Il mondo sociale di Nicoletta Bazzano e Francesco Benigno Il mondo sociale si è fatto opaco. Riuscire a descrivere la società, distinguerla in parti omogenee, in gruppi significativamente coesi, è oggi un esercizio difficile, più difficile che quaranta o cinquanta anni fa. Alla metà del XX secolo, la società europea occidentale e quella americana appaiono divise in segmenti discretamente delineati, in insiemi sufficientemente compatti e relativamente consapevoli della propria condizione. I modelli di descrizione della società, chiamati anche modelli di classificazione sociale, distinguono i gruppi rispetto al settore di attività economica. Tra essi, vi sono anzitutto i contadini, proprietari o solo braccianti, impiegati nel cosiddetto settore primario, l’agricoltura. Per secoli essi hanno costituito la grande maggioranza della popolazione, ma dalla fine dell’Ottocento in tutta Europa, a seguito dell’industrializzazione, il loro numero è diminuito, sicché alla metà del XX secolo rappresentano percentuali ridotte, variabili, ma comunque sotto il 10 per cento della popolazione. Molto più larga, da un terzo a oltre metà della popolazione, è invece la quota dei lavoratori del settore secondario, l’industria, e cioè gli operai. Negli Stati Uniti gli operai vengono chiamati, dal colore delle tute, colletti blu: questo serve a distinguerli dagli impiegati, i lavoratori del settore terziario, dei servizi, che vengono detti colletti bianchi, per l’abitudine di portare in ufficio giacca, camicia e cravatta. Difficilmente riconducibili a un settore sono poi le cosiddette classi agiate costituite dagli appartenenti alle professioni liberali (avvocati, notai, medici, ingegneri, architetti e così via), dai grandi proprietari terrieri, dagli alti burocrati statali e dagli imprenditori industriali e commerciali. Alla base di questo disegno della società vi è il concetto di classe, elaborato nella prima metà dell’Ottocento, a seguito soprattutto degli sconvolgimenti sociali provocati dalla rivoluzione industriale, che scompaginano vecchi raggruppamenti sociali e ne creano di nuovi. La classe identifica un gruppo di persone aventi una posizione analoga rispetto al processo produttivo: esempio tipico è costituito dagli imprenditori industriali proprietari dei mezzi di produzione da un lato e, dall’altro, dagli operai che vendono la propria capacità di lavoro. All’interno di una classe è naturalmente possibile distinguere varie stratificazioni, identificate soprattutto facendo riferimento al livello di reddito. Nel caso della classe operaia, per esempio, sin dall’Ottocento e fino a qualche decennio fa, è possibile riconoscere con qualche nettezza i gruppi più consapevoli, padroni di una propria cultura e in grado di difendere collettivamente i propri diritti: è la cosiddetta «aristocrazia operaia», ben distinta dagli operai non qualificati genericamente descritti con il nome di proletari. Al di sotto di quest’ultima fascia, restano gruppi socialmente marginali, spesso di recente immigrazione, disgregati e scarsamente coscienti del proprio ruolo sociale, non di rado afflitti da disoccupazione cronica, che costituiscono il cosiddetto sottoproletariato. Nello stesso periodo, l’intero mondo del lavoro autonomo, dell’impiego e delle professioni viene genericamente definito borghesia. Data l’ampiezza delle condizioni e il carattere variegato dei mestieri ricadenti sotto questo termine, è possibile specificare diverse condizioni. In una fascia inferiore, in inglese lower class, la cosiddetta piccola borghesia raggruppa i piccoli negozianti, gli artigiani e gli impiegati di basso livello. In una fascia superiore vi è la media borghesia, in inglese middle class, composta da impiegati di buon reddito, commercianti agiati, professionisti. Domina l’insieme la classe superiore o alta borghesia, in inglese upper class, che raggruppa i capitani d’industria, i professionisti di successo, i grandi proprietari terrieri, gli alti vertici delle amministrazioni civili e dell’esercito. Complessivamente, questi tentativi di classificazione rappresentano la società come una sorta di scala in cui ciascuno, a seconda delle proprie condizioni, sosta in uno strato sociale come su un gradino, in attesa di migliorare la propria posizione, ad esempio con un matrimonio con un partner di estrazione superiore o con un particolare successo nell’attività lavorativa, o di subire un peggioramento, ad esempio perdendo il lavoro. Questo fenomeno di ascesa e discesa sociale degli individui, ma anche dei gruppi, è detto mobilità sociale. Nel corso dell’Ottocento, a tale modello di classificazione della società se ne sovrappone un altro di tipo dicotomico, dal greco dìkha, in due parti, e tèmnein, tagliare. Secondo tale modello, la società si caratterizzerebbe fondamentalmente, al di là delle sue complesse articolazioni, per una scissione basilare in due campi sociali contrapposti: da una parte quello proletario, che ingloba anche il mondo contadino e le fasce sottoproletarie, dall’altro quello borghese. Questa contrapposizione ha un significato essenzialmente politico ed è sfruttata, a partire dall’Ottocento, soprattutto da gruppi e partiti (socialisti, democratici, laburisti) che puntano a rappresentare le istanze del mondo salariato e che, utilizzando un linguaggio elaborato durante la Rivoluzione francese, siedono a sinistra nelle aule parlamentari. Specularmente, le formazioni politiche che siedono a destra nei parlamenti tendono a rappresentare gli interessi e le convinzioni del mondo borghese in tutte le sue molteplici componenti. La sovrapposizione di schemi classificatori politici a quelli che mirano a rappresentare «scientificamente» la società favorisce l’integrazione dei gruppi e il loro riconoscersi nel campo operaio o in quello borghese. Il mondo sociale risulta così, per lungo tempo, sufficientemente chiaro nei suoi assi fondamentali: al singolo non resta che schierarsi, scegliere se stare politicamente dalla parte degli operai, o più in generale dei lavoratori salariati e dei partiti che ne hanno assunto la rappresentanza, o da quella degli imprenditori, dei professionisti, dei funzionari pubblici e delle forze politiche che ne curano gli interessi. Oggi la realtà sociale appare più complessa e il riconoscimento politico molto più incerto. Il più importante elemento che ha modificato il quadro è la riduzione numerica della classe operaia. A seguito delle trasformazioni dei processi produttivi, a partire dal 1975 circa, il numero di addetti del settore secondario è in costante decremento in tutte le società occidentali e si assesta ormai stabilmente al di sotto di un terzo della popolazione. Inoltre gli elementi culturali che contribuiscono a mantenere vivo un certo stile di vita operaio e che nutrono l’affermazione orgogliosa di quel ruolo sociale sono venuti a mancare. Tra loro, a seguito della caduta del muro di Berlino e della disgregazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, è caduta anche la speranza di un mondo sociale alternativo, rappresentato dai regimi comunisti: una speranza che, per tutto il Novecento, ha un’enorme presa sul mondo del lavoro salariato dell’Europa occidentale. Nel corso del XX secolo, infatti, i regimi comunisti, nel tentativo di realizzare l’uguaglianza delle condizioni sociali attraverso l’abolizione della proprietà privata e la statalizzazione o collettivizzazione della proprietà terriera e industriale, fanno dell’operaio il motore di un processo di rigenerazione morale, il simbolo di un uomo nuovo, il protagonista del cambiamento. Il mondo sociale appare così sempre più difficile da leggere. Gli individui si raggruppano e si riconoscono secondo schemi che non pongono più la posizione economica necessariamente al centro della vita, a fondamento della propria identità. Quasi scomparsi i contadini, gli operai tendono a non identificarsi in una condizione lavorativa che, tra l’altro, nel corso del tempo è molto cambiata. D’altro canto, anche il cosiddetto mondo borghese comprende oramai la stragrande maggioranza della popolazione: si sono venute accentuando le spinte a una distribuzione dei redditi molto differenziata, a stili di vita diversi e a comportamenti politici radicalmente opposti fra loro, tali da rendere ben difficile o inutile l’uso di una simile categoria omnicomprensiva. In breve, almeno in Europa e negli Stati Uniti, tutto il mondo sociale appare ormai borghese, di fatto o in termini di aspirazioni diffuse, ma questo termine non connota più politicamente gli individui, non comporta precise scelte di fede o particolari, vincolanti stili di vita, non obbliga a valori condivisi. Per ritrovare una chiave di lettura praticabile può allora essere utile rivolgere uno sguardo all’indietro nel tempo a quell’universo sociale e politico, detto di antico regime, che esiste prima della Rivoluzione francese e prima di quel mondo operaio e borghese che fa parte ormai anch’esso del nostro passato. La distinzione sociale nella società di ordini All’origine della società europea medievale sta l’incontro del mondo romano con quello germanico o barbarico. Dopo l’ondata delle invasioni, nel corso del VI secolo, si strutturano in Europa tutta una serie di regni, definiti romano-barbarici. Essi sono tutti diversi, poiché sono generati da distinte tradizioni politiche, amministrative e insediative; tuttavia, è possibile ravvisare dei tratti comuni. In primo luogo, la componente barbarica è minoritaria nel territorio di insediamento. Pertanto, il problema della convivenza con le popolazioni romanizzate si risolve con il mantenimento di alcune tradizioni locali, prima fra tutte quella giuridica. I sovrani barbarici mutuano dal mondo romano la codificazione scritta e ne fanno uso; inoltre, la gestione diretta dell’apparato amministrativo rimane in mani romane, più esperte, mentre i barbari monopolizzano l’esercito e la difesa militare. In tutti i regni, ben presto, il potere politico stringe un’alleanza con la chiesa cristiana, maggioritaria nell’Impero, e quindi in grado di conferire legittimità ai nuovi sovrani. All’apice delle diverse società vi è, infatti, il re, una figura elettiva, un primus inter pares, un primo fra pari caratterizzato spesso, però, da un potere sacrale. Egli detiene il potere di banno, dal sassone ban: può, cioè costringere, giudicare e punire i suoi sudditi, oltre che guidare i suoi guerrieri, uomini liberi addestrati all’uso delle armi, in battaglia. Tutti i regni fondati sul suolo del crollato impero d’Occidente – il regno dei Franchi, degli Anglosassoni, degli Ostrogoti, dei Visigoti e dei Vandali, ma anche quello dei Longobardi che si consolida in Italia nel corso del VII secolo – hanno, quindi, le medesime caratteristiche generali. La società che li compone, tra VI e XI secolo d.C., si riconosce essenzialmente in una visione che immagina il mondo sociale come un organismo vivente (visione organicista), in cui ogni parte ha una funzione nel rispetto dell’equilibrio dell’insieme (visione funzionalista). Viene così forgiata la divisione della società in tre gruppi nettamente distinti fra loro, sotto il coordinamento di un sovrano: gli oratores, quelli che pregano, e cioè il clero; i bellatores, quelli che combattono, cioè i nobili; i laboratores, quelli che lavorano la terra, cioè tutti gli altri chiamati a produrre i beni necessari per la sussistenza dell’intera società. Questa tripartizione viene presentata come eterna, come una legge di natura voluta da Dio per rendere possibile l’armonia fra gli uomini. «La casa di Dio – scrive Adalberone di Laon (947-1030) – si crede una, ma è divisa in tre: gli uni pregano, gli altri combattono, gli altri infine lavorano». In effetti, tale visione del mondo rispecchia lo sviluppo reale della società del tempo: si delineano al suo interno gruppi, in particolare gli ecclesiastici e gli aristocratici, che vogliono assumere il carattere di casta privilegiata e che rivendicano la propria autorità. Al tempo stesso, però, tale immagine contribuisce a plasmare le strutture della società, interpretandola in modo restrittivo: la teoria, infatti, nega l’esistenza di gruppi sociali, quali gli artigiani e i mercanti cittadini che col tempo avrebbero assunto sempre più importanza e rilievo. Malgrado questi limiti evidenti, la durata di questa visione della società è lunghissima, grazie anche al fatto che essa trova espressione per tutta l’età moderna fino al 1789 negli Stati generali francesi, il parlamento diviso in tre camere (clero, nobiltà e Terzo stato). Coerentemente con lo spirito che porta alla sua formazione, la tripartizione fra oratores, bellatores e laboratores vede i tre gruppi disposti gerarchicamente. Il primato è tenuto dai religiosi, che, secondo la visione del tempo, svolgono la funzione sociale più importante: sono il primo ordine o primo Stato. Il clero, a causa della scelta dell’obbligo del celibato, è un gruppo sociale che non si riproduce: i suoi membri vengono perciò reclutati fra quelli appartenenti ad altri ordini. Esso è al suo interno fortemente gerarchizzato ed è diviso fra clero secolare, ossia i sacerdoti che amministrano i sacramenti in chiese pubbliche e private, e clero regolare, monaci che, seguendo la regola di Benedetto da Norcia, vivono separati dal mondo in comunità autonome alternando preghiera e lavoro. Fra X e XI secolo, tuttavia, sia le chiese sia i monasteri sono ben lontani dall’ideale evangelico di povertà: a seguito delle donazioni pervenute, la Chiesa può vantare un ampio patrimonio immobiliare che le assicura grandi ricchezze e un enorme potere su quanti vivono e lavorano sulle terre di sua proprietà. Inoltre, tutti i religiosi possono contare sulla decima, il diritto, sancito in epoca carolingia, di prelevare la decima parte dei raccolti dei contadini dei dintorni. Spesso, in virtù delle ricchezze accumulate e del fatto che la vita religiosa non è il frutto di una libera scelta ma di un’imposizione familiare per preservare il patrimonio del casato a solo vantaggio del maggiore dei figli maschi, vescovi e abati non si distinguono, in quanto ad abitudini, dagli aristocratici con i quali condividono l’amore per la caccia e per il lusso. Il secondo ordine o secondo Stato è costituito dalla nobiltà guerriera, che si impegna nel mestiere delle armi e della guerra. I suoi esponenti maschi sono addestrati alla vita militare sin dalla giovane età. Appresi i primi rudimenti, fanno apprendistato come scudieri lontano dalla casa paterna, presso un aristocratico, per poi essere ordinati cavalieri, con una solenne cerimonia. Se non impegnati in un conflitto, i nobili vivono nei loro castelli, all’interno dei quali detengono enormi poteri su congiunti e servitù, e trascorrono le loro giornate dividendosi fra la caccia e i tornei cavallereschi, attività che ne permettono il continuo addestramento militare. Poiché, diversamente dal clero, l’ordine nobiliare si riproduce, i casati aristocratici perpetuano il ricordo della propria individuale discendenza familiare, facendola spesso risalire ad antenati prestigiosi, sia reali sia fittizi. Ciò, insieme alla ricerca di uno stile di vita ricco e sempre più raffinato, nel corso del tempo contribuisce a farne un gruppo separato all’interno della società. I contadini, terzo ordine o terzo Stato, costituiscono la maggioranza della popolazione. Le loro piccole case si ergono spesso a ridosso dei castelli, dove trovano riparo in caso di minaccia esterna. In cambio della protezione, i contadini stringono un patto con il signore che li obbliga a cedergli un canone, ossia una parte considerevole del raccolto, da un terzo a un decimo a seconda delle consuetudini locali, una parte delle eventuali colture tessili (lino o canapa) e una tassa di concessione per l’allevamento di animali. Inoltre, i contadini devono al signore un censo in denaro, che si procurano generalmente vendendo al mercato i prodotti in eccedenza; i doni, generalmente pollame e uova, per le festività; la taglia, una tassa eccezionale in caso di eventi particolari come il fidanzamento della figlia del signore; i pedaggi, nel caso di utilizzo di strutture (mulini, frantoi, ponti e così via) di proprietà del signore; le corvées, prestazioni di lavoro obbligatorie e gratuite. A partire dal tardo Medioevo e ancora con maggiore vigore durante l’età moderna, il primo e il secondo ordine ampliano le loro funzioni all’interno della società. Gli ecclesiastici non si limitano alla cura delle anime e svolgono importanti compiti, che includono l’amministrazione di ingenti patrimoni, la guida politico-amministrativa di città e terre, l’educazione e l’istruzione, la sanità, il controllo sociale delle comunità, l’assistenza alle categorie disagiate, il supporto spirituale e il consiglio pratico alle autorità civili. Di conseguenza, come peraltro dimostra l’esempio francese che non è un unicum in Europa, il primo ordine è presente, da solo o insieme al secondo, nelle principali istituzioni politiche rappresentative del continente. Il secondo ordine costituisce il gruppo sociale preminente dal momento del suo consolidamento nell’altro Medioevo e per l’intera età moderna, sebbene a partire dalla fine del Trecento debba subire, nelle diverse realtà europee, il peso crescente dei poteri dei sovrani. Del resto, l’universo nobiliare che i sovrani tendono a controllare, con sempre maggiore forza, non è mai a totale disposizione del loro potere. In primo luogo, le più prestigiose famiglie nobiliari accreditano generalmente l’idea di discendere dai gruppi di guerrieri germanici che hanno conquistato l’Impero romano: ciò sottintende l’idea che, come nelle antiche tribù germaniche, il re sia un primus inter pares, un primo fra eguali, scelto liberamente dai guerrieri per guidarli in battaglia. In secondo luogo, la nobiltà, al di là del puro e semplice titolo, considera essenziali fonti di prestigio elementi sui quali è ininfluente l’azione dei sovrani: ad esempio, si è tanto più nobili quanto la propria famiglia ha una discendenza nobiliare antica e universalmente riconosciuta. In terzo luogo, infine, la nobiltà nasce non solo dalla concessione di un titolo, ma anche da una pratica di selezione delle famiglie più importanti generatasi spontaneamente nelle realtà urbane. Tale nobiltà, denominata spesso patriziato, si viene formando fra Tre e Quattrocento nelle città italiane di impianto comunale, sfuggendo al controllo di poteri esterni alla cerchia urbana. Malgrado le differenze che sussistono tra le diverse realtà nazionali, i gruppi nobiliari europei condividono tratti comuni, primo fra tutti – in grado di promuoverne altri – la grande mobilità geografica. Sia le guerre, di cui sono protagonisti indiscussi, che i matrimoni, con i loro nutriti corteggi di cavalieri e dame che accompagnano principesse e gentildonne che vanno spose in luoghi lontani, favoriscono la circolazione di modelli di comportamento che diventano simili in tutta Europa e che danno un certo grado di omogeneità allo stile di vita aristocratico. La funzione militare dei bellatores è alle origini delle fortune materiali e della creazione di onori e titoli, che nel corso della prima età moderna vengono sistematizzati all'interno di una scala gerarchica: principe, duca, marchese, conte, barone e così via. I gradi di nobiltà qualificano e distinguono, insieme alle ricchezze, ai feudi, nel corso dei secoli assimilati per molti aspetti alla proprietà, e alla capacità di mobilitazione di un seguito più o meno vasto, le diverse fasce del ceto aristocratico, l'alta nobiltà come quella di più basso rango. Generalmente i titoli sono legati alle terre. Nel Medioevo la terra viene concessa in feudo dal sovrano, in cambio della fedeltà. Grazie a una serie di provvedimenti, ben presto, però, la concessione feudale, temporanea, viene ben presto assimilata alla proprietà. Inalienabili diventano, in virtù degli stessi provvedimenti, anche altri diritti il cui sfruttamento è stato concesso in feudo. Dopo tale legislazione, il nobile, in virtù di diritto o di consuetudine, può quindi avere il possesso diretto, totale o parziale, di tali terre e/o la possibilità di esercizio della giurisdizione civile e penale. La presenza tangibile del nobile sulle terre che in qualche modo gli appartengono è testimoniata dalla sua residenza, un castello dotato di strutture di difensive, autentico centro politico e amministrativo che domina, spesso anche visivamente, il villaggio contadino. Qui il titolato, senza alcun controllo da parte del sovrano, è in grado di organizzare le forze militari necessarie per difendere la propria supremazia in ambito locale, per esempio in caso di minacce da parte di vicini particolarmente aggressivi, o per mettere le proprie forze al servizio della corona. Compongono le fila degli eserciti nobiliari non solo i contadini addestrati a tal fine, ma anche altri nobili di minori fortune e possibilità, vassalli che hanno ricevuto dal signore più potente un beneficio, spesso un feudo, rendendogli in cambio un omaggio feudale, che implica rispetto e fedeltà. Forti della ricchezza e del potere delle armi, i nobili godono pertanto di particolari privilegi connessi al loro rango. Comune a tutti i paesi europei è il privilegio di portare la spada e di sfoggiare un abbigliamento particolarmente lussuoso, proibito a tutti gli altri dalle leggi suntuarie. Molte altre disposizioni in favore della nobiltà, invece, variano da luogo a luogo. Inoltre, in molti paesi, gli aristocratici possono usufruire di un foro privilegiato e sono esenti dalle richieste fiscali più gravose. Infine, hanno il diritto di sedere nelle assemblee rappresentative di ciascuna monarchia nazionale (Parlamento, Stati generali etc.) e formano un corpo ben definito al loro interno. A tutela della loro condizione privilegiata, i nobili promuovono raffinate forme di propaganda volte, da un lato, a celebrare la loro sostanziale diversità e il possesso di qualità distintive ereditarie raffinate dall'educazione in grado di garantire la loro attitudine al comando, e dall'altro la propria discendenza da figure mitiche o eroiche. Nel corso del Cinquecento molti sono i cambiamenti politici e sociali che insidiano l'autorità nobiliare. Primo fra tutti è il rafforzamento della figura del sovrano, fino a quel momento sostanzialmente un primus inter pares, che acquista ora una statura inedita. La nobiltà deve, pertanto, dar prova di notevoli capacità di adattamento per continuare a esercitare la propria preminenza sociale e politica. Un esempio del nuovo potere sovrano è dato dagli interventi volti a stabilire il metro d'ingresso e la composizione dello stesso ordine nobiliare. Nel Cinquecento prosegue la spinta alla nobilitazione che è cominciata già alla fine del Quattrocento, nel quadro delle cosiddette “guerre d’Italia” e della incipiente burocratizzazione delle monarchie europee. La mobilità verso i vertici della società del tempo corona spesso le ambizioni di ascesa sociale di personaggi di oscuri natali. Non solo i meriti militari ma anche l'esercizio di cariche giudiziarie e amministrative al servizio dei sovrani consentono a molti l'accesso ai ranghi nobiliari minori. La concessione del titolo si accompagna a quella della terra cui ancorarlo: in questo modo, nel volgere di poche generazioni, la «nuova» nobiltà quattro-cinquecentesca assume atteggiamenti e comportamenti della nobiltà più antica. Si rafforza anche l'alta nobiltà, grazie anche dalla remunerativa pratica, sempre più diffusa a partire dal Cinquecento, della vendita di nuovi titoli da parte dei sovrani, alla ricerca di risorse per finanziare l'espansione burocratico-amministrativa e la politica di potenza che l'adozione delle nuove tecnologie belliche basate sull'uso della polvere da sparo rende particolarmente costosa. Malgrado le suscettibilità dei conservatori che vorrebbero mantenere chiuso l'accesso ai ranghi più elevati dell'aristocrazia, questi titoli vengono proficuamente venduti con grande beneficio delle casse regie a potenti uomini d'affari o ad aristocratici con grandi fortune, che cumulano così feudi e onorificenze. Nel corso del Cinquecento, tuttavia, la mobilità sociale verso i più alti ranghi rallenta gradatamente. La più oculata generosità dei sovrani viene accompagnata dall'azione degli stessi nobili che promuovono tutta una serie di dispositivi culturali e giuridici per limitare gli ingressi. Sempre maggiore rilievo acquista nella fiorente trattatistica dedicata alla nobiltà il tema del lignaggio, dell'appartenenza gentilizia, del «sangue» quale elemento necessario per la definizione stessa dell'identità nobiliare. All'interno delle famiglie si presta particolare attenzione alla politica matrimoniale in modo da preservare il rango degli eredi. Si moltiplicano le ricerche che disegnano alberi genealogici in grado di ricostruire le ascendenze dei singoli individui, a testimonianza dell'antichità del prestigio del suo casato. La famiglia patrilineare viene inoltre tutelata da norme speciali per la trasmissione ereditaria del patrimonio: la primogenitura privilegia il figlio maschio maggiore mentre il fedecommesso vincola l'eredità alla sua indivisibilità, evitandone così la parcellizzazione e la scomparsa. Il rischio della frantumazione del patrimonio immobiliare è reso tangibile, nel corso del Cinquecento, da tutta una serie di fenomeni, economici e non, che minacciano il benessere dei signori rurali. L'inflazione che caratterizza la vita economica cinquecentesca, infatti, minaccia il patrimonio di molti nobili: data l'impossibilità di aumentare i propri redditi, in gran parte derivanti dai canoni fissi che devolvono loro i fittavoli, essi vedono assottigliarsi le loro entrate. Il divario fra famiglie con ampie possibilità e famiglie di pari rango ma modeste, se non povere, o con famiglie di rango minore, viene assorbito, al principio del secolo, all'interno dello stesso ordine, grazie alla tessitura di reti di protezione (patronage) che si dipartono dai grandi dignitari e coinvolgono gli aristocratici di minore levatura. La trattatistica di matrice umanistica che postula la relazione fra un superior, un patrono, in grado di beneficiare un inferior, un cliente, fornisce una cornice teorica a pratiche comuni nell'Europa cinquecentesca. Il cliente dà prova della sua fedeltà nei confronti del suo protettore, agendo quando ne ha l'occasione – in tribunale, per esempio, se avvocato o giudice – in favore di quest'ultimo o arricchendo con la sua persona e i suoi talenti il corteggio del suo signore, che la cultura del tempo vuole numeroso in proporzione all'importanza sociale. Per gran parte del Cinquecento il rapporto di protezione che lega i nobili ricchi e potenti a quelli poveri e deboli contribuisce così a mantenere coeso l'ordine aristocratico. L'emergere della corte regia come centro di potere politico mette in serio pericolo l'equilibrio fra ricchi e poveri all'interno dell'insieme nobiliare. Nel contesto cortigiano il ruolo di patrono viene assunto, senza tema di confronto, dal sovrano. Questi guarda con sospetto a gruppi clientelari che rendano i grandi aristocratici in grado di mettere in pericolo la preminenza della corona, mentre, al contempo, diviene il solo dispensatore di onori, titoli e privilegi. I grandi nobili, quindi, a partire dalla fine del Cinquecento, preferiscono vivere a corte e partecipare alla vita politica di palazzo, in una costante competizione senza esclusione di colpi per guadagnare titoli, rendite, benefici, sinecure oltre che incarichi di governo civili e militari. Ciò ha come conseguenza l'allentamento da parte dei nobili cortigiani dei vincoli clientelari intessuti nella zona di origine, facendo così venir meno l'unità dell'ordine nobiliare nel suo complesso. Realtà caotica perché itinerante, la corte, nel corso del Cinquecento, diviene un irrinunciabile polo di attrazione per gli aristocratici in virtù dell'ideale di vita e di cultura che vi si coltiva. In ottemperanza ai dettami del famoso libro Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione (14781529) pubblicato nel 1528 negli ambienti di palazzo gentiluomini e gentildonne si preoccupano di coltivare il gusto per la cultura e per l'arte nonché i piaceri della caccia e della danza, rispettando al contempo norme di comportamento, in modo da fornire in ogni circostanza un'armoniosa cornice cerimoniale, rappresentazione visiva della gerarchia sociale che ha al suo apice il sovrano. A partire dalla seconda metà del Cinquecento si diffonde il cerimoniale borgognone: una pratica che regola la vita privata del monarca, al cui servizio personale sono chiamati i nobili cortigiani. Questi ultimi godono così della possibilità di avere un contatto diretto con il sovrano e di influenzarne a proprio vantaggio la volontà, grazie a una vicinanza che l'etichetta sempre più rigida impedisce ai più. Anche i cambiamenti in campo bellico contribuiscono a rendere meno compatto il ceto nobiliare. Fino a metà secolo, infatti, l'esercizio del potere militare e l'organizzazione autonoma di truppe cementa la solidarietà fra grandi nobili e piccoli aristocratici alle loro dipendenze. Con l'avvento della polvere da sparo e l'aumento vertiginoso dei costi della guerra, si affievolisce fino a scomparire la capacità dei singoli nobili di far concorrenza al sovrano nell'armare eserciti privati o nel costruire fortezze. I costi sono insostenibili per i singoli nobili, per quanto grande sia la loro ricchezza. Ai grandi aristocratici, rimane la possibilità di assurgere agli alti comandi degli eserciti delle monarchie. Il potere di giudicare i contenziosi e il monopolio della violenza rivendicati dai sovrani sono ulteriormente rafforzate nel corso del Cinquecento dalle monarchie europee, che moltiplicano i propri sforzi per dotarsi di un corpo di magistrati e di avvocati in grado di operare anche nelle realtà periferiche e nei domini signorili. Spesso sono gli stessi nobili di più basso rango, signorotti di villaggio, ad avanzare la domanda politica di giustizia sovrana per far fronte alla violenza di grandi nobili più rapaci e potenti. Il ricorso sempre più frequente all'azione giudiziaria rispetto all'esercizio della violenza per la composizione dei conflitti locali contribuisce a sgretolare il potere militare dei nobili. Il processo di affermazione del potere regio non avviene in modo lineare, senza resistenze, anche violente, da parte nobiliare. Nel corso della prima metà del Cinquecento, sotto il pretesto di difendere la propria fede religiosa dopo l'avvento della riforma protestante, grazie alla loro capacità di mobilitazione popolare e al sapiente utilizzo delle catene clientelari, gruppi di nobili sono sovente protagonisti di conflitti civili, di matrice politico-religiosa, il cui minimo comune denominatore è dato dal rifiuto di un potere regio che si dichiara sempre più assoluto. Ciononostante, nel corso del Seicento giunge a maturazione il processo di rafforzamento dell'autorità regia e il ceto nobiliare, nelle monarchie dell’Europa occidentale, è costretto a rinunciare a quote significative di potere in cambio del mantenimento del suo primato sociale. Nel corso del Seicento si porta a compimento il trasferimento dalla campagna in città di gran parte della nobiltà europea. Ad attirare i nobili nelle grandi capitali europee, – Madrid, Londra, Praga e Parigi – è soprattutto il desiderio di frequentare le corti regie e di attingere alle risorse e agli onori che il sovrano e i suoi più stretti collaboratori distribuiscono. La presenza di una folla di grandi, medi e piccoli nobili ansiosi di mostrare il loro prestigio spiega perché nelle grandi città europee si registri un cospicuo afflusso di capitali destinati all'edilizia. Cresce così il tessuto urbano, arricchito di nuovi eleganti quartieri. In città i nobili animano un'intensa vita sociale fatta di intrattenimenti: il teatro, in primo luogo, le passeggiate in carrozza nelle vie principali, i fastosi rituali religiosi nell'Europa cattolica, le cerimonie civili in occasione di vittorie militari, nascite, matrimoni, incoronazioni e così via. Per spiccare all'interno del panorama cortigiano è necessario che i nobili maschi, fino al pieno Cinquecento istruiti essenzialmente nell'uso delle armi, padroneggino ben altre conoscenze: buone maniere, danza, lingue straniere, arte, musica. Si vengono così diffondendo, in tutta Europa, a partire dalla Penisola italiana, le accademie cavalleresche, veri e propri centri di istruzione dove i nobili apprendono sia le nozioni basilari di tattica e strategia militare loro utili sui campi di battaglia, sia le discipline necessarie alla vita cortigiana. Improntata allo stesso modello è anche l'educazione che viene fornita nei collegi della Compagnia di Gesù, frequentati dai nobili cattolici. Il fascino dell'Europa meridionale e il peso del classicismo traspaiono dal fatto che i giovani delle famiglie nobili dell'Europa settentrionale coronano la propria educazione con un viaggio che li porta in Italia: il grand tour, che spesso ha come meta privilegiata città come Venezia e Roma, ricche di testimonianze artistiche del passato. Le gentildonne vengono, invece, educate nella casa avita o nei conventi e affinano proprio a corte, dove giungono per dedicarsi al servizio personale di sovrane e principesse, le proprie maniere e le proprie conoscenze. Dotati di istruzione e di modi estremamente raffinati, i nobili contribuiscono in maniera fondamentale all'edificazione di una corte in sintonia con il modello dettato da Baldassarre Castiglione. Un'ulteriore spinta a ricreare le aspirazioni dell'autore de Il cortegiano viene dalla propensione a trasferire in campagna la corte regia. Precursore di tale tendenza è, a metà Seicento, il re di Francia Luigi XIV (1638-1715), il Re Sole. Questi decide di costruire a Versailles, a una trentina di chilometri da Parigi, una nuova reggia, con grandi giardini disseminati di specchi d'acqua, fontane e statue: magnifico scenario di una corte che intende vivere armoniosamente, separata e lontana dall'affannosa realtà urbana. L'ambiente cortigiano raggiunge vette di colta eleganza, poiché vi sono chiamati a dar prova dei loro talenti musicisti, drammaturghi, pittori. La vita quotidiana è modellata dal cerimoniale borgognone, che regola rigidamente tempi e modi della quotidianità, i divertimenti e le preghiere, l'abbigliamento e i pasti, assegnando a ciascuno un grado nella scala gerarchica interna alla corte. Sull'esempio dettato dal Re Sole, in tutta Europa vengono costruite regge elegantissime fuori città, mentre gli stessi nobili dedicano inedite fatiche alla sistemazione delle loro residenze di campagna destinate ad accoglierli per brevi periodi di villeggiatura. Negli ultimi anni del Seicento, la corte sembra perdere splendore quale polo culturale a favore, nuovamente, degli ambienti aristocratici urbani. Nel salotti cittadini, gentiluomini e gentildonne amano conversare senza gli obblighi derivanti dal rispetto delle complicate regole cerimoniali, promuovendo così un nuovo modello culturale, caratterizzato da una maggiore libertà. È l'avvio di una nuova sociabilità che trionferà fra Sette e Ottocento. La vita in città e a corte si rivela, inoltre, estremamente dispendiosa. I nobili vi fanno fronte tentando di ricavare i maggiori proventi possibili dal patrimonio familiare e di ampliare le loro entrate. Si protrae così per tutto il Seicento la tendenza a mettere a frutto nel miglior modo possibile la proprietà terriera, utilizzando al massimo i poteri signorili. Il trasferimento in città, in ogni caso, apre alla nobiltà cortigiana altre possibilità di reperire risorse. In primo luogo, naturalmente, la speculazione edilizia. Nel momento in cui la presenza della corte tende a far rimodellare l'impianto urbano grazie alla forza di attrazione che esercita su tutti i gruppi sociali, i nobili possono investire le proprie risorse nel settore immobiliare, traendone lauti guadagni. Possibilità vantaggiose offrono anche i titoli di debito pubblico consolidato, malgrado i sovrani non nutrano molti scrupoli nel dichiarare bancarotta. Allo stesso modo, gli aristocratici partecipano all'incipiente attività speculativa delle prime forme di mercato azionario. Infine, particolarmente remunerativi restano incarichi, prebende, donativi e pensioni dispensati dal sovrano. Il processo di inflazione dei titoli nobiliari, dovuto alla propensione dei re a farne mercato, tende a ingolfare i ranghi superiori della società. Un conto è, infatti, ad esempio, essere uno dei dieci o dodici duchi di un regno, un altro trovarsi insieme ad altri duecento pari grado. Poiché il rango è determinato soprattutto dalla rarità della condizione privilegiata, si rende necessario inventare, in quest’ultimo caso, ulteriori elementi che consentano alla nobiltà più antica di distinguersi da quella più recente. Per questa ragione, a partire dalla metà del XVI secolo, cominciano ad avere un grande ruolo le onorificenze, cioè riconoscimenti che distinguono solo i più degni di essere onorati. Nell’Inghilterra del primo Seicento, a causa della vendita di titoli nobiliari minori, è necessario creare un titolo nuovo, quello di baronetto, per soddisfare la fame di distinzione della folta schiera della nobiltà minore. Un’importante funzione viene svolta in questo senso dagli ordini cavallereschi creati dalle varie monarchie nazionali. Nella Castiglia degli Asburgo, fra il XVI e il XVII secolo, ad esempio, la scala nobiliare culmina con la qualifica di grande di Spagna, connessa al titolo di duca, il massimo grado cui può aspirare un nobile, essendo in quel regno il titolo principesco riservato a membri della casa reale. I grandi, grandes in spagnolo, oltre ad avere la precedenza nelle cerimonie pubbliche, hanno il diritto a rimanere col cappello in testa in presenza del re, laddove tutti gli altri devono essere a capo scoperto in segno di sottomissione; ma soprattutto hanno il diritto di essere trattati con familiarità dal sovrano, costretto a rivolgersi a loro per iscritto con l’appellativo di cugini e a invitarli in varie occasione a partecipare alla sua vita privata. A seguito, però, dell’inflazione del titolo di grande di Spagna, che diviene molto comune, la più antica e reputata nobiltà richiede un’onorificenza che la distingua dall’aristocrazia giunta di recente al vertice dell’onore. Viene così utilizzata l’onorificenza del Toson d’Oro, contraddistinta da una catena preziosa, che viene concessa solo a coloro, tra i grandes, che meritano un trattamento speciale, un segno di distinzione da esibire nelle cerimonie pubbliche. Mentre nella maggior parte delle monarchie europee i particolari meriti maturati al servizio del sovrano possono condurre alla concessione di un titolo e quindi all'ingresso di colui che lo ha ricevuto nel corpo nobiliare, senza alcuna distinzione se non quella dettata dai natali, dal rango e dall'antichità del titolo, in Francia fra Cinque e Seicento si delinea con precisione una nobiltà che, per le sue caratteristiche, viene definita “di toga”, eminentemente diversa e in contrapposizione con quella “di spada”: una nobiltà che vede nell'esercizio di un ufficio amministrativo, finanziario o giudiziario la sua caratteristica principale. Alla radice della costituzione di tale ceto vi è la venalità delle cariche, promossa dai sovrani francesi a partire dalla fine del Cinquecento: la possibilità di lasciare a un erede la carica acquistata conduce, infatti, alla costruzione di autentiche dinastie, basate sul passaggio degli uffici di generazione in generazione. Un editto del marzo 1600 chiarisce che per entrare di diritto nei ranghi della nobiltà di toga è necessario aver ricoperto per due generazioni successive il ruolo di membro del Gran Consiglio, di referendario del Consiglio di Stato (maître de requêtes), di componente del Parlamento (una delle maggiori corti di giustizia), di membro dei dipartimenti finanziari, di funzionario delle Camere dei conti, dei tribunali dei sussidi (Cours des aides) e dei tribunali delle monete (Cours des monnaies). Spesso, però, il denaro non basta per arrivare a tali uffici: finanzieri o figli di finanzieri, ritenuti inadeguati in virtù della loro provenienza sociale, non vengono ben visti da coloro che occupano cariche generalmente tramandate di padre in figlio o di zio in nipote all'interno di una ristrettissima cerchia. Ceti, privilegi, distinzioni Ma come si distinguono gli individui dell’antico regime che non sono né ecclesiastici né nobili? È evidente che lo schema tripartito – oratores, bellatores, laboratores – non offre una descrizione della grande maggioranza della popolazione, accomunata da una troppo generica funzione lavoratrice. Le persone del terzo ordine o Terzo Stato si differenziano perciò secondo il loro ceto. Il ceto è un gruppo sociale giuridicamente riconosciuto per svolgere un ruolo sociale particolare. Si distinguono coì, dai meno ai più prestigiosi, i vari gruppi di artigiani, distinti in corporazioni di mestiere, e poi i professionisti, i titolari di pubblici uffici e infine i mercanti. Ciò che occorre sottolineare è che la società si rappresenta per ceti, in quanto è solo l’appartenenza a uno di questi gruppi istituzionalizzati, il far parte di un corpo sociale definito, ad esempio la corporazione dei ciabattini, che consente a un individuo di praticare legittimamente un mestiere e di avere voce sulla scena politica e amministrativa. In altre parole, nella società di antico regime, un individuo nasce alla vita pubblica nella misura in cui entra a far parte di un corpo sociale che possiede un riconoscimento giuridico. Da quel momento in poi le qualità e le prerogative connesse a quel corpo, dette privilegi, rivestono e proteggono anche l’individuo. Il privilegio è, così, ciò che contraddistingue i diritti dei corpi sociali (o, più raramente, anche le famiglie) e li fa diversi tra loro in una società in cui la legge non è uguale per tutti ma è diversa per ciascuno, a seconda dell’appartenenza di ceto. Da questo punto di vista, ovviamente, clero e nobiltà sono anch’essi dei grandi ceti, anzi, sono i ceti privilegiati per eccellenza. I privilegi sono, nella società di antico regime, di diverso tipo. Esistono innanzitutto privilegi giurisdizionali, attinenti cioè il trattamento in sede giudiziaria, quali ad esempio il diritto a essere giudicati in processi penali o civili con particolari, specifiche modalità. Vi sono perciò tribunali speciali non solo per ecclesiastici o nobili ma anche per soldati e per altri ceti o gruppi particolari. Inoltre, siccome far parte di un ceto significa godere anche dei privilegi della comunità cittadina, è consuetudine che ci si possa valere del diritto di essere giudicati nella propria città da giudici concittadini. Importanti sono anche i privilegi economici. Se ecclesiastici o nobili, in ragione dei propri rispettivi ruoli, sono in tutt’Europa parzialmente o completamente esenti dalla tassazione, ci sono anche città o specifici gruppi che hanno il privilegio di non pagare un certo tipo di imposta o di godere di particolari beni. Quasi sempre questo godimento rappresenta un monopolio, e cioè il diritto di usufruire di una risorsa pubblica escludendone gli altri. I privilegi contribuiscono soprattutto a determinare il rango di un gruppo sociale, e cioè la sua posizione nella società rispetto agli altri gruppi. Per questa ragione una parte importante della conflittualità nella società di antico regime è originata dalla tendenza dei ceti a difendere le posizione acquisite, a sorvegliarne i confini controllando i nuovi accessi, a rivendicarne puntigliosamente le attribuzioni (o a garantirsene di nuove) a scapito dei ceti concorrenti. Questa conflittualità si estende anche agli individui. È abbastanza ovvio che laddove la legge non è uguale per tutti ma diversa a seconda dei ceti, tutte le questioni di precedenza – i comportamenti formali che sottolineano simbolicamente il riconoscimento delle appartenenze di ceto – divengono cruciali. Ad esempio, se oggigiorno a un incrocio un automobilista non dà la precedenza a un altro automobilista che viene da destra, egli viola il codice della strada, commette un comportamento scorretto e forse anche pericoloso, ma privo di qualunque altro significato nei confronti del conducente dell’altro veicolo. In antico regime, viceversa, il passare avanti con una carrozza senza cedere il passo alla carrozza di un individuo appartenente a un ceto superiore non costituiva alcuna violazione delle regole di circolazione, ma rappresentava un atto profondamente ostile: significava infatti mettere in dubbio l’appropriatezza della condizione sociale di chi era stato superato e sfidare indirettamente la sua capacità di difenderla. Nell’ordine nobiliare, che coltiva la pratica delle armi e l’ideologia del proprio ruolo militare, l’attenzione a tutte le questioni di precedenza è proverbiale e sfocia spetto nel duello, cioè nel tentativo dell’offeso di ristabilire col giudizio delle armi un valore sociale, una posizione di precedenza messa in dubbio. Questo perché l’appartenenza di un individuo a un ceto sociale, stabilita per legge o per consuetudine, doveva accompagnarsi a una corrispondente reputazione, e cioè al necessario riconoscimento pubblico della coerenza e conformità della sua condotta alla posizione sociale detenuta. Il nobile, infatti, deve in ogni suo atto riflettere l’essenza della condizione nobiliare: come si usa dire per indicare il condizionamento di una posizione sociale sulle zioni di un individuo, noblesse oblige, espressione francese che significa che la nobiltà, l’essere nobili, obbliga a quel determinato comportamento. Il linguaggio che esprime questo sottile gioco della reputazione è il linguaggio dell’onore. Per le donne l’onore consiste essenzialmente nelle virtù femminili, intese soprattutto come comportamenti – specie sessuali – appropriati al proprio rango. Per gli uomini l’onore tende ad avere più chiaramente due distinti significati. Sa una parte, simmetricamente a quanto accade per le donne, l’onore consiste nelle virtù virili – la capacità di mantenere la propria famiglia, ad esempio, o la bravura nel proprio mestiere – mentre dall’altra esso si misura e si esprime nel difficile gioco sociale della precedenza e della reputazione. La società di classi Nell’Europa del XIX secolo la soppressione delle categorie privilegiate è tra le principali conseguenze dei due grandi momenti di rottura rappresentati dalla Rivoluzione americana e dalla Rivoluzione francese, che affermano entrambe i principi di dell’uguaglianza di ogni individuo di fronte alla legge, della sovranità popolare, della partecipazione di tutti alla decisione politica. Resta peraltro vero che l’uguaglianza giuridica e politica ha, e per lungo tempo, un carattere soprattutto teorico e non rende simili gli individui e inutili i processi di distinzione. Al contrario, i gruppi sociali, in un mondo che proclama l’universalità dei diritti politici e l’uguaglianza delle persone di fronte alla legge, assumono forme più inedite e più complesse. L’ineguaglianza degli individui nell’Europa del XIX secolo è quindi profonda. La conquista della pari cittadinanza si rivela quindi un processo lento, ostacolato da consistenti pregiudizi nei confronti delle donne, da viscerali paure nei confronti degli illetterati e dei poveri e da persistenti tentativi di fare della ricchezza il discrimine per consentire solo la pochi la partecipazione politica, anche laddove – come negli Stati Uniti – l’uguaglianza politico-giuridica degli individui viene precocemente stabilita. Ma anche altre differenze tra i gruppi sociali rimangono sensibili, talora enormi. Si tratta anzitutto di diseguali possibilità di vita dovute a profonde differenze di reddito. Che consentono a taluni il superfluo mentre negano a molti l’essenziale, e cioè cibo, vestiario e alloggio. Nella prima metà del XIX secolo, in particolare, i processi di industrializzazione, travolgendo le antiche regole dei mestieri, i saperi a essi connessi e le culture e le tradizioni locali, spingono masse di uomini e donne provenienti dal mondo rurale a urbanizzarsi, a perdere i propri connotati sociali e a trasformarsi in macchine da lavoro generico e manuale. In cambio di un salario questi uomini e queste donne vengono sradicati e in qualche modo spersonalizzati, costretti a vivere nelle città industriali in ambienti malsani e degradati nei quali abbracciano una nuova condizione, che impone loro – per sopravvivere – di darsi forme collettive di cooperazione e la consapevolezza di un destino comune. Recuperando antiche abitudini solidaristiche in vigore nei propri villaggi di provenienza, questi individui danno vita alle società di mutuo soccorso per aiutare coloro i quali perdono il lavoro o sono costretti a sospenderlo per malattia o infortunio e, in seguito, alle organizzazioni sindacali finalizzate al sostegno delle rivendicazioni collettive per il miglioramento delle condizioni economiche e di lavoro degli operai. Molto più importante, tuttavia, è il fatto che in tal modo venga avviata la formazione di una nuova cultura, urbana e non più rurale, solidaristica e non più locale, con lo scopo di cambiare le regole sociali e non solo di organizzare una strategia di difesa dal cambiamento indotto dall’industrializzazione. L’abolizione delle varie corporazioni di mestiere dischiude la possibilità di realizzare anzitutto fra i lavoratori manuali l’uguaglianza richiesta a gran voce per tutta la società. Attorno agli operai di fabbrica costretti a scoprire ben presto i vantaggi della cooperazione in condizioni di lavoro dure non solo per la fatica ma soprattutto per i ritmi e la mancanza di gratificazioni, viene crescendo anche fra gli altri lavoratori dipendenti la consapevolezza di far parte di un’unica grande categoria sociale, quella dei lavoratori salariati, di essere parte di un mondo del lavoro contrapposto a quello degli industriali, dei grandi commercianti e degli alti burocrati. Una forte spinta per la formazione di una tale coscienza si ha da parte di Karl Marx (18181883), con il quale il concetto di classe, un insieme definito dalla funzione svolta nel quadro della struttura economica o dell’organizzazione politica, assume una vera pregnanza. Marx elabora una concezione filosofica chiamata materialismo storico, incentrata sulle classe e il loro incessante conflitto. In questa teoria la classe si distingue sulla base di un comune rapporto che i suoi membri instaurano con il processo produttivo. Chi possiede i mezzi di produzione gode di quel sovrappiù di ricchezza creata dal lavoro, il cosiddetto plusvalore. Si appropria, cioè, del frutto del lavoro di altri, che viceversa perdono il controllo del proprio lavoro, delle sue modalità e dei suoi risultati, in un processo definito di alienazione. I rapporti di produzione, incentrati sul contrasto di interessi tra chi possiede i mezzi di produzione e chi solo la propria capacità di lavoro (la forza lavoro), regolano perciò i rapporti sociali e politici, quelli attraverso cui, in ogni formazione storica, il plusvalore viene distribuito e impiegato socialmente. Nel passato vi erano società basate sulla schiavitù e sull’opposizione tra schiavi e padroni, o sul sistema feudale e sull’opposizione tra contadini e nobili. Nel sistema capitalistico, a lui contemporaneo, quello cioè che prevede la proprietà privata dei mezzi di produzione, Marx individua due classi contrapposte e antagoniste, destinate ineluttabilmente ad attrarre e assorbire gli altri gruppi sociale: i proprietari del capitale e dei mezzi di produzione, i borghesi, e gli operai salariati che vendono la loro forza lavoro, i proletari. La prospettiva storica di questa analisi si proietta poi nel futuro anticipando il superamento necessario delle differenze di classe per approdare a una società egualitaria, la società comunista. Questa analisi delle classi sociali, elaborata in un ampio testo incompiuto, Il Capitale (186769) prescinde dalla coscienza soggettiva del individui di farne parte: la classe sociale vi è cioè analizzata «in sé», sulla base di elementi oggettivi che definiscono una comunità a prescindere dalla coscienza individuale di farne parte e di subire perciò un’influenza decisiva sul proprio destino personale. Quando però gli individui prendono coscienza della propria condizione comune e degli interessi che li uniscono agli uni e li contrappongono agli altri, essi elaborano una coscienza di classe. Nasce allora la classe «per sé». La visione ideologica marxiana ha una fortissima influenza sulla storia europea, informando profondamente la cultura del movimento operaio organizzato e dando origine a partiti socialisti e comunisti, che si richiamano apertamente alle idee del grande filosofo tedesco. Anche per l’altro pensatore tedesco e padre della sociologia Max Weber (1864-1920), il fondamento delle classi sociali sta nel sistema economico, in quanto esso determina il quadro degli interessi e regola le possibilità di vita di ciascuno. Weber, tuttavia, oltre alla ricchezza e a alla proprietà, introduce altre variabili per definire una classe, quali il potere e il prestigio, e mette in evidenza il permanere di elementi della società di ceti anche nella caratterizzazione della società moderna. Nella sua opera più importante, incompiuta e pubblicata postuma nel 1922, Economia e società, egli analizza, assieme alle classi proprietarie, le cosiddette classi acquisitive, composte da coloro che forniscono servizi necessari allo sviluppo del sistema economico. Articolata in questa maniera, l’opera di Weber costituisce a tutt’oggi il punto di riferimento essenziale per ogni indagine sulle classi sociali che voglia superare il riferimento esclusivo ai rapporti di produzione e includere l’analisi della sfera culturale, artistica e religiosa. Nuove pratiche sociali L’aspirazione delle classi più umili all’uguaglianza nel corso del XIX secolo si esprime in nuove pratiche sociali, cresciute parallelamente al progressivo abbandono delle usanze e dei costumi tradizionale e in una tendenza all’uniformità degli stili di vita, notevole soprattutto nelle realtà urbane di paesi, come l’Inghilterra, all’avanguardia nel processo di industrializzazione. Abbandonati i ritmi, i gusti e i sapori della campagna, le feste patronali, i rituali di villaggio, nasce uno stile di vita del lavoratore manuale urbano basato sulla presenza quotidiana degli uomini nella caratteristica birreria inglese, il pub, su nuove forme di religiosità, sulla partecipazione da spettatori ai nuovi sport di massa (rugby e calcio). L’essere uguali agli altri, il vestirsi allo stesso modo, il comportarsi in maniera simile diventano un modo per ricostruire la propria identità e risultare riconoscibili ai propri simili nel nuovo mondo dell’industria e delle grandi periferie industriali. La tendenza all’uniformità, pur notevole, non annulla naturalmente differenze di reddito, di accento, di gusto ben presenti in un mondo variegato e affollato come quello del lavoro salariato. In particolare, talune fasce di operai specializzati e sindacalizzati possono aspirare a ottenere una qualche stabilizzazione degli assetti di vita e un certo grado di rispettabilità. Queste conquiste finiscono a loro volta per mettere in discussione le acquisizioni sociali degli altri gruppi: i piccoli commercianti, gli impiegati meno retribuiti, i piccoli proprietari. In un mondo in cui i confini tra gruppi diventano fluidi, risulta molto più difficile difendersi dai nuovi intrusi, che tendono ad avere stili di vita simili. Nella società europea dell’Ottocento, quindi, ogni gruppo sociale appare impegnato a riconoscersi e a distinguersi da quello che lo segue. Ciò provoca una sorta di rincorsa fra gruppi, che non possono più, come nella società dei ceti, innalzare difese giuridiche che impongono un numero chiuso, un freno all’ingresso di nuovi arrivati (e al declassamento conseguente della propria condizione) e devono perciò creare frontiere diverse di tipo culturale. Uno dei primi elementi di riconoscimento e di distinzione è la lingua. Nell’Ottocento, in Inghilterra come altrove, è anzitutto attraverso la lingua che ci si riconosce e si fa riconoscere, e cioè si evidenza l’appartenenza di un individuo a una determinata classe sociale. Un certo modo di parlare in inglese, ad esempio, connota immediatamente coloro che hanno studiato in buone scuole private a pagamento e poi nelle università d’élite, Oxford e Cambridge soprattutto, nelle quali le classi sociali più agiate mandano i propri figli affinché ricevano un’educazione adeguata. Il titoli di studio costituiscono un altro importante fattore di distinzione. Il percorso educativo, dalle scuole primarie all’università, è in teoria aperto a tutti, ma in pratica esso funziona come un sistema di riproduzione delle condizioni di ineguaglianza esistenti. È difficile per individui nati in famiglie di contadini e di operai accedere all’istruzione superiore, che apre le porte dell’impiego prestigioso, e ancor più difficile ottenere una laurea. Quest’ultima assume un valore decisivo perché diventa requisito essenziale per poter accedere a numerose attività professionali e specifici segmenti sociali, quelli degli avvocati, notai, medici, ingegneri, spesso aggregati in ordini professionali. Un altro elemento distintivo è poi dato dallo stile di vita che esprime, nell’arco delle possibilità di reddito di un individuo, l’adesione a comportamenti condivisi con gli altri individui di pari condizione. Fanno parte di uno stile di vita elementi differenti ma convergenti. È fondamentale, anzitutto, un certo tipo di abitazione che, nelle aspirazioni della classe media inglese, e cioè di coloro che vogliono assolutamente distinguersi dal mondo del lavoro salariato, dove essere distaccata e dotata di giardino, non ricadente perciò nel modello delle case a schiera, appoggiate spalla a spalla le une alle altre, dei quartieri operai. Spesso, nelle società di classe, a differenza di quanto caratterizza l’antico regime, i quartieri bene, quelli meglio serviti e occupati esclusivamente da membri delle classi agiate, si distinguono nettamente sia dai quartieri dormitorio dei piccoli impiegati sia da quelli proletari. Importante è poi, sempre in ambiente inglese ma con molteplici imitazioni sul Continente, la frequentazione di certi ambienti esclusivi, caffè, club, associazioni, distinti dai popolari pub. In essi si coltiva l’arte della conversazione, ad imitazione delle pratiche di socializzazione tipiche dei salotti aristocratici del XVIII secolo e ancora prima delle corti rinascimentali italiane. In questi ambienti è d’obbligo comportarsi signorilmente: si esige cioè uno stile di autocontrollo, di morigeratezza e di riservatezza contrapposto alla tendenza all’ubriachezza scomposta, al lasciarsi andare senza ritegno, attribuito alle classi popolari. Le classi medie propongono inoltre un certo ideale di famiglia, imperniato sulla riproduzione di un ordine sociale in cui ciascuno deve “stare al proprio posto”. Una famiglia modello, dunque, incentrata sulla vocazione al lavoro per l’uomo e sulla dedizione alla casa e ai figli per la donna, sulla difesa dei valori del pudore e del ritegno, sulla messa all’indice delle pulsioni proibite e dei comportamenti sessualmente promiscui tipici, si sostiene comunemente nell’Ottocento, delle classi inferiori. Ancor più che nei luoghi di lavoro, dove le gerarchie sono evidenti sin dagli abiti, dalle divise, dalle tute indossate, una società classista si riconosce nel modo diverso di impiegare il tempo libero. Si prenda il caso degli sport. Diffusi dai primi dell’Ottocento, anch’essi si configurano come pratiche sociali di distinzione. Nel XIX secolo lo stesso fatto di fare dello sport, cioè di avere tempo libero, è un segno di distinzione, sinonimo di ricchezza e di benessere. Non è un caso che si diffonda a quel tempo in Inghilterra il culto del fair play, di un modo distaccato di praticare lo sport, proprio di chi non dimentica mai di stare giocando un gioco: uno stile, perciò, opposto a quello di coloro, che cominciano a essere sempre di più, che affollano i campi di football, con le loro passioni smodate, espresse popolarmente in cori e urla. Man mano che le pratiche sportive si diffondono nel corpo sociale, e che pertanto assumono un carattere di massa, gli sport iniziano, già nel corso del XIX secolo e poi nel XX, a moltiplicarsi. Le varie classi sociali praticano naturalmente sport differenti, giocati in luoghi diversi, con atteggiamenti distinti, Le classi agiate, nel continuo tentativo di prendere le distanze dal conformismo uniformante che caratterizza gli sport divenuti di massa, come il calcio e il rugby, inventano gli sport di élite – equitazione, scherma, golf, vela – da praticarsi in luoghi riservati, tra gente scelta, nella ricerca affannosa di un’esclusività sempre in pericolo. Il modello di comportamento di riferimento è, naturalmente, quello del gruppo sociale più prestigioso, la nobiltà. Anche se nel corso del XIX secolo, e più decisamente nel XX, la nobiltà viene perdendo in Europa i privilegi giuridici che ne hanno fatto un gruppo sociale distaccato, essa è tutt’altro che scomparsa dalla scena sociale. Sul piano della distinzione, anzi, gli aristocratici continuano a configurare con la propria vita il modello da imitare, per quanto spesso inarrivabile perché incentrato sul quel sommo disinteresse per tutto e tutti proprio di chi afferma la propria unicità, semplicemente essendo se stesso. Per le nuove generazioni borghesi, tra Otto e Novecento, il mito degli happy few, i pochi felici appunto perché sono pochi, prende innumerevoli forme: quello dello snob, colui che non si cura del mondo ostentando così la sua distanza dal bisogno; o quella del dandy, colui che fa della sua vita un’opera d’arte e del gusto estetico l’unico criterio di selezione sociale. Il paradosso della ricerca di distinzione sociale è che i comportamenti anticonformisti, bizzarri e scapestrati visti con orrore dalle classi medie quando sono riferiti alle classi inferiori, vengono apprezzati e comunque giustificati quando sono adottati dalle classi agiate, e particolarmente tra i giovani di buona famiglia. Per concludere Le caratteristiche della distinzione, come criterio fondamentale del riconoscimento reciproco in una società di classi, oggi appaiono modificate, fino a diventare irriconoscibili nell’ambito delle trasformazioni della seconda metà del XX secolo. Queste trasformazioni hanno cioè condotto a uno stravolgimento degli schemi culturali che ordinavano il cosiddetto mondo borghese nell’Ottocento e in gran parte del Novecento, regolando la distinzione classista. L’allargamento delle fasce sociali che hanno reclamato diritti a un salario adeguato, a un’effettiva partecipazione politica, al tempo libero, ha comportato, infatti, la rottura di molti dei vecchi codici della società di classi. SI è diffusa innanzitutto una libertà nei confronti delle forme dell’abitare, del vestire e dell’agire un tempo impensabile. I vecchi criteri di distinzione borghesi erano, infatti, basati sulla costrizione, sull’adesione a comportamenti rigidamente controllati, su una forte tendenza a omogeneizzare gli stili di vita tra i membri della stessa classe. Rituali sociali un tempo obbligati vengono così abbandonati o sostituiti. Si prenda per esempio l’abitudine delle signore di un certo tipo di indossare capi confezionati con pellicce di animali come segno dell’appartenenza a una classe agiata. Oggetti costosi, le pellicce erano un simbolo di classe, e come tali erano lette dagli appartenenti agli altri gruppi sociali. Non è senza significato che sono proprio le pellicce delle signore presenti alla prima della Scala di Milano a essere il bersaglio di un fitto lancio di uova marce in quello che viene ricordato come l’inizio della contestazione giovanile nel 1968. Oggi tuttavia molte donne anche benestanti rifiutano di indossare pellicce e la contestazione del loro uso non riguarda il confronto sociale e politico, ma la diffusione di una nuova sensibilità nei confronti della natura e degli animali. Allo stesso modo gli abiti di taglio tradizionale, l’ostentazione delle auto di lusso, la passione per il teatro e la musica classica o l’opera, il gusto per la natura civilizzata dai giardini e dei parchi sono venuti perdendo le originarie connotazioni classiste e sono stati affiancati da altri stili, scelti da generazioni più giovani al di là dei confini di classe; gente che esprime una preferenza per abiti non formali, per i capelli lunghi o tagliati in fogge inusuali, per musiche anticonformiste quali il pop, il rock, il jazz, il folk, per la natura selvaggia e incontaminata. Allo stesso tempo gli sport, anche quelli originariamente più esclusivi, come la vela o il golf, sono venuti perdendo i tratti di distinzione che li avevano connotati, essendo ormai divenuti anch’essi sport relativamente di massa. L’ascolto di una certa musica, la pratica di un certo sport, l’indossare certi abiti cessano così di essere segni dell’appartenenza a una certa classe e semmai divengono segnali dell’adesione a un modello di vita o a un gruppo. Una conferma di questi processi è costituita, in negativo, dalla tendenza di alcune fasce del mondo giovanile a distinguersi nell’esclusione, a darsi cioè una dimensione di rifiuto di ogni ordinamento sociale. Nella seconda metà del XX secolo si diffondono fenomeni di creazione di subculture giovanili. Alla fine degli anni Cinquanta e negli anni Sessanta la presa di distanze del mondo giovanile dal conformismo e dai miti della società del consumo si manifesta in comportamenti eccentrici e in un’assoluta libertà del vestire che rende freak, in inglese strano, bizzarro. Nasce così la prima beat generation, la generazione stanza detta anche gioventù bruciata perché ritenuta incapace di affrontare le sfide di una società competitiva basata sul guadagno e la carriera; poi vede la luce il movimento hippie, pacifista e antirazzista, dedito alla delineazione di un percorso alternativo, fatto di meditazione individuale e di gruppo, alimentato da suggestioni culturali orientali e dall’uso collettivo di droghe leggere. A partire dagli anni Settanta questi fenomeni puntano più chiaramente verso l’autoesclusione. Inizia a manifestarsi così un diverso criterio di distinzione, basato sul rovesciamento simbolico: quelli che comunemente erano i marchi d’infamia – il vagabondaggio, il disordine, l’abuso di alcool e stupefacenti – vengono esibiti come simboli di differenziazione. È il caso dei punk e di altri gruppi che esprimono la propria contrapposizione a un mondo che sembra non riservare loro alcuna accoglienza, un mondo senza futuro. In una società relativamente permissiva i gruppi tendono dunque a riconoscersi meno in quanto classi e a dividersi lungo linee di demarcazione diverse, come quelle che oppongono una generazione alla successiva. Stili di vita differenti sono perciò compresenti in quella che ieri si sarebbe definita una classe e che oggi si divide in segmenti distinti, che adottano comportamenti divaricati o anche opposti. Ciò non significa che le classi siano scomparse e meno ancora che le differenze di reddito che le sostanziano si siano ridotte. Vuol dire invece che gli individui si riconoscono meno per la condivisione di un’attività lavorativa o di una fascia di reddito e più per l’orientamento comune di tipo culturale, territoriale o religioso. I tradizionali comportamenti classisti continuano a esistere, ma immersi in una società che permette o adotta anche altri comportamenti, che non fa più di essi il discrimine della legittimità sociale. È evidente, ad esempio, come una nuova etica si sia venuta contrapponendo a quella borghese tradizionale, che era basata sul sospetto verso il piacere fisico e il senso di colpa nei confronti del soddisfacimento delle pulsioni corporee. Una nuova morale della salute individuale impone ora un obbligo generalizzato al divertimento e induce quasi un senso di frustrazione nei confronti di ogni insuccesso nell’ottenimento di un piacere affermato come diritto. La ricerca di affinità culturali e di comportamento tra membri di una stessa classe è così sopravanzata dal trionfo della dimensione individuale e il nuovo culto del benessere del corpo, fitness in inglese, non è strumento di distinzione sociale ma esprime un bisogno di affermazione e di piacere del tutto personale. La distinzione tende così addirittura a sfuggire alla relazione con i propri simili e a rapportarsi direttamente all’universo degli stimoli pubblicitari, un universo in cui i modelli sociali sono rappresentati dai divi, individui irraggiungibili, stelle nel cielo della televisione e del cinema. Questa è una società in cui una nuova, radicale divisione sembra configurarsi fra chi produce modelli culturali e stili di vita e chi li subisce e per così dire li indossa, tra i creatori e i consumatori delle mode, tra chi controlla i messaggi e chi ne fruisce passivamente.