronici divengano punti
di riferimento per l’intero ambiente cinematografico degli anni Sessanta.
D’altronde, che tale ambiente celi una grande circolazione di personalità
“invisibili” da un film all’altro è un fatto che non stupisce più di tanto: in un
contesto sottoposto a forti pressioni commerciali, in cui il tempo concesso
alla post-produzione è spesso limitato, e ancor di più lo sono i budget per la
parte sonora,24 è più che verosimile che l’utilizzo di alcune soluzioni sonore
o di strumenti musicali poco diffusi sia appannaggio delle poche figure in
È stata recentemente pubblicata una raccolta di incisioni degli anni Sessanta di
musiche di John Eaton per Synket e Moog: John EATON, First Performances. The Syn-Ket
and the Moog Synthesizer in the 1960, cd, 056, EMF, 2007.
24 Ricorda Federico Savina come non fosse infrequente che i compositori non venissero pagati direttamente dalle produzioni, ma dagli editori musicali alle quali le produzioni si rivolgevano; com. pers. cit.
23
59
Maurizio Corbella
grado di garantire realizzazioni di efficacia immediata; 25 un confronto con la
situazione hollywoodiana coeva può aiutarci a chiarire quanto le nuove risorse tecnologiche impongano comportamenti analoghi anche altrove: la
terza generazione di compositori hollywoodiani (comprendente Jerry Goldsmith, Lalo Schifrin, Johnny Mandel, Maurice Jarre, ecc.) fa affidamento per
più di un decennio sullo studio E=Mcs (acronimo di Elektron=Muzics) diretto da Paul Beaver, il quale si dota di una serie di strumenti elettronici e proto-elettronici di cui è virtuoso interprete (tra cui gli Hammond Novachord e
Solovox, gli storici Thomas Organ, Mellotron, Theremin, Ondes Martenot
con varie modifiche e personalizzazioni, prima di acquisire sul finire degli
anni Sessanta il Moog). 26 Così come Jerry Goldsmith in alcuni autografi indica esplicitamente il nome di Beaver a fianco al rigo del sintetizzatore, John
Eaton viene chiamato in qualche occasione a improvvisare in pellicole musicate da Roman Vlad;27 allo stesso modo Ennio Morricone ed Egisto Macchi
tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta utilizzeranno in orchestra il medesimo sintetizzatore suonato da Walter Branchi.28 Le testimonianze da me raccolte concordano nell’affermare che Marinuzzi e Ketoff fossero
per il mondo cinematografico romano sinonimi di elettronica così come lo
Studio di Fonologia lo era per quello milanese radiofonico e televisivo;29 ciò
non è documentabile se non a livello aneddotico, ma avvalorato da più di
una testimonianza: Roman Vlad conferma che Ketoff e Marinuzzi fossero
interpellati ogni qualvolta a Roma ci fosse bisogno di soluzioni sonore “insolite”; Savina trova più che plausibile che Marinuzzi fosse raggiunto telefonicamente dal caro amico Nino Rota quando c’era bisogno di interventi elettronici:
Credo che Rota abbia chiamato Marinuzzi in molte occasioni. Non saprei
dire le circostanze specifiche. Queste necessità nascevano in maniera estemporanea. Io lavoravo in studio quindi ricordo se certe esigenze si manifestavano durante la registrazione o il mixaggio della musica, mentre se capitavano in altri momenti si andavano a realizzare da qualche parte. A poco a poco
nacquero i primi piccoli studi, Marinuzzi da un certo momento in avanti ebbe il Synket, poi arrivò il Moog, inoltre c’erano anche altri compositori come
Il discorso non vale soltanto per la musica elettronica, pensiamo alla frequenza con
cui si ritrova nelle musiche per film di quel decennio la voce di Edda Dell’Orso, il
coro dei Cantori Moderni di Alessandroni, quest’ultimo divenuto celebre anche per
il distintivo timbro del fischio, vero e proprio emblema sonoro dello spaghetti-western.
26 Cfr. SHERK 2004.
27 VLAD, comunicazione personale, 2 aprile 2009; EATON, com. pers. cit.
28 BRANCHI, MORRICONE, comm. perss. citt.; cfr. MICELI 1994, pp. 160 e 249.
29 VLAD, SAVINA, comm. perss. citt.
25
60
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
[Marcello] Giombini, che nei suoi film ha sempre usato risorse elettroniche, o
[Bruno] Nicolai, che era esperto di organo Hammond, sapeva sfruttare i
suoni vibrati e la sua riverberazione interna: se tutto va bene molti effetti dei
film di Fellini sono fatti con l’Hammond. Molti erano diventati trucchetti che
si usavano per i sogni, tipo suoni al rovescio, effetti d’eco ecc. All’inizio erano
tutti esperimenti, ti telefonava Marinuzzi e ti diceva: «ho bisogno di un suono
che faccia così...», poi sono arrivati i pulsanti che facevano le stesse cose, allora il fascino si è un po’ polverizzato.30
Alla luce di tali considerazioni acquista un certo fascino l’ipotesi, pur priva
di conferme documentarie, che dietro gli inserti elettronici di 8 ½ e Giulietta
degli spiriti di Federico Fellini vi sia la mano di Gino Marinuzzi jr.:31 dopo un
attento ascolto comparato, infatti, pare di riscontrare la “pasta sonora” distintiva del Fonosynth – ma su questo argomento non ci sono al momento
elementi probanti, nonostante sia emerso nelle mie ricerche un clima di
stretta frequentazione tra Rota e Marinuzzi.32 Per il momento ho comunque
rilevato un dato significativo e finora inedito che, seppure non ci dice nulla
sulla presenza marinuzziana nei corridoi delle produzioni felliniane, ci rivela
invece il suo contributo al Giudizio universale di Vittorio De Sica (1961), con
musiche di Alessandro Cicognini, come compositore delle sonorità elettroniche che accompagnano il giudizio di Dio prima che sfoci nella Ninna nanna
per un negretto di Cicognini: i nastri, depositati in SIAE con il titolo Elettronica
Giudizio ABCDE (dove le lettere indicano i cinque momenti narrativi in cui si
divide il “processo” divino), sono attribuiti a entrambi i compositori. 33 Il
timbro e le opzioni articolatorie del Fonosynth sono facilmente riconoscibili
e denunciano chiaramente la parentela con altri utilizzi nelle pellicole marinuzziane, come il coevo Ercole alla conquista di Atlantide (1961) o Terrore nello
spazio e La mandragola (entrambi del 1965).
A questa prima fase, in cui i sintetizzatori sono utilizzati come attrezzature da studio, assolvendo funzioni di sonorizzazione distinte dall’incisione
30 SAVINA,
com. pers. cit.
In particolare mi riferisco a quelli da me categorizzati con le lettere f, g, j, l nella
tavola sinottica dedicata al repertorio felliniano, cfr. CAPITOLO 4.VI.
32 Come risulta da alcuni contratti rinvenuti nell’abitazione di Marinuzzi, i due compositori sono cofirmatari di due film degli anni Settanta: Sunset, Sunrise (Hi wa shizumi,
hi wa noboru, r. Koreyoshi Kurahara, 1973) e della miniserie televisiva Alle origini della
mafia (r. Enzo Muzii, 1976); cfr. MARINUZZI–ROTA [ante-1973], 1975.
33 Archivio Opere Musicali della Siae,
<http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali>, consultato settembre 2009. Tra Marinuzzi e Cicognini vi era un’intensa amicizia (anche professionale, sancita dalla
doppia firma sulle musiche del film Il maestro di Don Giovanni, r. Milton Krims – Vittorio Vassarotti, 1954), rinforzata dal fatto che in una fase degli anni Cinquanta il primo operava in un piccolo studio in via Margutta vicino all’abitazione del secondo; A.
M. MARINUZZI, com. pers. cit.
31
61
Maurizio Corbella
musicale, segue una seconda che inizia sul finire degli anni Sessanta, in cui il
Synket, per via delle sue dimensioni portatili che rivoluzionano l’approccio
all’elettronica cinematografica, viene inserito nell’organico orchestrale. L’antecedente diretto è rappresentato dal Concert Piece for Syn-Ket and Symphony Orchestra di John Eaton (1966), in cui il sintetizzatore assurge a livello di strumento solista. Non altrettanto in evidenza esso sarà nella ventina di partiture
cinematografiche di Ennio Morricone, tra i quali vanno annoverati la prima
“trilogia” di Dario Argento 34 e quello che forse rimane l’esempio più significativo di questa seconda fase di utilizzo del Synket, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971):35
La caratteristica più evidente de La classe operaia è una sorta di bruitismo che
si organizza gradatamente in forma musicale, coesistendo, nello svolgersi del
pezzo, con gli altri strumenti dell’orchestra [...].
Morricone interpreta un rapporto uomo/macchina a cui contribuisce il Sinket [sic] di Paolo Ketoff [...] che dall’esordio del pezzo si incarica di dar voce
alla Fresa e alla Pressa (così definite in partitura). La meccanicità [...] pare
filtrata attraverso l’esperienza globale della condizione operaia, producendo
una musica greve e violenta, rozza e caparbia, che riecheggia in modo
straordinario non solo i rumori della fabbrica ma l’insieme dei suoni/rumori
prodotti da quel modello di società, un modello a cui la fabbrica stessa, in un
circolo vizioso, contribuisce: le moine del jingle televisivo accanto all’aggressività dello slogan politico; l’urlo disarticolato – orgasmico o di scherno: l’identificazione mi pare legittima – accanto ai rumori fisiologici.36
Il Synket viene suonato in orchestra da Walter Branchi, al quale Morricone
spiega dettagliatamente gli effetti desiderati. Questa procedura si ripete per
tutte le incisioni morriconiane che includono quel sintetizzatore37 e parimenti si riscontra nei film di Egisto Macchi. Con l’inserimento in orchestra
L’uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971), 4 mosche di velluto grigio
(1971).
35 È al momento impossibile e forse non del tutto significativo ricostruire per intero
l’elenco dei film morriconiani in cui compare il Synket. Mi limito tuttavia a segnalare
una discrepanza tra la testimonianza di Ennio Morricone rilasciatami e quanto riportato da Sergio Miceli (1994 e 2009b) riguardo alla presenza del Synket in due film
rilevanti come Giù la testa e Sacco e Vanzetti, dal musicologo rintracciata sulle partiture
autografe, mentre smentita dal compositore. A parte la possibilità di un comprensibilissimo errore di memoria, non è da escludere l’eventualità (suggeritami dallo stesso
Miceli) che la registrazione finale non corrispondesse nell’organico a quanto prescritto in partitura; è infatti tutt’altro che infrequente che si opti all’ultimo minuto per
soluzioni di scrittura o addirittura di timbro che si verificano essere più efficaci sul
momento.
36 MICELI 1994, pp. 248-249.
37 BRANCHI, MORRICONE, comm. perss. citt.
34
62
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
del Synket si assiste a un procedimento di integrazione tra musica e rumore
che è caratteristico non solo del modo di procedere morriconiano, ma di una
tendenza che possiamo definire tipicamente italiana, che ha il suo antecedente principale in Mario Nascimbene,38 e che trova proprio all’inizio degli
anni Settanta le cristallizzazioni più significative. La scrittura orchestrale che
procede per strappi bruschi dotati sì di carattere percussivo, ma spesso connotati grazie alla presenza di elementi bruitistici (non necessariamente sintetici) da rimandi extra-musicali facilmente riconducibili alla tematica fondamentale del film, diventa cifra stilistica tesa a distillare in termini musicali la
“scomodità” che caratterizza gli argomenti trattati dalle pellicole; non solo
dunque le macchine industriali in La classe operaia, ma anche la mitragliatrice
in Gott mit uns (m. Morricone, 1969) a evocare lo spettro della fucilazione dei
due protagonisti disertori, o il rombo d’auto in Il delitto Matteotti (m. Macchi,
1972) con il suo rimando all’omicidio del politico socialista avvenuto appunto in un’autovettura: tali interpolazioni nella scrittura orchestrale di un paesaggio sonoro reso allegorico dal pensiero compositivo concorrono a una
resa insieme enfatica e al contempo stilizzata della realtà contemporanea.
Con l’ingresso del Synket in orchestra il sintetizzatore diventa a tutti
gli effetti uno strumento musicale, e la maggiore maneggevolezza e diffusione di macchine come il Moog – all’indomani dell’esperienza allo SR7/R10,
Ennio Morricone, Egisto Macchi e Bruno Nicolai fonderanno nei primi anni
Settanta, insieme con Fiorenzo Carpi, lo studio M4 che annovera la macchina americana nel suo equipaggiamento 39 – si concreta in una grande diffusione di musiche per film che sfruttano le nuove gamme timbriche (si veda
per esempio l’opera dei Goblin o di Marcello Giombini), ma che, allo stesso
tempo, neutralizza le potenzialità che l’elettronica aveva rivestito in quanto
ridefinizione del suono cinematografico. Del resto è lo stesso Ennio Morricone ad avermi precisato che in nessun caso egli ha inteso le risorse del Synket in qualità di elemento di contatto con le altre fasi della post-produzione
sonora, bensì esclusivamente come estensione delle risorse compositive. È un
punto di vista molto distante da quanti, come per esempio Vittorio Gelmetti,
hanno teorizzato invece l’assunzione da parte del compositore di tutte le responsabilità sonore del progetto filmico.
Ricordiamo tra i tanti esempi le quattro macchine da scrivere in Roma ore 11
(1951), le frustate in Barabba (1961), il ronzio della macchina da presa nella sequenza
finale del Processo di Verona (1963), o l’“apoteosi” bruitistica di Un milione di anni fa
(1966); cfr. NASCIMBENE 2002, p. 63 e segg.
39 BRANCHI, com. pers. cit.; Daniela Tortora sottolinea come in realtà lo studio non
fu mai avviato in quella forma; 1996, pp. 202-203.
38
63
Maurizio Corbella
Prima però di occuparmi del punto di vista rappreII. Tra rigore e gioco. Gino Marinuzzi jr.
sentato da Vittorio Gelmetti e da quanti (compositocompositore per il cinema e la televisione
ri, cineasti, video-artisti) intuiscono nelle risorse elettroacustiche un potenziale sovvertimento dell’ordine
e del trattamento delle componenti sonore nel contesto audiovisivo, vorrei
soffermarmi sulla figura che più di tutte a mio modo di vedere rappresenta
lo spirito con cui l’elettronica si radica nel cinema italiano tra la fine degli
anni Cinquanta e i primi anni Settanta, non foss’altro perché ne è uno dei
principali artefici e conoscitori: Gino Marinuzzi jr. Di lui molto si è già detto
nelle pagine precedenti, ma è giunto il momento di provare a fornire un inquadramento di una personalità per molti versi difficile da descrivere, a causa della sua scelta di recitare un ruolo appartato, lontano dalle luci della ribalta, fossero quelle dell’avanguardia o della fama cinematografica: frutto
sicuramente di un temperamento schivo, simile a quello dell’amico Ketoff,
ma anche di un contegno che lo fa optare per una carriera produttiva di
qualità, seppur lontana da una notorietà che avrebbe potuto anche materializzarsi in maniera eclatante se solo egli avesse risposto alle “sirene” hollywoodiane che suonarono almeno una volta alla sua porta, per invito dell’amico Jerry Goldsmith che negli anni Sessanta raggiungeva la celebrità internazionale:
Un ricordo particolarmente vivido ho delle visite del suo carissimo amico
californiano Jerry Goldsmith, anche lui famoso compositore di musiche per
film, e la sua simpaticissima moglie. Si erano conosciuti a Roma, in occasione
di qualche registrazione e, accomunati dall’interesse per la musica elettronica, avevano simpatizzato immediatamente pur nell’impossibilità di “parlarsi”. Mio padre non sapeva una parola d’inglese, né tanto meno loro di italiano. Tuttavia, un po’ a gesti, un po’ con l’uso del dizionarietto tascabile, un
po’ grazie alla musica e un po’ grazie all’arte culinaria di mia madre, riuscivano a comunicare benissimo, tra grandi risate, tanto che le loro visite, quando venivano in Italia, erano per noi tutti una festa e un gran divertimento. Ci
fu un momento in cui sembrò che Goldsmith avesse convinto mio padre a
trasferirsi in California, dove, sosteneva, il suo talento si sarebbe affermato
garantendogli una luminosa e proficua carriera. Tutti ci stavamo preparando
all’evento. Io, che avevo appena finito la prima liceo ero già sul piede di guerra per frequentare due anni in uno e prendere la maturità prima di partire,
ma poi la cosa rientrò. Tra i due rimase sempre una grande amicizia e
stima. 40
40 A.
64
M. MARINUZZI 2009.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Nelle note di copertina della recente edizione discografica delle
musiche di Terrore nello spazio,
Claudio Fuiano segnala una diretta filiazione tra Alien di Ridley
Scott (m. J. Goldsmith, 1979) e il
cult-movie di Mario Bava (m. G.
Marinuzzi jr., 1965), la cui evidenza risulterebbe nella ricostruzione
Figura 4.1-2: Confronto
tra i fotogrammi tratti da
Terrore nello spazio (⇑) e Alien
(⇒) raffiguranti il momento
in cui viene scoperto uno
scheletro alieno nel relitto
dell’astronave.
“millimetrica” dello scheletro alieno che si incontra nei relitti delle astronavi
in entrambi i film;41 per quanto qualche incertezza sussista ponendo a confronto i fotogrammi tratti dalle due pellicole (FIGURA 4), le due partiture invece conservano perlomeno a livello epidermico molte familiarità, a questo
punto confortate dal rapporto di amicizia tra i due compositori. Il luogo
oscuro (non solo in riferimento al genere) rappresentato da Terrore nello spazio,
film realizzato con un budget irrisorio, girato interamente in un teatro di
posa, reso efficace solo grazie alla genialità fotografica ed effettistica di un
regista allora ai margini della cinematografia italiana come Mario Bava e
destinato a diventare oggetto di culto per una generazione di cineasti americani,42 potrebbe costituire il punto di partenza privilegiato per trattare la
figura cinematografica di Gino Marinuzzi jr.: dopo tutto esso rappresenta al
meglio la sintesi dei molteplici interessi del compositore, l’unione della sua
41 «The real experts know very well that the movie inspired Ridley Scott’s Alien (suffice it to think
to the sequence of the spaceship wreck and the huge alien skeleton found inside which was reproduced
step by step in the very expensive Fox blockbuster)»; FUIANO 2003.
42 A parte l’autoreferenzialità del genere fantascientifico, per il quale è sovente possibile tracciare una storia di modelli, epigoni e rifacimenti, noto quanto la cinematografia italiana degli anni Sessanta e Settanta, specialmente quella definita di “serie
B”, costituisca una chiave di confronto per registi americani come Quentin Tarantino, che in più di un’occasione ha avuto parole particolari proprio per Mario Bava.
65
Maurizio Corbella
anima di sperimentatore elettronico con la vena più autenticamente sinfonica insieme all’interesse per il jazz; inoltre il film incarna l’esempio forse più
vivido della collaborazione di Marinuzzi con Paolo Ketoff; in Terrore nello
spazio il primo cura le musiche mentre il secondo gli effetti sonori, e il lavoro
di sonorizzazione appare organicamente intrecciato tanto da risultare difficilmente districabile. Marinuzzi costruisce una partitura sincretica, in cui
una sezione ritmica da big band jazzistica costituita da due batterie, contrabbasso pizzicato, pianoforte e organo elettrico si incontra con un organico di
archi, vibrafono, xilofono, timpani, arpa, tromboni e legni, dando vita a un
impasto sonoro in grado di miscelarsi con i bordoni elettronici realizzati
tramite il sintetizzatore di sua ideazione: il Fonosynth. La dominante drammaturgica a forte matrice ansiogena è così realizzata sfruttando a fondo alcune convenzioni del genere: la ripetitività ossessiva e perturbante affidata ai
moduli elettronici montati a loop,43 alle figure oscillanti di flauti e viole, ai
cluster tenuti dell’organo (FIGURA 5); i crescendo caratterizzati da “impennate” ritmiche affidate alla batteria, ai timpani, al basso, allo xilofono, agli
ottoni e a progressioni ascendenti degli archi; due cellule tematiche che
compaiono a intermittenza ai legni (t1, FIGURA 6.1-2) e agli ottoni (t2, FI-
La conformazione a loop degli inserti elettronici è ben evidente nelle tracce Main
Titles, The Living Dead, Evil Spirits tratte dalla colonna sonora citata. La componente
elettronica del film è depositata presso la Siae con la dicitura Elettronica dal film Terrore;
<http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali>, cosultato ottobre 2009.
43
66
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
GURA 7.1-2)
senza tuttavia assumere ruoli guida.
Figura 5: Prime battute del brano N. 3 di Terrore nello spazio (MARINUZZI [1965c], nella
pubblicazione discografica corrisponde al brano intitolato Ship Landed on Planet Aura); si noti
la ripetizione delle figure del flauto e delle viole che danno vita a un pedale ossessivo caratteristico in più punti del film. Piccolo apparato: B1 e B2 stanno per “batteria 1 e 2”; P.M.,
sul rigo della batteria 1 sta per “piatto medio”.
67
Maurizio Corbella
Figura 6.1-2: t1, affidato il più delle volte al flauto, come in quest’occasione (N. 5, batt. 712, MARINUZZI [1965c], corrispondente al brano intitolato A Very Strange Planet della pubblicazione discografica).
Figura 7.1-2: t2, affidato ai tromboni raddoppiato all’ottava (N. 7, batt. 8-13, MARINUZZI
[1965c], corrispondente al brano Dead Crewman
Found della pubblicazione discografica).
Il film, povero come abbiamo detto di risorse economiche, basa gran
parte della sua efficacia drammatica sul tessuto sonoro, completato dall’abile
sonorizzazione di Ketoff, che dà alle apparecchiature tecnologiche una fisionomia in bilico tra un immaginario “hi-tech” e il kitsch. L’impressione che se
ne ricava è che Marinuzzi ami le pellicole in cui gli viene concessa una certa
libertà di azione, specialmente di integrare la scrittura tradizionale con mezzi più inusuali. L’unica vera costante della produzione filmica dell’autore di
nascita newyorchese consiste forse nel riuscire a sposare il rigore stilistico con
un vero e proprio gusto del gioco quando si tratta di “infrangere” la consuetudine: troviamo così un ingente uso della composizione elettronica, e allo
stesso tempo di opzioni musicali che prendono spunto dalla tradizione musicale pre-classica, dai rifacimenti di frottole rinascimentali o di arie settecentesche (come accade rispettivamente nel coro di bambini e nel duetto interpretato da Paolo Ferrari e Sandra Milo in Le voci bianche), ai canti da locanda
in stile Orff (prima sequenza della Mandragola), o addirittura spingendosi in
scherzose commistioni di generi lontanissimi come il rock ’n roll e la canzone rinascimentale (si veda, per esempio, Bastiano Shake nel finale di Le piacevoli
notti).44 D’altronde, se la produzione cine-televisiva è la più rilevante numericamente nel computo del suo catalogo, alla quale va aggiunta l’ampia mole
di sigle per cinegiornali realizzata facendo ampio uso delle facilitazioni elet-
44 Per le edizioni discografiche dei film con musiche di Marinuzzi, si faccia riferimento all’APPENDICE III.
68
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
troniche,45 è pur vero che si fatica a vedere in Marinuzzi uno “specialista”
dello schermo – troppo basso il numero delle sue partecipazioni cinematografiche per affiancarlo a contemporanei prolifici come Nascimbene, Trovaioli o Morricone – anche se è altrettanto azzardato inserirlo nella cerchia
dei compositori d’avanguardia che trovano nel cinema anzitutto un mero
motivo di sussistenza. Direi piuttosto che Marinuzzi appartiene a quel filone
precipuamente italiano di compositori a tutto tondo che, senza preclusioni di
sorta verso il genere cinematografico, trovano in esso un motivo di divertissement “serio”, ponendolo in continuità con la tradizione della musica di scena:
uno dei più significativi interpreti è fuor di dubbio Roman Vlad, attento fautore di un impegno della tradizione compositiva nell’ambito cinematografico:
la condizione del musicista dispost[o] a comporre per il cinema [...] come
quella di un artigiano, che mette a disposizione del regista la sua abilità, la sua
sapienza tecnica, la sua fantasia, se non sempre il suo gusto, e che, come afferma giustamente Roger Dèsomière, può dire di avere assolto il suo compito
in maniera ideale, se gli riesce di scrivere una musica analoga a quella che il
regista avrebbe composta se fosse stato anche musicista.46
Il senso del gioco, del mettere alla prova le proprie capacità artigianali in un
campo privo di una tradizione consolidata, emerge nell’unico scritto di argomento cinematografico finora rintracciato nella già parca produzione letteraria del compositore, in cui un Marinuzzi neanche trentenne che non ha
ancora esordito nel lungometraggio (il primo, 1860 – I mille di Garibaldi di
Alessandro Blasetti, è del 1951),47 intravede le possibilità di sperimentazione
di nuovi mezzi tecnici implicate nella composizione di musica per film:
La scoperta della colonna sonora si può considerare certamente una della più
importanti innovazioni che si siano verificate nella storia del cinema. Le possibilità espressive si estendono all’infinito, qualunque effetto diviene possibile;
nasce così una nuova tecnica: la composizione di musica cinematografica; si
instaura il regno del “sincrono”, tiranno sovrano dei compositori, direttori
d’orchestra e montatori e delizia della maggior parte dei produttori e registi
[…]. Oggi, è vero, esiste una tecnica cine musicale abbastanza determinata
[…]. Purtroppo, però, bisogna constatare che ad un grande progresso di naMICHELANGELO CUNSOLO, titolare della Sermi Film Edizioni, comunicazione
personale, 28 settembre 2009.
46 VLAD 1953, p. 15.
47 In realtà si tratta di una riedizione con musiche nuove di 1860 di Blasetti, film realizzato nella prima versione nel 1934.
45
69
Maurizio Corbella
tura tecnica non ha fatto riscontro una eguale evoluzione sul piano artistico
della musica cinematografica. 48
A distanza di diciotto anni, quello stesso spirito di intraprendenza si ritrova
nelle parole di Marinuzzi in un campo apparentemente lontanissimo come
quello della sperimentazione elettronica ma che, come abbiamo già visto,
per il compositore condivide le stesse radici genetiche (CAPITOLO 1). Il
modo in cui il compositore interloquisce con il più giovane Domenico
Guaccero che giustamente lo considera il padre dell’elettronica romana, lascia trasparire la concezione del sapere musicale come un patrimonio tecnico-artigianale, paragonabile al lavoro di bottega per le arti figurative:
Prima di tutto devo precisare che io non sono un tecnico perché a questo
punto i veri tecnici potrebbero risentirsi di un’affermazione di questo genere;
io sono un appassionato di queste cose, diciamo che l’elettronica è stata per
me, inizialmente almeno, piuttosto un hobby, che altro? Naturalmente, sai
come succede, che quando tu di certi problemi incominci ad appassionartene
veramente a fondo, [...] specialmente in tanti anni, qualcosa finisci per imparare e siccome io ho voluto sempre vedere le cose da vicino, guardarle nel
cuore, a un certo punto ho pensato che la cosa migliore era pigliare un saldatore, bruciare un po’ di valvole, un po’ di transistors, scottarsi le dita, pigliare
qualche scossa e cercare di vedere come funzionavano questi circuiti e perché
funzionavano in questa maniera.49
Come ho già ampiamente dimostrato, la sperimentazione marinuzziana nasce innanzitutto nel cinema e per il cinema, in sintonia con quanto sostiene
Luigi Pestalozza in un articolo rinvenuto nell’abitazione del compositore:
Le prime attrezzature, minime, le abbiamo conosciute in questo dopoguerra
nella casa di Gino Marinuzzi jr. che se ne serviva per le sue colonne sonore.
Intanto ricercava, ci scopriva un mondo, una ricerca. Naturalmente la musica elettronica non nasceva nel suo studio, ma quanto all’Italia, forse sì, forse è
nata proprio in casa di Gino Marinuzzi jr. Ricordo come spiegava che il cinema lo aveva spinto a quel mezzo sconosciuto, a diventare il ricercatore. A
spingerlo, invece, era stata la musica da film la sua forma in sviluppo o lo sviluppo di una forma musicale a contatto con tecnologie diverse da quelle tradizionali della musica. 50
48 MARINUZZI
1949, pp. 35-39.
in MUSICA EX MACHINA-II 1967.
50 PESTALOZZA s.d.
49 MARINUZZI
70
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Nella carriera cinematografica di Marinuzzi non si riscontrano veri e propri sodalizi con registi, a eccezione di
quello con Guido Guerrasio che dà luogo a una cinquantina di documentari; nell’ambito del lungometraggio solo in un paio di occasioni il compositore
reitera collaborazioni per due o più film con lo stesso cineasta: con Vittorio
Cottafavi, cinque titoli tra cinema e televisione, e con Alberto Lattuada, due
soli titoli.51
Marinuzzi si inserisce nel percorso creativo di Vittorio Cottafavi offrendo proprio attraverso l’elettronica una solida base di partenza per l’articolata riflessione del regista sulle implicazioni estetico-linguistiche del neonato medium televisivo.52 Bisogna considerare che l’impossibilità di post-sincronizzare l’audio almeno fino al 1961,53 l’uso obbligato della presa diretta
II.1 Marinuzzi e Cottafavi
(a differenza del cinema, che in Italia in quel periodo è in gran parte doppiato), configura lo spettacolo televisivo come forma a sé – una trasmissione in
diretta che deve essere molto stimolante per un regista che ha avuto esperienze tanto nel cinema quanto nel teatro, ma che pone notevoli problemi e
limiti alla presenza musicale. Non è infrequente trovare nelle prime riduzioni televisive l’assenza totale di musica o, quand’anche essa sia presente, del
nome del compositore, trattandosi probabilmente di riadattamenti e orchestrazioni di musiche edite. Più in generale, la musica svolge il ruolo di cornice o di raccordo, presente sui titoli di testa e nei cambi di scena, senza tuttavia interferire con la presa diretta per ovvi problemi di sincrono. In tale contesto, la presenza di musica elettronica firmata da Marinuzzi nell’Antigone
diretta da Cottafavi nel 195854 ha una valenza significativa. Non solo perché
è probabilmente uno dei primi se non addirittura il primo programma televisivo italiano con musica elettronica, ma anche perché esso non si appoggia
a convenzioni di genere fantascientifico (per quanto sia problematico parlare
di convenzioni a questa altezza cronologica), ma anzi, se proprio bisogna
rintracciare una filiazione, si pone in relazione diretta sia con l’utilizzo di
sperimentazioni elettroniche nei radiodrammi prodotti presso lo SFdM (Ritratto di città, di Luciano Berio e Bruno Maderna, è del 1955), sia con il contemporaneo teatro di ricerca, nel quale le sperimentazioni elettroniche e
concrete iniziano a trovare fertile applicazione proprio in quegli anni, per
51 APPENDICE
III.
Cottafavi è autore di una ampia riflessione teorica incentrata sulla televisione, che
si svolge in prevalenza sulle pagine dei periodici cinematografici. Cfr. in tal senso
APRÀ-BURSI 2007.
53 Cottafavi può contare su una post-sincronizzazione sonora artigianale solo a partire dalla Trincea (1961); cfr. GUARNIER 1980. Ringrazio di cuore Simone Starace per
questa segnalazione.
54 Trasmessa il 5 dicembre.
52
71
Maurizio Corbella
inaugurare una tradizione di “nuovo teatro” che, almeno in Italia, avrà nel
decennio successivo una notevole fioritura (di un anno precedente all’Antigone
è per esempio King Lear di Orson Welles, regia teatrale e non televisiva, che si
avvale della presenza pervasiva di musica elettronica composta da Vladimir
Ussachevsky e Otto Luening al Columbia-Princeton Electronic Music Center di New York). Sebbene la musica composta da Gino Marinuzzi jr. per
questo lavoro televisivo sia del tutto differente da quella dei suoi colleghi oltreoceano, essa, pur svolgendo ruolo funzionale di cornice e cambio-scena,
agisce in maniera non neutra sull’interpretazione del classico greco, in linea
anzi con l’impostazione brechtiana di Cottafavi. Il binomio tra voce e musica elettronica, che si trova nella composizione “mista” per coro e timbri sintetici, mette in diretta connessione l’universo umano dei personaggi e quello
trascendente del fato e degli dei, la cui ineluttabilità trova una corrispondenza nelle sonorità elettroniche utilizzate da Marinuzzi per l’orchestrazione.
Vale la pena rilevare come la musica di scena contribuisca a collocare la vicenda della tragedia fuori dallo spazio e dal tempo, in accordo con quelli che
sembrano essere gli intendimenti della lettura “epica” dello stesso Cottafavi,
che stilizza gli elementi scenografici e cerca il più possibile di portare la recitazione degli attori sul piano di una «prosa quotidiana», in antitesi con il declamato classico (riuscendoci, per la verità, solo in parte):55
Nella scenografia non c’erano altro che elementi allusivi. Sono ossessionato
dallo spogliare l’immagine, e la prima cosa che serve a spogliare l’immagine è
la scenografia, la prima cosa evidente che circonda gli attori. Venne disegnata
una doppia fila di colonne con due salite, alla maniera di due soppalchi, con
l’agorà nel mezzo. La scalinata del tempio era perfettamente regolare, mentre quella del palazzo – che rappresenta il potere – era fatta di scalinate più
strette che si incrociavano da sinistra e da destra, in quattro o cinque fila; ciò
esprimeva il disordine del potere, la disuguaglianza del potere, le linee spezzate davano l’idea della contraddizione che si trova talvolta nel potere. Al di
fuori di questa semplificazione degli elementi scenografici – due scalinate
tanto diverse una dall’altra – il resto non era molto sperimentale, basato su
Parere personale, la recitazione degli attori è il limite maggiore di questo lavoro,
poiché sembra andare in una direzione del tutto diversa dall’impostazione registica.
Si tratta con tutta probabilità di un retaggio della recitazione classica, alla quale non
tutti gli interpreti sanno rinunciare, nonostante Cottafavi li spinga in tale direzione.
Fa eccezione Enrico Maria Salerno, interprete dei due ruoli del messaggero e di
Emone; l’attore collaborerà in varie altre occasioni con il regista.
55
72
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
una declamazione la più quotidiana possibile. La televisione non permetteva
allora di contrariare troppo lo spettatore con cose che si giudicavano strane.56
La musica, pur nella sua presenza discreta, è sperimentale nei timbri ma
non nel linguaggio. Questa è d’altra parte una delle caratteristiche che Marinuzzi svilupperà con più costanza nella sua carriera cinematografica.
La collaborazione tra regista e compositore trova esiti elettroacustici
anche in alcune scene di Ercole alla conquista di Atlantide. In questo film la presenza di musica elettronica è caratterizzata da una serie di elementi che Marinuzzi consoliderà successivamente nella Mandragola e in Terrore nello spazio:
l’utilizzo di bordoni elettronici costituiti dal brulicare di elementi sintetici, al
di sopra dei quali può o meno innestarsi la partitura orchestrale. Una caratteristica che noteremo ancora in esempi successivi è la coincidenza tra timbri elettronici ed effetti visivi, stante a evidenziare come vi sia il tentativo di
ottenere un’unità audiovisiva il più possibilmente compatta sulla base degli
artifici di manipolazione e filtraggio elettronico tanto del suono che
dell’immagine.57 In Ercole vi è il ricorso al viraggio dell’immagine nella prima apparizione di suoni elettronici: un vero e proprio presagio che funge da
detonatore nella quiete del film, da scintilla che mette in moto la narrazione.
Il paesaggio si tinge letteralmente di rosso, quasi che il sole (inquadrato)
sprigioni d’un tratto energie negative (il tema della radioattività è, come già
detto, al centro della vicenda). La presenza acustica preponderante è quella
del vento, al di sotto del quale si fa strada il tessuto grave elettronico. La
56 «En la escenografía no había más que elementos alusivos. Me obsesiona la desnudez de la imagen
y la primera cosa que sirve para desnudar la imagen es la escenografía, la primera cosa evidente que
circunda a los actores. Se diseñó una doble fila de columnas con dos subidas, a la manera de dos
altillos, con el ágora en medio. La escalinata del templo era perfectamente regular, mientras que la del
palacio – lo que representa el poder – estaba hecha de escalones más estrechos que se cruzan de izquierda a derecha, en cuatro o cinco filas; esto expresada el desorden del poder, la desigualdad del
poder, las líneas quebradas daban idea de la contradicción que hay también en el poder. Fuera de esta
simplificación de los elementos escenográficos – dos escalinatas tan distintas la una de la otra – , el
resto no era muy experimental, se basaba en una declamación lo más cotidiana posible. La televisión
no admitía entonces contrariar demasiado al espectador con cosas que se juzgaban extrañas»; COTTAFAVI in GUARNIER 1980.
57 Esiste una consolidata tradizione di cinematografia di ricerca, che si interroga sulle
possibilità di co-determinazione tra immagine e suono/musica, e che negli anni ‘50,
in particolare grazie al canadese Norman McLaren, ma anche all’italiano Cioni
Carpi, sonda le possibilità creative del suono sintetico disegnato. Accanto a ciò, non
va dimenticata la produzione di corto-metraggi sperimentali che nello stesso decennio vede confluire attività di compositori e cineasti d’avanguardia. Si pensi ad esempio alla copiosa produzione audiovisiva del Group de Recherche Musicale (che tra
l’altro coinvolge lo sceneggiatore italiano Enrico Fulchignoni), o alla contemporanea
attività sull’East Coast americana: la produzione audiovisiva del Columbia-Princeton
Electronic Music Center, o l’opera di Shirley Clarke. Si sa di quanto McLaren fosse
presente a Berio, Boulez e soprattutto Cage, ma più in generale si può ritenere Cottafavi ben aggiornato sul fronte di questa produzione d’avanguardia, seppure non
sono a conoscenza di documenti che lo attestino.
73
Maurizio Corbella
convivenza di un vento sintetico e di un bordone elettronico, elementi che
agiscono tanto sul piano simbolico che narrativo, è del resto un procedimento che Marinuzzi utilizza praticamente in tutte le sue avventure elettroniche
cinematografiche.
Possiamo affermare che nella collaborazione tra Marinuzzi e Cottafavi
siano racchiusi tutti i temi successivamente affrontati dal regista quando si
avvarrà di contributi elettronici. Nelle fasi successive della sua produzione,
infatti, la presenza di effetti visivi in corrispondenza di sonorità elettroniche
si fa più puntuale, anche se paga pegno ai mezzi limitati della televisione,
dando luogo a esiti che per lo spettatore odierno paiono talvolta più datati
rispetto ad alcuni coevi esempi cinematografici. In Operazione Vega, trasmesso
il 2 luglio 1962, si lavora ancora una volta sulla valenza simbolica e allusiva
della scenografia:
dall’astronave a parete unica di tavole plastiche nere, lucide, che si apriva poi
in una immensa finestra sul pianeta Venere avvolto dall’allucinante turbine
della sua atmosfera, al lungo tubo con dentro i cinque attori che recitavano
mentre il tubo ruotava in qua e in l come sbattuto dal mare venusiano, le voci
rimbombavano nel tubo accompagnate dal frastuono delle lamiere, e la purezza geometrica della forma tubolare deformava i già contorti significati
delle false parole degli uomini.58
Proprio la scena del tubo, nella sua fattura artigianale, denuncia tutti i suoi
limiti. Ma ciononostante, Operazione Vega è interessante per la ricerca di unità
drammaturgica da parte del regista, unità che coinvolge a un tempo tutti gli
elementi della rappresentazione: la scena, gli attori e il suono. Non a caso,
Cottafavi cita questo lavoro come esempio di applicazione dell’estetica brechtiana alla TV, prendendo atto al contempo del tiepido consenso con cui
esso era stato accolto dal pubblico. Riguardo alle caratteristiche sonore del
telefilm, così si esprime:
Non fu utilizzato commento musicale per non correre il rischio di introdurre
un elemento di ordine sentimentale, ma solo effetti elettronici, con la stessa
funzione dei rumori, e anche i titoli, che apparvero sovraimpressi sulla riproduzione della testa dell’uomo di Neanderthal, erano accompagnati da musica
elettronica.59
58 COTTAFAVI
59 Ibid.
74
1964, p. 122.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Gli effetti elettronici, preparati presso lo SFdM, concorrono alla volontà di
costruire uno «straniamento in funzione del mezzo televisivo».60 Poiché,
sempre secondo l’autore, gli strumenti di comunicazione di massa sono i
mezzi «ideali per realizzare un teatro epico»; in essi è la tecnica a svolgere il
ruolo fondamentale di mediazione «quasi magica». Non si tratta di un recupero dell’aura in senso benjaminiano, bensì di un meccanismo di stupore
fisiologico e prevedibile, dovuto alla novità tecnologica. Essa sta alla base
dello straniamento;61 proprio per questo, e qui sta il ruolo didattico attribuito al nuovo medium, lo spettatore deve essere messo in grado di trasformarlo
criticamente, per non esserne alienato.
Un esempio di particolare interesse audiovisivo, nel computo della
convergenza tra immagine e suono elettronico nella poetica di Cottafavi, è
La Fantarca, non solo perché si tratta di teatro musicale in cui l’aspetto musicale è preponderante, e l’autorialità principale è da attribuire all’estro compositivo di Roman Vlad, ma anche perché mi sembra che in essa si possano
condensare alcuni degli assunti del regista sulla natura del mezzo televisivo.
L’opera, commissionata per il Premio Italia del 1966 (che poi non vinse),
viene trasmessa solo il 1° giugno 1968. Dal punto di vista linguistico, essa fa
uso di tutte le tecniche della musica contemporanea – dodecafonia, alea,
musica concreta, musica elettronica – in un impianto parodistico di opera
buffa. Il materiale elettronico per La Fantarca è preparato ancora una volta
presso lo SFdM; la partitura contiene alcune indicazioni abbozzate per
l’elettronica, da sviluppare successivamente in studio.62 L’incontro del compositore con Vittorio Cottafavi, e di entrambi con Giuseppe Berto, è dei più
felici. Da questa coesione di intenti si riesce a ottenere, nella prima parte dell’opera, il notevole risultato per cui mezzi musicali e mezzi visivi si fondono
perfettamente in un prodotto audiovisivo che non può che essere specificamente televisivo, in linea con quanto Cottafavi aveva auspicato nei suoi scritti teorici. Il «balletto meccanico», espressione utilizzata da Vlad nella presentazione televisiva dell’opera,63 chiaramente ammiccante al Ballet mécanique
di Fernand Léger e George Antheil, che rappresenta la celebrazione del po60
Ibid.
La novità concettuale della televisione è per Cottafavi innanzitutto l’ubiquità dell’apparecchio televisore, che trovandosi in ogni casa determina un meccanismo d’intimità con lo spettatore. Attraverso di esso si configura un tipo di rappresentazione
totalmente diverso da quello cinematografico, basato non più sull’immersione in un
contesto esteriore (il cinematografo), ma sull’immedesimazione umana tra spettatore
e attore (non tra spettatore e personaggio). Da qui la possibilità e l’esigenza di un
modo di procedere epico, in cui il personaggio va ricreato «come nuovo ad ogni ripresa di frattura»; ibid.
62 VLAD, com. pers. cit.
63 VLAD 1968.
61
75
Maurizio Corbella
tere del blocco del Triangolo (ovvero il blocco occidentale in lotta con il
blocco orientale rappresentato dal simbolo del Quadrato) è realizzato registicamente mediante una stilizzazione visiva, che dovrebbe simbolizzare
«l’umanità ridotta alla sua ombra»; la tecnica di ripresa alterna sovrapposizioni negative e positive delle immagini dei danzatori, e divide lo schermo in
più settori. Le silhouette che si muovono danno luogo a una sorta di animazione visiva, mentre il coro inneggia al Triangolo su una linea melodica costruita tramite variazioni dodecafoniche su Yankee Doodle e un vecchio inno
russo. La vicenda della Fantarca è ambientata su una vecchia astronave a
forma di caffettiera (quando si dice un “macinino”...) con la quale un gruppo di italiani meridionali vengono spediti su Saturno perché dissidenti al regime del Triangolo. È la trovata per inserire nel pour-pourri dell’opera, già
“esposto” sul piano dell’attualità con la Guerra Fredda e la conquista dello
spazio, anche l’italianissima e attualissima questione meridionale. In questa
bizzarra arca di Noé trovano posto anche gli animali, poiché i meridionali
sono quasi tutti allevatori o contadini, testimoni di un mondo tramontato.
Vlad non indietreggia di fronte a nessuno di questi stimoli, inserendo melodie registrate sul campo nel sud Italia – viene addirittura inserita una canzone calabrese cantata dal celebre cantastorie Otello Profazio – e divertendosi
a fare anche musica concreta, manipolando e “intonando” i versi degli animali registrati dal vivo e costruendo un vero e proprio coro di bestie. Il tutto,
inserito in una seconda parte d’impianto fine settecentesco, con arie, recitativi, e pezzi d’assieme.
La mescolanza di tutta questa musica potrebbe apparire un po’ strana, in
effetti, tuttavia io trovai molto intelligente e felice l’idea che le musiche di tutti
i tempi potessero convivere congiunte, allo stesso modo in cui culture di tanti
paesi e di tanti secoli si trovassero in ultima istanza su questa astronave, che
trasporta gli emigranti fuori della Terra.64
Una scherzosa “eredità” musicale, affidata a una sgangherata navicella spaziale che, malgrado l’irrisione di tutti, sopravvive invece al collasso planetario della Terra, dovuto alla distruzione reciproca dei due blocchi, e si preannuncia pro-genitrice di una nuova specie umana (che alla fine, con un tipico
paradosso fantascientifico, scopriamo essere la nostra attuale). Un’immagine,
«La mezcla de toda esta música parecía un poco extraña, efectivamente, pero yo encontré muy
inteligente y muy feliz la idea de que las músicas de todos lo tiempos pudiesen convivir conjuntamente,
de la misma manera que la cultura de tantos países y tantos siglos tuviese como un último resultado
en esta astronave, que se lleva a los emigrantes fuera de la Terra»; COTTAFAVI in GUARNIER
1980.
64
76
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
per usare le parole del compositore, «teneramente ironica» dell’Italia di
quegli anni.
È toccata una sorte singolare al secondo dei due
II.2 Marinuzzi e Lattuada: l’intenso silenzio
film di Lattuada che contengono musiche di Marinuzzi: Matchless (1967), che tra l’altro vede la par«Mi sono trovato una volta ad avere in mio
potere uno strumento musicale che si chiama tecipazione anche di Ennio Morricone, è al giorno
tam tam: è un disco metallico grandissimo
d’oggi introvabile. Fortunatamente, però, La man[…]; percuotendolo al centro fino ai bordi ho
provato dei piaceri, di vibrazioni profonde, di dragola (1965) rappresenta un esempio oltremodo
suoni complessi. Nella musica elettronica io significativo dell’approccio compositivo di Marisento questo stesso piacere, che è forse pronuzzi il quale può in quest’occasione cimentarsi
prio il più lontano e originario piacere emonei due ambiti musicali che più lo divertono: la
zionale che si possa provare».
“musica in costume”, echeggiante atmosfere rina[LATTUADA 1962]
scimentali, e la musica elettronica, la cui presenza
è probabilmente, nonostante il limitato minutaggio, una delle formulazioni
più significative dell’operato marinuzziano. Essa diventa infatti indispensabile per intendere l’interpretazione che Lattuada offre dell’opera di Machiavelli. Tale contributo è limitato a due soli numeri musicali, su un totale di
quaranta:65 la sequenza della raccolta della radice “magica” (N. 16)66 e la
sequenza in cui fra’ Timoteo (Totò) parla con gli scheletri dei suoi predecessori nella cripta della chiesa.67 Quest’ultima scena viene poi scartata da Lattuada nel montaggio finale, prima di essere reintegrata parzialmente in una
successiva realizzazione.
La prima sequenza descrive l’incontro fortuito tra Callimaco (Philippe
Leroy) e Ligurio (Jean-Claude Brialy) con un vecchio stregone (Ugo Attanasio), denominato in sceneggiatura “vecchione”, che si appresta a cogliere la
radice di mandragola.68 Lattuada fa assistere lo spettatore all’intero rito, che
ha una componente cruenta e macabra e che finirà per fornire allo spasi65 Cfr.
MARINUZZI [1965a].
Come già notato per Terrore nello spazio, la prassi marinuzziana è quella di titolare i
brani musicali con numerazione progressiva. Solo in fase di deposito SIAE con finalità discografica, i brani ricevono una titolazione spesso incentrata sul plot narrativo.
67 Per questo brano, essendo totalmente elettronico e dunque privo di partitura, la
numerazione progressiva è solo intuibile non essendo annotata nell’autografo. Nel
programma musicale SIAE conservato (MARINUZZI [1965b]), il brano non figura, in
quanto il documento è incompleto. Considerato che la scena soppressa avrebbe dovuto porsi in fondo al film, l’indicazione che ci serve potrebbe essere in quel foglio
mancante. Segnalo infine che il materiale elettronico della Mandragola è depositato
separatamente in SIAE (evidentemente su supporto magnetico) con il titolo Elettronica
dal film Mandragola, edizioni EMI General Music. Esistono anche due depositi afferenti allo stesso editore (non molto frequentato nel resto della produzione marinuzziana
e dunque probabilmente legato allo stesso film) dal titolo Elettronica N. 1 ed Elettronica
N. 2.
68 La sequenza in questione corrisponde a Scena 23 della sceneggiatura; cfr. MAGNI–STRUCCHI–LATTUADA 1965, pp. 67-74.
66
77
Maurizio Corbella
mante Callimaco la soluzione per passare finalmente una notte con Lucrezia
(Rosanna Schiaffino): sfruttando la credenza che la mandragola renda gravide le donne, Callimaco si improvviserà medico per risolvere il problema di
sterilità tra Lucrezia e il marito, Messer Nicia (Romolo Valli). Il numero musicale è abbastanza trasparente sul piano della stratificazione delle componenti: un motivo melodico si dispiega su un bordone elettronico. Il motivo
(m) compare nella prima parte della sequenza in tre occorrenze con diverse
vesti timbriche: prima affidato al flauto (N. 16, FIGURA 8), poi a clarinetto e
clarinetto basso trasposto di una sesta inferiore (N. 16a), e infine a un timbro
manipolato, verosimilmente ottenuto filtrando il suono di flauto originale.69
Figura 8: Prima apparizione del motivo melodico al flauto (N.16, MARINUZZI [1965a]). La
linea tratteggiata verticale, da me aggiunta, delimita ciò che effettivamente sentiamo nel
montato finale.
Il bordone elettronico può essere a sua volta scomposto in tre componenti
dotate di caratteristiche timbriche distinguibili: un pedale (a) sul registro grave, che stabilisce il “centro tonale” della sequenza (Fa), e la pulsazione ritmica regolare; una componente ondulatoria (b), anch’essa ritmica, che si incastra nella pulsazione del basso, e che ricorda il rumore del passaggio dell’acqua da un collo di bottiglia; una serie di oscillazioni di arco temporale più
ampio (c), che mettono in scena una sorta di effetto di vento.
La riuscita ambiguità, sul piano del ruolo drammaturgico, del brano di
Marinuzzi è attribuibile al diverso “orientamento” delle sue singole componenti: laddove m e a rispondono a direttrici di matrice prettamente “musicale” (stabilendo la pulsazione ritmica e le relazioni “tonali”), b e c instaurano
invece un rapporto di evocazione simbolica del reale diegetico (fornendo,
per così dire, il “colore sonoro” della sequenza). Attraverso l’evocazione elettronica di timbri naturali, b e c trasfigurano elementi che fanno parte del
paesaggio visivo e sonoro della narrazione: l’acqua (la vicenda si svolge sulle
sponde di un torrente) e il sibilo del vento (le fronde degli alberi si muovono).
Se tuttavia poniamo attenzione alla sonorizzazione della campagna fiorentina realizzata in studio, ci accorgiamo che dei due elementi sentiamo effettiC’è una discrepanza tra quanto nel manoscritto è indicato come N. 16b e la terza
ricorrenza del tema: nella partitura esso è trasposto di una terza minore inferiore,
mentre nel montato esso appare non trasposto, ma filtrato e più lento.
69
78
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
vamente solo lo scorrere dell’acqua, che si va ad amalgamare con la componente b, una volta che il brano elettroacustico comincia. Il vento invece non
è sonorizzato, e ciò crea discrepanza tra c – il sibilo sinistro che fa parte della
composizione – e il silenzio surreale delle fronde che si muovono. L’effetto
“iperreale” del vento elettronico è ciò che maggiormente conferisce alla scena il suo tono lugubre, che si avvicina sinistramente al lamento dei morti viventi utilizzato in Terrore nello spazio. Il tema del lugubre è del resto comune ai
due film, e nell’interpretazione che Lattuada offre della commedia di Machiavelli sembra essere una delle chiavi più affascinanti e audaci. La musica
elettronica, dunque, mette in moto l’allegoria su cui si regge l’intera commedia, che inscena l’ipocrisia morale e il cinismo della società fiorentina e
rende il divertente adulterio perpetrato da Lucrezia e Callimaco nei confronti di Messer Nicia il minore dei mali, se comparato al clima di stucchevole perbenismo del mondo che Messer Nicia e, ancor di più, fra’ Timoteo
rappresentano. Non a caso il “lieto” fine non consiste nel ristabilirsi dell’ordine iniziale, bensì al contrario nella completa riuscita del piano adulterino.
La mandragola del resto è il vero “fiore del male” di Lattuada se, come ci
ricorda il vecchione, cresce bagnata dal seme prodotto dall’agonia degli impiccati, e causa la morte in chi la coglie.
Ancora più esplicativa in tal senso è la sequenza tagliata di Totò nella
cripta. Lattuada ammette esplicitamente di averla creata apposta per il principe De Curtis, permettendosi una delle poche licenze rispetto alla trama di
Machiavelli:
Nel copione non era prevista una parentesi di follia medianica, come quelle
che Totò crea di sua iniziativa sulla scena o nei film. È stato necessario inventarla apposta per lui: alla fine della commedia, quando Callimaco e Lucrezia
passano la notte insieme, e Machiavelli canta il trionfo dell’amore, il turpe
fra’ Timoteo avrà un dialogo con la morte; o meglio, ci sarà un agitato monologo di Totò con questa realtà invisibile, o visibile solo per lui. Da solo, Totò farà una rappresentazione comico-macabra, una specie di danza degli
scheletri, come se ne vedono tante nell’iconografia medievale [...]. 70
La follia medianica, il dialogo con una realtà invisibile, la danza macabra
sono tutte espressioni che si legano strettamente alle scelte musicali di Marinuzzi, le quali sembrano apparentarsi anche con la terminologia usata nella
sceneggiatura per descrivere l’espressione con cui i teschi “guardano” fra’
Timoteo: «i frati lo fissano nel loro “intenso drammatico silenzio”».71 La
70 LATTUADA
1965.
71 MAGNI–STRUCCHI–LATTUADA
1965, p. 206.
79
Maurizio Corbella
musica elettronica è la rappresentazione udibile del silenzio della morte,
qualcosa che per sua natura ha a che fare con il non-umano, con l’ultra-percezione. E in questo caso Marinuzzi rinuncia del tutto ad apparati melodici
e si concentra sulla composizione di un bordone caratterizzato da un pulsare
tellurico, con la presenza di una componente percussiva nel registro grave,
che può ricordare i rintocchi di una campana a morto. Il monologo grottesco di Totò, unitamente al montaggio alternato tra primi piani del volto scavato del frate e dei teschi, sono l’elemento che completa l’impasto drammaturgico di questa sequenza. La potenza della scena, che non può dirsi spaventosa, semmai grottesca, è forgiata dal sapiente tocco umoristico dell’attore che, con il suo impareggiabile repertorio espressivo, porta il personaggio
del cinico frate sull’orlo della trance paranormale.
In un articolo del 1963, tradotto in Italia nel 1966 dal cine-arti- III. Verso una ridefinizione del
sta Alfredo Leonardi, John Cage esprime con il consueto tono
suono cinematografico?
accattivante e provocatorio alcune considerazioni sul rapporto
tra sperimentazione musicale e cinematografica. Tre sono i punti che il
compositore affronta: a) il concetto di ritmo, che deve essere svincolato da
nozioni musicali mutuate dalla tradizione occidentale (soprattutto dalle idee
di accompagnamento, sincronismo, contrappunto ecc.), ma al contrario deve essere basato su un’organizzazione di tutte le componenti filmiche (visive
e sonore) secondo un principio generativo anteriore alla realizzazione materiale; b) l’applicazione del concetto varèsiano di “suono organizzato” all’intera componente acustica del film, quindi l’abolizione dell’idea di “effetto
sonoro”, in nome di una composizione di elementi considerati paritari sul
piano della funzione finale; c) la stretta aderenza della musica cinematografica ai mezzi tecnici che la rendono possibile, con la conseguente esclusione
del concetto di registrazione di musica non nata originariamente per quelle
finalità (quella acustica di derivazione ottocentesca), e la predilezione per
«una musica che nasce solo dai mezzi tecnici della nostra epoca (meccanici,
elettronici, cinematografici, ecc.)».72 La chiusa del breve scritto è degna di
essere riportata interamente, perché centra in pieno alcuni degli argomenti
che abbiamo anticipato.
Ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno in America è un laboratorio per
attività musicali inutili, votato ai fallimenti più che ai successi e qui ricordo
che per primo Varèse cercò di interessare a tale iniziativa delle società di Hol-
72 CAGE
80
1963, pp. 417-418.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
lywood e del New Jersey e che io stesso persi un anno (1940) cercando di realizzare lo stesso sogno.
Il sogno è semplice: un luogo ben equipaggiato dove compositori e ingegneri
del suono possano collaborare; in termini di Hollywood semplicemente
l’unione dei Dipartimenti di Musica e Suono (in Canadà è una realtà: Norman McLaren e il National Film Board a Ottawa).
Forse ciò è stato realizzato negli Stati Uniti e io non sono aggiornato ma se
c’è un posto simile, portateci là. Ne abbiamo di lavoro da fare!73
John Cage solleva un problema che mi pare profondamente caratterizzante
gli anni dell’introduzione di pratiche elettroacustiche nel processo cinematografico e che, seppure non necessariamente sviluppato nella direzione sperimentale che il compositore americano propone, condiziona un buon numero di produzioni d’autore degli anni Sessanta. Tradotto in termini italiani, per un contesto in cui l’assetto produttivo cinematografico è meno strutturato rispetto a quello hollywoodiano, «l’unione dei Dipartimenti di Musica
e Suono» significa una più stretta collaborazione tra compositore, regista e
ingegnere del suono, sulla base della presa di coscienza che la materia trattata non sia più scomponibile in orizzonti d’appartenenza e di competenza
che possono procedere autonomamente. Naturalmente ciò implica una profonda messa in discussione delle strategie rappresentative, le quali, per fare
appello a categorie di respiro generale, devono superare o affrancarsi dai
capisaldi del “realismo” hollywoodiano affermatosi a partire dagli anni
Trenta. Il terreno nel quale vanno trasferite queste riflessioni provocatorie è
quello italiano che ha conosciuto la parabola neorealista, la quale tuttavia ha
coinvolto (per motivi perlopiù economici, ma sovente culturali) il suono in
misura molto minore rispetto all’assetto visivo. Non a caso il neorealismo è
stato spesso stigmatizzato per non aver saputo operare, sotto il profilo musicale, quelle rivoluzioni che aveva propiziato dal punto di vista visuale e narrativo.
Il dato negativo che colpisce e accomuna in misura diversa queste collaborazioni [tra protagonisti del neorealismo e compositori] risiede nella discrepanza fra l’innovazione linguistica che caratterizza i film e il riproporsi di stereotipi musicali già utilizzati nel cinema del ventennio, a riprova non solo della
loro inadeguatezza ma ancor prima di un’assenza generalizzata di esigenze
specifiche da parte degli sceneggiatori e dei registi. 74
73
Ivi, p. 418.
74 MICELI 2009a, p.
333.
81
Maurizio Corbella
C’è da chiedersi se, al giro di boa degli anni Sessanta, qualcosa sia cambiato
in questa situazione. Non si può certo registrare una vera svolta, semmai alcune crepe alimentate da percorsi di ricerca individuale intrapresi da “autori” cinematografici, o dall’adeguamento del gusto “comune” a pratiche musicali coeve provenienti dall’influenza popular americana. E tuttavia, al 1963,
quando Cage scrive il suo articolo, sono accaduti alcuni fenomeni significativi che possono fare pensare a un processo di rinnovamento che coinvolge la
concezione del suono nel cinema internazionale non propriamente d’avanguardia: Antonioni, con L’avventura e L’eclisse è ormai avviato in un percorso
di ricomposizione dell’universo audiovisivo che passa precisamente attraverso l’elemento acustico del “rumore”; 75 Fellini, con La dolce vita e 8 ½, ha iniziato a esplorare scelte di “polifonia” vocale tramite un uso spregiudicato del
doppiaggio e il supporto (del quale discuterò approfonditamente nel CAPITOLO 4.VI) di un repertorio di sonorità elettroacustiche; in Francia, i protagonisti della nouvelle vague hanno saggiato soluzioni sonore inconsuete come
quelle del film “quasi” muto La jetée, di Chris Marker (1962);76 oltreoceano,
un “classico” come Alfred Hitchcock sconvolge gli equilibri tradizionali di
musica e suono, optando per la pressoché totale assenza della prima in un
film dall’impostazione narrativa tutto sommato tradizionale come gli Uccelli
(1963). Tutti questi esempi immettono procedure elettroacustiche nel tessuto
produttivo minandone, in varia misura, i capisaldi. Se «il disinteresse e la
scarsa sensibilità mostrati dai giovani Zavattini, Rossellini e De Sica» 77 erano
stati la cifra distintiva del neorealismo, allora si può affermare che una rinnovata sensibilità, unita alla volontà di far propri i risvolti delle contemporanee ricerche musicali, contraddistingua almeno quei cineasti che interpretano il decennio della loro maturità artistica in un’ottica sperimentale.
È interessante rilevare che tale nuova sensibilità si presta a essere interpretata, almeno nei casi da me studiati, come una modalità di ricezione di
una nozione di suono organizzato intesa non tanto nel suo senso “ortodosso”, ma allargato quel tanto che basta per mettere in crisi la classica tripartizione hollywoodiana del sonoro cinematografico in dialoghi, rumori e musica. Quest’ultima funziona sulla base di un modello rappresentativo vococentrico, in cui la parola è governata dal principio di intelligibilità e le altre due
componenti fungono da complemento in varie direzioni. Nella storia della
pratica hollywoodiana, le tre categorie sonore si impongono nella loro
pragmatica funzionalità rappresentativa, influenzando dalla base il comples-
75 Cfr.
76 Cfr.
77 Ibid.
82
CALABRETTO 1999, 2005.
WHITTINGTON 2007, pp. 62-64.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
so processo di produzione del suono, che risulta tripartito fin dalle prime fasi
di lavorazione. Prima dunque di abbandonarsi a ulteriori speculazioni, ritengo sia necessario chiarire le fasi di produzione, cercando, e questa è al
momento l’operazione più difficile, di individuare alcuni passaggi storici importanti nell’evoluzione di tale pratica. Solo a quel punto sarà possibile capire il potenziale destabilizzante in possesso delle opzioni elettroacustiche.
Tra le tre categorie, quella dei rumori è indubbiamente dotata di maggiore ambiguità teorica a causa della vaghezza insita nel termine, usato alternativamente con l’ancor più problematico “effetti”. Se consideriamo, in
un film finito, tutte le componenti sonore che non sono riconducibili alla
musica né tanto meno al dialogo, ci troviamo di fronte a una varietà di elementi. Una prima macro-distinzione infatti può essere fatta, almeno a livello
teorico, tra artifici sonori ed elementi “accidentali” connessi alla presa diretta. I primi possono essere a ragione considerati effetti, in quanto presuppongono un rapporto azione-reazione tra artefice e fruitore; i secondi sono
chiamati fondi nel linguaggio tecnico e possono essere collocati nella sfera dei
rumori, intendendo con questo termine componenti acustiche non deliberatamente desiderate che si sommano nel segnale all’oggetto della
registrazione.78 Naturalmente un prodotto cinematografico ben “confezionato” sarà in grado di ridurre il rumore al minimo o, meglio, di integrarlo nelle
proprie finalità espressive – d’altronde tutti i fonici sanno che il fondo è un
elemento imprescindibile per conferire spazialità e localizzazione alle voci.
Potremmo dunque parlare di un’intenzionalità “indotta”, nella misura in cui
un fondo viene piegato alle necessità della drammaturgia. A livello di produzione, vale a dire della fase dei lavori coincidente con le riprese del film, può
esistere una categoria sonora che i manuali chiamano ambienti, per distinguerla dai fondi: gli ambienti sono elementi sonori ripresi deliberatamente
dal fonico sul set o nei suoi pressi, disgiuntamente dalla ripresa delle voci. Il
fonico di presa diretta riprende elementi del paesaggio sonoro in cui è ambientato il film in condizioni ideali, rendendo possibile in post-produzione
l’equilibrio con i fondi. Non bisogna esagerare il potenziale creativo di questa fase, come non bisogna sottovalutarlo; d’altronde è chiaro che se il progetto drammaturgico è coeso in tutte le sue fasi di produzione, se esistono
figure in grado di garantire continuità tra le fasi, se infine esiste un cineasta
che è particolarmente conscio delle potenzialità di tutti i passaggi legati al
sonoro, non c’è motivo per non riconoscere che, nei casi più avanzati, il lavoro creativo sulla drammaturgia sonora inizi molto prima che le bobine o,
78
Cfr. CORELLI–FELICI–MARTINELLI 2006, pp. 233-238.
83
Maurizio Corbella
al giorno d’oggi, i files digitali, raggiungano i banchi di montaggio e
mixaggio.79
Sono, infine, tecnicamente definiti effetti quei suoni che costituiscono,
insieme alla musica, la cosiddetta colonna internazionale, chiamata anche colonna M&E (musica ed effetti), una versione della colonna sonora priva dei dialoghi, realizzata appositamente per il mercato in lingua straniera, atta a consentire il doppiaggio in altre lingue.80 Gli effetti di post-produzione sono così
generalmente suddivisi: d’ambiente (background nella terminologia anglosassone), speciali (sfx o fx), di sala (foley) (per una panoramica riassuntiva di
quanto fin qui esposto, cfr. TABELLA 1).81
Tale punto di vista è svolto limpidamente da Corelli, Felici e Martinelli che da una
parte sono comprensibilmente cauti su questo aspetto, dovendo nel loro manuale
rendere conto della norma in cui avvengono le fasi di lavorazione sonora di un film:
«Le libertà che di solito ci si prende col suono sono spesso assai limitate. Siamo ancora ben lontani dalla visione ardita di Ejzenštejn, Pudovkin e Alexandrov quando nel
1928 con il loro Statement on Sound rifuggivano dall’idea di utilizzare il suono come
banale giustapposizione sincrona agli eventi visivi, ipotizzando invece un utilizzo
contrappuntistico, orchestrale, delle “immagini visive e sonore”. Chiaramente volendo potenziare l’uso del sonoro utilizzandolo in modo creativo o semplicemente per
garantire una cura ed un’uniformità di alto livello è necessario prevedere una supervisione che raccordi con grande competenza e gusto uniforme, e valorizzi quantomeno il montaggio del suono, il doppiaggio e i rumoristi, con l’ovvio beneplacito
della regia»; ivi, p. 245 Dall’altra, gli autori riconoscono che esistono casi particolari
in cui le condizioni di cui sopra si realizzano: «Oggi questi collegamenti tra le diverse
figure citate esistono, ma sono spesso il faticoso frutto di libera iniziativa dei singoli,
in modo talvolta disordinato, incompleto, e a rischio di provocare antipatie o invidie
quando non sia stato deciso ufficialmente dalla produzione di affidare il compito della supervisione al suono a qualcuno di specifico, con la preparazione necessaria e
riconosciuta da tutti»; ivi, p. 246.
80 «Nei film realizzati in presa diretta, per ottenere la colonna internazionale non è
possibile agire per sottrazione eliminando il parlato, dato che quasi tutto il materiale
sonoro costituito da rumori e ambienti di presa diretta è registrato irreversibilmente
insieme ai dialoghi, captato per forza di cose dagli stessi microfoni dedicati alla voce
[fondi, ndr]. È dunque necessario ricostruire artificialmente il sonoro del film, anche
se magari sarà possibile recuperare quelle rare parti in cui gli attori non parlano (ad
esempio sono recuperate volentieri scene complicate e dense di suoni come inseguimenti a cavallo, colluttazioni, incidenti stradali, azioni sportive)»; ivi, p. 286.
81 Il testo virgolettato presente nella tabella è tratto da ivi, pp. 286-293.
79
84
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
TABELLA 1: Rumori ed effetti dalla produzione alla post-produzione
Produzione (rumori)
Fondi
Ambienti
Elementi incorporati nella presa diretta delle
voci. Di norma
sono indipendenti dalla volontà del fonico.
Questi però, di
prassi, si premura di registrarli
anche senza le
voci per facilitare il lavoro di
montaggio della
presa diretta.
Continui: dotati
di una certa
regolarità nel
tempo, «eventualmente con
micro variazioni
anche udibili
ma più brevi di
1 secondo circa». Discontinui:
includono
«eventi sonori la
cui evoluzione
dura più di 1
secondo circa».
Elementi ambientali ripresi
indipendentemente dalla
registrazione
delle voci. Essi
sono sempre
frutto della
volontà del
fonico il quale,
sebbene non
“crei” necessariamente ad
hoc l’evento da
registrare, si
preoccupa che
esistano le condizioni acustiche ideali perché l’evento
corrisponda
alle sue aspettative. Dunque
essi sono a tutti
gli effetti elementi integrativi del progetto
drammaturgico.
Post-produzione (effetti)
Ambienti
(backgrounds)
Speciali
(sfx o fx)
Sala
(foley)
«Coprono uniformemente
ogni scena,
ovvero sono per
così dire sincronizzati a
livello di scena,
tagliati su di
essa».
Eventi sonori
occasionali,
«legati ad un
preciso avvenimento all’interno della
scena e necessitanti di sincronizzazione
precisa».
«[E]lementi
sonori legati
alla corporeità
che vanno non
semplicemente
sincronizzati,
ma opportunamente modulati ad hoc
sulle immagini, sullo svolgersi dell’azione».
Esempi: «fondo
traffico, aria
generica, fronde, brusio indistinto, mare
calmo, [...]
rumori di luna
park, [...] aeroporto».
Esempi: «aperture e [...]
chiusure porte
[...], colpi di
clacson, sirene
d’ambulanza e
rumori d’automezzi [...]».
Esempi: «passi,
strisciamenti
di vestiti, carezze, pacche
sulle spalle,
poggiate o
spostamentei
sul tavolo di
oggetti [...]».
Tra i principali punti di svolta del cinema tra gli anni Sessanta e la decade successiva vi è un cambiamento nel modo di concepire ed elaborare gli
effetti. L’interesse per il suono, tanto nella sua entità oggettiva quanto nella
sua portata evocativa, subisce un accrescimento senza precedenti in tutti i
campi della cultura, e arriva al cinema principalmente attraverso la mediazione delle esperienze musicali elettroacustiche. Il suono elettroacustico, infatti, si posiziona per sua natura trasversalmente rispetto alle categorie di
effetti appena presentati. La tipizzazione offerta da Corelli, Felici e Martinelli, rispecchiante la consuetudine delle produzioni contemporanee, è chiaramente incentrata sul paradigma narrativo: gli effetti sono il risultato della
necessità di far rivivere sullo schermo l’idea di un ambiente, con tutto quello
che esso comporta. Ecco perché normalmente suoni sintetici, o eventi sonori
sottoposti a pesanti procedimenti manipolatori sono utilizzati in topoi fanta-
85
Maurizio Corbella
scientifici o, più genericamente, di trasfigurazione (sogno, ultraterreno, ecc.):
è l’inconsuetudine del mondo rappresentato a richiedere tale uso. Ma cosa
accade quando suoni, o addirittura musiche elettroacustiche, vengono inseriti in un contesto altrimenti “quotidiano”, o comunque non connotato da
devianze esplicite rispetto ai canoni del realismo cinematografico? Si crea
innanzitutto uno scompenso nell’assetto produttivo, poiché si inseriscono
pratiche eterogenee in un meccanismo già collaudato (è quanto succede, ad
esempio, quando vengono coinvolti compositori esterni all’industria cinematografica); in secondo luogo si hanno delle ricadute di tipo interpretativo.
Non a caso, i più consumati approcci analitici all’audiovisione – il “tricerchio” di Chion o i livelli di Miceli – presentano alcuni limiti quando sono
alle prese con casi del genere.82 L’evento elettroacustico, infatti, si pone in
una zona intermedia in grado di pesare sia sul versante della funzionalità
(“effetti” ambientali) che su quello della semanticità (di norma appannaggio
delle altre due tipologie sonore della tripartizione, musica e dialoghi) nella
misura in cui esso mantiene un legame con una sorgente sonora visualizzabile o predilige un’organizzazione del materiale sonoro di tipo “musicale”.
Non ci potrebbe essere esempio più paradigmatico sotto il III.1 Gli uccelli come caso
profilo metodologico, per illustrare i termini della doppia ambi- metodologicamente significativo
guità del suono elettroacustico (doppia in quanto coinvolge l’assetto produttivo e la stratificazione drammaturgico/interpretativa), di quello
rappresentato da Gli uccelli di Alfred Hitchcock. La coincidenza di poter disporre di ampio materiale documentario, caso abbastanza raro nel campo
degli studi audiovisivi, grazie all’esistenza di due archivi come quello di Alfred Hitchcock e quello del compositore Remi Gassmann, consente a questo
film di funzionare a mo’ di pietra di paragone rispetto ai casi italiani che affronterò (spesso con maggiore penuria di fonti) nel CAPITOLO 4.
Quando Remi Gassmann, compositore americano di origini tedesche,
che nei primi anni Sessanta aveva sperimentato il Mixtur-Trautonium di
Oskar Sala, una versione avanzata del “vecchio” Trautonium, nel suo ballet-
Ciò vale fin dalla scoperta del suono ottico, del quale abbiamo un lampante esempio di utilizzo narrativo nella prima metamorfosi di Fredrich Marc in Dottor Jekyll (Dr.
Jekyll and Mr. Hyde, r. di Rouben Mamoulian, 1931): in questo lungometraggio, in cui
gli interventi musicali sono praticamente tutti di livello interno, questo strano inserto
sonoro è solo apparentemente collocabile nel livello esterno. È un suono ambiguo
per sua natura, il cui carattere inaudito (soprattutto a quell’altezza cronologica) ha la
capacità di spiazzare le griglie interpretative dello spettatore-uditore, senza però risolversi in una spiegazione. È un suono che potrebbe al contempo essere udito dal
personaggio (come suono “mentale” – sorta di livello mediato), in quel momento in
una situazione di trasfigurazione, ma anche appartenere alla sfera degli effetti sonori
speciali, e dunque avere funzione di sottolineatura di un evento soprannaturale (livello esterno acritico).
82
86
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
to Electronics,83 spedisce ad Alfred Hitchcock la sua candidatura per le musiche per il nuovo film del regista americano, pone l’accento sulle risorse timbriche potenzialmente illimitate del sintetizzatore, in grado di rivoluzionare
l’approccio al suono cinematografico:
Per la prima volta abbiamo a nostra disposizione, attraverso la generazione
elettronica, ciò che è stato giustamente chiamato “la totalità dell’acustico”.
Suoni familiari – dal rumore comune alla musica e agli effetti esoterici – così
come un quasi illimitato supplemento di suoni non familiari, possono essere
oggi prodotti elettronicamente. La conseguenza sembra essere una nuova
dimensione nella produzione cinematografica. 84
Hitchcock, nell’accettare la proposta di Gassmann, ha probabilmente in testa un progetto drammaturgico che si discosta molto dai suoi film anteriori.
Del resto si tratta indubbiamente di un’opera particolare, dove se c’è un giallo esso non è risolto dall’ambiguo e discusso finale, non c’è un cerchio che si
chiude, bensì un’ombra tetra (rappresentata dagli uccelli) che aleggia sull’intera vicenda e le conferisce una vena insolitamente pessimista e intrisa di
uno humour a tinte se possibile ancora più ciniche di quanto l’autore non sia
abituato a trattare. Probabilmente è proprio questa anomalia, di cui l’aspetto
sonoro rappresenta la corrispondenza più eclatante, a determinare il tiepido
riscontro del pubblico e della critica. 85
Al regista, alle prese con le sonorità elettroniche di Gassmann e Sala,
si pone innanzi tutto un problema organizzativo, apparentemente banale,
testimoniato da una breve nota con la quale la segretaria di produzione Peggy Robertson riferisce al direttore del Sound department Paul Donnelly un
dubbio del regista:
Il signor Hitchcock ha posto le seguenti domande: 1) Questo sistema elettronico [si riferisce al Mixtur-Trautonium di Sala, ndr] farà i suoni del traffico,
Balletto composto inizialmente con il nome Paean e presentato alla Staedtische
Oper di Berlino nel maggio 1960, con coreografia di Tatjana Gavosky. Electronics fu
poi presentato il 22 marzo 1961 dal New York City Ballet diretto da George Balanchine al New York City Center; GASSMANN s.d., in RGP.
84 «For the first time, we have at our disposal, through electronic generation, what has aptly been
called he totality of the acoustical. Familiar sounds from common noise to music and esoteric effects
as well as an almost limitless supply of completely unfamiliar sounds, can now be electronically
produced, controlled, and utilized for film purposes. The result is much like a new dimension in film
production»; GASSMANN 1962a.
85 Di grande interesse è la tavola rotonda organizzata dalla redazione di «Filmcritica», alla quale partecipano Armando Plebe, Adriano Aprà, Edoardo Bruno, Stefano
Roncoroni, Piero Anchisi, Mario Zucconi e Roberto Alemanno; cfr. AA.VV. 1964,
pp. 67-83.
83
87
Maurizio Corbella
ecc., o li facciamo noi? 2) Possiamo miscelare i suoni elettronici con i nostri
suoni ordinari? Per esempio, abbiamo suoni naturali di uccelli sotto il nostro
dialogo nel negozio di uccelli e, in questa particolare scena, la questione di
usare suoni elettronici non si pone. 86
È chiaramente deducibile come la risposta a questi due dubbi apparentemente contingenti influenzi profondamente la strategia drammaturgica a cui
Hitchcock pensa: se, per esempio, non fosse possibile accontentare la richiesta del regista in merito al punto 2, verrebbe a cadere la premessa fondante
buona parte dell’impianto drammaturgico del film, che trova definizione in
una sinossi intitolata Background sounds for The Birds, che Hitchcock distribuisce a tutti i membri del sound department, ai compositori, al consulente musicale Bernard Herrmann e al direttore del montaggio George Tomasini, 87 nella
quale specifica la successione e l’amalgama, sequenza per sequenza, delle
componenti sonore, sulla base di una classificazione esplicitata fin dalle prime righe: «ci saranno due tipologie di suoni in questo film. La prima consiste in suoni naturali, la seconda, in suoni elettronici».88
Figura 9: Dettaglio dell’inizio della sinossi Background sounds for The Birds
(HITCHCOCK 1962b, p. [1]).
Quando termino la sceneggiatura di un film detto a una segretaria una vera e
propria sceneggiatura dei suoni. Guardiamo il film bobina per bobina e detto
man mano tutto quello che desidero sentire. Fin qui si trattava solo di rumori
86 «Mr.
Hitchcock has asked the following questions: 1) Will this electronic system do traffic sounds,
etc., etc.; or do we do our own? 2) Can we blend the electronic sounds with our ordinary sounds? e.g.
we have natural bird sounds behind our dialogue in the Bird Shop and, in this particular scene, the
question of using electronic sounds does not arise»; ROBERTSON 1962a.
87 ROBERTSON 1962b.
88 HITCHCOCK 1962b, p. [1]; cfr. FIGURA 9.
88
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
naturali, ma adesso, grazie al suono elettronico, devo non solo indicare i suoni da ottenere, ma descrivere minuziosamente il loro stile e la loro natura.89
Tale «sceneggiatura dei suoni» costituisce la traccia concettuale che Remi
Gassmann e Oskar Sala seguono nella loro realizzazione delle sonorità elettroniche in Germania, fissate su nastro e consegnate, insieme a un dettagliato cue sheet, alla responsabilità di Tomasini.
Per comprendere meglio le ricadute che le problematiche produttive
hanno sul progetto narrativo che Hitchcock ha in mente, possiamo analizzare le prime inquadrature del film, che fungono da introduzione proprio alla
sequenza del negozio di uccelli a cui faceva riferimento la nota di Peggy Robertson. L’incipit del film può essere suddiviso in tre segmenti di narrazione
ai quali corrispondono tre diversi “luoghi” del set.90 Nella parte inferiore
della TABELLA 2 è possibile leggere come nella sua sinossi Hitchcock prescriva di strutturare la scena sotto il profilo sonoro.
89 HITCHCOCK in
TRUFFAUT 1983, p. 246.
Preciso che con “luoghi” non intendo riferirmi letteralmente alle locations in cui si
svolgono le riprese. Sappiamo infatti che la scena in “esterno” corrispondente alla
sequenza II è stata girata parte in una strada di San Francisco, parte in teatro di posa
(dal marciapiede in poi, utilizzando la colonna come raccordo). Utilizzo invece il
termine nella sua accezione più astratta di “luogo della narrazione”.
90
89
Maurizio Corbella
TABELLA 2: Incipit di The Birds
I.
Titoli di testa: Inquadratura
fissa, su fondo bianco appaiono in sovrimpressione i
titoli mentre sagome nere di
uccelli si susseguono attraversando velocemente il
quadro.
II.
San Francisco, esterno
giorno: Melanie Daniels
(Tippi Hedren) attraversa
una strada trafficata dirigendosi verso un negozio di
uccelli; la sua attenzione
per un attimo è attirata dal
rumore inconsueto di uno
stormo di uccelli in cielo.
III.
Davidson’s Pet Shop, interno giorno: Melanie, trattenutasi per un contrattempo
nel negozio, incontra Mitch
Brenner (Rod Taylor) e,
approfittando della momentanea assenza della
proprietaria, si finge commessa.
Prescrizioni sonore della sinossi (testo originale a FIGURA 10)
«(Elettronico) Sfondo dei
titoli[,] come si vedrà, dietro ai titoli avremo sagome
di uccelli in volo. Essi varieranno in dimensioni, e partiranno molto ravvicinati.
In realtà, tanto ravvicinati
che quasi assumeranno
forme astratte. Per i suoni
elettronici potremmo provare solo con alcuni rumori
d’ala, con una variazione di
volume e una variazione di
espressione di questa in
termini di ritmo. Potremmo
anche considerare se avere
qualche suono di uccello
tipo corvo o gabbiano o il
loro equivalente elettronico,
o una combinazione di ali e
versi di uccello.
Qualsiasi sarà il suono che
avremo sotto i titoli, la questione del volume sarà da
prendere attentamente in
considerazione in relazione
al fatto che non stiamo facendo nessun utilizzo di
musica. Per questo il volume è un fattore molto importante in questo caso».
90
«(Naturale) Questa sequenza richiede il suono delle
strade di San Francisco
incluso quello dei tram e
quello dei generici rumori
passeggeri. Quando Melanie guarda in alto verso il
cielo, potremmo inserire
alcuni indistinti versi di
gabbiani in modo da rendere l’idea dell’inusuale
natura del loro numero.
Sarà il caso discutere se
questo vago suono distante
debba forse non essere di
tipo naturale ma stilizzato e
fatto elettronicamente».
«(Naturale) Negozio di uccelli, l’esistente sfondo di
uccelli che cantano e cinguettano dovrebbe rimanere. Nell’inquadratura iniziale, nel momento in cui Melanie entra dalla porta, dovremmo sentire i rumori
del traffico e magari il suono di un altro tram [...]».
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Notiamo un’alternanza di sezioni elettroniche e sezioni “naturali”, con
un’unico dubbio del regista nel merito di un’interpolazione elettronica (poi
realizzata) in corrispondenza dell’inquadratura del cielo di San Francisco.
Tale interpolazione è evidenziata in effetti da una sottolineatura (FIGURA 10)
a opera di Oskar Sala o Remi Gassmann, ai quali la copia della sinossi appartiene, con l’ovvia funzione di promemoria sulle scene che sarebbe spettato loro di sonorizzare.
Come risulta da questo esempio, l’assetto produttivo delineatosi grazie
alla collaborazione con i compositori – sui generis rispetto alla prassi “classica” hollywoodiana – consente al suono degli Uccelli di essere riconducibile a
tre differenti matrici che, piegate agli scopi hitchcockiani, diventano elementi del disegno drammaturgico: a) la famiglia di suoni prodotti in Germania
dallo studio di Sala; b) la famiglia di suoni prodotti dal Revue Studio di Los
Angeles, che svolge le tipiche mansioni di sonorizzazione e mixaggio; c) la
presa diretta (wild track), alla quale appartiene parte dei suoni animali nella
Figura 10: Dettaglio da Background sounds for The Birds, cit., p. [1].
scena del negozio (cfr. terza colonna TABELLA 2).
Il regista, inoltre, non soltanto dispone di una più ampia varietà di opzioni, ma è messo in condizione di poter scegliere l’esatto dosaggio di ele-
91
Maurizio Corbella
menti sonori minimi trattabili singolarmente, che andranno a comporre il
paesaggio sonoro che egli ha in mente: si tratta di una grande novità dal
punto di vista della regia, che mette in campo valori nuovi basati su nozioni
mutuate dalle sperimentazioni in campo elettroacustico. Ciò traspare in particolare dalla modalità con cui Hitchcock si riferisce ai dettagli del suono
elettronico, affrontando il suono degli uccelli come un corpus composito dotato di elementi definibili singolarmente, ognuno con determinate caratteristiche acustiche e relative connotazioni:
[...] potremmo provare solo con alcuni rumori d’ala, con una variazione di
volume e una variazione di espressione di questa in termini di ritmo. Potremmo anche considerare se avere qualche suono di uccello tipo corvo o
gabbiano o il loro equivalente elettronico, o una combinazione di ali e versi
di uccello. 91
Tale terminologia usata dal regista trova d’altronde corrispondenza nella
procedura compositiva di Gassmann e Sala, che avvicina in effetti gli elementi sonori come oggetti singoli per poi orchestrarli, come appare chiaro
fin dalla prima pagina del cue sheet preparato dai compositori in concorso con
George Tomasini (si vedano termini come flutter curtain, vocal curtain, effects
curtain in FIGURA 11), il rinvenimento del quale ha recentemente legittimato
approcci analitici di tipo musicologico ad alcune sezioni del film, facendo tra
le altre cose chiarezza intorno al ruolo di “consulente musicale” ricoperto da
Bernard Herrmann.92
91 Ibid.
Herrmann, di fatto, interviene solo alla fine dei lavori di Gassmann e Sala, chiedendo ai compositori di integrare il mix con tre «extra sounds»; la logica che sottosta
l’intervento di Herrmann è preminentemente acustico-musicale, e mira a “bilanciare” l’equilibrio delle componenti sonore in determinate sequenze. Si veda
WIERZBICKI 2008, che tra le altre cose tenta anche un’analisi musicologica della sequenza dell’attacco degli uccelli alla casa.
92
92
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Figura 11: Dettaglio dal cue sheet di The Birds (p. 1), preparato da Remi Gassmann e Oskar Sala e consegnato al direttore del montaggio George Tomasini
(GASSMANN–SALA [1962]).
Anche il rumore, dunque, è scomponibile in unità minime di suoni e,
viceversa, a partire da queste, può essere ricomposto. Benché non si tratti di
una novità assoluta (la cinematografia d’avanguardia degli anni Venti e
Trenta perseguiva medesime finalità, ma con strumenti di più difficile utilizzo), si può parlare a questo punto di una vera e propria messa in pratica da
parte del cinema narrativo degli anni Sessanta di acquisizioni avvenute nell’ambito delle musiche elettroacustiche del secondo dopoguerra. La stupefacente capacità emulativa dei sintetizzatori, l’introduzione del nastro magnetico e delle relative opzioni di taglio e montaggio, comunicano il fatto che la
tecnologia ha raggiunto il traguardo di strutturare la sfera dell’acustico analogamente a quanto era già possibile per la sfera visiva. Il suono può dunque
essere trattato congiuntamente all’immagine; si prefigura quella omogeneità
tra suono e fotogramma che sta alla base della nozione di “testo audiovisivo”
come struttura costituita da immagine, parola e suono, il cui significato si
determina nell’interazione delle componenti:
93
Maurizio Corbella
Le due dimensioni [suono e immagine] sono [...] correlate grazie all’analogia
(e in certi momenti identità) dei procedimenti tecnici con cui vengono trattate. L’impiego di questi mezzi richiama inevitabilmente una delle acquisizioni
principali della musica elettronica, cioè la scoperta che il suono singolo è a
sua volta risultato di un’addizione di elementi parziali. Tale unità del molteplice è proiettata su vasta scala nella dimensione sonora del testo audiovisivo:
il suono è una mistura di suoni.93
Le conseguenze di tale assunto in termini rappresentativi sono notevoli, in
parte già intuite a proposito degli Uccelli: l’autore cinematografico ha finalmente in mano, grazie alla consapevolezza fornitagli dalla musica elettroacustica, un formidabile strumento di invenzione e organizzazione dell’universo sonoro.
Per descrivere bene un rumore, bisogna immaginare ciò che darebbe il suo
equivalente in dialogo. Volevo ottenere nella mansarda un suono che significasse la stessa cosa come se gli uccelli dicessero a Melanie: «Adesso sei nelle
nostre mani. E arriviamo su di te. Non abbiamo bisogno di emettere delle
grida di trionfo, non abbiamo bisogno di andare in collera, commetteremo
un assassinio silenzioso». Ecco ciò che gli uccelli stanno dicendo a Melanie
Daniels ed è quello che sono riuscito a ottenere dai tecnici del suono elettronico.
Per la scena finale, quando Rod Taylor apre la porta della casa e vede per la
prima volta degli uccelli a perdita d’occhio, ho chiesto un silenzio, ma non un
silenzio qualsiasi; un silenzio elettronico di una monotonia che potesse evocare il rumore del mare che giunge da molto lontano. Trasposto nel dialogo
degli uccelli, il suono di questo silenzio artificiale significa: «Non siamo ancora pronti ad attaccarvi, ma ci stiamo preparando. Siamo come un motore che
sta per rombare. Stiamo per spiccare il volo». È questo che si deve capire con
dei suoni piuttosto dolci, ma il mormorio è talmente debole che non si sa con
certezza se lo si sente o lo si immagina.94
La predisposizione del “nuovo cinema” degli anni Sessanta a utilizzare in
senso poetico, ad affrontare criticamente, quando non sperimentalmente,
ogni componente del linguaggio cinematografico, non può non trarre ulteriore linfa da questo fatto. Alle tensioni estetiche delle cosiddette new waves si
aggiungono, nel panorama cinematografico globale, gli effetti della crisi dello Studio System hollywoodiano, iniziata nel 1948 con la sentenza della Corte
Suprema americana contro il monopolio delle storiche case di produzione;
93 BORIO 2007.
94 HITCHCOCK in
94
TRUFFAUT 1983, pp. 246-247.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
con il collasso del collaudato sistema produttivo “classico”, l’assetto sonoro
delle pellicole è uno dei principali aspetti a incontrare una sostanziale
ridefinizione.95
Vittorio Gelmetti (Milano 1926 – Firenze 1992) è senza dubbio il più attivo “ideologo” della militanza
compositiva nel cinema degli anni Sessanta. Nonostante il non altissimo numero di titoli cinematografici a cui collabora, circa
una trentina in trent’anni di attività, è uno dei pochi compositori a prender
parte all’acceso dibattito cinematografico di quella decade, anche perché è
uno dei pochi a investire buona parte della propria poetica sulla cosiddetta
musica “applicata”, aggettivo contro il quale si è scagliato più volte nel corso
della sua attività.
IV. Vittorio Gelmetti e la “musica-verità”
[P]urtroppo è invalsa l’abitudine di pensare alla musica applicata come a una
musica di categoria B, a un sottoprodotto musicale. Ma la musica da concerto, cioè la musica come tale, ha un arco storico abbastanza breve (150 anni) e
oggi possiamo anche dire che è morta o sta morendo. La musica è sempre
esistita in funzione di qualche cosa: o in funzione del teatro o con una funzione sociale ben precisa.96
Autodidatta, trasferitosi a Roma nel 1938 dopo un’infanzia trascorsa a Bardolino, sul lago di Garda, giunto “solo” trentaduenne alla prima pubblica
esecuzione di una sua composizione,97 non è forse casuale che la sua vicenda
musicale sia animata da interessi “di confine” (numerose sono le musiche di
scena oltre alla musica cinematografica, tra le quali spicca la collaborazione
con Carmelo Bene), da una partecipazione critica all’avanguardia, e da una
fervente attività di animatore culturale (nella seconda metà degli anni Sessanta è responsabile della sezione musicale del periodico «Marcatrè»),98 uniti
«In terms of film presentation, the quality of sound reproduction declined radically. When the
studios owned the theaters, technical advances could be implemented during the production process
with assurances that the theater environment would be able to handle the advance. It can be argued
that speaker technology and noise reduction may have advanced much faster if the studios had not
been required to divest. [...] The breakup of the studio system affected sound production and sound
personnel as well. [...] As a result, films were no longer produced entirely within the confines of the
major studio facilities, and the impact on film sound production was immediately apparent. Sound
departments were dismantled or spun off as separate corporate entities. Production shifted to the independent production companies, and house styles at the studios – which had developed because of the
shared assets of film libraries and sound personnel – dissipated»; WHITTINGTON 2007, pp. 2830.
96 GELMETTI 1975, p. 92.
97 Musica per quattro archi (1957), eseguita e radiodiffusa nel 1958; cfr. GELMETTI 1984,
pp. 17-20.
98 DE MEZZO 2007, p. 543.
95
95
Maurizio Corbella
a una buona propensione all’attività polemista e divulgativa. Marco Alunno
lo ha definito un «intellettuale “sospettoso” [...], in primis un osservatore
che, con spirito assai critico, ha operato sovente in reazione a quelle che erano le scuole di pensiero accreditate [...] senza, per questo, abbandonare mai
la strada della ricerca e dell’avanguardia».99 Egli è forse il compositore in cui
si avverte la maggiore continuità tra ricerca musicale e attività cinematografica; tale continuità è nel segno della sperimentazione, inizialmente legata
alla composizione elettronica. Dopo un esordio caratterizzato da studi sui
parametri sonori realizzati grazie alle attrezzature l’Istituto Superiore delle
Poste e delle Telecomunicazioni, della Discoteca di Stato e, successivamente,
dello S2FM di Firenze, egli si concentra sull’idea di allargamento della sfera
del musicale all’intera gamma dei fenomeni sonori della società contemporanea, avvalendosi della tecnica del collage.
[Con] Treni d’onda a modulazione di intensità (1963) mi ero reso conto di essere
affrancato da qualsiasi legame (positivo o negativo) con l’avanguardia. Il passo successivo, infatti, dopo circa tre anni di silenzio, è il collage Nous irons à
Tahiti (1965). In quel momento divengo assolutamente un isolato, le influenze
intellettuali che mi agiscono come compositore non vengono quasi più dalla
musica, vengono da altrove, e preciso: per me è stato decisivo l’incontro con
la pop art. L’appropriazione del già esistente (di ascendenza dada) e l’inserzione del preesistente in un contesto inconsueto, il significato “secondo” che
assume il preesistente se inserito in un contesto desueto, sono le determinazioni che si è trovato alla base di una lunga fase di attività che potrei definire
la mia seconda maniera. 100
È proprio in relazione a quest’attitudine da «predatore» dell’esistente, resa
possibile dalla fonografia, che prende forma la poetica cinematografica del
compositore, esposta compiutamente in un intervento presentato in occasione del convegno “Il film sonoro” organizzato dalla rivista «Filmcritica» ad
Amalfi nel 1968, intitolato provocatoriamente Musica-verità?. Gelmetti è
l’unico compositore a prendere la parola in quest’occasione, accanto a lui ci
sono critici cinematografici e intellettuali dell’ambiente di «Filmcritica»
(Edoardo Bruno, Armando Plebe), semiologi, filosofi e studiosi di comunicazione (Guido Marpugno-Tagliabue, Antonio Napolitano, Emilio Garroni),
99 ALUNNO 2004, p.
190.
60.
100 GELMETTI 1984, p.
96
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
cineasti come Alberto Lattuada e Alfredo Leonardi, e tecnici del suono come Paolo Ketoff.101
La riflessione di Gelmetti parte dall’amara constatazione che il cinema
contemporaneo si trova nella situazione ormai endemica di negarsi come
medium dotato di specificità e autonomia linguistiche, avendo piegato i suoi
mezzi ai contenuti del romanzo e del melodramma, e avendo di conseguenza imposto alla musica la patina dell’affabilità impersonale, destinata a collocarsi su un livello di accondiscendenza delle convenzioni più consumate,
attraverso «abili maquillages che i musicisti specializzati in cinema hanno imparato a fare con abilità ed indifferenza, confortati dalla facilità con cui il
prodotto cinematografico tende a distruggere ogni residuo di naturalezza».
Un linguaggio stereotipo, alienante e leggero è stato via via codificato con la
compiacente complicità di editori, registi e produttori. [...] Tuttavia non bisogna dimenticare che il potere qui detenuto da una serie di musicisti che, nel
momento in cui stavano per disperare, hanno trovato un provvidenziale impiego di imbalsamatori.102
L’atto d’accusa non potrebbe essere più netto e severo, e si inserisce a pieno
titolo nel generale clima di rottura tra avanguardia e disimpegno che negli
anni a cavallo del Sessantotto assume spesso toni aspri e apodittici, e allo
stesso tempo richiama indirettamente temi da sempre dibattuti nell’ambito
teorico, come la questione dello specifico musicale cinematografico, al centro del testo di riferimento di Adorno e Eisler.103 Solo che, mentre i due autori alla fine degli anni Quaranta si muovevano sul versante morfologico,
sostenendo che non esiste una “forma cinematografica” della scrittura musicale, la quale deve semmai attingere al rinnovato patrimonio formale della
Purtroppo la pubblicazione degli atti del convegno, spesso ricordato anche come
“Amalfi 2” (l’anno precedente si era tenuto nella stessa località un convegno intitolato
“Popolarità, comunicazione, rivoluzione” nel quale, per inciso, aveva partecipato
anche Gelmetti), avviene in maniera frammentaria e spezzettata nelle diverse uscite
di «Filmcritica», la rivista promotrice dell’iniziativa, fino al 1970. Dopo evidenti problemi di pubblicazione, alcuni interventi vedono infine la luce sotto forma di riassunti. Ecco comunque un elenco dei titoli relativi al convegno usciti sul periodico: «Filmcritica», 185, gennaio 1968: Armando PLEBE, Introduzione al Convegno su “Il film sonoro”; Guido MORPURGO-TAGLIABUE, Fattore visivo e fattore auditivo nel film; Vittorio
GELMETTI, Musica-verità?; Emilio GARRONI, Per una teoria del film sonoro; «Filmcritica»
186, febbraio 1968: Edoardo BRUNO, Amalfi 2; AAVV, Il manifesto di Amalfi; «Filmcritica» 187, marzo 1968: Giorgio TURI, Il suono nella comunicazione filmica; Paolo KETOFF,
Presa diretta e colonna guida; Antonio NAPOLITANO, Correlazione audio-visiva nel film; «Filmcritica», 194, gennaio 1969: Il film sonoro, a cura di Gianni L. Dalla Valle [riporta i
riassunti degli interventi di Alberto Lattuada, Nuccio Lodato, Renato Tomasino,
Bruno Widmar].
102 GELMETTI 1968, p. 111.
103 ADORNO-EISLER 1947.
101
97
Maurizio Corbella
musica del primo Novecento, sul modello dell’op. 34 di Arnold Schönberg,
Gelmetti, forte della propria esperienza sperimentale, avanza una proposta
interessante, per quanto apparentemente poco seguita nel prosieguo della
disciplina cinematografica (ma in compenso imparentata abbastanza strettamente con sviluppi della neonata video-arte): accogliere, attraverso le moderne tecniche del collage e della rielaborazione elettroacustica, la molteplicità delle manifestazioni musicali e sonore della società contemporanea, vale a
dire compiere una vera e propria operazione di fonografia.
Oggi il mondo sonoro in cui siamo immersi si presenta con caratteri di complessità e con una presenza massiccia e talvolta opaca che non può in nessun
caso essere ignorat[a]. […] Ciascuno ritaglia una sua audiosfera in cui isolarsi; ma c’è ancora la radiolina a transistors, l’autoradio, la radio sui pullmans, sui
treni, nei supermarkets, i juke-bokes, i dischi da consumare in casa: la musica è
ovunque disponibile […]. E tutto ciò si mescola con la gamma di tutti i rumori industriali, dal boato dei jets al complesso background sonoro della città.
Di questa situazione complessa soltanto un’area ristretta della musica contemporanea si è resa chiaramente conto, facendo definitivamente saltare le
barriere tra suono e rumore, tra strumento e oggetto, dichiarando decadute
tutte le distinzioni di genere, ogni differenziazione nobiliare (nobiltà del canto
sul parlato, della musica da concerto su quella di consumo, ecc.).104
Non sfugge a Gelmetti che l’abbattimento delle barriere testé descritto ha,
almeno in potenza, per il cinema una conseguenza diretta sull’assetto produttivo. Il compositore inteso in senso tradizionale si trova a svolgere nel cinema contemporaneo un ruolo ridondante, e spesso dannoso, poiché una
musica per film costruita sui «cascami di una cultura musicale di seconda
mano» non produce che danni in opere di buon livello, immettendo in esse
elementi «del tutto estrane[i] al prodotto di cui [avrebbe] dovuto far parte
integrante», al punto che «molti registi si sono resi conto che la musica (almeno in tali condizioni) non serve al loro film e ne hanno fatto a meno, puntando sui rumori, sugli effetti, sul dialogo, ottenendo a volte singolari
risultati». 105
La pars construens del ragionamento gelmettiano sta nella proposta di
tenere conto delle recenti acquisizioni della musica contemporanea, in modo
da recepire l’intero spettro del suono di un film come una categoria unica da
approcciare con un progetto unitario e coerente.
104 GELMETTI 1968, pp.
105 Ivi,
98
pp. 113-114.
112-113.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Soltanto nella misura in cui cadranno tutte le distinzioni tra musica ed effetti
sonori, tra dialogo e colonna internazionale, per intendere tutti gli eventi sonori come musica o, se lo si preferisce, ogni musica come evento sonoro non
privilegiato, soltanto a queste condizioni può iniziare ad istituirsi un discorso
sulla possibilità di un film sonoro. 106
Quando Gelmetti parla di far cadere le distinzioni tra queste componenti
«per intendere tutti gli eventi sonori come musica» o «ogni musica come
evento sonoro non privilegiato» sta in un certo senso invocando senza citarla
una delle acquisizioni più importanti del Novecento musicale, con la quale si
confrontano gran parte delle esperienze elettroacustiche del secondo dopoguerra: l’idea di musica come suono organizzato formulata da Edgar Varèse.
La novità della sua posizione sta, tuttavia, nello smarcarsi dagli approcci debitori della tradizione concreta francese, in cui gli eventi sonori erano trattati
«come materiale sonoro primario da elaborare e trasformare», per optare
invece su un loro utilizzo «nella loro piena identità (cioè con il massimo di
riconoscibilità) e spesso soltanto contrapposti e sovrapposti ad altri eventi (il
che poi conferisce loro un significato secondo)», richiamandosi dunque
esplicitamente a quelle tendenze collagistiche percorse in Italia in quegli
stessi anni da Giuseppe Chiari, Aldo Clementi e Sylvano Bussotti (con i quali peraltro Gelmetti condivide molteplici esperienze).
[Tutto] ciò che mi sta intorno diviene oggetto di un cosciente saccheggio. Mi
interessa la storia della musica (tutta), le tradizioni popolari europee e no, il
mondo dei suoni – naturali o artificiali che siano – nella sua complessità e
totalità. 107
Questo modo di procedere, apparentemente fuori dalla linea di ciò che per
convenzione comune (stereotipa) si denomina musica, è l’unico modo per
tentare di cogliere il senso della realtà odierna e per tentare di esprimere
l’intelligenza del nostro tempo con mezzi musicali (o se lo si preferisce sonori).
In alcuni casi si è giunti ad una sorta di reportage fonografico, in cui l’intervento del musicista è stato minimo o nullo, registrando su nastro magnetico
una serie di eventi sonori quotidiani tra i più comuni (traffico stradale, stazione ferroviaria, interno di chiesa, officina, partenza di jet); in tal caso si è avuto
soltanto una scelta dei momenti e dei luoghi in cui registrare, accettando tut-
106 Ivi,
pp. 115.
107 GELMETTI 1984, p.
60.
99
Maurizio Corbella
ta l’aleatorietà di tali eventi e le immancabili distorsioni derivate da tali registrazioni. Si è parlato a tale proposito di musica-verità o di fonografia. 108
Nel 1968, quando il compositore presenta questo intervento, può basarsi su
un corpus di partecipazioni cinematografiche nelle quali ha già messo in atto il principio di “musica-verità” esposto in queste righe. In Nous irons à Tahiti
[1965],109 mediometraggio di Christian Motter e Paolo Brunatto che «riproduce la giornata di un impiegato svizzero girato con lui stesso per protagonista»,
[l]a colonna sonora nasce, evidentemente, per contestare e per convalidare
tale realtà di alienazione e di totale integrazione. A tale scopo viene elaborato
del materiale sonoro tratto dal flusso eruttato dalla filodiffusione, e montato
in modo da conservare al nuovo significato che viene via via assumendo,
l’originale, o buona parte della originale, semanticità.
Si opera, quindi colla musica stessa presa come materiale oggettivo ma non si
rinuncia ad agire in modo razionale.
I materiali impiegati sono prevalentemente musica di consumo (canzoni, arrangiamenti noti, ecc.), jazz, e in minor misura musica romantica (Chopin,
Concerto n. 1) e frammenti di opere dello stesso autore. La firma dell’autore è
giustificata dalla elaborazione elettronica ottenuta mediante filtraggio di
banda, variazione di velocità (accelerato, decelerato in modo costante oppure
glissato), spazializzazione con riverberatore. Procedimento che non intende
annullare in un pastiche la realtà accettata ma solo citarla.
Ne risulta un effetto strano di realismo in quanto ci accorgiamo spesso che
quella deformazione di Chopin o di una canzone che rileviamo in Nous irons à
Tahiti la riconosciamo già nell’ascolto-radio, nel ricevere casualmente più fonti sonore da più punti dello spazio, nell’ascoltare, per un’attimo, musica passando a gran velocità con l’automobile davanti ad un bar e in tante altre
esperienze che la nostra vita nelle città moderne ci offre spesso.110
Con La tana di Luigi Di Gianni [1967], mediometraggio che racconta di un
«un uomo che vive rintanato in una vecchia casa... e assiste impotente alla
propria disgregazione»,111 siamo praticamente in presenza di un film muto,
dal punto di vista della componente verbale. La stratificata presenza sonora
comprendente musica elettronica, acustica e concreta, effetti di sottofondo di
pp. 115-116..
Mentre non mi è stato possibile rintracciare il film, segnalo che la composizione
musicale omonima è stata pubblicata in GELMETTI 1997, cfr. DISCOGRAFIA.
110 CHIARI 1966, p. 43.
111 DE SANTIS s.d.
108 Ivi,
109
100
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
vento, integrati a suoni che ricordano le Ondes Martenot o il Theremin,
creano un continuum in metamorfosi perpetua che di volta in volta emerge
e si re-inabissa. A intermittenza compaiono lunghi accordi di flauti e archi e
il suono di un clavicembalo che gradualmente diventa lo strumento conduttore. Voci umane, esplosioni, voce della radio e della televisione, parole incomprensibili: diventa evidente che il “punto d’ascolto” dello spettatore è
l’interno della mente del protagonista in inesorabile disgregazione.
In Hermitage di Carmelo Bene (1967), il contributo di Gelmetti, se si
eccettua l’incipit sulla linea degli esempi già citati, consiste in un montaggio
dalle ultime scene di Un ballo in maschera di Verdi, mentre il progetto più ambizioso a cui Gelmetti prende parte nell’ambito di questa produzione d’avanguardia è A mosca cieca di Romano Scavolini (1968), lungometraggio inizialmente di sei ore ridotto nel corso della lavorazione. Anche in questo caso,
per stessa ammissione del regista, siamo alle prese con un film muto in cui la
colonna sonora doveva in sostanza sostituire il dialogo.
Gelmetti fu coinvolto in A mosca cieca verso la fine del montaggio. La lavorazione di A mosca cieca fu abbastanza lunga per un cortometraggio di quel tipo.
Inizialmente il film durava sei ore ed era articolato su tre livelli distinti. Decisi
di tagliare un livello del racconto e ristrutturare il film su due livelli, poi alla
fine mi convinsi che ne sarebbe comunque scaturita un’opera non omogenea,
da come l’avevo concepita, quindi decisi di focalizzare il racconto su un solo
piano narrativo. Fra riprese e montaggio il film durò un anno. [...] [A] Gelmetti [...] dissi testualmente che il film sarebbe stato praticamente muto e che
la colonna sonora che desideravo doveva in sostanza sostituire il “dialogo”.
Gelmetti aveva realizzato per Il deserto rosso solo alcuni brani. A mosca cieca era
in sostanza il vero primo film che Gelmetti avrebbe musicato integralmente
dal primo all’ultimo fotogramma. Si trattava di una colonna sonora molto
particolare, dato che doveva coprire tutto l’arco narrativo. Ancora oggi considero la colonna sonora del film un esempio straordinario di come il suono
(da chiavi di lettura sinfoniche ad estrapolazioni di rumori e parole) dovrebbe
partecipare alla drammaturgia filmica. La casa discografica CAM mise a disposizione di Vittorio Gelmetti un’orchestra di oltre cento elementi ed io seguii tutta l’esecuzione e la registrazione diretta dallo stesso Gelmetti con
proiezione di volta in volta delle scene del film di fronte all’orchestra. Fu
un’esperienza incredibile!112
ROMANO SCAVOLINI, comunicazione personale, 19 luglio 2009. Su questo film e
su La prova generale, il successivo di Scavolini con musica di Egisto Macchi, cfr. anche
D’ARBELA e SCAVOLINI 1967. Per una panoramica sulla figura dell’autore, segnalo il
documentario Ritratto di Romano Scavolini, (r. Paolo Brunatto, 2004), all’interno del
ciclo televisivo in 12 puntate Schegge di utopia. L’underground italiano questo sconosciuto, a
cura di P. Brunatto, Cult Network Italia, 2004.
112
101
Maurizio Corbella
La frequente occorrenza di tipologie filmiche in cui prevale l’idea di film
“muto”, in cui cioè vi è una dissociazione tra l’evento visivo e gli eventi sonori che si ascoltano, non è certamente casuale, bensì una diretta conseguenza dell’approccio gelmettiano. Il dispiegarsi nel tempo della componente sonora non coincide con quello della componente visiva, non si creano
cioè effetti di sincrono se non strettamente necessari, e ciò determina (o così
dovrebbe) nello spettatore un atteggiamento critico, vigile, o comunque opposto a quello rapito di fronte a un cliché in stile hollywoodiano.
Alla sincronizzazione non ho mai prestato eccessivo credito: penso che possa
funzionare in quei casi di musiche ed immagini senza spessore, bidimensionali, lucide come cartoline colorate in cui si tratta tout court di arredare con
qualche gradevole ed anonimo oggetto sonoro alcune immagini altrettanto
gradevoli ed anonime. Dunque montaggio: fase in cui è possibile collocare
esattamente la musica ove si vuole e dove è possibile creare quelle sovrapposizioni di elementi ritenuti necessari. 113
Ciò si presta particolarmente alle modalità narrative scelte dagli autori con
cui Gelmetti collabora anche al di fuori della cinematografia cosiddetta
“d’avanguardia”. In collaborazioni quali quella con i fratelli Taviani per Sotto
il segno dello scorpione (1969), o con Giuseppe Ferrara per Il sasso in bocca (1970)
la musica, pur tornando a ricoprire un ruolo circoscritto, si integra profondamente con il progetto drammaturgico dei registi. Sappiamo, sulla base
delle dichiarazioni dello stesso compositore che, nel caso dei Taviani, egli
viene coinvolto fin dalla fase di stesura della sceneggiatura, in questo senso
rispettando gli auspici manifestati nell’intervento di “Amalfi 2”. Il peculiare
impianto narrativo del film coinvolge in larga parte l’elemento sonoro, contravvenendo una serie di convenzioni, prima fra tutte quella della comprensibilità della parola; le voci di questa narrazione corale e polifonica, ricostruite in sala di doppiaggio prendendosi ampie libertà creative, in più di
un’occasione si sovrappongono le une sulle altre, vengono superate dai rumori ambientali o dalla musica; il risultato è un distacco critico dello spettatore, che è forzato a seguire la vicenda con uno sguardo esterno e vigile,
quasi che su alcune parti del racconto, in alcuni dialoghi solamente intuiti, si
possa inserire la didascalia “eccetera”:
[...] il doppiaggio è per noi un momento creativo: scoperta di nuove possibilità, invenzioni e variazioni: possibili solo sulla base del già fatto, del materiale
113 GELMETTI 1974, pp.
102
c68-c69.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
girato, montato, musicato. Una possibilità che la presa diretta escluderebbe,
condizionandoci a scelte fatte una volta per tutte La presa diretta può risolversi in una scelta che alla fine risulta di tipo naturalistico. Ti impedisce di
inventare dei fondi sonori, legati non tanto al dato realistico della scena stessa, ma al ritmo musicale di tutto il film. Noi [...] non vogliamo togliere all’atteso momento del mixage la sua potenzialità espressiva dell’ultimo minuto.114
Potremmo quasi spingerci ad affermare che la musica, per come è concepita
da Gelmetti, entri a far parte delle componenti del doppiaggio, proprio come una voce tra le altre, anche se dotata naturalmente di qualifiche espressive non verbali. In larga misura costruita su procedure aleatorie, consente al
compositore (in concorso con i registi) la massima flessibilità fino al momento della registrazione.
Implicito poi nella scelta delle lunghe fasce sonore orchestrali e corali, l’impiego della tecnica aleatoria che, con la sua flessibilità, mi avrebbe dato
modo, al momento della registrazione, di apportare seduta stante quelle modifiche che si fossero rese necessarie. Tale tecnica, nel caso specifico, consisteva
nell’assegnare a ciascun esecutore un suono soltanto ed un tipo solo di emissione del suono per ciascun brano da registrare (e precedentemente già assegnato ad una sequenza). 115
Ne scaturisce un impiego della musica in funzione né di commento né tanto
meno di ambientazione “realistica”, bensì di “escrescenza” metatestuale: la
componente musicale si impone infatti attraverso le sue caratteristiche metamusicali, come per esempio la dimensione temporale “pura”. Le «scansioni ritmiche» che costituiscono una delle matrici aleatorie composte dall’autore,116 assumono una funzione simile a quella delle frequenti dissolvenze a
nero che frammentano la narrazione visuale, condensano il “non detto” del
film in una breve e densissima cellula musicale:
Le scene musicali sono legate fra loro da pezzi di pellicola nera, per permettere al pubblico di distanziarsi dal film onde giudicarlo (e quindi, precisano i
Taviani, «le code nere divengono anche misure, battute musicali, ritmo car114 TAVIANI
1971, pp. c49-c50.
p. c68.
116 Gelmetti precisa di avere lavorato predisponendo differenti matrici sonore di natura aleatoria (peraltro chiaramente percepibili nello svolgersi del film) «da cui
estrarre, all’atto dell’esecuzione stessa (e pertanto ripetibile e modificabile), la musica
desiderata. Infatti, una volta assegnato a ciascun esecutore un suono ed un modo di
emissione, all’atto dell’esecuzione tutto il resto rimaneva affidato al direttore (e cioé:
suono o silenzio, durata dei suoni, intensità dei suoni e, soprattutto, gli impasti timbrici contenuti nella matrice iniziale)»; ibid.
115 GELMETTI 1974,
103
Maurizio Corbella
diaco in un film come lo Scorpione che, se ha dei riferimenti negli altri linguaggi, li trova non nella letteratura o nella pittura, ma nella musica»).117
La componente temporale del testo audiovisivo è sicuramente quella che
presenta i maggiori margini di creatività nel contesto dell’apporto gelmettiano anche nell’altro film citato, vale a dire Il sasso in bocca di Giuseppe Ferrara.
In una sequenza centrale del film, nella quale vengono illustrati i rapporti
tra mafia siciliana ed americana, dal punto di vista visivo osserviamo un découpage imperniato sui simboli del consumismo americano e della società siciliana, mentre acusticamente avvertiamo la sovrapposizione (fortemente debitrice delle esperienze collagiste di Gelmetti) di musiche tradizionali sicule e
scampoli del repertorio americano contemporaneo, da Hollywood a Broadway passando per il surf, alla quale si aggiunge una narrazione verbale organizzata attraverso una coralità di voci sovrapposte come in uno zapping radiofonico. L’impressione che se ne ricava è di una forte accelerazione temporale basata sull’estrema capacità di sintesi che il tessuto audiovisivo così
orchestrato possiede, ma soprattutto di una condensazione semantica prettamente e specificamente audiovisiva. La forma coincide con il contenuto.
117 COMUZIO 1977, p.
104
112.
3
Alla ricerca di un immaginario
Funzioni culturali del suono elettroacustico nel cinema narrativo
Il 20 gennaio 1967 il Synket viene presentato a Roma da John Eaton di fronte a una platea di compositori americani e italiani, ingegneri del suono, e
giornalisti. Tra questi ultimi, c’è una scrittrice di nome Joan Marble, corrispondente dell’edizione internazionale del «New York Times», che sarebbe
poi stata autrice di alcuni libri di “costume” sulla sua vita romana divisa tra
la città e la campagna a nord della capitale, e che in quest’occasione offre
una gustosa recensione dell’evento. Per il modo in cui descrive le sue impressioni di spettatrice non addentro il mondo della sperimentazione, ma immersa nella vita culturale romana (moglie, tra le altre cose, dello scultore
Robert Cook), penso valga la pena di riportare l’articolo quasi per intero.
Una macchina che sfiata come una balena, sibila come una cetra ed emette
rumori inquietanti e supersonici è stata presentata a Roma. La macchina,
chiamata Synket, è invenzione di un tecnico del suono italiano di nome Paolo
Ketoff e assomiglia a un centralino telefonico sovrapposto a una pianola da
bambino. Poiché il signor Ketoff è prevalentemente un tecnico del suono per
film e studi di registrazione, la supposizione era che si trattasse soltanto di un
altra scatola per produrre rumori per il cinema italiano. Ma tale supposizione
era sbagliata. I musicisti seri, specialmente i musicisti elettronici, sono particolarmente seriosi e nervosi riguardo al Synket. In realtà quando settimana
scorsa a Roma si tenne un meeting scientifico per dimostrare la macchina,
Maurizio Corbella
c’erano molti più compositori italiani e americani nel pubblico che ingegneri
elettronici. E quando John Eaton, un giovane compositore americano con
una rossa barba edoardiana si sedette e indossò gli auricolari per la sua Composition for Synket 1 nella grande sala si sarebbe potuta sentire cadere una foglia.
Spine e luci
Il signor Eaton si guardava intorno come un centralinista, staccando spine,
osservando luci abbaglianti e ascoltando. Quindi, cinque minuti dopo, si tolse
gli auricolari e cominciò a suonare. (Più tardi avrebbe spiegato che il suo daffare preliminare serviva ad accertarsi che tutte le spine fossero negli ingressi
giusti e che nessuno dei cavi fosse incrociato). Quando cominciò a suonare, a
molti del pubblico sembrò che il compositore stesse cercando di mescolare
rumori da altri pianeti con suoni di uccelli e animali. Dapprima c’erano uccelli che cantavano, forse usignoli, poi il verso del grillo e quindi sembrò di
udire bambini che giocavano a campana. I grilli ripeterono il verso, sbatterono ali, un bulldog arrivò e abbaiò e quindi un disco volante planò ed espulse
un acuto (highpitched) gentiluomo di Marte che non perse tempo a liberare un
incredibile strillo. Cinque signore di Marte volarono immediatamente dietro
di lui e mescolarono i loro strilli con il suo e quindi l’intera area cominciò a
vibrare come una macchina demolitrice. I grilli persero la testa e cominciarono a strepitare all’unisono, il gioco dei bambini diventò un tutti-contro-tutti
e infine una balena rollò su una riva tempestosa fischiando una gioiosa melodia che solo un’altra balena avrebbe potuto capire. A questo punto le impressioni si fecero confuse. Le onde dell’oceano si ruppero sui grilli, qualcuno tese
selvaggiamente un arco aborigeno, un banshee gemette,2 una motocicletta cominciò a carburare, un matto lunatico strepitò, scoppiò la guerra in Mongolia, una Mercedes si schiantò contro una casa di cristallo e sette miliardi di
zanzare volarono dallo spazio e cominciarono a bombardare in picchiata il
pubblico.
Nostalgicamente piacevole
La musica che proviene dal Synket sembra sistematicamente e persino nostalgicamente piacevole. Secondo gli esperti questo è precisamente lo scopo
del nuovo macchinario musicale. Fornisce ai compositori elettronici un sintetizzatore portatile; fino a oggi i musicisti hanno dovuto affaccendarsi in stanze piene di costosi equipaggiamenti elettronici per ottenere i loro rumori e
hanno dovuto pre-registrarli per i loro concerti. Con il Synket il compositore
ha un intero repertorio di nuovi suoni affascinanti nelle sue dita. «Cose che
necessiterebbero di parecchi giorni e di differenti macchine e processi possono ora essere ottenute istantaneamente», ha detto il signor Eaton. Parimenti,
il Synket offre ai compositori una possibilità di pensare nuovi motivi musicali,
È verosimile che si tratti di un titolo generico dato a un’improvvisazione.
Il Banshee è una creatura mitologica irlandese; inoltre indica anche due modelli di
bombardieri statunitensi usati nella Seconda Guerra Mondiale. Banshee è anche il
nome di una composizione di Henry Cowell del 1925.
1
2
106
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
combinarli e filtrarli in differenti ritmi, eliminarli, raggrupparli, trascriverli, e
infine ascoltare cosa ne vien fuori.3
Figura 12: Riproduzione di MARBLE 1967;
nella foto Paolo Ketoff
(sx) e John Eaton (dx)
intorno al Synket.
3
MARBLE 1967.
107
Maurizio Corbella
Credo di non essere troppo zelante, se affermo che questa recensione offre
un campione rappresentativo della reazione a un evento che potremmo classificare a metà tra il culturale e il mondano, in cui la narratrice è un buon
esempio di pubblico tipico di una certa fascia culturale medio-elevata, perfetto spettatore da cinema d’autore con rare incursioni “alla moda” nell’avanguardia. Il registro giornalistico, brillante, leggero e compiaciuto, rende a mio modo di vedere manifesto l’inconsapevole spaesamento nei confronti di un evento del quale la cronista non riesce a cogliere il senso; ella è
perciò portata, per descriverlo, a fare ricorso all’arte affabulatoria, basata su
un pastiche di immagini esotiche, continui giochi di parole difficilmente traducibili e ironie leggere che ben si addicono al taglio del pezzo: sin dal titolo
Something New in Serious Noise, dove l’aggettivo serious è da un anglofono istantaneamente associato alla musica “d’arte” (serious music), ma è giustapposto a
noise (rumore), l’autrice cela la difficoltà, risolta con velata ironia, di circoscrivere l’orizzonte di azione dell’invenzione di Paolo Ketoff. Di fronte all’impulso di “liquidare” il Synket come il solito marchingegno, la solita scatola rumorosa («just another box to make noises»), che può esaltare forse i cinefili
di serie Z ma non certo gli intellettuali impegnati, l’attenta cronista si trattiene per il fatto che i «musicisti seri sono molto seri[osi] e nervosi riguardo
al Synket» (l’espressione inglese gioca in maniera quasi intraducibile sulla
doppia valenza dell’aggettivo: «serious musicians [...] are very serious and nervous
about Synket»). In altre parole, Marble avverte che l’intellighenzia intellettuale
costituita dai compositori italiani e americani, convenuti in numero maggiore rispetto agli ingegneri, sta di fatto sancendo che si tratta di un momento
importante e non dell’ennesimo specchietto per le allodole; ciò è legittimato
dal fatto che a esibirsi è un compositore poco o nulla interessato al cinema
come John Eaton. Ma, malgrado le migliori intenzioni, la reporter del «New
York Times» finisce ella stessa per mettere in atto una descrizione che altro
non è se non un “film verbale” che, ammesso non sia di serie Z, di sicuro
non potrebbe ambire al Leone d’oro. Il candore dell’immagine della balena
che intona una melodia che sarebbe anche gioiosa, se non fosse comprensibile esclusivamente a un’altra balena, è la manifestazione più palese che
Marble delega ad altri di apprezzare il senso (se c’è) di quell’evento musicale.
Nelle parole della scrittrice traspare in filigrana una società in cui il
cinema che accoglie quel tipo di sonorità rappresenta la cultura bassa, triviale, mentre la musica, «specialmente elettronica», è l’emblema della cultura
alta, «seria» appunto, anche se inconfessabilmente incomprensibile dal punto di vista dell’autrice dell’articolo: è quella frattura, ripetutamente denunciata negli anni Sessanta, tra due mondi che si scoprono irrimediabilmente
lontani e sempre meno in comunicazione. Naturalmente si tratta di un’im-
108
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
magine provocatoria che va interpretata nei suoi limiti poco pretenziosi; tuttavia è utile per stilizzare la dinamica conflittuale eppure ancora sostanzialmente fertile che si instaura tra i compositori del milieu elettroacustico e il
mondo della produzione sonora cinematografica. Ma anche volendo prescindere da una polarizzazione gerarchica del panorama culturale (alto/serio/d’arte – basso/triviale/d’intrattenimento), il tipo di descrizione fantasiosa offerta dalla recensione lascia emergere due paradigmi culturali entro cui
viene letta e interpretata la novità sonora del Synket (e, per estensione, di
tutti i sintetizzatori): da una parte un paradigma musicale, di cui Marble non
è buona interprete, che poggia su una concezione del suono elettroacustico
come elemento di un’organizzazione timbrica e sintattica all’interno di logiche compositive, dall’altra un paradigma cinematografico-visivo, che si avvale del patrimonio di associazioni e connotazioni attinte dall’immaginario culturale addensatosi intorno al suono all’indomani della rivoluzione fonografica.
Per tutto il corso dell’articolo, Joan Marble si serve, nel descrivere gli
inauditi suoni del Synket, di metafore e similitudini che fanno riferimento a
un immaginario ben presente ai lettori del quotidiano, in quanto anche spettatori cinematografici: da una parte topoi narrativi raffiguranti l’ultra-tecnologico, come il mondo extraterrestre (marziani, dischi volanti), il mondo industriale (la macchina demolitrice) e la natura nelle sue manifestazioni sublimi o ancestrali (uccelli, cani, grilli, balene, zanzare, banshee e persino bambini); dall’altra situazioni caratterizzate da dinamismo narrativo, che fanno
riferimento a condizioni di instabilità psichica, ambientale o sociale: «la situazione si fece confusa», «le onde dell’oceano si ruppero sui grilli», «un
matto lunatico strepitò», addirittura «scoppiò la guerra in Mongolia» (significativa la collocazione esotica – che Marble faccia inconsciamente riferimento alle “invasioni barbariche” di Giulietta degli spiriti?). Perché le scelte
descrittive di Marble risultino efficaci, la scrittrice deve chiaramente attingere a un repertorio di cliché largamente condiviso, ma così facendo testimonia anche della decodificazione automatica a cui il suono elettronico, nelle
varie configurazioni possibili attraverso il Synket, è sottoposto alla metà degli
anni Sessanta, se recepito da un ascoltatore non specialista. È questo un passaggio fondamentale, che ci dice quanto il suono elettronico e, più in generale, un certo tipo di elaborazioni elettroacustiche di materiali sonori, possiedano fin dalle loro caratteristiche primarie (timbro, grana, massa, morfologia, ecc.) un potenziale latente di innesco dell’immaginario dell’ascoltatore,
superiore a quello dei timbri dell’orchestra tradizionale, fatto che li rende
estremamente connotati ma in un certo senso limitanti sotto il profilo del
linguaggio audiovisivo – in quanto si sa che, quando un mezzo è troppo
109
Maurizio Corbella
connotato unidirezionalmente, esso può costituire un’arma a doppio taglio
per un autore.
Probabilmente questa è una delle ragioni che chiama molti protagonisti dell’avanguardia musicale degli anni Sessanta a una mal celata ostilità,
almeno a parole, verso l’utilizzo dei mezzi elettroacustici nel cinema. Possiamo anzi affermare che il compositore, proprio perché conosce le ricerche
connesse alle sperimentazioni elettroacustiche, è l’avversario più convinto di
quella che ai suoi occhi appare come una degenerazione. Nel più volte citato
programma radiofonico “Musica ex machina”, che rappresenta un’importante cartina di tornasole dell’atteggiamento dell’avanguardia romana nei
confronti della divulgazione, proprio nella misura in cui cerca di fare il punto sulle tendenze italiane e internazionali della musica elettroacustica, si parla di cinema nella puntata intitolata “Musiche di consumo e collages”.4
L’accostamento è di per sé indicativo del taglio della trasmissione: lo scopo
dei curatori è tracciare una demarcazione in quel nebuloso panorama che
divide il consumo, sottomesso alle regole e all’impero del mercato capitalista,
dall’utilizzo a fini estetici di elementi prodotti dalla stessa società dei consumi. È uno dei grandi temi della contemporaneità e uno dei filoni portanti
del dibattito degli anni Sessanta, che ha consegnato a questo problema alcune delle pagine ancora oggi fondamentali.
Ma torniamo alla trasmissione. La puntata comincia in medias res, portandoci nel bel mezzo di un dialogo tra Vittorio Gelmetti e l’architetto Paolo
Portoghesi. In sottofondo viene diffuso quello che di fatto è l’argomento della conversazione, il brano Modulazione per Michelangelo dello stesso Gelmetti.
La scelta della prospettiva sonora da dare alla composizione non è casuale,
dato che, come ci spiegano i due interlocutori, essa è stata concepita per essere diffusa nell’ambito della Mostra di Michelangelo (Palazzo dell’Esposizione, Roma, 1964) curata da Portoghesi, in particolare in corrispondenza
con l’allestimento delle fortificazioni fiorentine, «il momento di massimo impegno civile di Michelangelo». In tale contesto, la composizione gelmettiana
deve favorire l’immersione nell’ambiente architettonico ma al contempo
stimolare una certa «tensione mentale», nel merito dell’oggetto dell’esperienza estetica: le fortificazioni michelangiolesche come «esperienza sostanzialmente eterogenea rispetto al resto della sua opera». Il discorso così impostato tematizza la più generale questione della musica “ambientale”, una
musica che non va ascoltata in piena solitudine (interiore), bensì si inserisce a
vari livelli nell’ambiente sociale. Nel consumo contemporaneoessa lo fa
sempre più frequentemente attraverso il canale della registrazione e della
4 MUSICA EX MACHINA-VII
110
1967.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
diffusione, dunque ponendosi in omogeneità di condizioni con i mezzi dell’avanguardia e, soprattutto, nella «possibilità di intervenire con un tipo di
suono sulla sensibilità acustica di decine di migliaia, addirittura di milioni di
ascoltatori, quanti un concerto non potrà mai pretendere nello stesso tempo».
Dall’ambientazione sonora alla diffusione radiotelevisiva, ai film, il suono
deve corrispondere alla destinazione meccanica del mezzo e alla consumazione del prodotto, deve essere connesso ad altro tipo di manifestazione o
espressione, deve essere realizzato e diffuso in maniera economicamente conveniente, deve quindi essere su nastro. 5
La musica elettronica, la tape music, la musica concreta, i prodotti insomma
più recenti dell’avanguardia internazionale sono per loro natura anche i più
adatti ai nuovi media. Dove sta dunque il problema nell’ottica di Domenico
Guaccero e Pietro Grossi, curatori del programma? Nel fatto che tali media,
e in particolare il cinema, al quale viene dedicato un ampio passaggio, si limitano a utilizzare i mezzi di fissaggio e riproduzione sonora come mera
duplicazione di suoni noti, emarginando le ampie possibilità espressive delle
pratiche elettroacustiche ad ambiti circoscritti della narrazione di genere. 6
Ci chiediamo: è valido in senso estetico, quando la musica per film ha almeno pretese estetiche [...], il processo di fotografare degli strumenti, di fissarli
su nastro e non come surrogato di un ascolto dal vivo, come nel caso del disco o della radio, proprio per una sua destinazione che si presume naturale?
Quando ascoltiamo un flauto, un violino in una colonna sonora per film, sentiamo subito l’inautenticità dell’operazione: aver fissato, fotografato, non un
materiale vissuto, una realtà materiale, ma una realtà già artificiale – lo strumento con la sua scala di frequenze, il suo timbro, che è un fatto non della
natura o della vita umana, sottospecie della quotidianità, ma dell’artifizio già
artistico. Altra cosa sarebbe se si filmasse un flautista o un violinista che suona. Ben inteso, questa inautenticità può essere sfruttata nel contesto del fatto
filmico tutto interno per opposizione o per subordinazione, o per predominio
sull’immagine visiva. Pure, quello che sembra congeniale, visto così in astratto, al tipo di tecnica, trasposizione, montaggio del visivo filmico, è proprio la
tape music.7
5 Ibid.
6 L’argomentazione
è in linea con la riflessione di Cage discussa nel CAPITOLO 2.III.
7 Ibid.
111
Maurizio Corbella
L’argomentazione è qui sensibilmente involuta, perché in essa si sovrappongono più piani evidentemente sentiti come urgenti nel ragionamento, che
non si riescono a tenere separati. Spostare la questione in termini di “autenticità” vuol dire in sostanza sottintendere una posizione alquanto diffusa nel
dibattito culturale del periodo: il cinema mainstream, figlio dell’impostazione
classica hollywoodiana, è mistificatore, in quanto vende un prodotto ampiamente costruito, per di più seguendo un repertorio di convenzioni e regole piuttosto ferreo, come se rispondesse a logiche di naturalezza, come se
restituisse una copia autentica della realtà, quando invece plasma l’inerme
spettatore somministrandogli “valori” dell’ideologia borghese. Ciò succede
tanto per l’immagine quanto per il suono, con in più il fatto, sembrano sottolineare Guaccero e Grossi, che in ambito musicale esso sceglie di far passare
come naturale, attraverso la registrazione, il repertorio musicale meno adatto a tale scopo, vale a dire quello della musica da concerto suonata con
strumenti tradizionali. Il suono elettronico e i procedimenti di manipolazione o montaggio del nastro magnetico, quando ci sono, compaiono relegati in
una prospettiva topica (ambientazioni fantascientifiche, situazioni narrative
che inscenano stati psico-fisici alterati), fornendo ancora una volta un mendace suggerimento di autenticità, per cui il suono elettroacustico diventa in
un certo senso lo strumento di verosimiglianza dell’inverosimile o della devianza, con un potenziale espressivo neutralizzato in partenza.
Ahi noi, la musica elettronica per film è divenuta moneta corrente, è stata
consumata, in quanto commento fantascientifico, proprio per quel che di
astrale, di tellurico, di estremamente libero, sperimentale, parascientifico,
magico hanno i mezzi elettronico-concreti.8
Se l’equivalenza musica elettronica=fantascienza/devianza del reale è ciò da
cui il compositore sente di dover fuggire, ecco spiegato perché egli si rivolga
con sguardo attento verso esperienze cinematografiche contemporanee che
mettono in questione da principio il linguaggio cinematografico stesso, o lo
utilizzano con particolare padronanza e ironia: è il caso del cinema d’autore
italiano di Antonioni, Fellini, Pasolini o Bellocchio, del cinema d’avanguardia di Scavolini (intervistato proprio in occasione di questa puntata radiofonica) o Leonardi, della nouvelle vague o ancora del cinema americano di Hitchcock o Welles.
Fin qui il ragionamento è noto, e comune a molti altri ambiti del dibattito intellettuale di quegli anni. Ma i problemi, per chi analizza, comin-
8 Ibid.
112
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
ciano proprio nel momento in cui si prendono in esame i film di questo tipo
che fanno uso di procedimenti sonori elettroacustici e ci si rende conto che
molti di essi sono pienamente apprezzabili solo utilizzando come termine di
riferimento proprio la norma che caratterizza il mainstream, la quale può essere rovesciata, elusa o trattata con maestria, ma sempre in quanto tale funziona. Ciò accade sostanzialmente perché anche sui registi agisce, seppure in
maniera sorvegliata, l’immaginario che connota il suono elettroacustico.
Dopotutto, dal momento che anche Guaccero e Grossi riconoscono ai mezzi
elettronici la proprietà di rimandare a un’immaginario archetipico «di astrale, di tellurico, di estremamente libero, sperimentale, parascientifico, magico», è abbastanza evidente che è in questo aspetto del problema che dobbiamo addentrarci per comprendere il tipo di utilizzo cinematografico dei
mezzi elettronici. Invece di trattarlo come un dato di fatto che dà luogo a
cliché, è opportuno comprenderne il più possibile le ragioni di necessità storica, le cifre personali di elaborazione espressiva e, casomai, anche quelle del
suo rifiuto.
Il primo passo consisterà dunque nel provare a rintracciare, sulla scorta di un campo di studi già ampiamente dibattuto, la genesi storico-culturale
di tale potenziale, individuando, nel nesso tra la riflessione sul suono e l’introduzione delle tecnologie generativo/riproduttive di inizio XX secolo, la
materializzazione di archetipi dell’immaginario occidentale moderno. Successivamente, si tratterà di domandarsi come tale immaginario si riconfiguri
nel dopoguerra, in particolare negli anni Sessanta, come conseguenza delle
acquisizioni scientifiche, del fiorire delle neoavanguardie musicali e dell’affermazione del cosiddetto cinema d’autore. Infine, proveremo (CAPITOLO 4)
a calare tali tematiche nella realtà italiana degli anni Sessanta, individuando
triangolazioni tra cinema, sperimentazione musicale e dibattito intellettuale.
È difficile stabilire con esattezza l’origine delle connotazioni associate al suono elettroacustico. È possibile, comunque, mettere
in successione una serie di constatazioni che ci aiutino a far luce,
anche se solo parzialmente, sulle cause del fenomeno. Il primo
sintetizzatore dell’epoca elettrica, il Telharmonium – chiamato
anche Dynamophone dal suo creatore Thaddeus Cahill, per via del suo procedimento di sintesi tramite dinamo – rivoluziona profondamente le modalità di creazione ma soprattutto di percezione della musica sotto il profilo socio-culturale. Per quasi un decennio, dal 1904 al 1912, la città di New York
vive un’esperienza di ascolto rivoluzionaria e sorprendentemente anticipatrice sui tempi, tanto che alcuni studiosi si sono spinti fino a vedere nel Tel-
I. Sintesi sonora e fonografia
nell’immaginario: estensione
e spettro
113
Maurizio Corbella
harmonium la prima manifestazione del concetto di muzak:9 il mastodontico
sintetizzatore infatti, attraverso un complesso sistema che si serve delle linee
telefoniche, trasmette musica prodotta in tempo reale in svariati punti della
città, clubs, ristoranti, alberghi, negozi, ma anche strade. Reynold Weidenaar ha intitolato la sua fondamentale opera sul Telharmonium Magic Music
From the Telharmonium, 10 riproponendo per intero il titolo di un articolo apparso sul «New York Times» nel 1906.11 L’idea di magia e di mistero evocata dal cronista deriva non tanto dallo stupore di ascoltare musica senza avere
a portata d’orecchio la fonte diretta (per quello esisteva già il fonografo),
quanto dal fatto di sapere che quella musica è suonata in contemporanea
altrove, esattamente come accade nelle comunicazioni telefoniche. C’è una
sottile differenza tra i due tipi di fruizione sonora, che vale la pena di rimarcare: nel sistema del Telharmonium è insito il fondamentale concetto di simultaneità, che permette di immaginarsi dall’altro capo del “filo” un essere
vivente avvolto nel mistero che genera suoni e li fa giungere a noi attraverso
l’etere, da cui la qualifica di musica eterea.12 In questa elementare nozione
di simultaneità convivono in nuce numerose questioni destinate a esplodere
con la diffusione della radiofonia e della televisione, che hanno interpellato
categorie di grande impatto storico-sociale, dal potere (Attali) all’ecologia
(Schafer), fino a realizzazioni estetiche (l’impianto narrativo di un film come
American Graffiti di George Lucas si regge su questo nucleo concettuale).13 Ultima caratteristica da non sottovalutare è il timbro del Telharmonium: lo
strumento che, nelle numerose versioni successive che perfezionano gradualmente le sue caratteristiche sonore, ha come scopo dichiarato l’emulazione della maggior parte dei timbri orchestrali, ha al contempo un suo colore timbrico letteralmente inaudito, che dobbiamo supporre essere stato
motivo di stupore per un ascoltatore del tempo. A tale novità timbrica si aggiungono alcuni inconvenienti dovuti alla trasmissione elettrica, come gli
improvvisi cali di tono conseguenti ai frequenti rallentamenti del meccanismo a dinamo, la diminuzione del volume in corrispondenza dell’aggiunta di
voci simultanee, il peculiare attacco metallico delle note staccate, il brontolio
9 «[That]
was, in fact, early musak; but with one difference. It could be turned off at the will of the
subscriber»; LINCOLN 1972, p. 7; idea ripresa in CHADABE 1997, p. 3.
10 WEIDENAAR 1995.
11 S.A. 1906, p. 3.
12 «There is a suggestion of magic in it all that lends color to the wonder impression, but the kernel
is still missing. For all that has been seen the music might be the reproduction of a wonderfully versatile and sweet-toned phonograph. But it is not reproduction. On the contrary, it is the original production of music in a simple telephone receiver. The secret of what produces the sounds is in the hidden
chambers below»; ibid.
13 ATTALI 1977; SCHAFER 1977.
114
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
delle note gravi suonate a intervalli limitrofi e, non ultimo, la fastidiosa interferenza della musica nelle comunicazioni telefoniche, dovuta alla condivisione delle linee di trasmissione. 14
Un suono delocalizzato, un timbro che ricorda esperienze note ma in
realtà manifesta la propria unicità e la propria alterità: se nel Telharmonium
tutto questo si esprime in nuce, è con il Theremin che esplode definitivamente. Ancora una volta c’è l’invisibilità della sorgente sonora, ma in più c’è
il timbro vagamente antropomorfo che innesca tutte le connotazioni perturbanti di cui esso si è fatto tramite nella storia del cinema hollywoodiano. Infine, va aggiunta la straordinaria teatralità implicata dallo strumento, che lo
rende ottimo anche in contesti di concerto dal vivo: l’esecutore, quasi immobile nella sua rigorosa disciplina corporea, governa l’etere con movimenti
delle mani appena percettibili, suggerisce l’idea che egli stia effettivamente
suonando l’aria. Il fascino esercitato dal Theremin sull’immaginario non si è
spento a novant’anni dalla sua creazione, fatto che ne fa uno dei pochi strumenti elettronici a essere sopravvissuto quasi indenne all’inesorabile scorrere
del tempo, che ha invece relegato molte innovazioni tecnologiche del secolo
scorso a oggetti da museo. Orbene, è proprio la “famiglia” di strumenti elettronici nati negli anni Venti, che oltre al Theremin annoverava apparecchi
quali lo Spärophon di Jörg Mager, il Trautonium di Friederich Trautwein, le
ondes musicales di Maurice Martenot (più tardi ribattezzate col nome del loro
inventore) ad agire direttamente sull’immaginario cinematografico. La loro
introduzione nel cinema, nel teatro e nella musica da concerto è da subito,
quasi senza eccezioni, associata ad archetipi del sovrannaturale e del sublime. Ricorda James Wierzbicki come lo Spärophon fosse utilizzato come
suono di campane per la rappresentazione del Parsifal al festival di Bayreuth
del 1931, per effetti sonori ad accompagnare il sorgere del sole, l’abbaiare di
un cane, la scena delle streghe e i rumori del diavolo nel Faust di Goethe
messo in scena nel 1932 a Francoforte e Darmstadt e, infine, nel suo unico
utilizzo cinematografico conosciuto, per le scene di allucinazione nel film
Stärker als Paragraphen (1936). Le onde Martenot, dopo essere state utilizzate
come voce divina nell’oratorio Jeanne d’Arc au bûcher di Arthur Honneger
(1934-35) e aver debuttato al cinema con Šostakovič in Contropiano (1932),
hanno una considerevole storia di apparizioni nel cinema francese e hollywoodiano. Infine il Theremin segna profondamente l’immaginario cinematografico in una serie di film degli anni Quaranta, associato quasi esclusivamente a scene di sogno (Le schiave della città, m. Robert Emmett Dolan, 1945)
o di devianza mentale, (psicosi, Io ti salverò, m. Miklós Rósza, 1945; ubria14
WEIDENAAR 1995, p. 186.
115
Maurizio Corbella
chezza, Giorni perduti, m. M. Rósza, 1945). 15 Non c’è dunque troppo da stupirsi se, con la loro introduzione nel corso degli anni Cinquanta, i suoni sintetici elettronici e i procedimenti manipolatori su nastro magnetico abbiano
trovato primo terreno di sfogo proprio nella fantascienza, genere cinematografico che all’alba dell’era post-atomica, con il delinearsi della Guerra
Fredda e la gara all’allunaggio, conosce in quella decade una vera e propria
età dell’oro, rielaborando e rimettendo in circolo stilemi tratti da situazioni
narrative tipiche di altri generi (giallo, noir, avventura, ecc.).16
Prima di interrogarci su quale sia lo scarto esistente tra il tipo di immaginario attivo negli anni Cinquanta e quello della prima parte del secolo
– mi dedicherò a questo nella parte finale del capitolo – è forse opportuno
provare a chiarire quale sia il meccanismo generativo attraverso il quale il
suono elettroacustico si sia caricato di un complemento visivo-narrativo di
tipo archetipico in maniera quasi automatica. James Lastra ha utilmente notato come fin dall’inizio del XX secolo il comportamento umano nei confronti del campo generale della riproduzione meccanica – comprendente fotografia, cinematografia e fonografia – sia consistito nel tentativo di tradurre,
interpretare, e insieme neutralizzare, controllare e ri-antropomorfizzare ciò
che le tecnologie di fissaggio e riproduzione svelano di inquietante e sfuggente: «lo spettro nascente dell’inumano all’interno dell’esperienza umana».17
Il concetto di spettro è da sempre riconosciuto come strettamente derivante dalla nozione di riproduzione o, più precisamente, dalla nozione di
doppio in esso implicata. È ciò che si riscontra fin nella prima tecnologia di
riproduzione che conosciamo, lo specchio. Parlare di spettro è già in sé
un’operazione che si richiama a un archetipo, capace di dotarsi di positività
o di negatività a seconda della prospettiva dalla quale la si vuole inquadrare:
«alla radice vi è una sorta di terrore metafisico, lo stesso che assale il primitivo quando si accorge che qualcuno lo sta ritraendo, e ritiene che, con l’immagine, gli venga sottratta l’anima».18 Umberto Eco vi si riferisce nel passo
citato stigmatizzando la posizione di condanna di Günther Anders nei confronti dello “specchio moderno” rappresentato dalla televisione, rilevando
come tale espressione invece che funzionare come strumento di critica, finisca per rappresentare l’indizio attraverso il quale si svela la fascinazione
esercitata dalla stessa televisione proprio nei confronti del critico che la
WIERZBICKI 2005, pp. 18-21.
Ivi, pp. 22-28.
17 «The rising specter of the inhuman within human experience posed by mechanical inscription in
general»; LASTRA 2000, p. 7.
18 ECO 1964, p. 15.
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Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
condanna.19 Quella stessa fascinazione esercitata da ogni forma di riproduzione è spiegata da Marshall McLuhan in riferimento al mito di Narciso che
scambia la sua immagine nello specchio d’acqua per un’altra persona. «Il
senso di questo mito è che gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di cui sono fatti».20 Adorno e Eisler ricordano che la ragione fondamentale della musica d’accompagnamento nel cinema muto non fosse solo quella
“pratica” di coprire il rumore del proiettore, bensì quella ben più significativa di allontanare l’effetto spettrale delle ombre in movimento sullo schermo.
[Esso] deve aver avuto effetti spettrali, come il gioco delle ombre – ombre e
spettri sono da tempo immemorabile appartenuti allo stesso genere. La funzione “magica” della musica […] doveva consistere nel placare gli spiriti maligni della percezione inconscia. La musica fu introdotta in certo qual modo
come antidoto contro l’immagine. Poiché il cinema fu sin dall’origine legato
alla fiera ed al piacere, in quanto forme originarie dell’odierno calcolato nesso effettuale, esso ha voluto risparmiare allo spettatore l’elemento spiacevole
insito nel fatto che venivano esibite riproduzioni di uomini viventi, agenti e
perfino parlanti, che tuttavia erano contemporaneamente muti. Vivono e non
vivono nello stesso tempo, questo è l’elemento spettrale, e la musica non vale
tanto a surrogare la loro vita assente [...] quanto piuttosto a placare l’angoscia, ad assorbire lo shock.21
Il filosofo e il compositore si spingono oltre affermando che lo stesso rumore
del cinematografo «sembrava appartenere alla sfera dello spettrale»:
Il rumore di strofinio e ronzio prodotto doveva in effetti essere “neutralizzato”, non coperto. [...] L’esperienza di cui si parla dovrebbe essere più collettiva che individuale e prossima al panico: la coscienza balenante di come la
impotente massa inarticolata è in potere del meccanismo. Razionalizzata,
questa sensazione diviene qualcosa come l’angoscia per l’incendio. In fondo,
è la sensazione che qualche cosa ci può succedere anche se si è in molti. Esattamente la si chiama coscienza della propria meccanizzazione. 22
Dunque, accanto allo spettro insito nell’immagine, c’è anche uno spettro insito nel suono meccanico. La musica aveva la primaria «magica» funzione di
«Così facendo il critico non ci aiuta ad uscire dalla fascinazione ma, al massimo, a
soggiacervi ancor di più»; ivi, p. 16.
20 MCLUHAN 1964, p. 58.
21 ADORNO-EISLER 1947, p. 76.
22 Ivi, p. 76n.
19
117
Maurizio Corbella
neutralizzare tale spettro. Tuttavia, nel momento in cui anch’essa diventa
riprodotta e sincronizzata (è quanto accade con l’introduzione del cinema
sonoro) o sintetizzata (è quanto accade fin dai primi strumenti elettronici),
quella stessa musica si fa portatrice di un nuovo spettro analogo a quello dell’immagine fotografica e cinematografica.
Negli ultimi vent’anni un filone dei cultural studies anglosassoni di matrice “mediologica”, ha provato a indagare le dinamiche attraverso le quali il
suono, nello specifico quello “fonografico”,23 si rapporta con le discipline
artistiche; il risultato è l’enunciazione di alcune figure fondamentali da intendersi come modalità mediante le quali il suono fonografico è posto in relazione a concetti cardine della comunicazione umana. Kahn isola tre “figure sonore” (figures of sound) – vibrazione, inscrizione e trasmissione –24 mentre
Lastra pone alla base del suo studio sulla tecnologia sonora nel cinema americano la polarizzazione tra le figure dell’inscrizione e della simulazione.25
Tali figure sono da intendersi come categorie antropologiche astratte, e insieme come tropi, figure di pensiero attraverso le quali si rende conto di come «i suoni siano allocati o dislocati, contenuti o realizzati, registrati o
generati». 26 Sono, cioè, nessi concettuali che aiutano a illuminare sotto prospettive di volta in volta diverse le dinamiche di relazione che si instaurano
tra uomo, suono e ambiente e che costituiscono polarità ideali attorno alle
quali si articola l’immaginario culturale di un dato luogo o contesto storico.
Il concetto di vibrazione, che trova una corrispondenza se- II. Genesi dell’immaginario:
mantica nel termine “oscillazione” con cui la fisica acustica vibrazione, inscrizione,
descrive i fenomeni sonori,27 esprime la corrispondenza tra
emulazione, trasmissione
l’armonia dell’universo e la possibilità umana di farsene agente. È un’idea di chiare ascendenze neopitagoriche, con prevedibili risvolti esoterici e occultisti, che si viene concependo presso i circoli
teosofici russi di fine XIX secolo: Vasilij Kandiskij, nel celebre saggio Sulla
composizione scenica, definisce la vibrazione «la reviviscenza dell’anima, inde-
La definizione “suono fonografico” va intesa in senso ampio, relativamente a qualsiasi pratica di fissaggio di un suono su un supporto; altrove, per esempio, Michel
Chion ha usato l’espressione “suono fissato”; cfr. CHION 1991.
24 KAHN 1992.
25 LASTRA 2000.
26 «We can detect three figures of a more abstract character – vibration, inscription, transmission –
that begin to account for how sounds are located or dislocated, contained or released, recorded or generated»; KAHN 1992, p. 14.
27 «L’oscillazione è un moto periodico di un corpo elastico intorno alla sua posizione
d’equilibrio. Si dice che una quantità è nello stato di oscillazione quando il suo valore
varia con continuità passando da un massimo ad un minimo»; BRANCHI 1977, p. 15.
23
118
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
terminata e nello stesso tempo assolutamente determinata».28 La vibrazione
si pone come legge universale poiché si riscontra tanto nel cosmo quanto nel
moto dell’animo umano. L’arte è dunque il mezzo attraverso cui l’artista accoglie questa vibrazione cosmica e la trasmette al pubblico,
il giusto mezzo di espressione trovato dall’artista, [...] la forma materiale della
vibrazione della sua anima che egli non può fare a meno di materializzare a
qualunque costo. Se questo mezzo di espressione è realmente giusto, provoca
una vibrazione pressoché identica nell’anima dello spettatore. 29
L’arte si esprimerebbe dunque mediante una complessa rete sinestesica in
cui le manifestazioni contingenti sono sempre rapportabili a una catena di
relazioni facente capo a un sistema più ampio.30 Tale concezione presuppone un universo governato da pochi principi ordinatori, in cui il suono ha un
valore centrale in quanto diretta emanazione della vibrazione cosmica. Nei
circoli teosofici, così come più in generale nell’ambito del futurismo e del
costruttivismo russo, i suoni fondano sistemi linguistici direttamente collegati
alle leggi del mondo, destinati a comunicare verità rivelate, dotati di corrispondenze tra fonemi, colori, note musicali e stati emotivi o psicologici. Al di
là delle derive spiritualiste, la figura della vibrazione rimane importante per
le successive esperienze artistiche in quanto presuppone un’idea di suono
privo di «autonomia ma sempre relazionato, essendo altrove o qualcos’altro,
una costante digressione che in ultima analisi si estendeva a organizzare spiritualmente ogni cosa dall’essenza al cosmo, sempre risuonando con la voce
e la musica».31 Come ho già sufficientemente illustrato nel paragrafo precedente, i primi sintetizzatori elettrici si prestano a essere messi in relazione
privilegiata con il concetto di vibrazione testé esplicato (e nomi come
Sphärophon ed Aeterophone, appellativo originario del Theremin, ne costituiscono le manifestazioni iconicamente più pregnanti).
L’inscrizione, invece, è primariamente riferita all’aspetto fonografico
della produzione sonora. L’area semantica del concetto di inscrizione è molto vasta e interdisciplinare, avendo chiare parentele con quella di scrittura.
28 KANDISKIJ
1919, p. 15.
p. 16.
La sinestesia, teorizzata come «l’invisibile legame tra diverse sensazioni fisiologiche» è alla base della dottrina teosofica, nata in Russia per mano di Helena Petrovna
Blavatskij e destinata ad avere una grande influenza su molti compositori, scrittori e
intellettuali; Kandiskij, i compositori Thomas Von Hartmann e Aleksandr Scrjabin,
furono strettamente legati alla Blavatsky. Cfr. GORDON 1992.
31 «[...] a sound had no autonomy but was always relational, being somewhere or something else, a
constant deflection that ultimately stretched out to spiritually organize everything from essence to cosmos, always ringing with the voice and music»; KAHN 1992, p. 15.
29 Ivi,
30
119
Maurizio Corbella
Se la vibrazione sottolinea i caratteri eterei del suono e di fatto, nella sua
formulazione filosofica, non presuppone l’intervento del medium tecnologico, l’inscrizione ne costituisce la “traduzione” materialista,32 individuata dal
solco lasciato dalla puntina sul rullo o sul disco di cera. Il solco è il negativo
speculare, l’Ur-Image 33 della vibrazione emessa dalla fonte sonora e trasmessa
dalla membrana: è la firma del suono stesso, leggibile e, dall’introduzione
del fonografo in poi, riascoltabile. La traccia lasciata dal suono nel solco del
rullo fonografico oltre a rappresentare l’inizio delle possibilità documentative
della tecnologia sonora (si possono registrare potenzialmente infiniti suoni)
che apriranno la via all’industria discografica e all’etnomusicologia, prelude
un ulteriore importante passaggio logico: il suono riprodotto, in quanto lettura di un’incisione, non deve necessariamente restituire all’udito qualcosa di
precedentemente registrato, ma può potenzialmente trasformare in suono
qualsiasi tipo di segno prodotto anche arbitrariamente su una superficie, essere dunque medium di qualcosa che non esiste in natura. Uno dei primi a
rendersi conto di questa possibilità è Rainer Maria Rilke, che nel suo scritto
Ur-Geräusch ([Rumore primordiale], 1919)34 è colpito dalla somiglianza tra i solchi fonografici e i solchi della sutura coronale del cranio umano; la domanda
che si pone il poeta, nella sua logica stringente, è destinata ad aprire nuovi
scenari: quale suono produrrebbe un grammofono che “leggesse” tale solco?
«Prima di Rilke, nessuno aveva mai suggerito di decodificare una traccia che
nessuno aveva [precedentemente] codificato e che non codificava nulla. Mai
dall’invenzione del fonografo c’era stata una scrittura priva di contenuto».35
In sostanza, Rilke intuisce la capacità del fonografo di decodificare (cioè tradurre da segno a suono) inscrizioni che non sono mai state prima codificate
(cioè tradotte da suono a segno), bensì scritte da un agente diverso, come per
esempio l’uomo stesso: siamo agli esordi della sintesi sonora, vale a dire della
possibilità dell’uomo di incidere manualmente su un supporto suoni completamente nuovi.
32 KAHN
1992, p. 17.
Riferendosi alla scoperta del padre dell’acustica Ernst Florens Friedrich Chladni
(1756-1827), lo scopritore delle cosiddette Klangfiguren (figure sonore: granelli di polvere di quarzo su un foglio di vetro sottoposto a vibrazione tramite lo sfregamento di
un arco di violino si dispongono secondo forme distinte e motivi regolari), Thomas Y.
Levin scrive: «What was so exciting about these acoustic ur-images (as a contemporary of
Chladni called them) was that they seem to arise from the sound themselves, requiring for their intelligibility not the hermeneutics appropriate to all other forms of musical notation but instead something
more akin to an acoustic physics»; LEVIN 2003, p. 39.
34 RAINER MARIA RILKE, Ur-Geräusch, in Sämtliche Werke, vol. 6, Frankfurt a. M.: Insel,
1987, pp. 1085-1093.
35 «Before Rilke, nobody had ever suggested decoding a trace that nobody had encoded and that encoded nothing. Ever since the invention of the phonograph, there has been writing without a subject»;
KITTLER 1986, p. 44; cit. in LEVIN 2003, p. 70n.
33
120
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Il suono che questa ipotetica fonografia della sutura cefalica produrrebbe in
realtà, avrebbe molto probabilmente le sembianze di ciò che tendiamo a
chiamare rumore, nella misura in cui ci “riferiamo” acusticamente più alla
materialità della mediazione tecnica e cioè alla letterale topografia del solco
sonoro. 36
La nascita della sintesi sonora spezza il legame, da molti considerato naturale, tra suono reale e suono riprodotto, tra originale e copia, consentendo all’artista di esplorare l’ignoto invece che riprodurre il familiare. Essa è inoltre
di enorme importanza per il linguaggio cinematografico in quanto, dopo i
primi esperimenti dell’artista e teorico ungherese László Moholy-Nagy sul
supporto di cera,37 varie personalità giungono quasi contemporaneamente e
per vie indipendenti intorno alla fine degli anni Venti ai primi esperimenti di
suono disegnato su pellicola ottica: tra questi l’ingegnere svizzero Rudolf
Pfenninger, i compositori e teorici Oskar Fischinger (tedesco) e Arsenij
Mikhaylovich Avraamov (russo) e numerosi altri rappresentanti dell’avanguardia sovietica.38 La pellicola introduce un fattore di novità poiché è in
grado di rendere l’atto di inscrizione contemporaneamente visibile e udibile
mediante la proiezione cinematografica, fatto che dà una spinta decisiva agli
interessi sinestesici di Oskar Fischinger, il quale si interroga sui rapporti tra
alcune composizioni grafiche e il suono da esse generato. Tuttavia, ciò che
più interessa al fine del nostro ragionamento è che, malgrado le intraviste
possibilità di costituire un nuovo linguaggio musicale, il suono ottico venga
utilizzato prevalentemente in chiave di imitazione di suoni noti: sono di Rudolf Pfenninger le celebri trasposizioni sintetiche del Largo händeliano o della Barcarole di Offenbach da Hoffmanns Erzählungen; è del fisico britannico E.
A. Humphries la prima imitazione di voce umana completamente riuscita,
per un film inglese del 1931.39
«[...] the sound that this hypothetical phonography of the cephalic suture would in fact produce
would most probably resemble what we tend to call noise and as such would refer acoustically more to
the materiality of technical mediation as such – that is, to the literal topography of the sonic groove»;
LEVIN 2003, p. 44.
37 MOHOLY-NAGY 1922, pp. 289-290.
38 Cfr. LEVIN 2003 e DAVIES 2001.
39 La fonte, un articolo del «New York Times» del 16 febbraio 1931, già segnalata in
LEVIN 2003, purtroppo non riporta il titolo del film; S.A. 1931.
36
121
Maurizio Corbella
Humphries sfrutta le potenzialità del suono sintetico ottico per interpolare la
voce dell’attore protagonista Constance Bennett, con la frase
all-of-a-tremble.40
Ciò che rese queste interpolazioni così inquietanti era precisamente il fatto
che, pur indistinguibile dal resto delle parole pronunciate, la voce sintetica di
Humphries era proprio quello: sintetica; e dunque spalancava un dubbio
fondamentale rispetto allo statuto di qualsiasi cosa nella colonna sonora.41
Figura 13: Riproduzione dell’articolo del «New York Times» del 16 febbraio 1931 che
racconta della creazione di E. A. Humphries.
Siamo precisamente al passaggio dalla figura dell’inscrizione a quella dell’emulazione. La tecnologia è in grado di simulare i comportamenti umani,
sino a sostituirli. Ovviamente, il modo in cui il suono sintetico tende al suono
“naturale” è asintotico, come d’altronde dimostra la storia della recente tecnologia digitale che, attraverso il campionamento, la computazione e la coSembra che la necessità di questa interpolazione fosse nata da un caso di omonimia: il nome del personaggio cattivo del film era lo stesso di una famiglia aristocratica inglese che minacciò una causa di diffamazione se il nome non fosse stato espunto;
LEVIN 2003, p. 33.
41 «But what had made these changes so disturbing was precisely the fact that, while indistinguishable from the rest of spoken words, Humphries’s synthetic voice was just that – synthetic – and thus
opened up a fundamental doubt about the status of everything on the soundtrack»; ivi., p. 61.
40
122
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
struzione di modelli psicoacustici fa ogni anno passi verso la resa virtuale di
fenomeni meccanici. Ma il tropo dell’emulazione ci aiuta a capire la specificità del suono cinematografico, in particolare di quello elettroacustico. Paolo
Ketoff, quando precisa che grazie al Synket «con la stessa facilità [si possono] ottenere dei rumori come il tuono, il mare o il vento e nello stesso tempo
il cinguettio di uccelli, ritmi di tamburi, di gocce d’acqua, note musicali che
possono rassomigliare assolutamente a degli strumenti tradizionali»,42 ha
ben presente di avere a disposizione uno strumento che non “fotografa” la
realtà sonora, ma piuttosto costruisce un doppio del suono in grado di spaziare nello spettro continuo che ha come estremi il familiare e il non familiare. Si afferma così nel cinema una categoria sonora che affianca le librerie e
gli effetti ambientali realizzati dai rumoristi o registrati on location per mimare
la realtà (fase inscrittoria), e contiene dentro di sé l’alterità destinata a comunicare quei contenuti perturbanti, esoterici, onirici, fantastici di cui la rappresentazione filmica è di per sé portatrice, in quanto anch’essa mediazione
(fase emulatoria). Tale categoria ha investito storicamente l’ambigua qualifica produttiva di “effetto speciale sonoro”, che ho discusso nel CAPITOLO
2.III.
Negli Uccelli Hitchcock sfrutta il concetto di doppio in chiave di motore narrativo; è proprio la verosimiglianza perturbata del rumore elettronico
degli uccelli assassini, contrapposta al verso naturale degli “inseparabili” (lovebirds), a fondare il terrore del film, molto più di quanto non riescano a fare
gli effetti speciali visivi,43 che puntano invece a non essere notati in quanto
tali dallo spettatore: perché l’effetto visivo funzioni, gli uccelli “fittizi” devono infatti essere il più possibile simili a quelli veri, per creare una generale
sensazione di realtà, al contrario dell’effetto sonoro che, paradossalmente,
trova la sua efficacia proprio grazie al suo scarto dalla realtà (ergo, gli uccelli
“cattivi” devono produrre un rumore quasi irreale, pur conservando una
certa familiarità, per risultare davvero terrorizzanti).44 Laddove l’occhio si
deve “ingannare”, preservando l’illusione di realtà, l’orecchio deve cogliere
subliminalmente l’aspetto perturbante e animico della presenza sullo schermo. La tecnologia del Mixtur-Trautonium, utilizzata nelle sue proprietà
42 KETOFF
in MUSICA EX MACHINA-VI 1967; cfr. CAPITOLO 1.
Per la realizzazione dei celebri attacchi dei corvi e dei gabbiani, vennero utilizzate
degli effetti visivi all’avanguardia, che tuttavia oggi paiono molto più datati degli effetti sonori.
44 Questo discorso, naturalmente, potrebbe essere fatto per molti altri film che mettono in scena una realtà perturbata e che, non a caso, sono considerati pietre miliari
nell’evoluzione del sound design; si pensi, ad esempio, al riuscitissimo uso diabolico
della vocalità in The Exorcist (L’esorcista, r. William Friedkin, 1973).
43
123
Maurizio Corbella
emulatorie, è dunque in grado di rivelare lo “spettro” inumano (in questo
caso anti-umano) degli uccelli hitchcockiani.
Il tropo della trasmissione è fondamentalmente «il ritorno e il rinvigorimento di oggetti e corpi che erano stati fissati dall’inscrizione allo spazio
implicato dalla vibrazione».45 Con la trasmissione andiamo a individuare
l’ultima grande categoria delle creazioni tecnologiche legate al suono: la
comunicazione delocalizzata, alla base della quale stanno concetti “classici”
come la schizofonia di Schafer. Nel recente film Coffee and Cigarettes (2003),
Jim Jarmusch fa proprio il concetto di trasmissione nella sua dimensione archetipica: mettere in comunicazione dimensioni temporali e spaziali diverse.
Sull’intero lungometraggio – strutturato a episodi slegati accomunati apparentemente dal solo fatto che in ognuno di essi i personaggi interagiscono tra
loro intorno a un tavolo fumando sigarette e bevendo caffè, conversando del
più e del meno e raggiungendo sovente situazioni ai limiti dell’assurdo –
aleggia la figura di Nikola Tesla (1856-1943), fisico, inventore e ingegnere
slavo naturalizzato americano che può essere considerato uno dei padri della
radio e della corrente alternata e la cui figura di “scienziato pazzo” ai limiti
del misterioso alimenta ancor oggi numerose suggestioni. Tesla viene evocato in due occasioni nel film come colui che «vedeva la Terra come un conduttore di risonanza acustica». In una di queste due sequenze, quella che
chiude il film, l’anziano Taylor Mead dialoga con Bill Rice (l’episodio si intitola Champagne, i due attori interpretano due operai di un’armeria in pausa
caffè). Taylor esordisce affermando di non sentirsi bene, di sentirsi divorziato
dal mondo («I feel so divorced from the world, I’ve lost touch with the world»); questo
stato d’animo gli fa venire in mente un Lied tratto dai Rückert Lieder di
Mahler (1905), Ich bin der Welt abhanden gekommen, il brano più meraviglioso e
triste mai scritto,46 tanto che quasi gli pare di sentirlo in lontananza. Non c’è
tempo di stupirsi per l’associazione (singolare per un operaio in pausa pranzo), poiché in effetti anche lo spettatore avverte il Lied dapprima in modo
quasi impercettibile, poi più nitidamente, finché svanisce; perdutolo, Taylor
domanda a Bill se è riuscito a sentirlo, e anche Bill conferma. La conversazione prosegue per scampoli di frasi, quasi aforismi, con Taylor a tratti sempre più assente; è a questo punto che Bill cita la frase su Tesla, quasi che il
fenomeno appena accaduto gliel’abbia portata alla mente. Taylor ribatte
proponendo di far finta che il pessimo caffè che i due stanno bevendo sia
champagne, tanto per celebrare la vita, e i due finiscono per brindare alla
«In other words, transmission was basically the return and invigoration of objects and bodies that
had been fixed by inscription to the space implied by vibration»; KAHN 1992, p. 20.
46 Per essere precisi Taylor lo traduce con «I’ve Lost Track of the World», «one of the most
beautiful saddest songs ever written».
45
124
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Parigi anni Venti, a Joséphine Baker,47 al Moulin Rouge, mentre Bill risponde con un brindisi alla New York di fine anni Settanta. La conversazione si
chiude con Taylor che si addormenta, probabilmente per sempre, nei pochi
minuti che restano prima della fine della pausa. E con il sonno di Taylor si
riavverte il Lied di Mahler. In un certo senso l’evocazione di Tesla equivale
ad un abbattimento delle barriere del tempo e dello spazio, come se ci fosse
una dimensione che non risente delle stesse leggi fisiche materialiste, la dimensione metafisica a cui Taylor gradatamente tende con la morte. Se la
Terra è un conduttore di risonanza acustica, allora quella melodia triste e
meravigliosa può trasmettersi da Mahler a Joséphine Baker, da Parigi a New
York fino all’armeria, dagli anni Venti al Duemila, dal caffè allo champagne.
E Jim Jarmusch sembra suggerire che quell’abbattimento miracoloso del
tempo e dello spazio può realizzarsi solo attraverso il cinema, che non ha
nulla di miracoloso, semmai è una sorta di «aggeggio» 48 che produce effetti
stupefacenti dotati di un valore inattingibile nei suoi risvolti profondi, paragonabile ai fasci luminosi prodotti dalla bobina di Tesla (FIGURE 14-15).
Figura 15: ⇓ Fotogramma da Coffee and Cigarettes in cui si vede in funzione la bobina di
Tesla costruita da Jack White.
Figura 14: ⇑ Interno del laboratorio a Pikes Peak,
Colorado, in cui operò Nikola Tesla (fonte:
<http://www.bioenergyresearch.com/ita/tesla.htm
>. I lampi che si vedono sono creati dalla bobina di
Tesla.
Joséphine Baker (1906-1975), celebre ballerina e cantante icona degli anni Venti,
lavorò anche nel cinema.
48 «Parentesi fluida, oggetto slegato dalla sua funzione, ciò che l’“aggeggio”, l’“affare”
lascia intuire, è una funzionalità vaga, senza limiti, l’immagine mentale di una funzionalità immaginaria»; BAUDRILLARD 1968, p. 148.
47
125
Maurizio Corbella
Pianeta proibito (1956) è solitamente annoverato come III. L’immaginario negli anni Sessanta:
un film spartiacque dal punto di vista del ruolo della dal suono del futuro al suono del presente
musica elettroacustica. C’è del vero: questo film
configura in più di un senso un “prima” e un “dopo” nella storia del cinema
narrativo, non solo perché è la prima produzione “mainstream” a fare uso di
una musica generata esclusivamente da processi elettronici, ma anche perché rappresenta un emblematico caso di ricezione culturale. Esso attira su di
sé la più grande meraviglia del pubblico e dei cultori del genere, che in poco
tempo lo eleggono capolavoro fantascientifico degli anni Cinquanta, e contemporaneamente la più accesa condanna da parte di critici e compositori
coinvolti nella sperimentazione elettroacustica. Diviene, in un colpo, immagine dell’innovazione ed emblema del cliché più trito. In entrambi i punti di
vista c’è, come vedremo, una radicalizzazione di aspetti la cui analisi ci può
aiutare a fare chiarezza sulla natura del problema sotteso all’incontro tra cinema e suono elettroacustico negli anni Sessanta.
Nel cinema di fantascienza americano degli anni Cinquanta, le sonorità elettroniche, ottenute perlopiù attraverso procedimenti di sintesi, erano
state, fino a Pianeta proibito, confinate da una parte nella categoria degli effetti
speciali associati diegeticamente a apparecchiature o entità aliene – è il caso,
ad esempio, della Guerra dei mondi (m. Leith Stevens, 1953) e di Assalto alla
Terra (m. Bronislau Kaper, 1954) – dall’altra a suggestioni musicali incorporate in partiture sinfoniche, coerentemente con l’uso che era stato fatto del
Theremin e delle Onde Martenot nel cinema del decennio precedente – si
veda Ultimatum alla Terra ( m. Bernard Herrmann, 1951).49 In entrambi i casi, dunque, si era optato per valorizzare il portato connotativo del timbro e
dell’articolazione (il vibrato tipico del Theremin come dell’organo Hammond) nei codici hollywoodiani, ma non si era preteso di rifunzionalizzare
l’assetto sonoro del tessuto drammaturgico. Le “tonalità elettroniche” di Pianeta proibito – è questa la definizione per la quale i compositori Louis e Bebe
Barron vengono accreditati nei titoli del film – assolvono invece il compito di
dare spessore sonoro all’intero mondo galattico, costruendo un’architettura
che comprende in sé le categorie funzionali della musica “diegetica”, “extradiegetica” e degli effetti ambientali.50 Esse, perciò, sintetizzano perfettamente le due ricadute dirette che il suono elettroacustico ha sul cinema narrativo: chiarire i contorni dell’immaginario sonoro riferito al topos ultra-tecnologico e subconscio, e mettere in discussione l’assetto sonoro tradizionale
del film narrativo, superando significativamente i confini tra le componenti
49
50
126
Per un elenco dettagliato cfr. WIERZBICKI 2005, p. 26.
Cfr. WIERZBICKI 2005, pp. 37-42.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
(parola, rumore, musica) delineatesi nella cinematografia classica hollywoodiana e recepite in larga misura dalle altre cinematografie occidentali (cfr.
CAPITOLO. 2.III).51
Il fondamentale punto di convergenza tra grandi entusiasmi e aspre
critiche al Pianeta proibito consiste senza dubbio nel fatto che a essere coinvolti
nella composizione delle musiche per il film sono due compositori esterni al
sistema produttivo hollywoodiano e provenienti dall’area della sperimentazione newyorchese.52 Essi sono, di fatto, i responsabili tecnici del progetto
denominato Music for Magnetic Tape, del quale fanno parte anche John Cage,
Earle Brown, David Tudor, Morton Feldman e Christian Wolff, che darà alla
luce quattro composizioni, tra cui Williams Mix (1952) di Cage e For an Electronic Nervous System (1953-54), degli stessi Barrons. Il “cortocircuito” culturale
è causato dal fatto che essi immettono in una produzione hollywoodiana il
nucleo della ricerca che stavano già conducendo in seno al gruppo cageano,
vale a dire la possibilità di costruire circuiti elettronici capaci di emulare
comportamenti elementari del sistema nervoso animale. Per far ciò si ispirano esplicitamente all’opera del matematico Norbert Wiener, fondatore della
scienza cibernetica. Louis e Bebe Barron notano che un circuito ha un comportamento “vitale” simile a quello di una forma biologica elementare, strutturato secondo un’esplosione di energia iniziale, un livellamento stabile per
un certo tempo, e infine una morte irreversibile.53 La ricerca dei due compositori consiste nell’indirizzare questo comportamento (prevedibile nella struttura ma, per molti versi, imprevedibile nei contenuti) verso l’emulazione di
“tipologie caratteriali” umane. Per far ciò, naturalmente, gran parte del lavoro di preparazione consiste nel fare esperienza di casistiche e di possibilità
di intervento tecnico sui circuiti, cioè, per dirla con Wiener, nell’elaborare
La stessa espressione Electronic tonalities chiarisce del resto l’imbarazzo della struttura produttiva e industriale di fronte a un materiale sonoro inclassificabile secondo i
parametri in auge. È questa quasi una costante del manifestarsi di innovazioni sonore
nel cinema hollywoodiano, che ritroveremo con caratteri analoghi occupandoci della
nascita del sound design (CAP. 4).
52 Creando un precedente significativo, ai Barrons è consentito dai vertici della
MGM di svolgere l’intero lavoro di composizione nel loro studio di New York. Secondo James Wierzbicki, le radici dell’originalità del loro contributo vanno ricercate
in questa anomalia produttiva; ivi, pp. 9, 41-42.
53 Ivi, p. 34.
51
127
Maurizio Corbella
modelli di comportamento dei circuiti e loro corrispondenze con i modelli del
comportamento animale e umano. 54
Nonostante la cibernetica non si occupi di espressioni artistiche e nemmeno
udibili, le leggi scientifiche esistono per essere prese in prestito, e un sistema
nervoso elettronico può essere progettato attraverso la costruzione di modelli
di comportamento che richiamino tipologie di personalità. Quando questi
circuiti sono opportunamente progettati, controllati e stimolati, essi reagiscono emozionalmente con strani e significativi suoni.
Se pensiamo a questi circuiti dalla personalità elettronica come a personaggi
o attori, e quindi componiamo per loro, ci comportiamo come drammaturghi
o registi. Come drammaturghi, prima decidiamo un cast di personaggi, progettiamo e costruiamo circuiti che interpretino le parti. Poi strutturiamo una
drammaturgia nella quale questi personaggi elettronici interagiscano tra loro
man mano che la trama si dispiega. Quindi diventiamo registi e ci accertiamo che i circuiti-attori abbiano i tempi giusti, e interpretino i loro personaggi
autenticamente ed efficacemente. Ciò è possibile solo comprendendo e controllando la loro attività elettronica.
Amplificandola e registrandola su nastro magnetico, siamo in grado di tradurre il comportamento elettronico in forma udibile. L’aspetto più significativo dell’intero fenomeno è che i suoni che scaturiscono da questi sistemi nervosi elettronici veicolano significati emozionali distinti tra gli ascoltatori. 55
Non è mio interesse decretare in che misura il procedimento dei Barrons
possa essere giudicato naïve, semmai evidenziare come il metodo esposto
immetta una significativa sovrastruttura concettuale all’interno del genere
54 Il termine modello (pattern) designa tutto ciò che si ripete in una successione di
eventi o ciò che è comune a un insieme di oggetti. Tra insiemi di oggetti diversi sono
così isolabili “schemi” di comportamento analoghi che mettono in corrispondenza
biunivoca tali insiemi. «Un modello è essenzialmente una disposizione caratterizzata
dall’ordinamento degli elementi di cui si compone anziché dalla natura intrinseca di
questi elementi. Due modelli sono identici se il rapporto dei loro ordinamenti può
essere espresso come corrispondenza biunivoca [...]»; WIENER 1950, pp. 17-18.
55 «Although Cybernetics does not concern itself with artistic or even audible expressions, the scientific laws are there to be borrowed, and electronic nervous systems can be specifically designed with
built-in behavior patterns resembling emotional personality types. When these circuits are properly
designed, controlled, and stimulated, they react emotionally with strange and meaningful sounds. If
we think of these electronic personality circuits as character actors, then we compose for them, we
function like writer-director. Like writers, we first decide on a cast of characters, and design and build
the circuits to act out the character parts. Then we structure a dramatic plot in which these electronic
characters inter-act with each other as the plot unfolds. Now we become directors and see to it that the
actor-circuits get their cues at the right times, and express their characters authentically and effectively.
This is possible by properly understanding and controlling their electronic activity. By amplifying the
electronic activity and recording it on magnetic tape, we are able to translate the electronic behavior
into audible form. The most remarkable aspect of this whole phenomenon is that the sounds which
result from these electronic nervous systems convey distinct emotional meaning to listeners»; BARRONS 1956, p. 18.
128
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
cinematografico a cui è applicato. La musica, almeno nell’ottica dei compositori, non dovrebbe limitarsi a commentare la vicenda, a suggerire allo spettatore una prospettiva emozionale o interpretativa, bensì letteralmente impersonificare i traguardi attuali della scienza, come a suggerire subliminalmente che il confine della fantascienza si è drammaticamente spostato più in
là, e ciò che un tempo era fantasia, oggi è diventato realtà. Se l’elemento
verbale e visuale del film ci consegna una vicenda più o meno verosimile,
l’elemento sonoro ci dovrebbe, almeno nelle intenzioni dei compositori, mettere lo spettatore direttamente e drammaticamente in contatto con la realtà
della cibernetica.56 Il punto, nell’ottica del mio ragionamento, non è che ci
riesca o meno, quanto che ci provi, o dichiari di averci provato. Se, nelle copiose spiegazioni fornite a posteriori dai Barrons, alimentate certo dal circuito commerciale in cui il film si era inserito, sembra verosimile non si debba
rintracciare un mero tentativo di legittimare agli occhi dell’establishment culturale un’operazione fatta per ragioni essenzialmente economiche, allora questo film davvero segna una svolta nelle modalità con cui una parte della cinematografia integra a sé il suono e la musica elettroacustica rispetto al passato. La novità sostanziale, che ritroveremo in una buona percentuale dei
film del decennio successivo, consiste nell’utilizzare suoni e musica elettroacustica non tanto o non solo a fini di evocazione diretta di effetti riferibili a
un immaginario condiviso, quanto come immissione nel proprio tessuto di
questioni nevralgiche della società contemporanea, delle quali la sperimentazione elettroacustica si fa interprete concreta. Negli anni Sessanta la musica elettroacustica non è più esclusivamente una musica del futuro, bensì una
musica del presente, di un presente che sfugge in continuazione caricandosi
di interpretazioni ideologiche.
Il cinema diventa così una spia particolarmente indicativa di nodi
problematici che serpeggiano nella società, nella cultura e nello stesso mondo della produzione musicale. Una tendenza del cinema d’autore in particolare è quella di assorbire i cliché trovando in essi una profondità inesplorata
o, d’altra parte, smascherandone (non sempre consapevolmente) la natura di
feticci.
56 Almeno questo è l’intento dei Barrons, certamente colpevole di ingenuità, ma confortato dal fatto di riscontrare negli spettatori il frequente commento, rimarcato fino
in anni recenti da Bebe Barron, che essi ritrovassero nei suoni del film il suono dei
loro sogni. Forse, ribaltando la prospettiva, è il caso di dire che i sogni di molti spettatori suonarono effettivamente in quel modo per alcuni anni dopo l’uscita del film,
suggestionati dalla forza evocativa del lavoro dei compositori.
129
4
«Lo sfondo ai sentimenti di domani»
Percorsi tematici e proposte critiche sull’immaginario elettroacustico nel cinema
italiano
«Si lanciano uomini nel cosmo, si scopre la
struttura della ADN, la molecola che sovraintende all’ereditarietà e quindi ci si avvicina alla possibilità di trasformare la specie
umana, gli animali e le piante; la cibernetica
sta per affrontare macchine che penseranno
come l’uomo: ed ecco che la scienza trasportata dal suo stesso slancio comincia a trovarsi in zone che avevano polarizzato fino ad
ora lo studio e la passione dei maghi, dei
mistici, degli alchimisti e naturalmente anche dei filosofi».
Gillo PONTECORVO, Il fantastico nel reale,
«Filmcritica», XIV/135-136, luglio-agosto,
1963.
«Una materia che sembra un’altra. Legno che
sembra carne, stoffa che sembra roccia, carbone che sembra ferro, carta che sembra stoffa, plastica che sembra tutto. Si prepara lo
sfondo ai sentimenti di domani».
Michelangelo ANTONIONI, Comincio a capire,
Catania: Il girasole, 1999, p. 53.
È possibile selezionare alcuni “grandi temi culturali” attorno ai quali si struttura l’immaginario legato al suono elettroacustico negli anni Sessanta? A
seconda di come la si vuole interpretare, la domanda è o troppo generica o
troppo ambiziosa. Nel secondo caso presupporrebbe un lavoro di ricerca
interdisciplinare molto più ampio di quello che sono in grado di portare
avanti in queste pagine. Tanto vale limitarsi da subito, provando a riformulare la questione nei termini di una proposta parziale, che selezioni, tra le
tante possibilità, alcuni percorsi tematici nell’ambito della sola cinematografia italiana di quella decade. I contorni di tali percorsi si sono già tangen-
Maurizio Corbella
zialmente delineati nel riordinare vicende individuali di compositori quali
Marinuzzi o Gelmetti, o semplicemente nell’indagare l’uso dei sintetizzatori
romani a scopi cinematografici (cfr. CAPITOLO 2). È giunto ora il momento
di seguire più estensivamente il filo di riflessioni dall’ampia portata culturale
sviluppate all’interno del discorso cinematografico, nella speranza di mettere
in rilievo qualche legame con i temi cardine della ricerca sperimentale elettroacustica coeva. Per far ciò partirò ancora una volta da un esempio significativo, per aprire in seguito la trattazione a un respiro più generale.
Gli anni Sessanta si aprono in Italia con un film che affronta emblematicamente i principali nuclei tematici dell’utilizzo di musica e suono elettroacustici da parte del cinema. Il documentario L’Italia non è un paese povero,
commissionato dall’allora presidente dell’ENI Enrico Mattei al regista olandese Joris Ivens (1960), ha il fine di rendere pubblica l’entità delle risorse
energetiche presenti nel sottosuolo italiano, scoperte e valorizzate dall’Ente
in quegli stessi anni, e «soprattutto [di] combattere l’influenza americana nel
campo dell’estrazione e della raffinazione degli idrocarburi liquidi e gassosi
in Italia».1 Il film viene realizzato tramite la collaborazione dei giovani fratelli Taviani, di Tinto Brass e di Valentino Orsini, e il testo viene preparato
da Alberto Moravia e Corrado Sofia. Si sviluppa in tre episodi, pensati per
una trasmissione televisiva, raffiguranti rispettivamente tre aree geografiche
in cui si è concentrata in quegli anni l’attività dell’ENI: la pianura Padana,
Grottole in Lucania e Gela in Sicilia. La trasmissione televisiva, tuttavia, non
avverrà, se non dopo una pesante vicenda di “censura” della RAI, che porterà addirittura a rigirare, senza il consenso di Ivens, alcune scene dell’ultimo episodio.2
È opportuno chiarire che il taglio del film non è in alcun modo di denuncia, anzi, a uno spettatore odierno potrebbe apparire semmai fin troppo
edulcorato nell’incensare le «magnifiche sorti e progressive» della visione
matteiana. L’esaltazione dell’industrializzazione come salvifico avvenire del
paese è figlia del “boom” economico che si respira in quegli anni nella penisola, ed è significativo che il problema, per la dirigenza RAI, risieda invece
1 BRASS
s.d.
«Quando Ivens ebbe finito il film, lo fece vedere a Mattei e a Mattei piacque molto.
Non ci fu assolutamente nessun contrasto tra i due. I problemi nacquero con i funzionari RAI che, come al solito più realisti del re, temevano che il potere democristiano, il pubblico televisivo non apprezzassero un film che mostrava un’Italia povera.
Quindi chiesero a Ivens di operare dei tagli che naturalmente lui si rifiutò di fare.
Addirittura allora fecero girare delle scene, quelle di Gela, ad altri operatori, scene
che dovevano dare un’idea di una Sicilia assolutamente falsa ed edulcorata, con i
carretti siciliani... La situazione si fece molto complessa perché Mattei in quel periodo stava vivendo una situazione politica ed economica estremamente difficile per cui
fu costretto, sebbene a malincuore, ad abbandonare Ivens e il destino del film»; ibid.;
per un resoconto delle vicende legate al film, cfr. SALVATORI 2002.
2
132
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
nelle immagini che raffigurano al di fuori degli stilemi folklorici (ma ben lontane da procedimenti in stile cinèma-verité) le condizioni della popolazione
meridionale.3
A maggior ragione è interessante entrare in alcune delle strategie narrative approntate da Ivens per comprendere la coniugazione delle risorse
sonore elettroacustiche utilizzate. La musica per il film, sonorizzato alla Fonolux, è affidata a Gino Marinuzzi jr. Come di consueto, ma se possibile ancora più approfonditamente, vista l’occasione propizia di misurarsi con ben
tre mediometraggi di contenuto eterogeneo, il compositore utilizza ecletticamente svariate risorse musicali: dalla magniloquente partitura sinfonica
che ha in comune i toni con le coeve musiche per peplum, allo sfruttamento
di documenti sonori etnografici lucani,4 all’uso esteso di risorse elettroacustiche.
Nel primo episodio, Fuochi in Valpadana è possibile distinguere tra due
tipologie di intervento elettronico. La prima, e più frequente, è costituita dall’accostamento tra musiche elettroniche e inserti d’animazione di carattere
didattico-esplicativo, tipici del genere del documentario televisivo, in cui vignette animate d’ispirazione fumettistica vengono utilizzate per spiegare al
pubblico non preparato complessi processi tecnologici come l’estrazione o la
lavorazione del metano. La musica elettronica in questi casi assume profili
motivici, mimando tipologie espressive del linguaggio musicale tonale, e diventa, secondo un trend da tempo consolidato nella cinematografia di ricerca,
Non c’è spazio qui per indagare le implicazioni più profonde della politica economico-energetica di Mattei, verosimilmente scomode a frange influenti del potere democristiano che controlla in quegli anni la televisione pubblica. Il fatto che argomento del contendere del documentario sia proprio l’episodio siciliano non può non portare alla mente la tesi sulla morte del petroliere esposta dal celebre film-inchiesta di
Francesco Rosi, Il caso Mattei (1972).
4 Risale all’autunno del 1952 la famosa spedizione nell’entroterra lucano organizzata
da Ernesto De Martino per il Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare
(CNSMP, oggi Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia), a cui partecipano Diego Carpitella, Vittoria de Palma, Franco Pinna e Marcello
Venturoli, che toccò fra gli altri centri anche la località di Grottole e produsse la famosa raccolta 18, riconosciuta oggi come punto di svolta nella metodologia della
ricerca su campo in Italia (GIANNATTASIO 1998, p. 68). Date le condizioni di fruizione dell’unica copia del film di Ivens da me reperita presso la Cineteca di Bologna, e
soprattutto a causa del diverso orientamento della mia ricerca, non mi è stato possibile verificare se i canti lucani presenti nel secondo episodio siano tratti dalla raccolta
18, magari tramite la mediazione di Carpitella, che ebbe con Marinuzzi alcuni
scambi, come dimostrano le annotazioni su due bobine reperite in FMAR.
3
133
Maurizio Corbella
espressione didascalica e umoristica dei disegni animati.5 La seconda tipologia deriva dall’accostamento tra i suoni elettronici e le attrezzature avveniristiche del Laboratorio Geochimico di San Donato Milanese dell’ENI. La
metafora futuristico-fantascientifica è svolta in maniera esplicita dalla voce
narrante che non perde occasione per sottolineare la corrispondenza tra fantascienza e scienza: «il laboratorio non è forse un’immagine di fantascienza?»,6 si chiede retoricamente il narratore mentre sullo sfondo sonoro brulicano suoni di sintesi; l’elaboratore di dati del laboratorio è presentato come
un «cervello elettronico», adeguatamente sonorizzato. Spunto per una riflessione che riprenderò poco oltre sulla parziale sovrapposizione tra musica
sperimentale e scienza nell’immaginario culturale degli anni Sessanta, è il
simpatico cameo riservato a Gino Marinuzzi jr., che interpreta la comparsa
di uno scienziato, totalmente aderente, nell’iconografia fantascientifica e
giornalistica post-einsteiniana, all’idea di scienziato pazzo in camice bianco
che scrive formule astruse su una lavagna.
Il secondo episodio del film, Due città, è sicuramente il più significativo,
per l’interesse delle situazioni che sviluppa in corrispondenza dell’utilizzo di
musica elettronica. La prima parte è ambientata nel polo industriale veneto-romagnolo situato tra Marghera e Ravenna. Le scelte narrative di Ivens,
unitamente a quelle musicali di Marinuzzi, risultano determinanti nel configurare un vero e proprio topos dell’immaginario italiano degli anni Sessanta,
che sarà affrontato in maniera indelebile appena quattro anni più tardi da
Michelangelo Antonioni nel suo Il deserto rosso. Rispettivamente polo dell’industria metallurgica e di quella chimica (produzione di concimi fertilizzanti
e gomma), Marghera e Ravenna sono, insieme alla Fiat di Torino, i luoghi
eletti dell’avvenire tecnologico italiano, motori del benessere capitalista nazionale e, al contempo, buchi neri in cui la natura arretra di fronte agli “ecomostri” industriali – per usare un’espressione che entrerà nell’uso solo in seguito al mutamento di sensibilità attuatosi sul finire degli anni Settanta. Ma
già tra il film di Ivens e quello di Antonioni è possibile verificare due prospettive diverse, per non dire opposte, che tuttavia ruotano intorno a un’analoga configurazione dell’elemento sonoro. Lo schema narrativo scelto dal
regista olandese è quello della favola esemplare, che tornerà di nuovo negli
5 Senza risalire indietro fino alla cinematografia degli anni Venti, è sufficiente ricordare il percorso creativo di Norman McLaren che, a partire dagli anni Quaranta,
realizza esperimenti con il suono ottico costruendo piccoli gioielli dell’animazione,
caratterizzati spesso dal ricorso a minime unità narrative di tipo umoristico. Contemporaneo di Marinuzzi è inoltre l’italiano Cioni Carpi, che fa dell’animazione
supportata da risorse sonore elettroacustiche uno dei suoi principali campi espressivi;
cfr. CARAMEL–MADESANI 2002.
6 Questa e le successive citazioni della voce narrante sono state desunte dal film.
134
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
episodi lucano e siciliano. Protagonista è Nane, un bambino veneziano, appassionato, come molti altri coetanei, dei fumetti di fantascienza: «Nane legge i fumetti di fantascienza e sogna». Tramite l’espediente della favola si realizza la convergenza tra i sogni avveniristici del bambino e la stretta attualità
di quanto accade nel “boom” industriale, come a dire che i sogni non sono
poi tanto lontani dal realizzarsi.7 Nane si addormenta mentre legge il fumetto e il suo sogno si sviluppa come un volo sugli scenari industriali di Ravenna; la sonorizzazione è in partenza completamente elettronica, poi diventa
mista, con la presenza di un flauto, elaborazioni di tipo concreto (versi di
animali, gallo, gatto, fischio del bambino, voce del bambino); alle manipolazioni sonore si aggiungono manipolazioni dell’immagine, inserti del fumetto,
sdoppiamenti del viso del bambino. Il sogno si conclude con la sovrapposizione del viso dell’eroe del fumetto, chiuso in un casco avveniristico, con
quello di un operaio che indossa un simile copricapo. La saldatura tra subconscio, fantascienza e attualità è compiuta. Le pulsioni dell’inconscio individuale o collettivo (positive o negative che siano) non vengono più proiettate
su una dimensione necessariamente spostata avanti nel tempo, ma trovano
un loro possibile sfogo nel presente, e la musica elettronica diventa il mezzo
principale di tale transizione. La continuità con i procedimenti narrativi del
Deserto rosso (analizzati nel dettaglio più avanti in questo capitolo) è lampante:
suono elettronico come trasfigurazione del rumore naturale, distorsione dell’elemento visivo, presenza di sostrato psicanalitico, elemento infantile (ma
quanto sarà diverso, nel suo cinismo, il Valerio di Antonioni dal Nane di
Ivens!).
Se questo esempio evidenzia il nodo dell’incontro dell’immaginazione
(infantile) con le promesse della tecnologia, il seguente, tratto dalla seconda
parte dell’episodio Due città, ambientata a Grottole, completa idealmente il
campionario di tipologie, prendendo in considerazione la giustapposizione
tra modernità e ancestralità, tra urbanità e ruralità, tra razionalità e magia.
È questo uno dei topoi più ricorrenti nelle narrazioni italiane del dopoguerra,
che trova nel racconto del Meridione un terreno privilegiato d’indagine specialmente in ottica cinematografica. Oggetto dell’interesse etnografico a partire dalle spedizioni demartiniane dei primi anni Cinquanta, il Meridione
diventa anche la culla di un immaginario autoriale che stabilisce un rapporto contraddittorio con i nascenti interessi scientifici e le pressioni politico-i-
Il nocciolo del ragionamento consiste nel suggerire che grazie all’energia prodotta
dal sottosuolo italiano e portata in superficie da ENI, uno tra i più importanti poli
industriali italiani (Ravenna è famosa per i fertilizzanti chimici e la gomma, Marghera per l’industria metallurgica) potrà determinare il successo dell’Italia nel mondo e
la realizzazione dei sogni della nuova generazione.
7
135
Maurizio Corbella
deologiche; il film etnografico, che si sviluppa tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, è lo specchio di queste contraddizioni: le
immagini relative ai rituali e al magismo meridionale, filmate da cineasti
come Luigi Di Gianni, caratterizzate da una coerente poetica autoriale
orientata verso una rappresentazione espressionista della realtà (dunque non
verso un suo resoconto scientifico), le musiche di Egisto Macchi che contribuiscono alla creazione di paesaggi onirici e interiori più che esteriori, risultano fortemente appesantite dall’enfasi retorica e ideologica delle voci narranti sovra-imposte, spesso proiettata in un orizzonte scientifico di derivazione demartiniana.8 Ivens, e soprattutto il commento di Moravia, subiscono
l’influenza di tale clima, ma il carattere “promozionale” di questo documentario favorisce inevitabilmente lo stereotipo, aggravato dalla forma narrativa
scelta per descrivere l’irruzione della “modernità” nel mondo pastorale:
nuovamente la favola, stavolta basata sull’espediente della storia d’amore.
Il collegamento con Ravenna è attuato attraverso la semplice constatazione della dipendenza del sud dall’industria settentrionale: «i concimi [prodotti nel ravennate] servono soprattutto al Meridione». Pochi tratti, per configurare una storia lontana nel tempo e nello spazio, e tuttavia familiare, in
cui il telespettatore ancora legato o recentemente emancipatosi dalla vita
agraria, possa riconoscere i contorni di esperienze note:
Qui comincia la storia di due alberi, uno di legno e uno di ferro. L’albero di
legno è un ulivo, del quale vivono sette famiglie. Un albero solo, infiniti litigi.
Marina, una contadina come tante, ma con una sua storia d’amore; Enrico è
il suo fidanzato.
Un canto femminile, tratto dal repertorio lucano, viene variato da un flauto
che ne imita il procedere non temperato, prima di riprendere il tema principale e magniloquente del film. Enrico, il personaggio maschile della favola,
trova per caso un geofono, lo strumento utilizzato dalla squadra di ricercatori dell’ENI per le rilevazioni dei giacimenti di metano. Esso si rivela il trait
d’union tra due mondi non meno distanti di quelli tenuti insieme simbolicamente dal monolito kubrickiano: «ora mangiano insieme coloro che da secoli lavorano insieme questa terra e coloro che in pochi anni le strapperanno il
suo tesoro [i ricercatori dell’ENI]». Ed ecco che sul suono delle campane si
innesta il vento elettronico tanto caro a Marinuzzi, che abbiamo già incontrato a proposito di Terrore nello spazio e La mandragola (CAPITOLO 2.II), e che
Savina ci ricordava essere ricercato dal compositore fin dalla fine degli anni
8 Per un resoconto sulla cinematografia “demartiniana” e sul dibattito da essa generato negli anni Settanta e Ottanta, cfr. MARANO 2007, pp. 28-67.
136
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Cinquanta per i documentari con Guerrasio (CAPITOLO 1). Tutto il prosieguo del racconto è giocato sulla continua (e francamente ridondante) similitudine tra gli elementi simbolici del mondo ancestrale e quelli del mondo
moderno (ulivo/torre di trivellazione, fiamma della passione tra i due innamorati/fiamma di combustione del metano finalmente trovato):
Durante la notte la sonda penetra la Terra più profondamente delle radici
dell’ulivo […]. Enrico non è già più un contadino, è un operaio. […] Si pianta l’albero di Natale, è un albero di ferro che scende nella terra, invece di salirne. L’albero di ferro è delicato come l’albero di legno, e per piantarlo ci
vuole prudenza e accortezza. L’albero di Natale è color argento, come le foglie dell’ulivo quando soffia il Ponente. La torre [di trivellazione] è smontata,
non resta che aspettare i fiori dell’albero di Natale. [I due innamorati ridono felici,
giocano intorno all’ulivo e corrono nei campi]. [...] Enrico e Marina non hanno mai
avuto dubbi: questa [la fiamma del metano] è la loro fiamma. Dalle terrazze di
Grottole già si vede fuggire il vecchio nemico: la miseria. E alla ricerca del
petrolio e del metano il viaggio continua; presto l’Italia non sarà più un paese
povero. 9
Su un piano d’impostazione generale, L’Italia non è un paese
povero offre una sintesi emblematica delle situazioni narrative d’impiego delle risorse elettroacustiche nel cinema italiano nel decennio alle porte. Se proviamo a operare
un’astrazione, riducendo le sequenze estrapolate dalla pellicola di Ivens alle
loro strutture drammaturgico-narrative, notiamo una tendenza in cui il suono elettroacustico qualifica situazioni di trascendenza da una condizione culturale, storica, sociale, antropologica o psicologica data come acquisita e sicura, verso una meno nota e dialetticamente opposta. In un certo senso tale
canovaccio ci riporta a caratteristiche già incontrate nella maggior parte dei
casi fin qui citati: nelle sequenze della Mandragola (CAPITOLO 2.II) l’elemento
di transizione aveva connotazione addirittura metafisica; nella recensione ad
alto tasso “cinematografico” di Joan Marble (CAPITOLO 3) l’insistenza su
elementi narrativi dinamici aveva una spiccata tendenza all’apocalittico.
Ora, il punto su cui mi piacerebbe insistere, risiede nella constatazione che
tali vettorialità narrative, altrimenti generali e generiche, corrispondono a
particolari nodi culturali della società italiana degli anni Sessanta, e finiscono per trasformarsi, in un certo qual modo, in strumenti di rappresentazione
e analisi della stessa.
I. Funzioni narrative del suono
elettroacustico: l’automatismo
In tondo le parole della voce narrante desunte dal film, in corsivo tra parentesi
quadre il riassunto sommario dell’azione del film.
9
137
Maurizio Corbella
Innanzitutto, si tratta di isolare le polarità che assumono il valore di
categorie culturali, all’interno della cui dialettica è configurabile una transizione. Nella TABELLA 3 ho provato a enumerarne alcune, mettendo in evidenza come il percorso di transizione si possa compiere in entrambe le direzioni.
TABELLA 3: Dinamiche di transizione tra polarità culturali,
attraverso il suono elettroacustico
Razionalismo, materialismo, cinismo, positivismo
Spiritualismo, esoterismo, magia, occultismo
Subconscio
⇐
Ruralità
Trascendenza: sperimentazione, sogno, alterazione psicofisica, allucinazione, orgasmo, automazione, alienazione,
programmazione, rivoluzione, rituale ecc.
Natura
⇒
Infanzia
Ancestralità
Innocenza
Coscienza
Maturità
Modernità
Urbanità
Artificio
Maturità
Se accettiamo che i procedimenti di manipolazione sonora di natura elettroacustica operino come “motori” della transizione tra le polarità testé elencate, è opportuno proseguire con una tipizzazione ulteriore, stavolta di matrice
eminentemente narrativa. Procedendo per ampie generalizzazioni, che si
prestano inevitabilmente a essere sfumate man mano che ci si addentri nella
specificità dei singoli casi, si può operare una prima macro-distinzione tra
transizioni con dominante “ambientale” e transizioni con dominante “psicologica”: nel primo caso (“luoghi della transizione”) si individuano spazi (geografici, sociali, antropologici) in cui la narrazione è immersa; nel secondo
(“stati della transizione”) ci si cala, per così dire, in spazi interiori, avendo a
che fare con rappresentazioni comportamentali di personaggi. Sono “luoghi
della transizione”: spazi a dominante automatico/elettronica (laboratorio
scientifico, nave spaziale, spazi che ospitano elaboratori automatici o elettronici); spazi industriali (fabbrica, macchinari industriali); luoghi naturali “alterati” o “estremi” (cataclisma, devastazioni belliche o post-atomiche, spazio
intergalattico, ventre terrestre, abissi marini ecc.); spazi domestici “alterati”
(popolati da oggetti automatizzati quali elettrodomestici o “gadgets” dell’indu138
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
stria). Sono “stati della transizione”: condizioni oniriche o patologiche (nevrosi, psicosi ecc.); traumi e alterazioni temporanee di coscienza (causate da
sostanze stupefacenti, conflitti fisici e affettivi, condizioni esistenziali problematiche ecc.); stati di trascendenza metafisica (estasi, rituali, transizioni vitamorte ecc.). In una zona “franca” tra le due macro-tipologie si collocano
situazioni che potremmo definire “astrazioni” spazio-temporali, consentite
dalla tecnica cinematografica – come per esempio il montaggio di immagini
afferenti a diverse sfere semantiche che rendono metaforicamente spazi
mentali, “totali” socio-culturali ecc. La TABELLA 4 prova a offrire una sintesi
di tale classificazione appoggiandosi a sequenze di film esemplificative (mi
sono limitato a includere solo film che fanno uso di risorse sonore elettroacustiche).
TABELLA 4: Situazioni narrative tipicamente associate a suono elettroacustico
LUOGHI
DELLA
TRANSIZIONE
Tipologia
narrativa
Spazi a dominante
automatico/
elettronica
Spazi
industriali
Film
Descrizione
sequenza
Descrizione
intervento
elettroacustico
L’Italia non è
un paese povero,
1960
Laboratorio
Geochimico di
S. Donato (I
episodio)
Episodi di sintesi sonora
(Marinuzzi)
Operazione
Vega, 1961
Viaggio verso
Vega e interni
della nave spaziale
Episodi di sintesi sonora
(SFdM)
Ai poeti non si
spara, 1965
Elaborazione
da parte di
Gordon I in
risposta alla
domanda del
presidente della società
Bordone elettronico con
episodi di sintesi sonora
Terrore nello
spazio, 1965
Titoli di testa/
Sequenze in
“esterni” sul
pianeta ostile
Episodi di sintesi sonora
(Ketoff)
Panoramica
del polo industriale ravennate (II episodio)
Composizione
elettroacustica
(suoni di sintesi, manipolazione di fonti
concrete) (Marinuzzi)
L’Italia non è
un paese povero,
1960
139
Maurizio Corbella
Omicron viene
assunto alla
catena di montaggio
Composizione
elettroacustica
(suoni di sintesi
e pianoforte)
(Umiliani)
Titoli di testa,
panoramica
delle ciminiere
dell’industria di
nerofumo
Composizione
elettroacustica
(frammenti di
composizioni
preesistenti di
Gelmetti, rumori industriali, brano per
voce sola di
Fusco) (Gelmetti-Antonioni)
La classe operaia va in paradiso, 1971
Varie sequenze
di lavoro dei
cottimisti
Suono di sintesi
in composizione orchestrale
che richiama le
macchine industriali (Morricone)
Ercole alla conquista di Atlantide, 1961
Presagio soprannaturale
che annuncia
l’imminente
minaccia di
Antinea/Ercole nel sottosuolo di Atlantide,
alle prese con
la pietra soprannaturale
del dio Urano
Episodi di sintesi sonora ed
effetti di vento
elettronico
(Marinuzzi)
Operazione
Vega, 1961
Distruzione
atomica del
Pianeta Vega
Episodi di sintesi sonora
(SFdM)
Barabba, 1961
Crocifissione di
Cristo durante
l’eclissi solare
Composizione
di strumenti
acustici pre-registrati e manipolati (Nascimbene)
La notte, 1961
Titoli di testa,
inquadratura
dall’alto di
Milano in movimento discendente.
Composizione
elettronica (Gaslini)
Omicron, 1963
Il deserto rosso,
1964
Luoghi naturali “alterati” o
“estremi”
140
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Spazi domestici “alterati”
8 ½, 1963
Sequenza del
cantiere dell’astronave
sulla spiaggia
Bordone d’organo elettrico,
episodi di sintesi (Rota)
Terrore nello
spazio, 1965
Titoli di testa/
Sequenze in
“esterni” sul
pianeta ostile
Bordoni elettronici (Marinuzzi)
Un milione di
anni fa, 1966
Titoli di testa:
rappresentazione del big
bang
Effetto di glissando realizzato tramite
composizione
di strumenti
acustici e rumori pre-registrati e manipolati (Nascimbene)
La fantarca,
1966
Apocalisse
elettromagnetica nella guerra
tra Triangolo e
Quadrato
Composizione
elettronica
(Vlad)
Il seme dell’uomo, 1969
Situazione di
pandemia postatomica, dopo
l’uscita di Cino
e Dora dalla
galleria
Composizione
elettroacustica
preesistente per
onde cerebrali,
pulsazioni cardiache e Moog
(In Tune, Teitelbaum)
Gott mit uns,
1969
Titoli di testa,
esercito in
marcia
Suono di sintesi
che richiama
mitragliatrice
in composizione orchestrale
(Morricone)
Il deserto rosso,
1964
Il robot giocattolo nella stanza di Valerio
causa il risveglio di Giuliana/Ugo spiega
a Valerio il
funzionamento
della trottola
Rumori manipolati e resi
ipertrofici
La tana, 1967
Durante tutto
il film, ambientato in un interno
Collage elettroacustico
(Gelmetti)
141
Maurizio Corbella
Astrazione
spazio-temporale
142
Un tranquillo
posto di campagna, 1968
Leonardo cerca di dipingere
nella sua casa
milanese
Rumore del
traffico e del
vociare cittadino manipolato,
squillo insistente del telefono
Antigone, 1958
Titoli di testa,
fondale fisso
con disegnato
tempio greco
Composizione
per coro ed
elettronica
(Marinuzzi)
Ai poeti non si
spara, 1965
Giustapposizione di volti di
poeti e macchinari tecnologici
Bordone elettronico
Il seme dell’uomo, 1969
Titoli di testa,
montaggio di
foto raffiguranti volti umani
Frequenza elettroacustica fissa
(In Tune, Teitelbaum)
Nerosubianco,
1969
Montaggio di
scene di scene
reali di violenza, guerra e
miseria
Collage elettroacustico
(Gelmetti-Lanzillotti)
Zabriskie Point,
1970
Titoli di testa,
primi piani di
volti di ragazzi
in assemblea/Primi
piani di insegne pubblicitarie mentre
Mark attraversa Los Angeles/Sospensione aerea ed
esplosione di
simboli del
capitalismo
Composizione
elettroacustica
(Heart Bit, Pig
Meat, Pink
Floyd)/Improvvisazione
elettroacustica
(MEV)/Composizione elettroacustica
(Come in Number
51, Your Time Is
Up, Pink Floyd)
Il sasso in bocca, 1970
Montaggio di
simboli del
benessere americano e immagini di crimini mafiosi
Collage elettroacustico
(Gelmetti)
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
STATI DELLA
TRANSIZIONE
Condizione
onirica o
patologica
Sogno di Nane
(II episodio)
Composizione
elettroacustica
(suoni di sintesi, manipolazione di fonti
concrete) (Marinuzzi)
8 ½, 1963
Sogno iniziale
di Marcello
Montaggio di
rumori (timpani, rumore
bianco, gemiti,
vento)
Il deserto rosso,
1964
Due sequenze
“erotiche”
(Giuliana e
Ugo/Giuliana
e Corrado)
Episodi di sintesi (elaborazioni di Modulazione per Michelangelo, Gelmetti) (Gelmetti-Antonioni)
Giulietta degli
spiriti, 1965
Visioni di Giulietta
Montaggi di
suoni di sintesi
e rumori
Sogni di Leonardo
Improvvisazioni su strumenti
acustici (GINC)
con sovrapposizioni di rumori
La classe operaia va in paradiso, 1971
Sequenza finale, Lulù racconta il sogno
del muro
Suono di sintesi
in composizione orchestrale
che richiama le
macchine industriali (Morricone)
La dolce vita,
1960
Morte di Steiner, Marcello
accorre sul
luogo della
tragedia
Bordone elettroacustico
(Rota)
Ercole alla conquista di Atlantide, 1961
Combattimento tra Ercole e
Proteo/Combattimento tra
Ercole e i soldati di Antinea
Composizioni
elettroniche
(Marinuzzi)
L’Italia non è
un paese povero,
1960
Un tranquillo
posto di campagna, 1968
Traumi,
alterazioni
temporanee
della coscienza
143
Maurizio Corbella
Giuliana scopre l’inganno
di suo figlio e si
precipita per
strada diretta
da Corrado
Episodi di sintesi (elaborazioni di Modulazione per Michelangelo, Gelmetti) (Gelmetti-Antonioni)
Un tranquillo
posto di campagna, 1968
Omicidio (immaginato) di
Flavia
Improvvisazione su strumenti
acustici e manipolazioni
elettroacustiche
(GINC)
Il giudizio universale, 1962
Sequenza del
giudizio divino
Bordoni elettronici (Marinuzzi)
Le tentazioni del
Dottor Antonio,
1962
Il corpo gigantesco di Anita
Ekberg prende
vita dal manifesto.
Effetti elettroacustici sulla
voce.
Omicron, 1963
“Resurrezione”
dell’operaio
per opera di
Omicron entrato nel suo
corpo.
Vibrati acuti
d’organo elettrico e suoni di
sintesi (Umiliani)
La mandragola,
1965
Raccolta della
radice di mandragola/Monologo di Fra’
Timoteo nella
cripta
Bordoni elettronici ed elaborazione di
strumenti acustici (Marinuzzi)
Terrore nello
spazio, 1965
Resurrezione
degli zombie
Bordoni elettronici (Marinuzzi)
Toby Dammit,
1968
Sequenza dell’intervista televisiva/Ritiro
del premio e
monologo
macbethiano
Bordone elettroacustico
Il deserto rosso,
1964
Trascendenza metafisica
Siamo partiti, fenomenologicamente, da una constatazione statistica: il suono elettroacustico accompagna situazioni narrative di transizione dinamica.
Ma ciò che è importante stabilire, sempre a livello generale e riservandoci
una verifica più puntuale nelle analisi di singole poetiche, è come esso connoti
144
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
tali transizioni. In altre parole: si può intendere come elemento neutro, oppure il suo impiego condiziona la natura stessa della transizione?
Partiamo dal basilare presupposto che la presenza del suono non sia
indispensabile perché si verifichi una transizione del tipo di quelle elencate,
avvenendo esse su un diverso piano strutturale del discorso narrativo. Ciò
nondimeno esistono particolari tipologie per le quali, invece, si verifica il fenomeno opposto, e cioè: senza il suono la transizione non sarebbe percepita,
in altri termini la situazione narrativa sarebbe statica; tipico è il caso delle
scene con calcolatori elettronici (prima tipologia dei “Luoghi della transizione” in TABELLA 4): è il suono a rendere “pensanti” tali macchine, trasformandole perciò da oggetti ad automi. La parola automa non è scelta a caso,
poiché il suono elettroacustico, nella sua natura di evento risultante da un
processo di elaborazione meccanica, è portatore di una componente automatica. Se ciò appare didascalico nel contesto dell’elaboratore, diventa portatore di un segno non neutrale in altre tipologie narrative elencate.
Prima di addentrarci in questo concetto è bene chiarire la portata filosofico-culturale della nozione di automatismo. Per Jean Baudrillard, l’automatismo è la connotazione tecnica essenziale degli oggetti della contemporaneità, dove per connotazione egli intende il sistema di significati prodotto
da un’ideologia. L’ideologia, nello specifico, è il trionfalismo meccanicistico:
«l’automatismo è l’oggetto che assume una connotazione di assoluto nella
funzione specifica».10 Il filosofo francese illustra il paradosso del funzionalismo, che consiste nel fatto che, se è vero che da una parte il grado di automatismo di una macchina è direttamente proporzionale alla sua perfezione,
è anche vero che per rendere una macchina altamente automatizzata, occorre sacrificarne alcune potenzialità di funzionamento, rendere le sue funzioni stereotipate e, nel complesso, rendere la macchina più fragile: l’esempio è quello degli accessori servo-comandati delle automobili, «il cui effetto
più immediato è rendere più fragili gli oggetti, di alzare il loro prezzo e di
favorirne l’obsolescenza e l’esigenza di sostituzione».11 Assurto a modello
tecnico dell’ideologia capitalista, l’automatismo è lontano da avere un significato tecnico. L’automatismo è ridondanza, «è il sogno di un mondo asser-
10
11
BAUDRILLARD 1968, p. 141.
Ivi, p. 142.
145
Maurizio Corbella
vito, di una tecnicità formalmente compiuta al servizio di un’umanità inerte
e sognatrice». 12
Il suono elettroacustico è portatore di un principio di automatismo,
nella misura in cui è esso stesso frutto di un’automazione; sono proprio le
“figure sonore” indicate nel CAPITOLO 3.II come caratterizzanti il percorso
di elaborazione culturale del suono fonografico e sintetico da parte dell’immaginario novecentesco, a delineare la metafora automatica attraverso la
quale il suono elettroacustico si integra nei contesti audiovisivi sopra elencati: il fattore di emulazione si fa carico dell’aspetto meccanico; il fattore di trasmissione, suggerendo la comunicazione tra stati e mondi diversi, apre la via
ai punti di fuga spiritualisti; il fattore di vibrazione suggerisce la componente
emotiva.
Il cinema è probabilmente l’agente narratore principale dell’avvento
dell’automatismo nella società contemporanea, e delle contraddizioni sociali,
economiche e politiche in esso implicate. Le declinazioni possono essere a
vari livelli: così come nella narrazione fantascientifica assistiamo, sulla scorta
delle ricerche cibernetiche, alla rappresentazione di cervelli elettronici sempre più autonomi, sempre più in grado di compiere scelte, addirittura di
provare emozioni, con il complementare incremento di tangibile inquietudine, a mano a mano che la tecnologia rivela i suoi lati oscuri,13 il cinema si fa
carico di narrare l’ingresso della “fantascienza” nella vita quotidiana, realizzato soprattutto mediante l’automatizzazione delle operazioni domestiche.
Gli elettrodomestici, in particolare frigorifero, lavatrice e televisione, provocano un cambiamento profondo degli stili di vita. Il focolare diventa uno
spazio potenzialmente avveniristico, amico come ostile, dotato di una sua
“vita” automatica sotto o fuori dal controllo dei suoi abitanti; inoltre, come
ha notato Simone Venturini, la tecnologia domestica, oltre ad avere implicato l’ingresso dei paradigmi di narrazione fantascientifica all’interno della
sfera intima del nucleo familiare, ha anche determinato una nuova organizzazione dello spazio dell’inquadratura, nel quale i nuovi oggetti diventano
Baudrillard non esclude l’effettivo progresso tecnologico come perfezionamento
della macchina, semmai lo colloca su un versante opposto rispetto all’illusione “automatica”: «[...] il perfezionamento reale delle macchine, quello di cui si può dire in
buona fede che eleva il loro grado di tecnicità, la “funzionalità” vera dunque, non
corrispondono a una iper-crescita d’automatismo, ma ad un certo margine di indeterminazione, che permette alla macchina di essere sensibile a un’informazione che
giunge dall’esterno. La macchina altamente tecnologica è una struttura aperta, l’insieme delle macchine aperte presuppongono un uomo organizzatore e interprete
vivente»; Ivi, p. 143.
13 Naturalmente l’apice di questa tendenza si riscontra in 2001: Odissea nello spazio
(1968).
12
146
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
elementi strutturali.14 Il terzo polo dell’automatismo, dopo gli spazi fantascientifico e domestico, è quello che potremmo definire “biologico”. La narrazione fantascientifica ci ha consegnato un’ampia variazione sul tema dell’automa per eccellenza – il robot, sempre più simile a uno smisurato cervello elettronico che sviluppa estensivamente i meccanismi intellettuali del cervello umano – mentre la scienza ha approfondito i meccanismi biologici delle funzioni cerebrali. L’uomo stesso viene affrontato come una macchina
complessa, i cui comportamenti, stati fisici ed emotivi, possono essere programmati. In parziale reazione a questa tendenza si assiste alla fioritura di
contributi provenienti da filoni della ricerca scientifica che indagano i cosiddetti fenomeni paranormali, come la parapsicologia, fiorente in Italia in
quegli anni grazie agli studi dello psicanalista freudiano Emilio Servadio,15 e
la stessa antropologia, che apre grazie ad Ernesto De Martino finestre fondamentali nell’ambito delle pratiche magiche.16 Il cinema italiano si confronta in vario modo con queste tematiche, subendone il fascino sotto il profilo della rappresentazione, e generalmente stigmatizzando le tendenze spiritistico-occultiste alla moda nei settori della borghesia agiata, bisognosa di
guru, santini e santoni più o meno esotici. Soprattutto, il cinema ha il merito
di intuire come da un’approfondimento di questi temi passi una chiave fondamentale per l’interpretazione delle dinamiche profonde della società contemporanea.
Non sarà possibile indagare tutte le combinazioni tematiche testé elencate, delle quali semmai viene offerto un campione all’interno delle quattro
analisi monografiche in coda al capitolo. Proporrò ora di restringere il campo a una particolare conformazione che consente numerose vie di fuga e,
soprattutto, ci consente di spostare il piano del discorso dal suono elettroacustico alla musica elettroacustica. Mi pare valga la pena di domandarsi il tipo
di relazione che si instaura tra le ricerche scientifiche, in particolar modo
legate all’orizzonte cibernetico e le poetiche musicali, per poi sondare la
modalità in cui questa convergenza si depositi nel cinema narrativo.
14 «[...] un oggetto tecnologico statico e razionale come il frigorifero impone, nei film
che lo ritraggono, un’organizzazione dello spazio della ripresa, inserendosi come
oggetto dello sguardo in una dialettica tra macchina domestica e macchina da presa;
contribuisce a definire la rappresentazione delle relazioni tra i personaggi, fissando i
tempi del dialogo, gli spostamenti e la prossemica, i ritmi del racconto»; VENTURINI
2005, p. 92.
15 Cfr. BIONDI 1995.
16 Cfr. DE MARTINO 1948.
147
Maurizio Corbella
Il solo fatto che il principale responsabile dell’introduzione
II. Cibernetica, musica e cinema.
della scienza cibernetica in Italia sia un intellettuale eclettico
Aspetti di una “triangolazione”
e poliedrico come Silvio Ceccato – filosofo, linguista, diplomato in composizione, con alle spalle un passato di critico affascinante
musicale – autorizza a ipotizzare un incrocio tra cultura e
scienza particolarmente fertile nel nostro paese. Ceccato, nella sua sterminata e interdisciplinare produzione, negli anni Sessanta scrive di cinema, di
arte, di musica con grande lucidità e capacità divulgativa e intrattiene rapporti con intellettuali, compositori, artisti e cineasti. 17 Uno dei suoi campi
d’attività è consistito in anni più recenti nell’aprire la via per un possibile
scambio tra la cosiddetta “terza cibernetica”, o logonica, e le dinamiche della creazione e della ricezione estetica, in particolare musicale. 18 Impegnato
fin dagli anni Cinquanta nella costruzione di automi (il suo Adamo II è del
1956) e attivo in quel gruppo internazionale di scienziati finanziati dagli Stati Uniti in piena Guerra Fredda, per lo sviluppo di modelli di traduzione simultanea dal russo all’inglese, ebbe senz’altro una profonda influenza nell’indirizzare, anche inconsapevolmente, le sorti della rappresentazione tecnologica nelle discipline artistiche italiane degli anni Cinquanta. Il grande ritratto dell’amico Dino Buzzati (1960) è un romanzo di fantascienza per così
dire “originato” dalla sconvolgente impressione che lo scrittore riceve dalla
conoscenza del “cronista meccanico”, un progetto mai portato a termine di
costruzione di un automa in grado di formulare descrizioni verbali di realtà
fisiche elementari.19
A una simile miscela di stupefazione e fascino, avvenuta in un incontro
analogo, si deve fare risalire anche la scintilla che infiamma la genesi del Deserto rosso, come ricorda lo stesso Antonioni in una conversazione con JeanLuc Godard.
Tra il 1964 e il 1975 collabora con il periodico d’arte «D’Ars»: cfr. CECCATO 1968,
1971.
18 La logonica si differenzia dalle altre due branchie principali della cibernetica (quella dell’automazione, facente capo a Wiener, e quella anatomo-fisiologica o “bionica”)
in quanto «si propone di riprodurre in forme meccaniche il nostro pensiero, le nostre
cosiddette attività superiori»; CECCATO–ZOTTO 1980, p. [4].
19 «Il modello in costruzione del “cronista meccanico” avrebbe avuto a sua disposizione non più di 100 vocaboli e avrebbe guardato e riconosciuto situazioni e movimenti su un tavolo in cui si sarebbero trovati una pera, una mela, un limone, un cespo di lattuga, un piatto, un bicchiere e una tartaruga viva. Buzzati sembrava stregato dagli occhi della macchina: due tubi dalla cui coda partivano centinaia di fibre di
vetro. Mentre si udiva un ronzio di motorini, lo scrittore continuava a porre domande: quanti anni ancora per completare il lavoro? Il “cronista meccanico” sarebbe
stato capace in futuro di descrivere una partita di calcio? O, portato a teatro, di raccontare una commedia? Il sorriso di Ceccato accompagnava le risposte: “Sì, Dino,
ma sarebbe un’impresa immensa, dai costi incalcolabili...”»; NASCIMBENI 1997.
17
148
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Sono rimasto stupefatto, e lo sono tuttora, da una conversazione che ho
avuto con un professore di cibernetica di Milano, Silvio Ceccato, che gli
americani considerano una specie di Einstein. Un tipo formidabile, che ha
inventato una macchina capace di guardare e di descrivere, di guidare l’automobile, di fare un reportage da un punto di vista estetico, etico, giornalistico, ecc. Non è una televisione, è un cervello elettronico. Quest’uomo, che
peraltro ha dato prova di una lucidità straordinaria, non ha mai pronunciato,
nel corso della nostra conversazione, termini tecnici che io avrei rischiato di
non capire.
Ciononostante, ci stavo perdendo la testa. Nel giro di cinque minuti già non
capivo più nulla di quello che mi stava dicendo. Lui si sforzava di servirsi della mia lingua, ma si finiva per ritrovarsi in un altro mondo. [...]
Sei mesi fa, un altro scienziato, Robert M. Stewart, è passato a farmi visita a
casa mia, a Roma. Aveva inventato un cervello chimico, ed era diretto a Napoli, ad un congresso di cibernetica, per dar conto della sua scoperta, una
delle più straordinarie al mondo. [...] Mi parlava di questa scoperta, era tutto
molto chiaro, ma talmente incredibile che a un certo punto mi sembrava di
non riuscire più a seguirlo. Invece chi sin da bambino ha sempre giocato con
i robot potrà capire molto bene, e se gli viene voglia non avrà problemi a partire per lo spazio a bordo di un razzo.
Io guardo tutto questo con invidia, e vorrei essere già in questo nuovo mondo. Ma purtroppo non ci siamo ancora, ed è un dramma per più di una generazione: la mia, la sua, quella dell’immediato dopoguerra. [...] Allora mi
sono detto: «che cosa c’è da raccontare, oggi, al cinema?», e ho avuto voglia
di raccontare una storia fondata sulle motivazioni di cui le parlavo poco fa.20
Non c’è niente di nuovo nel fatto che forme della narrazione (letteraria o
cinematografica) operino rappresentazioni della realtà e colgano a vari livelli, sulla base di diversi gradi di competenza o di rielaborazione fantasiosa, le
implicazioni delle scoperte scientifiche sentite come maggiormente rivoluzionarie, affascinanti o pericolose (valga su tutti il mito di Frankestein, archetipo letterario e cinematografico): la descrizione ironica che ci viene offerta
del processo di funzionamento dell’organismo umano in Omicron di Ugo
Gregoretti è in un certo senso basata su una semplificazione dei modelli
meccanici offerti dalla cibernetica; l’elaboratore Gordon I che è in grado di
sintetizzare i contenuti di tutto lo scibile letterario umano e, sulla base di ciò,
di produrre testi poetici e rispondere a quesiti esistenziali ultimi, in Ai poeti
non si spara di Vittorio Cottafavi trae ancora una volta ironicamente le conseguenze di ricerche che hanno una matrice comune a quanto Ceccato sta facendo in quegli anni.
20
ANTONIONI in GODARD 1964, pp. 171-172.
149
Maurizio Corbella
MUSICA
Immaginario
SCIENZA
Figura 16
CINEMA
Ragionare a partire da una prospettiva musicologica, ci aiuta tuttavia
a cogliere, più che una dimensione di diretta dipendenza del cinema dalla
scienza, una sorta di triangolazione in cui la musica svolge un ruolo di mediatore e insieme a sua volta di catalizzatore di immaginario. Inoltre la sperimentazione musicale si pone, come vedremo tra poco, nei confronti della
scienza come un’importante appendice di ricerca e terreno di verifica, dunque non meramente come ricettore di suggestioni. Abbiamo già visto come
nel Pianeta proibito, i coniugi Barrons immettevano in uno schema narrativo
aderente agli stilemi della fantascienza hollywoodiana un livello di lettura e
significazione completamente nuovo, interponendo una personale interpretazione della cibernetica alla base del processo di creazione musicale. Nel
caso di un certo cinema d’autore italiano, il meccanismo si complica: registi
come Antonioni, Ferreri o Petri costruiscono narrazioni legate a doppio filo
con ricerche scientifiche e filosofiche coeve ma vi immettono informazioni di
tipo musicale che vantano a loro volta un tragitto di derivazione, spesso indipendente, da speculazioni scientifiche. Ci troviamo così nella singolare situazione in cui il cinema rimette in circolo narrativamente la scienza, avvalendosi del contributo di musica che con la scienza ha un rapporto più diretto e interdipendente. Il prodotto bizzarro dell’equazione è che il cinema offre, in un certo qual senso, una narrazione anche di quella musica, aprendo
una via ulteriore alla sua ricezione nella società, al prezzo tuttavia di un cortocircuito che sovente “tradisce” i contenuti e gli scopi per cui quella musica
era stata originariamente pensata. La costruzione dell’immaginario passa
dunque attraverso un doppio canale: quello di un artefatto cinematografico
che ingloba e risemantizza un artefatto musicale che aveva a sua volta già
instaurato un processo di sedimentazione nella società, e dunque nello stesso
autore cinematografico (FIGURA 16).
È sicuramente vero che ciò accade con qualsiasi presenza musicale in
strutture audiovisive, in special misura quando si tratta di composizioni precedentemente esistenti. Ma la musica elettroacustica, forse a causa dello
scarso grado di decodificazione che presenta presso il pubblico generalista
contemporaneo – spesso a fronte di un altissimo grado di concettualizzazio-
150
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
ne a monte del processo creativo, che nei casi che vedremo tra poco diventa
imprescindibile per la comprensione stessa del progetto compositivo – si presta particolarmente a solubilizzarsi e rigenerarsi nel vortice di relazioni di un
tessuto audiovisivo. Diventa dunque necessario riallacciare i nodi originari
della composizione con la speculazione scientifica per poi capire in che
modo essi si distillino e si rimescolino nella narrazione filmica.
La speculazione musicale ha sempre potuto vantare
un canale privilegiato di scambio con la ricerca scientifica, fin da quando era inserita nel quadrivium del sapere, accanto ad aritmetica, geometria e astronomia.
«One night I had a dream, or hypnagogic vision, in
which I saw three reclining figures spaced along the
In tempi recenti si è posta sempre maggiore attenzioperimeter of a round, diaphanous “tent”, all bathed
in a soft blue light and all wired together in a loop so ne al rapporto tra le avanguardie musicali del secondo
that one person’s alpha brain waves controlled strobe dopoguerra e le istituzioni che perseguono a vario tilights and sounds perceptible to the next, he in turn
passing his alpha signals similarly on to a third, and tolo finalità di ricerca scientifica, come enti statali o
the third back to the first to close the loop.
governativi, strutture accademiche o addirittura miliThe image haunted me, and I decided to try and
tari. Se in un certo senso già enti radio-televisivi come
realize it electronically and musically».
[TEITELBAUM 1974, p. 35]
la RAI in Italia, l’RTF e in Francia, la WDR in Germania rientrano in questa tipologia di collaborazioni
scientifiche in senso ampio, nella misura in cui si avvalgono della consulenza
di compositori e tecnici per avviare percorsi di ricerca sulla sintesi elettroacustica, sulla fonologia o, più in generale, sulla comunicazione, in area
americana sono intense le collaborazioni tra istituzioni governative e militari
e protagonisti della sperimentazione musicale,21 quali per esempio Alvin Lucier, il cui studio sulle onde cerebrali “alfa” Music for Solo Performer (1965) è
frutto dell’incontro con il fisico Edmond Dewan dell’Air Force Cambridge
Research Laboratory,22 o Gordon Mumma, il cui ciclo di composizioni intitolato Size Mograph (gioco di parole fondato sull’assonanza con “seismograph”)
deriva dallo studio della propagazione e della differenziazione delle onde
III. Teitelbaum, Ferreri e il biofeedback:
il suono dell’uomo e il Seme dell’uomo
È questo un aspetto attualmente affrontato da Douglas Kahn e sviluppato in due
opere di prossima pubblicazione The Source Book: Music of the Avant-garde, 1966-1973, a
cura di D. Kahn e L. Austin, e ID., Arts of the Spectrum: In the Nature of Elettromagnetism;
io mi riferisco a ID., The Cybernetic Hi-Fi of Brainwave, “Sound Effects” Sound Studies
Conference, Center for Cultural Analysis, Rutgers University, New Brunswick (NJ),
ottobre 2008.
22 «At that time, Dewan was engaged in brainwave research particularly as it pertained to flying: it
was believed that certain periodic visual rhythms of slow propellor speeds were locking onto corresponding brainwave frequencies of aircraft pilots, causing dizziness, blackouts and epileptic fits [...].
Inspired by the imagery and technology of electroencephalography, I immediately set to work to discover all I could about alpha [brainwaves]»; LUCIER 2006.
21
151
Maurizio Corbella
sismiche, precedentemente sviluppato in un periodo di ricerca presso un laboratorio sismografico. 23
Significativo è che un consistente numero di compositori americani
attivi in questo ambito sia transitato per l’Italia e per Roma in particolare:
Alvin Lucier, dopo una borsa Fulbright spesa al conservatorio “Benedetto
Marcello” di Venezia, dove tra le altre cose assiste allo storico concerto di
John Cage e David Tudor alla Fenice ricevendone un’impressione determinante per il prosieguo delle sue ricerche, 24 fa tappa per un paio di anni all’Accademia Americana. Richard Teitelbaum, componente di Musica Elettronica Viva, lungamente a Roma nella seconda parte degli anni Sessanta, è
colui che introduce in Italia il concetto di biofeedback. Come dice la parola, il
biofeedback studia essenzialmente i meccanismi di produzione di segnali di
ritorno (feedback) generati solitamente da attrezzature elettroacustiche in risposta a stimoli provenienti da stati psicofisici di un essere vivente. Per usare
le parole di uno dei suoi principali teorizzatori, il pianista e compositore David Rosenboom, il biofeedback è «un sistema [...] per la produzione di musica
e di fenomeni visuali per mezzo di precise informazioni elettriche estratte da
soggetti che hanno imparato ad attuare un controllo conscio di stati psicofisici associati». 25
Determinati aspetti del comportamento di un soggetto che sono monitorabili
elettronicamente sono usati per generare o controllare un segnale di ritorno,
fornendo al soggetto quantità variabili di informazioni riguardo al suo comportamento. Viene quindi chiesto a esso di modificare il suo comportamento
in modo tale da cambiare il segnale di ritorno. 26
23 Si tratta di un ciclo di sei composizioni che ruotano intorno a varie combinazioni
pianistiche (pianoforte solista, pianoforte con appendici elettroacustiche, più pianoforti) elaborate tra il 1962 e il 1964; a Medium Size Monograph per pianoforte e consolle
cybersonica (1963), si fa normalmente risalire l’origine del concetto mummiano di
“cibersonica” (cybersonics), «a technique in which specially designed circuits permit to sounds to
effect both their own development and the generation and manipulation of subsequent sounds»; JAMES 1987, p. 374. il termine è naturalmente imparentato con il concetto di cibernetica già acquisito dai Barrons: «Gordon had designed the circuits to change, depending on the
sounds and how the space responded to them [...]. It was as if the circuits were alive and had the
capacity of memory. Sometimes the system would get out of balance and try to balance itself, hence
the prefix “cyber” from cybernetics, the science of self-governing control systems»; LUCIER 1998, p.
6.
24 Ivi, p. 5
25 «[...] a system [...] currently in use for production of music and visual phenomena by precise
electrical information extracted from subjects who have learned conscious control of associated psychophysical states»; ROSENBOOM 1971, p. 1.
26 «[...] certain aspects of a subject’s behaviour which are electronically monitorable are used to generate or control a feedback signal, giving the subject varying amounts of information about his behaviour. He is then asked to modify in such a way as to change the feedback signal»; ibid. p. 4.
152
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Composizioni come Spacecraft, Organ Music e In Tune consistono essenzialmente nella conversione di segnali provenienti dall’organismo (onde cerebrali, pulsazione cardiaca, respiro) in segnali udibili o visibili che il compositore
può controllare tramite l’ausilio di sintetizzatori a controllo di tensione (il
Moog o altri apparecchi costruiti dallo stesso Teitelbaum con l’aiuto di David Behrman)27 e il mixaggio. Per via del fatto che i segnali biologici provengono da un essere umano, quest’ultimo è addestrato a governarli in vari
modi, mediante lo sfruttamento di alcune funzioni psico-motorie (per esempio chiusura-apertura delle palpebre), e associazioni mentali legate al modo
in cui il soggetto percepisce la resa sonora e visiva dei suoi segnali, o ad altri
tipi di stimoli concordati con il compositore. La formulazione concettuale
del principio compositivo che sottosta a tali opere avviene dopo un periodo
di ricerca di Teitelbaum presso il dipartimento di psicologia del Queens College di New York, speso in collaborazione con Lloyd Gilden, scienziato dalla
formazione eclettica, che consta anche di approfondimenti nel campo della
filosofia Zen.28 Con queste composizioni Teitelbaum compie il passo dalla
sperimentazione all’immaginario, poiché l’evento musicale diventa una performance che coinvolge tutti gli astanti, un happening che parte da un’ipotesi
scientifica e si carica di contenuti etici ed estetici, sociali e politici. In Spacecraft, opera collettiva realizzata insieme al MEV, «ogni musicista [...] portava
avanti una ricerca interiore nei risvolti della propria coscienza» perché i risultati fossero tradotti attraverso strumenti elettroacustici (sintetizzatori, microfoni a contatto ecc.) in potenti segnali sonori riprodotti da altoparlanti:
«un “doppio” trasformato elettronicamente riflettente gli stati soggettivi interiori dei performer». 29 Il salto verso una prospettiva etica dell’agire musicale nella società è comprensibile fin da queste poche righe. Il “suono interiore” materialmente trasmesso a volumi altissimi ad investire il pubblico convenuto, che a sua volta agisce come meccanismo di feedback su di esso, con le
proprie reazioni ad influenzare il performer: i concetti di armonia interiore,
di tempo, di ritmo assumono tutto a un tratto una palpabilità fisica senza
precedenti.
La risonanza creata tramite il connettere temporalmente la coscienza di un
soggetto con l’attività neuronale sincronizzata della corteccia che il ritmo alfa
TEITELBAUM 1974, p. 37.
Ibid., p. 36.
29 «[...] each musician [...] carried on an inner search through the recesses of his own consciousness.
The images and experiences encountered on this inner space journey were translated by the performers’
gestures through electronic instruments (contact microphones, synthesizers and others) into highly
amplified sounds fed back from spatially distant loudspeakers – an electronically transformed “double” mirroring the performers’ internal subjective states»; ibid., p. 37.
27
28
153
Maurizio Corbella
apparentemente rappresenta, sembra rinforzare e accrescere significativamente quell’attività sincrona, e a sua volta produce effetti sulla coscienza: un
sentirsi in “unità”, un essere in unisono con il Tempo, in armonia con il Sé. 30
In Tune è, tra questo tipo di composizioni, sicuramente la più eseguita. La
storica prima performance romana avviene presso la chiesa americana di
San Paolo entro le Mura di Roma, il 4 dicembre 1968. La “sorgente sonora”
è impersonificata dall’attrice Barbara Mayfield alla quale vengono applicati
microfoni a contatto (cuore e gola) e un elettroencefalogramma accoppiato a
un amplificatore differenziale con il compito di captare e amplificare i segnali in bassa frequenza delle sue onde alfa. I segnali cardiaco e respiratorio
giungono, preamplificati, direttamente al mixaggio stereofonico, mentre i
segnali cerebrali passano attraverso il sistema di controllo di tensione del
Moog, che a sua volta viene utilizzato come fonte sonora. Al termine di questa complessa catena c’è il compositore-performer. Fatto non secondario, l’allestimento visivo della performance presso la cattedrale di San Paolo è curato
da Milton Cohen, l’ideatore dello Space Theater che aveva fatto scalpore alla
Biennale di Venezia del 1964.31
Vestita in un fluente abito bianco, Barbara era seduta di fronte all’altare in
un enorme trono vescovile dallo schienale ligneo. Alla sua destra c’era lo
schermo di un oscilloscopio rivolto al pubblico, visualizzante le sue onde cerebrali. L’alta chiesa dalla volta di pietra era oscurata, eccezion fatta per
l’oscilloscopio e un singolo faro ad alta intensità su Barbara. 32
Dobbiamo fare lo sforzo di immaginare il tipo di spettacolo di fronte al quale lo spettatore si trovò in questa e nell’occasione successiva, in cui In Tune
venne presentato in una versione “espansa” (cfr. FIGURA 17) all’Accademia
«The resonance created by time-locking one’s consciousness with the cortically synchronized neuronal activity that the alpha rhythm apparently represents seems to significantly reinforce and increase
that synchronous activity, and in turn produces positive effects on the consciousness; a feeling of “at
oneness”, of being in unison with Time, in harmony with Self»; TEITELBAUM 1974, p. 37.
31 Lo Space Theater può essere considerato rappresentante di un passaggio fondamentale nell’ambito della sperimentazione audiovisiva contemporanea. Fondato nel
1957 da Milton Cohen, artista poliedrico formatosi come pittore, lo Space Theater
persegue la finalità di costruire forme di percezione audiovisiva basate su una concezione innovativa dello spazio, facendo largo uso delle possibilità della tecnologia elettronica. Fondamentale per lo Space Theater è la collaborazione musicale di Gordon
Mumma e Robert Ashley, che conosce uno dei momenti più alti proprio nell’esibizione del 1964 alla Biennale di Venezia, avvenuta su invito di Luigi Nono; cfr. JAMES
1987, pp. 363-368.
32 «Dressed in a flowing, white robe, Barbara was seated directly in front of the altar in a huge, high
backed wooden “bishop’s” chair. To her right was an oscilloscope screen facing the audience, providing a visual display of her brain waves. The high, stone vaulted church was darkened except for the
scope and a single, high intensity spot light on Barbara»; TEITELBAUM 1974, pp. 39-43.
30
154
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Americana, e la gamma delle impressioni che dovette riceverne: il manifestarsi, sotto forma di suono e luce, dell’inconscio, capace di generare eventi
sonori spaventosi eppure estremamente connessi con stati emozionali noti al
pubblico.
Figura 17: Schema costitutivo della seconda versione di In
Tune [fonte: TEITELBAUM
1974, p. 44]. Le “sorgenti sonore” umane sono costituite
da due attrici a ognuna delle
quali sono applicati un elettroencefalogramma (EEG) e due
microfoni a contatto (alla gola
e al cuore, per captare respiro
e pulsazione). Questi ultimi
due elementi, preamplificati
vengono diffusi senza elaborazioni da due altoparlanti posti
alle spalle del pubblico, ai quali giungono anche i suoni prodotti da Teitelbaum con il
Moog. Il segnale cerebrale,
invece, captato dagli elettroencefalogrammi subisce un complesso processo di elaborazione: parte di esso viene smistato
attraverso un generatore d’inviluppo agli altoparlanti frontali, mentre parte, attraverso il
controllo di voltaggio, viene
miscelato con suoni registrati
su nastro. I nastri ospitano
suoni vocali di natura erotico-sessuale e musica tibetana
vocale e strumentale tratta dal
disco della serie UNESCO
Eternal Voice. Teitelbaum precisa che lo scopo di quest’architettura sonora fosse di «rendere al massimo l’effetto di allucinazione onirica dell’orecchio».
In qualità di guida, cercai di raccogliere insieme i suoni e i bioritmi in
una visione sonora che conducesse i soggetti attraverso un viaggio di
scoperta sia interiore che esteriore, perché si fondessero infine in uno
stato di coscienza alterata. Persino il pubblico sembrò raggiungere una
sorta di trance, in tal modo entrando esso stesso nel ciclo di feedback,
rinforzando positivamente l’intero processo. Descrivendo il suo responso soggettivo a posteriori, Barbara Mayfield disse che era stato “come
possedere un corpo astrale attraverso i cavi”.33
Se l’inconscio si ribella..., verrebbe da dire citando il titolo di un film di quegli
stessi anni, opera di un cineasta d’avanguardia come Alfredo Leonardi, immerso nel medesimo clima culturale; ma, mentre non sappiamo se quest’ul-
33 «As guide, I sought to gather together the sounds and bio-rhythms into a sound vision which would
guide the subjects through a voyage of discovery both internal and external, and to eventual merging
in an altered state of consciousness. Even the audience seemed to enter into a trance-like state, thereby
entering into the feedback loop themselves and lending positive reinforcement to the whole process.
Describing her own subjective response later, Barbara Mayfield said it was “like having an astral
body through the wires»; ivi, p. 45.
155
Maurizio Corbella
timo avesse potuto assistere a una delle esecuzioni romane di In Tune, è più
che probabile che tra gli spettatori di una delle due performance ci fosse
Marco Ferreri, amico di Teitelbaum e futuro responsabile dell’incontro di
quest’ultimo con Antonioni, che avrebbe poi dato vita alla collaborazione di
MEV a Zabriskie Point.34 Il fatto che l’inconscio potesse avere una veste sonora dovette impressionarlo nell’ottica del tema del film al quale stava lavorando in quei mesi, Il seme dell’uomo, al punto da spingerlo a chiedere a Teitelbaum di utilizzare la registrazione del brano.35
Ora: cosa accade di In Tune nel film di Ferreri? Il seme dell’uomo racconta della vicenda di due giovani fidanzati, Cino (Marco Margine) e Dora
(Anne Wiazemsky), che tornano dalle vacanze estive mentre nel mondo
aleggia la minaccia di una pandemia radioattiva, comunicata perlopiù attraverso la televisione. Durante il loro viaggio in macchina i due si immettono
in un lungo tunnel e, all’uscita, l’“apocalisse” è già accaduta: il tunnel li ha
evidentemente protetti dalle nefaste conseguenze. Cino e Dora vengono sottoposti ad analisi da parte di squadre speciali e, trovati sani, vengono intimati a cercarsi da vivere nei pressi di quella zona. Prendono possesso di un’abitazione in riva al mare il cui proprietario (Marco Ferreri) giace cadavere sull’uscio. Da qui inizia la loro esistenza di nuovi Adamo ed Eva; le città sono
state distrutte, i pochi esseri umani sopravvissuti sono sparsi sul suolo terrestre, mentre squadre di sedicenti “funzionari” girovagano impartendo a chi
incontrano l’ordine di procreare per mantenere viva la specie. È la stessa
convinzione che matura in Cino, mentre Dora sfugge continuamente a questo desiderio del suo uomo («Non ne abbiamo il diritto» dirà nel finale). Cino istituisce nell’abitazione un vero e proprio museo della civiltà estinta, raccogliendo oggetti che trova intorno (una forma di parmigiano, un mangiadischi a due velocità, un frigorifero, un’automobile, ecc.). L’esistenza della
coppia è turbata dall’arrivo di eventi esterni, come lo spiaggiamento di un
cadavere di una balena, esplicitamente soprannominata da Cino “Moby
Dick”,36 o come la misteriosa donna (Anne Girardot) che mette in crisi
l’equilibrio della coppia fin quando Dora non la uccide per poi darla in pasto a Cino, all’insaputa di quest’ultimo. Scampata la pestilenza causata dalla
carcassa del gigantesco animale putrefatto, Cino è sempre più convinto nel
volere un discendente, e per far ciò prende con l’inganno la donna, fecon-
34 TEITELBAUM, comunicazione
personale, 29 ottobre 2008.
TEITELBAUM, com. pers. cit. Non esistendo pubblicazioni discografiche di In Tune,
è spontaneo dedurre che Ferreri attinse proprio a una delle due versioni romane.
36 È come se anche ciò che nella società estinta era il simbolo della dimensione ultima della conoscenza, al di là del bene e del male – la balena bianca – si sia consegnato alla catastrofe.
35
156
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
dandola dopo averla addormentata con un intruglio d’erbe; ai primi sintomi
di gravidanza di Dora, Cino esulta fuori di sé girando intorno alla donna a
terra disperata, e scandendo come un ritornello la frase: «Ti ho fecondata, il
seme dell’uomo ha germogliato». Ma nel suo girare esaltato Cino scava un
solco sulla spiaggia, dissotterrando probabilmente una mina, che esplode
portando con sé anche i due fidanzati.
Nell’ambito di un film laconico, in cui gli interventi musicali (composti
da Teo Usuelli) sono ridotti all’osso, In Tune rappresenta il contributo sonoro
di gran lunga predominante nel film. Le occorrenze in cui si presenta sono
cinque, ma in corrispondenza di sequenze particolarmente lunghe. Le caratteristiche sonore e il suo comparire e scomparire privo di significativi punti
di sincrono ne fa una componente di difficile decifrazione, integrata nell’ambiente naturale al punto da sembrarne una sorta di escrescenza acustica. Probabilmente questo è proprio l’effetto che Ferreri persegue, e che al
lettore sarà ora più chiaro considerando l’originale concezione del brano di
Teitelbaum. In una civiltà post-atomica desertificata, quei suoni sono echi di
una presenza umana ormai estinta, l’onda lunga di un secondo big bang che
affiora qua e là come un lamento, ma anche come una minaccia, ombra di
una contaminazione che non è placata, pandemia acustica che si fermerà
solo con l’esplosione che estingue anche Cino e Dora, lasciando spazio al
brusio indistinto del mare.
Analizzando le occorrenze del brano, è fin da subito evidente che esso
è associato con lo stato pandemico e con il manifestarsi di presenze oscure
(infette?) nella vicenda di Dora e Cino, l’ultima delle quali è proprio il seme
dell’uomo nel ventre della donna. Durante i primi tempi della permanenza
della coppia nella casa in riva al mare, essi assistono a una trasmissione televisiva messa in onda «in condizioni di fortuna», che riporta le immagini della devastazione planetaria, concentrandosi su Londra e Roma rase al suolo;
come già era successo nella sequenza iniziale del film, le immagini trasmesse
sono in realtà relative alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Ferreri sceglie di commentare questa sequenza di immagini storiche con il Va
pensiero verdiano. L’invocazione di Verdi «va pensiero sull’ali dorate» sembra
trovare nell’uso di In Tune una singolare corrispondenza simbolica: nella
composizione di Teitelbaum il pensiero è sostanza sonora che si propaga, nel
film di Ferreri è addirittura presenza inquietante che si propaga «sull’ali dorate» di un onda contaminata.
157
Maurizio Corbella
Nella stanza di Valerio, figlio di Giuliana, la protagonista
IV. Il deserto elettronico di Antonioni.
di Il deserto rosso, c’è un robot giocattolo. La sequenza in
La musica elettronica e lo sguardo
cui, per la prima volta agli occhi dello spettatore, Giuliasperimentale
na (Monica Vitti) manifesta un comportamento “strano”
(che poi rivelerà gravi tratti nevrotici), si apre con un IV.1 Il “laboratorio giocattolo”
rumore fuori campo, che causa nella donna un brusco ri- del piccolo Valerio.
sveglio nel mezzo della notte (0:14:22).37 L’apparenza sinistra del rumore viene ben presto smentita dalla sua associazione visiva con il
piccolo robot, dimenticato acceso, e per questo vagante avanti e indietro tra
il letto del bambino e la parete. Giuliana lo spegne facendo cessare il rumore
meccanico e, dopo avere dato una carezza al volto del figlio, spegne la luce
della stanza. L’oscurità improvvisa è turbata dai due occhi del giocattolo, che
rimangono accesi come fari nel buio, quasi a presagire che l’inquietudine
non sia cessata. Tant’è vero che nell’inquadratura successiva si avverte un
suono elettronico, che si interromperà solo con la comparsa di Ugo (Carlo
Chionetti), il marito di Giuliana.
È in assoluto il primo momento nel film in cui abbiamo a che fare con
un simile accadimento acustico. Esso disorienta lo spettatore, che fino a quel
momento non ha abbastanza elementi per decodificare il comportamento
della protagonista e questa informazione sonora. Se fossimo in un thriller, o
in un giallo, essa potrebbe fungere da meccanismo di suspence, preludendo a
una svolta narrativa, e a un conseguente sviluppo “musicale” della risonanza
sinistra. Per un attimo potremmo addirittura crederci, visto che Giuliana si
comporta come se fosse spaventata da qualcosa che ha visto oltre la rampa
delle scale e che lo spettatore non vede. Ma è solo un attimo, perché ben
presto è chiaro che invece di preludere a uno sviluppo qualsivoglia musicale,
quella presenza sonora si fa intermittente e ostinata lungo tutta la sequenza.
Giuliana è in crisi, il marito Ugo compare sulla porta e cerca di consolarla;
ben presto, però, questi non nasconde le sue intenzioni sessuali, alle quali
Giuliana soccombe, dopo vane resistenze.
L’elemento sonoro è come bloccato in una stasi senza possibilità, e ciò
che l’orecchio avverte come un “vicolo cieco”, è associato dall’occhio alla
situazione esistenziale della protagonista. Lo stesso uso “segnaletico” a intermittenza, verrà attuato da Antonioni in fasi più avanzate del film, con il
risultato di conferire un carattere di ossessività ai comportamenti di Giuliana. Si può dire che l’intermittenza del suono sia misura del suo farsi sempre
Le indicazioni cronometriche sono ricavate dall’edizione in dvd Film Prestige, FP066, 2004. Preciso, anche per i casi analoghi successivi, che mi sono avvalso del software di default Apple Dvd Player. La stessa operazione condotta tramite altri software potrebbe risultare in discrepanze nell’ordine di qualche secondo.
37
158
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
più segnale (vero e proprio “campanello d’allarme” o, se si preferisce, sintomo) dello stato mentale della protagonista. Ogni qual volta sembra sulla via
di calmarsi, la donna è scossa da questi suoni. Sotto certi aspetti essi sembrano avvertiti dalla mente di Giuliana quando si rifugia nel conforto di un
abbraccio (del marito o, più avanti, dell’amante Corrado) e cessano quando
lei se ne libera. Da un altro punto di vista essi funzionano anche come segnale per lo spettatore, contribuendo a fornire un’ipotesi d’interpretazione
della condizione psicologica in cui Giuliana versa nei confronti dei rapporti
umani.
Ciò è ribadito in un’altra sequenza che colloca il robot in posizione di
evidenza. Da un primo piano sul giocattolo (1:05:26), la macchina da presa
si sposta sulla mano di Ugo che rimette una provetta al suo posto, per poi
rivelare padre e figlio intenti in un’osservazione al microscopio giocattolo di
Valerio. La stanza del figlio è un vero e proprio laboratorio in miniatura, tra
le cui attrezzature il bambino si muove con padronanza: «grazie a questo
tipo di giocattoli il bambino si adatterà molto bene alla vita che l’aspetta.
[...] I giocattoli sono un prodotto dell’industria, che in questo modo riesce ad
influenzare anche l’educazione dei nostri figli».38 Valerio non ha il problema
di integrare il robot e gli altri oggetti nel suo mondo, essi ne fanno parte fin
dal principio, e per questo sono il simbolo dello scarto generazionale incolmabile e lacerante che la madre manifesta in forma nevrotica, in quanto incapace di assimilare il mondo intorno a lei, il mondo del “boom” capitalista,
invaso dai prodotti dell’industria fin nell’angolo più intimo e personale della
propria dimora.
[Q]uella specie di nevrosi che si vede in Il deserto rosso è soprattutto una questione di adattamento. C’è chi è riuscito ad adattarsi e chi non l’ha ancora
fatto, perché è rimasto ancora troppo legato a strutture e a ritmi di vita ormai
superati. È il caso di Giuliana: è la violenza dello scarto, dello sfasamento tra
la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua psicologia, e la cadenza che le viene imposta a provocare la crisi del personaggio. 39
Valerio utilizza il suo “laboratorio” per svolgere operazioni di conoscenza, e
ne dà dimostrazione alla madre mettendo in atto un procedimento di confutatio basato su osservazioni empiriche: «quanto fa 1+1?» è la domanda retorica rivolta alla madre. «Che domande: 2», risponde Giuliana stando al gioco. Ed ecco che comincia la dimostrazione: con sicurezza, Valerio, versa due
gocce di liquido azzurro sul vetrino di un microscopio e, fiero, può doman38
39
ANTONIONI in GODARD 1964, p. 171.
Ivi, p. 169.
159
Maurizio Corbella
dare «quante sono queste?». Il padre sorride compiaciuto (è evidente che
egli è il mentore-complice del figlio, configurando così un equilibrio sbilanciato nel triangolo famigliare, in cui Giuliana è in minoranza). La madre
minimizza («Guarda un po’...»), e intenerita bacia sulla fronte Valerio. Ma, a
questo punto, a sancire l’impossibilità del congiungimento affettivo, è di
nuovo il segnale sonoro. Il bambino sta seguendo un iter formativo inesorabile, ha capito il valore logico dei suoi giochi, e vi aderisce sempre più cinicamente. Prima di quello che sarà il suo esperimento più riuscito e, insieme,
più crudele, c’è ancora un episodio su cui insiste Antonioni. È il semplice
gioco della trottola. Ugo illustra il funzionamento dell’oggetto, spiegando al
figlio che il principio del giroscopio si ritrova anche nelle navi (1:07:31). L’ossessione, quasi didascalica di Giuliana, ci fa vedere in una semplice trottola
un oggetto quasi mostruoso, che produce un rumore ormai ipertrofico.
Ecco che la favola che spezza in due il racconto del Deserto rosso, l’unica
evasione che Giuliana si concede dalla realtà, l’unico contatto nel rapporto
con Valerio, diventa il contro-bilanciamento più puntuale della stanza del
figlio, nella quale Giuliana ritrova spaventata tutti gli elementi che la terrorizzano al di fuori delle mura domestiche (e che sono stati ampiamente mostrati nei loro aspetti visivi e sonori nel corso delle 75 inquadrature che compongono la lunga sequenza iniziale del film, quasi priva di dialoghi). Tuttavia tale evasione è solo apparente, poiché è in realtà il frutto dell’ultimo, più
terribile esperimento partorito dalla logica del bambino. Tutt’altro che innocentemente, Valerio finge di aver perso l’uso delle gambe, causando la disperazione di Giuliana. Egli prefigura per sé la condizione estrema dell’integrazione dell’automatismo: la protesi corporea. A questo spettro, che per Giuliana è puro terrore, mentre per il bambino pura conseguenza logica, rimandano le riviste aperte sul tavolo, raffiguranti arti artificiali. Non si può
dire che il bambino goda nel mettere in atto questa crudeltà nei confronti
della madre, semmai egli ha trasceso il valore della scoperta e ha trovato il
nesso di potere che in essa risiede: è Giuliana ora a diventare oggetto della
sua osservazione “scientifica”, dal “trono” del suo letto egli può impartire
ordini, studiarne le reazioni, come si fa con le cavie da laboratorio. La favola
altro non è che il frutto di uno di questi comandi impartiti dal figlio («Sono
stanco di questo gioco qui... fammi un disegno nuovo... perché non mi racconti una favola?»). Egli vorrebbe la favola del giorno prima, quella dell’aquilone ma, in tutta risposta, la madre racconta una storia che non ha
160
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
nulla a che vedere con gli aquiloni.40 Essa parla di un luogo incontaminato,
una spiaggia scoperta da una bambina, che vive per scelta il suo distacco dal
mondo dei grandi e dei coetanei. Mentre intorno si deve supporre che la
vita vada avanti, lei rimane in questa condizione di comunione con la natura
dal mattino al tramonto. Finché il suo mondo non è turbato da un avvenimento: un veliero entra nel suo campo visivo, esso appare disabitato e avvolto nel mistero; il suo significato non è chiarito, se non per il fatto che appartiene a una delle «stranezze degli uomini», anche se non è difficile trovare
corrispondenze con il mondo quotidiano di Giuliana, popolato da petroliere
e navi che fanno scalo nei pressi di casa sua (Corrado, l’uomo di cui si innamora, è del resto venuto dal mare e al mare ritorna alla fine del film).
Ma il procedere dilatato della narrazione della favola porta lo spettatore a soffermarsi sugli aspetti percettivi dell’ambiente rappresentato, un vero
e proprio squarcio di luce nel grigiore del Deserto rosso. Dal punto di vista visivo esso è reso da tonalità talmente vive da costituire una sorta di epifania,
rispetto al colore a cui il regista ci ha abituato nel resto del film. Interessante
è che il profilo sonoro sia giocato complessivamente sulla sottrazione di
elementi:41 «nulla faceva rumore», specifica Giuliana nel racconto; la sonorizzazione ambientale è completamente polarizzata secondo la prospettiva
d’ascolto della narratrice, che ci fa sentire soltanto quello che ritiene importante: il mare è uno sciacquio più simile a quello di una vasca, privo del tipico rumore di fondo (animato solo dall’apparizione del veliero), i versi degli
L’incongruenza è in realtà chiarita dal fatto che inizialmente Antonioni aveva in
effetti pensato a una favola diversa, che sopravvive nella sceneggiatura conservata
presso il Centro Sperimentale di Cinematografia; cfr. ANTONIONI–GUERRA s.d., pp.
124-137. Essa narra di un aquilone il cui volo attraversa il mondo e ci offre una prospettiva della terra dall’alto. L’aquilone è collegato a terra da un filo lunghissimo
costituito da molti gomitoli colorati legati insieme, ed è “governato” dagli abitanti di
un villaggio in festa (la precisazione dell’autore che la maggior parte delle bandiere
sia di colore rosso [p. 124] potrebbe fare pensare a una sorta di “allegoria socialista”,
ma d’altra parte non ci sono ulteriori elementi che giustifichino tale interpretazione).
L’aquilone sopravvive a varie intemperie e anche al lancio di alcuni razzi, che lo
«bruciacchiano» ma non lo abbattono. Aldilà delle possibili interpretazioni di questo
racconto ermetico (la cui realizzazione avrebbe sicuramente chiarito i numerosi punti
oscuri), è impossibile non notare un fortissimo richiamo al volo dell’aereo hippie in
Zabriskie Point e più in generale alla visione “panteistica” presente in quel film.
41 Sul modo di procedere “per sottrazione” attuato da Antonioni in relazione ai mezzi cinematografici e, nello specifico, musicali, si è già espresso Roberto Calabretto:
«Le sue perplessità nei confronti delle tradizionali partiture cinematografiche nascono così da una serie di motivazioni, quali l’esigenza di rigore stilistico, sostenuta dalla
convinzione di utilizzare il minor numero di mezzi possibile, il rifiuto di essere troppo
espliciti, per cui spesso il regista lavora per sottrazione rispetto alle consuetudini del
tradizionale commento sonoro, e la constatazione della problematicità del rapporto
fra l’elemento visivo e il commento sonoro»; CALABRETTO 2007, p. 24; cfr. anche la
dichiarazione di Antonioni «[...] sento il bisogno di essere asciutto, di dire le cose il
meno possibile, di usare i mezzi più semplici e il minor numero di mezzi», 1961, p.
42.
40
161
Maurizio Corbella
uccelli sono in primo piano, tutto il resto è immerso in un silenzio cosmico.
Si capisce che il rumore da cui fugge Giuliana è quello delle fabbriche, ma è
soprattutto la trasfigurazione che di esso avviene nella sua psiche, e che lo
spettatore percepisce attraverso le sonorizzazioni elettroniche. Non è un caso
che la controparte di queste, nel mondo narrato da Giuliana, sia rappresentata dal puro canto: la voce sola 42 come unica possibilità della musica di dispiegarsi, come canto della natura incontaminata della spiaggia, delle rocce
che sembrano «di carne».43
Considerando la psicologia di Giuliana, mi sembra naturale che per lei questa storia diventi – inconsciamente – una fuga dalla realtà che la circonda,
verso un mondo in cui i colori appartengono alla natura, in cui il mare è azzurro e la sabbia è rosa. Anche gli scogli prendono forma umana, l’abbracciano e cantano con dolcezza.44
È stato già notato come la musica elettronica in questo film sia IV.2 Il “laboratorio sonoro”
responsabile di connettere la sfera della realtà industriale, vera di Antonioni e Gelmetti
sovrana dell’ambientazione del Deserto rosso, con la sfera psicologica, portando con sé il bagaglio di ambiguità drammaturgica che la contraddistingue, e che abbiamo già verificato a proposito della Mandragola (CAPITOLO 2.II):45 ambiguità sul piano delle risorse sonore (delle sorgenti, innanzitutto), sul piano della fenomenologia timbrica (da cui il valore di «trasfigurazione dei rumori» industriali),46 sul piano della rappresentazione (una
continua incertezza tra l’ordine soggettivo della psiche di Giuliana e quello
oggettivo di una realtà trasfigurata), e infine sul piano della paternità (di chi
sono queste musiche? di Gelmetti? di Fusco? di Antonioni?).
Il problema della soggettività delle impressioni sonore è in qualche
modo sovrapponibile a quello della visione, che si manifesta in un uso
espressivo del colore più volte fatto oggetto di studio dalla critica.47 Nelle
Si tratta della composizione Favola di Giovanni Fusco, interpretata da sua figlia
Cecilia, la cui unica altra occorrenza è nei titoli di testa, ma stavolta sovrapposta a
mo’ di “ouverture” ai rumori industriali e a elaborazioni elettroniche gelmettiane.
43 L’unico altro punto in tutto il film in cui c’è musica è la sequenza “orgiastica” della
capanna, ma in quel caso si ascolta una musica di tipo diverso, un Surf (è anche il
titolo del brano) strumentale proveniente da una radiolina, che bene interpreta il
carattere edonistico del momento – Giuliana avverte il potere afrodisiaco delle uova
di quaglia che ha appena mangiato – ma dopo tutto è anche questo un tentativo di
evasione autentica da parte della protagonista che esclama: «voglio fare l’amore!».
44 ANTONIONI in GODARD 1964, p. 169.
45 Cfr. ALUNNO 2004, p. 193; CALABRETTO 1999, pp. 73-75; BOSCHI 1999, pp. 9095.
46 ANTONIONI 1994, p. 253.
47 A cominciare da DI CARLO 1964, p. 15.
42
162
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
interviste, Antonioni sembra ammettere una soggettivizzazione della realtà
attraverso gli occhi e le orecchie di Giuliana, salvo poi segnalare di avere evitato, nella realizzazione finale, una rappresentazione troppo didascalica e ai
limiti della psichedelia:
[…] Ci sono nevrotici che vedono i colori in modo diverso. I medici hanno
fatto degli esperimenti in materia, con la mescalina ad esempio, per cercare
di scoprire cosa vedono. C’è stato un momento in cui ho pensato di realizzare effetti di questo genere. Ma nel film è rimasta solo una scena così, in cui si
vedono delle macchie su un muro.
Avevo anche pensato di modificare il colore di certi oggetti, ma poi il fatto di
adoperare tutti questi trucchi è diventato immediatamente qualcosa di molto
artificiale ai miei occhi. Era un modo artificiale per dire cose che potevano
essere dette in modo più semplice. Allora ho eliminato questi effetti. Ma si
può anche pensare che Giuliana veda i colori in modo diverso.48
Il «modo più semplice» con cui Antonioni intende dire le stesse cose è il
suono. Esso ha il vantaggio di essere semanticamente più indefinito dell’immagine: laddove quella potrebbe apparire più didascalica, più «artificiale»,
esso concede spazio alla suggestione dello spettatore, ma veicolando comunque l’aspetto informativo a cui tiene l’autore. Un esempio di questo modo di
procedere ci è offerto da un confronto tra la sceneggiatura e la realizzazione
finale. Quando Giuliana scopre l’inganno del figlio, la sceneggiatura recita:
Il letto del bambino, rosa chiaro, diventa a poco a poco rosso fiamma. Sulle
pareti bianche della stanza si stende un’ombra viola. Giuliana ha di nuovo la
sensazione della realtà che sfugge, del pavimento che sprofonda sotto i
piedi. 49
Nulla della trasfigurazione coloristica di questo frammento è visibile nel
montaggio definitivo (ammesso che fosse stato in effetti realizzato), tuttavia la
Modulazione per Michelangelo di Gelmetti sopperisce tale compito, con in più il
vantaggio di stabilire una connessione emotiva con la sequenza successiva,
in cui Giuliana cerca disperatamente Corrado, raggiungendolo nella sua
camera d’albergo. È questa «l’unica scena» a cui Antonioni si riferisce nel
passo citato precedentemente, nella quale in almeno tre momenti alla “deformazione” cromatica corrisponde l’intervento sonoro: non si può dire una
48
49
ANTONIONI in GODARD 1964, pp. 178-179.
ANTONIONI–GUERRA s.d., p. 162.
163
Maurizio Corbella
scelta casuale, trattandosi del momento di climax del film. Nel caso forse più
emblematico dei tre,
Giuliana [...] sta guardando il soffitto,
dove le venature dell’intonaco diventano una foglia enorme. La sua crisi
aumenta sensibilmente.
Guarda il muro: sul bianco appare a
poco a poco una macchia viola che
continua a ingrandirsi.
Giuliana guarda i vetri appannati sui
quali i colori riflessi dall’esterno vanno
e vengono con un ritmo scandito e
ossessivo.
Torna a guardare il muro e dice:
GIULIANA: Viene sempre più giù...
Indica la parete. Corrado guarda ma
per lui non c'è nulla di anormale.
CORRADO: Che cosa?
GIULIANA: Quella macchia lì... non la
vedi?
Si copre il viso con la coperta per non
vedere. 50
Nella realizzazione, Antonioni procede ancora una volta per sottrazione,
laconicamente.51 Tutto è ridotto a una sorta di “soggettiva irreale” (utilizzata
ripetutamente nella stessa sequenza), ottenuta posizionando la macchina da
presa dietro la nuca di Giuliana sdraiata sul letto e lasciando intravedere sullo sfondo, sfuocato e schiacciato dall’ottica grandangolare, una macchia
cangiante.
Proprio come nella Fabbrica illuminata di Luigi Nono, la cui straordinaria contemporaneità con Il deserto rosso è stata messa in evidenza da Roberto
Calabretto 52 – entrambe le opere furono presentate alla Biennale di Venezia
del 1964 – protagonista è una realtà che lancia messaggi complessi, che neIvi, pp. 178-179.
Si noti come il principio della sottrazione sia riscontrabile fin nella differente versione della sceneggiatura pubblicata da Cappelli, con tutta probabilità posteriore alla
prima, visto il maggior numero di congruenze con il montato; ecco il trattamento
riservato alla medesima sequenza: «[Giuliana] si lascia andare sul letto. Il suo sguardo va al soffitto sul quale appare una macchia di vario colore. Allora si copre con la
coperta per non vedere. Corrado rimane a guardare quella forma nel letto»; DI
CARLO 1964, p. 131.
52 1999, p. 75.
50
51
164
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
cessitano di codifiche su più livelli linguistici da parte del cervello. Solo che i
personaggi di Antonioni appartengono a una borghesia che per motivi essenzialmente generazionali si trova impreparata di fronte a questa esplosione
comunicativa. La “malattia” di Giuliana consiste nel non potere esimersi dal
prendersi carico di questi messaggi, «portata a pensare che le cose intorno a
lei, quando non le guarda, non esistono. Si sente quindi moralmente costretta, per quanto le è possibile, a fissare le cose poiché si ritiene larvatamente
colpevole della loro eventuale perdita di realtà».53 In tal senso, il confine tra
oggettività e soggettività, nel mondo tecnologico della Ravenna industriale,
perde in nitidezza. La mente di Giuliana produce suoni e colori, esattamente
come la ciminiera dell’industria nerofumo con cui si apre e si chiude il film,
come il robot nella stanza del figlio, come la nave in quarantena che attracca
nel porto di Ravenna nei pressi della capanna in cui i personaggi indugiano
in un’orgia che non si concreta, come il “suono” delle stelle che i ripetitori
dell’Università di Bologna captano dal cielo. Tali suoni “mentali” diventano
oggettivi e irriconoscibili per lei stessa, fino ad assumere un peso insostenibile.
La società può essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e
dei mezzi di comunicazione relativi ad essi; [...] nello sviluppo futuro di questi messaggi e mezzi di comunicazione, i messaggi fra l’uomo e le macchine,
fra le macchine e l’uomo, e fra macchine e macchine sono destinati ad avere
una parte sempre più importante.54
L’opera di Norbert Wiener torna a echeggiare nel nucleo espressivo del Deserto rosso, probabilmente tramite la mediazione di Ceccato. Vittorio Gelmetti, che in uno dei suoi fondi conserva Il pensiero artificiale di Pierre de Latil,55 è
in quel momento uno dei fautori più convinti della necessità di differenziare
la musica elettronica dalla «mimesi della musica strumentale precedente»,
fondata in gran parte sull’emulazione del «gesto dell’esecutore», attraverso il
trasferimento di principi formali derivati strettamente dalla metodologia
scientifica.
Ora proprio il nuovo tipo di materiale di cui ora ci serviamo che si lascia
preordinare, prefabbricare, esclude di per sé, come ipotesi, proprio questa
mimesi. Ma questo non è possibile farlo sulla base di scelte esclusivamente di
gusto, perché il gusto è condizionato da tutta la nostra acquisizione culturale,
53 ANTONIONI 1963,
p. 45.
WIENER 1950, pp. 23-24.
55 Si tratta dell’edizione italiana del 1962; cfr. DE LATIL 1953.
54
165
Maurizio Corbella
e quindi avevamo bisogno di uno strumento che ci garantisse questo tipo di
indagine sulle strutture razionali. Le ipotesi di lavoro che si vengono così a
formulare, sono ipotesi di lavoro da verificare o falsificare sperimentalmente:
in questo senso c’è, evidentemente, un atteggiamento conoscitivo nei riguardi
del materiale sonoro che è di tipo scientifico [...].56
I brani elettronici utilizzati come fonti di partenza per il lavoro di adattamento al film, durato circa un mese e fatto in stretta collaborazione con Antonioni57 – Misure I (1959), Tensioni (1961), Treni d’onda a modulazione d’intensità
(1963) e Modulazioni per Michelangelo I (1964) – 58 sono tutti riconducibili alla
prima fase della produzione del compositore, che sviluppa, a differenza di
quanto farà in seguito con la svolta “collagista” (CAPITOLO 2.IV), modalità
di “arte programmata”, «che si contraddistingue, fra i vari rapporti tra
avanguardia e cultura scientifica, per l’adozione da questa ultima di procedimenti formali e non di analogie o suggestioni».59
È lecito chiedersi cosa succeda al rigoroso progetto formale di questi
brani una volta calati in un contesto audiovisivo narrativo. Naturalmente un
discorso esaustivo dovrebbe passare tramite un’attento confronto analitico
dei materiali, che non è stato possibile compiere nei tempi di questa ricerca.
Possiamo però avanzare un’ipotesi che necessiterebbe di verifiche poggianti
su riscontri filologici: per le due composizioni più lunghe e conosciute (Treni
d’onda e Modulazione per Michelangelo) si pone un evidente problema strutturale.
Poiché la categoria temporale, fondante il concetto stesso di modulazione
alla base di entrambe le opere, è quella che sopra ogni altra viene compromessa nell’immersione nel contesto audiovisivo, soprattutto alla luce delle
operazioni frammentazione realizzate da compositore e regista, è possibile
parlare ancora di musica? La domanda può sembrare cavillosa, e a essa si
potrebbe rispondere semplicemente che qualsiasi partecipazione musicale a
un contesto audiovisivo implica una trasformazione tanto sotto il profilo
formale quanto sotto quello semantico.60 Ma non è da escludere che la scelta
di tali composizioni sia influenzata proprio dal loro carattere contestuale
Stralcio dell’intervento di Gelmetti in PORTOGHESI–MENNA–PLEBE–GELMETTI
1964, p. 18.
57 Cfr. GELMETTI intervistato in COMUZIO 1988, pp.11-14.
58 Cfr. DI CARLO 1964; Il primo brano risulta realizzato presso la Discoteca di Stato;
i rimanenti tre e la rielaborazione per il film sono invece realizzati presso il Laboratorio di elettroacustica dell’Istituto Superiore delle Poste e Telecomunicazioni [DAVIES
1967]. Di Tensioni esiste un esemplare in OLP. Per una dettagliata ricognizione delle
fonti di Treni d’onda a modulazione d’intensità, cfr. DE MEZZO 2006.
59 DE MEZZO 2006, p. 545. A De Mezzo (p. 541) si deve la proposta di adottare per il
periodo elettronico di Gelmetti la categoria di “arte programmata” elaborata da Gillo Dorfles (Visualità e tecnologia, «Marcatrè», 11-13, pp. 109-111).
60 Cfr. BORIO 2007.
56
166
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
principale, vale a dire il loro essere studi scientifici preparatori e non realizzazioni che pongono la priorità su una fruizione di tipo estetico. Antonioni
non ha bisogno di situazioni musicali che funzionino empaticamente o
anempaticamente rispetto al personaggio principale, bensì di manifestazioni
acustiche che suonino “oggettive”, che appaiano prolungamenti sonori dello
stato psicologico della protagonista. Di qui la “stasi senza possibilità” di cui
si parlava in apertura. La sintassi musicale “tradizionale”, che tanto aveva
permeato con i suoi vettori tensivi il cinema narrativo classico, è in questo
film negata al punto da trasformare l’evento acustico in un fenomeno da osservare, tanto da parte del pubblico quanto della stessa Giuliana, che in più
di un’occasione sembra accorgersi di questi suoni; la differenza tra lo spettatore e la donna è tuttavia fondamentale: quest’ultima è vittima, addirittura
“cavia”, del mondo in cui è immersa, mentre lo spettatore è un osservatore
non già distaccato, ma nemmeno empatico; la sua è semmai un’immedesimazione razionale, simile a quella di colui che valuta il comportamento di
una cavia immersa in una condizione sperimentale, e diventa critica nel
momento in cui è in grado di cogliere i fattori in gioco (il ruolo dell’industrializzazione massiccia sull’ambiente, i sintomi della malattia della donna,
il limite dei rapporti familiari e affettivi in un simile contesto ecc.). Il tipo di
fruizione “critica” configurata in questo film di Antonioni non è propriamente “brechtiana”, nella misura in cui non propone una tesi risolutrice sotto il profilo ideologico, semmai è “naturalista” nel senso letterario ottocentesco del termine. Il finale, in questo senso, è emblematico. Il tono falsamente
consolatorio dell’ultima battuta di Giuliana appare, per il carattere assunto
dal personaggio nel corso della vicenda, una soluzione chiaramente inaccettabile rispetto al problema posto dal figlio, ancora una volta capace di una
logica stringente, come a suggerire che forse solo la generazione dei figli avrà
gli strumenti intellettuali per affrontare gli enormi problemi sociali, politici
ed economici che il capitalismo industriale ha creato.
VALERIO (indicando una ciminiera davanti a sé): «Perché quel fumo è giallo?»
GIULIANA: «Perché c’è il veleno»
VALERIO: «Allora, se l’uccellino passa lì in mezzo muore»
GIULIANA: «Ma ormai gli uccellini lo sanno, e non ci passano più;
andiamo».61
61
Dialoghi desunti dal film.
167
Maurizio Corbella
Il fatto che nel cinema si possa realizzare quella par- V. Un tranquillo posto di campagna:
ticolare alchimia che consente la confluenza di di- cortocircuito tra pop e avanguardia.
verse arti in un risultato che non si riduce meramenche nelle persone è di origine sessuale,
te alla somma delle singole componenti; che il cine- «L’isteria
nella società deriva da rivoluzioni inesplose. E
ma si confronti con quell’ambizione che già in passa- così, ecco, per me è quasi impossibile ideare un
racconto lineare, che non abbia riferimenti meto era appartenuta al melodramma o al romanzo taforici e simbolici, e credo che, in tutti i miei
realista ottocentesco di riunire “avanguardia” e “po- film, ci sia una traccia di questa generale isteria
italiana» [PETRI s.d.a]
polare” in un testo che non solo parli in differenti
registri ma sia concepito contemporaneamente per fruizioni a vario livello;
che un film si possa configurare al tempo stesso come prodotto commerciale
di massa e opera d’arte resistente all’usura dei decenni; tutte queste considerazioni riguardano trasversalmente un buon numero di cineasti della stagione precedente al 1968. Ma ciò non toglie che con Un tranquillo posto di campagna Elio Petri si sia reso protagonista di un’operazione caratterizzata da una
difficoltà e da un’ambizione che potremmo azzardarci a definire acrobatica.
Il film che Petri confeziona è un concentrato di citazioni pittoriche e artistiche, attinge a musica della più recente avanguardia, e nel frattempo manipola categorie dei generi cinematografici tra i meno “nobili”, dall’horror-thriller
alla pornografia, non tanto per farne oggetto di parodia con un atteggiamento di fastidioso autocompiacimento intellettuale, ma per usufruire attivamente dei loro meccanismi narrativi d’intrattenimento. Il rigore iconico
delle inquadrature, unito alla concentrazione di simboli che affolla il film, si
instaura su un plot che ha i crismi e i ritmi di quel cinema che in quegli anni
comincia a riunirsi negli Stati Uniti sotto l’etichetta “grindhouse”. Lo spettatore rimane spiazzato, e probabilmente non sa a che tipo di atteggiamento
aderire; forte di quest’ambiguità di fondo, che è insieme il limite e l’aspetto
di maggiore interesse del film, io assumerò in queste pagine, nei confronti
della pellicola, proprio quell’attitudine che Petri avrebbe forse deprecato,
tesa a “smontare il giocattolo” per isolare gli elementi di un processo creativo che mi paiono particolarmente significativi nell’ambito del discorso più
ampio condotto fino a questo momento. Sulla base dell’analisi dei materiali
preparatori (le sceneggiature), metterò a fuoco un tema che mi sembra costituire il nucleo generatore dell’intero progetto cinematografico, per poi interrogare le peculiari scelte musicali operate nella pellicola.
168
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
VI.1 «L’impossibilità della figura». Materia e corpo
La città è piena di belle sorprese... ho trovato un
televisore nuovissimo, guarda, è subacqueo...
uno spazzolino da denti elettrico, un frigidaire a
transistor... un’affilatrice elettrica... un’elettro-calamita erotica... e un’elettro-caffettiera... e un
elettro-lucidascarpe... e un elettro-trita-rifiuti... e
un elettro-spruzzadenti... e una piccola automobile per andare da una stanza all’altra... Felice?62
Leonardo è legato seminudo a una sedia.
Ha un’aria annoiata. Flavia, sua compagna,
è appena rientrata a casa carica di oggetti.
Elenca a Leonardo, in un crescendo di tenFigura 18: Fotogramma dalla prima sequenza di Un
sione sadica, i suoi acquisti, arrivando a
tranquillo posto di campagna.
puntare un coltello al petto dell’uomo. Sacerdotessa di un rituale erotico di cui gestisce ogni dettaglio, la donna si sfila le mutandine da sotto la gonna, poggiandole sugli oggetti deposti di fronte a Leonardo, e comincia a mordere il suo
corpo; aziona i marchingegni elettrici collegando le numerose spine e completando così la sua “installazione”: il piccolo televisore subacqueo, posizionato tra i piedi di Leonardo, trasmette il totale della scena, mentre l’elettrolucidascarpe è azionato sui piedi nudi dell’uomo e il resto degli oggetti è disposto intorno a lui, come su un altare sacrificale (FIGURA 18). Leonardo ha
un moto di ribellione, si libera dalle corde che lo imprigionano alla sedia e
insegue con il coltello in mano Flavia, che nel frattempo è andata a farsi la
doccia. Ma la donna lo sorprende, e compie l’azione di pugnalarlo, senza
tuttavia colpirlo. I rantoli di Leonardo nel suo letto chiariscono finalmente la
situazione: era tutto un sogno.
La vicenda di Un tranquillo posto di campagna narra di Leonardo Ferri
(Franco Nero), pittore affermato, da qualche tempo in crisi creativa, tormentato da incubi e visioni che coinvolgono Flavia, sua compagna e manager
(Vanessa Redgrave). Egli decide di spostarsi dalla città in campagna, in cerca
di quiete, ma, contrariamente al parere di Flavia, che lo vorrebbe ospite di
un ricco mercante d’arte, opta per una villa cadente, che si trova nei pressi
delle ville palladiane sul Brenta. Il fascino del luogo, dapprima misterioso, si
chiarisce gradualmente per il fatto di celare la controversa morte, avvenuta
durante la guerra, di Wanda, un’avvenente ragazza del cui spirito il pittore si
convince di avvertire la presenza. Il confine tra realtà e visione sfuma sempre
di più dal momento in cui incidenti frequenti e inspiegabili minacciano l’in62 Dialogo
desunto dal film.
169
Maurizio Corbella
columità di Flavia; per Leonardo è evidente che la presenza della donna è
sgradita al fantasma di Wanda. Nel frattempo la sua personale indagine sulla
morte della ragazza si fa sempre più morbosa e lo porta a scoprire il colpevole di quello che si rivela essere stato un omicidio, e non un semplice incidente. Nel finale del film, Leonardo, in preda a delirio, assale e uccide Flavia, ma l’evento a cui assistiamo si rivela essere un’allucinazione del protagonista ormai inguaribilmente schizofrenico; Flavia, incolume, lo fa chiudere
in manicomio, luogo da cui il pittore ricomincia a produrre opere in serie,
per la cinica soddisfazione della donna.
Il film è interamente impostato sull’asse città-campagna, poli opposti
di una condizione esistenziale che ormai non può più redimersi.
[...] Era il ritratto di un artista, di un intellettuale borghese e della sua scissione. Era un artista borghese che, almeno per quanto stava nei suoi mezzi
espressivi, aveva tentato di rivoluzionare le forme, le formule, e che si trovava
prigioniero del sistema della produzione in serie. Di qui la sua fuga verso i
fantasmi della cultura romantica. Il film era una critica, dall’interno certo,
dell’intellettuale. Insomma eravamo alle soglie del ’68, e questo è il mio ultimo prima di Indagine, prima cioè di film che potessi sentire utili a qualcosa.63
Leonardo fugge in cerca della sua autentica vena creatrice e crede di trovarla nella rinuncia all’attività pittorica, dedicandosi alla comunione con la natura, in una prospettiva di rifiuto delle implicazioni del mercato («non mi
interessa più niente, ho perfino smesso di dipingere, sono gli altri che dovrebbero dipingere – bambini, vecchi, tutti gli altri; dovrebbero dipingere
tutti: le tele, i colori gratis a tutti quanti, un’ora al giorno»);64 tuttavia questa
rinuncia non porta alla pace interiore, ma a un acuirsi del suo disagio psichico, che lo ricaccia indietro allo stadio opposto: la produzione seriale, nell’emarginazione del manicomio, ma in uno stato di non completa incoscienza, che lascia il dubbio conclusivo che una parte della personalità del pittore
sia in realtà padrona e manovratrice della situazione. In tale oscillazione tra
due estreme condizioni è possibile leggere l’ambiguità insita nella pop art,
che è, nell’accezione allargata del termine, in un certo senso il vero oggetto
su cui si concentra la riflessione di Petri, buon conoscitore dell’arte contemporanea, che già nel precedente La decima vittima aveva impiegato un’iconografia profondamente incentrata sul pop.65 Per Un tranquillo posto di campagna,
63 PETRI s.d.b.
64 Dialogo
65
170
desunto dal film.
Cfr. CARDONE 2005.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Petri attinge direttamente all’opera di Jim Dine,66 e popola il film di continui
ed espliciti riferimenti pittorici, aiutato dal fatto che l’intero mondo della
narrazione giunge allo spettatore mediato dal filtro prospettico del protagonista. L’ossessione per l’oggetto è, come detto, visivamente sublimata da Petri attraverso un continuo ricorso all’iconografia pittorica. Su tale aspetto si
potrebbe scrivere un libro intero, denso com’è il film di rimandi alla storia
dell’arte (su tutti appare determinante l’opera di Magritte, artista particolarmente “comodo” per le sue implicazioni concettuali, e d’altra parte riferimento determinante per l’opera di Jim Dine). Se la pop art si appropria
ambiguamente degli oggetti quotidiani mandando in corto-circuito il sistema consumistico, «paradossalmente in bilico tra critica feroce ed esaltazione
orgiastica»,67 l’intera vicenda di Leonardo Ferri può essere interpretata come un drammatico conflitto dell’artista con gli oggetti, che mostra tratti di
sudditanza, altri di dominio e infine un’improbabile equilibrio, raggiunto a
scapito della propria libertà. Leonardo fugge in un posto incontaminato, popolato di oggetti di un’altra epoca e di un diverso contesto sociale, ma è Flavia a introdurre anche lì elementi della contemporaneità consumistica, portandovi il frigorifero e la macchina per lavare i pennelli. Entrambi gli elettrodomestici si “ritorceranno” contro la donna quando Leonardo li utilizzerà rispettivamente come contenitore del corpo smembrato di Flavia e come
lavatrice dei coltelli utilizzati per compiere il macabro gesto, pur “solo”
immaginato.68
Nel film di Petri siamo ben oltre l’iniziale inebriamento per la novità
tecnologica, caratterizzante la prima metà degli anni Sessanta. Se ancora in
Il deserto rosso, Antonioni era cauto nell’escludere un avvenire positivo per la
nuova generazione cresciuta sulla spinta del “boom” economico, in Un tranquillo posto di campagna percepiamo, al di sotto della sottile superficie avveniristica, un principio di putrefazione, di decadenza che apre la porta a quella
che negli anni Settanta sarà una delle note ricorrenti del cinema italiano: gli
elettrodomestici casalinghi diventano teatri di drammi familiari, suicidi, si-
Con il pittore c’è un prolungato contatto personale, che si potrebbe concretizzare
addirittura nell’acquisto di un suo quadro a cui Petri è particolarmente affezionato,
se il regista non cambiasse idea in extremis; cfr. PETRI 1968a, c, d; DINE [1968]. Apprendo da Lucia Cardone che Petri, mentre sta lavorando al film, dedica un corto in
16 mm al pittore, mai montato; CARDONE 2005, p. 49.
67 Ivi, p. 50.
68 In una scena descritta in sceneggiatura, che non sopravvive nella pellicola, si assiste
addirittura alla caduta immotivata del frigorifero, una volta attaccato all’elettricità –
quasi il suggerimento di un’energia autonoma e incontrollabile: «EGLE: “Io non l’ho
neanche toccato... Ho attaccato la spina... ma giuro su Dio che non l’ho neanche
toccato»; PETRI–VINCENZONI s.d.a, pp. 82-83; 1967a, p. 99; s.d.b, pp. 131-133.
66
171
Maurizio Corbella
tuazioni paradossali; 69 quegli stessi prodotti dell’industria che entravano
nella casa di Giuliana e producevano nella sua mente suoni ipertrofici, e che
ritroveremo più astrattamente nelle insegne pubblicitarie di una delle sequenze iniziali di Zabriskie Point, accostate ai suoni elettronici di Musica Elettronica Viva prima dell’esplosione finale che coinvolgerà tutti i simboli del
capitalismo moderno, popolano lo studio in cui Leonardo lavora come una
sorta di natura morta post-industriale (FIGURA 19 ).
Figura 19: Pagina di sceneggiatura, in cui si
elencano gli oggetti presenti nel luogo dell’abitazione milanese di Leonardo in cui è
solito lavorare; nella seconda parte vengono
date indicazioni sull’accompagnamento musicale che il pittore sceglie per lavorare [Fonte:
PETRI-VINCENZONI 1967a, p. 9].
Gli oggetti a cui fa riferimento il personaggio di Flavia nel suo campionario erotico all’inizio del film, rappresentano lo stadio mitico raggiunto
dal rapporto tra l’uomo e i suoi manufatti, mediante l’elevazione a potenza
dell’automatismo: l’elettrificazione. Il suffisso “elettro-” applicato a sostantivi
di per sé già composti, perché già indicanti automazioni meccaniche del capitalismo storico (lucidascarpe, spruzzadenti, tritarifiuti), denota proprio la
trascendenza funzionale, il bisogno di aggiungere all’oggetto il mistero del
suo funzionamento e della sua funzione non precisabile. L’elettrificazione
sancisce la discrasia tra l’oggetto “tradizionale”, protesi o estensione antropomorfa atta a sopperire carenze umane, e l’oggetto “tecnico”, che è una
69
172
VENTURINI 2005.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
protesi non più del corpo ma dell’inconscio: ciò che Jean Baudrillard definisce “aggeggio”.70
La vera funzionalità dell’aggeggio risiede a livello inconscio: da lì ha origine il
fascino che esercita. Se è assolutamente funzionale, assolutamente adattato –
ma a che? – risponde a esigenze diverse da quelle pratiche. Il mito di una
funzionalità miracolosa del mondo è omogeneo al fantasma di una funzionalità miracolosa del corpo. Lo schema di esecuzione tecnica del mondo è legato
allo schema della soddisfazione sessuale del soggetto: in questa prospettiva
l’aggeggio, strumento per eccellenza, fondamentalmente è un sostitutivo del
pene, medium operativo della funzione per eccellenza. Qualunque oggetto è
un aggeggio: nella misura in cui la sua strumentalità pratica sparisce, può
essere investito di una strumentalità libidica. [...]
L’evoluzione dell’immaginario è indicata dal passaggio da una struttura animica a una struttura energetica: gli oggetti tradizionali furono testimoni della
nostra presenza, simboli statici degli organi del corpo. Gli oggetti tecnici esercitano un fascino diverso, poiché rimandano a un’energia virtuale, e dunque non
sono più ricettacolo della nostra presenza, ma supporti della nostra immagine
dinamica. 71
La continuità, illustrata da Baudrillard, tra corpo e aggeggio, ovvero tra funzionalità sessuale e strumentalità libidica, si rivela corrispondere al motivo
dominante, quasi il nesso concettuale generativo del film di Elio Petri. L’oggetto è affrontato dall’arte nel film non solo nella sua evidenza visiva, ma
soprattutto nella sua consistenza materica. È intorno a tale corporeità che
ruota l’ossessione del protagonista (che non a caso, in uno stadio anteriore
della sceneggiatura, di cognome era chiamato Materia) 72 destinata a trasformarsi in pazzia. Leonardo parte dagli oggetti, dalla materia inerte, per
arrivare al corpo umano, in special modo femminile, dotato anch’esso di
una consistenza oggettiva, eppure costantemente sfuggente. La materialità è
quella che si ritrova nei corpi di Flavia e di Egle, la domestica della casa di
campagna, mentre la sfuggevolezza è quella dello spettro di Wanda.
«Ciò che riassume esaurientemente il funzionalismo a vuoto è il concetto di “aggeggio”. Ogni “aggeggio” è dotato di virtù operativa. Se la macchina declina la sua
funzione nel suo nome, l’“aggeggio”, nel paradigma funzionale, rimane termine indeterminato, con la sfumatura peggiorativa di “ciò che non ha nome”, o che non si
sa definire (l’immoralità di un oggetto di cui non si sa l’esatta funzione). Ma funziona.
Parentesi fluida, oggetto slegato dalla sua funzione, ciò che l’“aggeggio”, l’“affare”
lascia intuire, è una funzionalità vaga, senza limiti, l’immagine mentale di una funzionalità immaginaria»; BAUDRILLARD 1964, p. 148.
71 Ivi, pp. 150-151.
72 Si vedano le correzioni manoscritte apportate al nome (da Materia a Ferri) in PETRI–VINCENZONI 1967a, passim.
70
173
Maurizio Corbella
Se non risultasse sensibilmente ridimensionato nella versione del film
uscita nelle sale, sarei tentato di porre a motivo centrale del film un problema di rappresentazione: Leonardo impersona la crisi dell’arte nei confronti
della rappresentazione del corpo, questione che fino al secolo precedente
veniva risolta tramite il ritratto. Gli elementi che concorrono a questa tesi
sono molteplici, ma dispersi nel film, quasi che l’autore abbia voluto mitigare una linea che fino allo stadio di sceneggiatura risultava portante. Nella
prima versione del soggetto da me rintracciata, un documento intitolato Scaletta di “Un tranquillo posto”,73 non datato ma riportabile circa al 1962, anno in
cui Petri afferma di avere scritto la prima versione del soggetto del film con
Tonino Guerra,74 il protagonista (chiamato significativamente Marcello M.)
si trasferisce in una villa veneta abitata da un vecchio aristocratico, il quale,
in cambio di ospitalità, chiede un ritratto della figlia morta durante la guerra
in circostanze misteriose (i tratti della figura di Wanda sono già delineati,
compresi i suoi torbidi retroscena erotici). Per realizzare il ritratto, il conte
fornisce a Marcello una serie di fotografie. Il pittore, dapprima disinteressato
nei confronti della “commissione”, snobba il ritratto, con motivazioni intellettuali: «parla dell’arte figurativa in generale per poi dire comunque che un
ritratto, per essere un’opera d’arte, non potrebbe essere la riproduzione di
lineamenti ecc.». 75 Nonostante il disinteresse iniziale, comincia a dedicarvisi
anima e corpo una volta che entra in contatto con il fantasma della ragazza,
con cui conversa a lungo di arte, trovando in lei un’attenta confidente; la ragazza diventa evidentemente rivale della compagna di Marcello (che sarebbe
diventata Flavia, ma che nella scaletta si chiama Giulia). La ritrovata vena
creativa del pittore lo conduce tuttavia a confrontarsi con un dilemma al
quale non riesce a venire a capo: come ritrarre la donna, che risorse creative
usare?
Impossibilità di farlo, impossibilità e autentica incapacità figurativa. Marcello
quasi si vergogna come se qualcuno lo vedesse. Buffo monologo interiore e
accademico sulle proporzioni anatomiche, sui primi studi all’accademia, insomma sull’arte del disegno.76
Quando, capitanati da Giulia, due mercanti d’arte possibili “mecenati” del
pittore giungono alla villa, essi «trovano Marcello che ha soltanto tagliato le
tele con gli abbozzi del ritratto della donna».
73 PETRI [ante-1967]
74 PETRI s.d.b.
75 PETRI [ante-1967],
76 Ivi,
174
p. 28.
p. 10.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Interpretazione del mercante gaglioffamente parafilosofica: il rifiuto del figurativo. Marcello fa discorsi
incomprensibili, come tentando di spiegare la sua
impossibilità al figurativo. Ma completamente oscuro.
I due mercanti trovano i quadri molto importanti.
L’esperienza più importante di Marcello.77
Il passo finale, per andare a fondo nel problema
della «impossibilità della figura»,78 sarà per il pitFigura 20.1-2: Fotogrammi tratti dal film. In
tore fare a pezzi il corpo di Giulia. Dunque, l’ucentrambi i casi Leonardo utilizza il colore rosso
cisione di Giulia è esplicitamente collegata alper ricoprire i corpi.
l’impossibilità di ritrarre il fantasma. Da una parte abbiamo un corpo di carne, dall’altra uno
spettro inafferrabile e alcune fotografie (a rigore
ciò che dovrebbe rappresentare il massimo di
“fedeltà” ritrattistica). È importante tenere presente che, fatte salve le varianti narrative, tale
collegamento tra impossibilità della rappresentazione figurativa e smembramento dell’amante, si
mantiene saldo per l’intero percorso di sceneggiatura documentabile,79 segno che, se modifiche
in tal senso intervengono, sono molto tarde, verosimilmente a riprese già cominciate. Solo nella versione finale del film, infatti, senza alcuna corrispondenza sceneggiata, al posto dei resti del cadavere
smembrato di Flavia, nel frigorifero si trovano i lenzuoli sui quali Leonardo,
nel suo delirio, aveva tentato di “areografare” direttamente i corpi seminudi
della domestica e del fratello, laddove nelle sceneggiature compaiono invece
brandelli delle foto di Wanda e dei tentativi del pittore di raffigurarla. Il parallelo con il problema figurativo è così facendo molto più allentato nella
versione finale del film, seppure non del tutto eliminato, dato che il gesto
compiuto sui corpi di Egle e del fratello è in tutto e per tutto analogo all’opera di manipolazione che Leonardo compie sulle foto di Wanda quando
le invade di colore rosso (FIGURA 20.1-2).
L’ultimo passaggio dalla rappresentazione del corpo alla rappresentazione del sé, avviene nella coincidenza finale, narrata nelle sceneggiature (in
tutte, fatta eccezione per la prima scaletta), tra il fantasma di Wanda e la
p. 29.
p. 31.
79 Per un ordinamento cronologico delle sceneggiature reperite, cfr. Bibliografia.
77 Ivi,
78 Ivi,
175
Maurizio Corbella
proiezione schizoide pittore. Dopo l’uccisione di Flavia, Leonardo si accinge
a far l’amore con il fantasma ma realizza che lo spettro non è altri che se
stesso, una scissione-unione che ritroviamo nella scena finale al manicomio,
in cui il pittore veste una parrucca bionda. Ancora una volta, Petri non persegue con convinzione questa via nel film girato, eliminando completamente
il travestimento finale e togliendo forza anche allo sdoppiamento del personaggio mentre fa l’amore con il fantasma.
Traendo un bilancio di tali decisioni, sembra che il regista abbia volutamente sottratto vigore, almeno da una prospettiva narrativa, alla lettura
meta-linguistica propendendo per il versante thrilling della pellicola: il personaggio di Leonardo, spogliato di questa riflessione sui propri mezzi artistici –
infatti, ad eccezione delle poche battute citate riguardo alla sua rinuncia al
linguaggio pittorico, nel film non parla mai della sua arte – si presta con più
facilità a essere assimilato a un matto psicopatico, il suo rapporto conflittuale
con Flavia a una comune crisi di coppia, la vicenda del fantasma a un fatto
misterioso. Fa sorridere, in tal senso, una breve battuta, indirizzata probabilmente al co-sceneggiatore Luciano Vincenzoni, che si ritrova manoscritta
sulla prima pagina della copia a questi destinata, che, alla luce di queste considerazioni, suona quasi come un’auto-esortazione sibillina: «Se è un mistero
deve essere misterioso».80
Sarà a questo punto interessante interpretare in V.2 La materia sonora e musicale dalle
quale direzione vadano le scelte sonoro-musicali fatte per sceneggiature alla realizzazione filmica
il film. Anche sotto questo profilo è possibile seguire un
percorso tormentato, e per questo pieno di fascino, che sembra condurre
Petri a continui ripensamenti, a partire dalle sceneggiature fino a giungere
alla realizzazione cinematografica, che risulterà in una delle più peculiari
collaborazioni con Ennio Morricone, oltre che una delle predilette dal
compositore.81 La componente musicale del film può essere suddivisa in due
matrici generative che si intrecciano nel corso della pellicolla ma che sono, a
mio parere, riconducibili ad altrettante linee di impostazione sonora ricavabili dal processo di sceneggiatura: da una parte c’è il coinvolgimento del
Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza (la prima di due collaborazioni cinematografiche in cui il gruppo è accreditato – la seconda, con esiti
decisamente meno significativi, è per Gli occhi freddi della paura, 1971); dall’altra c’è il lavoro compositivo di Morricone, che prende come punto di par80 PETRI–VINCENZONI 1967b,
copertina.
Nella celebre intervista di Sergio Miceli, Morricone si riferisce a Un tranquillo posto
di campagna e a Un uomo a metà come a quel dieci per cento di film della sua produzione che «preferir[ebbe] fare», caratterizzati dalla grande complessità dell’impianto
formale e semantico, che purtroppo non va “a nozze” con il meccanismo commerciale del cinema; MICELI 1982, pp. 312-313.
81
176
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
tenza il brano Musica per 11 violini, scritto dieci anni prima (1958) per destinazione concertistica, e riadattato secondo modalità che discuterò tra non
molto.82 Le linee di impostazione sonora a cui facevo riferimento sono quella di natura bruitistica (GINC) e quella che potremmo definire di natura pulsionale o viscerale (Morricone). La prima si pone da “tramite” fra il paesaggio sonoro e gli organi ricettivi dell’artista, la seconda è la voce delle pulsioni
interiori, di carattere morboso, riconducibili alla connessione spiritica con il
fantasma di Wanda, che si riconoscerà nel finale essere una proiezione schizoide dell’io del pittore. Se volessimo tenere salda l’ambivalenza tra oggetto
e corpo registrata come nucleo concettuale dell’opera, la prima componente
musicale rappresenterebbe la componente materica, oggettuale, dell’ossessione di Leonardo, mentre la seconda sarebbe cifra della sua componente
corporea, libidica. Per esplicitare questa argomentazione, è necessario osservare con attenzione il percorso generativo che conduce dalla concezione di
Petri e Vincenzoni alla resa interpretativa (che nulla ci vieta di pensare come
un parziale aggiustamento o addirittura un cambio di rotta) offerta da Morricone e dai compositori-esecutori del Gruppo d’Improvvisazione.
La miriade di oggetti con cui Petri e Vincenzoni popolano la vicenda,
esprime, fin dalle prime pagine della sceneggiatura più antica [1967a], una
fenomenologia sonora dettagliata e determinante in qualità di motore narrativo della vicenda. Gli oggetti possono chiaramente essere divisi in due famiglie: quelli che rimandano alla dimensione urbana e alienante – automatici
ed elettrificati, che popolano l’ambientazione milanese della prima parte
della pellicola – e quelli che rimandano al fantasma di Wanda, dunque a
una dimensione ancestrale della campagna, come luogo non tanto della purezza e dell’innocenza, quanto di un’inesplorata condizione emotiva ed
espressiva.
Sotto il profilo sonoro, nella prima parte della vicenda, gli squilli del
telefono e dei clacson sono una costante interruzione dei ritmi creativi e vitali di Leonardo, e così il rumore del traffico. Il protagonista, già in fuga interiore da tale paesaggio sonoro assediato da un «coro insistente, penetrante,
intenso di clacson d’automobili»83, si immerge nel lavoro scegliendo un accompagnamento musicale costituito da percussioni sole e «da una voce di
donna che sembra in preda ad orgasmo erotico» che egli stesso mette in ri-
Musica per 11 violini (1958) è una composizione dall’impianto seriale, appartenente
al primo periodo della produzione morriconiana. Per un’approfondita analisi del
brano, cfr. MICELI 1994, pp. 54-60.
83 In tutta la prima scena, e in tutti gli esemplari di sceneggiatura, si fa riferimento
costante ai clacson; cfr. PETRI–VINCENZONI 1967a, pp. 4, 5, 7.
82
177
Maurizio Corbella
produzione su un grammofono.84 La scissione, che sarà manifesta nella migrazione del pittore verso la campagna, e nell’annientamento del corpo di
Flavia (e del suo mondo) in nome di un congiungimento con lo spettro di
Wanda è, in un certo qual modo, già prefigurata da questa conformazione
sonora.
La dominante acustica nella villa di campagna è invece constituita dall’ambiguità delle fonti. Man mano che in Leonardo si fa strada la convinzione dell’esistenza del fantasma di Wanda, cresce l’attenzione per fenomeni
sonori legati al manifestarsi della presenza spettrale: tra questi si segnalano,
per importanza “segnaletica” nell’economia narrativa, il «fruscio serico»
prodotto da un pettine tra i biondi capelli della ragazza e il rumore «curiosissimo, trasparente» di una chiusura lampo. 85
Nell’oscurità il silenzio sembra ancora
più completo. D’un tratto Leo si riscuote. Avverte nella stanza un rumore
curiosissimo, trasparente, un lieve lungo raspìo, qualcosa che scivola su
qualche altra cosa: i rumori di una
chiusura lampo per esempio. Nel buio
Leo ascolta il rumore.
D’un tratto prende a parlare, con dolcezza, senza più nessuna paura.
LEO: Chi sei? Vuoi mettermi paura?
Sei Wanda? Rispondimi ti prego...
Il rumore continua sempre meno individuabile, sempre più lieve.
Nell’oscurità Leo si muove sul letto, a
sedere.
Non accende la luce.
LEO: Sei Wanda? E cos’è il rumore
che fai? Cosa mi vuoi dire, cosa vuoi
farmi capire?
Il rumore cessa d’un tratto, Leonardo
tace. Accende la luce. Si guarda attorno con calma. La paura è svanita.
Leonardo scende dal letto, va vicino al
cassettone: sul ripiano una chiusura
p. 9.
L’idea di inserire l’elemento della chiusura lampo si registra a partire da PETRI–VINCENZONI 1967b, dove in un appunto manoscritto figura la seguente indicazione: «sostituire con abito di seta e zip-zip»; p. 60.
84 Ivi,
85
178
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
lampo di vecchia foggia. Prende la
chiusura lampo, la manovra, la osserva
contro la lampadina. Se la passa sul
viso, come accarezzandosi, gli occhi
socchiusi, un impercettibile sorriso
morboso.
Va a distendersi sul letto, come disponendosi ad un incontro d’amore e spegne la luce. 86
Tali rumori, per esigenze di tensione drammatica, vengono caricati di tutte
le ambiguità possibili, come nel seguente caso in cui Leonardo, ormai convinto della presenza dello spirito, lo insegue stregato finendo per sorprendere
la domestica Egle alle prese semplicemente con una lampo del suo vestito.
D’un tratto sente un rumore misterioso.
LEONARDO: Wanda, Wanda.
Leonardo si guarda intorno. Il fruscio
non s’arresta. Lo sguardo di Leonardo
è riconoscente. Si muove verso l’uscita.
Il rumore sembra provenire dal lungo
corridoio buio che conduce alla camera da letto. I movimenti di Leonardo si
fanno febbrili.
Cammina precipitosamente lungo il
corridoio, arrestandosi d’un tratto accanto ad una porta chiusa.
Ma il rumore adesso si è spostato.
Leonardo riprende a camminare, accendendo le luci.
Si ferma davanti a una porta chiusa. Il
rumore si distingue meglio.
Leonardo è molto emozionato. Mette
la mano sulla maniglia. Vi preme sopra lentamente. La porta adagio si
schiude. Un improvviso urlo lo raggela.
Urlo
86 PETRI–VINCENZONI s.d.a,
pp. 117-118.
179
Maurizio Corbella
Davanti a lui, col viso sfigurato dalla
paura, è Egle in sottoveste con un vestito in mano.
Leonardo a sua volta è spaventato:
LEONARDO: Che fai?
EGLE (tremante): Niente ho aggiustato il
vestito.
E così dicendo fa scorrere su e giù col
caratteristico rumore la chiusura a
lampo.
Rumore zippo
EGLE: Si era rotta la lampo.
Leonardo la fissa un istante come stesse per dire qualcosa, poi si stringe nelle
spalle ed esce.87
Gli sceneggiatori si spingono addirittura a prevedere presenze di natura musicale, anch’esse dotate di funzione segnaletica e narrativa. Le prime apparizioni della villa sono accompagnate da un «trillo, un motivo musicale che si
ripeterà in seguito».88 Una volta che l’alone di mistero che circonda la villa
assume i contorni della presenza dello spettro di Wanda, il leit motiv viene
chiamato «motivo musicale fantasma». Nella Scaletta di “Un tranquillo posto”,
lo spettro della ragazza non aveva nulla di inquietante, era anzi una presenza affascinante con cui il pittore dialogava animatamente. Nelle sceneggiature successive, invece, il fantasma non parla più, ma tuttavia produce un suono pre-verbale, «una specie di zufolio, che ricorda una vecchia canzone italiana: Ma l’amore no...». La presenza della canzone, grande successo dei tempi
bellici,89 riconoscibilissima per il pubblico degli anni Sessanta per via delle
molte rivisitazioni discografiche offerte dagli interpreti in voga (tra i quali
per esempio Claudio Villa), è il trait d’union che conduce all’identificazione
dello spettro con la proiezione schizoide di Leonardo. Il dolce refrain assume
una sembianza isterica e perturbante quando, catturato dai medici per essere trasportato in manicomio, Leonardo scopre Flavia viva:
Leonardo si irrigidisce di colpo trattenendo gli infermieri[;] il suo viso si
Ivi, pp. 152-154; da notare che in PETRI–VINCENZONI 1967a (pp. 144-147) lo stesso equivoco sonoro è costruito intorno al rumore del pettine.
88 L’indicazione compare in tutte le sceneggiature firmate da Petri e Vincenzoni.
Ometto per questo di segnalare i numeri di pagina.
89 Firmata da Giovanni D’Anzi e Michele Galdieri, è presente nel film Stasera niente di
nuovo (r. Mario Mattoli, 1942) e nel 1943 viene portata al successo da Lina Termini.
87
180
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
distende calmissimo[,] fissa Flavia sorride e imitandone la voce dice:
LEONARDO: «Leonardo sono io Flavia... (con la sua voce normale) Cretina sei
morta. A pezzi dentro il frigidaire».
E cerca di sputarle addosso. Gli infermieri lo trascinano via mentre
Leonardo si mette a cantare a squarciagola
LEONARDO: «Ma l’amore no, l’amore
mio non può...»90
Un po’ come era successo nel confronto tra le sceneggiature e il film in relazione alla chiave di lettura della trama, si rischia di rimanere delusi se si va
in cerca nella pellicola finale di un riscontro della iper-dettagliata pianificazione sonora testé descritta. Paradossalmente, però, le ragioni sono opposte.
Avevo infatti rilevato un sostanziale allentamento del nesso concettuale della
«impossibilità della figura» sul versante degli elementi narrativi; nella conformazione sonora e soprattutto musicale del film rileviamo al contrario una
notevole complicazione dei piani semantici, laddove i suoni e le musiche, per
come le ho illustrate, evidenzierebbero nelle sceneggiatura una netta aderenza al vettore thrilling della fabula.
In una recente conversazione, Morricone mi ha confermato che Petri
volesse costruire un film in cui la fisionomia dei rumori fosse particolarmente pronunciata; l’idea di coinvolgere il GINC non è tuttavia del regista, bensì
del compositore. 91 Il metodo di lavoro del gruppo consiste nell’improvvisare
sulle sequenze del film montate ad anello, procedimento che consente la visione delle singole scene in ciclo continuo. Morricone ricorda come sostanzialmente solo il primo take fosse “pura” improvvisazione, mentre le ripetizioni servissero a perfezionare i materiali, fino ad arrivare a versioni convincenti. Al termine delle registrazioni il compositore sceglie, insieme a Petri, i
takes migliori; significativo è il fatto che non si proceda con montaggi di materiali tratti da diverse versioni, ma si lavori in linea di massima su takes unici;
questo esclude di fatto interventi sostanziali di manipolazione elettroacustica
dei brani musicali in post-produzione. La registrazione dei materiali avviene
in due sessioni; Petri sostanzialmente accetta tutte le soluzioni proposte dai
musicisti ma, nella seconda sessione, chiede di aggiungere “ulteriori rese
90 PETRI–VINCENZONI 1967a,
p. 209.
MORRICONE, comm. pers. cit.; le affermazioni che seguono si avvalgono anche
della testimonianza di BRANCHI, comm. pers. cit.
91
181
Maurizio Corbella
rumoristiche”. A una cernita complessiva, nel film compaiono 11 diversi interventi musicali del GINC, (cfr. la sinossi desunta delle musiche in TABELLA
5). È possibile raggruppare tali numeri secondo macro-caratteristiche musicali:
• nn. 1, 4, 6, 7, 8, 10, 11: rarefazione (risorse timbriche vicine al rumore,
ampio spettro di frequenze, ritmi assenti o dilatati, continua metamorfosi
dei timbri e delle dinamiche);
• n. 2: crescendo (passaggio da momenti di rarefazione a momenti di addensamento ritmico e dinamico);
• n. 5: evento “collagistico” (inserimento di eventi temperati, come le scale
del pianoforte);
• nn. 3, 9: tendenza alla forma chiusa in senso jazz/popular (rintracciabili cellule ritmico-motiviche, una certa coerenza strutturale, germi di orchestrazione).
Le improvvisazioni del GINC conferiscono al film una veste ruvida, la
superficie visiva è largamente “increspata” da sonorità aspre, che intrattengono con le immagini rapporti complessi e mai propriamente didascalici.
L’impressione che ne ricaviamo è quella di una deformazione acustica della
realtà, mediata dalla prospettiva allucinata di Leonardo. Questo tipo di
magma sonoro rovescia, o meglio approfondisce, le iniziali intenzioni registiche così come si erano manifestate in sceneggiatura (rumori definiti al punto
da essere identificabili come chiavi narrative): a bilanciare una partitura fortemente bruitistica, c’è una componente di post-produzione, altrettanto
magmatica, apportata dai tecnici del suono, che si amalgama con la musica
risultando a tratti inscindibile.
Se prendiamo come termine di confronto la sequenza in cui ci siamo
già imbattuti, nella quale Leonardo tenta di dipingere nello studio della casa
milanese (0:07:17),92 notiamo che non c’è traccia del «coro infernale dei
clacson»: tutto ciò che è riconducibile ai rumori urbani perde la sua riconoscibilità particolare per trasformarsi in un alone indistinto (nel quale si intuiscono il rumore dei motori e un vociare filtrato e perturbante) fortemente
evocativo della confusione mentale del protagonista; sopra tale alone si staglia distintamente solo lo squillo ossessivo del telefono. La pulsazione regolare e percussiva che accompagna le azioni di Leonardo rimanda direttamente
alla sceneggiatura, anche se non si configura come una musica diegetica trasmessa da una fonte sonora interna alla scena (grammofono), bensì come
una sorta di ritmo interiore del pittore, che ricompare identico e non ca-
Per le indicazioni cronometriche faccio riferimento all’edizione in dvd, Artwork &
Design, 861946CVDO, 2007.
92
182
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
sualmente nell’analoga situazione in cui Leonardo dipinge nella sua nuova
dimora rurale (0:27:52). Nella sequenza successiva (0:10:20), Leonardo
scappa fuori di casa e comincia a vagare per Milano. Fin da questo momento la sua esperienza ottica è popolata da visioni di Flavia in vari travestimenti (figlia dei fiori, infermiera che lo trasporta in sedia a rotelle ecc.). Il numero musicale del GINC (Improvvisazione n. 3) è uno tra i più “composti”, caratterizzato da una certa coerenza strutturale e da una conformazione che potremmo azzardarci a definire “bi-tematica” (primo “tema” affidato al fischio,
secondo “tema” a una voce bianca). 93 La componente rumoristica, attribuibile alla città, rimane sullo sfondo rispetto alla musica, dapprima in maniera
“naturalistica” , per andare via via incontro a una mutazione, tornando a
conformarsi a mo’ di alone perturbante come nella sequenza precedente.
Da una parte, dunque, il contributo del GINC si iscrive nel progetto
sonoro di Petri in quanto amplificazione dell’aspetto rumoristico; dall’altra
reinserisce sotto forma di sembianze musicali l’elemento metalinguistico. Un
tranquillo posto di campagna è un film violento, dove la violenza è innanzitutto
una reazione distruttiva del linguaggio dell’arte verso la realtà, e per riflesso
verso l’arte stessa; Leonardo è coinvolto in un vortice di distruzione e, in
qualità di artista, riesce per un certo tempo a rispondere con i propri mezzi
espressivi; egli si immerge nella sua condizione con un atteggiamento bulimico, fa incetta di pornografia, aggredisce le sue tele con gesti violenti, invade con il rosso (che è anche il colore del vestito di Wanda) gli elementi del
suo mondo, compresi gli alberi e i corpi di Egle e di suo fratello. I gesti di
Leonardo sono costantemente estremi. È un’avanguardia tanto necessaria
quanto sconfitta in partenza. L’equivalenza tra avanguardia pittorica e
avanguardia musicale, per quanto possa apparirci scontata, è realizzata in
questo film senza mai indietreggiare, senza mai cedere alle “lusinghe” di una
musica accomodante. Il GINC prolunga l’atteggiamento “distruttivo”, “iconoclasta”, forzando gli strumenti musicali nelle zone estreme delle loro possibilità timbriche, producendo stridii, cacofonie, tensioni irrisolte. Una musica violenta per un film violento, purché ci intendiamo sull’accezione con cui
uso questo aggettivo: a differenza di altre modalità improvvisative del tempo
(rock-blues, free jazz, lo stesso MEV), non c’è nel GINC pulsione irrazionale o
estatica; la violenza è frutto del paradosso generato dall’estremo rigore, dalla
costante disciplina che controlla ogni aspetto della generazione e della ge-
È questo il numero in cui più che altrove si esplicita l’approccio ripetitivo del
GINC su una singola sequenza, fino a ottenere un brano che ha le sembianze di un
composizione arrangiata, che addirittura contempla nell’organico elementi non abituali nella formazione, quale la voce bianca.
93
183
Maurizio Corbella
stione del suono.94 L’estremo controllo è ciò che crea la discrasia maggiore
tra lo stato mentale del protagonista e le sue azioni e, in ultima analisi, ciò
che meglio restituisce la dimensione schizofrenica del suo comportamento.
Viviamo avvolti in una fascia di suoni espressivi dei nostri stati d’animo esistenziali, come nel tentativo di isolarci dagli altri suoni, quelli della realtà collettiva, il cozzo di un’automobile contro un albero, lo scoppio del napalm, le
urla di un’adunata fascista.95
Veniamo ora alla seconda matrice musicale del film: la parte composta dal
solo Morricone. Non sarà sfuggito che proprio quel riferimento alle percussioni e alla «voce di donna che sembra in preda ad orgasmo erotico», corrisponde perfettamente all’aspetto più evidente della rielaborazione che Morricone compie su Musica per 11 violini, aggiungendovi una percussione (Enzo
Restuccia) e la voce sola (Edda Dell’Orso). Nel film sopravvivono di fatto tre
vesti della composizione: l’originale, per soli archi; la composizione con l’aggiunta di voce e percussione, intitolata Fantasma;96 una versione senza violini,
che compare in un breve frammento tagliato dal montaggio
(1:18:00-1:19:17). Gli altri numeri musicali presenti nel film sono comunque
apparentati con il nucleo generativo della composizione “madre” (vedi la
sinossi delle musiche da me compilata in coda al paragrafo, TABELLA 5). La
voce femminile è chiaramente riferibile allo spirito della ragazza, la sua presenza è conturbante, una sorta di richiamo che a tratti si fa gemito e lamento, con tutte le connotazioni erotiche, oniriche e conturbanti del caso. Vale la
pena di riportare per intero un’importante riflessione di Sergio Miceli, riferita in generale all’impiego delle risorse timbriche di Edda Dell’Orso, ma che
In questo senso non trovo contraddizione con l’affermazione di Egisto Macchi in
merito: «Ricordo che per tutti il trovare un nuovo timbro era considerato un passo
avanti ed era qualcosa che veniva assimilato ad un materiale collettivo che ognuno
poteva usare. Il fatto di “violentare”, credo che nel gruppo non vi sia mai stato; io
non userei questo termine: di “violentare” uno strumento: a me non è mai passato
per l’anticamera del cervello e sicuramente neanche a Franco che trattava con rispetto il pianoforte (che costava trenta milioni)»; GADDI 1992, p. 152.
95 PETRI s.d.c.
96 Sergio Miceli (1994) adopera per quest’ultimo adattamento il titolo Distanze per 11
violini, voce di donna e percussione, riferendosi alla pubblicazione lp della General Music
(Gm 33/01-1). Io ho optato invece per l’utilizzo del titolo Fantasma, che si trova nella
citata edizione discografica in cd (Saimel, 3994710), per un semplice motivo: di quest’ultimo esiste un riferimento SIAE, mentre non altrettanto si può dire per la titolazione scelta da Miceli che, tra le altre cose, rischia di creare confusione rispetto all’altra composizione di Morricone intitolata Distanze, per violino, violoncello e pianoforte, anch’essa del 1958. Ben più confusione crea invece la recentissima edizione discografica pubblicata nella Complete Edition dell’opera morriconiana (GDM
0194392ERE), che utilizza addirittura il titolo originale Musica per 11 violini per la
versione con voce e percussione.
94
184
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
in questa particolare occasione mi pare centrare in pieno le caratteristiche
della presenza spettrale a cui fanno riferimento gli sceneggiatori.
[S]i tratta di una particolare voce di soprano [...] di registro chiaro, non troppo corposo e perciò dall’emissione fluida; una voce educata ma non impostata in senso propriamente lirico, quindi vibrata ma senza notevoli variazioni
d’ampiezza (salvo una inquietante eccezione, di gola, nella tessitura grave), e
come tale capace di garantire un accordo timbrico neutro negli impasti strumentali molto eterogenei, così frequenti nella musica per film. Sul piano delle
valenze estetiche, si può osservare che con l’utilizzazione di una simile voce,
sempre vocalizzante, Morricone apre un capitolo ampio, forse fin troppo, di
angelici orgasmi – immateriali quanto allusivi – in cui gioca una componente
di idealizzazione (cosa è più “puro” della voce umana?) accanto a un’altra di
ambiguità (cosa e più sensuale di una voce femminile?), e dove il rischio del
Kitsch medium è pressoché ineliminabile. 97
Pur restituendo le caratteristiche profonde dell’immaginario delle sceneggiature, sono praticamente assenti tutti i rimandi leit-motivici preventivati in
tali testi, tanto per quanto riguarda il «motivo musicale fantasma», quanto
per Ma l’amore no.98 Questo accade a mio parere perché il ruolo svolto dalle
composizioni di Morricone nel film non è di carattere strettamente narrativo
– a meno che non lo si voglia interpretare molto genericamente come immissione di un elemento di tensione in chiave horror – bensì simbolico. La
serialità di Musica per 11 violini, per quanto “allentata” dagli adattamenti applicativi dei brani derivati, funge da “alter ego” dei numeri del GINC, ancora una volta su un piano che si richiama esplicitamente all’avanguardia.
Laddove la componente musicale del GINC assume i connotati del tentativo
artistico di Leonardo di comprendere la materia sonora della società (così
come egli fa nelle sue opere nei confronti della materia tattile e visiva), la
componente morriconiana rappresenta il versante di ricerca interiore, della
propria identità esistenziale, corporea e sessuale.
Ivi, p. 139.
La canzone si riaffaccerà curiosamente nella carriera di Morricone trent’anni più
tardi, in occasione di Malèna (r. Giuseppe Tornatore, 2000), film ambientato in periodo bellico, con analoghe tinte torbide a sfondo erotico, e guarda caso sceneggiato da
Luciano Vincenzoni. Oltre alla versione originale della canzone, nel film è presente
anche un adattamento orchestrale del compositore.
97
98
185
Maurizio Corbella
Nota a TABELLA 6: La seguente sinossi desunta denuncia una carenza sostanziale: un
confronto con un programma musicale ufficiale del film, per esempio il foglio SIAE, che
fino a questo momento non è stato reperito. Fatta salva la provvisorietà di tale operazione,
mi è sembrato comunque importante mostrarne i risultati temporanei, perché hanno il
merito di fare chiarezza perlomeno sull’effettiva suddivisione delle competenze tra Ennio
Morricone e il GINC.
L’attribuzione delle tracce si è avvalsa, oltre che di considerazioni relative ad aspetti musicali (in particolare all’organico), del confronto con l’edizione discografica delle musiche
del film (cd, Saimel, 3994710), la quale contiene 11 tracce attribuite a Morricone e una
lunga suite di 34 minuti ottenuta montato le varie improvvisazioni del GINC. Non in tutti
i casi è stata trovata corrispondenza tra quanto è contenuto nella suite e quanto compare
nel film, vale a dire che ampia parte della prima non è stata utilizzata nella versione montata del film, come d’altronde alcuni dei numeri presenti nel film sono assenti dalla scelta
discografica (per evidenziare questi ultimi si è scelto di utilizzare uno sfondo grigio).
Per la titolazione dei brani ho optato per una doppia scelta: un indice progressivo (prima
colonna); un titolo (seconda colonna), che per gli interventi del GINC utilizza la dicitura
arbitraria Improvvisazione seguita da un numero progressivo (con ciò non si vuole suggerire
per forza che ogni numero, per quanto breve, corrisponda effettivamente a un’improvvisazione distinta del gruppo, ma semplicemente differenziare gli interventi ed evidenziare
eventuali ripetizioni di materiale), mentre per gli altri numeri ci si rifà ai titoli dell’edizione discografica (peraltro corroborati dal deposito SIAE). Anche per questi ultimi vale la
constatazione che non tutti si ritrovano nel film, così come in tre casi (N. 4, 8, 20, evidenziati da sfondo grigio e con titolazioni arbitrarie tra parentesi quadre) non si trovano corrispondenze con l’edizione discografica. La terza colonna riporta una breve descrizione
indicativa della sequenza narrativa in cui compare il brano musicale, mentre la quarta
riporta gli estremi temporali dei brani musicali.
Un’ultima precisazione riguarda le indicazioni fornite tra parentesi quadre in corrispondenza dei brani Musica per 11 violini e Fantasma. Trattandosi di una composizione pre-esistente, che nella versione da concerto dura circa sei minuti, ma non è mai impiegata interamente nell’ambito delle sequenze del film, ho optato per indicare le sezioni adoperate,
basandomi sulla suddivisione analitica che della composizione ha fatto Sergio Miceli
(1994, pp. 50-55).
TABELLA 5: Sinossi dei numeri musicali di Un tranquillo posto di campagna
N.
Brano
Descrizione sequenza
Tempo
1
GINC, Improvvisazione n. 1
Titoli
0:00:00-0:01:44
2
GINC, Improvvisazione n. 2
Primo incubo
0:01:44-0:05:40
3
[Percussioni]
Leonardo dipinge nel suo
studio milanese
0:08:17-0:09:57
4
GINC, Improvvisazione n. 3
Leonardo girovaga per Milano
0:10:20-0:13:19
5
GINC, Improvvisazione n. 4
6
GINC, Improvvisazione n. 4
7
Morricone, Musica per 11
violini [sez. A]
186
Leonardo vede per la prima
volta la villa
Leonardo torna a villa Wanda e la visita anche internamente
0:14:06-0:14:41
0:15:17-0:15:53
0:21:49-0:23:09
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
8
[Percussioni]
Leonardo dipinge nella villa
di campagna
0:27:52-0:28:31
9
GINC, Improvvisazione n. 7
Secondo incubo
0:31:08-0:32:40
Morricone, Fantasma [sez.
A]
Leonardo riflette dopo essere
stato in paese. Inseguela misteriosa figura che mette i
fiori nel luogo della morte di
Wanda
0:36:43-0:38:00
11 Morricone, Vuoi essere felice?
Leonardo, mentre fa l’amore
con Flavia, ha una visione
della donna vestita da infermiera che lo trasporta su una
sedia elettrica a rotelle
0:41:20-0:41:45
Morricone, Musica per 11
12 violini [fine sez. B, cerniera
II, inizio sez. C]
Crolla il pavimento sotto i
piedi di Flavia
0:43:29-0:44:18
GINC, Improvvisazione n. 6 /
13 Morricone, Il fantasma di
Wanda
Wanda appare per la prima
volta a Leonardo
0:50:12-0:52:43
Il macellaio racconta di
quando incontrò per la prima
volta Wanda
0:55:17-0:56:20
Leonardo si reca a casa Valier
0:58:35-0:58:54
Morricone, Lo spirito di
Wanda
La contessa Valier mostra a
Leonardo il vestito rosso e le
foto di Wanda
1:00:16-1:01:17
17 GINC, Improvvisazione n. 8
Attilio racconta a Leo di come ha ammazzato il soldato
tedesco
1:07:38-1:08:52
Morricone: Fantasma [fine
18 sez. A, cerniera I, sez. B,
cerniera II]
Leonardo è attirato dal suono
di un campanello: è Wanda
in bicicletta, la insegue
1:09:27-1:11:02
19 Morricone, Un amore violento
Leo cerca di prendere Flavia
con violenza
1:15:35-1:16:25
Morricone, [Fantasma?]
20 [frammento di sez. A, ma
senza violini]
Dopo l’incidente nella doccia
di Flavia, i due fanno l’amore
1:18:00-1:19:17
21 GINC, Improvvisazione n. 4
Arrivano gli ospiti per la seduta spiritica
1:19:18-1:20:08
22 GINC, Improvvisazione n. 9
Uccisione di Flavia
1:28:27-1:30:55
23 GINC, Improvvisazione n. 10
Confessione di Attilio
1:31:01-1:32:16
10
14
Morricone, L’automobile della
contessina
15 GINC, Improvvisazione n. 7
16
187
Maurizio Corbella
Morricone, Fantasma (ma24 nipolato con effetti di delay) [fine sez. C]
Leonardo si rifugia nel nascondiglio di Wanda e si appresta e fare l’amore con il
suo fantasma
1:32:33-1:34:05
GINC, Improvvisazione n. 11
25 sovrapposta a Morricone,
Delirio secondo
Leonardo in manicomio/Titoli
1:37:33-1:42:22
Nei film di Federico Fellini degli anni Sessanta ci sono VI. La sostanza di cui sono fatti i sogni.
alcuni frammenti sonori isolati, che passano inosserva- Primi appunti per una drammaturgia
ti senza quasi lasciar memoria di sé, in mezzo al turbi- del suono felliniano
nio babelico di brani musicali, voci, strilli e versi, che
popola l’universo semi-onirico del regista riminese. Ma dato che La dolce vita,
8 ½, Giulietta degli spiriti, Satyricon sono pellicole che sembrano chiedere allo
spettatore un processo di assimilazione lento, condotto per avvicinamenti
progressivi e continui ritorni, ecco che ci si imbatte di nuovo in quei frammenti che forse, a una riconsiderazione più attenta, tanto insignificanti non
sono. Marginali sì, ma nella misura in cui può essere marginale un dettaglio
in un sogno, come le smorfie e le linguacce di alcune comparse appena inquadrate in Satyricon, o come la faccia disegnata che compare dissacrante in
ogni inquadratura della sequenza iniziale di Casanova.
Nella Dolce vita, durante l’aspro litigio tra Marcello ed VI.1 “Rimossi” sonori nella
Emma, si avverte un bordone, probabilmente di organo elet- Dolce vita
trico, portatore di un «effetto ansiogeno assai degno di nota»;99 non ci si può nascondere che esso, un cluster caratterizzato da un leggero vibrato, ostinatamente fisso nel tempo e animato solo da un saltuario
movimento del basso su un intervallo di quinta (Reb3–Lab3), sia fonte di un
certo imbarazzo per l’esegeta, per almeno una ragione intuitiva: dura cinque
minuti abbondanti senza mai cambiare, un’eternità cinematografica! C’è, in
quella presenza sonora, qualcosa di profondamente anti-musicale, nella “sintassi” (appunto, l’assenza di uno sviluppo – anzi, ci sono tutte le evidenze
perché si possa affermare che l’intero episodio sia in realtà il risultato di un
breve frammento montato a loop), e allo stesso tempo un’attitudine spudoratamente effettistica (l’uso di espedienti che nel contesto possono apparire fin
dozzinali, tanto sono “esposti”, come la dissonanza, il vibrato, il timbro
“asessuato” della sintesi sonora); si aggiunga che, per le constatazioni che
esporrò tra poco, si affaccia l’inquietante probabilità che anche dietro a questo bordone, per quanto escluso dal programma musicale depositato in
99 SALA
188
2009b.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
SIAE, ci sia proprio Nino Rota, o comunque il suo avvallo di supervisore.100
Siamo, forse, al corrispettivo su un piano “suggestivo-atmosferico” del «pezzaccio» della Marcia dei gladiatori, «che fin dai titoli dello Sceicco bianco il Riminese vuol cacciar dentro a ogni film, e che sempre, magari in extremis, immancabilmente il garbato Nino Rota riesce ad ottenere di sostituirglielo sotto il naso con una sua mimetica sublimazione».101 E allora, se è vero che nella Dolce vita proprio quel «pezzaccio» ci finisce così com’è, non “sublimato”,102 dobbiamo per analogia ammettere che il nostro bordone non sia poi
del tutto fuori luogo, per quanto possa apparire una caduta di stile neanche
poi troppo necessaria, dal momento che sarebbe facile ipotizzare altre soluzioni (compresa l’assenza totale di suoni) per una sequenza che si reggerebbe
probabilmente comunque sulla dinamicità del dialogo infuocato tra i due
personaggi.
A questo punto, la domanda che si profila è di carattere interpretativo:
c’è una necessità espressiva che spinge Fellini a utilizzare quell’espediente o si
deve pensare a un diverso ordine di ragioni? Due sono le ipotesi: a) il regista
si è accorto che la sequenza ha poco ritmo, è troppo lunga o troppo piatta, e,
in uno stadio avanzato dei lavori, quando ormai non è più possibile chiedere
a Rota di scrivere un brano nuovo, va in cerca di un “effetto” rivolgendosi a
qualche tecnico o a Rota stesso, che, con un organo elettrico a disposizione,
fa la cosa più semplice che gli viene in mente; b) Fellini sceglie deliberatamente quell’effetto a scapito di altre soluzioni, per ragioni drammaturgiche.
Se ci limitiamo a interrogare la sequenza in questione, stando all’impossibilità di indagare i retroscena della produzione, non ne veniamo fuori:
la prima ipotesi potrebbe essere plausibile, considerando anche l’alto grado
di improvvisazione nei “cantieri” felliniani, ma c’è comunque qualcosa che
non torna. Nulla avrebbe impedito al regista o al compositore di riciclare
qualche brano rotiano, come del resto già ampiamente fatto nel corso del
film, o di inserire qualche motivo non originale. La questione è senza dubbio
da porre diversamente: non è di “musica” nel senso tradizionale del termine,
che Fellini ha bisogno. Ma, prima di spingerci oltre su questo punto, proviamo ad allargare leggermente la prospettiva d’indagine all’intero film.
Scorrendolo ci si rende conto che l’evento sonoro preso in considerazione è
sì il più evidente, ma non l’unico di questo tipo. Ce ne sono infatti almeno
altri due degni di attenzione. La mattina successiva alla lite con Emma e all’avvenuta rappacificazione, Marcello viene svegliato dalla telefonata che gli
100 È proprio Emilio Sala a segnalare la sua assenza dal programma musicale SIAE,
da lui integrato criticamente in ibid.
101 MORELLI 2001, p. 382.
102 Cfr. i numeri 39 e 42 della sinossi musicale del film redatta da Sala in 2009b.
189
Maurizio Corbella
annuncia la tragedia avvenuta in casa del suo caro amico Steiner: l’uomo si
è ucciso dopo avere ammazzato i due figli. Alla notizia, Marcello si precipita
sconvolto presso l’abitazione dell’amico. Un bordone rarefatto, caratterizzato da un andamento ripetitivo d’intensità oscillante, ancora una volta privo
di sviluppi morfologici o sintattici, accompagna l’intera sequenza. Questa
volta, però, a differenza del caso precedente, ci sono pochi dubbi sull’efficacia espressiva di tale espediente. La presenza sonora contribuisce perfettamente al senso di smarrimento e di inspiegabile tragedia che opprime Marcello, anche perché il mixaggio la rende scarsamente avvertibile come fenomeno sonoro a sé stante, integrandola perfettamente nella scena come veicolo della vertigine esistenziale provocata dal gesto estremo di un uomo moralmente integro, considerato dal protagonista un vero modello di vita
inarrivabile.103 Se torniamo indietro al loro incontro in casa Steiner, non
possiamo non soffermarci, alla luce di quanto emerso sin qui, su un terzo
fenomeno sonoro (il primo in ordine di comparsa) che fa capolino proprio
mentre Steiner conduce Marcello a osservare i lettini dei figli addormentati:
una pulsazione percussiva, ancora una volta quasi inavvertibile, scandisce il
momento; quel tanto che basta per gettare un’ombra inquietante sulle parole amare di Steiner che anticipano terribilmente la successiva, inaspettata,
tragedia cruenta.
Qualche volta, la notte, questa oscurità e questo silenzio mi pesano. È la pace
che mi fa paura, temo la pace più di ogni altra cosa. Mi sembra che sia soltanto un’apparenza, e che nasconda l’inferno. Pensa a cosa vedranno i miei
figli domani: il mondo sarà meraviglioso, dicono, ma da che punto di vista, se
basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto? Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera
d’arte riuscita, in quell’ordine incantato... dovremmo riuscire ad amarci tanto
da vivere fuori del tempo, distaccati... distaccati.104
Ecco che, sorprendentemente, un disegno drammaturgico che coinvolge
l’uso di risorse elettroacustiche comincia a profilarsi. Le tre sequenze prese
in considerazione non sono secondarie. Anzi, sono vere e proprie scene-madri per quella che è la presa di coscienza definitiva da parte di Marcello che
la sua vita è un fallimento: prima la visione di un’alternativa illuminata e
inarrivabile come la dimensione famigliare di Steiner, apparentemente
103 «La
tua casa è un vero rifugio, sai», aveva detto Marcello a Steiner nel loro ultimo
recente incontro, «i tuoi figli, tua moglie, i tuoi libri, i tuoi amici straordinari, io sto
perdendo i miei giorni, non combinerò più niente»; dialogo desunto dal film.
104 Dialogo desunto dal film.
190
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
l’esempio più alto di come si possa condurre una vita serena e appagata,
circondati d’amore e di cultura, poi il tentativo di liberarsi di un rapporto
ipocrita e parassitario come quello con Emma, “fallito” nella pacificazione
finale, ed infine il crollo delle residue certezze nella constatazione dell’illusorietà del progetto di vita dell’amico. In questa prospettiva, l’ipotesi di un Fellini che corre ai ripari “riempiendo” le sequenze di effetti elettroacustici
dozzinali perde definitivamente consistenza. Evidentemente i suoni scelti in
questo disegno narrativo hanno per il regista un’entità espressiva particolare,
che li distingue dalla musica e dai consueti rumori ambientali.
In un suo recente scritto, Emilio Sala ha messo in evidenza un primo
asse drammaturgico-musicale della Dolce vita, individuato dai due temi maggiormente ricorrenti del film – il cosiddetto I cinesi e la discussa elaborazione
da Moritat von Mackie Messer di Kurt Weill – che “scolpisce”, per così dire, le
due facce della dolce vita romana: quella arcaica, «barocca e bizantineggiante»105 e quella moderna, alla moda, entrambe decadenti manifestazioni
di quel «vascello pencolante da tutte le parti, sontuosissimo e miserabile» 106
che è il microcosmo rappresentato nel film.107 I tre interventi elettroacustici
da me descritti possono essere letti invece come manifestazioni sonore di un
secondo asse, di natura intimista, che riguarda la vicenda esistenziale di
Marcello, la sua personale decadenza che si specchia nel modello tragico di
Steiner: sono eventi sonori che, più che contribuire con un portato semantico di tipo musicale, esprimono una dimensione in divenire (quasi fenomenologica) dello scacco esistenziale, come un peso sulla coscienza che si trasferisce sul piano sonoro in un’ossessività perturbante, dalla quale derivano la
staticità e la ripetitività dei fenomeni descritti.108 La disposizione degli interventi sonori favorisce la saldatura tra il quadro narrativo di Steiner e la vicenda tra Emma e Marcello. Laddove la pulsazione associata ai bambini
rimane isolata in chiave anticipatoria, i due bordoni più lunghi si susseguono
in due sequenze contigue (litigio di Marcello ed Emma – morte di Steiner) e
caratterizzano dunque sonoramente una zona del film in cui, altrimenti, non
si avrebbe musica per ben quattordici minuti, caso unico in tutto il
lungometraggio:109 questa disposizione costruisce, se vogliamo, una lunga
105 FELLINI
1960, p. 42.
106 Ibid.
107 Cfr.
SALA 2009b.
Una fissità in un certo senso analoga era stata incontrata a proposito di Il deserto
rosso.
109 Confronta, ancora una volta, la tavola sinottica in SALA 2009b, tra il n. 57, ripresa
di Mattutino, e il n. 58, Orgia.
108
191
Maurizio Corbella
pausa cupa che segna in modo inequivocabilmente tetro l’umore della Dolce
vita.
Una prova di quanto un simile “equilibrio” narrativo sia cercato o, per
dirla con Giovanni Morelli, «trovato» probabilmente solo in sede di mixaggio, ci viene dal confronto con il preziosissimo carnet del programma musicale della Dolce vita redatto da Nino Rota durante la lavorazione del film e trascritto dallo stesso Morelli; 110 gli unici riferimenti in esso a «musica elettronica» sono spostati nella sequenza dell’invito a casa Steiner, e non c’è accenno
alla lite con Emma né tanto meno alla morte di Steiner (sequenze presumibilmente concepite prive di interventi sonori). Una «musica elettronica misteriosa» dovrebbe accompagnare la prima parte dell’episodio a casa Steiner,
dopo la «canzone in casa di Steiner» (che si risolverà essere la Canzone giapponese), «poco prima che mostri il quadro astratto [che sarà invece un Morandi] e continua sotto discorsi vari», per poi smettere quando un giovane riproduce sul magnetofono il «dialogue between female [sic, per “feminine”] wisdom
and masculine uncertainty», vale a dire la (quasi) registrazione delle ultime battute del dialogo tra Steiner e la poetessa (Iris Tree).111 Una “quasi” registrazione in quanto non restituisce fedelmente il dialogo:112 il nastro si prende delle
“licenze” rispetto alla realtà, quella stessa realtà che pretenderebbe di restituirci attraverso la registrazione dei suoni naturali che parte subito dopo il
dialogo registrato, di fronte alla quale Emma tradisce un’ingenuità infantile,
riconoscendo uno per uno i suoni, mentre il sibilo sinistro del vento carica di
un senso spettrale l’apparizione dei bambini di Steiner. Non c’è dubbio che,
se Fellini e Rota avessero rispettato i loro propositi di mantenere nella sequenza la musica elettronica, ne sarebbe uscita una scena infinitamente più
perturbata, ma probabilmente troppo. Ciò che sopravvive è invece soltanto
la seconda occorrenza elettronica nella sequenza, ad accompagnare la visione dei lettini dei bambini: «quando Steiner entra e scosta i veli del letto dei
bambini e durante tutta scena di nuovo musica elettronica 2’ circa finirla
quando si accende la luce».113
Tutta la tensione accumulata in questa sequenza troverà spiegazione
(sonora) soltanto nella simmetria strutturale secondo cui è architettata la visita di Marcello a casa Steiner a tragedia consumata. Viene risentita la registrazione, ma a questo punto le parole di Steiner in risposta alla poetessa –
110 MORELLI 2001, pp.
398-411.
p. 402.
112 Laddove la poetessa dice «primitivo come una guglia gotica, sei così alto che non
puoi sentire più nessuna voce da lassù», la registrazione “ripete” «primitivo come
guglia gotica, sei tanto alto che non puoi sentire più nessuna voce da lassù»; dialogo
desunto dal film.
113 MORELLI 2001, ibid.
111 Ivi,
192
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
«se mi potessi vedere nella mia vera statura ti accorgeresti che non sono più
alto di così» – spalancano un abisso di dolore in Marcello; dopo aver risposto brevemente a qualche domanda dell’investigatore, egli si volge in macchina sotto shock, e si dirige verso l’orrore della stanza dei figli. Qui compare il bordone elettronico che si fa più presente quando Marcello va verso il
balcone in cui aveva avuto il suo ultimo dialogo con l’amico. Si percepisce
chiaramente, nel “testamento” registrato di Steiner, il dilemma morale,
esplicato nel concetto di “altezza” e “bassezza” e nella metafora della guglia
gotica. Steiner è un personaggio gotico, e la sua austerità quasi sacrale (di
una sacralità tutta diversa da quella della Roma papale) restituisce in pieno
quel senso di conflitto e sublimazione tra bene e male, paradiso e inferno,
tipico delle cattedrali gotiche.114 Steiner è il diavolo (così si autodefinisce lui
stesso) che suona Bach all’organo della chiesa dove avviene il primo incontro
tra lui e Marcello.
Già, l’organo. Mi si conceda a questo proposito una possibile forzatura
interpretativa, se cerco un legame tra quell’organo e l’unica sequenza elettroacustica che rimane fuori dal computo, proprio quel bordone da me tanto
stigmatizzato all’inizio di questo paragrafo, che “accompagna” la lite tra
Marcello ed Emma. L’organo della chiesa subisce, sotto le mani di Steiner,
una metamorfosi timbrica che mette in cortocircuito il sacro e il profano. In
un primo momento è un’organo jazz, dal tipico suono tanto in voga in quegli anni, che Rota ama inserire spessissimo nelle sue musiche. Steiner improvvisa un frammento ballabile,115 prima di interrompersi e chiedere a
Marcello di poggiare le mani sulla tastiera.116 «Che voce misteriosa, sembra
venire dalle viscere della Terra», osserva. Questo registro dell’organo, prima
che si trasformi per simulare il ripieno “a canne” consono alla Toccata e fuga
in Re minore, si lega inevitabilmente al timbro che ascoltiamo nella lunga sequenza della lite con Emma, e forse non è un caso che sia proprio Marcello
a produrlo. Di nuovo saremmo alle prese con una reminiscenza inconscia –
Marcello (Federico) collega il tentativo di rottura con Emma alla presa di
coscienza avvenuta a casa di Steiner e Rota ci restituisce subliminalmente il
“colore” sonoro del primo incontro in chiesa – e con un presagio sinistro –
quel cluster perturbante anticipa come un nodo in gola la ben più dolorosa
Kezich attribuisce a Pier Paolo Pasolini, consulente di Fellini per la difficile decisione sull’attore che interpreterà Steiner (in ballottaggio ci sono Enrico Maria Salerno e Alain Cuny, che poi avrà la parte), il paragone tra la presenza di Cuny e quella
di una cattedrale gotica; 2002, p. 198.
115 N. 22, Chiesa (jazz organo); SALA 2009b.
116 N. 23, Chiesa (accordi); ibid.
114
193
Maurizio Corbella
consapevolezza raggiunta da Marcello il giorno dopo sul luogo della
tragedia.117
Non abbiamo neanche finito di spendere paragoni impe- VI.2 La valigia del mago: il repergnativi e costruire ampie parabole interpretative su una sempli- torio di “trucchi” sonori di Fellini
ce dissonanza, che già ci troviamo di fronte alla necessità di
rimescolare le carte. Ma, d’altronde, questo significa avere a che fare con il
cinema di Fellini, dove nulla è mai dato per definitivo, dove tutto si ripete e si
rimette in circolo, travisato, mascherato, contraddetto.
Il bordone elettronico, faticosamente assurto a nodo simbolico-concettuale fondamentale della Dolce vita, ci sorprende tornando tale e quale nei
due lungometraggi successivi, 8 ½ e Giulietta degli spiriti. Il regista Guido Anselmi visita il cantiere dell’astronave che si sta allestendo sulla spiaggia di
Fregene per il suo film; ancora una volta, per i sei minuti e rotti della sequenza siamo accompagnati dal bordone elettronico. Il medesimo evento
sonoro ha poi una presenza a tratti “pervasiva” in Giulietta degli spiriti, dove
ricorre in ben quattro occasioni. Se non fosse per tutto l’inchiostro consumato, saremmo tentati di tornare alla buona e vecchia ipotesi a) del riempitivo
sonoro. Eppure, lo stimolo ad andare avanti sulla strada tracciata rimane,
anche perché, al di là di quello che, se non proprio felliniano, è diventato
almeno il leit motiv di queste pagine, i due film successivi alla Dolce vita configurano l’ambito elettroacustico come una vera e propria risorsa espressiva.
Si profila un repertorio di suoni che diventano essi stessi ricorrenti, una biblioteca (per mutuare un concetto dalla terminologia hollywoodiana) alla
quale evidentemente regista e compositore attingono per necessità drammaturgiche.
Dopotutto, le assonanze tematiche tra la scena della lite della Dolce vita
e le occorrenze del bordone in 8 ½ e Giulietta degli spiriti sono abbastanza
evidenti. Nella sequenza dell’astronave avvengono due importanti dialoghi
incrociati, tra Guido e l’amica di famiglia Rossella, e tra la moglie Luisa e il
suo confidente-pretendente Enrico, che ancora una volta pongono al centro,
anche se organizzata in una struttura narrativa più intricata, una crisi di
coppia che lascia emergere il dilemma esistenziale del protagonista, e che
darà luogo alla lite tra i coniugi nella sequenza successiva. In Giulietta la crisi
coniugale è addirittura il motore narrativo della vicenda, il che giustificherebbe l’ampio ricorso alla soluzione sonora. Ma le reminiscenze intertestuali
non finiscono qui, poiché la pulsazione ritmico-percussiva avvertita nell’in117 Il
bordone simil-organistico come presagio di morte sarà importante anche in Toby
Dammit, film nel quale l’atmosfera da “discesa agli inferi” è esplicitata in modo tale,
per prendere a prestito un’idea di Tullio Kezich, da configurarsi come ideale approfondimento del tema escatologico proposto nella Dolce vita; cfr. 2002, p. 277.
194
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
quadratura dei letti dei bambini di Steiner, è del tutto analoga nel carattere
(benché più veloce) a quella che apre 8 ½, accompagnando il sogno iniziale
di Guido; stavolta, però, il carnet del programma musicale del film118 si pronuncia più dettagliatamente a riguardo, identificando la percussione con i
timpani, dunque non un intervento propriamente elettroacustico, ma alle
soglie del bruitismo. A livello sonoro, quindi, nel confronto tra i due film accade ciò che è intuibile sotto il profilo contenutistico: 8 ½ raccoglie il testimone della Dolce vita nel suo tratto più intimista e lirico e ne ribalta le proporzioni;119 laddove nel turbinio di eventi “corali” della Dolce vita affiorava il
dramma dello svuotamento morale e intellettuale del mondo di Marcello, in
8 ½ la “dolcezza” della vita non ha più bisogno di essere increspata e sfatata, semmai è essa che fa capolino, in una veste totalmente trasfigurata,
aprendo squarci in un flusso di coscienza dilagante fin dalle prime inquadrature del film.
La dolce vita rappresenta proprio il momento di una transizione verso
una dimensione narrativa che non ha più nulla dell’oggettività (neo)realista
che, pure in una cifra personalissima, aveva retto tutto sommato solidamente
nei film felliniani degli anni Cinquanta. Se in ognuno di questi, dallo Sceicco
bianco in poi, l’esile fabula si imperniava su una o più digressioni erratiche
che rappresentavano la vera chiave interpretativa, la cui dimensione espressiva virava sensibilmente il profilo “realistico” delle narrazioni verso l’orizzonte del sogno e del ricordo (entrambe dimensioni in cui, attraverso la rottura spazio-temporale degli equilibri narrativi, ai personaggi si rende manifesta la possibilità di essere diversi da come si è) dalle Notti di Cabiria in poi
(1958), il peso di tali digressioni diventa predominante. Ciò che nell’ultimo
film degli anni Cinquanta “conserva” la dimensione oggettiva è sostanzialmente il tipo di protagonista scelto, che, come già in La strada, rimane una
“maschera” fortemente caratterizzata, che aiuta lo spettatore a un’immedesimazione, ma mantenendolo contemporaneamente sulla superficie dell’introspezione psicologica. Le fattezze clownesche di Gelsomina e Cabiria (così
come di Alberto nei Vitelloni) consentono alle storie di risolversi nello straordiTrascritto in parte in MORELLI 2001, pp. 386-387. Inutile sottolineare che la consultazione dell’originale intero, da me non ancora attuata, porterà nuove considerazioni al mio ragionamento. La parte trascritta da Morelli aggiunge un ulteriore tassello al problema dell’identità autoriale di questo bordone e, come vedremo, degli
altri effetti elettronici sovrapposti ad esso, laddove Rota scrive «musica elettronica
mia» per la durata di 8’30’’, conteggio che fa tornare i conti tra i circa sei minuti di
bordone e il restante tempo degli effetti. Tutto ciò non risolve i dubbi relativi alla
paternità degli effetti elettronici, dietro i quali non sarebbe a mio parere troppo improbabile riconoscere la figura di Marinuzzi jr. Si tratta comunque di ricerche a uno
stadio troppo embrionale per fornire qualsiasi ipotesi d’attendibilità.
119 «Se La dolce vita è stata una rassegna di quadri d’ambiente, ora l’autore intende
concentrarsi sul personaggio»; KEZICH 2002, p. 229.
118
195
Maurizio Corbella
nario potenziale espressivo delle “maschere” di Giulietta Masina o di Alberto Sordi (esempio perfetto è la sequenza finale della Notti di Cabiria, in cui la
presa di coscienza della protagonista si realizza in quella complessa espressione mista di sorriso e pianto che meglio di tutte sembra sintetizzare il concetto di “dolce vita” di là da venire). Gli equilibri cambiano quando, con La
dolce vita e 8 ½, si realizza una ben più marcata sovrapposizione tra protagonista e autore. Analogamente a come era avvenuto con Moraldo Rossi nei
Vitelloni, l’alter ego del regista, rappresentato da Marcello Mastroianni, è il
contrario della maschera: la sua recitazione piana, la sua gamma espressiva
misurata e piena di contegno, ne fanno l’esatto opposto dei protagonisti
precedenti. 120 Marcello e Guido, nei due capolavori degli anni Sessanta, sono innanzi tutto personaggi propensi all’introspezione, segnati da una forte
disillusione e da un latente senso di colpa, in un certo senso generati dal prestigio raggiunto nel microcosmo disprezzato a cui appartengono, segretamente aspiranti a una dimensione artistica “assoluta” 121 (mentre al contrario
Wanda, Alberto, Gelsomina e Cabiria erano a loro modo innocenti e generosi nel loro “darsi in pasto” agli eventi, al punto da diventarne vittime);122
tutto ciò ha un riflesso immediato sotto il profilo narrativo: le “digressioni
erratiche”, sia che il protagonista si muova nello spazio (La dolce vita) che nel
tempo (8 ½), debordano, mentre la fabula si riduce ai minimi termini; allo
stesso tempo la vicenda si popola di una moltitudine di presenze che compensano anche visivamente e acusticamente, attraverso il trucco espressionistico che esagera le fattezze dei visi e l’accentuazione grottesca o pittoresca
degli eloqui, la “normale” umanità del protagonista.
È interessante a questo punto capire cosa accade sul versante sonoro.
Nei film degli anni Cinquanta il paesaggio “naturale” trascendeva il “qui e
ora” della fabula essenzialmente tramite il ricorso a un solo elemento sonoro: il vento, forse l’unica vera costante sonora di tutto il cinema felliniano,
che sopravvive anche alle sperimentazioni degli anni Sessanta. Puntuale, il
120 A questa gamma di personaggi può essere associato, per analogie caratteriali, il
divo interpretato da Amedeo Nazzari in Le notti di Cabiria.
121 «Guido, il regista, sta preparando un film inafferabile, ha al proprio fianco un
intellettuale, antipatico ma non stupido, che lo sospinge nell’abisso del dubbio smascherando la sua presunta impotenza creativa [...]. Il contraltare è rappresentato da
Maurice, un veggente da varietà [...] che leggendo nel pensiero del protagonista ne
estrae l’enigmatica formula “Asa Nisi Masa” (contiene la parola anima. Per questo
pagliaccio in frac fare spettacolo è l’unico modo naturale di esistere; ed è anche l’anello che lo lega al “Mistero”, quando riferendosi all’insondabilità dei giochi di magia assicura: “Qualcosa c’è...”»; KEZICH 2002, p. 237.
122 «Le figure femminili dei primi film di Fellini, così come quelle tratteggiate nelle
sceneggiature scritte durante l’apprendistato neorealista, sono spesso vittime (molte
di loro sono prostitute), ma non v’è dubbio che, quando confrontate con i loro partner maschili, il ruolo di portatrici di umanità in un mondo crudele e dominato dai
valori maschili risulta molto più importante»; BONDANELLA 1992, p. 309.
196
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
rumore del vento fa capolino in ogni film, raggiungendo, in casi estremi come Casanova, lo stato di onnipresenza praticamente incessante; sin dagli
esordi si fa carico delle componenti del vago, dell’indefinito, dell’onirico, che
si addicono alla trasfigurazione poetica dei ricordi, sovvertendo spesso le
“norme” della verosimiglianza.123 In quanto suggestione naturalistica, esso
concorre insieme ad altri elementi dell’ambiente visivo, su tutti la spiaggia e
il mare, a costruire il tipico paesaggio mentale felliniano in cui avvengono i
“cambi di dimensione”: pensiamo alla digressione sul set del fotoromanzo
nello Sceicco bianco, ai Vitelloni, al finale della Dolce vita, all’inizio e al finale di 8
½, alla prima visione di Giulietta, via via fino alla chiusa di Satyricon e all’incipit di Amarcord. Carica di tutte le caratterizzazioni psicanalitiche, ma anche
del simbolismo joyciano (come non pensare alla camminata sulla spiaggia di
Dublino che “genera” il flusso di coscienza di Stephen Dedalus nel terzo capitolo dell’Ulisse?), la spiaggia felliniana è un paesaggio liminale, reale in
quanto ricordo dell’infanzia riminese, fantastica in quanto sull’orlo del dissolvimento nel nulla e, dunque, della rigenerazione continua in qualcosa di
nuovo; è il luogo della possibilità, del cambiamento e della paura, ma anche
del ritorno a una condizione autentica ed essenziale, eterna. Il vento è perciò
l’espressione sonora, e insieme iconica, di quel turbinio di elementi, di quell’eterno soffiare che sottosta al cinema felliniano, del quale le singole vicende, i singoli film, sembrano essere materializzazioni temporanee ed effimere.
A partire da 8 ½ , e in più larga misura in Giulietta degli spiriti, il suono
del vento “migra” da un versante comunque naturalistico, anche se evocativo, a uno espressionistico. Il suo utilizzo è spesso sincronizzato con eventi
circoscritti, come l’apparizione di un personaggio o un’azione specifica: è
quanto accade nella sequenza iniziale di 8 ½, quando Guido avanza “volando” a braccia aperte sopra le vetture bloccate nell’ingorgo; oppure in Giulietta degli spiriti, in corrispondenza delle apparizioni dello spirito di Iris in altalena.
Il vento non è che un elemento, il più riconoscibile, di un repertorio
sonoro che si arricchisce notevolmente in 8 ½ e raggiunge con Giulietta degli
spiriti un’evidenza eclatante, prima d’essere sostanzialmente abbandonato da
Sul ruolo nel vento nelle sonorizzazioni felliniane rimando a un significativo
aneddoto raccontato dal tecnico del suono di La città delle donne: «In sala di registrazione [Fellini] era un improvvisatore. Per la scena della Città delle donne preparammo il
treno dell’inizio del film, i rumori del treno: bagno, corridoio, scompartimento. Lo
preparammo benissimo, in moviola coi nostri collaboratori: “qui metti questo, qui
metti un fischio....” Quando ci presentammo in sala di registrazione a Cinecittà, lui
disse: “va tutto bene, bravi, ma avete un anello di vento?”, “a cosa serve il vento?”
domandammo noi, e lui: “voi procuratemi un anello di vento”. Noi procurammo un
anello di vento e lui al posto di tutto quello che noi avevamo fatto mise solo il vento»;
tratto da The Magic of Fellini (r. Carmen Piccinni, 2001).
123
197
Maurizio Corbella
Satyricon in poi. Indispensabile, per individuare reti di ricorrenze e funzioni
drammaturgiche, redigere una sorta di sinossi riassuntiva come quella presentata nella TABELLA 6, che ha il merito di evidenziare una gamma di risorse sonore collocata in una zona grigia tra i consueti effetti rumoristici
ambientali e i numeri musicali, a sua volta internamente articolabile in una
virtuale tripartizione a seconda dell’orizzonte timbrico-funzionale d’appartenenza (concreto-bruitistico, elettronico, paramusicale).124 Gli effetti sonori
compaiono indicizzati da una lettera alfabetica che rende evidente la ricorrenza di alcuni di essi, e descritti sulla base delle loro caratteristiche “morfologiche” (bordone, effetto isolato, impulso ritmico), e di quelle timbriche (in
questo caso mi sono affidato a una descrizione acustica supportata da
un’analisi spettrografica che, lungi dal restituire le proprietà sonore, è però
utile a individuare certe analogie tra eventi sonori differenti).125
Dalla tabella sono stati esclusi, per evidenti motivi di spazio, suoni riconducibili a
precisi eventi atmosferici, come vento, fuoco, mare, ecc., ferma restando la tendenza
già rilevata a un loro utilizzo di tipo espressionistico, nei film considerati.
125 Annotazione metodologica: per ognuno di questi suoni si è proceduto a un isolamento digitale del segnale acustico dal supporto audiovisivo (dvd), alla normalizzazione, e a un’analisi spettrografica dei picchi di frequenza e delle forme d’onda tramite il software freeware Audacity. È doveroso precisare che un’analisi condotta con
strumenti professionali sui supporti originali magnetici o sulla pellicola cinematografica condurrebbe verosimilmente a risultati sensibilmente più approfonditi e definitivi
e, potenzialmente, correttivi rispetto a quanto qui presentato.
124
198
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Legenda: oltre a essere indicizzati da lettere alfabetiche, i suoni del repertorio elettroacustico sono contraddistinti da diversi colori, che vorrebbero categorizzarli entro ambiti di
appartenenza timbrico-funzionale. Le sfumature cromatiche stanno a indicare l’ambivalenza funzionale di alcuni suoni.
Paramusicale
Sintetico
Concreto-bruitistico
TABELLA 6: Il repertorio elettroacustico di Fellini
Film
Sequenza
Descrizione
morfologica
Descrizione
timbrico-acustica
La dolce
vita
“Visita di Marcello
da Steiner”
a: impulso ritmico
[1:23:31-1:25:15]
Pulsazione percussiva.
b: bordone
[2:11:46-2:16:30]
Cluster di frequenze, probabilmente di organo
elettrico, con leggero vibrato e un periodico movimento di basso su un
intervallo di quinta.
c: bordone
[2:20:01-2:21:20]
Di natura elettroacustica.
Timbro rarefatto nel registro medio-acuto, con
oscillazioni periodiche
d’intensità.
“Litigio tra Marcello ed Emma”
“Morte di Steiner”
199
Maurizio Corbella
8½
“Sogno iniziale”
d: impulso ritmico
[0:00:20-0:02:18]
Pulsazione percussiva di
timpani.
e: bordone
[0:01:15-0:02:14]
Rumore bianco filtrato a
ottenere un sibilo.
“Primo incontro
fortuito di Guido
col cardinale”
e [0:23:25-0:23:34;
0:23:52-0:24:19]
“Bagno termale e
visita al cardinale”
e [1:12:15-1:13:33]
f: bordone
[1:18:37-1:19:18;
1:19:58;1:20:18;
1:20:38-1:20:40]
“Visita al cantiere
dell’astronave”
b [1:19:01-1:25:10]
g: effetto
[1:19:39-1:19:54;
1:20:05-1:20:15;
1:21:24-1:21:35]
200
Suono di sintesi
Suono di sintesi
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Giulietta
degli spiriti
“Visione dello zatterone”
“Visita al santone
Bishma”
“Recita di Giulietta bambina”
e [0:19:49-0:20:08]
h: bordone
[0:20:05;0:21:19]
Suono di sintesi
i: bordone
[0:38:38-0:44:29]
Sibilo acuto, come prodotto da ventilatore.
e [1:09:57-1:12:12]
b [1:11:29-1:12:12]
“Prima visita di
Giulietta a casa di
Susy”
b [1:16:38-1:18:18;
1:19:49-1:20:22
“Incontro d’amore
di Giulietta nella
camera di Susy”
e [1:45:36-1:47:33]
f [2:05:58-2:06:16]
“Visione finale”
j: bordone
[2:06:17-2:06:35]
Suono di sintesi
k: figura ritmicomelodica
[2:07:07-2:07:22;
2:08:38-2:08:51]
Idiofono a percussione
non temperato, tipo gamelan.
e [2:07:37-2:08:28;
2:10:09-2:10:15;
2:10:32-2:10:38;
2:10:50-2:11:32]
l: effetto
[2:08:58-2:09:18]
Suono di sintesi
b’: [2:09:29-2:09:37;
2:09:43-2:09:48;
2:09:52-2:09:58]
Rispetto a b si differenzia
perché appare a intermittenza per brevi istanti.
k’: effetto
[2:10:09-2:10:32]
Filtraggio di k.
La personalità registica di Fellini è stata spesso accostata, a partire da
egli stesso, a quella dei maghi di varietà, così come dei clown, che popolano
le sue messe in scena: personaggi che giocano la loro performance su numeri
di efficacia sicura, anche se spesso proprio per questo di “basso artigianato”,
quasi che la messa in mostra di una cialtroneria di facciata sia l’unico modo
di rivelare “sotto il cerone” la dignità di un’arte onesta e senza fronzoli. È
201
Maurizio Corbella
nella dialettica tra la necessità di continuare a stupire e quella di smascherarsi sondando dimensioni profonde, che dobbiamo inquadrare l’utilizzo, che
talora diventa sfoggio, di risorse sonore elettroacustiche da parte del regista
riminese. I suoni che il mago estrae dalla sua “valigia” sono, alla stessa stregua del make-up eccessivo delle comparse e delle barocche ricostruzioni scenografiche, i “trucchi del mestiere” che gli servono a preparare il terreno al
numero eccezionale, «proprio come se dal lavoro artigianale [debba] scaturire la risposta a tutti i problemi».126 Il loro effetto, cioè, non è basato sull’originalità dei singoli “trucchi”, ma sull’organizzazione della loro successione, che conduce lo spettatore a inebriarsi nella dimensione «oniroide» 127
dei flussi di coscienza felliniani. Il regista fa nei riguardi dello spettatore né
più né meno di quanto il mago di varietà fa con Cabiria nel numero che determinerà la rovina della donna. Mette in fila una serie di trucchi, di bassa
lega se vogliamo, ma che incontrando l’innocenza della donna rivelano la
sua natura estremamente fragile e indifesa, la sua bellezza; è a quel punto
che il mago capisce di essere andato troppo oltre, e spegne l’illusione come
l’aveva accesa. Ma c’è di più. Esattamente come succede negli spettacoli illusionistici, non si punta all’annullamento della coscienza dello spettatore tramite procedimenti quali l’immedesimazione, semmai si fornisce a quest’ultimo l’illusione di avere il controllo dei meccanismi, mostrando l’artificio,
cosa che Fellini fa spesso quando svela (anzi finge di svelare) il carrozzone del
set cinematografico. In altre parole si instaura un rapporto di ingannevole
complicità con il proprio spettatore, fingendo di fornirgli tutti gli elementi
per smascherare l’inganno e, nel momento più opportuno, aggirarlo con un
colpo di scena, che nel caso di Fellini coincide con la “rivelazione” della natura profonda e contraddittoria del proprio personaggio.
Il bordone b, mescolato con le sonorità elettroniche f e g, di sicura
connotazione fantascientifica, potrebbero perciò essere interpretati come i
mezzi attraverso i quali si giunge all’estremo atto di confessione in 8 ½ . Nel
momento chiave del film, il numero di repertorio non si vende per ciò che
non è: dichiara, nella sua lunghezza spropositatamente uguale a se stessa, la
sua bellezza posticcia, tutto quello che rimane in mano al clown, che non
potrebbe diversamente mostrare la sua natura tragica, se non facendo la
pernacchia. Quando il Commendatore, produttore di Guido, enuncia tronfio a coloro che visitano il set dell’astronave i tratti da kolossal apocalittico del
suo film che non vedrà mai la luce («La sequenza comincia con una visione
del Pianeta Terra completamente distrutto da una guerra termonucleare [...]
126 KEZICH
127 SALA
202
2002, p. 238.
2009b.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
ecco la nuova Arca di Noè, l’astronave, che tenta di salvarsi dalla peste atomica»), Rossella – nel ruolo di spettatore interno che si sta giusto chiedendo
se il regista pecchi di cattivo gusto – punzecchia Guido dicendogli: «Ma va!
Davvero vedremo tutta questa roba nel tuo film? Mamma mia, il profeta fa
la voce grossa, si è messo in testa di far paura a tutti quanti!». Il tono provocatorio di Guido potrebbe ugualmente stare in bocca a Fellini in risposta al
critico che gli chiedesse cosa ci fanno tutti questi suoni da fantascienza in un
film come il suo: «Perché, anche a te ti entusiasmano le storie in cui non succede niente? Nel mio film invece succede di tutto, guarda un po’... ci metto
dentro tutto [...]»; e, già che c’è, chiama un pescatore che passa di lì a ballare un improbabile “tip tap”. Solo a questo punto può arrivare la vera confessione del protagonista, che suona estremamente toccante nella misura in cui
ci trova completamente impreparati, raggirati come siamo stati dai trucchetti audiovisivi del prestigiatore; il “mago” ci ha fatto credere di essersi perso,
quando invece ci ha “tenuto in pugno”, per il suo colpo di scena: la
sincerità.128
Mi sembrava di avere le idee così chiare. Volevo fare un film onesto, senza
bugie di nessun genere, mi pareva di avere qualcosa di così semplice da dire,
un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che ci aiutasse a seppellire per
sempre quello che di morto ci portiamo dentro... e invece io sono il primo a
non avere il coraggio di seppellire proprio niente: adesso ho la testa piena di
confusione, questa torre fra i piedi... chissà perché le cose sono andate così, a
che punto avrò sbagliato strada... non ho proprio niente da dire, ma voglio
dirlo lo stesso.129
VI.3 Giulietta degli spiriti,
orrvero il miracolo dell’esistenza
nuda
Pur non mutando nella sostanza i grandi temi già affrontati nei
film precedenti, in Giulietta degli spiriti Fellini vira sensibilmente la
sua prospettiva, approfondendo un filone che era solo marginalmente emerso in La dolce vita e 8 ½: il problema del rapporto tra realtà e
visione è sviscerato con un’attenzione spasmodica al momento percettivo,
mettendo in collisione le sue ricadute estetiche, sociali, psicologiche, e persino scientifiche. Come noto, si tratta del primo approdo del regista al colore,
A proposito di 8 ½, Kezich così si esprime, rendendo chiaro il ruolo degli artifici
cinematografici come strumenti di preparazione e insieme di creazione di una sincerità costruita: «Un film in cui il personaggio dovrà raccontare se stesso con la massima sincerità. Un film da inventare totalmente affidandosi alla fantasia costumistica e
scenografica di Gherardi, alle musiche di Rota, alla fotografia arrischiata di un nuovo
formidabile complice, l’operatore Gianni Di Venanzo [...]»; 2002, p. 232. E ancora:
«8 ½ è una delle opere più ammirate e amate dalla storia del cinema perché insegna
il coraggio (la difficoltà, lo sforzo, il dolore e la gioia) di dire “io”»; ivi, p. 234.
129 Dialoghi desunti dal film.
128
203
Maurizio Corbella
fatta eccezione per Le tentazioni del dott. Antonio, episodio di Boccaccio 70 (1962),
che ha in comune con Giulietta anche uno dei temi musicali. Come già era
accaduto un anno prima ad Antonioni con Il deserto rosso, la scelta del colore
è da porsi in stretta relazione con l’interesse per le fiorenti ricerche coeve
intorno agli stati alterati della percezione. Seguendo le orme di Aldous
Huxley,130 nell’estate del 1964 Fellini decide di fare diretta esperienza dell’acido lissergico (LSD), e per far ciò si rivolge a Emilio Servadio, presso il
quale era stato brevemente in cura a seguito della forte depressione che
l’aveva colpito al termine della Strada.131 L’esperienza è da intendersi intimamente collegata con la lavorazione del film e, in particolare, proprio con
la meditazione sul colore:
Fu un’esperienza abbastanza spiacevole. Non ricordo di aver provato una
sensazione speciale, ma il dottore mi diede una spiegazione con cui concordo. Egli sostiene che l’artista vive costantemente nell’immaginazione, a tal
punto che la barriera tra realtà sensibile e immaginazione è molto indefinita.
L’artista è sempre da entrambe le parti. [...] Tuttavia ricordo di aver provato
un’esaltazione riguardo al colore. Vidi i colori non come sono normalmente
– noi vediamo i colori negli oggetti, vediamo oggetti colorati; in quel caso
vidi i colori per quello che sono, distaccati dall’oggetto. Ho avuto per la prima volta il senso della presenza del colore.132
L’idea che il colore si manifesti nella sua essenza, privato delle sue connessioni con gli oggetti, ciò che Huxley chiama «il miracolo dell’esistenza nuda», 133 è parte integrante di un processo che estremizza ancora di più la
tendenza espressionistica della rappresentazione felliniana, e aiuta ad avvicinare il racconto della realtà a una visione perpetua in cui prevalgono le caratteristiche puramente sensoriali sull’elaborazione intellettuale; infine si salda
130 Huxley, come è noto, si sottopose a somministrazione di mescalina e raccolse le
sue riflessioni nel celebre saggio The Doors of Perception (1954), estremamente influente
sulla psichedelia figurativa e musicale degli anni Sessanta (oltre a essere fonte del
nome dei Doors di Jim Morrison). Che Fellini avesse tratto ispirazione dal saggio di
Huxley è testimoniato da egli stesso in FELLINI-BBC [1965].
131 L’esperienza d’analisi negativa con Servadio nel 1954 segna di fatto l’allontanamento dalla psicanalisi freudiana e l’approdo a quella junghiana; Fellini intraprende
un lungo periodo di analisi con Ernst Bernhard, che si concluderà soltanto con la
morte dell’analista proprio nel periodo di conclusione di Giulietta degli spiriti (29 giugno 1965, il film uscirà nelle sale il 22 ottobre); cfr. KEZICH 2002, pp. 249-250, 390395; sul rapporto tra Fellini e la psicanalisi, cfr. CAMON 2007.
132 FELLINI-BBC [1965]; la traduzione dall’inglese è mia, ma in questo caso non riporto l’originale, dato che è ben noto il “singolare” modo di esprimersi in inglese di
Fellini.
133 HUXLEY 1954, p. 13.
204
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
precisamente con il nucleo contenutistico di Giulietta, incentrato sulle capacità medianiche della protagonista.
Come i consumatori di mescalina, molti mistici percepiscono colori di uno
splendore soprannaturale, non soltanto con l’occhio interiore, ma anche nel
mondo oggettivo che li circonda. Descrizioni simili vengono rese dai soggetti
medianici e ipnotici. Vi sono alcuni medium per i quali la breve rivelazione
del consumatore di mescalina è questione, per lunghi periodi, di esperienze di
ogni giorno e di ogni ora.134
Il suono si comporta in Giulietta esattamente come il colore. Quanto affermato precedentemente sui suoni che si presentano sempre più svincolati dai
loro referenti semantici, trova in questo film un’applicazione quasi ossessiva.
Essi diventano elementi cardine della visione felliniana, e ancor di più delle
“visioni nella visione” di Giulietta. Non c’è contraddizione con il loro carattere posticcio, dato che esso fa parte integrante della logica “barocca” della
rappresentazione, che il colore non fa che accentuare.
Le visioni spiritiche di Giulietta sono impostate su un completo appiattimento della prospettiva sonora, procedimento che si trova già in nuce in
alcune sequenze oniriche di 8 ½ : le voci compaiono sovente in primissimo
piano, quasi sussurrate nello “orecchio dello schermo” e dissociate dai personaggi ai quali sarebbero ricondotte dalla logica dello spettatore, i rumori
atmosferici (come il vento, il fuoco o il mare), para-atmosferici (come il sibilo
di rumore bianco filtrato, indicato nella mia sinossi con la lettera e), sintetici
o para-musicali si susseguono come epifanie acustiche, alla stregua dei personaggi che popolano l’universo subconscio di Giulietta; su tutto ciò regna
un silenzio completamente surreale, il silenzio del cinema muto. L’eco di
quanto osservato da Huxley nella sua esperienza psichedelica è, ancora una
volta, diretto:
[...] i rapporti di spazio avevano cessato di avere gran peso e la mia mente
percepiva il mondo in termini diversi dalle categorie di spazio. [...] Posto e
distanza cessano di avere grande interesse. La mente percepisce in termini di
intensità di esistenza, profondità di significato, relazioni entro uno schema.
[...] E con l’indifferenza per lo spazio venne un’indifferenza ancora più completa per il tempo. 135
134 Ivi,
135 Ivi,
pp. 21-22.
pp. 15-16.
205
Maurizio Corbella
Le visioni felliniane diventano dunque interessanti dal punto di vista audiovisivo per l’organizzazione che impongono alla materia spazio-temporale del
film. Fellini riesce, ancora una volta attraverso la sapienza artigianale del
prestigiatore, più che grazie alla fattura dell’effetto speciale, ad accompagnare lo spettatore entro prospettive spazio-temporali diverse, servendosi per far
ciò ampiamente della componente sonora, intesa in un orizzonte di completezza che ha molto in comune con le contemporanee esperienze di sperimentazione elettroacustica alla radio. Come si può facilmente notare nelle
due tabelle in coda al paragrafo, analisi audiovisive rispettivamente dell’incipit di 8 ½ e della prima visione complessa di Giulietta, il regista preferisce
presentare i fenomeni sonori uno alla volta, economizzando sulle sovrapposizioni e orientando altresì l’attenzione dell’orecchio. Particolarmente significativo è il ruolo di cornice svolto dalla musica di Rota nella visione di Giulietta: il brano che precede la visione, Vascello di Susy, si chiude con una coda
rarefatta, accentuata dalla riverberazione del wood block e del colpo finale del
gong, che sembra introdurre teatralmente, o se si preferisce ritualmente, gli
sviluppi successivi;136 la musica tace per tutta la sequenza, per poi riprendere
bruscamente con il brano Amore per tutti, che aveva aperto titoli di testa, in
sincrono con il rinsavimento di Giulietta, che con un sospiro sembra volersi
tranquillizzare. Il procedimento di escludere la musica dalle manifestazioni
spiritiche più evidenti è mantenuto per tutto il film, con la conseguenza più
evidente di stabilire due ritmi diversi, il primo della vita, scandito dai ritmi
ballabili dei temi rotiani che naturalmente però sono intrisi di “fughe” verso
l’inconscio e di reminiscenze interne, il secondo della visione, che sembra
fuori dalla dimensione temporale. A differenza di altri procedimenti visionari coevi, ad esempio quelli di Petri in Un tranquillo posto di campagna, non c’è
un senso di precipitazione convulsa del tempo, che sottende dinamiche di
suspence o comunque di accumulo di tensione, bensì prevale un senso di sospensione a-temporale, contemplativa, e tuttavia non estatica, non serena.
Giulietta non arriva a un’accettazione dei suoi spiriti come parte del
suo bagaglio psicologico, è costantemente alle prese con un senso di colpa
che, dopotutto, non è alleviato neanche nel finale in fuga sulla mongolfiera
del nonno. Forse per questo Giulietta degli spiriti è un film che non risolve, ma
semmai apre un’indagine spirituale, riguardante grandi temi escatologici
come la morte e la morale, destinati a diventare il nocciolo concettuale di
Quello del gong è anche il suono che sancisce l’inizio e la fine dei numeri ipnotici
del mago delle Notti di Cabiria. Nel raccontare lo scarso interesse nutrito da Fellini nei
confronti della materia musicale, Kezich riporta l’aneddoto secondo il quale «da
bambino ha visto I cavalieri di Ekebù di Zandonai in braccio al nonno, in un palco a
picco di un enorme gong che qualcuno pestava»; KEZICH 2002, p. 319.
136
206
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
quel progetto irrealizzato, e probabilmente irrealizzabile, che è Il viaggio di G.
Mastorna. Con la difficile e contrastata archiviazione del progetto, coincisa
anche con una grave crisi psicofisica personale,137 ne esce un Fellini diverso,
che sarà in grado di aggirare (e arginare) tali grandi temi attraverso un tentativo di distacco oggettivo, che sa di ricorso all’archetipo. Gli approdi pseudoletterari di Toby Dammit, Satyricon e Casanova sublimano l’“incubo” del soggettivismo e al contempo consentono all’autore di perseguire nuovi e stimolanti
percorsi formali.
Non sarà forse un caso che quel repertorio elettroacustico di importanza così crescente nei primi tre lungometraggi degli anni Sessanta si disintegri esplodendo letteralmente in Satyricon, spersonalizzando completamente
il gesto creatore (non più trucchi sonori osservabili uno per uno, non più il
susseguirsi di reminiscenze rotiane) in un oceano “etno-elettronico” onnivoro, senza lasciare traccia di sé nelle successive realizzazioni felliniane.138 Dopo, sopravviveranno solo quegli effetti ambientali dalla storia più antica rispetto alla Dolce vita, come per esempio il vento, ritenuti sufficienti per una
più matura, ma forse anche ridimensionata, vena creativa.
Legenda: Le fasce cromatiche corrispondono alla
durata degli eventi sonori; per quelli appartenenti
al “repertorio elettroacustico” enunciato in TABELLA 6, ho mantenuto i colori usati in quell’occasione. Per tutti gli altri la scelta dei colori è puramente distintiva.
Abbreziazioni
• a/b; b/a
• Carr. • CL • CLL • CM • Dett. • Diss. (inc.)
• dx/sx; sx/dx
• Est. • FI
• F.c. • Int. • Mdp • MF • MP • PA • Pan. • PP • PPP • PR • Tot. alto/basso; basso/alto
carrellata
campo lungo
campo lunghissimo
campo medio
dettaglio
dissolvenza (incrociata)
destra/sinistra; sinistra/destra
esterno
figura intera
fuori campo
interno macchina da presa
mezza figura
medio piano
piano americano
panoramica
primo piano
primissimo piano
piano ravvicinato
totale
137 KEZICH
2002, pp. 258-272.
La complessità della stratificazione musicale di Satyricon, con tutte le problematiche filologiche e tecniche che si possono intuire, impone un rimando a prossime ricerche che si stanno compiendo, ma che non consentono allo stato attuale di approfondire l’argomento. Senz’altro il film è una delle interpretazioni più personali e affascinanti del rapporto tra musica elettroacustica e audiovisione negli anni Sessanta.
Limitandomi a rimandare, per un inquadramento delle questioni relative al film, al
contributo di Emilio Sala di prossima pubblicazione (2009a), spero che il presente
lavoro di ricerca e analisi costituisca una base metodologica preliminare sufficiente
per un inquadramento di una drammaturgia del suono in Fellini.
138
207
Maurizio Corbella
TABELLA 7: Incipit di 8 ½
Tempo
Inq.
Descrizione inquadrature
0:00:12
1
Titoli (corpo bianco su fondo
nero): «Angelo Rizzoli presenta
(diss.)
8 ½ di Federico Fellini»
0:00:25
2
Est./Giorno: Diss. Sotto la tettoia
di un tunnel o garage. Mdp
posizionata sul retro esterno
dell’autovettura di Guido (al
volante, MF di spalle) che, ingorgata tra altre auto, procede a
passo d’uomo sullo sfondo si
intravvede che la coda prosegue
a perdita d’occhi.
Mdp si avvicina leggermente a
Guido.
0:00:42
3
Dolly bdx/asx: Mdp percorre
l’intera larghezza del tunnel,
fino al Tot. dal retro delle automobili ferme.
0:00:53
4
Int. auto di G.: PPP di G. (di
spalle) dall’interno della vettura.
Voci e rumori di
doppiaggio
Sonorizzazione
d
Pan dx/sx: seguendo il movimento della testa di G., a inquadrare: 1) un uomo coi baffi
sulla vettura limitrofa che guarda G. 2) Una donna semiaddormentata al volante della
stessa auto (G. esce di c.).
Pan sx/dx: percorso inverso, si
lascia il PPP di G. sulla sx e inquadra dett. della mano di G.
che pulisce il parabrezza con un
panno.
Mdp verso dx fino alla MF di
due persone nell’automobile alla
destra della vettura di G..
Mdp verso sx: dett. del cruscotto
all’altezza del sedile del passeggero: del vapore bianco entra
nell’auto di G.; dett. della mano
di Guido che armeggia sul cruscotto; PPP di G. (di spalle) che
si agita cercando di uscire dall’auto.
208
e
Gemiti di G.
Rimbombo dei colpi di
G. contro le pareti
dell’auto.
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
0:01:28
5
Est.: in PP tre auto con i passeggeri immobili; sullo sfondo un
autobus con i passeggeri immobili, le braccia a penzoloni fuori
dal finestrino e i volti nascosti
dalla parete dell’autobus.
Gemiti di G.
0:01:33
6
Est.: PP di G. di spalle che si
agita cercando di uscire.
Gemiti di G.
Mdp verso bdx: PP di G. che si
china verso il posto del passeggero cercando di aprire l’altra
portiera.
Mdp verso dx: PP del produttore di G., sull’auto accanto che,
sporto dal finestrino lo guarda
impassibile.
Pan dx/sx in allontanamento:
MP di G. allungato verso il finestrino posteriore della vettura
che batte cercando di uscire.
0:01:56
7
Est.: MP di Carla e del direttore
di prod. che palpeggia la donna,
in un’altra vettura.
Pan sx/dx arretrando: inquadrata l’auto che sta dietro la
vettura di G. con due persone
dentro, PP del piede di G. dentro l’auto, ormai satura di fumo.
G. ha trovato un varco attraverso il finestrino, dalla parte opposta dell’inquadratura.
0:02:13
8
MF di G., di spalle, si arrampica
sul tetto dell’auto.
0:02:18
9
Est.: PPP dall’alto di una persona dentro una macchina, guarda verso dx con area severa;
sullo sfondo, sfuocato, un volto
femminile.
Rimbombo dei colpi di
G.; strofinio dei polpastrelli sul vetro del
finestrino.
Strofinio dei polpastrelli...
Rimbombo dei colpi
Rimbombo dei colpi
Gemiti di G.
Zoom out, Pan b/a: MP del
conducente dell’autobus e di
una signora al suo fianco.
Carr. in avanti: FI di G. di spalle, a braccia aperte avanza come
volando sopra i tetti delle auto.
209
Maurizio Corbella
0:02:25
10
Vento
Est:: Pan b/a: dal dett, delle
ginocchia di G. (di spalle) al suo
PP dal basso in controluce.
Carr. sx/dx: G. avanza sempre
come volando uscendo f.c. a dx.
Diss. inc.
0:02:34
11
Est./Giorno: FI dal basso di G.
(di spalle) sospeso nel cielo, le
nuvole di sfondo e del fumo
bianco, come di nuvole trafitte
dal corpo di G., attraverso l’inq.
Diss.
0:02:38
12
Est./Giorno: Cielo; Mdp avanza
fluttuando andando incontro
alle nuvole in controluce. Diss.
0:02:42
13
Est./Giorno: CM: si intravede la
cima del cantiere dell’astronave
avvolta nella foschia. Mdp
avanza fluttuando. Diss.
0:02:45
14
Est./Giorno: Spiaggia. CL: l’avvocato cavalca da sx a dx, avvicinandosi.
Pan sx/dx: Mdp segue il cavaliere fino al CM, lasciandolo f.c.
a sx.
UOMO (f.c.): «Avvocato l’ho
preso»
MF dall’alto di un uomo,
sdraiato sulla sabbia.
Pan bdx/asx: MF dell’uomo che
si mette in ginocchio, tirando
una fune dal cielo.
AVVOCATO:
«Ehi...
Giù, vieni giù»
Zoom in fino a PP dal basso
dell’uomo che tende la corda
guardando in alto (sullo sfondo
anche l’avvocato guarda in alto).
0:02:59
15
CLL dall’alto: in primo piano
dett. della gamba di G., con
l’estremità della fune legata alla
caviglia. Sullo sfondo la spiaggia
con l’uomo dall’altro capo della
fune e l’avvocato poco lontano.
0:03:02
16
CM dall’alto: l’uomo in piedi
armeggia con la fune.
0:03:04
17
Come 15: dett. della mano di G.
che cerca di liberare la caviglia
dalla fune.
210
Risata dell’uomo
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
0:03:06
18
Zoom in: da PP a PPP del volto
dell’avvocato che legge un taccuino.
AVVOCATO: «Giù
definitivamente»
[riverberazione sulla
sillaba finale]
0:03:07
19
CLL dall’alto: sullo sfondo il
mare. Guido precipita da dx,
sempre appeso alla fune
Lungo gemito ispirato
di Guido
TABELLA 8: “Visione dello zatterone” in Giulietta degli spiriti
Tempo Inq
0:19:09
Descrizione
inquadrature
109 Est. giorno: Spiaggia:
MF di Giulietta: porge
un asciugamano e una
crema solare alla domestica che esce a sx.
Mdp si avvicina fino a
PP di Giulietta: toglie
gli occhiali, si guarda
allo specchio; sullo
sfondo a dx fuori fuoco
le nipotine e la badante
sedute sulla sabbia.
G. guarda f.c.
0:19:27
110 CL: in fondo, la postazione di Susy, seduta
appena fuori dal suo
“baldacchino” scosso
dal vento, attorniata da
due accompagnatori
0:19:32
111 Come 109: G. si appoggia allo schienale
della sdraio. Mdp si
avvicina fino a PPP.
G. chiude gli occhi e
china il capo in avanti
addormentata; il volto è
coperto dal copricapo.
0:19:53
Voci e rumori di
doppiaggio
DOMESTICA (f.c.):
«Vado a fare il
bagno, signora»
Sonorizzazione
Mare
Musica
Il vascello di Susy
DON RAFFAELE
(f.c.): «Eh... la nostra simpatica Giulietta che vede
sempre arcani
dappertutto»
G. Ride
BADANTE (f.c.)
[racconta una fiaba in
francese alle bambine]:
«[...] robustes et
laborieux [...]
Et le femmes [...]»
gong
e
112 CM: Occhio di lince,
indossando una vestaglia rossa e una bombetta sta uscendo dal
mare, tirando sulla spalla una fune.
211
Maurizio Corbella
0:19:57
113 Come 111: G. geme
muovendo la testa, addormentata.
Gemiti di G.
0:20:03
114 Come 112: G. entra in
campo da sx, guardandosi intorno smarrita.
Odl. le porge la fune ed
esce di campo a sx. G.
comincia a tirare la
fune.
OCCHIO DI LINCE:
«Giulietta, mi aiuti
per favore... sono
vecchio... del resto,
riguarda proprio
lei.
0:20:21
115 PP: G., il volto coperto
dal cappello, tira la
fune, arretrando. Mdp
avanza.
0:20:25
116 CL: il mare tranquillo e
la linea dell’orizzonte.
Da sx entra in campo,
galleggiando una specie
di imbarcazione.
0:20:34
117 Come 115: G. finisce
affaticata di tirare e
solleva la testa, guarda
f.c. sorpresa e turbata.
0:20:39
118 CM: il mare tranquillo.
L’imbarcazione è ferma
parzialmente in campo
a sx. Al centro del
campo c’è una zattera
galleggiante con due
cavalli in piedi e un
cavallo morto a pancia
in su. Mdp avanza lentamente.
0:20:46
119 PP: l’imbarcazione
schiude il suo arrugginito scafo, lasciando intravedere delle persone
immobili alcune delle
quali seminude. Mdp si
avvicina lentamente.
0:20:54
120 PPP: G. spaventata
guarda la scena.
0:20:56
121 CM zatterone. Zoom in
e Pan dx/sx in PR sugli
individui sulla barca.
212
h
rumori di sfregamento
rumori di sfregamento
Vento
G.: «Dottore...
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
0:21:01
122 Come 120: Pan sx/dx
lasciando G. f.c. sulla
sx. In CL, infondo alla
spiaggia c’è Don Raffaele seduto su una sedia che scuote la testa
in maniera automatica.
0:21:07
123 CM zatterone. Sulla dx
una donna e un uomo
seminudi, l’uomo imbraccia una spada; dietro di loro un uomo
vestito di tutto punto.
Sulla sx in primo piano
le gambe di un gigante.
Pan a/b e sx/dx: un
uomo nuota sott’acqua
e un altro si è portato,
armato, sulla zattera
dei cavalli.
0:21:13
124 PP: un guerriero dalle
fattezze orientali (di
spalle) gira il volto verso
la Mdp minaccioso.
Sullo sfondo si intravedono altri guerrieri.
0:21:15
125 CM: G. (di spalle)
cammina a lunghi passi
misurati sulla spiaggia
0:21:22
126 CM: la testa di un
guerriero emerge dall’acqua, mentre sullo
sfondo si la zattera
gremita di guerrieri
immobili in assetto bellicoso solca il mare da
dx a sx. Improvvisamente il guerriero nell’acqua emerge con una
lancia pronto all’attacco.
0:21:29
127 PP: G. sulla sdraio si
sveglia di soprassalto.
Dopo un attimo in cui
rimane spaventata,
si rilassa rassicurata che
fosse tutto un sogno.
...Dottore aiuto!»
Aer
opla
no
Amore
per tutti
[...]
213
Appendice I
Conversazione con Federico Savina
Federico Savina (Torino, 1935) da molti anni insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma; è lì che mi diede appuntamento nel marzo
del 2009. Al mio arrivo, ebbi l’onore di assistere a una delle sue “lezioni”: si
stava affrontando la fase di post-produzione del cortometraggio che avrebbe
costituito l’esame di diploma di uno degli allievi del Centro. Il giorno prima,
a L’Aquila, erano state effettuate le registrazioni della musica, e quel pomeriggio si trattava di fare la scelta dei takes migliori con il relativo editing. In
studio, Savina – al centro, con il giovane regista alla sua sinistra e il giovane
compositore alla sua destra – si trovava in una situazione analoga a quanto
era successo nella sua vita ogni giorno da quel momento del 1959 in cui era
entrato alla Fonolux ad affiancare Paolo Ketoff. In quel momento, in cui dirigeva i suoi allievi con mano sicura, ma al contempo con la discrezione e il
rispetto che si deve agli artisti, sceglieva con cura forma e parole per indirizzare senza frustrarle le decisioni di coloro che alla fine avrebbero firmato
come autori quell’opera, non era difficile immaginarlo tra Rota e Visconti,
tra Argento e Morricone, tra Losey e Macchi, o tra Fusco e Antonioni, giostrarsi tra sinergie e tensioni inevitabili, svolgere un ruolo di mediatore essenziale tra i linguaggi tanto distanti che rendono il cinema così affascinante.
Questa fu la prima vera lezione, di cui sono grato a Federico Savina: avere
reso evidente ai miei occhi, attraverso le azioni che fanno parte del suo quotidiano, quale delicato equilibrio si instaura tra individualità forti nelle fasi di
Maurizio Corbella
lavorazione di un film e, nello specifico, quale immensa ipoteca la post-produzione sonora pone sulla riuscita finale dell’opera. Ciò ha rafforzato in me
la convinzione che conoscere le condizioni di produzione di un film, le dinamiche interne tra le personalità che concorrono alla sua realizzazione, sia
metodologicamente imprescindibile per chi si interessa di questi argomenti
nei suoi studi.
La seconda, più importante lezione, Savina me la diede qualche minuto dopo. Quando, accomodatici nel suo studio, avremmo dovuto cominciare
il nostro colloquio, egli si interruppe dicendomi qualcosa del tipo: «Vede,
quando insegno, così come quando lavoravo con i maestri di cui dovremmo
parlare, io mi emoziono sempre molto. Lei mi sta chiedendo di ricordare
una parte importante della mia vita, ma io ora non me la sento di fare questo sforzo, sono un po’ stanco». E mi invitò a casa sua per il giorno successivo, per una conversazione che sarebbe durata circa cinque ore, nel tentativo
di ripercorrere sul filo della memoria circa vent’anni di vita. La seconda lezione di quel pomeriggio consisté nel fatto che per la prima volta fu per me
lampante come la Storia e la vita siano due entità irriducibili una all’altra.
Avevo messo Savina nella singolare condizione di pensare alla propria vita
non come esperienza intima, personale, contraddittoria, ma come Storia.
Ciò metteva senz’altro alle strette il mio ragionamento, fatto di date, nomi e
pregiudizi, di fronte al suo racconto fatto di persone vive e ricordi.
I temi cardine della nostra conversazione il giorno seguente furono la
sua esperienza di apprendistato con Paolo Ketoff alla fine degli anni Cinquanta, il suo rapporto con Gino Marinuzzi jr. e lo stato della tecnologia
elettronica negli stabilimenti di sincronizzazione, e moltissime altre questioni
delle quali non ho dato resoconto scritto, se non indirettamente nei miei ragionamenti. Tuttavia, per quanto il nostro incontro fosse registrato, la sua
trascrizione letterale è un’operazione pressoché impossibile: nel tentativo di
rendere i toni e i tempi del dialogo accessibili alla lettura, mi sono presa più
d’una licenza redazionale, cercando ovviamente di non influire sui contenuti
della comunicazione di Savina; d’altra parte, non ho ecceduto nel forzare la
scrittura verso una schematicità di domanda-risposta che poco si confà con il
tipo di colloquio avuto; ho optato per un modello di domande ad ampio
raggio che, sebbene non rispecchino esattamente il mio reale interloquire,
hanno il pregio di suddividere il discorso di Savina nei macro-argomenti
toccati.
216
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Roma, 18 marzo 2009
Maurizio Corbella: Quali erano gli stabilimenti di sincronizzazione più importanti a
Roma nel periodo che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta?
Federico Savina: Ho cominciato più o meno nel 1957. A quell’epoca
c’erano degli stabilimenti molto importanti, come la Fono Roma, che aveva
la sede in piazza del Popolo, che era nata prima della guerra [1931, ndr] ed
era il più importante. C’era lo studio “Margutta”, che oggi è della società di
doppiaggio CDC Sefit. A quei tempi era diventato della Metro Goldwyn
Mayer. La MGM faceva i propri film in lingua localmente, perché in precedenza [prima della Guerra, ndr] la versione italiana dei film americani veniva fatta in America, ma venivano fuori cose poco comprensibili, poi c’era il
fascismo che non voleva importare i film, eccetera. Dunque, alla fine della
guerra, la MGM prese la sala che ancora esiste in via Margutta, assunse degli ingegneri come Piero Cavazzuti e altri nomi, e li incaricò di fare lo studio. Lì facevano tutto: doppiaggio, mixaggio e incisione delle musiche (la
sala era attrezzata con gradini per mettere l’orchestra e aveva tutte l’equipaggiamento necessario). Dopodiché c’era un altro stabilimento, la Nis Film.
Stava in via Rocca di Papa, era uno stabilimento strano, perché si entrava
salendo al secondo piano, per poi scendere tre piani e arrivare in una sala
grandissima, credo di tre o quattromila metri cubi; c’era una sala di ripresa
alta una quindicina di metri, poi c’erano sale di doppiaggio e di montaggio,
una stabilimento cinematografico nato ad hoc, che però ebbe molte vicissitudini finanziarie.
A quel tempo,1 Ketoff lavorava già in via Margutta, era uno dei tecnici con Cavazzuti; era colui che “faceva” lo studio: si usavano ad esempio
consolle Westrex, bisognava però cablare tutto per la trascrizione su ottico,
non c’era ancora il magnetico, o meglio, cominciava allora; ma la presa diretta andava su ottico, si montavano le moviole, c’erano tante stanzette di
moviola. Intorno al 1956 nacque la Fonolux, 2 situata a Cinecittà, all’interno
dell’Istituto Luce. Un certo conte [Leone] Senni, probabilmente innamorato
del cinema, aveva costituito questa società e voleva essere all’avanguardia.
Così chiamò Ketoff. Lì c’erano già un teatro insonorizzato, due stanze di
doppiaggio e una sala di mixage (le sale di mixage ai tempi coincidevano con le
sale musica, con la consolle contro il muro per lasciare lo spazio per le orSavina si riferisce al momento del suo arrivo a Roma, prima del servizio militare,
nel 1955-56.
2 Come ho in seguito verificato presso la CCIAA, l’anno di fondazione della Fonolux è
in realtà il 1957.
1
217
Maurizio Corbella
chestre). Nel periodo 1955-58, in cui gli americani venivano a registrare a
Roma tutti quei “filmoni”, iniziarono a preferire la Fonolux, perché la Fono
Roma, pur essendo sempre stata un faro, aveva una tecnologia “casalinga”,
le macchine venivano fatte “in casa” con criteri dell’epoca, non molto avanzati tecnicamente rispetto agli studi di Hollywood. Invece il conte Senni costruì questa struttura e chiamò Ketoff perché voleva essere up-to-date. Quando andai a lavorare lì [nel maggio del 1959, ndr], Ketoff era il capo tecnico,
poi c’era un certo signor Magni che invece era un tecnico della vecchia
guardia, mentre Ketoff rappresentava “il nuovo”.
Nel 1959 a Roma c’era l’RCA, con presidente l’ingegner [Giuseppe
Antonio] Biondo, che durante il fascismo Mussolini aveva mandato negli
Stati Uniti a specializzarsi. In America, Biondo divenne molto amico di
Sarnoff, 3 finché, dopo la guerra, divenne il dealer italiano della RCA, introducendo in Italia grossissimi impianti: fornì ad esempio la stazione radio per
il Vaticano.4 L’ingegner Biondo era presidente dell’RCA Italiana per la parte
discografica, e fece costruire lo stabilimento RCA in via Tiburtina.5 Lì durante gli anni Sessanta costruirono uno studio enorme, di circa ottomila metri cubi, per incidere soprattutto opere. Prima di ciò, però, l’ingegner Biondo, dopo avere avviato l’RCA, si mise in proprio e fondò l’International Recording. Da persona molto in gamba quale era, sapeva che cosa significava
essere al top della qualità. Costruì uno studio in via Urbana, con i migliori
apparecchi esistenti, una sala acustica moderna di dimensioni classiche, circa
duemila metri cubi, che in brevissimo tempo divenne il top per la registrazione della musica.
Per riassumere, agli inizi degli anni Sessanta i principali studi a disposizione per l’incisione di sonoro cinematografica erano: la Fono Roma, l’International Recording, la Nis Film, Margutta, la Fonolux, il cine-fonico di
Cinecittà (c’erano poi altre realtà più piccole, residui della guerra, durante la
quale ci si era arrangiati con ogni mezzo). Dalla sua fondazione, infatti, Cinecittà aveva il suo cine-fonico, ma all’interno non si è mai fatta musica, a
essi interessava il doppiaggio e il mixaggio dei film di loro produzione. Sotto
David Sarnoff (Minsk, 1891 – New York, 1971), massimo dirigente della RCA (Radio Corporation of America) dal 1919 al 1970, e fondatore della NBC (National
Broadcasting Company), può essere considerato il padre della televisione, oltre a
essere un personaggio di importanza capitale per tutti i sistemi di comunicazione
della prima parte del Novecento.
4 Fondata nel 1951, la RCA Italiana era per il 90 per cento posseduta dall’omonima
casa madre americana, mentre per il restante 10 per cento dall’Istituto per le Opere
di Religione (IOR) del Vaticano.
5 Il presidente della RCA Italiana era in realtà il conte Enrico Pietro Galeazzi, mentre Biondo, come ricorda Savina, era il presidente della parte industriale vera e propria, con sede in via Tiburtina.
3
218
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
il profilo delle attrezzature, mentre la Fono Roma era più “all’italiana”, Cinecittà era abbastanza allineata con gli standard americani, mentre la Fonolux era lo studio di eccellenza soprattutto per la musica, finché non si impose
l’International Recording. L’International Recording era la realtà che più di
tutte tendeva verso il modello americano: c’erano amplificatori Macintosh,
macchine Ampex, microfoni Neumann, la sala disegnata da un americano;
la Fono Lux era una “piccola” International, ma con il “genio italico”, rappresentato da Ketoff. Non spendevano molti soldi, ma avevano idee, macchinari, e genialità. La fortuna della Fonolux fu che gli americani che venivano a incidere in Italia trovavano un ambiente favorevole, competente economicamente, perché tra le altre cose il conte Senni e Paolo Ketoff parlavano inglese correntemente. Quando venne l’International Recording, si spostò il baricentro musicale, e la Fonolux cominciò ad accusare il colpo.
MC:
Come arrivò a conoscere Paolo Ketoff ?
FS:
Ho studiato a Torino fino a diciotto anni, poi ho lavorato due
anni a Milano, facendo un corso serale di perfezionamento in elettronica
industriale. Un anno e mezzo dopo [nel 1955, ndr] capitai al sole di Roma la
mattina di Pasqua – venivo dalla nebbia di Milano – ripartii il lunedì sera,
martedì mattina alle sette arrivai in stazione a Milano, alle otto andai nella
ditta dove lavoravo, alle nove e mezza mi licenziai, perdendo metà della liquidazione, ripresi il treno e mercoledì mattina ero di nuovo a Roma. Trovai
una camera sull’Aventino, non potevo avere posto più bello. Tramite mio
fratello [Carlo Savina, ndr], che lavorava già in RAI a Roma, trovai lavoro a
Casa Ricordi. Ero nel reparto tecnico, quando vendevano gli apparecchi,
andavo a installarli in casa.
Per conto di Ricordi iniziai a seguire le registrazioni di [Renzo] Rossellini e altri maestri che ora non ricordo, dovevo prendere nota di quando iniziavano e finivano i turni degli orchestrali. Quello fu il mio primo approccio
col cinema e allo stesso tempo con il mondo della registrazione. Decisi di
iscrivermi alla scuola di cinema. Intorno al 1956 conobbi Gino Marinuzzi jr.
Con lui nacque un rapporto per cui si cominciò a parlare di alcune sue idee
sperimentali. Tutto però si interruppe perché dovetti andare in marina per il
servizio militare. Il servizio in marina a quel tempo durava 28 mesi. Passati
questi due anni e mezzo cercai di riprendere i contatti con il mondo con cui
ero riuscito a mantenere qualche sporadico contatto. Casa Ricordi mi riprese a lavorare.
Da quel momento cominciai a frequentare più spesso Marinuzzi, con
il quale venne l’idea di realizzare alcune delle idee di cui si era parlato anche
prima della mia partenza. Cominciai a fare qualche strumento elettronico: il
219
Maurizio Corbella
primo fu lo Scopacordo, un manico di scopa con una corda metallica, un
pezzo di legno a mo’ di ponticello per tenere la corda tirata, un pick-up magnetico americano per amplificare il suono. Marinuzzi, o qualcuno del suo
giro, aveva comprato un registratore americano che si chiamava Viking, una
piastra con un nastro. Si poteva incidere e risentire. A questo punto siamo
arrivati circa al 1958-59. Marinuzzi mi fece conoscere Ketoff, che mi propose di andare a lavorare da lui. Fu così che lasciai Ricordi e iniziai [intorno a
maggio del 1959, ndr] il mio periodo di apprendistato con Paolo Ketoff alla
Fonolux che durò per sedici mesi, fino al 1961. Ketoff era sempre stato un
inventore geniale; era il tipo che se gli serviva un altoparlante se lo costruiva.
Subito dopo la guerra, infatti, costruiva altoparlanti con Romano
Pampaloni.6 Ricordo che iniziai alla Fonolux nel momento in cui arrivava
dall’Inghilterra un registratore a nastro della Epsilon che aveva l’inconveniente di avere il pulsante di record senza sicura vicino al pulsante di play, con
il rischio di cancellare per sbaglio quanto si era registrato. Il primo lavoro
che vidi fare a Ketoff fu quello di “smantellare” la macchina per mettervi
una sicura. Per fare un altro esempio, gli americani con cui Ketoff lavorava
chiedevano il tre piste, ed egli ricavava tre piste dal registratore a due piste,
utilizzando nastri più piccoli, da mezzo pollice; bisognava cambiare tutti i
supporti, non era un lavoro semplice, ma c’erano meccanici all’interno dell’Istituto Luce in grado di farlo. Fatto sta che questa macchina era in continuo aggiornamento. Dato che la Fonolux lavorava spesso con americani –
ricordo benissimo quando venne Dimitri Tiomkin a registrare le musiche di
Unforgiven – Ketoff aveva l’esigenza di adeguarsi allo standard statunitense e,
per esempio, costruì una consolle sul modello di quelle americane. Probabilmente influenzato dagli americani, o forse per sua natura, costruì una
stanza di riverbero. Cominciò a utilizzare un suono nuovo per gli standard
italiani. Si dotò di due microfoni Neumann con cui cercavamo di fare tutto.
Da lui imparai il tipo di suono e un certo rigore tecnico. Lavoravamo bene
insieme, fu un periodo molto eccitante, ci trovammo a un certo punto persino a dover fare i rumori elettronici di un documentario brasiliano. Facemmo
questa esperienza ma decidemmo di comune accordo di lasciare fare queste
cose ad altri. Nel corso della mia esperienza alla Fonolux a Roma c’era un
certo fermento intorno alla musica elettronica. Io e Paolo Ketoff eravamo
gli unici due tecnici a disposizione esperti di queste cose. Lui molto più bravo di me, io forse con più sensibilità musicale. Ketoff faceva anche dei lavori
Romano Pampaloni è un tecnico del suono molto attivo nelle post-produzioni italiane fino a tempi recentissimi (l’ultima sua partecipazione documentata è a 7/8, r.
Stefano Landini, 2007; nel periodo che ci interessa è accreditato per il mixaggio delle
Piacevoli notti con musiche di Gino Marinuzzi jr., cfr. POPPI–PECORARI 1992, p. 399.
6
220
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
esterni, a cui spesso partecipavo in qualità di “segretario tecnico”. Cominciava ad andare di moda l’hi-fi, e Ketoff era molto impegnato nel progettare
e costruire impianti. Per me fu un periodo di apprendistato molto felice.
MC:
Può dirmi qualcosa di più in merito alle sperimentazioni con Gino Marinuzzi jr.?
FS:
Già prima di partire per il militare, lavorando a Ricordi, conobbi Marinuzzi e venne spontaneo di fare qualcosa insieme. Per prima cosa
mi fece fare lo Scopacordo, seconda cosa mi fece intervenire sul registratore
[il Viking, cfr. supra]. Allora le classiche domande di Marinuzzi erano: «si
può rallentare la velocità del registratore (per ottenere il cambio di altezza
del suono)?»; era un continuo porre nuove questioni che io cercavo di risolvere. Dopo di che mi chiese: «Sai avrei bisogno di un suono così [ululato del
vento]». Io avevo comprato, non so come, un grosso libro dell’RCA che leggevo la sera. Avevo trovato che c’era un circuito che poteva fare questo effetto, era praticamente un filtro modulabile. Solo che per muovere la [frequenza], cosa che oggi si farebbe con un potenziometro, allora bisognava farlo in
radiofrequenza. Così mi misi a costruirlo nella casa dove abitavo: cominciai
con l’alimentatore per le valvole e feci un primo apparecchio con una manopola, praticamente un filtro molto selettivo che si muove. Il problema successivo fu come farlo muovere, da che punto a che punto. Le richieste di
Marinuzzi si facevano sempre più esigenti: voleva che il filtro si muovesse da
un punto a un punto, nonostante non fosse possibile con quei mezzi farlo in
banda continua. Appena gli risolvevo un problema era contentissimo sul
momento, però tre giorni dopo tornava e mi diceva: «Sai, però, tu me l’hai
fatto su un ottava, mi servono due ottave»; facevo due, quattro ottave, per
fare ciò bisognava risolvere parecchi problemi, la banda era molto ampia.
Aveva fatto un film sul K2 con Guerrasio. Aveva bisogno di fare i venti, si
chiedeva quale potesse essere l’origine [la sorgente, ndr] dei suoni. Lo Scopacordo andava bene, perché filtrato dava un ottimo effetto di vento. Gli feci
varie versioni del filtro. Poi venne fuori un altro strumento. Allora andava di
moda fare le scale diatoniche non temperate. Lo scopo era avere 12 oscillatori da “accordare a piacimento”. Quindi mi misi a fare gli oscillatori, questo non era particolarmente difficile (Milano ne aveva nove, noi avevamo il
manico di scopa!). Poi Marinuzzi mi chiese di legarne due, in modo da poter
fare due note contemporaneamente e farle slittare su frequenze non temperate; poi di seguito tre, fino ad arrivare a dodici. Con dodici oscillatori in
casa io finii per dormire per terra. Era diventato un mobile che mi occupava
tutta la stanza. Fu un mese e mezzo di lavoro. Alla fine Marinuzzi mi chiese:
«Sì, ma come faccio a suonare? Posso solo fare degli shift, mi manca l’attac-
221
Maurizio Corbella
co, il sustain, il decay...»; diventava una tecnologia che io non ero in grado di
fare. Fu lì che Marinuzzi si rivolse a Ketoff.
MC:
Può fare un’ipotesi su quale fosse l’origine di questo interesse di Marinuzzi per l’elettronica? Era per il cinema che nutriva quest’interesse?
FS:
Il cinema dava da vivere; Marinuzzi, a differenza di altri
compositori, pensava per il film una certa cosa e poi la realizzava. Altri, come Peragallo e Maselli si comportavano diversamente. Per esempio, Maselli
aveva in mente di lavorare sulle sovrapposizioni: io gli feci una macchina che
gli portai personalmente nella mia Topolino; era un Grundig TK9 modificato: siccome aveva due testine, una incideva e l’altra leggeva, tu facevi «bla» e
quello dopo un po’ faceva «bla»; se prendevi questo «bla» e lo rimettevi dentro faceva «bla bla bla» ripetuto.7
Ketoff spese molto tempo all’Accademia Americana. Lì aveva degli
artisti che erano come Marinuzzi. Solo che Marinuzzi ha lavorato con Ketoff dopo avere acquisito certe esperienze di base; le prime esperienze elementari le ha fatte con me; poi si è rivolto a Ketoff anche perché il mio livello in quel momento era quello che le ho detto. Ketoff fece tesoro delle esperienze fatte da tutto il giro di compositori (Marinuzzi, Peragallo, Macchi) e
da quel momento andò avanti, e cominciò a fare la “tastiera”. Il problema
per questi compositori fu quando si trovavano davanti tutti questi suoni. A
Milano potevano basarsi sul fatto di avere uno studio completo e dunque
potevano registrare una cosa alla volta, le operazioni potevano impiegare
molto tempo. Il film è una cosa “cotta e mangiata”, devi avere un apparecchio, vai in sala, vedi il film, fai i suoni che servono, e il film è fatto, non si
può tornare dopo due mesi per modificarlo. A Milano facevano composizioni musicali e non avevano il problema del tempo. Qui a Roma c’era l’immediatezza. E, di tutto il gruppo, l’unico che viveva di cinema era Marinuzzi.
Era lui che scriveva sia le partiture e che aveva la genialità di pensare agli
apparecchi che poi io o Ketoff costruivamo. Io costruivo, ma la genialità era
sua. Oggi tante cose nascono dopo avere sentito i milioni di suoni e campioni che si hanno a disposizione nei sintetizzatori e negli archivi digitali. La
genialità di Marinuzzi stava nel fatto che lui sapeva prima quale suono voleva.
Qui Savina fa riferimento a una delle primarie possibilità elaborative del registratore/riproduttore magnetico, cosiddetta “eco di testine”, utilizzata per i primi effetti di
riverbero e di ritardo: «essa si basa sul principio per cui possibile sovrapporre un
segnale a sé stesso o ad altri, per un certo numero di volte, ci ottenibile per mezzo
del rinvio del segnale registrato di nuovo in registrazione. Il risultato di quest’operazione consiste nella ripetizione periodica del segnale, dopo un tempo t, che dipende
dalla distanza che passa fra le due testine e la velocità di scorrimento del nastro [...]»;
BRANCHI 1977, p. 158.
7
222
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
MC:
Trovo molto interessante l’esempio del suono del vento, perché è una costante nelle sue sonorizzazioni.
FS:
Oggi ho capito che sarebbe stato molto più facile realizzarlo
con due mono che si sfasano: allora non avevamo il concetto del pick noise,
vale a dire del fruscio, che aumentato di volume può essere lavorato; se ci
avessimo pensato allora di fruscio con le valvole ne avevamo quanto volevamo... Prendendo due suoni ricchi identici, sfasandoli di una piccola unità di
tempo ne viene fuori un “filtro a pettine”. Comunque Marinuzzi voleva un
vento che fosse modulabile secondo le sue esigenze. Era l’unico tra gli altri
compositori che scriveva per il cinema, forse perché facendo cinema sapeva
ciò che gli serviva non scriveva per l’«eternità», scriveva cose che servivano
per esigenze specifiche.
MC:
Marinuzzi era amico di Jerry Goldsmith, che provò a farlo andare a
Hollywood, anche se egli alla fine rifiutò poiché, secondo la figlia Anna Maria, non gli
interessava più di tanto la notorietà.
FS:
Marinuzzi era un’idealista; Jerry Goldsmith era un innovatore ma estremamente attento all’aspetto economico. In effetti fu Marinuzzi a
presentarmi Jerry Goldsmith quando venne a fare un film in Italia; Marinuzzi faceva delle cose elettroniche per lui. Dopodiché lavorai spesso con
Goldsmith sia in Italia che a Londra; una volta capitai a casa sua negli Stati
Uniti: lì aveva alcune persone che lavoravano fisse per lui, il montatore delle
musiche, due orchestratori, poi aveva un accordo con qualche ditta produttrice che gli forniva i primi elaboratori per la computer music prima che fossero
in commercio, lui così era in grado di studiarli. Quando lo conobbi, non so
se la prima volta che venne in Italia o più tardi (perché venne in Italia cinque o sei volte) – feci vari film tra cui uno con Sofia Loren di un autore greco –,8 aveva una specie di roto-tom amplificati e trattati che usava dal vivo in
orchestra: pelli con applicati dei sensori che, a seconda di come erano toccate producevano suoni diversi. Ricordo che rimasi stupito perché mi aspettavo di dover microfonare un intero set di batteria, invece arrivò un suo assistente come esecutore, che suonava con le dita in modo quasi pianistico queste pelli, che producevano un suono stranissimo.
MC:
Mi sta dando un’informazione molto interessante: leggendo alcune partiture autografe di Goldsmith a Los Angeles rimasi stupito da uno strumento che produceva
un suono simile a un rototom, annotato in partitura con il nome “loo-johns”...
FS:
Goldsmith aveva delle persone che ricercavano esclusivamente questi suoni che poi lui utilizzava. Ogni suo film aveva uno strumento biz-
8 Cassandra
Crossing (The Cassandra Crossing), r. George P. Cosmatos, 1976.
223
Maurizio Corbella
zarro diverso. In America ci sono figure pagate dalle produzioni il cui lavoro
è la ricerca di suoni. Questo in Italia non è mai esistito, anche perché spesso
erano gli editori a pagare i compositori, senza che le produzioni dovessero
tirare fuori una lira per la parte musicale dei film.
MC:
Accanto ai compositori che inserivano la musica elettronica nei loro film
si è verificato anche il processo inverso di registi che chiedevano a compositori che non appartenevano alla tradizionale cerchia cinematografica di comporre musica elettronica: mi
riferisco ad Antonioni con Gelmetti e Musica Elettronica Viva, allo stesso Fellini nel
Satyricon, che prese musiche elettroniche già edite, a Ferreri del Seme dell’uomo; però
mi pare di notare, specialmente in alcuni film, una sorta di via di mezzo: in particolare in
corrispondenza di momenti topici come sequenze oniriche, magia, ecc. si riscontrano elementi sonori che pur non arrivando a essere definibili “musica elettronica” sembrano attingere allo stesso patrimonio di tecniche e procedure maturate dagli studi in quegli anni – mi
riferisco, per esempio, alle sequenze spiritiche di Giulietta degli spiriti, in cui sono presenti risonanze, effetti sintetici, lo stesso vento usato in modalità non naturalistiche. Mi
chiedevo che ruolo e che autonomia avessero gli studi e i tecnici in questi frangenti, dato che
non mi sembra che possiamo attribuire tali sonorità a compositori come Rota.
FS:
Credo che Rota abbia chiamato Marinuzzi in molte occasioni. Non saprei dirle le circostanze specifiche. Queste necessità nascevano in
maniera estemporanea. Io lavoravo in studio quindi ricordo se certe esigenze
si manifestavano durante la registrazione o il mixaggio della musica, mentre
se capitavano in altri momenti si andavano a fare da qualche parte. A poco a
poco nacquero i primi piccoli studi, Marinuzzi da un certo momento in
avanti ebbe il Synket, poi arrivò il Moog, inoltre c’erano anche altri compositori come il M.° Giombini, che nei suoi film ha sempre usato risorse elettroniche, o Nicolai, che era esperto di organo Hammond, sapeva sfruttare
tutti i suoni vibrati, la riverberazione: se tutto va bene molti effetti dei film di
Fellini sono fatti con l’Hammond. Molti erano diventati trucchetti che si
usavano per i sogni, tipo suoni al rovescio, effetti d’eco ecc. All’inizio erano
tutti esperimenti, ti telefonava Marinuzzi e ti diceva: «ho bisogno di un suono che faccia così...», poi sono arrivati i pulsanti che facevano le stesse cose,
allora il fascino si è un po’ polverizzato.
224
Appendice II
Paolo Ketoff presenta il Synket
Riporto qui di seguito l’articolo pubblicato da Paolo Ketoff su «Electronic
Music Review» [KETOFF 1967b], in cui il Synket viene descritto nel dettaglio, con l’ausilio di schematizzazioni.
Appendice III
Filmografia di Gino Marinuzzi jr.
Il seguente catalogo non ambisce a completezza. Si limita a rendere conto di
quanto finora appurato riguardo alla produzione musicale cinematografica
di Gino Marinuzzi jr. Ho scelto di dividere la sua produzione in tre tipologie: lungometraggi,1 sceneggiati televisivi, cortometraggi e documentari. Per
ogni film, a margine delle consuete informazioni di produzione, ho aggiunto,
dove possibile, dati riguardo a particolarità musicali, alla sonorizzazione, alle
edizioni musicali e discografiche, e recensioni in cui si fa accenno alle musiche.
Abbreviazioni
d.
Distribuzione
ed. mus. Edizioni musicali
r. Regia
p.
Produzione
s.
Soggetto e sceneggiatura
1 Ho
incluso in questa prima sezione anche L’Italia non è un paese povero e Alle origini della
mafia che, nonostante la destinazione televisiva, sono girati con tecnica cinematografica; Kan Jut-Sar, pure incluso, è invece un documentario anomalo rispetto al resto
della produzione documentaristica di Guerrasio, per lunghezza e circolazione.
Maurizio Corbella
Lungometraggi cinematografici
1860 - I Mille di Garibaldi, r. Alessandro Blasetti, 1951 (1934)
p. Emilio Cecchi per Cines; s. Alessandro Blasetti, Emilio Cecchi, Gino Mazzucchi.
Suono: Fono Roma.
Amo un assassino, r. Baccio Bandini, 1951
p. Baccio Bandini per Lux Film; d. Lux Film; s. B. Bandini, Sandro Continenza, Mario Monicelli, Ennio De Concini, Steno.
Romanzo d’amore, r. Duillio Coletti, 1951
p. Domenico Forges Davanzati per Lux Film; d. Lux Film; s. Duilio Coletti,
Suso Cecchi d’Amico, Fulvio Palmieri, Antonio Pietrangeli, Aldo De Benedetti.
Direzione d’orchestra: Enzo Masetti. La serenata Rimpianto è di
Toselli.
«Ispirato alla vita del musicista Toselli (qui interpretato da un pesante e senza espressione Rossano Brazzi), riporta alcune belle pagine musicali [...]» 2
A fil di Spada (Don Ruy), r. Carlo Ludovico Bragaglia, 1952
p. Francesco Alliata per Panaria Film; d. Panaria Film; s. Leo Benvenuti, Furio Scarpelli, Age.
La carrozza d’oro (La carrosse d’or), r. Jean Renoir, 1952
p. Delphinus (Roma),3 Hoche Production (Parigi); d. DCN; s. Jean Renoir,
Giulio Macchi, Jack Kirkland, Renzo Avanzo, Ginette Doynell.
Musiche di Antonio Vivaldi adattati e diretti da G. M.
Adattamenti e direzione di musiche della Commedia dell’Arte.
Il maestro di Don Giovanni, r. Milton Krims e Vittorio Vassarrotti (non accreditato), 1954
p. Vittorio Vassarotti – J. Barrett per Vi.Va Film, Errol Flynn; d. Titanus; s.
Milton Krims.
Musiche di Gino Marinuzzi e Alessandro Cicognini.
Il mantello rosso (Les revoltés), r. Giuseppe Maria Scotese, 1955
p. Trio Film, Franca Film (Roma), Centre Cinéma (Parigi); d. Zeus; s. Guglielmo Santangelo, Albino Principe.
2 E.
FECCHI, «Intermezzo», 3/4, 28 febbraio 1951, in CHITI-POPPI 1991, p. 314.
Ivi, p. 85; altri cataloghi segnalano invece Panaria Film; entrambe le case sono comunque di proprietà di Francesco Alliata.
3
230
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Vento del sud, r. Enzo Provenzale, 1959
p. Franco Cristaldi per Lux Film, Vides, Cinecittà; s. Giuseppe Mangione,
Elio Petri, Armando Crispino, Enzo Provenzale.
Canzone Sole freddo (G. M.) cantata da Miranda Martino.
Suono: Fonolux.
Kan Jut-Sar (La montagna che ha in vetta un lago), r. Guido Guerrasio, 1961
p. Guido Monzino; d. De Laurentiis.
Canzone Kan Jut-sar di G.M. e Guerrasio.
Discografia: lp, Cenacolo M 708.
L’Italia non è un paese povero, r. Joris Ivens, con la collaborazione di Valentino
Orsini e Paolo Taviani, 1960
Episodi: Fuochi in Valpadana, Due città, Appuntamento a Gela. Film per la televisione.
p. Produttori Associati.
Suono: Fonolux Mix: Renato Cadueri; Commento: Alberto Moravia,
Corrado Sofia; Voce: Enrico Maria Salerno; Aiuto regista: Giovanni
(Tinto) Brass;
Ercole alla conquista di Atlantide, r. Vittorio Cottafavi, 1961
p. Achille Pazzi per S.P.A. (Roma), Cin.ca, Comptoir Français du Film (Parigi); s. Vittorio Cottafavi, Sandro Continenza, Duccio Tessari.
Ed. mus. CAM
Discografia: cd, Digitmovies CDDM090
«È un’opera riuscita, ricca com’è di trovate ben concepite e ben realizzate, fotografata con colori lieti e pastosi [...]. Sembra, a volte, che Cottafavi si diverta a “spararle”
sempre più grosse [...] senza tuttavia mai offendere il garbo né il senso della misura
[...]»4
Il giudizio universale, r. Vittorio De Sica, 1961
p. Dino De Laurentiis (Roma), Standard Film (Parigi); d. De Laurentiis, s.
Cesare Zavattini.
Musiche di Alessandro Cicognini. Canzone ’Na musica di Modugno
e Pugliese. Ed. mus. Radiofilmusica.
Composizione dei numeri elettronici (non accreditata) di G. M. e
Alessandro Cicognini.5
Discografia: lp, RCA Pml 10295
Hong Kong un addio, r. Gian Luigi Polidoro, 1962
p. Alessandro Jacovoni per Ajace Compagnia Cin.ca; d. Dino De Laurentiis;
s. Gian Luigi Polidoro, Paolo Levi, Ennio Flaiano.
V. SPINAZZOLA, Film 1963, Milano: Feltrinelli, 1963, in POPPI–PECORARI 1992, p.
195.
5 Vedi Archivio Opere Musicali della SIAE,
<http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali>, consultato gennaio 2010.
4
231
Maurizio Corbella
Canzoni: Le stelle d’oro di Lepore, Naddeo, cantata da Mei Lang
Chang; Non dimenticar (t’ho voluto bene), di Redi; Gelsomina di Rota;
Ed. mus. [Radiofilmusica].6
Discografia: lp, CAM Cms. 30-053.
Le voci bianche, r. Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, 1964
p. Nello Meniconi – Luciano Perugia per Franca Film e Cin.ca Federiz (Roma), Franco Riz (Parigi); d. Cineriz; s. Massimo Franciosa, Pasquale Festa
Campanile, Luigi Magni; r. P. Festa Campanile, M. Franciosa.
Ed. mus. CAM
Discografia: lp, CAM Cms. 30-110
«[...] La satira vien fuori da una efficace collaborazione fra i diversi elementi creativi:
i gustosi costumi e le scenografie di P. L. Pizzi (ma il merito è prima ancora dei registi, che hanno saputo fondere i costumi dei personaggi con gli sfondi autentici della
Roma barocca), la recitazione guidata da un Paolo Ferrori scatenato, le argute citazioni musicali di Gino Marinuzzi jr. [...]. Gli autori non hanno avuto il coraggio di
sviluppare fino in fondo l’impostazione della sceneggiatura [...] [e] dirottano il discorso verso le facili soluzioni della commedia all’italiana [...]. Con tutto ciò riteniamo il film non privo di una sua validità e di un suo interesse curioso [...]»7
Terrore nello spazio, r. Mario Bava, 1965
p. Italian International (Roma), Castilla Coop. Cin.ca (Madrid); d. Sidis; s.
Mario Bava, Callisto Cosulich, Antonio Román, Rafael J. Salvia, I.B. Melchior, Alberto Bevilacqua; r. M. Bava.
Ed. mus. Bixio. Effetti sonori: Paolo Ketoff.
Discografia: cd, DRG Records 32903; Cinevox CDMDF-346; Digitmovies CDDM007.
«[...] Il film, a colori, ricorda per la scenografia alcune opere dell’espressionismo
tedesco: suoni, luci, nebbie variopinte e sempre fluttuanti, melme in ebollizione, situazioni dense di mistero sono gli elementi che Bava ha mescolato per darci un discreto racconto di quel tipo di fantascienza che ignora i problemi della terra, ambientando personaggi e avvenimenti in mondi extragalattici e di pura fantasia» 8
La mandragola, r. Alberto Lattuada, 1965
p. Alfredo Bini per Arco Film (Roma), Lux de France (Parigi); d. Titanus; s.
Alberto Lattuada, Stefano Strucchi, Luigi Magni.
Ed. mus. Emi.
Discografia: cd, Vivi Musica VCDS 7012.
Le piacevoli notti, r. Armando Crispino e Luciano Lucignani, 1966
p. Mario Cecchi Gori per Fair Film; d. Titanus; s. Sandro Continenza, Steno,
L. Lucignani.
Poppi e Pecorari indicano CAM (1992, p. 253); io riporto invece l’indicazione dell’Archivio Opere Musicali della SIAE per i titoli Hong Kong un addio film e Hong Kong un
addio comp orch,; cfr. ibid.
7 E. COMUZIO, «Cineforum», 38/39, novembre 1964, in POPPI–PECORARI, p. 606.
8 G. B. CAVALLARO, «Avvenire d’Italia», febbraio 1966, in ivi, p. 540.
6
232
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Canzone Le piacevoli notti di G.M. e Lucignani cantata dai Cantori Moderni di A. Alessandroni; Ed. mus. General Music/Slalom, oggi Emi.
Discografia: cd, Vivi Musica VCDS 7012; Digitmovies/GDM Music
CDDM001; Cecchi Gori Music/Sony CGM 483560 2.
Operazione tre gatti gialli, r. John Eastwood, Cehett Cooper [Gianfranco Parolini],9 1966
p. Danny Film (Roma), Danubia Film (Vienna), Filmidis, Les Films Jacques
Willemetz (Parigi), Parnass Film (Monaco), Ceylon Tours (Colombo); s. Mike
Ashley [Mino Roli] Rudolf Zehetgruber.
Ed. mus. Emi.
Matchless, r. Alberto Lattuada, 1967
p. Ermanno Donati e Luigi Carpentieri per Dino De Laurentiis Cin.ca; d.
Medusa; s. Alberto Lattuada, Dean Craig, Jack Pulman, Luigi Malerba.
Ed. mus. Radiofilmusica.
Musiche di Gino Marinuzzi jr. ed Ennio Morricone.
Discografia: lp Cometa CMT 1015/29.
Amore o qualcosa del genere, r. Dino B. Partesano, 1968 [incompiuto]
p. Vittorugo Moretti per Cinevic; s. Dino B. Partesano.
Ed. mus. CAM.
Canzoni Amore o qualcosa del genere e Donne di cartone (C. Gigli, G. Sanjust e G.M.) cantate da Giulia Ray e Gianni Davoli.
Hi wa shizumi, hi wa noboru (Sunset Sunrise), r. Koreyoshi Kurahara, 1973
p. Nikkatsu International.
Musiche di Nino Rota
Musiche di sottofondo, arrangiamenti, orchestrazione, direzione di
G.M.
Alle origini della mafia, r. E. Muzii, 1976
Episodi: Gli antenati, La legge, Gli sciacalli, Omertà. Film per la televisione girato
in pellicola.
p. Anna Muzii per Fraia Film, ITC RAI Radiotelevisione Italiana, s. Brando
Giordani, E. Muzii, David Rintels.
Musiche di Nino Rota e G.M.; Canzoni L’ultima notte di Lauzi, Rota
e Muzii, E così sia di Endrigo e Rota, cantate da Sergio Endrigo e
orchestrate e dirette da Ennio Morricone.
Ed. Mus. ATV Music – Fono Film Ricordi
9 Entrambi
i nomi inglesi sono pseudonimi di Gino Parolini, ivi, p. 377.
233
Maurizio Corbella
Sceneggiati televisivi
Umiliati e offesi, 1958 (4 episodi)
r. Vittorio Cottafavi
Antigone, 1958
r. Vittorio Cottafavi
Quando amor comanda, 1960
r. Vittorio Cottafavi
Tom Jones, 1960 (6 episodi)
r. Enzo Macchi.
Colloquio con un uomo disprezzato, 1962
r. Vittorio Cottafavi.
Demetrio Pianelli, 1963 (4 episodi)
r. Sandro Bolchi.
Quel signore che venne a pranzo, 1964.
r. Alessandro Brissoni.
(partecipazione di G. M. non verificata)
Le inchieste del commissario Maigret, 1964-1965
(10 episodi di cui 3 con musiche di G. M.)
Una vita in gioco, 1965
Un Natale di Maigret, 1965
L'affare Picpus, 1965
r. Mario Landi.
Il conte di Montecristo, 1966
(10 episodi, di cui 7 musicati da G. M.: 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8).
r. Edmo Fenoglio.
Jeckyll,1969
4 puntate
r. Giorgio Albertazzi.
234
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Documentari e cortometraggi
La leggenda di Verona, r. Guido Guerrasio, 1949
Il testamento dei poveri, r. Guido Guerrasio, 1950
Il millesimo di millimetro, r. Virgilio Sabel, 1950
Quelli che soffrono per noi, r. Alessandro Blasetti, 1951
Vivo di te, r. Dino B. Partesano, 1951
Miracoli della chimica, r. Guido Guerrasio, 1951
T9, r. Guido Guerrasio, 1951
Dall’aria al pane, r. Guido Guerrasio, 1951
La valle del carburo, r. Guido Guerrasio, 1951
Gamba di legno, G. Guerrasio, 1952
Signora Volpe, G. Guerrasio, 1952
Fuori porta, r. G. Guerrasio, 1952
Dolce Lombardia, r. Guido Guerrasio, 1953
Hanno bisogno di noi, r. Guido Guerrasio, 1953
Ritmo in tre, r. Guido Guerrasio, 1953
Basilica segreta, r. Guido Guerrasio, 1953
I nostri nonni, r. Guido Guerrasio, 1953
Toce 28, r. Guido Guerrasio, 1953
Oggi la scultura, r. Guido Guerrasio, 1954
Masolino, Guido Guerrasio, 1954
Una vita per il colore, r. Guido Guerrasio, 1955
Il cavaliere di via Morone, r. Guido Guerrasio, 1955
Il lago dei romantici, r. Guido Guerrasio, 1955
Gente dei navigli, r. Guido Guerrasio, 1955
Teatro Gerolamo, r. Guido Guerrasio, 1955
Buongiorno inverno, r. Guido Guerrasio, 1955
Diario di un lago, r. Guido Guerrasio, 1956
Bancarellai, r. Guido Guerrasio, 1956
Cinque anni in un giorno, r. Guido Guerrasio, 1956
Un bicchiere d’acqua, r. Guido Guerrasio, 1956
Il romanzo del Sempione, r. Guido Guerrasio, 1956
Novembre, r. Guido Guerrasio, 1956
L’inverno dei cavalli, r. Guido Guerrasio, 1956
La carrozza di tutti, r. Guido Guerrasio, 1957
Milano XXXV Fiera, r. Guido Guerrasio, 1957
Il paesaggio di Carducci, r. Guido Guerrasio, 1957
Viaggio nelle terre basse, r. Giulio Questi, 1957
Amsterdam, r. Giulio Questi, 1958
Ragazzi al bivio, r. Guido Guerrasio, 1958
Italia in Patagonia, r. G. Guerrasio, 1958
L’indimenticabile ’59, r. Guido Guerrasio, 1959
Grandes Murailles, r. Guido Guerrasio, 1959
Quella notte a Betlemme, r. Guido Guerrasio, 1960
Lacco ameno Incantesimo di Ischia, r. Guido Guerrasio, 1960
Lacco ameno termale, r. Guido Guerrasio, 1960
Masaccio, r. Guido Guerrasio, 1990
235
Riferimenti bibliografici
Fondi e archivi di riferimento
AARA AMERICAN ACADEMY IN ROME ARCHIVES
New York City.
ede americana dell’archivio dell’Ente, in cui sono conservati prevaS
lentemente documenti a carattere amministrativo.
AFA ANTHOLOGY FILM ARCHIVES
New York City.
Archivio cinematografico specializzato nel cinema indipendente. Conserva parte del materiale audiovisivo realizzato presso il CCMC e alcuni film italiani, come Organum Multiplum e Se l’inconscio si ribella di Alfredo Leonardi.
AHP ALFRED HITCHCOCK PAPERS
Margaret Herrick Library, Academy of Motion Picture Arts
and Sciences, Beverly Hills (CA).
Conserva il materiale cartaceo di produzione di tutti i film del regista
americano, compreso Gli uccelli.
MEBA MARY ELLEN BUTE ARCHIVE
einecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University,
B
New Haven (Conn).
Raccoglie tutte le carte e i film della cineasta americana.
Maurizio Corbella
CINB
CINETECA DI BOLOGNA
Biblioteca “Renzo Renzi”, Bologna.
CCMC
COLUMBIA COMPUTER MUSIC CENTER
Columbia Computer Music Center, New York City.
Archivio del Centro (ex Columbia-Princeton Electronic Music Center), contiene schede di tutte le composizioni ivi realizzate, in aggiunta
alcuni carteggi di Vladimir Ussachevsky e Otto Luening, bozze di lezioni, articoli e conferenze.
FBIN FONDO BINI
Biblioteca “L. Chiarini”, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma.
Contiene il materiale appartenuto al produttore cinematografico Alfredo Bini, comprendente sceneggiature di film e ritagli stampa.
FFON FONDO FONOLUX
Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura,
Roma.
Due fascicoli contenenti atti amministrativi e giudiziari della società
(fondazione, capitale, soci, fallimento ecc.) conservati rispettivamente
dalla Camera di Commercio e dal Tribunale.
FGELa
FONDO GELMETTI “A”
Abitazione di Vittorio Gelmetti, San Martino Buon Albergo
(VR).
Contiene materiale personale del compositore in corso di catalogazione a opera di Giovanni De Mezzo, comprendente carte, partiture,
bobine.
FGELb
FONDO GELMETTI “B”
Biblioteca “L. Chiarini”, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma.
Di piccola consistenza, conserva libri relativi al periodo di insegnamento del compositore presso il CSC.
FMAR
FONDO MARINUZZI
Abitazione di Gino Marinuzzi jr., Roma.
Contiene materiale personale del compositore non catalogato, consistente in carte, partiture, bobine magnetiche, dischi e la biblioteca del
compositore.
FPET
FONDO PETRI
Biblio-mediateca “Mario Gromo”, Torino.
Contiene materiale cartaceo (carteggi, sceneggiature, appunti, interviste) relativo a tutto la parabola artistica del cineasta.
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Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
IRTEM
ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE
Roma.
Conserva un’ampia selezione di film etnografici degli anni Sessanta e
di cortometraggi realizzati con musiche di compositori dell’avanguardia romana.
OLP OTTO LUENING PAPERS
Rodgers and Hammerstein Archives of Recorded Sound, New
York Public Library, New York City.
Collezione completa delle carte e del materiale musicale e sonoro del
compositore americano.
RAI
RAI TECHE
RAI Radio Televisione Italiana, via Asiago, Roma.
Registrazioni di trasmissioni radiofoniche non digitalizzate. Dalla Mediateca Santa Teresa di Milano è invece possibile l’accesso multimediale al materiale digitalizzato relativo a palinsesti, trasmissioni radiofoniche e televisive.
RGP REMI GASSMANN PAPERS
University of California Irvine Library, Irvine (CA).
Collezione completa delle carte e del materiale musicale e sonoro del
compositore americano.
SFdM
STUDIO DI FONOLOGIA DI MILANO
RAI Radio Televisione Italiana, C.so Sempione, Milano.
Archivio dello studio milanese, contenente tutte le carte e il materiale
sonoro.
VUC
VLADIMIR USSACHEVSKY COLLECTION
Music Division, Library of Congress, Washington D.C.
Contiene tutte le bobine del compositore catalogate.
Bibliografia
AA.VV.1964
La paura moderna di Alfred Hitchcock. Dibattito su Gli uccelli,
E. Bruno, A. Plebe, A. Aprà, M. Zucconi, P. Anchisi,
«Filmcritica», XV/142, febbraio 1964, pp. 67-83.
ACC.FIL.1959
Adriana PANNI, dichiarazione, Roma, 6 marzo 1959, riproduzione digitale in ZACCONE 2005a, ora in ZACCONE
2005b, p. 122.
239
Maurizio Corbella
Dichiarazione firmata dalla vicepresidente dell’Accademia Filarmonica Romana che attesta l’utilizzo di un locale dell’Ente
da parte di Gino Marinuzzi jr. In una nota manoscritta al documento, Gino Marinuzzi scrive «il laboratorio funziona dal
1956».
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Bozza manoscritta con molte correzioni a penna; nell’intestazione vi è l’indicazione “Controcampo”, probabile la destinazione per l’omonima rivista.
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Vittorio COTTAFAVI, L’estetica brechtiana e la TV, «Televisione», I, marzo-aprile 1964; in Gianni RONDOLINO,
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Si tratta dell’edizione conservata presso FGELb.
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DI CARLO1964
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Bologna: Cappelli, 1964.
Contiene la sceneggiatura del film, da confrontare, complessivamente più vicina al film di quanto non sia ANTONIONI–GUERRA 1964.
DINE
[1968] Jim DINE, lettera a Elio Petri, s.d. [ma 1968], in FPET.
Dine apprende da Sandy Lieberson che Un tranquillo posto di
campagna è terminato. Spera che i suoi quadri siano stati utili al
regista e gli chiede se è ancora intenzionato a comprarne uno.
EATON
s.d. John EATON, lettera a Otto Luening, Roma, s.d., in OLP.
«I’m just finishing a new song for Michiko [Hirayama], two Syn-Kets,
staircase generator, and two new “instruments” Ketoff and I cooked up. I
hope to perform it in Rome the beginning of March».
244
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
ECO1962
Umberto ECO, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle
poetiche contemporanee, Milano: Bompiani, 1962.
1964 ⎯, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della
cultura di massa, Milano: Bompiani, 1964.
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Alberto FARASSINO, Produttori e autori della produzione, in
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FELLINI1960
intervistato in «L’Europeo», XVI/8 (n. 749), 21 febbraio
1960, pp. 40-43.
1965 ⎯, G. degli spiriti, ms., s.d.
Copia della sceneggiatura conservata al CSC; sul frontespizio
appare scritto «Sceneggiatura provvisoria (Ma in fondo non è
tutto provvisorio in questo mondo?)».
-BBC
[1965?] ⎯, intervista televisiva, BBC, [1965?], in Juliet of the Spirits (contenuti extra), dvd, Criterion Collection, 2002.
1989 ⎯, Giulietta, Zürich: Diogenes Verlag, 1989; trad. it. (consultata), Genova: Il melangolo, 1994.
FERRERI–BAZZINI 1969 Marco FERRERI – Sergio BAZZINI, Il seme dell’uomo, ms.,
1969.
Copia della sceneggiatura conservata al CSC; il deposito ministeriale è datato 12 aprile 1969.
FONOLUX1957
Nota per trascrizione dell’atto a rogito del Notaio in Roma dr. Marco Panvini Rosati in data 28 novembre 1957..., ms., 1957, in
FFON.
Atto di rogito della società, depositato presso il Tribunale. Il
documento presenta una dettagliata descrizione della struttura
societaria e dei capitali, comprese le strutture e l’equipaggiamento tecnico di partenza.
1959 Denuncia di modificazione, ms., 1959, in FFON.
Denuncia del subentro di Paolo Ketoff in qualità di consigliere
d’amministrazione, in data 30 luglio 1959.
1961 Alla cancelleria del Tribunale di Roma..., ms., 1960, in FFON.
Si comunicano le dimissioni di Paolo Ketoff dal consiglio
d’amministrazione; la registrazione della comunicazione da
parte del Tribunale avviene in data 13 giugno 1961.
FUIANO2003
Claudio FUIANO, nota di copertina, in Gino MARINUZZI
JR., Terrore nello spazio/Planet of the Vampires, cd, Digitmovies, CDDM007, 2003.
GADDI1993
P. GADDI, Il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza.
Intervista a Egisto Macchi (Fiesole, 27 luglio 1990), 1993, in
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Maurizio Corbella
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Aprile 1962, in RGP.
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alla composizione delle musiche per Gli uccelli.
GASSMANN–SALA [1962]Remi GASSMANN – Oskar SALA, Cue Sheet, ms., [1962], in
RGP.
Cue Sheet degli Uccelli, redatto nello Studio di Oskar Sala a Berlino e consegnato al direttore del montaggio George Tomasini,
il cui nome figura nell’intestazione del plico.
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LOCANDINA s.d. LOCANDINA, Roma, Teatro Goldoni, s.d., in OLP.
«Teatro Goldoni | Roma | Vicolo de’ Soldati (Piazza Navona) | April 1
– 5,30 p.m. and 9,30 p.m. | John Eaton world famous electronic music
virtuoso | Contemporary Music and Free Jazz | “Brilliant” – Time |
248
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
“Dazzling” – Downbeat | “Incredibly virtuoso” – Electronic music |
Featuring: | Michiko Hirayama – soprano | Paolo Ketoff – Syn-ket |
Giovanni Tomasso [sic.; Tommaso, ndr] – bass | Franco Tonanni –
drums | John Eaton – piano, Syn-ket, Syn-kettino, Vibrator [...]»
LUCIER1998
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Cabel Hall, University of Virginia. LUENING1972
Otto LUENING, lettera a John Eaton, New York, 24 marzo 1972, in OLP.
«One of my students by the name Violette is a great admirer of yours and
the Synket. Will there be any chance that Ketoff will make some of these
for use in the U.S. and what do you think they will cost?»
MAGNI–STRUCCHI–LATTUADA
1965 Luigi MAGNI – Stefano STRUCCHI – Alberto LATTUADA,
“La mandragola” di Niccolò Machiavelli, sceneggiatura, ms.
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Partitura autografa completa delle musiche per l’omonimo
film.
[1965b] La mandragola, Programma musicale SIAE, incompleto.
249
Maurizio Corbella
Si tratta di un fac-simile del programma musicale SIAE, non
firmato: 37 numeri su 40.
[1965c] ⎯, Terrore nello spazio, partitura autografa, ms., s.d.
Partitura autografa completa delle musiche per l’omonimo
film.
[post-1965] ⎯, Curriculum, ms., s.d., in ZACCONE 2005b, pp. 125-126.
La datazione è deducibile dal fatto che viene citato La mandragola (1965).
MARINUZZI-ROTA
[ante-1973] Contract by and between Nikkatsu Corporation, Nino Rota, Gino
Marinuzzi jr., s.d. [ma ante-1973], in FMAR.
Scrittura, cofirmata da entrambi i compositori, per un film dal
titolo provvisorio Sun to Sun, che sarebbe poi diventato Sunrise,
Sunset, vedi FILMOGRAFIA.
1975 Accordo fra Gino Marinucci [sic] e Atv Music Limited, 1975, in
FMAR.
Accordo provvisorio non firmato per la serie televisiva Le origini
della mafia, qui indicata con il titolo provvisorio inglese The Roots
of Mafia. Nella scrittura si fa esplicito riferimento a Nino Rota
come coautore delle musiche.
MARTINI 2007
Michelangelo Antonioni, a cura di G. Martini, Bologna: Regione Emilia-Romagna, 2007, (Una Regione piena di
Cinema).
MCLUHAN 1964
Marshall MCLUHAN, Understanding Media: The Extensions of
Man, New York: New American Library, 1964; trad. it.
(consultata), Gli strumenti del comunicare, Milano: Il Saggiatore, 2008.
MICELI1982
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1994 ⎯, Morricone, la musica, il cinema, Modena-Milano: Mucchi-Ricordi, 1994, (Le Sfere, 23).
2000 ⎯, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Firenze: Sansoni, 2000.
2009a⎯, La musica per film. Storia, estetica, analisi, tipologie, LuccaMilano: Lim-Ricordi, 2009, (Le Sfere, 49).
2009b ⎯, L’evoluzione della musica di Ennio Morricone, in Storia del
cinema italiano, a cura del Centro Sperimentale di Cinematografia, 13 voll., 8 pubblicati (V, VII-XIII), Venezia-Roma: Marsilio-Bianco e nero, 2001-, XII (1970-1976), a
cura di F. De Bernardinis, 2009, pp. 453-459.
250
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
MILLET2007
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MOHOLY-NAGY 1922 László MOHOLY-NAGY, Produktion-Reproduktion, «De Stijl,
7, 1922, pp. 97-101; trad. inglese, Production-Reproduction,
in Krisztina PASSUTH, Moholy-Nagy, London: Thames
and Hudson, 1985, pp. 289-290.
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Giovanni MORELLI, Mackie? Messer? Nino Rota e la quarta
persona singolare del soggetto lirico, in Storia del candore. Studi in
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Morelli, Firenze, Olschki, 2001, pp. 355-429.
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Edgar MORIN, Le cinéma ou l’homme immaginaire. Essai
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(I ed., 1956); trad. inglese (consultata), The Cinema or the
Imaginary Man, Minneapolis: University of Minnesota
Press, 2005.
MUSICA EX MACHINA Musica ex machina, a cura di D. Guaccero e P. Grossi,
1967-1968, in RAI.
Programma radiofonico in dieci puntate, all’interno della rubrica “Club d’ascolto”. Di seguito il numero romano indica il
numero della puntata.
VI 1967Esecuzione
dal vivo, 26 luglio 1967.
Interventi: Italo Gómez, Ivan Vandor, Allan Bryant, John Phetteplace, John Eaton, Bill [William O.] Smith, Paolo Ketoff.
Brani trasmessi: I. Gómez – Giuliana Zaccagnini, Grafico 3; I.
Vandor, Project 2; A. Bryant, Pitch Out; J. Phetteplace, Paesaggio
naturale; J. Eaton, Song for R.P.B.; W. O. Smith, Make Love, Not
War; P. Ketoff – D. Guaccero, Improvvisazione per Synket.
VII 1967Musiche
di consumo e collages, 12 ottobre 1967.
Interventi: intervista di Vittorio Gelmetti a Paolo Portoghesi,
intervista di Domenico Guaccero a Romano Scavolini, intervista di Pietro Grossi ad Aldo Clementi. Brani trasmessi: V. Gelmetti, Modulazione per Michelangelo; Josef Anton Riedl, Komposition
für elektronische und konkrete Klänge; Peter Schat, De Aleph; Ivo Malec, Reflets; Giuseppe Chiari, Omaggio a René Clair; A. Clementi,
Collage 3 (Dies Irae).
X 1968
Studi sperimentali italiani a confronto, 14 maggio 1968.
Interventi: Angelo Paccagnini, Pietro Grossi, Enore Zaffiri,
Teresa Rampazzi, Domenico Guaccero; moderatore: Luciano
Alberti.
NASCIMBENE 1992
Mario NASCIMBENE, Malgré moi, musicista, Venezia: Edizioni del Leone, 1992.
2002 ⎯, L’impronta del suono. La mia musica per il cinema, Ravenna:
Longo, 2002, (Musica, cinema, immagine, teatro, 31).
251
Maurizio Corbella
NASCIMBENI1997
Giulio NASCIMBENI, Una macchina fantastica per Ceccato e
Buzzati, «Corriere della sera», 28 dicembre 1997; ora in
«Working Papers – Methodologia», 91,
<http://www.methodologia.it/wp0.htm>, consultato
dicembre 2009.
NOVATI2009
Lo Studio di Fonologia. Un diario musicale 1954-1983, a cura
di M. M. Novati, Milano: Ricordi, 2009.
ONDAATJE2002
Michael ONDAATJE, The Conversations. Walter Murch and the
Art of Editing Film, New York: Knopf, 2002.
PESTALOZZA
s.d. Luigi PESTALOZZA, ritaglio, «Rinascita», s.d., in FMAR;
ora in ZACCONE 2005b.
Ritaglio di un articolo del musicologo milanese, rinvenuto in
FMAR da Leonardo Zaccone e pubblicato. Nel ritaglio compare
cerchiato, evidentemente dal compositore stesso o da un suo
famigliare, il passo relativo a Marinuzzi. Non è stato possibile
fino a questo momento rintracciare indicazioni più precise sulla
data del pezzo.
PETRI
s.d.a Elio PETRI, Acquario, s.d.
<http://www.urbanskin.org/acquario.html>, consultato
gennaio 2010.
s.d.b ⎯, Un tranquillo posto di campagna, s.d.,
<http://www.urbanskin.org/tranquillo.html>, consultato
gennaio 2010.
s.d.c ⎯, s.t., s.d., in FPET.
Appunto dattiloscritto di Petri sull’elemento sonoro nella vita
moderna.
[ante-1967]⎯, Scaletta “Tranquillo posto”, s.d., in FPET.
Sintetico trattamento per una storia imparentata con il futuro
film, ma con sensibili differenze.
1968a⎯, lettera a Sandy [Lieberson], 1 ottobre 1968, in FPET.
Petri chiede a Lieberson di intercedere con Jim Dine per l’acquisto di un suo quadro che riveste per il cineasta un particolare valore affettivo, e di trattare un prezzo con lui.
1968b⎯, lettera ad Alberto Grimaldi, 4 ottobre 1968, in FPET.
Petri chiede al produttore un riscontro riguardo a un soggetto
basato sul romanzo Nostra Signora Metredina che gli ha mandato.
Comunica che Un tranquillo posto di campagna è giunto alla fine
del doppiaggio.
1968c ⎯, lettera a Jim Dine, ms., 23 ottobre 1968, in FPET.
Petri rinuncia all’acquisto di un quadro del pittore e lo avvisa
che i quadri utilizzati per il film rientreranno in Inghilterra
intorno a metà novembre.
252
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
1968d⎯, lettera a Jim Dine, 28 ottobre 1968, in FPET.
Copia dattiloscritta e in lingua inglese di 1968a.
PETRI–VINCENZONI
s.d.a Elio PETRI – Luciano VINCENZONI, Un tranquillo posto di
campagna, s.d.
La sceneggiatura, conservata in forma dattiloscritta al CSC,
reca titolo Una tranquilla casa di campagna, corretto a penna nel
titolo definitivo, e porta indicazione «prima stesura». La data di
acquisizione del Ministero è 24 marzo 1969, ma la stesura è
sicuramente anteriore, dato che il film esce nelle sale nel 1968.
Da notare che, tra gli autori di questa stesura.
s.d.b ⎯, Un tranquillo posto di campagna (La paura), s.d., in FPET.
È la sceneggiatura più recente tra quelle da me rinvenute. Sul
retro della copertina reca la scritta a mano «Vanessa»; è con
tutta probabilità una copia destinata a Vanessa Redgrave, che
presenta anche stralci di dialogo tradotti in inglese in manoscritto. Il fatto che sia posteriore a tutte le altre copie si deduce
dal contenuto più aderente al film, con aggiunte molte sequenze non presenti nelle versioni precedenti.
1967a⎯, Un tranquillo posto di campagna, 1967, in FPET.
È la sceneggiatura più antica tra quelle da me rinvenute, fatta
eccezione per PETRI [ante-1967]. Presenta moltissime correzioni e annotazioni manoscritte, e si segnala come precedente a
s.d.a per una serie di elementi di minore congruità narrativa,
rispetto alla realizzazione filmica finale: tra questi c’è il nome di
alcuni personaggi, nonché il cognome di Wanda e della contessa, oltre che il cognome di Leonardo (Materia, corretto in Ferri
a penna).
1967b ⎯, Un tranquillo posto di campagna, 1967, in FPET.
Copia dattiloscritta di 1967a, fa proprie tutte le correzioni di
questa. Sul frontespizio c’è scritto a penna, «per Vincenzoni»;
con tutta probabilità si tratta dunque della copia sottoposta al
co-sceneggiatore.
POPPI–PECORARI1992 Dizionario del cinema italiano. I Film, 6 voll., Roma: Gremese, 1991-2002, III (Dal 1960 al 1969), a cura di R. Poppi e
M. Pecorari, 1991.
1996 Dizionario del cinema italiano. I Film, 6 voll., Roma: Gremese, 1991-2002, IV (Dal 1970 al 1979), a cura di R. Poppi e
M. Pecorari, 1996.
PORTOGHESI–MENNA–PLEBE–GELMETTI
1964 Paolo PORTOGHESI – Filiberto MENNA – Armando PLEBE – Vittorio GELMETTI, Scienza ed Arte. La metodologia della
ricerca scientifica nelle tecniche artistiche, (antologia del dibattito), «Marcatré», 6-7, maggio-giugno 1964, pp. 16-21.
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PYE–MYLES1979
Michael PYE – Lynda MYLES, The Movie Brats: How the
Film Generation Took Over Hollywood, New York: Holt, Rinehart & Winston, 1979.
ROBERTSON 1962
aPeggy ROBERTSON, lettera a Paul Donnelly, 7 agosto
1962, in AHP.
Nota di produzione in cui la segretaria di Alfred Hitchcock
chiede per conto del regista al responsabile del Sound Department degli Uccelli ragguagli sul modo di produzione di alcuni
suoni.
1962b⎯, lettera a George Tomasini, 23 ottobre 1962, in AHP.
Nota di produzione in cui Peggy Robertson consegna al direttore del montaggio degli Uccelli copie della sceneggiatura sonora del film, specificando anche gli altri destinatari.
«Subject: Background sound notes – “The Birds”. Enclosed please find
two copies of Mr. Hitchcock's background sound notes. I have sent six
copies to Mr. Watson, Sound Dept., four copies to Paul Donnelly and one
copy to Bennie Herman [sic]».
RODÀ2009
Antonio RODÀ, Evoluzione dei mezzi tecnici dello Studio di
fonologia musicale, in NOVATI 2009, pp. 39-83.
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Nino Rota per La dolce vita di Fellini, 2009, in Atti del Convegno internazionale “Ascoltare lo schermo”, Università
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Filmografia citata1
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suono Walter Ruttmann
Dottor Jekyll (Dr. Jekyll & Mr. Hyde), r. Rouben Mamoulian, USA, 1931
Contropiano (Vstrechnyi), r. Fridrikh Ermler, URSS, 1932
m. Dmitrij Dmitrievič Šostakovič
Stärker als Paragraphen, r. Jürgen von Alten, Germania, 1936
Ebbrezza del cielo, r. Giorgio Ferroni, Italia, 1940
m. Amedeo Escobar
Le schiave della città (Lady in the Dark), r. Mitchel Leisen, USA, 1945
m. Robert Emmett Dolan
Io ti salverò (Spellbound), r. Alfred Hitchcock, USA, 1945
m. Miklós Rósza
Giorni perduti (The Lost Weekend), r. Billy Wilder, USA, 1945
m. Miklós Rósza
Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still), r. Robert Wise, USA, 1951
m. Bernard Herrmann
Roma ore 11, r. Giuseppe De Santis, Italia, 1951
m. Mario Nascimbene
1 In questo elenco non si riportano i titoli già presenti nella filmografia di Gino Marinuzzi jr.
257
Maurizio Corbella
Lo sceicco bianco, r. Federico Fellini, Italia, 1952
m. Nino Rota
I vitelloni, r. Federico Fellini, Italia, 1953
m. Nino Rota
Pane, amore e fantasia, r. Luigi Comencini, Italia, 1953
m. Alessandro Cicognini
La guerra dei mondi (The War of the Worlds), r. Byron Haskin, USA, 1953
m. Leith Stevens
La strada, r. Federico Fellini, Italia, 1954
m. Nino Rota
Assalto alla Terra (Them!), r. Gordon Douglas, USA, 1954
m. Bronislau Kaper
Pianeta proibito (Forbidden Planet), r. Fred Wilcox, USA, 1956
m. Louis & Bebe Barron
Le notti di Cabiria, r. Federico Fellini, Italia, 1958
m. Nino Rota
Gli inesorabili (The Unforgiven), r. John Huston. USA, 1960
m. Dimitri Tiomkin
La dolce vita, r. Federico Fellini, Italia, 1960
m. Nino Rota
L’avventura, r. Michelangelo Antonioni, Italia-Francia, 1960
m. Giovanni Fusco
Barabba (Barabbas), r. Robert Fleischer, Italia-USA, 1961
m. Mario Nascimbene
La trincea, r. Vittorio Cottafavi, Italia, 1961 (tv)
La notte, r. Michelangelo Antonioni, Italia, 1961
m. Giorgio Gaslini
L’eclisse, r. Michelangelo Antonioni, Italia, 1962
m. Giovanni Fusco
Operazione Vega, r. Vittorio Cottafavi, Italia, 1962 (tv)
258
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
sonorizzazioni elett. SFdM
Le tentazioni del dott. Antonio, r. Federico Fellini, in Boccaccio ’70, Italia, 1962
m. Nino Rota
Il processo di Verona, r. Carlo Lizzani, Italia, 1962
m. Mario Nascimbene
La jetée, r. Chris Marker, Francia, 1962
m. Trevor Duncan, Jean-Pierre Sudre
8 ½, r. Federico Fellini, Italia, 1963
m. Nino Rota
Omicron, r. Ugo Gregoretti, Italia, 1963
m. Piero Umiliani
Gli uccelli (The Birds), r. Alfred Hitchcock, 1963
m. Remi Gassmann, Oskar Sala, Bernard Herrmann (consulenza)
Il deserto rosso, r. Michelangelo Antonioni, Italia-Francia, 1964
m. Giovanni Fusco, Vittorio Gelmetti
Ai poeti non si spara, r. Vittorio Cottafavi. Italia, 1965 (tv)
sonorizzazioni elett. SFdM
Giulietta degli spiriti, r. Federico Fellini, Italia, 1965
m. Nino Rota
Nous irons à Tahiti, r. Christian Mottier – Paolo Brunatto, Svizzera, 1965
m. Vittorio Gelmetti
La decima vittima, r. Elio Petri, Italia, 1965
m. Piero Piccioni
Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy
Caution), r. Jean-Luc Godard, Francia 1965
m. Paul Misraki
Un milione di anni fa (One Milion Years B.C.), r. Don Chaffey, Gran Bretagna,
1966
m. Mario Nascimbene
La fantarca, r. Vittorio Cottafavi, Italia, 1966 (tv, trasm. 1968)
259
Maurizio Corbella
m. Roman Vlad
La tana, r. Luigi Di Gianni, Italia, [1967]
m. Vittorio Gelmetti
Se l’inconscio si ribella, r. Alfredo Leonardi, Italia, 1967
Hermitage, r. Carmelo Bene, Italia, 1967
m. Giuseppe Verdi, Vittorio Gelmetti
A mosca cieca, r. Romano Scavolini, Italia, 1967
m. Vittorio Gelmetti
La prova generale, r. Romano Scavolini, Italia, 1968
m. Egisto Macchi
Un tranquillo posto di campagna, r. Elio Petri, Italia, 1968
m. Ennio Morricone, GINC
Toby Dammit, r. Federico Fellini, in Tre passi nel delirio (Histoires extraordinaires),
Francia-Italia, 1968
m. Nino Rota
2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey), r. Stanley Kubrick, Gran
Bretagna-USA, 1968
Il seme dell’uomo, r. Marco Ferreri, Italia, 1969
m. Teo Usuelli, Richard Teitelbaum
Gott mit uns - Dio è con noi, r. Giuliano Montaldo, Italia-Croazia, 1969
m. Ennio Morricone
Nerosubianco, r. Tinto Brass, Italia, 1969
m. Freedom, elaborazioni sonore Vittorio Gelmetti, sonorizzazioni elettroniche Luciano Lanzillotti
Fellini Satyricon, r. Federico Fellini, Italia, 1969
m. Nino Rota, et a.
Sotto il segno dello scorpione, r. Paolo e Vittorio Taviani, Italia, 1969
m. Vittorio Gelmetti
Il sasso in bocca, r. Giuseppe Ferrara, Italia, 1970
m. Vittorio Gelmetti
260
Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta
Zabriskie Point, r. Michelangelo Antonioni, Italia-USA, 1970
m. Pink Floyd, Jerry Garcia, MEV, et a.
Sacco e Vanzetti, r. Giuliano Montaldo, Italia-Francia, 1970
m. Ennio Morricone
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, r. Elio Petri, Italia, 1970
m. Ennio Morricone
La classe operaia va in paradiso, r. Elio Petri, Italia, 1971
m. Ennio Morricone
Giù la testa, r. Sergio Leone, Italia, 1971
m. Ennio Morricone
Occhi freddi della paura, r. Enzo G. Castellari, Italia, 1971
m. Ennio Morricone e GINC
Il caso Mattei, r. Francesco Rosi, Italia, 1972
m. Piero Piccioni
Amarcord, r. Federico Fellini, Italia-Francia, 1973
m. Nino Rota
Il delitto Matteotti, r. Florestano Vancini, Italia, 1973
m. Egisto Macchi
American Graffiti, r. George Lucas, USA, 1975
Cassandra Crossing (The Cassandra Crossing), r. George P. Cosmatos, Italia, 1976
m. Jerry Goldsmith
Il Casanova di Federico Fellini, r. Federico Fellini, Italia, 1976
m. Nino Rota
Guerre stellari (Star Wars), r. George Lucas, USA, 1977
m. John Williams, sound design Ben Burtt
Alien, r. Ridley Scott, Gran Bretagna, 1979
m. Jerry Goldsmith
Apocalypse Now, r. Francis Ford Coppola, USA, 1979
m. Carmine Coppola, Francis Ford Coppola, sound design Walter
Murch
261
Maurizio Corbella
Coffee and Cigarettes, r. Jim Jarmusch, USA, 2003
262