TITA CARLONI E LA CASA DEL POPOLO TITA CARLONI UND DAS

RIVISTA SVIZZERA DI
ARCHITETTURA, INGEGNERIA
E URBANISTICA
SCHWEIZERISCHE ZEITSCHRIFT
FÜR ARCHITEKTUR, INGENIEURWESEN UND STADTPLANUNG
6 / 2 0 14
TITA CARLONI E LA CASA DEL POPOLO
TITA CARLONI UND DAS VOLKSHAUS
testi / texte
Mercedes Daguerre e Graziella Zannone Milan |
Paolo Fumagalli | Jacques Gubler | Pietro Martinelli
IL
GRANITO
L’ARTE
DEL
TEMPO
I l g ra n i t o d i L o d r i n o
C r e a t o d a l t e m p o e d a l l a n a t u r a . Q u e s t o m a t e r i a l e, u n i c o a l m o n d o, u n i t o
all ’esperienza pluriennale ed alla professionalità della famiglia Giannini riesce
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6 / 2 0 1 4 D I C EMB R E
4 COMUNICATI AZIENDALI
7 INTERNI E DESIGN
a cura di Gabriele Neri
11 TI ARCHIVI ARCHITETTI TICINESI
a cura di Angela Riverso Ortelli
14 TI CONCORSI
17 OTIA COMUNICATI
a cura di Daniele Graber
19 SIA COMUNICATI
a cura di Frank Peter Jäger
25 TI DIARIO DELL’ARCHITETTO
a cura di Paolo Fumagalli
29 TI NOTIZIE
32 TI PROGETTI
a cura di Stefano Milan
43 TI LIBRI
a cura di Enrico Sassi
TITA CARLONI E L A CASA DEL POPOLO
a cura di Mercedes Daguerre
e Graziella Zannone Milan
EDITORIALE
47 Architettura e politica
Alberto Caruso
49 Mestiere e militanza
Mercedes Daguerre e Graziella Zannone Milan
50 Tita Carloni architetto e uomo politico
Pietro Martinelli
54 Aspettando Carloni
Jacques Gubler
57 La Casa del Popolo e il Ticino
degli anni Settanta
Paolo Fumagalli
64 Resoconto dell’iter progettuale
Mercedes Daguerre, Graziella Zannone Milan
76 L’architettura e la costruzione
Franz Graf
82 Apparati
Tita Carloni, Paolo Fumagalli
Q
Q
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TECHNICAL INFORMATION
KVH® (Structural Finger-Jointed Timber)
DUOBALKEN®, TRIOBALKEN® (Glued Solid Timber)
DIN EN 1995-1-1:2010 (Eurocode 5-1-1)
In copertina:
Tita Carloni, la Casa del Popolo, Lugano
foto Marcelo Villada Or tiz
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GasCompactUnit –
miracolo di compattezza
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nell’ambito delle energie rinnovabili
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dell’energia impiegata e a basse emissioni di CO2, che risponde ai molteplici
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Foto: Philomène Hoël et Eik Frenzel,
Edificio rinforzato, premiato nel 2012
Fondazione per la Dinamica Strutturale
e l’Ingegneria Sismica
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Efficienza e compattezza
Con la GasCompactUnit, Domotec ha
concepito un impianto solare secondo
le più recenti cognizioni in materia
di ingegneria della combustione e
di termotecnica nonché di sfruttamento dell’energia solare e dell’igiene
dell’acqua potabile. É composta da
un’efficiente caldaia condensante e
da un igienico accumulatore d’acqua calda. La compatta centralina
di riscaldamento si distingue per una
potenza di 26,5 kW. Anche sotto il
profilo dell’igiene dell’acqua la GCU
soddisfa le più elevate esigenze (l’acqua è continuamente riscaldata e
scambiata in un sistema di tubi in
acciaio cromo). Un’ulteriore possibilità per il riscaldamento dell’acqua è
offerta da collettori solari che, come
optional, possono essere installati in
La Fondazione per la Dinamica
un secondo momento.
Strutturale e l’Ingegneria Sismica
Informazioni tecniche
Dato che la caldaia della GCU è inte- La Fondazione per la Dinamica Strutgrata nell’accumulatore di acqua calda, turale e l’Ingegneria Sismica è stata
non si verificano perdite superficiali e fondata nel 2004 e il suo scopo è di
da raffreddamento. Inoltre, l’eccellente promuovere le competenze a livello
isolamento termico del serbatoio di pratico e le attività di ricerca scientifica
accumulo in materia sintetica contiene nel settore della dinamica strutturale
e dell’ingegneria parasismica tramite
le perdite termiche al minimo.
L’elettronica computerizzata integrata la concessione di borse di studio a
garantisce che l’unità condensante a giovani ingegneri con formazione ed
gas adegui la potenza automatica- esperienza adeguata che dopo alcuni
mente alle necessità attuali. Grazie anni di pratica professionale vogliono
alla costruzione compatta, l’ingombro intraprendere un perfezionamento
e il tempo di montaggio sono minimi. presso un’università estera; confeCompatta ed economica grazie all’u- rimento del «Premio d’architettura
nione in una sola unità della caldaia e d’ingegneria parasismica» per la
realizzazione esteticamente, funziocondensante e del bollitore.
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la realizzazione dell’allestimento del gamma di prodotti di elevata qualità,
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descrive il percorso dell’acqua in modo
sinuoso. In abbinamento sono disponibili le delicate maniglie che sembrano
quasi fluttuare nell’aria.
Varianti per un’impronta personale
Un arredamento riuscito è dato dall’abbinamento armonioso degli elementi.
Su questa base, il designer Andreas
Dimitriadis ha sviluppato arwa-curveprime come serie completa da abbinare
alla nuova collezione di ceramiche
«palace» di Keramik Laufen. Per il lavabo sono disponibili quattro varianti, per
il bidet sono proposti un miscelatore
monocomando e un miscelatore a 2
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assortimento da bagno i miscelatori
termostatici da vasca e da doccia.
Con il sistema di comando elettronico
tronic, Similor presenta un’interessante alternativa alle classiche manopole
o alla leva del rubinetto. La soluzione
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di igiene e comfort nel bagno.
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limitatori della temperatura consentono di risparmiare acqua ed energia.
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consumo d’acqua fin del 40% e offre
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Ascensori su misura
Un ascensore standardizzato non è sempre la risposta a un progetto di costruzione: spesso le
richieste possono essere soddisfatte solo con un ascensore speciale, realizzato ad hoc. Una delle
principali attività di AS è sviluppare soluzioni personalizzate. I centri di competenza di Degersheim
e Küssnacht si impegnano per rispondere a tutte le esigenze del cliente.
I lavori di ristrutturazione nel Museo storico ed etnografico di
San Gallo hanno posto gli addetti di AS di fronte a una grande
sfida: il nuovo montacarichi doveva essere installato in un angolo del cortile interno, l’unica area sufficientemente spaziosa
ma anche delicata dal punto di vista architettonico, dato che
l’edificio è classificato come monumento storico. Una soluzione
standardizzata era quindi da escludere. La scelta dei committenti si è orientata su un ascensore in vetro filigranato. «Un vano
vetrato è davvero una scelta insolita per un montacarichi. Però,
questa volta, è stata una soluzione azzeccata» afferma Walter
Pfister, responsabile vendite di AS. La modernità dell’ascensore, infatti, non contrasta minimamente con la storicità dell’edificio, anzi, grazie alla superficie riflettente del vetro dona a
quest’ultimo una nuova luce. Il design della cabina è un compromesso vincente: le porte sono vetrate, mentre le pareti laterali sono di acciaio massiccio cromato, per tenere conto dei
possibili spostamenti della merce durante la corsa.
Gli spazi pubblici hanno requisiti speciali
Sotto questo aspetto, non è insolito che ancora una volta la
soluzione sia stata trovata combinando vetro e metallo, una
scelta che risponde al bisogno di sicurezza degli utenti. La sicurezza è un criterio fondamentale soprattutto negli edifici pubblici. Nella nuova stazione ferroviaria di Aarau, per esempio,
AS ha installato alcuni ascensori per persone, puntando sulla
trasparenza: le cabine sono vetrate e la struttura metallica dei
vani è ridotta all’essenziale. Nonostante l’apparenza gli impianti soddisfano tutti i requisiti richiesti da uno spazio collettivo:
sotto il loro aspetto elegante e leggero sono robusti e resistono
anche agli atti vandalici. Inoltre si inseriscono perfettamente
nella struttura in vetro progettata dall’architetto Theo Hotz.
Si è ricorsi a soluzioni non convenzionali anche per riportare
agli standard attuali l’accessibilità a un quartiere a terrazze di
St. Moritz, costruito nei primi anni Novanta. La vecchia funicolare che permetteva di raggiungere i tredici appartamenti, si-
I Museo storico ed
etnografico di San
Gallo: Il vano ascensore vetrato crea un
moderno contrasto
con l’edificio storico.
tuati su un terreno in pendenza, è stata sostituita con Inclino,
l’ascensore inclinato. «Per la prima volta abbiamo installato un
ascensore inclinato in sostituzione di un vecchio impianto in un
contesto preesistente» spiega l’ingegnere di vendita Roman
Leder. Tuttavia, anche in questo caso, gli ingegneri hanno dovuto apportare una serie di adattamenti specifici.
AS realizza impianti di sollevamento standard per quasi tutte le
applicazioni. Non sempre, però, le soluzioni standardizzate
soddisfano automaticamente le singole esigenze individuali,
come mostrano gli esempi citati. A San Gallo, Aarau e St. Moritz come in altre città della Svizzera, i tecnici e gli ingegneri di
AS apportano tutta la competenza necessaria per rispondere a
ogni tipo di esigenza e la capacità di sviluppare soluzioni specifiche e innovative.
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limitano la prospettiva.
Residenza Laret: Anche l’estetica convince:
frontali in acciaio cromato e elevati.
INTERNI E DESIGN
Gabriele Neri
in collaborazione
con VSI . ASAI
100 Years of Swiss Design
1.
Inaugurata a Zurigo la nuova sede
del Museum für Gestaltung
Dopo tanti anni passati nel severo edificio razionalista progettato da Adolf Steger (1888-1939) e Karl
Egender (1897-1969) all’inizio degli anni Trenta, dallo scorso 26 settembre il Museum für Gestaltung di
Zurigo si è trasferito nella zona di Züri-West, nella
cosiddetta «Toni-Areal». Fino al 1999 qui era in funzione il caseificio Toni, costruito negli anni Settanta,
ai tempi il più grande impianto di trasformazione del
latte in Europa. Sulla scia delle trasformazioni urbanistiche che hanno caratterizzato questa parte della
città dalla fine degli anni Ottanta – si pensi al caso
dell’area industriale della Sulzer-Escher Wyss, a poca
distanza, dove oggi c’è il Technopark di Zurigo – la
Toni-Areal è stata interessata da diversi piani di riconversione, sfociati nella decisione di trasferire qui due
università (la Zürcher Hochschule der Künste e la
Zürcher Hochschule für Angewandte Wissenschaft)
e, per l’appunto, il Museo.
L’incarico è stato affidato agli architetti zurighesi
em2n, i quali hanno lavorato sulla struttura esistente
mantenendone l’impianto volumetrico – con l’aggiunta di una torre residenziale nella parte anteriore
– ma stravolgendo, per forza di cose, il layout interno.
Arrivando con il tram numero 4 dalla stazione centrale, studenti e visitatori entrano nella «pancia»
dell’edificio – la grande hall d’ingresso, dotata di
info point, bistro, mensa, spazi per lo studio ecc. – attraverso una rampa. Da qui si dipartono i percorsi
verticali che conducono alle aule, alle sale di prova
per gli studenti della scuola di musica, a biblioteche,
archivi, bar e infine al vasto tetto panoramico, da cui
si possono contemplare lo skyline di Züri-West e i più
minuti sobborghi residenziali che sfumano i confini
urbani. (Per approfondimenti sulla Toni-Areal rimandiamo al numero 39/2014 di «tec21», pubblicato il 19
settembre 2014)
La nuova sede del Museum für Gestaltung, affacciata
sulla hall principale e chiamata anche Schaudepot, è
stata inaugurata con una mostra (aperta fino all’8
febbraio 2015) dedicata al design svizzero degli ultimi 100 anni, a cura di Renate Menzi e Arthur Rüegg.
L’esposizione si apre con un «prezioso» prologo in cui
si può ammirare la celebre cassa dell’orologio da tasca cesellata da Le Corbusier, risalente al periodo della formazione con Charles L’Eplattenier e premiata
con la medaglia d’oro della Fiera Internazionale di
Milano del 1906; nella sala principale si sviluppa invece il cuore della mostra, suddiviso in due percorsi paralleli. Al centro il visitatore può ripercorrere, in ordine cronologico, una rapida storia dell’arredo svizzero
che comincia con le sedie del 1914-15 del primo Cor-
2.
1. Vista della Toni-Areal dopo l’intervento degli architetti EM 2 N , 2014
2. Alfred Hablützel, Designers and their furniture, 1964,
Museum für Gestaltung Zürich, Design Collection
bu (allora si faceva chiamare ancora Charles Edouard Jeanneret) per la Villa Schwob a La Chaux-deFonds e procede decennio dopo decennio con le
sedie in metallo della Embru e della Wohnbedarf
(anni 30); quelle in legno di Max Bill (anni 50); la divertente Choco-Chair di Trix & Robert Haussmann
(1967), che ha quattro gambe liquefatte proprio
come se fossero di ottimo cioccolato svizzero; la sedia
di cartone di Alois Rasser (1969), simile ai coevi esperimenti di Frank Gehry; la sedia in acciaio Seconda di
Mario Botta, prodotta da Alias (1982) ecc.
Alla destra e alla sinistra di questo discorso si susseguono invece tante isole indipendenti, dedicate a
temi specifici. Si va dalla sezione «Ordnung», sui sistemi di archiviazione da ufficio, ai prodotti per le
attività all’aria aperta (scarponi, biciclette, sci, slittini
e addirittura una cabina della funivia, appesa al soffitto); dalla teca dedicata all’evoluzione del telefono
in Svizzera (molti esemplari vengono dal Museum für
Kommunikation di Berna) ai Paketmöbel, semplici ma
ingegnosi arredi in legno creati negli anni Quaranta
in risposta all’emergenza abitativa, tra cui si distin-
7
INTERNI E DESIGN
guono quelli pensati da Jacob Müller per il programma di assistenza Werkgenossenschaft Wohnhilfe del 1945.
Interessante anche la sezione «Individuell» con una
vetrina di orologi Swatch, rivoluzionari nel rapporto
tra produzione in serie e personalizzazione del prodotto; la sezione «Norm», che ragiona sugli standard
abitativi in relazione al progetto della cucina (in mostra alcuni pezzi della cucina del quartiere Neubühl
di Zurigo, del 1928-32); la riproduzione dello spartano intérieur allestito da Hannes Meyer nel 1926, composto da un letto, un grammofono e una sedia pieghevole, simbolo del nuovo stile di vita promosso dal
Neues Bauen. Largo spazio è dedicato poi al design
anonimo (il logo della mostra è un interruttore della
Feller AG del 1948, di autore ignoto, considerato da
Max Bill come esemplare del concetto di gute Form) e
allo Schweizerische Werkbund, la cui storia è raccontata attraverso testi, disegni, fotografie e filmati.
Nell’ultima sala, infine, si apre una parentesi sull’attuale panorama del design svizzero, con una parete
di video-interviste, un grande tavolo affollato di pubblicazioni sul tema e diverse teche con oggetti di vario tipo. Due di queste mettono in contrapposizione
il design di lusso – i Parfumflacons di atelier oï per Bulgari, lo sgabello di Herzog & de Meuron per Vitra, etc.
– e il design «democratico», cioè quello in cui l’estetica si sposa con l’etica, senza soluzione di continuità.
Se questi approfondimenti tematici non vi bastassero
– alcune sezioni sono molto sintetiche, data la volontà
di rivolgersi a un vasto pubblico – il Museo offre anche qualcosa di più. Il trasferimento nella nuova sede
è infatti stato l’occasione per riunire quattro splendide collezioni – design, grafica, manifesti, arti applicate – che oggi sono conservate nei piani inferiori della
Toni-Areal. Visitabili ogni giorno previa prenotazione (per maggiori info www.museum-gestaltung.ch),
offrono incontri ravvicinati e molto piacevoli con le
sedie di Henry van de Velde, con migliaia di manifesti pubblicitari (ad esempio quelli di Donald Brun
con bucoliche visioni della natura elvetica), prototipi
e modelli di studio di Willy Guhl per la Eternit ag,
chilometri di stoffe decorate ecc. Tutto quanto finalmente conservato in condizioni termiche e igrometriche adeguate. Per questo consigliamo di coprirvi
bene: le basse temperature fanno bene al design, ma
un po’ meno ai suoi amanti.
3.
4.
5.
3. Susi and Ueli Berger, Cloud Lamp, 1970,
Museum für Gestaltung Zürich, Design Collec- tion.
Foto F X. Jag g y & U. Romito, © ZHdK
4. Blat tmann Metallwarenfabrik AG, MEWA, Ket tle TECA,
1949 / Alfred Roth, Aluminium Chair, 1933 / Wilhelm
Kienzle, Cactus Watering Can, Museum für Gestaltung
Zürich, Design Collection. Foto F X. Jag g y & U. Romito,
© ZHdK
5. Antonio Vitali, Wooden fox, 194 4,
Museum für Gestaltung Zürich, Design Collection.
Foto F X. Jag g y & U. Romito, © ZHdK
8
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AL FABBRICATO.
In qualità di specialista di materiali da costruzione leader sul mercato svizzero, da noi potete trovare tutto il necessario per la realizzazione della vostra idea, dai guanti da lavoro fino
al cemento, sia che stiate pianificando progetti di grandi dimensioni
o realizzando piccole opere: vi forniremo tutti gli elementi che
portano al successo, con affidabilità anche nella valle più remota.
ARCHIVI ARCHITETTI TICINESI TI
Angela Riverso Ortelli
Fondazione
Archivi Architetti Ticinesi
Lo studio di Tita Carloni
a Rovio
1.
«La comodità non ha mai portato a niente, l’uomo sulla
luna non ci è arrivato in pantofole. Mettiamoci scomodi.
Non prendiamoci troppo spazio.»
Valerio Millefoglie, Mondo piccolo,
Laterza, Roma-Bari 2014
Salire a Rovio in una nitida giornata di sole regala
improvvise e splendide viste verso la fitta cerniera di
Riva San Vitale che chiude il lago a sud contro il Monte San Giorgio e verso la pianura che si aggancia a
Mendrisio. Dopo aver parcheggiato oltre la chiesa parrocchiale, giriamo le spalle alla collina di San Vigilio e
ci incamminiamo sulla strada del Generoso, verso il
paese posto a mezza costa della montagna. Poco sopra
la strada principale, uno stretto vicolo senza uscita ci
porta direttamente al vecchio edificio imbiancato
dove Tita Carloni ha ricavato il suo studio-ufficio-atelier.
Tre termini che stanno ad indicare come, nella ristretta superficie data da una «Baulücke» di circa 4 m per
8, l’architetto abbia organizzato tutta la sua poliedrica professione. Interessi molteplici trovano infatti collocazione ideale in questo edificio bifronte, affacciato solo su due stretti vicoli che si dipanano a partire
dalla strada comunale attraverso le gradinate pedonali che caratterizzano il nucleo. L’estrema attenzione e cura con la quale sono disposti i vari materiali ai
diversi livelli dell’edificio, ciascuno dedicato ad una
specifica attività, è immediatamente percepibile già a
partire dall’entrata, dove il primo vano ci accoglie. La
scala, stretta e ripida, è posta lungo tutto il lato interno e lo spazio restante è in fondo tutto quello che ci
vuole, un lungo pianerottolo attrezzato.
Le belle immagini del fotografo Marcelo Villada Ortiz rendono perfettamente l’atmosfera leggera e addirittura giocosa che si respira all’interno di questo piccolo volume, dove l’architetto ha organizzato su
quattro livelli lo spazio sufficiente per praticare e vivere quotidianamente la sua professione: colori chiari, naturali, luce tersa su tutte le superfici e il rosso ad
accendere alcuni punti precisi. Accompagnati dalle
fotografie di Villada Ortiz, entriamo quindi nello
spazio di ascolto, dove Carloni accoglieva gli amici e i
colleghi seduto dietro bianchi tavoli da disegno allineati a dividere longitudinalmente la superficie a disposizione. Sul tavolo davanti a noi tre volumi su
Wright, a testimoniare l’ammirazione di sempre e
moltissimi documenti di lavoro avvolti in buste postali A4 tagliate sui lati e fermate con elastici, con la sua
scrittura precisa a indicarne il contenuto: ristrutturazioni, ricerche storiche, scritti e letture, estratti cata-
2.
3.
1.-6. Lo studio al piano terreno, l’uf ficio al primo piano, l’atelier
al secondo piano. Nella pagina seguente det tagli degli strumenti
di lavoro. Fondo Tita Carloni, Fondazione Archivi Architet ti
Ticinesi. Foto Marcelo Villada Or tiz
11
ARCHIVI ARCHITETTI TICINESI TI
4.
stali antichi, riproduzioni e disegni a mano, articoli
pronti per essere consegnati. Alle sue spalle e tutto
intorno a noi, una libreria fitta di riviste e volumi
sull’architettura, sulla civiltà contadina, sul territorio,
sulle città, monografie, saggi, testi di storia e molti libri rari posati accuratamente a riposare al di sopra
degli scaffali. Sedie scolastiche di legno chiaro ad
ospitare i visitatori e sulla parete di fondo una grande
apertura quadrata che si affaccia verso la schiera di
edifici del comparto sottostante, illuminata dal sole
del pomeriggio.
È uno spazio stretto e intimo, non arredato per stupire o impressionare il collega o il committente, uno
spazio personale, privato e strettamente funzionale,
ma allo stesso tempo caldo e accogliente come la sua
stretta di mano. Lo si può soprattutto percorrere, non
ci sono comode poltrone, è permesso solo indugiare
in piedi, attenti che nessuno debba passare oltre. Saliamo quindi attraverso spazi sempre diversi, ottenuti
con lievi modifiche nella disposizione dei tavoli.
Raggiungiamo il primo piano, l’ufficio vero e proprio: classificatori, computer e un’ordinata serie di
scatole monocolore, allineate e regolarmente etichettate nella libreria di fronte, lungo tutto il parapetto
della scala. Al secondo piano si apre invece davanti a
noi l’atelier: tavoli disposti trasversalmente, il cavalletto aperto, molte cornici posate in un angolo, carte colorate di diverse sfumature, ordinate e racchiuse nei
cassetti e un piccolo lavabo scolastico, in fondo al locale. È una scoperta questo secondo piano, un atelier per
l’arte, la pittura e il disegno, che Carloni ammirava e
praticava regolarmente e con estremo piacere. Anche
qui, il profumo della carta e un ordine commovente
negli attrezzi del mestiere, colori, pennelli e una quantità incredibile di volumi sul tema: tesori raccolti con
attenzione e passione, che solo un’analisi e una catalogazione attenta potrà farci meglio conoscere.
Tutto il materiale, una memoria importante per la
storia del nostro territorio, verrà ospitato presso l’Archivio di Stato di Bellinzona e la Fondazione Archivi
Architetti Ticinesi, sotto un unico tetto, in modo che
i suoi scritti, i libri, la documentazione sull’attività politica o quella degli anni di insegnamento, gli archivi
fotografici e i progetti restino a disposizione di ricercatori o studenti che vorranno approfondirne la conoscenza.
5.
6.
Ci lasciamo alle spalle lo studio. Peccato non averlo
potuto conservare integro e ordinato come l’architetto Carloni l’ha lasciato, qui a Rovio, in un luogo dove
avremmo sentito la sua presenza. Fra libri antichi e
matite temperate con cura e riordinate per colore,
fra i suoi acquerelli o nella bassa soffitta con i progetti
archiviati, ci saremmo avvicinati al suo camicione da
pittura appeso ad un chiodo, fra i piattini sporchi di
colori chiari e accesi e ci saremmo sentiti accolti e al
sicuro, in sua compagnia. Ciao Tita.
12
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spazio
alla
vostra
creatività!
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Il design è frutto di idee concretizzate in forme! La qualità
scaturisce dalla perfezione fin nei minimi particolari! Con questi
presupposti siamo lieti di essere il Suo partner per realizzare
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denominazione Miele Project Business è attivo un team Miele
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inconfutabile conferma di affidabilità, lunga durata di vita e
sicurezza.
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CONCORSI TI
A cura di
Stefano Milan
A Zurigo il «Flâneur
d’Or» 2014
Per l’ottava volta «Mobilità pedonale Svizzera», con il
sostegno dall’Ufficio federale delle Strade (ustra) e
dall’Associazione Traffico e Ambiente (ata) realizza
il «Flâneur d’Or – Premio infrastrutture pedonali».
Questo concorso premia sia infrastrutture, vie, piazze
e spazi pubblici che invitano a passeggiare, che collegamenti pedonali diretti, attrattivi e sicuri all’interno
di spazi urbani, in vista di uno sviluppo della mobilità
durevole. È un tributo alle misure che aumentano la
qualità, l’attrattività e la sicurezza del camminare, ai
progetti che hanno come fulcro lo svago di prossimità, a quelli che risolvono il difficile passaggio tra ambiente urbano e ambiente naturale. Nell’edizione 2014
la palma d’oro è assegnata alla Città di Zurigo, che
con il progetto delle misure di accompagnamento
per la Circonvallazione ovest ha risposto positivamente ai criteri di valutazione della giuria: qualità dell’allestimento e attrattività del collegamento o dello spazio pubblico, sicurezza e comodità per tutti i pedoni,
esemplarità (applicabilità ad altri comuni e luoghi),
innovazione (progetti visionari, ricchi d’idee, non
convenzionali, estetici), modo di procedere (impegno dei partecipanti rispetto al coinvolgimento della
popolazione locale, la perseveranza e il coraggio) ed
efficienza finanziaria nell’uso delle risorse (rapporto
tra il costo complessivo e il guadagno in sicurezza e
attrattività). La giuria ha attentamente valutato i 46
progetti pervenuti nelle categorie di concorso: concetti
del traffico e pianificazione – principi direttori; infrastrutture a favore dei pedoni su strade cantonali – incluse segnaletica e demarcazione; infrastrutture a favore dei pedoni su strade comunali e private vie e
piazze – incluse segnaletica e demarcazione; nodi di
scambio coi trasporti pubblici.
I risultati sono sorprendenti: esistono davvero spazi
di traffico orientati ai bisogni dei pedoni e i contribu-
Zurigo, misure d’accompagnamento
per la circonvallazione ovest 2012
Committente Ufficio Infrastrutture Città di Zurigo – Ufficio del
Traffico del Canton Zurigo, Ufficio federale delle strade | Mobilità
Ernst Basler + Partner; Zurigo | Progettisti Metron; Brugg | Traffico e infrastrutture Heierli Ingenieurbureau; Zurigo | Tecnica
del traf fico Ingenieurbüro Roland Müller; Zurigo
Secondo la giuria, quanto realizzato é «una pietra miliare nel
traf fico pedonale svizzero». Grazie alla circonvallazione, il
quar tiere, dopo 40 anni di intenso traf fico di transito, ha ricevuto una seconda oppor tunità. Per Zurigo si trat ta di un passo
avanti dalla «cit tà delle auto» a uno spazio urbano che si orienta alla vita di quar tiere, la qualità della sosta e le necessità dei
pedoni. La riqualificazione della West-, Sihlfeld- e Bullingerstrasse ha riscat tato queste strade, un tempo par ti di un’asse
di transito molto traf ficato, e che og gi sono tranquille vie di
quar tiere. Si trat ta di una riuscita riconquista dello spazio urbano in favore del traf fico lento. Chi va a piedi ora passeg gia su
ampi boulevards e per la prima volta da decenni i caf fé possono
af facciarsi sulla strada, i negozianti possono tenere aper te le
por te, e si può bighellonare lungo la via o chiacchierare con i
vicini. Due nuove piazze e la rinnovata Bullingerplatz diventano
nuovi centri di quar tiere. Anche gli spazi verdi e le piazze esistenti come la Bullingerhof, la Fritschiwiese o la Idaplatz sono
stati rivalutati. In questo modo il quar tiere dimostra che la densità dell’abitato e la qualità della vita non sono af fat to incompatibili.
La Città e il Cantone di Zurigo, con adeguati mezzi finanziari, hanno dato un segnale chiaro in favore d’infrastrut ture urbane che
migliorano la condizione dei pedoni. Hanno agito con coerenza,
met tendo in at to il pacchet to di misure di accompagnamento
senza ritardi, subito dopo l’aper tura della circonvallazione. Il
loro coraggio è testimoniato da diversi elementi, come il passaggio pedonale attraverso l’Hardstrasse presso la Hardplatz senza
segnali luminosi.
Le misure d’accompagnamento mostrano, in maniera esemplare, come grazie a una serie di inter venti si possa trasformare
l’occasione di ridurre il traf fico nell’oppor tunità di una nuova
vita di quar tiere.
14
CONCORSI TI
ti inviati in occasione dell’ottava edizione del concorso lo dimostrano chiaramente. Qui riportiamo, sotto
forma di brevi sintesi, le opinioni della giuria in merito al progetto vincitore, e alle distinzioni ticinesi. Il
bando e tutti i risultati del concorso, compresa la menzione di Canobbio e le proposte di Lugano e Paradiso,
sono invece consultabili on-line al sito flaneurdor.ch.
Il «Flâneur d’Or» è definitivamente riuscito a superare il «Röschtigraben». La Svizzera romanda e il Ticino recuperano terreno: per la prima volta nella storia
del Premio sono arrivate più candidature dalla Svizzera romanda che dalla Svizzera tedesca. Sensibile
pure l’aumento dei progetti provenienti dal Ticino
ma non si tratta di un semplice valore numerico: su
cinque progetti presentati, il Cantone è stato premiato con le distinzioni dei progetti di Lumino e Pura e
con la menzione di Canobbio.
Questo brillante risultato è paragonabile solo a quello del Canton Zurigo, che nel progetto vincitore ha
investito fior di milioni.
Esposizione Flâneur d’Or 2014
Foyer Stabile amministrativo 3
via F. Zorzi 13, Bellinzona
29 gennaio – 13 febbraio 2015 | lu-ve 8.00-17.00
Lumino Bridge 2013
Committente Municipio di Lumino | Concetto Paolo Della Bruna Studi Associati SA; Lugano | Progettisti Blueoffice Architecture; Bellinzona, Pini Swiss Engineers; Lugano | Costruzione ponte Tuchschmid; Frauenfeld
Pura, adeguamento urbanistico, lavatoio e cimitero 2011
Committente Municipio di Pura | Progettisti Marco Bausch;
Pura, Studio BRC; Agno | Realizzazione Pedrazzini Costruzioni; Lugano, Pavinord; Bellinzona, Implenia; Bioggio, Montemarano Donato; Pura
Il nuovo ponte giallo è un esempio ben riuscito di statica ed estetica. La costruzione riflette il gioco delle acque del Riale Grande e
stupisce per la particolare colorazione. Disegno e colore del ponticello non corrispondono a quelli dei comuni ponti pedonali e diventano un segnale nel paesaggio. Grazie alla nuova connessione
si è venuto a creare uno spazio di alta qualità, il quale con le panchine sulla riva del Riale Grande disegna un luogo che invita alla
sosta. Su entrambi i lati del ponticello le vie pedonali e ciclistiche
continuano su strade a traffico ridotto e invitano a passeggiare.
Questo progetto mostra che, anche con un budget ridotto, prestando attenzione all’ambiente circostante, si può raggiungere un
ottimo risultato. Oltre al basso costo complessivo la giuria sottolinea anche l’istallazione relativamente semplice del ponte: prefabbricato, fornito e posato sopra le sue fondamenta per mezzo di
una gru, in tempi molto brevi.
Il progetto af fascina grazie alla maniera accor ta in cui tratta le
differenze di quota. I muretti di pietra naturale collocati e lavorati con cura sul modello del vecchio muro del cimitero e l’utilizzo di graniti diversi creano un’immagine nobile.
Chi passeggia viene accolto con un tappeto di pietra!
Le due aree di parcheggio vengono separate chiaramente da muri
di sostegno e di protezione. Con i muretti il tema dei vicoli, tipici
dei villaggi di montagna ticinesi, viene reso in una forma discreta
e moderna. Disturba, però, il muro di granito grezzo sotto il pioppo. Una muratura analoga ai muri del cimitero con una panchina
sarebbe stata un’opzione migliore per completare il piccolo ambiente, altrimenti ben riuscito.
Un’attenta scelta dei materiali, l’ottima manifattura e il coraggio
di ridisegnare completamente il luogo sono gli ingredienti che
hanno creato le condizioni per una distinzione.
15
CONCORSI TI
espazium.ch/archi/concorsi
FOX TOWN REST YLING
A MENDRISIO
MARZO 2014
1° rango 1° premio – «MELTING POT»
Felicia Lamanuzzi; San Pietro di Stabio
2° rango 2° premio – «PATCHWORK»
Ferruccio Robbiani Architetto SA ,
Stocker Lee architetti; Mendrisio
3° rango 3° premio – «WETUBE»
Claudio e Giampiero Orsi; Locarno
4° rango 4° premio – «THETA»
Guidotti Architetti SA ; Monte Carasso,
Stefano Moor; Lugano
Menzione – «URBANITÀ»
Baserga Mozzetti Architetti; Muralto
Felicia Lamanuzzi
NUOVA PASSERELL A
CICLOPEDONALE
SUL VEDEGGIO
AGOSTO 2014
1° rango 1° premio – «UP»
Ingegnere civile Studio Borlini & Zanini SA ;
Pambio-Noranco | Architetto Studio Bonetti
e Bonetti architetti; Massagno
2° rango 1° acquisto – «ICARO»
Ingegnere civile Monotti Ingegneri Consulenti SA ;
Locarno | Architetto Celoria Architects Sagl; Balerna
3° rango 2° premio – «L ARUS»
Ingegnere civile Studio d’ingegneria Giorgio
Masotti; Bellinzona | Architetto Orsi & Associati;
Bellinzona
4° rango 3° premio – «TRENTATRE»
Ingegnere civile ITECSA ; Lugano | Architetto
Lorenzo Felder SA ; Lugano
Studio Bonet ti e
Bonet ti architet ti
NUOVO STABILE
PATRIZIALE E SISTEMAZIONE
DELL A PIA ZZA DI LODRINO
OT TOBRE 2014
1° rango 1° premio – «Quar tz»
Canevascini & Corecco; Lugano
2° rango 2° premio – «Riempipiazza»
Wespi de Meuron Romeo Architetti SA ; Caviano
3° rango 3° premio – «Ponte»
Atelier Ferrara Architettura; Chiasso
4° rango 4° premio – «Gelosia»
Pesenti Quadranti Hubmann; Mezzovico
5° rango 5° premio – «Bobotie»
Bernadett Kurtze; Pedrinate
6° rango 1° acquisto – «Sasc legn e acqua»
Roberto La Rocca, Thea Delorenzi; Minusio
7° rango 6° premio – «Palaz al punt»
Baserga Mozzetti Architetti; Locarno
Canevascini & Corecco
16
C OMUNIC ATI OTIA
Daniele Graber
consulente giuridico OTIA
ser [email protected]
Aspetti particolari della
responsabilità per difetti
A seguito delle reazioni ricevute in merito all’articolo
apparso nell’ultimo numero di Archi 5/2014 relativo
alla responsabilità per la direzione dei lavori di garanzia, colgo l’occasione per precisare alcuni aspetti particolari concernenti l’architetto e l’ingegnere confrontato con la responsabilità per difetti, segnatamente le
modalità di notifica dei difetti, i diritti del committente, e la garanzia dell’imprenditore dopo il collaudo.
Per la gestione dei difetti e dei relativi diritti e obblighi delle parti coinvolte, il collaudo rappresenta l’atto
formale (il momento) decisivo. Risulta quindi fondamentale effettuare il collaudo dell’opera. Ideale sarebbe effettuarlo secondo le regole definite dalla
norma sia 118, ed. 2013. Vista la sua indiscussa importanza e il suo contenuto molto equilibrato, la norma sia 118, ed. 2013, dovrebbe sempre essere esplicitamente integrata nei contratti di appalto e quindi
costituire l’insieme di regole da applicare in caso di
difetti. Le presenti considerazioni si basano esclusivamente sul sistema definito dalla norma sia 118.
I difetti scoperti durante il collaudo e annotati in un
apposito verbale di collaudo (ad esempio nel formulario sia 1029) conferiscono al committente una serie
di diritti, gestiti di regola dal suo rappresentante architetto o ingegnere che ha assunto la funzione di
direttore dei lavori (a questo proposito, cfr. nuovo Regolamento sia 103, ed. 2014). Oltre alla verifica dell’opera, al momento del collaudo il rappresentante del
committente deve esigere dall’appaltatore l’atto di
garanzia solidale, giusta l’art. 181 sia 118; documento
utile in caso di inadempienza dell’appaltatore nella
fase di eliminazione dei difetti.
I diritti del committente, e di riflesso le modalità d’azione a carico del professionista suo rappresentante,
sono descritti all’art. 169 sia 118. Per ogni difetto, il
committente può far valere dapprima unicamente il
diritto all’eliminazione del difetto da parte dell’imprenditore entro un determinato termine (art. 169
cpv. 1 sia 118). Quindi, sulla base dei difetti annotati
nel verbale di collaudo o notificati in seguito all’appaltatore, il committente deve assegnargli un termine ragionevole che gli permetta di intervenire e di
eseguire i lavori che portano alla riparazione del difetto. Se l’imprenditore non elimina i difetti entro il
termine stabilito dal committente, questi ha il diritto
di scegliere fra insistere per l’eliminazione dei difetti,
chiedere un minor valore o recedere dal contratto
(art. 169 cpv. 1 cifra 1, 2 e 3 sia 118).
Sovente non è facile per il committente capire chi è il
responsabile di un determinato difetto. In effetti egli
si confronta di regola con un danno (ad esempio
umidità nel soffitto) consecutivo a un difetto (ad
esempio tetto realizzato in modo difettoso), senza sapere quale attore dei vari che hanno contribuito alla
realizzazione del tetto sia effettivamente responsabile.
Saper gestire l’intera problematica diventa determinante per non perdere i propri diritti di garanzia e
per arrivare a una soluzione a favore del committente.
Se il committente opta per l’eliminazione del difetto,
egli ha tempo di regola 5 anni dal collaudo per esigere la sua riparazione (periodo di garanzia previsto
all’art. 180 cpv. 1 sia e pure all’art. 371 cpv. 2 co). Per
evitare la prescrizione, egli ha la possibilità di chiedere all’appaltatore di trasmettergli una dichiarazione
firmata di rinuncia alla prescrizione o di interrompere la prescrizione tramite atto formale, segnatamente
tramite l’invio di un precetto esecutivo o l’inoltro di
un’istanza di conciliazione.
Non sapendo con certezza chi sia il responsabile, egli
deve notificare (per iscritto tramite lettera raccomandata) il difetto a ogni potenziale responsabile e alle
rispettive assicurazioni. Con loro il committente decide le modalità d’azione, segnatamente l’allestimento
di una perizia congiunta per conoscere le cause del
difetto e la definizione del genere di lavoro da eseguire per eliminare il difetto. Sulla base della perizia, i
responsabili e le relative assicurazioni assumono, in
percentuale alle rispettive responsabilità, i costi per la
riparazione dei difetti e per il risarcimento dei relativi
danni. Se il procedimento extragiudiziario non si conclude in un tempo ragionevole con la riparazione del
difetto, per non perdere i propri diritti, al committente non resta altra possibilità che l’azione giudiziaria
volta a chiedere il risarcimento del danno subito.
Dopo l’eliminazione di un determinato difetto, l’appaltatore segnala al committente la fine dei lavori di
riparazione. In seguito, le parti effettuano un collaudo della parte d’opera riparata, conformemente agli
art. 157 a 171 sia 118. Dal giorno del collaudo decorre,
unicamente per la parte d’opera sistemata, un nuovo
periodo di reclamo dei difetti di due anni, rispettivamente un nuovo periodo di garanzia di 5 anni.
17
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C OMUNIC ATI SI A
Michel Kaeppeli*
Markus Gehri*
Nuova veste
ai regolamenti
Le ultime decisioni
della ZN
I regolamenti per le prestazioni e gli onorari sono
uno strumento del tutto indispensabile nel lavoro degli ingegneri e degli architetti poiché tutelano e regolamentano in modo vincolante, per entrambe le parti,
il rapporto di collaborazione tra pianificatori e committenti. In maggio 2014 i delegati sia hanno approvato la pubblicazione di un ampio ventaglio di regolamenti per le prestazioni e gli onorari. Tra questi si
annoverano i regolamenti sia 102 per le prestazioni e gli
onorari nell’architettura; sia 103 per le prestazioni e gli onorari nell’ingegneria civile, sia 105 per le prestazioni e gli
onorari degli architetti del paesaggio; sia 108 per le prestazioni e gli onorari nell’ingegneria meccanica, nell’elettrotecnica e nell’ingegneria impiantistica per gli edifici; come
pure le norme sia 111 Modello di prestazioni per la pianificazione e la consulenza e sia 112 Modello di prestazioni di
progettazione. D’ora in poi vi sarà inoltre un unico modulo contrattuale da applicare a tutti i contratti stipulati tra i committenti e i pianificatori incaricati, completato da un contratto di submandato e da un
contratto per i consorzi.
Dopo essersi palesato in modo sempre più evidente
che gli elenchi delle prestazioni e l’articolazione delle
fasi progettuali della rpo andavano rivisti e ripensati,
la Commissione centrale per i regolamenti (zo) ha
incaricato un gruppo di lavoro denominato infor di
occuparsi della revisione.
Innanzitutto sono stati riesaminati i regolamenti sia
102, sia 103 e sia 108. In questa fase è emerso che
anche i regolamenti sia 105 per le prestazioni e gli onorari degli architetti del paesaggio (in vigore dal 12.9.2012),
sia 111 Modello di prestazioni per la pianificazione e la consulenza (in vigore dal 29.11.2012) e sia 112 Modello di
prestazioni (in vigore dal 18.11.2011) andavano inclusi
nella revisione.
Le commissioni annesse al gruppo di lavoro, composte da un’ottantina di membri, tra cui si trovavano
tanto i rappresentanti dei pianificatori quanto i rappresentanti dei committenti, hanno elaborato i progetti, messi in consultazione pubblica alla fine del
2012. Grazie all’ampia partecipazione di numerose
cerchie di interessati, i documenti hanno potuto essere perfezionati e ampliati sotto diversi aspetti. I regolamenti, approvati dall’Assemblea dei delegati questa primavera, saranno disponibili anche in lingua
italiana a partire da marzo 2015. Nel primo numero
di Archi che uscirà nel 2015 le pagine sia tratteranno
nel dettaglio tutte le novità contemplate dai regolamenti contrattuali.
«In occasione della sua ultima seduta, la Commissione centrale per le norme (ZN) ha dato il nullaosta alla pubblicazione di quattro norme e due schede tecniche. Per contro ha deciso di respingere una pubblicazione e due proposte di progetto.»
* responsabile Regolamenti presso l’Ufficio amministrativo sia
Durante la seduta del 9 settembre 2014, la Commissione centrale per le norme (zn) si è occupata quasi esclusivamente dei temi riguardanti la Commissione settoriale per le norme sull’impiantistica e l’energia (kge).
La Commissione ha approvato la pubblicazione di
quattro norme e due schede tecniche. Si tratta, nella
fattispecie, delle norme sia 241 Opere da falegname con la
corrispettiva sia 118/241 Condizioni generali relative alle opere da falegname, seguite dalle norme sia 384/7 Utilizzo
del calore dell’acqua sotterranea e sia 380 Basi per il calcolo
energetico di edifici, con le schede tecniche sia 2024 Condizioni di utilizzo standard per l’energia e l’impiantistica degli
edifici e sia 2047 Rinnovo energetico degli edifici.
La nuova norma sia 380 è il risultato della revisione
della sia 416/1 e in futuro servirà quale norma di base
per tutte le norme sia 380/x. Il cambiamento della numerazione andrà comunicato in modo chiaro, e sarà
necessario adattare di conseguenza i rimandi esistenti.
Non è invece ancora stato dato il via libera alla pubblicazione della scheda tecnica sia 2046 Test completi dei
sistemi impiantistici. Al proposito si richiede infatti
un’ancor maggiore armonizzazione con le altre norme, e in particolare con la rpo. La zn ha respinto il
lancio del progetto concernente la revisione della
scheda tecnica sia 2025 Terminologia per la fisica della
costruzione, l’energia e l’impiantistica degli edifici, dato che
questa raccolta di concetti e formule importanti, soprattutto per le commissioni normative, non ha in realtà carattere normativo. La scheda tecnica sarà dunque ritirata entro la fine del 2014.
Si è ritirata anche la proposta di progetto concernente l’armonizzazione delle categorie degli edifici e dei
valori standard: un lavoro che va svolto in seno alla
commissione settoriale. La zn ha anche discusso le
misure necessarie e fissato alcune prime disposizioni
per fare in modo che, dopo essere state approvate, le
future norme possano essere pubblicate più velocemente sia in italiano sia in francese.
I partecipanti hanno altresì appreso della costituzione
della Commissione per le norme informatiche kin e
della Commissione per le norme sulla sostenibilità e
l’ambiente knu, i cui compiti e funzioni saranno discussi e approvati in occasione della prossima seduta, durante la quale saranno eletti anche i membri candidati.
* responsabile del settore Norme e vicedirettore sia
19
C OMUNIC ATI SI A
David Fässler*
Frank Peter Jäger
Il potenziale della
forza lavoro indigena
In Svizzera, il settore dell’edilizia e della pianificazione continuerà ad appoggiarsi, anche in futuro, alla manodopera
estera – ciò è quanto emerge dal sondaggio condotto dalla SIA
in merito all’iniziativa popolare contro l’emigrazione di massa. La SIA si appella al settore esortandolo ad attingere anche
alla riserva di forza lavoro indigena.
Il 9 febbraio 2014, la popolazione svizzera ha detto sì
all’iniziativa popolare «contro l’immigrazione di massa». Accogliendo l’iniziativa gli Svizzeri si sono dichiarati propensi a un cambio di paradigma nella politica
migratoria. Il modello, presentato in giugno dal Consiglio federale per l’attuazione dell’iniziativa, prevede
che dal 2017 la Confederazione fissi tetti massimi e
contingenti per regolare l’immigrazione degli stranieri. Al proposito va tenuto conto a livello cantonale degli indicatori riguardanti l’economia e il mercato del
lavoro. La sia ha colto l’occasione di questa svolta nella politica migratoria per chiedere ai suoi membri affiliati come ditta di esprimersi in merito all’iniziativa
e alle sue conseguenze.
Progettisti - in gran parte contro l’iniziativa
Nell’ambito del sondaggio, effettuato in giugno, sono
stati interpellati complessivamente 2017 membri affiliati come ditta, di cui 314 (circa il 15%) hanno fornito risposta alle domande formulate. La maggior
parte degli studi sottoposti al sondaggio ha valutato
negativamente il risultato della votazione. Circa il
60% presume che la situazione apporterà per lo più
degli svantaggi, mentre solo il 4% pensa che il nuovo
sistema si rivelerà positivo. Il 36%, ovvero un buon
terzo dei sondati, considera il risultato in modo neutrale. L’approccio per lo più scettico nei confronti
dell’iniziativa trova conferma nei risultati scaturiti
dalle indagini congiunturali effettuate su incarico
della sia: in Svizzera il settore della progettazione accusa una penuria di manodopera specializzata, nonostante le attuali previsioni congiunturali piuttosto
modeste e contenute. Presso gli studi di architettura e
ingegneria, vista la penuria di personale, spesso si accusano ritardi sulla tabella di marcia oppure ci si
vede addirittura costretti a rifiutare gli incarichi. Oltre l’80% degli studi cerca pertanto forza lavoro all’estero, soprattutto nei vicini Paesi membri dell’ue.
Considerate le previsioni congiunturali, si parte dal
presupposto che, nei prossimi anni, il fabbisogno di
personale qualificato resterà stabile o tenderà persino ad aumentare. Se si prendono come riferimento i
dati aggiornati, pubblicati dall’Ufficio federale di
statistica (ust), nel caso di una quota costante di
Lavoro in team presso lo studio zurighese Müller Sigrist
Architek ten, autore del complesso Kalkbreite. Foto Das Bild
stranieri pari a circa il 25%, per coprire la carenza
di manodopera che interessa il settore architettonico e ingegneristico sarà necessaria un’immigrazione annua di almeno 2200 professionisti stranieri,
di cui 750 ingegneri e 1450 architetti.
In considerazione di tali cifre la sia si prodiga in favore di un’attuazione misurata e oculata dell’iniziativa
sull’immigrazione: bisogna evitare che la nuova politica sui contingenti conduca a un’ulteriore acutizzazione della penuria di manodopera specializzata
nell’ambito della progettazione, frenando così un settore chiave dell’industria edilizia. Molto più promettente rispetto alle soluzioni forfettarie, come quella
delle restrizioni all’immigrazione è, a detta della sia,
la decisione di promuovere in modo efficace la formazione continua della manodopera indigena qualificata, unita a un’immigrazione controllata della forza
lavoro proveniente dall’estero. Nel contempo occorre
attingere in modo più intenso di prima alle considerevoli riserve di personale indigeno qualificato e già
attivo nel settore.
Migliori possibilità, anche dai 50 in su
Il direttore della sia, Hans-Georg Bächtold, si riferisce qui a tre gruppi in particolare: la forza lavoro femminile, i lavoratori ultracinquantenni e le persone
con una formazione professionale superiore e in possesso di ulteriori specializzazioni. «Non è possibile
che gli ingegneri con qualche anno in più o le donne,
dopo la pausa lavorativa dedicata all’educazione dei
figli, incontrino così tante difficoltà quando decidono
di fare nuovamente ingresso nel mondo del lavoro,
mentre gli studi di progettazione si rivolgono sempre
di più all’estero per reclutare i propri collaboratori»,
così Bächtold. Il direttore della sia desidera richiamare su questo tema delicato l’attenzione dei membri sia
e del settore della pianificazione. È importante che la
manodopera indigena non si senta svantaggiata.
* avvocato, mba e resp. sia-Service
20
C OMUNIC ATI SI A
Markus Gehri*
Nuova scheda tecnica?
Le due commissioni centrali, ovvero la Commissione centrale
per le norme (ZN) e la Commissione centrale per i regolamenti
(ZO) si incontrano una volta l’anno per discutere varie tematiche. La seduta di quest’anno verteva su due argomenti cruciali, vale a dire la documentazione sulla costruzione e la
questione dei periti specializzati nel valutare i danni causati
dai vizi di costruzione.
Dopo due riunioni avute luogo in separata sede, entrambe le commissioni si sono incontrate per una seduta comune, iniziata con un’interessante presentazione sul tema della psicologia architettonica. Uno
psichiatra ha condotto i partecipanti nei meandri di
un edificio fittizio, passando in rassegna gli aspetti
normali, funzionali e legati alla sensazione del «benessere». Durante la cena è nata un’animata discussione tra i rappresentanti della «coscienza tecnica» e
gli esponenti della «coscienza politico-regolamentare» della sia.
Maggiore integrazione delle norme europee?
In occasione della seduta comune, avvenuta il giorno
successivo, i partecipanti hanno tratto un bilancio intermedio sulla politica normativa sia approvata due
anni or sono. Riassumendo, la maggior parte degli
obiettivi intermedi può dirsi raggiunta, e questo è
quanto emerso dalla discussione. Solo per quanto attiene le nuove forme di pubblicazione e la successiva
integrazione delle norme europee, che in futuro potrebbe interessare eventualmente anche l’ambito
contrattuale, le voci non erano del tutto unanimi. Si è
discusso soprattutto sulla possibile elaborazione di
una scheda tecnica inerente l’ampio concetto della
documentazione sulla costruzione.
Gli ingegneri civili hanno le idee piuttosto chiare in
merito a chi debba fare cosa e quando, e ciò grazie
anche alle indicazioni contenute nella norma sia
260. Tra gli ingegneri impiantisti e i molti altri specialisti regna invece un po’ più di confusione. Anche per
gli architetti, in particolare quando sono chiamati a
dirigere l’intero progetto, sarebbero auspicabili direttive meglio definite.
Benché alcuni grandi studi di progettazione e committenti si avvalgano già di disposizioni univoche e la
Conferenza di coordinamento degli organi della costruzione e degli immobili dei committenti pubblici
(kbob) faccia il possibile per implementarne di simili, non è ancora stato definito in modo chiaro quali
dovranno essere i contenuti della nuova scheda tecnica e se il documento andrà elaborato sotto la responsabilità della zn o della zo. Quel che è certo è che oc-
corre fare una netta distinzione tra il capitolato
d’oneri con le diverse convenzioni di utilizzo, impiegato dal committente quale direttiva, la documentazione di progetto che funge da protocollo del processo e la documentazione sulla costruzione, intesa
come una descrizione e una sorta di «istruzione per
l’uso» dell’opera. Il progetto dovrà essere avviato con
la collaborazione di tutte le parti coinvolte.
Periti autodesignati
Da ultimo è sorta una discussione in merito all’apparizione sempre più frequente di «periti», in parte incaricati in modo autonomo, che attestano (norme
alla mano) vizi e difetti effettivi o presunti, facendo
del processo di costruzione un ammasso sempre più
grande di perizie e stime. Dalla discussione è emerso
che non tutte le pretese vanno respinte, poiché la
pressione sui costi (talvolta generata dai pianificatori
stessi) conduce a una riduzione ai minimi termini
della propria prestazione. Eventuali errori o disposizioni formulate in modo poco preciso comportano
successivi lavori di miglioria e numerose aggiunte che
compensano i presunti utili risultanti dall’aggiudicazione. Inizialmente i presenti non riuscivano a trovare un accordo, in seguito si è deciso di ottimizzare la
formazione in materia e proporre speciali convegni
sul tema. Il settore della pianificazione si vedrà impegnato nel discutere la questione ancora per qualche
tempo.
In occasione della seduta, si è ribadito anche lo stretto nesso esistente tra le norme tecniche e quelle contrattuali. Ora che il Comitato direttivo non c’è più è
infatti assolutamente necessario trovare un’altra modalità di coordinamento. In assenza di un organo responsabile, la funzione dovrà essere rivestita in buona parte dall’Ufficio amministrativo sia.
* responsabile del settore Norme e vicedirettore sia
21
C OMUNIC ATI SI A
Henrietta Krüger*
Benchmarking
e definizione degli onorari
Per la seconda volta, dal 2012, la sia ha effettuato un
rilevamento concernente le spese generali e le ore di
lavoro. L’obiettivo principale del sondaggio è quello di
aumentare la trasparenza in riferimento alle spese per
le prestazioni e gli onorari nel settore della pianificazione. Al proposito sono stati definiti importanti indicatori aziendali, come la produttività, la quota del costo del lavoro o la cifra d’affari per ogni impiego a
tempo pieno – dati fondamentali e necessari per un
calcolo degli onorari fondato, pratico e concreto. Il rilevamento è effettuato con il sostegno delle associazioni partner della sia, tra cui: fas, fsap, fsai, fsu, igs,
asep, sitc e usic. Il grande supporto fornito nell’ambito della pianificazione mira soprattutto a promuovere
la partecipazione al sondaggio da parte delle diverse
discipline e a rendere possibile un utilizzo onnicomprensivo dei risultati scaturiti. L’indagine ha luogo ogni
due anni, in alternanza con il rilevamento salariale sia.
Quest’anno, grazie all’ampio riscontro avuto dal sondaggio, è stato possibile raccogliere in quasi tutti gli
ambiti un numero di dati di base superiore a quello
del 2012. Si sono raccolti dati corrispondenti a un numero totale di 6354 persone (nel 2012: 3924 persone).
La valutazione è stata effettuata per 215 uffici.
Discipline
Architet ti
Ingegneri civili
Ingegneri rurali e
specializzati in misurazioni
Ingegneri impiantistici
2014
84
57
2012
77
45
30
20
43
9
Per la prima volta sono stati valutati separatamente anche i dati raccolti in riferimento all’attività di architetti
paesaggisti, urbanisti e professionisti dell’ambiente.
Differenze regionali
I partecipanti della «Svizzera tedesca»1 dominano il
quadro generale della valutazione, con il 66% dei dati
pervenuti. Dalle immissioni effettuate risulta una produttività inferiore rispetto alle altre regioni.2 La cifra
d’affari per onorari, per ogni impiego a tempo pieno,
si colloca a 176 564 chf e supera di 2772 chf i valori
registrati nella regione «Lemano + Espace Mittelland».3
I valori rilevati per il Ticino non hanno purtroppo significato attendibile, in ragione della scarsa partecipazione. A questo proposito occorre riflettere sul modo
per incentivare tra i pianificatori ticinesi una più ampia partecipazione al rilevamento. Per garantire una
maggiore consistenza per quanto attiene le spese rela-
tive alle prestazioni e agli onorari nell’attività pratica
di tutte le specializzazioni e regioni, vi invitiamo a consultare i risultati della valutazione. Cogliamo inoltre
l’occasione per ricordarvi di partecipare numerosi anche al rilevamento salariale 2015 nonché al prossimo
rilevamento delle cifre statistiche previsto per il 2016.
L’invito è rivolto anche e in particolare alle regioni
«Espace Mittelland» e Ticino.
Svizzera nordoccidentale, Zurigo,
Svizzera orientale e Svizzera centrale*
Cifra d’af fari per onorari
pro impiego a tempo pieno
Quota costo del lavoro
Fat tore spese generali
Produt tività
2014
CHF
%
%
%
Regione del Lemano + Espace Mittelland*
Cifra d’af fari per onorari
pro impiego a tempo pieno
Quota costo del lavoro
Fat tore spese generali
Produt tività
Ticino*
Cifra d’af fari per onorari
pro impiego a tempo pieno
Quota costo del lavoro
Fat tore spese generali
Produt tività
173’792
77.08
53.88
78.05
2014
CHF
%
%
%
176’564
77.69
52.24
76.45
2014
CHF
%
%
%
207’209
78.92
47.47
79.86
* Tut te le discipline di ingegneria per ogni dimensione di studio
Utilizzate il benchmarking e il calcolatore online
Per l’analisi dei risultati è disponibile la piattaforma
online. https://benchmarking.sia.ch Se avete partecipato, e dunque avete accesso alla piattaforma, potrete
visualizzare come si posiziona il vostro ufficio nei confronti della concorrenza e in quali settori la vostra impresa vanta un potenziale di sviluppo e controllo. Inoltre potrete calcolare online l’onorario specifico per il
vostro ufficio.
Note
1 Svizzera nordoccidentale, Zurigo, Svizzera orientale
e Svizzera centrale, ma senza «Espace Mittelland».
2 Differenziazione in base a tre regioni - A: Svizzera
nordoccidentale, Zurigo, Svizzera orientale e Svizzera
centrale (140 partecipazioni), B: Regione del Lemano
+ «Espace Mittelland» (69 partecipazioni) e C: Ticino
(4 partecipazioni).
3 In base alla suddivisione effettuata dall’Ufficio federale
di statistica il cosiddetto «Espace Mittelland» raggruppa
i cantoni di Berna, Friburgo, Soletta, Neuchâtel e Giura,
ovvero solo una parte di quello che geograficamente
è definito l’Altipiano, come pure regioni che dal punto
di vista prettamente geografico non appartengono
all’Altipiano, ad es. l’Oberland bernese e tutto il
Cantone del Giura.
* responsabile sia-Service
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D I A R I O D E L L’ A R C H I T E T T O T I
A cura di
Paolo Fumagalli
Scovare i giovani
bravi architetti?
Mi sembra interessante approfondire alcuni aspetti
su quanto avevo scritto nell’ultimo Diario con il titolo
Chi ha nascosto i giovani architetti? I motivi ci sono. A
parte il fatto che alcuni colleghi che ho inserito tra i
«giovani architetti» mi hanno ringraziato per l’inaspettato svecchiamento, tra mail e incontri e chiacchiere mi sono reso conto che Diario ha toccato un
nervo scoperto. Pur nella brevità di un paio di pagine
avevo cercato di spiegare le responsabilità del committente nella gestione del mercato immobiliare in
Ticino e del degrado della qualità architettonica di
cui è responsabile. Dove per mercato immobiliare
non s’intende solo quello abitativo o per uffici, ma anche industrie, shopping center, fabbriche, depositi, capannoni, distributori di benzina. Affermavo che da
tale mercato i «giovani» architetti sono in pratica
esclusi. I committenti preferiscono rivolgersi a chi gli
disegna senza tante storie e a prezzi stracciati quello
che lui vuole.
Mi chiedo però, volendo riprendere il discorso e dilatandolo a tutti gli architetti, anche quelli che giovani
non lo sono più, se la questione non sia più complessa: non solo una questione di cattiva qualità dell’architettura che si costruisce, ma anche di cattiva gestione del territorio.
Pianificazione
Non solo i committenti: se la cattiva architettura di
cui sono responsabili – ed è un fatto – invade senza
criterio valli e colline le colpe vanno cercate anche
altrove. Nella pianificazione. Quella pianificazione
stretta dentro l’assurda camicia di forza di regole e
metodi e procedure pianificatorie che risalgono a oltre cinquant’anni fa e che ancora oggi è condotta senza la progettualità che l’evoluzione demografica ed
economica, le trasformazioni delle infrastrutture e la
complessità degli attori in gioco rendono indispensabile, specie in un territorio complesso e dentro un
paesaggio come quello del Ticino. Una pianificazione oltretutto attuata senza le necessarie competenze,
priva di idee e concetti capaci di immaginare spazi
adeguati alle nuove esigenze del vivere collettivo.
Occorre rileggere «Beton boom» in Ticino, l’articolo
che scrisse Mario Botta sulla «Neue Zürcher Zeitung», ora ripreso nel suo bel libro Quasi un diario
2003-2013 (casa editrice Le Lettere, Firenze 2014):
«All’inizio del nuovo secolo ci troviamo a raccogliere
i cocci di un territorio urbanizzato senza alcun vero
progetto, senza alcun disegno, senza obiettivi in grado di suggerire almeno la configurazione di un nuovo paesaggio: una realtà politico-urbanistica che di
fatto ha operato finora unicamente per assecondare,
attraverso i piani regolatori, le spinte edificatorie in
corso. Il paesaggio costruito si presenta con una povertà disarmante, senza alcuna attenzione per promuovere una migliore qualità di vita o valorizzare le
eccellenze paesaggistiche e architettoniche abbondantemente presenti fra monti e laghi. È un panorama
degno delle peggiori periferie urbane, uno specchio
impietoso di una società che ha smarrito i principi e i
valori del vivere comune».
Le latitanze, le assenze
Il cerchio allora si chiude: la committenza, interessata
solo all’architettura in quanto merce da vendere, si
salda con la pianificazione, passiva nell’assecondare
(o subire) gli interessi del mercato. Raramente capace di «rovesciare il tavolo» per esprimere proprie idee
progettuali, mai una collina che venga «dezonata» o
un quartiere protetto, mai il disegno di spazi per la
città o per la periferia, per nuovi quartieri o per i fondovalle, mai in grado di valorizzare le qualità presenti
e tantomeno di crearne delle nuove. Certo, una simile
pianificazione non è per nulla sostenuta dai politici
perchè tocca troppi interessi. Certo, responsabili
sono gli Enti pubblici – il Cantone, i Comuni – la cui
assenza nel promuovere e nell’essere attivi nella progettazione del territorio li caccia nella rassegnazione
di chi è stretto nell’angolo e ridotto a gestire quello
che c’è. Certo, responsabili sono anche gli architetti
stessi, con la loro latitanza e i loro silenzi, con il loro
sottrarsi a ogni tipo di impegno verso la collettività, e
che facilmente si può intendere per complicità. Né
si può pretendere, a questo punto, che l’opinione pubblica faccia distinzione tra cattiva e buona architettura, tra architetto e pianificatore (che generalmente
architetto non lo è nemmeno). E di generalizzazione
in generalizzazione tutti gli architetti vanno a finire
dentro il calderone dei «cementificatori», tutti colpevoli della distruzione del paesaggio. Sopra questa densa foschia di negatività galleggiano solo i difensori
dello statu quo, i nostalgici dei bei tempi che furono,
di un passato ritenuto migliore del presente, mentre
in parallelo gli architetti passo dopo passo hanno gradatamente perso – verso l’opinione pubblica, verso i
politici – il loro potere culturale, la possibilità di persuadere, di costituire un punto di riferimento. Mi domando: se per l’imprenditore, per il committente, affidare a uno scribacchino o a un architetto il progetto
del proprio investimento non fa nessuna differenza, la
causa non è anche nella perdita di prestigio della figura dell’architetto?
Felix Wettestein
E allora? Allora riporto il mail che mi ha inviato Felix
Wettstein a commento del mio Chi ha nascosto i giovani
architetti? Mi scrive: «Penso che la generazione sotto i
40 anni sia inesistente, e quella fra 40 e 60 fa tantissi-
25
D I A R I O D E L L’ A R C H I T E T T O T I
La collocazione del Pian Povrò nel tessuto urbano del luganese. Fonte mappa catastale Sitmap.ch
ma fatica. Il mercato immobiliare ticinese non esclude
solamente i giovani, ma gli architetti, anzi l’architettura come disciplina in generale ... Nella Svizzera tedesca è successa una cosa interessante. Alcuni investitori
hanno capito che la qualità architettonica ha un valore economico, è un “Mehrwert” come si dice in tedesco. Non mi faccio tante illusioni, ma questa dovrebbe
essere la ragione principale per investire nell’architettura. Lo conferma – ed è importante non dimenticarlo – la presenza delle “Genossenschaften” e il loro merito nel costruire interi quartieri, con il risultato che è
proprio l’architettura residenziale lo strumento principale per costruire la città. Evidentemente c’è una politica che sa negoziare e vendere meglio gli interessi della collettività, del territorio e del paesaggio».
Questo breve scritto di Wettstein è importante. Perché spazza via d’un sol colpo le lamentele, i pianti, gli
appelli, i «Locarno brutta» e altre simili fuorvianti
iniziative, per capovolgere invece il discorso, per essere non contro ma a favore, non passivo ma attivo, per
proporre e prospettare qualcosa di positivo. Il tema
ovviamente non riguarda più solo i «giovani architetti», ma coinvolge l’intera professione. E le sue responsabilità. Se altrove «... c’è una politica che sa negoziare e vendere meglio gli interessi della collettività, del
territorio e del paesaggio» mentre al contrario qui la
politica non lo sa fare, allora tocca agli architetti stessi, con le loro competenze e la loro professionalità,
farsi avanti. Significa impegnarsi e andare dai politici, dai committenti, verso l’opinione pubblica con argomenti e esempi e proposte, idee e modelli cui gli
altri possano riferirsi. Per non lasciarli soli, per aiutare il politico, il committente, il cittadino. Basta denunce, occorrono proposte.
Occorre che l’architetto si metta a disposizione della
collettività: per aiutare chi non ha le sue competenze
e per recuperare quel riconoscimento che ha perso.
Tocca insomma all’otia e alla sia e alla fas – e ai
singoli – organizzare degli incontri, promuovere delle conferenze, allestire delle esposizioni, coordinare
dei dibattiti, tutte iniziative rivolte ai politici, agli investitori, agli economisti, alla popolazione. Eventi organizzati non solo come finora all’Accademia di
Mendrisio o alla supsi di Trevano, ma soprattutto nelle città e nei villaggi, nei quartieri, nei partiti, alla Catef, così come a chi organizza corsi come l’Atte, la Migros, la Coop, o ancora il Lyons o il Rotary. Come del
resto aveva ben capito Tita Carloni, certo aiutato dalla sua intelligenza e competenza, che proprio in quei
luoghi si recava verso sera a spiegare e raccontare
cose di storia, di paesaggio, di architettura, un lavoro
incredibile cui la collettività gli è debitrice.
Due esempi: Swatch e Pian Povrò
Certo, dopo anni di assenze, ci vuole tempo per guadagnare in credibilità e poter convincere. Ma bisogna incominciare. Le occasioni purtroppo non mancano: due esempi concreti. Primo, anziché protestare,
andare presso il Cantone per spiegare a consiglieri e
funzionari quale ruolo avrebbe potuto svolgere l’Ente pubblico nel caso dell’edificio che la Swatch vuole
costruire a Genestrerio, 11’000 mq per 13 metri di altezza e 250 posteggi (se sono ben informato). Wettstein lo spiega bene: invece di assistere passivamente
al progetto per poi cercare con fatica di correggerlo e
gestire i vari ricorsi di privati e associazioni, il Cantone avrebbe potuto e dovuto essere un attore a fianco
della Swatch, aiutando nel cercare il terreno più adeguato, la scelta più corretta per traffico e paesaggio,
offrendo anche vantaggi – che so, fiscali o sullo sfrut-
26
D I A R I O D E L L’ A R C H I T E T T O T I
La precisa configurazione del Pian Povrò tra il net to limite dell’edificato di Massagno e le strade circostanti.
Fonte or tofoto Sitmap.ch
Pian Povrò e il Piano delle Zone previsto
a Piano Regolatore (disegno indicativo)
tamento – con l’obbligo però della qualità paesaggistica e architettonica del progetto tramite la procedura
di un concorso. Condizione quest’ultima ormai usuale in altre città svizzere.
Il secondo esempio riguarda la città di Lugano. Il
Pian Povrò è uno dei luoghi più incredibili di Lugano, una vasta area verde dentro la città ai margini di
Massagno, con al centro una fattoria e tutt’attorno le
mucche al pascolo. Incredibile. Ebbene, quest’area
che o dovrebbe rimanere verde e diventare un parco
urbano, oppure essere costruita ma per una destinazione straordinaria e di valore per l’intera collettività,
sta per essere distrutta. Andate a vedere le modine:
fetta dopo fetta sarà costruita – senza alcun progetto
complessivo – da singoli promotori, il primo dei quali
è la Croce Verde. Pian Povrò è un esempio vergognoso di «mala pianificazione». E allora vadano la sia,
l’otia e la fas – vadano gli architetti insomma – in
quel di Lugano non a denunciare e protestare, ma a
spiegare cosa e come occorrerebbe fare, quali sono le
differenze tra il lasciare in mano ai privati quest’area
privilegiata e l’organizzare invece un concorso per disegnare un progetto spaziale nell’interesse della collettività, e anche dei privati. Per spiegare quali sono le
differenze tra una pianificazione retta dall’assurdo
delle norme e dello Zonenplan e una progettazione
del paesaggio, del territorio, dell’architettura.
27
NOTIZIE TI
Martin Boesch
traduzione Anna Ruchat
Winfried Brenne –
vincitore del Premio
Heinrich Tessenow 2014
Winfried Brenne, nato nel 1942, studia architettura a
Wuppertal e Berlino. Collabora con Helge Pitz nell’ambito dell’atelier di architettura Pitz-Brenne dal 1978
al 1990, quando apre un proprio studio di architettura che opera principalmente nel campo del riuso e
restauro di edifici, perizie per singoli edifici o aree
sottoposte ai vincoli dei beni culturali, sviluppo di
strategie per la riconversione di aree dismesse con
un’attenzione specifica all’esistente, edilizia abitativa,
bioedilizia. Dal 1990 al 1992 insegna alla Technische
Fachhochschule Berlin, dal 1996 al 1999 è membro
del consiglio per i beni culturali del Land Berlino, dal
1995 al 1999 è membro del consiglio per il restauro
del Bauhaus di Dessau, dal 2000 al 2002 è presidente
della Fondazione per la tutela dei monumenti storici
di Berlino. Dal 1993 è membro di Docomomo Germania, dal 2000 membro del comitato nazionale di
Icomos Germania e dal 2006 membro dell’Akademie
der Künste di Berlino. Winfried Brenne è architettoingegnere diplomato e membro del Bund Deutscher
Architekten (bda) e del Deutscher Werkbund (dwb).
Da sempre, l’uso intelligente delle risorse è parte integrante della pratica architettonica e veniva praticato
già molto prima che si sviluppasse la categoria professionale che conosciamo oggi. Pur riconoscendo tutto
l’esistente come patrimonio culturale, sono infine le
valutazioni che concorrono a formare il nostro punto
di vista. Tali valutazioni sono condizionate dal periodo storico in cui viviamo. L’Anno Europeo del Patrimonio architettonico del 1975, con il motto «Un futuro
per il nostro passato», ha favorito quella divulgazione
dei temi connessi alla tutela dei beni culturali che si
era resa necessaria dopo le profonde trasformazioni
dovute al miracolo economico, ottenendo anche un
certo riscontro, cosa che a posteriori può sembrare
sorprendente. Si sono poi aggiunti anche riconoscimento e promozione a livello politico e parlamentare.
La società fu sensibilizzata, non da ultimo, per la salvaguardia di monumenti sconosciuti, ancora da scoprire.
In questo contesto Winfried Brenne, insieme al suo
collega di allora Helge Pitz, ha svolto un lavoro pioneristico. Per fare un esempio concreto: nel 1977 i due
architetti scoprono e apprezzano, per esperienza personale, le peculiarità di un appartamento all’interno
della Waldsiedlung a Berlino Zehlendorf, un’opera di
Bruno Taut conosciuta come «Capanna dello zio
Tom»; di qui nacque la decisione di prendersi cura
della conservazione di queste case che li portò infine,
dopo un periodo di intenso lavoro di ricerca svolto
privatamente, indagini sul colore e analisi – si potrebbe quasi parlare di una seconda laurea in storia delle
Bruno Taut, Heinrich Tessenow 1913-1915, Cit tà giardino
di Falkenberg, Berlino Treptow-Köpenick
costruzioni – a stilare un rapporto sulle misure da rispettare nella tutela delle case.
Gli architetti pretesero allora che l’intero quartiere fosse dichiarato monumento storico e che fosse conservato con i suoi valori originali. Questo fu un vero e
proprio manifesto. Più di trent’anni dopo, ben sei
Siedlungen degli anni Venti a Berlino sono state dichiarate Patrimonio Mondiale dell’unesco. Un risultato raggiunto grazie allo spirito d’iniziativa, alla capacità di persuasione, a una competenza professionale
sempre più qualificata e al riconoscimento ottenuto da
un lato e dall’altro lato grazie alle autorità del Dipartimento dei beni culturali, ai proprietari e ai committenti sempre più preparati.
Winfried Brenne riassume il suo operato in due frasi:
«A nostro avviso Bruno Taut, con le sue Siedlungen,
ha plasmato il volto della città. Volevamo che la città
non perdesse questo volto.» Oggi l’opera riscoperta
di Bruno Taut è ben documentata e presente in numerose pubblicazioni. Questo genere di lavoro architettonico è ben lontano dall’attività tradizionale
dell’architetto impegnato nelle nuove costruzioni: la
volontà di addentrarsi in ciò che un altro ha pensato,
e di valorizzarlo, si antepone al gesto creativo. La condizione è possedere quella che con una parola anacronistica viene definita «umiltà». L’architetto viene
comunque risarcito con momenti speciali in cui la
luminosità originaria del progetto riemerge, a volte
intensa, altre pacata e quasi accidentale.
Il lavoro richiede metodi e tecniche diversi, e di
conseguenza tra i 25 collaboratori che formano lo
studio si contano anche specialisti in storia delle co-
29
NOTIZIE TI
struzioni, storici dell’arte, esperti della tutela dei monumenti e restauratori.
Ecco una selezione di alcuni progetti esemplari
nell’ambito degli edifici storici eseguiti dallo studio
di architettura Winfried Brenne Architekten.
Rispristino e restauro dei grandi insediamenti berlinesi tutelati e dichiarati Patrimonio Mondiale
dell’unesco (Hufeisensiedlung, Großsiedlung Britz,
Siemensstadt, Weiße Stadt, Gartenstadt Falkenberg,
Siedlung am Schillerpark, Wohnsiedlung Carl Legien); ex-scuola statale dell’adgb a Bernau, degli architetti Hannes Meyer e Hans Wittwer (Premio di architettura dell’ordine professionale degli architetti di
Brandeburgo 2007 e First World Monument Fund /
Knoll Modernism-prize 2008); Villa Urbig di Mies van
der Rohe a Berlino; Meisterhaus Muche-Schlemmer
di Walter Gropius a Dessau (Patrimonio Mondiale
dell’unesco); abitazione di Bruno Taut a Dahlewitz;
riqualificazione energetica del Bauhaus a Dessau; restauro e ammodernamento dell’Akademie der Künste di Berlino; ripristino e riqualificazione energetica
degli edifici di Hans Hoffmann della Siedlung am
Schillerpark a Berlino. Musei: Deutsches Historisches
Museum a Berlino, Castello di Berlin-Charlottenburg,
Castello di caccia a Grunewald, Castello Schönhausen a Berlino-Pankow, Museo Kaiser-Wilhelm a Krefeld. Mostre itineranti: Siedlungen der 20er Jahre – Heute, Farbe in der Stadt e Bruno Taut – Meister des farbigen
Bauens. Oltre a numerose pubblicazioni.
Winfried Brenne riceve il Premio Heinrich Tessenow
per il suo impegno appassionato nella salvaguardia e
conservazione dei monumenti storici.
Walter Gropius, Meisterhaus Muche-Schlemmer
1926-1927 e 1926-1929 Dessau
Il premio Heinrich Tessenow
Il premio Heinrich Tessenow viene at tribuito, in onore al grande
architet to e professore universitario, a personalità europee
che hanno dato un contributo eccellente nell’ambito del
pr o c es so di ide a zione di f orme ar chite t toniche, ar tigianali
e industriali e nell’educazione alla cultura abitativa e architettonica, o la cui opera s’ispira alla complessa at tività
di Heinrich Tessenow. Meritevoli del premio Heinrich Tessenow
sono stati, tra gli altri, in passato: Kay Fisker, Hans Döllgast,
Giorgio Grassi, David Chipper field, Eduardo Souto de Moura,
Mirosloav Sìk, Sergison Bates, Richard Sennet t e Roger Diener.
Il premio viene assegnato dalla società Heinrich Tessenow.
Hannes Meyer Hans Wit twer,
palestra della scuola della
Conferderazione tedesca
dei sindacati operai 1928-1930
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foto Zoe Moro
Galleria Ghisla
Art Collection
La conversione dell’edificio degli anni ‘40 in galleria
d’arte ha determinato la chiusura di tutte le finestre e
il rivestimento continuo delle facciate con un involucro isolante ventilato.
All’interno una parete leggera lungo tutto il perimetro costituisce il supporto espositivo creando un’intercapedine per l’impiantistica e per l’integrazione degli apparecchi di convenzione climatica che,
alimentati dalla termopompa posta nel sottotetto, assicurano temperatura e umidità costante. L’eliminazione delle pareti interne non portanti ha consentito
di ottenere tre grandi spazi espositivi a ogni piano.
Nel nucleo dei servizi esistenti è stato inserito un
ascensore che con la rampa d’accesso assicura la fruizione per i disabili e il trasporto delle opere.
La chiusura totale verso l’esterno ha determinato la
concezione architettonica del prisma essenziale, ritrovato con l’eliminazione della gronda e l’integrazione del tetto a falde. Conseguentemente la nuova
pelle, costituita dallo strato isolante nero con la sovrapposizione della maglia d’alluminio rossa con tessitura irregolare, produce un effetto cromatico che
evolve secondo l’inclinazione solare. Il prisma rosso
nel gioco cangiante della luce assume un’inconsistenza eterea, fluttuante sul canale d’acqua che lo circoscrive richiamando la natura lacustre del luogo.
L’unica apertura esterna costituisce l’ingresso raggiungibile con il ponte grigliato che dalla panchina
lungo il marciapiede attraversa il canale per immettersi nell’imbuto nero.
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Committente Pierino Ghisla, Fondazione Ghisla Art Collection; Minusio | Architettura Moro & Moro; Locarno | Collaboratori F. Turuani, F. Albi | Ingegneria civile Geocasa SA ; Muralto | Ingegneria RSV
Gilardi Sandro SA ; Giubiasco | Protezione antincendio AGS di Antonio Scheu; Locarno | Fisica della costruzione Eco Control; Locarno |
Geologia Ammann Paolo SA ; Losone | Ingegneria elettrotecnica
Mondini SA Elettrigilà; Tegna | Videosorveglianza antintrusione e
antincendio Siemens Svizzera SA ; Camorino | Date progetto 2011,
realizzazione 2014
32
PROGETTI TI
33
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Sezione trasversale
Sezione longitudinale
Pianta piano terra
Pianta piani superiori
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Studio d’architettura
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Residenza ai Faggi
a Lugano-Pazzallo
Lo stabile Residenza ai Faggi, situato nella parte nord
occidentale di Lugano, è stato sviluppato come gli altri edifici presenti seguendo il piano di quartiere del
1962 denominato «La Sguancia». Progettato dall’architetto Bruno Bossi, è l’unico esempio di un intero
quartiere concepito con un pensiero unitario.
Questo piano prevedeva la realizzazione di quattro
torri residenziali con differenti tipologie di appartamenti, altre unità abitative di diverse altezze, case
unifamiliari a schiera, un asilo nido, una scuola elementare e un centro commerciale.
L’attuale fortuna di quest’aerea è data dal fatto che il
piano di quartiere dell’architetto Bruno Bossi è stato
integrato nel piano regolatore di Pazzallo, sopravvivendo a tutte le varie revisioni, e successivamente ripreso, dopo la fusione di Pazzallo con Lugano, nel
piano regolatore attualmente in vigore.
È stata quindi rispettata una pianificazione preordinata in termini di proporzioni tra il costruito e gli
spazi verdi, ponendosi in termini molto precisi rispetto alla città e costituendo una valida alternativa di sviluppo residenziale. Nel piano di quartiere gli edifici a
torre presenti, adibiti a residenze, coprono una minima percentuale di sfruttamento del suolo senza diminuire però la densità degli abitanti, lasciando così
spazio ai servizi primari indispensabili della comunità residente. Queste costruzioni, insieme alla forte
presenza di superficie verde, formano un unicum
morfologico ininterrotto entro cui trovano spazio le
diverse architetture.
Accanto al sito di progetto è già presente una costruzione definita dal piano regolatore che sarebbe andata a formare un tutt’uno con il nuovo inserimento.
Questo edificio preesistente era inizialmente adibito
a centro commerciale, scuola d’infanzia e scuola elementare, ma a oggi è utilizzato come sede universitaria. Con questa prima costruzione è stata anche realizzata la parete ancorata contro la quale si appoggia
il nostro progetto.
Il nuovo inserimento, che si sviluppa su sei piani, presenta una pianta rettangolare le cui dimensioni raggiungono una misura massima di 67.35 m in lunghezza e di 15.25 m in larghezza, per un’altezza totale di
22.50 m. Sfruttando il forte dislivello l’edificio é accessibile sia dal pianterreno che dal 3° piano, offrendo un
totale di 54 posti auto, di cui 40 coperti. Al suo interno
i piani dello stabile sono serviti da due core simmetrici.
Esternamente si può notare come la costruzione si
scomponga in tre volumi. Il primo di questi volumi
riguarda i primi due piani, adibiti ad uffici, che hanno una superficie di circa 660 mq ciascuno. Il secon-
do volume corrisponde al terzo piano che è completamente vetrato e arretrato sui quattro lati rispetto al
volume sottostante. Data la sua posizione a contatto
con la strada superiore, si può considerare come un
secondo piano terreno, difatti è stato progettato per
accogliere delle funzioni più pubbliche.
Il terzo volume è dato dagli ultimi due piani, il quarto
e il quinto, che ospitano sedici appartamenti, i quali
hanno metrature che variano tra i 2.5 locali e i 4.5
locali. Quest’ultima tipologia trova spazio al centro e
nelle testate dell’edificio godendo da una parte della
vista lago, dall’altra di quella sul bosco.
Esternamente le facciate sono caratterizzate da pannelli termo laccati in lamiera di diverse dimensioni in
rapporto aureo fra loro. Diverse gradazioni di verde e
di rosso avvolgono l’intero edificio; Il primo volume
che ospita gli uffici, è rivestito con pannelli di quattro
gradazioni di rosso; il terzo volume, dedicato alle unità abitative, è invece rivestito con pannelli di quattro
gradazioni di verde, sottolineando cosi la diversa finalità d’uso. Secondo una regola precisa una minima
percentuale di pannelli verdi migrano nel rosso e viceversa dei pannelli rossi verso il verde. Il terzo piano,
completamente vetrato, contribuisce a enfatizzare
questa divisione tra i volumi.
38
PROGETTI TI
RESIDENZA AI FAGGI, VIA AI FAGGI 6, LUGANO-PAZZALLO
Disposizione pannelli
Verde
NCS S 3560 - G50Y
Committente Saunion SA ; Lugano | Architettura Studio d’architettura Mischa Groh; Melide | Elenco dei collaboratori M.Massascusa,
S. Gottardi, M. Marino, L. Pozzi | Direzione Lavori Direzione Lavori
SA ; Lugano | Ingegnere civile Pini swiss engineers; Lugano | Ingegnere elettrotecnico Elettroconsulenze Solcà SA ; Mendrisio | Ingegnere termosanitario VRT SA ; Taverne | Fotografia Simone Mengani;
Besazio | Date progetto 2010, realizzazione 2012-2014
NCS S 5040 - G10Y
NCS S 5030 - G30Y
NCS S 5540 - G10Y
Rosso
NCS S 1080 - Y60R
NCS S 2570 - Y90R
695
1.39
695 26 435
695
NCS S 1085 - Y80R
NCS S 1080 - R
15
15
70
72
26
72
72
26
72
43
15 695 15
695
15
43
2.29
72
72
4
S 1080 - Y60R
S 5040 - G10Y
2.56
S 5030 - G30Y
S 3560 - G50Y
43
3.71
S 5540 - G10Y
S 5040 - G10Y
S 2570 - Y90R
15 695 1
43
15 695 15
695
15
47
1.18
S 5040 - G10Y
695
15
26 43
S 2570 - Y90R
15
72
72
S 3560 - G50Y
695
43
1.18
S 5030 - G30Y
72
15
74
S 5040 - G10Y
72
43
3.865
S 1085 - Y80R
43
72
3.865
S 3560 - G50Y
72
15
15 26 425
1.405
S 5030 - G30Y
695
S 3560 - G50Y
S 5040 - G10Y
S 1085 - Y80R
S 5540 - G10Y
695
72
72
S 5030 - G30Y
15
1.185
26
26
S 1080 - Y60R
475
72
72
S 5540 - G10Y
43
S 1080 - R
15
S 5040 - G10Y
695
2.29
3.43
S 3560 - G50Y
15 695 15
S 5030 - G30Y
3.43
43
S 5540 - G10Y
72
72
S 5040 - G10Y
15 695 15 425
2.02
43
S 5030 - G30Y
S 5040 - G10Y
71
1.435
S 5030 - G30Y
15
S 2570 - Y90R
15
43
72
S 2570 - Y90R
S 5540 - G10Y
71
72
S 3560 - G50Y
695
S 5540 - G10Y
15
S 1080 - Y60R
43
1.685
S 3560 - G50Y
53 15
Schema della sequenza e della disposizione dei pannelli.
Det taglio della facciata con la composizione cromatica
39
PROGETTI TI
Pianta piano tet to
Pianta quinto piano
Pianta quar to piano
Pianta terzo piano
Pianta primo piano
40
PROGETTI TI
Sezione trasversale (verso nord)
Sezione longitudinale
Pianta piano terra
41
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Tita Carloni
Pathopolis – riflessioni critiche di
un architetto sulla città e il territorio
Casagrande, Bellinzona 2011, (ISBN
978-88-7713-601-5, bross., 11.5 x 19
cm, testo e dis b/n, pp. 194, ita.)
Il volume è la raccolta di 49 brevi saggi
che sono stati pubblicati tra il 1999 e il
2009 sul settimanale «Area», stampato a Lugano. Nella prefazione l’autore
ricorda l’importanza degli scritti di Lewis
Mumford dal quale ha ricavato parte
del titolo, per Mumford «… Pathpololis,
significa città malata, … per indicare
l’ultima fase prima della necropolis, la
morte della città – quella tradizionale,
s’intende» (p. 11). Si tratta di testi brevi,
dal tema libero e della lunghezza massima di 3-4000 battute, che – prendendo spunto da fatti concreti – danno la
possibiltà a Carloni di esporre le sue
riflessioni a volte proposte anche sotto
forma di racconto aneddotico. Tita
Carloni è stato uno dei più influenti
architetti ticinesi della sua generazione. Il libro propone le sue osservazioni
sul territorio e sulla «città malata»
della quale mette in risalto le incongruenze da una prospettiva ispirata
alla conservazione della natura e all’attenzione per le testimonianze del passato. I testi sono agili e spaziano tra i
temi più diversi: Fatti più in là, casa,
sullo spostamento di quindici metri
della villa a Caslano progettata da
Franco Ponti; Caro Peter Zumthor, lettera con riflessioni critiche su alcuni
lavori di diploma dell’Accademia di
architettura; «Lo scrigno e il mostro»,
testo sul parco della gole della Breggia
e contro il Cementificio SACEBA, Pomaterchrut a Campo Vallemaggia, in difesa
del progetto di Roberto Briccola; E tu
cosa ne pensi della Scala?, sul lavoro di
ampliamento della Scala firmato da
Mario Botta; un testo è dedicato ai
camosci del Monte Generoso, un altro
è l’omaggio alla Chiasso del passato.
Stefano Milan,
Graziella Zannone (a cura di)
Moro & Moro 1970-2014 –
opere e progetti
Tarmac Publishing Mendriso 2014 (ISBN
88-900700-8-0, bross., 21.8 x 27.3 cm,
ill. foto e fig. b/n e col., pp. 392, ita. , eng.)
Daniela Mondini,
Vladimir Ivanovici (a cura di)
Manipolare la luce in epoca
premoderna – Manipulating Light
in Premodern Times
Mendrisio Academy Press – SilvanaEditoriale, Mendrisio 2014 (ISBN 97888-3662-721-9 , bross., 24.3 x 19.5
Il libro è la monografia dello studio di cm, ill. foto e fig. b/n e col., pp. 330 /
architettura di Paolo & Franco Moro pp. 277, ita., eng., fra., deu.)
(1945-2008) che hanno iniziato la loro
attività professionale a Locarno. Pubblica una selezione dell’importante e I due libri – pubblicati da ISA Istituto di
cospicua produzione dello studio nel storia e teoria dell’arte e dell’architetcoso di 44 anni di attività professionale tura nella collana diretta da C. Frank,
(8 progetti, 55 realizzazioni, 13 concor- S. Hildebrand e D. Mondini – prendono
si non realizzati). Il volume si apre con origine dal SNSF-International Explorquattro saggi: Martin Steinmann Tipo- atory Workshop Manipolare la luce in
logia e forma, che approfondisce il lavo- epoca premoderna. Aspetti architettoro dello studio sulle numerose case nici, artistici e filosofici / Manipulating
realizzate e sui risultati della ricerca Light in Premodern Times. Architectural,
tipologico-morfologica; Roberto Ma- Artistic and Philosophical aspects
siero Elogio del mestiere, articolato (Mendrisio 3-4 novembre 2011) e dal
saggio sull’architettura ticinese e sul Convegno «Le jeu savant» Luce e
lavoro dello studio Moro & Moro; Alber- oscurità nell’architettura del XX seto Caruso La discontinuità del Lido di colo (Mendrisio 24-25 ottobre 2014)
Locarno, testo che analizza la loro realizzati nell’ambito del progetto di
produzione architettonica con partico- ricerca Da Ravenna a Vals. Luce e osculare attenzione ai progetti di grande rità in architettura dal Medioevo al
scala; Graziella Zannone Da una con- presente.
versazione con Franco, che chiarisce I due volumi raccolgono contributi
alcune delle modalità di collaborazione dedicati al tema della luce in due peprofessionale dei fratelli Moro. L’accu- riodizzazioni distinte: la Premodernità
rato volume illustra l’opera che – in un (vol. 1) e il XX secolo (vol. 2). Il primo voparallelismo tra architettura e lettara- lume pubblica 18 contributi suddivisi
tura – Masiero definisce come … una in quattro sezioni: 1) Economia della
ricerca attorno al mondo della prosa che, luce nelle chiese paleocristiane e bia differenza della poesia non si sotto- zantine, 2) Modulare l’oscurità: stratemette a regole prefissate …, ed è invece gie dell’illuminazione nell’architettura
attenta a alle concrete necessità mate- cristiana occidentale, 3) Discorsi relariali dell’esistenza quotidiana e agli aspet- tivi alla luce, lo splendore e l’oscurità
ti immediati positivi, pratici e utilitari delle nell’arte e nella letteratura, 4) Luce su
cose (p. 42). I progetti sono illlustrati con superfici trasparenti, opache e rifletnumerosi schizzi originali che sono tenti. Il secondo volume pubblica 20
stati messi a punto nel corso dell’ela- contributi suddivisi in quattro sezioni:
borazione progettuale o come strumen- 1) Rappresentare la luce e i suoi effetti,
to per la presentazione del progetto al 2) Esposizione e orientamento, 3) Dicommittente. Da sottolineare la grande spositivi per la regia della luce naturale,
cura nel trattamento del materiale 4) Illuminazione artificiale.
grafico (sia disegni che fotografie).
Silvia Berselli, Matthias Brunner,
Daniela Mondinini (a cura di)
«Le jeu savant» - Luce e oscurità
nell’architettura del XX secolo –
Light and Darkness in 20th Century
Architecture
Mendrisio Academy Press – SilvanaEditoriale, Mendrisio 2014 (ISBN 978-883662-981-7, bross., 24.3 x 19.5 cm, ill.
foto e fig. b/n e col., pp. 330 / pp. 277,
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archi RIVISTA SVIZZERA DI ARCHITETTURA, INGEGNERIA E URBANISTICA
fondata nel 1998, esce sei volte all’anno. ISSN 1422-5417 | tiratura
REMP dif fusa: 2681 copie, di cui 2662 vendute | via Cantonale 15, 6900
Lugano – tel. 091 921 44 55, [email protected] – www.espazium.ch
DIRETTORE
Alberto Caruso AC
COORDINAMENTO EDITORIALE
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ASSISTENTI AL COORDINAMENTO
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REDAZIONE
Marco Bettelini MB | Debora Bonanomi DB | Andrea Casiraghi AnC | Laura
Ceriolo LC | Piero Conconi PC | Gabriele Neri GN | Andrea Pedrazzini
AP | Andrea Roscet ti AR | Enrico Sassi ES | Stefano Tibiletti ST | Graziella
Zannone Milan GZM
REDAZIONE COMUNICATI SIA
Frank Jäger, frank.jä[email protected]
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Andrea Bassi, Ginevra | Francesco Collotti, Milano | Jacques Gubler,
Basilea | Ruggero Tropeano, Zurigo | Daniel Walser, Coira
TRADUZIONI ITALIANO-TEDESCO
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CORREZIONE BOZZE
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CONSIGLIO EDITORIALE
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Nicola Soldini, storico dell’architettura, Novazzano
EDITORE
Verlags-AG der akademischen technischen Vereine | Staffelstrasse 12,
8045 Zurigo – tel. 044 380 21 55, fax 044 380 21 57 | Walter Joos presidente | Katharina Schober, direttrice | Hedi Knöpfel, assistente
ABBONAMENTI E ARRETRATI
Stämpfli Publikationen AG, Berna – tel. 031 300 62 57, fax 031 300 63 90,
e-mail: [email protected] | Abbonamento annuale (6 numeri) Svizzera Fr. 135.– / Estero Fr. 140.–, Euro 119.50, Studenti Svizzera
Fr. 67.50 / Numeri singoli 24.– | Abbonamenti soci SIA: SIA, Zurigo – tel.
044 283 15 15, fax 044 283 15 16, e-mail: ret [email protected]
ORGANO UFFICIALE
SIA Società svizzera ingegneri e architetti, www.sia.ch
OTIA Ordine ticinese ingegneri e architetti, www.otia.ch
ASSOCIAZIONI GARANTI
SIA Società svizzera ingegneri e architetti, www.sia.ch | FAS Federazione architetti svizzeri, www.architekten-bsa.ch | USIC Unione svizzera
ingegneri consulenti, www.usic-engineers.ch | A3 Associazione diplomati
dell’EPFL, http://a3.epfl.ch | ETH Alumni Ex allievi dell’ETH, www.alumni.ethz.ch
STAMPA E RILEGATURA
Stämpfli Publikationen AG, Berna
PUBBLICITÀ
Kömedia AG, CP 1162, CH-9001 San Gallo – tel. 071 226 92 92, fa x 071
226 92 93, e-mail: [email protected], w w w.kömedia.ch
La riproduzione, anche parziale, di immagini e testi, è possibile solo con
l’autorizzazione scritta dell’editore e con la citazione della fonte.
Nel prossimo numero
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EDITORIA LE TITA CARLONI
Alberto Caruso
Architettura e politica
Dappertutto enormi schegge, punte aguzze, piani inclinati, superfici sghembe…
Ora le proposte e il consumo di forme sono diventati enormi, frastornanti e disorientanti,
quasi ci trovassimo in un grande supermercato dell’architettura, dove colori, luccicori,
barbagli ci avvolgono da ogni parte senza remissione.
Tita Carloni, 2004
Alle frasi sopra richiamate, che scrisse a proposito
delle opere esposte alla Biennale veneziana del 2004,
Tita Carloni aggiungeva che quelle architetture così
di moda non erano in generale durature, che sarebbero sopravissute al tempo solo con «una manutenzione continua, con apporti di energia straordinari,
con strutture e impianti che devono essere sorvegliati
in permanenza, anche con apparecchiature automatiche, pena il sopraggiungere lento o improvviso di
guasti costosi…».
Alla rilettura di queste riflessioni, non ho potuto fare a
meno di pensare all’immagine, pubblicata sulla copertina dell’ultimo numero di «Tracés», del dito medio alzato da Frank Gehry durante un recente dibattito, come risposta a un interlocutore critico che gli
chiedeva conto della sostanza spettacolare della sua
architettura. La relazione tra lo scritto di Carloni e
quell’immagine non deriva solo e tanto dal fatto che
Carloni si riferiva proprio alle opere di architetti come
Gehry, quanto a considerazioni sulla radicale, opposta
diversità dello stile degli uomini, della loro etica, del
loro concetto di relazione tra il mestiere e la società.
Per capire dove vorrei portare l’attenzione del lettore,
lo invito – se ancora non lo ha fatto – a leggere, a pagina 25, il Diario dell’architetto di Paolo Fumagalli, un
testo che voglio considerare a tutti gli effetti come
parte integrante del tema di questo numero di Archi
dedicato a Tita Carloni, e cioè della questione della
relazione tra architettura e politica. Il tema, in generale, è tra i più complessi e importanti, ma quello che
ci interessa qui e oggi è l’urgenza di recuperare a un
impegno pubblico di esercizio della critica gli architetti e gli ingegneri, di portarli fuori dai loro studi e
dai loro cantieri.
Il modello di sviluppo edilizio dominante, che sotto
gli occhi di tutti sta sconvolgendo la geografia e il paesaggio dei fondovalle ticinesi, disseminandoli di edifici senza un progetto, viene difeso da coloro che ne
traggono profitto e che contano sulla solidarietà di
altri – ancora moltissimi, una maggioranza – che per
ignoranza si sono fatti irretire dall’attesa illusoria di
partecipare in qualche modo delle briciole di quel
profitto o che utilizzano i vantaggi, anch’essi illusori,
di quel modo di abitare a spese della collettività, che
regge questo modello pagando costi molto alti. Ci
sono, tra questi ultimi, tanti esponenti delle generazioni più giovani, che rifiutano di abitare in città, o
comunque in condizioni di densità più elevata, perché nessuno gli ha ancora dimostrato che sono possibili modi di abitare alternativi alla casetta isolata,
modi che consentano di soddisfare la domanda di
privatezza, di relazione con il verde, di distribuzione
innovativa e di costi inferiori. E che non sono veramente consapevoli delle spreco di risorse che lo sviluppo diffuso comporta, risorse sottratte agli impieghi sociali e culturali, a favore di tutti.
Chi può partecipare con qualche efficacia a questa
battaglia pubblica squisitamente culturale, per spostare il consenso da un campo all’altro, se non gli architetti e gli ingegneri, con la loro ricerca, i loro progetti, e con la loro colta partecipazione al confronto
pubblico su questi temi? Questa è la politica.
La storia di Tita Carloni è un esempio di questo impegno. Certo, Carloni, in una parte della sua vita, è
stato anche impegnato in politica in senso più completo e professionale, come membro di un partito e
come eletto nel Gran Consiglio, ma vogliamo qui riferirci alla sua attività di cittadino architetto, di architetto cioè sempre consapevole dell’effetto e delle conseguenze del suo lavoro sul territorio, e alla sua
intensa attività di partecipazione a ogni questione dibattuta, con gli scritti e con la parola.
La partecipazione alla vita politica – nel senso della
partecipazione civile, della cittadinanza attiva, di cui
abbiamo accennato – e l’esercizio della riflessione, la
produzione di un pensiero civile nel contesto del quale prende forma il progetto, conferisce significati e
qualità al medesimo progetto. L’esercizio della capacità di comprensione della realtà che il progetto va a
modificare è un plusvalore del processo progettuale.
La Casa del Popolo, realizzata da Tita Carloni in via
Balestra a Lugano nel 1970-1971, è un’opera la cui
straordinaria urbanità, alimentata dalla ricchezza di
riferimenti, non deriva soltanto dalla cultura architettonica dell’autore, ma anche dalla sua capacità – acquisita nella sua attività politica – di mettere in relazione attiva e creatrice l’esperienza del carattere della
città, di come si è formata, attraverso quali contraddizioni e conflitti, con la conoscenza e l’esercizio della
disciplina e della cultura della costruzione.
La redazione e l’editore ringraziano Marco Bettelini per i lunghi anni d’impegno redazionale e gli augurano buon lavoro.
47
EDITORIA LE TITA CARLONI
Alberto Caruso
Architektur und Politik
Überall gewaltige Splitter, scharfe Spitzen, schräge Flächen. […] Das heutige Angebot von
Formen ist riesig, betäubend und verwirrend, ebenso wie ihr Konsum, als würden wir uns in
einem grossen Architektur-Supermarkt befinden, wo wir von allen Seiten erbarmungslos
von Farben, Geglitzer und grellem Licht umgeben wären.
Tita Carloni, 2004
Den oben in Erinnerung gerufenen Sätzen, die Tita Carloni
mit Blick auf die an der Biennale von Venedig im Jahr 2004
ausgestellten Arbeiten niederschrieb, fügte er noch hinzu, diese derart modischen Bauformen im Allgemeinen seien nicht
von Dauer und würden die Zeit nur überdauern mit einer
kontinuierlichen Wartung, mit «einer aussergewöhnlichen
Energiezufuhr, mit Strukturen und Anlagen, die ständig
überwacht werden müssen und die selbst mit automatischen Vorrichtungen den langsamen oder plötzlichen Einbruch kostspieliger Ausfälle erleiden …».
Beim neuerlichen Lesen dieser Betrachtungen kam ich nicht
umhin, an den auf dem Cover der jüngsten Ausgabe von
TRACÉS abgebildeten gestreckten Mittelfinger von Frank
Gehry zu denken. Damit reagierte dieser kürzlich auf einer
Pressekonferenz auf die Aufforderung eines kritischen
Journalisten, der ihn aufgefordert hatte, Stellung zu nehmen zur Kritik an dem «reinen Show-Charakter» seiner
Bauwerke. Der Zusammenhang zwischen Carlonis Text und
diesem Bild ergibt sich nicht allein aus dem Umstand, dass
sich Carloni genau auf die Werke von Architekten wie Gehry
bezieht, sondern auch aus den Betrachtungen zur extremen,
gegensätzlichen Vielfalt im Stil dieser Leute, in ihrer Ethik,
in ihrem Konzept zur Beziehung zwischen dem Beruf und
der Gesellschaft.
Zu einem besseren Verständnis, worauf ich die Aufmerksamkeit des Lesers gern lenken würde, lade ich Sie ein – sofern
Sie es nicht schon getan haben –, den Text Diario dell’architetto von Paolo Fumagalli auf Seite 25 zu lesen. Für
mich ist dieser Essay in jeder Hinsicht fester Bestandteil des
Themas dieser Ausgabe von Archi, die Tita Carloni gewidmet ist – und damit der Frage nach dem Verhältnis zwischen
Architektur und Politik. Es ist generell eine der komplexesten
und bedeutendsten Fragestellungen. Was uns jedoch hier
und heute interessiert, ist die dringende Notwendigkeit, eine
Ausübung von Kritik als öffentliche Aufgabe gegenüber Architekten und Ingenieuren wiederzuerlangen und sie aus ihren
Studios und von ihren Baustellen wegzuholen.
Das vorherrschende Bebauungsmodell, das unter aller
Augen die Geografie und Landschaft der Tessiner Täler
verschandelt und planlos Bauwerke über sie verstreut, wird
von jenen verteidigt, die Profit daraus ziehen und die auf
die Unterstützung anderer zählen – noch immer sehr vieler,
einer Mehrheit –, die sich aus Unkenntnis von der illusorischen Erwartung haben umgarnen lassen, auf irgendeine
Weise ein paar Brosamen dieses Profits abzubekommen; und
auf Unterstützung von jenen, die die (ebenfalls illusorischen) Vorteile dieser Art auf Kosten der Gemeinschaft zu
leben nutzen, auf das sich dieses Modell zu einem sehr hohen
Preis stützt. Unter Letzteren sind viele Vertreter der jüngeren
Generation, die es ablehnen, in der Stadt bzw. unter den
Bedingungen einer erhöhten Bevölkerungsdichte zu leben,
weil ihnen noch niemand gezeigt hat, dass es sehr wohl
Wohnmöglichkeiten gibt, die eine Alternative zum einzeln
stehenden Häuschen sind – Möglichkeiten, die den Bedürfnissen nach Privatsphäre, der Beziehung zur Natur, innovativer
Aufteilung und geringen Kosten gerecht werden. Und sie sind
sich nicht wirklich der Ressourcenverschwendung bewusst,
die die Zersiedlung mit sich bringt, Ressourcen, die von der
sozialen und kulturellen Verwendung zum Nutzen aller abgezogen werden.
Wer könnte sich an dieser öffentlichen, vornehmlich kulturellen Auseinandersetzung mit einiger Wirksamkeit beteiligen, um den Konsens von einem Bereich auf einen anderen
zu verlagern, wenn nicht die Architekten und Ingenieure mit
ihrer Forschung, mit ihren Projekten und ihrer professionellen Beteiligung an der öffentlichen Debatte zu diesen Themen? Das ist die Politik.
Die Geschichte Tita Carlonis ist ein Beispiel für dieses Engagement. Gewiss, in einem Abschnitt seines Lebens war
Carloni auch als Angehöriger einer Partei und gewähltes
Mitglied des Grossen Rats auf eine umfassendere und professionelle Weise politisch aktiv. Wir wollen uns jedoch hier mit
seiner Arbeit als Stadtarchitekt befassen, eines Architekten,
der sich stets der Auswirkungen und Konsequenzen seiner
Arbeit auf die Umgebung bewusst war, und auf seine intensive schriftliche und mündliche Beteiligung in allen strittigen Angelegenheiten.
Die Teilnahme am politischen Leben – im Sinn der bereits erwähnten Bürgerbeteiligung, der aktiven Bürgerschaft – und die Ausübung der Reflexion, die Hervorbringung eines Bürgergedankens im Kontext, aus dem das
Projekt Gestalt bezieht, verleihen diesem Projekt Sinn und
Qualität. Der Gebrauch der Fähigkeit zum Verständnis
der Realität, die durch das Projekt verändert wird, ist ein
Mehrwert des Planungsprozesses.
Die Casa del Popolo (Volkshaus), die Tita Carloni in den Jahren 1970–71 in der Via Balestra in Lugano realisierte, ist ein
Werk, dessen aussergewöhnliche durch die Fülle von Bezügen
genährte Urbanität nicht nur von der Baukultur des Architekten herrührt. Sie reflektiert auch seine – in seiner politischen
Tätigkeit gewonnene – Fähigkeit, die Erfahrung mit dem Charakter der Stadt, wie sie sich herausgebildet und welche Widersprüche und Konflikte sie dafür durchlebt hat, in eine aktive
und schöpferische Beziehung zum Wissen und zur Ausübung
der Baudisziplin und -kultur zu setzen.
Die Redaktion und der Verleger danken Marco Bettelini
für den langjährigen redaktionellen Einsatz und wünschen ihm für seine berufliche Zukunft alles Gute.
48
TITA CARLONI
Mercedes Daguerre
Graziella Zannone Milan
Mestiere e militanza
L’edificio OCST a Lugano, detto Casa del Popolo, 1970-1971*
Risultato di lotte sociali che segnano il passaggio
dall’Ottocento al secolo breve, le Case del Popolo costituirono centri in cui le organizzazioni operaie svilupparono strategie di tutela e mutuo soccorso per i propri soci. Alla base di queste istituzioni promosse dai
socialisti e socialdemocratici, dai sindacati e dall’eterogeneo ventaglio delle società operaie della Svizzera
del primo Novecento, vi era la volontà di trovare luoghi d’incontro e discussione, sedi per la realizzazione
dei propri congressi e iniziative, perseguendo inoltre
scopi culturali e ricreativi. Un tema che – come dimostrano i diversi saggi che presentiamo in questo numero storico monografico – non poteva essere più
congeniale a una personalità come quella di Tita
Carloni agli inizi degli anni Settanta, quando l’architetto ticinese progetta e costruisce a Lugano il palazzo che doveva ospitare l’Organizzazione CristianoSociale Ticinese (ocst).
Pietro Martinelli – con lo sguardo fraterno di chi ha
condiviso tante battaglie – ricorda la sua militanza
politica e il suo ruolo di coscienza critica di un Cantone che lui stesso delineò dalle pagine di Pathopolis,
denunciando l’inarrestabile devastazione del suo territorio. Jacques Gubler – con la lucidità e l’ironia che
caratterizza i suoi scritti – riprende l’aforisma di Joseph Beuys: «Magari l’artista morto è migliore dell’artista vivo», segnalando come la produzione architettonica di Carloni sia inscindibile da un engagement
che ha contraddistinto la sua attività nei più diversi
ambiti d’azione (professore alla scuola di architettura
dell’Università di Ginevra nel 1968-1991, membro
della Commissione cantonale della protezione dei
monumenti nel 1960-1967 e della Commissione federale delle belle arti nel 1988-1989, deputato del Partito socialista autonomo al Gran Consiglio ticinese nel
1971-1978, solo per ricordare la molteplicità di incarichi assunti nella sua ricchissima traiettoria). Paolo
Fumagalli si occupa invece della dimensione squisitamente disciplinare di un professionista che ha sempre concepito il mestiere come impegno civile, contestualizzando la sua produzione nel dibattito ticinese
del periodo.
Grazie alla disponibilità dell’archivio dello Studio
Carloni, la cui documentazione è oggi depositata
presso la Fondazione Archivi Architetti Ticinesi, questo numero di Archi presenta in modo esaustivo la genealogia progettuale e costruttiva dell’edificio ocst,
illustrando le diverse fasi del progetto con schizzi, disegni e fotografie d’epoca, pubblicando anche –
grazie al contributo degli studenti del corso di «Sistemi e processi della costruzione» tenuto dal professore
Studio Tita Carloni, Rovio 2014, par ticolare.
Foto Marcelo Villada Or tiz
Franz Graf all’Accademia di architettura di Mendrisio
– piani e dettagli che focalizzano aspetti particolari
dell’opera. Oltre ciò, ci è sembrato opportuno includere negli apparati un testo di Tita Carloni scritto nel
1991, inedito in italiano: Case del Popolo: avanguardie
politiche e tradizione costruttiva, tramite il quale è oggi
possibile cogliere l’approccio dello stesso architetto al
tema che aveva affrontato vent’anni prima.
* Le curatrici ringraziano Piero Conconi per la preziosa
collaborazione nella definizione dei contenuti del
numero. Oltre ai numerosi suggerimenti egli ha messo
a disposizione il suo archivio privato, testimoniando il suo
impegno nella conservazione dell’archivio dello Studio
Carloni, la cui documentazione sarà ospitata in un’unica
sede presso l’Archivio di Stato di Bellinzona e nel Fondo
Tita Carloni della Fondazione Archivi Architetti Ticinesi
aat, sempre a disposizione dei ricercatori.
Metier und Aktivismus
Die Kuratoren präsentieren die Ausgabe in Anlehnung an den politischen und funktionellen Charakter der Case del Popolo (Volkshäuser), jenen Zentren, in denen die Arbeiterorganisationen die Strategien
der gegenseitigen Hilfe, ihre kulturellen Initiativen und Freizeitaktivitäten entwickelten. Ein Thema, das – wie die vorgestellten Essays bekunden – einer Persönlichkeit wie der Tita Carlonis zu Beginn der Siebzigerjahre nicht geistesverwandter sein könnte. Es war dies die Zeit, in der
der Tessiner Architekt das Gebäude als Sitz der Tessiner ChristlichSozialen Organisation (OCST) in Lugano projektierte und baute.
49
TITA CARLONI
Pietro Martinelli*
Tita Carloni architetto
e uomo politico
Architettura e politica
Su Wikipedia Tita Carloni viene definito «architetto
e politico svizzero-italiano». È vero che fu entrambe
le cose, ma, a mio parere, tra le due funzioni c’è un
legame di subordinazione. Divenne anche politico
perché come architetto, dopo casa Balmelli a Rovio
(1956-1957), dopo quelli che lui ha definito «gli anni
del successo» (1957-1960) e dopo l’esperienza dell’Expo di Losanna del 1964 (1960-1964), seguendo gli insegnamenti di Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Manfredo Tafuri, si appassionò alla morfologia urbana, alla
storia delle città. In una sua intervista del 2010 afferma: «…in fondo noi avevamo creduto alla modernità come
a una cosa risolutiva, quasi a sé stante. Avevamo avuto
scarso interesse per la storia ed ecco invece che ora appariva
chiaro che bisognava incominciare a scavare lì, che di lì sarebbero venuti stimoli, cose interessanti. E questo è stato uno
dei fattori che ha dato al Ticino, in quel momento, una supremazia culturale rispetto agli svizzero-tedeschi…».1
Il Ticino sembrò accogliere questi stimoli e il Cantone diede mandato ad alcuni architetti di studiare la
formazione e la trasformazione delle nostre città e
dei nostri villaggi. L’architetto Carloni si impegnò a
realizzare il grande rilievo di Bellinzona, mentre Luigi Snozzi lo fece a Locarno e altri, con la collaborazione di Aldo Rossi, fecero i rilievi di alcuni villaggi ticinesi. Successivamente lo troviamo impegnato in
un’altra ricerca storica parallela. In margine alle cerimonie per il 150° del Cantone (1953), il Gran Consiglio aveva votato l’istituzione di tre musei cantonali di
cui uno a Bellinzona dedicato alla storia della nostra
regione. Dando seguito a quel voto nel 1962 il Consigliere di Stato Franco Zorzi incaricò Virgilio Gilardoni e Tita Carloni, ai quali si aggiunse Plinio Martini,
«di studiare con sollecitudine il problema dell’adattamento di Castelgrande quale sede del museo delle
arti e delle tradizioni popolari del Ticino». Gilardoni
aveva un’idea ben precisa del concetto sul quale doveva basarsi quel museo, un concetto che Carloni, nel
1989, riassume in questi termini: «Gil se n’è andato
senza lasciarci quell’opera che egli avrebbe dovuto
(voluto?) scrivere e non scrisse mai. Penso alla storia
sociale e culturale delle terre cisalpine, grosso modo
dalla Valsesia alla val Seriana dentro la quale i confini
del Cantone Ticino si ritagliano come una specie di
bizzarro incidente storico [sic]. Una simile storia
avrebbe narrato … con grande ricchezza documentaria la vita delle classi subalterne e le vicende dell’arte
popolare e rustica, avrebbe descritto l’organizzazione del territorio e del lavoro, avrebbe analizzato a
fondo monumenti maggiori e minori di tre grandi
Tita Carloni, 1931-2012. Foto Luigia Carloni
epoche: romanico, barocco e ottocento. Questa storia
avrebbe avuto un taglio trasversale, descrivendo nello
stesso tempo la complessità e le omologie dei rapporti culturali e sociali che hanno legato per secoli valli e
centri di una specie di grande regione omogenea subalpina che oggi gli economisti sembrano riscoprire
per tutt’altre ragioni … ma una visione di questo tipo
non poteva non entrare in conflitto con quella limitata dell’elenco ufficiale dei monumenti, e con un certo
piccolo nazionalismo ticinese.2
Come riconosce lui stesso, la collaborazione con Gilardoni, le polemiche e le difficoltà incontrate ebbero
anche un effetto secondario: «svegliare in me l’interesse per la politica». Non per rivalsa, ma perché quello che era capitato per il museo lo fece disperare di
poter modificare il «quieto sistema di rapporti politici-burocratici-amministrativi che paralizzava il Ticino» impedendogli di affrontare in modo moderno il
grande cambiamento in atto nella nostra società negli
anni ’60 e ’70, non solo per quel che riguarda i monumenti, ma per tutto il problema dell’uso del territorio, dei suoi contenuti e del suo sviluppo.
Il buon senso e il senso comune
Carloni non era alieno al compromesso. Lo aveva dimostrato già negli anni della sua esperienza all’Expo,
quando ebbe a che fare con gli sponsor del padiglione
che gli era stato affidato che andavano dall’industria
farmaceutica, a quella dei tessili, della moda e del turi-
50
TITA CARLONI
smo. Ma non accettava, come molti altri giovani di
quegli anni, il soffocante clima di condizionamenti, di
clientelismo e di conformismo che pur caratterizza
spesso il comportamento degli individui in ogni società salvo rari momenti di riscossa morale e culturale.
Era una persona di «buon senso», che non si rassegnava al «senso comune», a un modo di pensare accettato
aprioristicamente, senza analisi critica, semplicemente perché è il modo di pensare di (quasi) tutti.3
Il contesto
I primi decenni del dopoguerra (1945-1975) furono
anni di grandi cambiamenti in tutta l’Europa occidentale, Ticino compreso. Cresceva l’economia, esplodevano i consumi e, parallelamente, si sviluppava lo
Stato sociale. Per ragioni storiche e culturali tuttavia il
modello di sviluppo ticinese fu particolare. Pompeo
Macaluso nella sua Storia del PSA, ha chiamato questo
modello «broker capitalism», intendendo con questo
termine una economia «incarnata dal finanziere, dal
mercante e dall’avvocato piuttosto che dall’imprenditore». Una economia – per dirla con Basilio Biucchi –
«che privilegiava gli affari triangolari e di confine».
Questi affari si concretizzavano soprattutto con tre
tipi di speculazione. Quella fondiaria con le opere
pubbliche a rimorchio degli interessi privati, quella finanziaria grazie alla fuga dei capitali dall’Italia e quella industriale con bassi investimenti fissi e lo sfruttamento (già allora) dei frontalieri sottocosto.
La politica, in un sistema nel quale praticamente tutti
partecipavano al governo, dopo aver introdotto qualche elemento di modernità a livello di scuola, di risorse energetiche, di infrastrutture e di socialità, si era
adagiata a questo modello di sviluppo, ripartendone i
benefici nella popolazione in base ai rapporti di forza
elettorali. I posti di lavoro, le prospettive per i figli e
gli appalti pubblici venivano gestiti con un occhio
molto attento alla appartenenza partitica, in genere
trasmessa per tradizione di famiglia. I partiti venivano poi finanziati soprattutto con dei versamenti per
appalti o altri favori ricevuti e chi non conosceva questa prassi l’imparava a proprie spese.
Quando il Cantone si trovò confrontato con i problemi prodotti dai grandi cambiamenti di quegli anni,
con le inquietudini di una gioventù cresciuta nelle
Università a contatto con la modernità dei Cantoni
più avanzati, affascinata dai nuovi messaggi dell’America dei Kennedy o della Chiesa del Concilio Vaticano II, la politica ufficiale non aveva né la volontà,
né la capacità di affrontarli in modo trasparente e
razionale. Si creò quindi una frattura generazionale
che il 29 giugno 1968, l’anno delle rivolte giovanili in
Europa e negli USA, portò un gruppo di persone, in
genere giovani, a dar vita a un Movimento denominato «di opposizione politica» (mop). Alle riunioni del
mop, accanto a pochi «anziani» parteciparono molti
ventenni e trentenni (di sesso maschile) di ogni fami-
glia politica, giovani «che poi si fecero conoscere nelle istituzioni, nella cultura, nei media, nella professione». Tra di loro vi era anche Tita Carloni.
L’impegno politico di Tita Carloni: dal Partito
Conser vatore, al mop al psa
Tita Carloni nel 1961 era subentrato in Gran Consiglio per il Partito conservatore (era il partito del padre). Lasciò quella carica nel corso dello stesso anno.
Più tardi, assieme a Plinio Martini lasciò anche il Partito conservatore e per entrambi la scelta fu «l’adesione appassionata al socialismo».4
Nel 1968 troviamo Carloni tra i compagni del pst che
avevano aderito al mop. Un’esperienza effimera (l’ultima riunione del mop ebbe luogo il 22 dicembre
1968) ma il cui spirito lasciò una traccia significativa
soprattutto nella collaborazione (indiretta) tra alcuni giovani architetti (Buzzi, Carloni, Krähenbühl,
Galfetti, Snozzi) e alcuni politici di appartenenza politica diversa (Cotti, Guglielmoni, Martinelli e Scacchi) sul progetto di legge urbanistica. Un progetto
proposto da Zorzi nel febbraio del 1964, e che giunse
in Gran Consiglio accompagnato da un rapporto critico e da nuovi incisivi articoli di legge frutto di quella
collaborazione. La Commissione speciale del Gran
Consiglio approvò all’unanimità (un astenuto) il rapporto e i nuovi articoli e altrettanto fece il Gran Consiglio con solo tre voti contrari (udc). Lo spirito di
quegli anni di grandi speranze aveva quindi marcato
presenza ai massimi livelli istituzionali cantonali, ma
aveva anche segnato la fine del percorso di modernizzazione del Cantone. La Legge urbanistica venne infatti sonoramente bocciata in votazione popolare (il
20.4.1969 con 19.284 no e 8.938 si ). È probabile che
la causa di quella bocciatura sia stata soprattutto la
proposta dei «giovani» – fatta propria da Governo e,
in forma attenuata, dal Gran Consiglio – di limitare
drasticamente l’edificazione nelle zone non urbanizzate. Il consigliere di Stato Righetti in Gran Consiglio
definì quell’articolo «il cuore e il sangue della legge»,
ma il popolo la pensò diversamente. Come ebbi a
dire concludendo una conferenza all’orl del Politecnico federale di Zurigo «i ticinesi, per i quali fino ad
allora ogni superfice priva di bosco era potenzialmente edificabile, preferirono mantenere un disordine dal quale alcuni avevano tratto grandi benefici e
molti altri speravano trarne in futuro a un ordine dal
quale temevano di restare esclusi». Sarà poi la Confederazione con la legge sulla protezione delle acque a
reintrodurre d’imperio il divieto di costruire dove
non esistevano le infrastrutture di urbanizzazione.
Carloni e il psa
L’idea di una programmazione economica cantonale
lanciata da L. Olgiati (1962), l’analisi della situazione
economica del Ticino con il rapporto Kneschaurek
(1964), il progetto di legge urbanistica proposto da
51
TITA CARLONI
Zorzi (1964-1969) e le discussioni e le proposte che
ne seguirono furono i tentativi più avanzati, purtroppo falliti, di costruire una risposta moderna ai problemi posti dal grande sviluppo degli anni ’60 e ’70.
Molto oltre (fatta eccezione per alcuni ricuperi tardivi) la politica non fu in grado di andare perché la
struttura economica e gli interessi dominanti glielo
impedirono. Dopo l’effimera esperienza del mop, la
risposta sul piano politico-partitico a questa impotenza fu la scissione del pst e la fondazione del psa
(27.04.1969). Un partito nato con (confusi) propositi
rivoluzionari, tanto entusiasmo e tanta buona volontà
al quale aderirono molti di coloro che non avevano
accettato di arrendersi. Tra di loro vi era anche Tita
Carloni che di battaglie per un Ticino aperto e moderno ne aveva già fatte molte.
Anche se proveniva dal Partito conservatore Carloni
era tutto fuorché un conservatore. Credeva nel cambiamento purché ragionato e controllato, ma, da
quando Gilardoni l’aveva convinto a occuparsi di politica, credeva anche in un progetto di società che mirasse a costruire un futuro centrato sui produttori (i
lavoratori in senso lato) con una ripartizione più equa
delle risorse, delle opportunità e delle responsabilità e
basato sulla conoscenza e il rispetto del passato e del
paesaggio. Nel psa fu accolto con rispetto, con riconoscenza e con affetto. Malgrado che il suo impegno
all’Università di Ginevra lo obbligasse spesso a essere
lontano dal Ticino, negli anni dal 1969 al 1976 rappresentò per i compagni un punto di riferimento fondamentale sia per il lavoro di rielaborazione della strategia del Partito, sia per il lavoro parlamentare. Fece
parte dell’Ufficio politico del Partito dal 1970 al 1975.
Furono anni decisivi per la lunga marcia che doveva
portare il psa dalle posizioni iniziali riconosciute poi
come «schematiche, ancorate a definizioni vecchie di
100 anni e difficili da tradurre in termini operativi»,5
alla strategia delle riforme e al superamento (non più
rovesciamento) del sistema capitalistico del III Congresso del 6 novembre 1977.
Nel 1974 Carloni fece anche un viaggio con la scuola
di Ginevra in Cina, dal quale ritornò impressionato.
Ne fanno fede i (bellissimi) manifesti di ispirazione
«cinese» che egli disegnò per le elezioni del 1975 e del
1976 e che troviamo riprodotte su «Politica Nuova».6
Le esperienze di Carloni nelle istituzioni
In occasione delle elezioni del 1971 nella lista del psa
Carloni giunse quarto subito dopo i leader storici
usciti dal pst. Con lo stesso piazzamento venne poi
rieletto nel 1975. Due anni e mezzo dopo, nel novembre 1977, si dimise perché l’impegno all’Università di
Ginevra, dove era diventato direttore, non gli permetteva più di mantenere entrambi i ruoli. Nel 1983 fu
candidato unico della sinistra per gli Stati dove ottenne quasi 18.000 voti pari al 18% dei votanti.
Nei sei anni di permanenza nel legislativo cantonale
Carloni partecipò intensamente alle numerosissime
riunioni di gruppo (eravamo degli stakanovisti della
politica) e intervenne nel plenum e nelle Commissioni
sui problemi legati al territorio, sulle contraddizioni
del sistema ospedaliero sussidiato dal Cantone (l’eoc
verrà creato solo nel 1982), sulla riforma tributaria
del 1977 e sulla scuola. In particolare fu il relatore di
minoranza sul progetto di creazione della scuola media unica con un rapporto memorabile.7
Tita Carloni: un maestro e un amico
Tita Carloni fece delle scelte coraggiose e coerenti
che pagò duramente. Dopo la vicenda dei castelli di
Bellinzona che già aveva generato per lui «aria grama», con la sua entrata nel psa prima e in Gran Consiglio poi, il Berufsverbot nei suoi confronti divenne
praticamente totale. Era il clima di quegli anni. Dopo
la pubblicazione da parte del «Dovere», ripresa da
«Libera Stampa», di onorari e stipendi pagati dallo
Stato a Carloni, Carobbio, Martinelli e Snozzi, alcuni
influenti membri della Commissione della gestione
del Gran Consiglio chiesero al Consiglio di Stato di
togliere ogni mandato che comportasse onorari a
persone iscritte al psa. Il Governo si adeguò e, a ruota, seguirono i Comuni e la Confederazione.
Nel Partito era molto amato e rispettato per la grande cultura, per la chiarezza e la capacità di sintesi, per
l’impegno che ha sempre messo in qualsiasi compito
si fosse assunto o gli fosse stato assegnato e per la sua
grande umanità.
Dopo la svolta socialdemocratica del psa (1980) e, soprattutto, dopo l’entrata in Consiglio di Stato (1987),
il Berufsverbot venne a cadere e molti compagni poterono ricuperare a pieno titolo il proprio ruolo professionale, guardando con orgoglio a un percorso di
denunce e di proposte fatto a viso aperto, a una evoluzione fatta senza abiure, con onestà intellettuale sulla
base dell’esperienza acquisita e di un’analisi disincantata della realtà. Un percorso che portò il psa dalle
iniziali confuse intenzioni rivoluzionarie a progetti di
riforma da realizzare con pragmatismo.
Forse chi più faticò a ristabilire i contatti con il mondo che, dopo la scelta del psa, gli aveva voltato le spalle fu proprio Tita Carloni. Le ferite che aveva subìto e
la delusione per un Cantone che aveva devastato e
spesso continuava a devastare il territorio probabilmente erano troppo profonde. Gli ultimi anni li utilizzò soprattutto per descrivere con articoli, in seguitissime conferenze e nella interviste alla televisione,
in modo magistrale spesso con elegante ironia, i dettagli di questa irrazionale devastazione e per difendere quello che ancora si poteva difendere. Grazie alle
sue capacità di comunicatore era diventato la coscienza critica del nostro territorio.
* deputato al Gran Consiglio Ticinese per il psa (1967-1987)
e Consigliere di Stato (1987-1999)
52
TITA CARLONI
Note
1. Cfr. «Archivio storico ticinese», n. 149, giugno 2011, p. 50.
2. Cfr. «Politica Nuova», 10.11.1989 (ricordo di V.Gilardoni).
Carloni ammette che Gilardoni aveva un carattere difficile,
«faceva alla sua maniera anche un po’ disordinata,
ma intensiva». Era sostenuto da Zorzi, ma Zorzi morì in un
incidente di montagna nel 1964, e Righetti, che prese il suo
posto, cercò di costringerlo all’interno di un programma,
di costi e di scadenze precise. Inoltre c’era chi rifiutava
Gilardoni per ragioni politiche (era comunista), e chi non
condivideva l’impostazione che aveva dato alla sua ricerca.
L’occasione per estrometterlo, assieme ai suoi colleghi
Carloni e Martini (collaboratore nella ricerca), si presentò
a seguito di una lite con l’archivista cantonale sfociata in
accuse, denunce e un lungo processo che terminò con un
«buon» compromesso che fornì al Gran Consiglio il
pretesto per chiedere la liquidazione di tutta la squadra
per non aver rispettato i termini («realizzare con
sollecitudine…»). Probabilmente le idee e il mancato
rispetto delle gerarchie avevano fatto nascere all’apparato
politico-amministrativo il sospetto che tutte e tre fossero
dei sovversivi – «intellettuali disubbidienti», scriverà
Carloni (Pathopolis, p. 126). A questo punto, dice ancora
Carloni nell’intervista, «ho cominciato a vederla grama»,
non fu pagato per il lavoro sui Castelli e venne escluso
dalla progettazione del nuovo Ospedale di Mendrisio.
3. I concetti di «senso comune» e di «buon senso» sono
sintetizzati in modo folgorante dal Manzoni nel capitolo
sulla peste dei suoi Promessi sposi, là dove afferma:
«… c’era pur qualcuno che non credeva agli untori,
ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione
volgare diffusa … quindi il buon senso c’era, ma se ne
stava nascosto per paura del senso comune». Carloni quella
paura non l’aveva, per cui il suo «buon senso» non
rimase nascosto.
4. È lui stesso che racconta in Pathopolis (p. 16) quando
e come lasciò il Partito conservatore. Dopo aver citato
il giudizio severissimo di Martini sul Ticino politico,
Carloni ricorda una «incredibile riunione domenicale
a Bellinzona nella quale Alberto Stefani aveva radunato
un certo numero di intellettuali di origine conservatrice
in odore di dissidenza e, rivolgendosi a loro con l’epiteto
di “cavalieri erranti” aveva detto pressappoco: nella cultura
fate quello che volete, ma nella politica non uscite, per
favore, dal seminato… È evidente – conclude – che su simili
esortazioni tipi come Plinio Martini e come me avrebbero
rovesciato il tavolo. Non lo facemmo perché l’educazione
antica ci aveva reso troppo rispettosi, ma uscimmo
immediatamente dal locale e non ci rividero mai più».
5. Cfr. «Lotta con il psa», n. 3 : «Il psa dalla costituzione
a oggi», 1977 (documento precongressuale).
6. Il suo giudizio sulla Cina sembra essere poi diventato più
critico se pensiamo a quanto scrive in Pathopolis (p. 58):
«… a proposito del rapporto tra uomo e territorio il
socialismo da solo, rosso o giallo che sia, non ci dà grandi
garanzie. Sarà meglio farci su un pensierino!».
7. Cfr. Verbali del Gran Consiglio, sessione primaverile 1974,
pp. 1051-1077.
Tita Carloni – Architekt und Politiker
Tita Carloni war ein Architekt und Politiker der italienischen Schweiz,
der für seine umfassende Bildung, die Qualität seiner Bauwerke und
sein gesellschaftliches Engagement bekannt war. In den ersten Jahren
seiner Tätigkeit erhielt er bedeutende Anerkennungen und prestigereiche Ämter. Doch mit dem Bauen gab sich Carloni nicht zufrieden. Er
wollte «modern» sein. Sein Ziel war es, in der Geschichte der Stadt «zu
graben», um zu erfahren, welche Beziehung er zwischen einer Vergangenheit, die Respekt verdient, und der Zukunft aufbauen konnte.
Im Rahmen der Zusammenarbeit mit Virgilio Gilardoni für das Museum in Castelgrande geriet er in Konflikt mit einem politischen
System, das auf reinen Selbsterhalt ausgerichtet war, statt die grossen
Herausforderungen anzugehen, die aufgrund der Umwälzungen
der 50er- und 60er-Jahre gemeistert werden mussten. Er verlor den
Auftrag und wurde verdächtigte, ein «ungehorsamer Intellektueller», ein Umstürzler zu sein. Die Zusammenarbeit mit Gilardoni
weckte sein Interesse an der Politik. Er verliess die konservative Partei
und trat dem linken Flügel der Sozialisten bei, aus dem später die PSA
entstand. Aktiv beteiligte er sich am Parteileben, sowohl durch seine
Tätigkeit im Kantonsparlament (1971–77) als auch durch Analysen,
Anklagen und Reformvorschläge. Wie andere Personen, die der PSA
beitraten, wurde er von jedem öffentlichen Amt ausgeschlossen. Er
emigrierte nach Genf, wo er eine Stelle als Dozent an der Architekturfakultät der Universität des Kantons erhielt. Als die PSA zur Regierungspartei wurde, fiel das Berufsverbot. Carloni behielt jedoch eine kritische
Haltung gegenüber der Zerstörung der Landschaft des Kantons bei.
Für viele Menschen wurde er zum kritischen Gewissen des Tessins.
53
TITA CARLONI
Jacques Gubler*
Aspettando Carloni
Primo aforisma
«Magari l’artista morto è migliore dell’artista vivo».
Forse l’aforisma realista di Joseph Beuys riflette anche l’être au monde, l’essere autocritico e il sorriso di
Tita Carloni. Non è che l’opera di Carloni, tra cattolicismo e marxismo, illustra nel campo dell’architettura un impegno sociale che ricorda l’engagement esistenzialista di Sartre?
Secondo aforisma
«Je voudrais faire le travail de l’architetto condotto».
Questa confessione non si inventa. L’ho sentito nell’auditorio gremito da persone curiose e amichevole, il
giorno dell’ultima lezione di Carloni all’eaug (École
d’architecture de l’Université de Genève). La risposta
segue la domanda posta all’ex direttore della scuola:
«Adesso cosa farai?». Eravamo nel 1991. Poca gente a
Ginevra sapeva cosa fosse un architetto condotto. Una
funzione? Una specialità? Una metafora? Carloni ci
ha spiegato che in Lombardia, nella geografia fisica
del territorio, il medico condotto esercita un ruolo di fiducia che accompagnava la vita e la morte dei cittadini. Magari l’analogia dell’architetto condotto traccia la
speranza in un lavoro sociale al quotidiano in contropiede della dimensione utopica canonica dell’architettura moderna.
Terzo aforisma
Il terzo aforisma di Carloni non è un aforisma, ma
una citazione di Carlo Cattaneo, vecchio rifugiato politico sulle sponde del Ceresio. Carlo Cattaneo, Aldo
Rossi e Tita Carloni sono tre Lombardi. Aldo Rossi ritrova le ruminazioni geopolitiche di Cattaneo e ne
distilla il senso in un capitolo di L’architettura della città.
Nella bocca di Carloni, la lucidità di Cattaneo si applica à la lettre alla storia del paesaggio ticinese. La forma del territorio non è altro che «deposito delle fatiche umane». L’architettura deve essere cosciente di
questa morfologia depositata dall’agricoltura.
Perche tanti aforismi?
Magari perché il Ticino e la sua lingua vernacolare,
all’interno del triangolo geografico dialettale KlotenCointrin-Malpensa, produce senza saperlo una quantità notevole d’aforismi, all’unisono delle campane di
Balerna. Senza saperlo come Monsieur Jourdain nel
Bourgeois gentilhomme di Molière fa della prosa senza
saperlo. Urbi & orbi, Luigi Snozzi è stato riconosciuto
come il Petit Prince dell’aforisma. Ma questo genre teorico si può anche stanare nei racconti di altri colleghi
ticinesi. Sentiamo Livio Vacchini: «Disegno la casa,
Facciata Chiesa Parrocchiale dei Santi Vitale e Agata
Rovio, 1996-97. Fondo Tita Carloni, Fondazione A AT
disegno l’albero», o «Non c’è dettaglio in architettura, tutte le cose sono d’uguale importanza». Apriamo
Quasi un diario di Mario Botta: «L’architettura nasce
nell’idea di gravità», o «Certo, questa è la Svizzera, la
nostra Patria, la nostra Casa, la nostra Croce».
Una sola barzelletta
Di bocca in bocca corrono e si ripetono racconti
colorati che cimentano la «memoria collettiva» locale e corporativa dell’architettura. Questa memoria
aneddotica pittoresca si spenge dopo due o tre generazioni. Tra elogio e beffa, tra profumo e puzza, la
«storia orale» rimane volatile. Nell’assenza di supporto mediatico, si dissipa con la morte degli attori. Tale
dinamica narrativa non è il privilegio esclusivo dei
grotti ticinesi. Esistono architetti narratori e amatori
di pettegolezzi anche a Bienna, a Como e a New York.
Anch’io vorrei sacrificare al genre aneddotico pittoresco della testimonianza storica esclusiva. Siamo alla
fine dell’anno 1975. Ottobre? Novembre? Siamo sul
palco del Théâtre de Vidy, una sala costruita da Max
Bill, reliquia dell’Expo del 1964. Frank Jotterand,
il direttore del teatro, ha immaginato una serata focalizzata sulla figura di Le Corbusier. Jotterand ha invitato la troupe del tpr, Théâtre populaire romand di
La Chaux-de-Fonds a presentare la sua creazione collettiva, Le Corbusier, le bâtisseur, una tragi-commedia
elaborata dopo la lettura dei libri dell’architetto, revue
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TITA CARLONI
cabarettistica con performance tra Tati e Marceau.
Sorgeva anzi dieci anni dopo la morte di Le Corbusier
il primo atto delle numerose commemorazioni successive. È prevista dopo lo spettacolo, una discussione
con architetti en rang d’oignon: il contrario della tavola
rotonda. Carloni, nella sua veste direttoriale, capo della scuola d’architettura dell’Università di Ginevra,
racconta perché non ha seguito e prolungato il repertorio formale di Le Corbusier. Non si poteva al sud
delle Alpi cancellare la memoria della presenza opportunista di Le Corbusier a Vichy sotto Pétain. Zevi
aveva proposto l’ideale «democratico» dell’architettura organica. Come si sceglieva tra un Bartali di
destra e un Coppi di sinistra, si doveva scegliere tra
Le Corbusier e Wright. Dopo la presentazione, nel
vestiario del teatro Jotterand e Carloni, stessa taglia,
stessa eleganza, stesso loden, stesso colore, si scambiano il mantello. Jotterand mette la mano nella tasca e
trova una medaglia con l’effigie di Lenin. Ne segue
un sussulto di sorpresa con un sorriso imbarazzato.
Una sola domanda
Sarà una domanda sugli ismi. Esiste il neorealismo in
architettura? Sappiamo che si tratta di una tendenza
poetica della cinematografia italiana al momento del
duello politico Coppi-Bartali. Se esistesse, probabilità
minimalissima, una tendenza neorealista in architettura, allora sicuramente Tita Carloni avrebbe ricevuto
il pard-orso alla carriera. Ma torniamo all’architettura.
Un amico di Losanna, Gilles Barbey, studente a Zurigo allo stesso momento di Carloni, mi parla dell’organicisme rationnel, una poetica diffusa nella facoltà di
architettura del Politecnico. A Zurigo, come a Roma,
si riguardava verso la Scandinavia e l’opera di Alvar
Aalto. Dove partire in viaggio? In treno verso nord?
Quando altri salgono sul paquebot atlantico in direzione degli States. La strada verso nord permette anche
di scoprire il polo razionalista vichinga di Asplund e
Jacobsen. Sembrerebbe che, attorno al 1955, nel bouillon de culture zurighese al momento del diploma di
Carloni, la costruzione del Parktheater di Grenchen,
opera di Ernst Giesel, avrebbe segnato una sorpresa
clamorosa. Come configurare l’obliquità e l’ortogonalità di volumi contrastati non solo nella forma ma anche nel colore e la materialità? A tale domanda il teatro di Giesel poteva fornire un esempio. In particolare
per la regola del parallelismo tra il profilo del tetto e la
pendenza del terreno. Questa regola sembra essere
rispettata nel caso della Casa Balmelli a Rovio.
Capolavori
Carlo Bertelli ricorda che: «I capolavori accompagnano, rafforzano, esaltano, consolano. … Hanno, infatti, questa fatalità: che si staccano dalla contingenza in
cui sono nati per librarsi in uno spazio praticamente
senza tempo». Bertelli sogna alla pittura e alla scultura. Non si può negare che Botticelli e Rodin, i cavalli
del Partenone e La danse di Matisse abbiano raggiunto uno statuto iconografico di ubiquità, indipendente
dal loro contesto geografico e politico iniziale. Sembra che l’ubiquità non entri nell’essere materiale
dell’architettura. A prova che il profumo globale e i
pedigrees monumentali dell’unesco diventano un argomento per riempire diversi aerei, pulmini, torpedoni, mostri galleggianti targati Costa (sic). Si deve
dunque viaggiare e incontrare in situ i capolavori
Studio delle varianti di prospet to. Cour tesy Tarmac Publishing, Mendrisio
55
TITA CARLONI
dell’architettura. In conseguenza i capolavori si raggruppano in un elenco individuale che corrisponde
alle possibilità e alle scelte personali di una vita. Conosciamo la lista di Livio Vacchini, pubblicata sotto il
titolo Capolavori, itinerario di pellegrinaggio nonché
chiave di lettura per la sua opera.
Lanciare la domanda dei capolavori apre la questione
dei capolavori costruiti da Tita Carloni. Risponderò in
funzione del mio proprio pellegrinaggio e delle emozioni instillate nella memoria. Lasciamo stare dietro il
bosco il programma della villa, cittadella della vita privata. Guardiamo gli esempi dell’architettura pubblica,
visitabili, aperti alla gita scolastica, quando il programma diventa istituzione, per dirla con Louis Kahn. Oltre alla Casa del Popolo di Lugano, i capolavori di
Carloni sono la Pinacoteca Züst di Rancate (1967), il
centro scolastico di Stabio (1972-1974), il restauro della
chiesa parrocchiale di Rovio (1996-1997).
La pinacoteca offre l’intimità e l’intelligenza di un
gioiello, la possibilità di mostrare opere piccole e grandi in un percorso di scoperta con visioni da vicino e da
lontano. Inoltre nel Mendrisiotto, mi ricordo due fermate che offrono il più bel viaggio possibile agli studenti dell’usi, del Virginia Tech, o dell’Università del
New Mexico. Ci fermiamo a Riva San Vitale e a Stabio
per visitare due centri scolastici con funzioni pedagogiche e sportive analoghe. Troviamo da un lato il lavoro del trio Galfetti-Ruchat-Trümpy, dall’altro quello di
Carloni. Nella pianura di Riva, il lavoro si articola su
dieci anni con tre tappe in un vero work in progress
(1963-1973). A Stabio la composizione si appoggia sulla centralità del cortile. Riva si riferisce al modello domestico della Siedlung in terrazza e all’espressività del
cemento armato brut de décoffrage. L’aula sarebbe la
casa del bambino e la scuola una unité d’habitation. A
Stabio troviamo una piazza che visualizza la scuola
come istituzione urbana, tramite grandi corpi periferici, grandi sheds. Che la tipologia industriale dello shed
fosse adattabile alla scuola in quanto aula scolastica
senza finestre laterali, ecco una bella invenzione. L’urbanità del cortile risulta dell’uso del portico sotto in
corpi longitudinale. A Stabio, la scuola sorge dietro
l’argine in diaframma sopra la strada. A Riva, lo spazio
tra palestra e volumetria en peigne delle aule drammatizza il cortile mentre la scuola riguarda il paese e inversamente. A Stabio troviamo una terrazza a sé stante, una specie di isola lontana dalle altre bellezze.
Finalmente il restauro della chiesa dei Santi Vitale e
Agata a Rovio permette di scoprire un lavoro sottile di
restauro creativo, sviluppato nell’uso comparativo delle variante, a mille piedi dalla dottrina mimetica e illusoria del restauro conservativo. La ricerca dei tracciati
regolatori della nuova facciata, non che la policromia
e la gamma dei materiali sono come l’omaggio alla
facciata precedente, a mo’ di scudo, per proteggere la
navata delle pressioni laterali osservate verso ovest. In
quest’occorrenza, Carloni opera come ingegnere.
Aspettative
Aspettiamo le sorprese ancora seppellite nell’opera
di Tita Carloni. Momenti dimenticati: lo studio,
con Snozzi e Vacchini nel 1962, del nuovo obv di
Mendrisio, concorso senza esito. Lo studio del quartiere ferroviario di Mendrisio, con il vero Gesamtkunstwerk dell’Albergo Milano. Questo lavoro segna l’entrata di Mendrisio nella storia della modernità
territoriale autostradale. Altri momenti da ricordare:
la presenza di Carloni all’Expo 1964 di Losanna
come progettista e manager del settore 2A, Joie de vivre,
attribuito al gruppo fas ticinese da Alberto Camenzind. Gilles Barbey, attivo nella charrette pazzesca del
vicino padiglione 2B, Eduquer & créer, disegnato da
Max Bill, si ricorda della maîtrise et aisance di Carloni
al momento del cantiere. Non c’è da stupirsi che, cinque anni dopo, al momento del concorso su invito
per la nuova sede suburbana del Politecnico federale
di Losanna, Carloni viene chiamato a coordinare la
proposta del gruppo ticinese.
La presenza di Carloni al nord delle Alpi si collega
anche al ruolo di professore e finalmente di direttore
dell’eaug, dove si sviluppa il sodalizio con Peppo
Brivio. Si dovrebbe situare l’opera di Carloni in una
cornice teorica internazionale. Si vorrebbe capire anche le sue relazioni con almeno cinque protagonisti
ticinesi: Luigi Camenisch, Dante Gerosa, Luigi Snozzi,
Livio Vacchini e Mario Botta. Per esempio con Botta il
restauro di una cappella, inserita nell’ensemble del
convento di Santa Maria del Bigorio.
Ultimo sospiro
Come Charlie Chaplin, al quale un agente immobiliare svizzero mariolo aveva venduto in tutta fiducia
una villa di stile coloniale sopra Vevey nelle vicinanze
acustiche dello stand di tiro comunale, molto frequentato da patrioti imbambolati il mattino della domenica, Tita Carloni amava il silenzio. Aspettiamo il
libro che permetterà di rintracciare il percorso avventuroso della sua opera.
* prof. Emeritus epfl, usi
Warten auf Carloni
Mit unterschiedlichen Aphorismen, die ihm am Herzen liegen, reflektiert Jacques Gubler über die unterschiedlichen «Karrieren» von Tita
Carloni – vom Universitätsprofessor bis zum «Hausarchitekten», der
in Analogie zum Hausarzt alle Phasen der Planung, des Baus und
der Instandhaltung des Gebäudes persönlich betreut. Außerdem finden die Leser eine amüsante Anekdote über das Ende eines Abends in
Genf, als Carloni und Jotterand ihre Mäntel vertauschen und Letzterer in der Tasche eine Medaille mit dem Abbild Lenins findet, auf die
Carloni – im Gegensatz zu Jotterand – großen Wert legt. Der Artikel
enthält weiterhin feinsinnige Überlegungen über das Gesamtkunstwerk Albergo Milano. Den Abschluss bildet der Wunsch, ein Gelehrter
möge den abenteuerlichen Weg des Werks von Carloni analysieren
und ihm eine Monografie widmen.
56
TITA CARLONI
Paolo Fumagalli
La Casa del Popolo
e il Ticino degli anni Settanta
Primo prologo (molto) personale: Carloni,
Snozzi, Vacchini e l’Ospedale di Mendrisio
Nel 1965, terminato l’ottavo semestre al Politecnico
di Zurigo, per svolgere l’anno di pratica mi rivolsi
dapprima a Ernst Gisel (dovevo andare a Berlino, ma
per lui le mie conoscenze del tedesco erano insufficienti) e poi a Tita Carloni, dove restai un intero
anno. Mi aggregò al piccolo gruppo che si occupava
del progetto per l’Ospedale di Mendrisio:1 un incarico cantonale affidato non solo a Carloni, ma anche a
Luigi Snozzi e Livio Vacchini – un architetto per ogni
partito, come si usava allora. Il venerdì era il giorno
d’incontro dei tre architetti. E sin dal mattino iniziava un teatro affascinante e straordinario, dove le discussioni sul progetto si intrecciavano alle disquisizioni sull’architettura da parte di tre architetti che non
andavano d’accordo su niente. Discussioni e disquisizioni: piuttosto controversie, che a ondate successive
riempivano tavolo e pavimento di rotoli di carta zeppi
di schizzi a matita 2B o penna Montblanc. La settimana successiva, dopo aver ridisegnato l’intero progetto
(fermo ancora alla scala 1:100, malgrado che in parallelo si calcolasse il preventivo), il venerdì aveva luogo
quello stesso «teatro dell’architettura» del venerdì precedente, che immancabilmente si concludeva, dopo
la battaglia di penne e matite, con tavolo e pavimento
ricoperti di rotoli di schizzi.2 Imparai, in quella settimanale palestra del venerdì, che nonostante le divergenze su quasi tutto, li univa comunque un’identica
volontà di approfondire, di cercare, di rimettere in
discussione ciò che pareva acquisito. E capii più tardi
perché loro tre, assieme ad altri che in quegli anni ho
avuto l’occasione di frequentare, poterono dar luogo
pochi anni dopo a quel periodo tanto ammirato
dell’architettura in Ticino.
Secondo prologo (molto) personale:
gli anni Settanta di «Rivista Tecnica»
Nel 1972 fui nominato dalla sia direttore di «Rivista
Tecnica», affiancando Peter Disch nella redazione.
Un paio di anni dopo – sarà stato nel 1975 – all’ordine del giorno dell’annuale Assemblea della sia figurava anche il rinnovo della redazione della rivista: ci
volevano sbattere fuori. Non andava per nulla bene
che la redazione fosse, diciamo, selettiva nelle sue
scelte, che non pubblicasse un po’ di tutto e aperta a
tutti i membri della sia. Intendiamoci, dal loro punto
di vista non avevano tutti i torti: dal 1972 «Rivista Tecnica» ha ignorato molti degli architetti che prima del
nostro arrivo occupavano le pagine della rivista, e ha
accolto invece progetti e opere di quelli allora emer-
genti, quei quasi giovani che ai nostri occhi proponevano architetture innovative e ricche di idee. Ci accusavano insomma di pubblicare una rivista «di parte».
Con l’aggravante oltretutto di pubblicare articoli polemici contro ciò che ritenevamo essere speculazione
edilizia e sfruttamento del territorio e deturpazione
del paesaggio. Dopo reiterate pressioni nei nostri
confronti, la sia decise di rovesciare il tavolo. Per difenderci, abbiamo allora inviato un appello a tutti
quei colleghi che noi ammiravamo e che – forse – ci
avrebbero sostenuto: se volevano che noi si continuasse nel nostro lavoro, dovevano partecipare
all’assemblea della sia, cosa tutt’altro che scontata
giacché nessuno di loro era mai presente. Ebbene,
fu l’assemblea più affollata che si ricordi. E restai in
«Rivista Tecnica» fino al 1983.
Perché questi due prologhi
Ho riferito questi due episodi miei personali perché a
mio parere racchiudono in modo quasi emblematico
due momenti focali della storia dell’architettura nel
Ticino in quegli anni.
Il primo prologo (anni 1964-1965). Quei tre architetti
che litigavano tra loro avevano sì idee diverse per
come dar forma all’architettura, ma in comune avevano una tensione straordinaria – un idealismo si
può affermare – dentro cui precipitavano e si intrecciavano i temi della materia e del dettaglio, dello spazio e della funzione, della forma e del luogo e della
città e del paesaggio. Ma non solo architettura: anche
gli altri, di temi, quelli legati alla cultura, alla ricerca
e alla teoria, dove certezze e massimalismi e dubbi e
cose viste e cose lette trascinavano nelle discussioni i
momenti del Moderno e quelli del contemporaneo.
E, magari ancora confusi, affioravano i temi della
continuità storica, delle regole del progettare, della
città, dei rapporti tra politica e cultura, del sociale.
Il secondo prologo (1975). Certo, quel periodo per
«Rivista Tecnica» fu fortunato, perché coincise con lo
sviluppo e l’affermarsi dell’architettura in Ticino negli anni Settanta. Ma il merito fu anche di raccoglierne le idee e di rilanciarle. Già nel primo numero (no.
2, gennaio 1972) si poteva leggere che «... il compito
che ci siamo dati è quello di registrare la cronaca del
costruire nel nostro Cantone, di come si progetta, si
pensa e si pianifica, una cronaca, positiva o negativa
che sia, degli interventi sul nostro territorio. E delle
nostre assenze arbitrarie». E più oltre nel testo si denunciava il «protezionismo assoluto e rigido della
proprietà privata», le «enormi spinte speculative», lo
«sfruttamento il più alto possibile», l’affossamento
57
TITA CARLONI
della «defunta legge urbanistica». Non solo, ma «Rivista Tecnica» sollevava quei temi relativi al paesaggio
che avrebbero attraversato i decenni successivi, fino a
oggi. Già in quelle due paginette di editoriale si indicavano questioni che ancora adesso – quasi cinquanta anni dopo – sono di attualità: la città-regione che si
estende da Chiasso a Bellinzona, l’assurdità di piani
regolatori limitati ai confini comunali, la mancanza
di un piano coordinatore esteso a tutto il territorio.
1.
Il boom immobiliare alla fine degli
anni Sessanta
Nel dicembre 1972 «Rivista Tecnica» presentò un numero dedicato a Cinque anni di architettura ticinese: fu
in quel numero, a pagina 1234,3 che fu pubblicata la
Casa del Popolo a Lugano, di Tita Carloni. Ma prima
ancora di scrivere di questo edificio, è importante
chiarire la svolta che la storia del Ticino, e delle sue
città e periferie, conosce in questi anni a cavallo tra
gli anni Sessanta e Settanta.
Perché il Ticino cambia. E cambia anche l’architettura. I motivi sono molteplici, e come sempre si intrecciano tra loro, ma fondamentalmente le origini si trovano oltre i confini nazionali, in un’Europa investita
dallo sviluppo economico postbellico, con la conseguente ricostruzione delle città distrutte, la creazione
di nuove industrie, le migrazioni verso questi luoghi
di lavoro, la realizzazione di nuovi quartieri e nuove
periferie, la formazione di nuove ricchezze. Questo in
Europa: in Ticino l’onda lunga di questa trasformazione economica e sociale si traduce nel primo boom
economico e immobiliare, che investe soprattutto la
città di Lugano. Il centro storico subisce trasformazioni profonde con la demolizione di antichi edifici
per far posto a banche, stabili per uffici e supermercati, mentre le periferie vengono disseminate di singoli edifici a carattere speculativo. Verso questo
boom immobiliare Lugano – a dire il vero a somiglianza di molte altre città europee – ha delle difese
molto deboli, legate a un piano regolatore impreparato a fronteggiare la virulenza di quanto accade: virulenza non solo nella costruzione, ma anche nelle
pressioni del mondo economico verso quello politico
per avere mani libere nei propri interessi. Ma non è
solo un problema urbanistico, è anche architettonico.
Nel senso che a Lugano come altrove, in parallelo alle
spinte speculative, la «merce architettura» che viene
realizzata è scadente, di una banalità disarmante.
Per l’architettura è una sconfitta che brucia: le conquiste, le innovazioni e le ricerche dell’Avanguardia
architettonica e del Movimento moderno e dei suoi
maestri sono state ribaltate nei loro scopi e usate,
strumenti formidabili, a vantaggio della speculazione
edilizia. Ed è proprio nella coscienza di queste implicazioni che nasce sin dal 1965 un dibattito sempre
più preciso e profondo sull’architettura stessa. Un dibattito del resto che aveva origine nella vicina Italia,
1. Aurelio Galfet ti, Flora Ruchat e Ivo Trümpy, foto aerea
Bagno pubblico comunale, Bellinzona, 1967-1970.
Foto archivio privato Aurelio Galfet ti, Lugano
soprattutto nell’area tra Milano e Venezia, e che trovò
una sintesi un paio di anni dopo in libri come Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti (1966), L’architettura della città di Aldo Rossi (1966), Teoria e storia
dell’architettura di Manfredo Tafuri (1968), La costruzione logica dell’architettura di Giorgio Grassi (1967).
Ritrovare una base razionale al progetto
È da questo dibattito che verso la fine degli anni Sessanta progressivamente inizia una revisione critica
dei metodi progettuali, alla ricerca di una disciplina
di progetto che allora sembrava scomparsa, priva di
riferimenti e di logiche progettuali. Un rinnovo fondato sulla necessità di ritrovare una base razionale al
progetto, non più affidato alle incerte capacità intuitive del singolo, ma su solidi principi teorici. Il primo
è la storicizzazione del Moderno: riconoscere che
l’architettura moderna sviluppatasi tra le due guerre – dal Neues Bauen al Razionalismo – era oramai
un’esperienza che appartiene al passato. Quindi storicizzabile, analogamente a quanto è fatto per l’architettura greca o del Rinascimento. È possibile studiarla, classificarla, e coglierne i presupposti teorici.
L’architetto, come sempre nei secoli, è alla storia che
deve riferirsi. Il secondo principio è il valore disciplinare dell’architettura: riconoscerne le origini e la storia, affermarne le basi teoriche e formative, l’indipendenza rispetto alle altre discipline artistiche. Le
parole d’ordine diventano: autonomia dell’architettura, autonomia della forma. Si ritorna a parlare di stile, dell’importanza di temi come il luogo, la città, il
paesaggio. E dell’importanza del monumento architettonico quale momento significativo e formativo della
città, della sua storia, della sua contemporaneità.
58
TITA CARLONI
Il riferimento alla storia, la priorità degli studi urbani, il rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana, il monumentale, l’importanza della forma: su
questi concetti prende definitivamente avvio in Italia
quella che sarà chiamata col nome di Tendenza, che
trova la sua definitiva consacrazione nella XV Triennale di Milano del 1973. Nel libro-catalogo della manifestazione milanese4 Massimo Scolari afferma che la
nuova architettura «... non sceglie l’invenzione o la trovata ma si muove pazientemente e forse più sicuramente lungo un processo di chiarificazione. Come ogni
vero atteggiamento scientifico questa posizione, che
per brevità chiameremo Tendenza ... è incentrato sull’analisi storica e formale, sullo studio della città come
manufatto e sui caratteri che portano un certo tipo di
architettura a proiettarsi su un certo tipo di società
...Per la Tendenza l’architettura è un processo conoscitivo che di per sé, nel riconoscimento della sua autonomia, impone oggi una rifondazione disciplinare».
Foto Paolo Fumagalli
2.
3.
4.
Foto Paolo Fumagalli
Nel Ticino l’eco di tale dibattito trova un terreno straordinariamente fertile non tanto nella sua continuazione teorica, quanto nella sua traduzione nel costruito. Un processo del resto facilitato dalla presenza di
alcuni architetti attenti e per un certo senso fedeli ad
alcuni principi ancorati alla tradizione e alla storia
del Moderno, poco inclini alle mode. Che hanno percepito, nell’osservare i macroscopici errori del boom
edilizio in Ticino, gli errori di chi aveva perso i propri
riferimenti.
Il decennio inizia con un’opera che in modo emblematico rappresenta questa svolta. È un’architettura
per certi versi singolare, sicuramente irripetibile: il
bagno pubblico di Bellinzona di Aurelio Galfetti, Flora Ruchat e Ivo Trümpy. Singolare: perché non è un
edificio ma un percorso, una passerella alta sopra il
terreno della città, la cui genialità (e semplicità) concettuale nel rapporto tra architettura e luogo è uno
schiaffo al disordine urbanistico di quegli anni. Esemplare: perché il tradurre il concetto progettuale in una
struttura elementare, in solo cemento armato, è uno
schiaffo contro la tanta insulsaggine dell’architettura
di allora. Il bagno-passerella ha un valore di manifesto
della «nuova» architettura dei giovani di allora.
Poi in successione nel volgere di pochi anni sorgono
numerosi edifici di grande qualità, possibili risposte
a quei temi dibattuti soprattutto in Italia: se il bagno
pubblico di Bellinzona di Galfetti, Ruchat e Trümpy
travalica il tema ludico del bagno per assumere quello di matrice urbanistica, la Banca della Svizzera Italiana (1970) nel centro storico di Lugano e la villa a
Riva San Vitale (1973) di Giancarlo Durisch costituiscono le risposte al rapporto tra valori storici e valori
contemporanei; le case per appartamenti (1972) a
Bellinzona di Roberto Bianconi dimostrano quanta
buona architettura si può realizzare nel tema dell’abi-
Foto Paolo Fumagalli
Il Ticino e gli anni Settanta
2. Giancarlo Durisch, Banca della Svizzera Italiana a Lugano, 1970
3. Rober to Bianconi, case d’appar tamenti a Bellinzona, 1972
4. Livio Vacchini e Alber to Tibilet ti, Centro Macconi a Lugano, 1976
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TITA CARLONI
tazione collettiva; l’edificio Macconi (1976) di Livio
Vacchini e Alberto Tibiletti è una risposta esemplare
al tema del rapporto tra architettura e città, o se si
vuole del valore urbano dell’edificio; la casa unifamiliare a Riva San Vitale (1973) e la scuola media di
Morbio (1976) di Mario Botta affermano i valori del
costruito per dare valore al paesaggio, così come analogamente fanno Ivano Gianola con la scuola materna di Balerna (1974), Luigi Snozzi con casa Kalmann
a Brione (1976), Mario Campi e Franco Pessina con
villa Felder a Lugano (1978). Poi Bruno Reichlin e Fabio Reinhart: che nella casa Tonini a Torricella (1974)
sviluppano i temi dei fondamenti e delle regole e dei
riferimenti storici.
Questa successione di architetture troverà la sua consacrazione a livello svizzero e internazionale nell’esposizione tenutasi al Politecnico di Zurigo nel 1975,
Tendenzen. Neuere Architektur im Tessin.5 Il catalogo che
accompagna la mostra di Zurigo6 si apre con due testi
introduttivi. Martin Steinmann sottolinea che proprio i progetti esposti nella mostra attestano «...che
l’architettura è una disciplina retta da proprie leggi
interne, in altre parole è autonoma ... ed è il denominatore comune di questi architetti».7 Heinz Ronner
nel suo saggio8 mette in evidenza l’importanza del
fondale che sta alle spalle di questi giovani, Rino
Tami con la sua personalità e la sua architettura, Alberto Camenzind come «ponte» verso la Svizzera tedesca e francese e come professore al Politecnico di
Zurigo, Dolf Schnebli come professore al Politecnico
di Zurigo e maestro del cemento armato.
Un architetto viene sempre se non dimenticato almeno trascurato: Peppo Brivio. Certo, nella mostra di
Zurigo appaiono due sue opere, ma in realtà il suo
influsso sui giovani in Ticino è stato importante. Non
solo perché tra i Cinquanta e i Sessanta ha realizzato
architetture straordinarie,9 ma anche perché Brivio
ha collaborato con Franco Ponti (quartiere a Ravecchia, Bellinzona, del 1950), con René Pedrazzini
(1949-1956), con Rino Tami (1953-1956) e negli anni
1963 e 1964 con lo studio A.A. di Milano di Gregotti,
Meneghetti, Stoppino, con i quali in particolare ha
collaborato alla realizzazione della Sezione Internazionale della XIII Triennale di Milano. E molti giovani hanno lavorato nel suo studio, tra cui Luigi Snozzi,
Mario Campi e Tita Carloni.
Questa esposizione a Zurigo dedicata all’architettura in Ticino e l’approfondimento anche teorico
che l’accompagna mette quindi in primo piano un
gruppo di progettisti che la critica vorrà poi inquadrare sotto l’etichetta di Scuola ticinese, un modo
forse improprio per indicare non tanto una scuola
nel senso stretto del termine, né un’identica impronta dal punto di vista formale, ma piuttosto un
analogo impegno nel fondare e motivare il lavoro
progettuale e per l’attenzione verso un tema allora
emergente, quello verso il territorio.
Tita Carloni e la Casa del Popolo
Nel catalogo della mostra di Zurigo la Casa del Popolo è pubblicata a pagina 22. È un edificio che rappresenta un punto di svolta nell’architettura di Carloni, è
differente dai suoi lavori precedenti, altri sembrano
esserne i riferimenti. Infatti, Carloni aveva sempre
trovato nell’architettura organica i propri modi
compositivi e formali, e su tali principi aveva fondato
il suo modo di proporsi verso il contesto, verso il paesaggio. È vero che i suoi riferimenti non sono mai
espliciti, non vi sono edifici che richiamano quelli di
Frank Lloyd Wright o di Alvar Aalto, ma è verso l’organico che comunque va inteso il suo proporsi nel
contesto, la continuità spaziale tra l’interno dell’edificio e l’esterno, i concetti tipologici, le scelte dei materiali costruttivi. Lo dimostrano i tre tetti triangolari
cadenzati lungo il pendio della collina di Rovio della
casa di vacanza (1957), la compatta muratura in mattoni dentro il bosco di Gentilino della casa-atelier Doberzanski (1966), i lunghi tetti spioventi ad abbracciare
il paesaggio delle ville Perucchi a Arosio (1971) e Gerosa a Rancate (1971). Non solo ville: l’organicità della
sua architettura – nell’accezione intesa da Carloni – appare anche in temi di maggior respiro, in primo luogo
nel progetto «Art de vivre-Joie de vivre» per l’Expo ’64
a Losanna, poi nell’impianto stellare dell’Albergo Arizona a Lugano (1957) – oggi malamente trasformato
in casa per appartamenti – o ancora nell’edificio in
mattoni a vista degli appartamenti e albergo Milano a
Mendrisio, il cui progetto iniziò nel 1969.
La Casa del Popolo è invece un’architettura diversa.
Rispetto ai lavori precedenti è l’atteggiamento verso
il contesto, è la composizione volumetrica, sono le
scelte formali a essere differenti. Qui non ci troviamo
sulle amene colline di Rovio o dentro il bosco di Gentilino, davanti non si aprono grandi spazi verdi o
amene viste verso un paesaggio agreste, ma siamo
dentro la città. Dentro la città degli anni Sessanta, in
una strada dalle forti connotazioni urbane. Come
fare a riferirsi all’architettura organica, quando mancano chiari riferimenti paesaggistici nei quali «immergere» l’architettura e quando sono assenti luoghi
naturali con i quali sia possibile stabilire relazioni
spaziali? Qui la città propone un altro paesaggio, è
quello urbano di una strada larga e trafficata, cadenzata da una serie di nuovi edifici dall’architettura
«dura», in parte già realizzati e in parte di prossima
realizzazione, strada con una spazialità e qualità condizionata dalla loro buona o cattiva qualità.
Nel già citato catalogo della mostra Tendenzen – Neuere Architektur im Tessin lo stesso Carloni a scrivere della
necessità di nuove scelte progettuali. Nel testo da lui
scritto Notizen zu einer Berufschronik si può leggere: «I
vecchi schemi wrightiani erano superati … era necessario ricominciare dal basso: edifici abitativi, scuole,
piccoli restauri didattici, partecipazione a concorsi
come occasione per analizzare e rivedere criticamen-
60
TITA CARLONI
te contenuti e forme dell’architettura. Nel frattempo
il dibattito culturale in Italia, l’impegno politico e le
profonde discussioni con alcuni intellettuali locali,
come Virgilio Gilardoni, avevano portato sul nostro
tavolo da disegno i libri di storia e l’esigenza di rileggere criticamente l’evoluzione del Moderno, soprattutto quello degli anni ’20 e ’30».
Per progettare nella situazione fortemente urbana di
via Balestra a Lugano, Carloni abbandona i precedenti riferimenti, non scinde il volume architettonico
in parti diverse per rispondere in modo organico ai
quesiti del luogo, ma abbraccia una soluzione per certi versi radicale e propone un’architettura massiccia e
compatta. Certo, la sua sensibilità non è nel realizzare
un parallelepipedo dalla pura geometria, vi traspare
comunque una vena espressionista, riferimenti all’architettura nordica e, perché no, ricordi anche lontani
di un certo costruttivismo russo. Ma la sua volontà è
segnare questo luogo urbano, non «sciogliersi» in
esso come nell’organico, ma al contrario comporlo,
solidificarlo. È questa la sua risposta architettonica.
Carloni insomma con la Casa del Popolo si associa,
pur con la sensibilità che gli è propria, alle posizioni
dei suoi colleghi. Ma rimarrà però sempre su posizioni critiche, perché in lui è sempre presente una certa
componente utopica, una tensione verso l’etica. Ancora di recente, in una lettera del 14 aprile 2009, mi
scrive che «... quelli della mia generazione non sono
stati capaci di avere, insieme (sottolineato nel testo),
una posizione più critica e più pubblica. Ci sono lavori dignitosi, è vero, ma sono generalmente isolati, non
fanno un “corpo civile” complessivo». Dal ’68 in poi il
suo impegno, più che nella progettazione, sarà nella
politica e nell’insegnamento – all’Università di Ginevra – e fino alla sua morte per l’architettura e la collettività, nella denuncia e la difesa del territorio, del
paesaggio. Per questi motivi rimane sempre attuale
ciò che scrive, nel suo testo già citato del catalogo della mostra a Zurigo: «In noi è radicata la convinzione
che un’architettura diversa deve passare attraverso
una trasformazione profonda dei rapporti economici
e sociali; che il riscatto del territorio nei suoi valori
d’uso e nei suoi valori formali non può avvenire se
non attraverso un diverso controllo politico del territorio stesso. Anche l’architettura, e più in generale la
cultura hanno un ruolo da assumere in questa trasformazione. Quello di prefigurare, magari attraverso piccoli e parziali frammenti, un rapporto alternativo tra società e architettura: una casa diversa, una
scuola diversa, un disegno diverso della natura e del
mondo di forme e di oggetti che ci circondano e ci
alienano».
Note
1. Il gruppo che si occupava dell’Ospedale di Mendrisio
era composto da Jean Pierre Dresco, Aldo Menghetti,
Liano Aliverti, Lorenzo Denti.
2. Poco dopo la mia partenza, nel 1966 o 1967, il mandato
di progettazione fu revocato dal Cantone.
3. Occorre ricordare che allora «Rivista Tecnica» era
pubblicata con una cadenza quindicinale, alternando un
numero dedicato all’architettura con uno sull’ingegneria.
4. Architettura Razionale, XV Triennale di Milano –
Sezione Internazionale di Architettura, Franco Angeli Editore,
Milano 1973.
5. La mostra al Politecnico di Zurigo ebbe luogo tra il 20
novembre e il 13 dicembre 1975 nell’atrio dell’edificio
centrale, organizzata dalla ethz Organisationsstelle für
Ausstellungen des Institutes gta, diretta e coordinata da
Heinz Ronner e Thomas Boga, il concetto è di Martin
Steinmann. Vi vengono esposte opere di Roberto Bianconi,
Tino Bomio, Mario Botta, Peppo Brivio, Bruno Brocchi,
Mario Campi, Tita Carloni, Collettivo di progettazione 2,
Giancarlo Durisch, Aurelio Galfetti, Ivano Gianola, Marco
Krähenbühl, Franco Pessina, Niki Piazzoli, Bruno Reichlin,
Fabio Reinhart, Flora Ruchat, DoIf Schnebli, Luigi Snozzi,
Ivo Trümpy, Livio Vacchini.
6. Martin Steinmann e Thomas Boga (Hrsg.), Tendenzen.
Neuere Architektur im Tessin, eth, Zurich 1975.
Institut für Geschichte und Theorie der Architektur (gta),
Organisationsstelle für Ausstellungen der Architekturabteilung.
7. In: Wirklichkeit als Geschichte. Stichworte zu
einem Geschpräch über Realismus in der Architektur
8. In: Zur Lage der Architektur im Tessin.
9. In particolare si ricordano, tra le sue diverse opere, la
stazione di partenza della funivia per Cardada a Orselina
(1952), oggi demolita, le case d’appartamenti Albairone
(1956) e Cate (1957) a Massagno, le ville Corinna a Morbio
Superiore (1963) e la villa a Vacallo (1963).
Die Casa del Popolo und das Tessin der Siebzigerjahre
Gegen Ende der Sechzigerjahre führte das Wachstum der Nachkriegszeit in Europa im Tessin und insbesondere in Lugano zu einem starken
Wirtschaftsaufschwung und zu einem Immobilienboom. Alte Häuser
im historischen Stadtzentrum wurden abgerissen, am Stadtrand entstanden neue Wohnungen zu Spekulationszwecken. Im wachsenden
urbanistischen Chaos wurden banale Bauwerke schlechter Qualität
errichtet. Dieses Schicksal hatte Lugano mit vielen anderen europäischen Städten gemein. Ab 1965 entwickelte sich insbesondere in Italien
eine von Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Manfredo Tafuri und Giorgio
Grassi angestossene Debatte, in der die Rationalität des Entwurfs und
die Orientierung an soliden theoretischen Prinzipien betont wurden.
Im Tessin fand das Echo dieser Debatte Ausdruck in konkreten Bauwerken. Die Siebzigerjahre begannen mit einem Bauwerk, das diese
Wende ausdrucksvoll darstellt, das von Galfetti, Ruchat und Trümpy
geplante Freibad von Bellinzona. Darauf folgten zahlreiche hochwertige Gebäude von Giancarlo Durisch, Roberto Bianconi, Livio Vacchini, Mario Botta, Ivano Gianola, Luigi Snozzi, Mario Campi und
Franco Pessina, Bruno Reichlin und Fabio Reinhart. Ihre Bauwerke
wurden 1975 durch die Ausstellung «Tendenzen – Neuere Architektur im Tessin» im Züricher Polytechnikum legitimiert. Auch Tita
Carloni beteiligte sich an dieser Debatte, nicht nur mit der Casa del
Popolo in Lugano, sondern auch in Artikeln und öffentlichen Beiträgen, denn, so meinte er, man musste «eine alternative Beziehung zwischen Gesellschaft und Architektur gestalten, andere Häuser, andere
Schulen, eine andere Darstellung der Natur und der Welt der Formen
und Objekte, die uns umgeben und uns entfremden».
61
Foto Marcelo Villada Or tiz
TITA CARLONI
Mercedes Daguerre
Graziella Zannone Milan
Resoconto dell’iter progettuale
Dagli schizzi di studio al progetto definitivo
della Casa del Popolo (1962-1971)
Il primo studio di Tita Carloni per l’Organizzazione
Cristiano Sociale Ticinese di Lugano è datato 25 luglio 1962, ed riassunto in una unica tavola (i cui
estratti sono riprodotti a fianco), disegnata a mano
libera, con una planimetria generale del lotto, le
piante ai vari livelli in scala 1:500 e uno schizzo prospettico. A questi si accompagnano una serie di riflessioni preliminari manoscritte, riportate a lato.
Come risulta dalle considerazioni conclusive di
Carloni sono ancora diverse le questioni da risolvere,
ma il progetto è abbozzato e le principali dissomiglianze con quello realizzato 7 anni dopo sono: gli
accessi che si sviluppano tutt’attorno all’edificio, la
compresenza ai vari livelli di camere d’albergo e uffici, e il primo piano interrato occupato da una sala
per 150 posti. Al fine di sfruttare in modo razionale
il lotto di forma irregolare Carloni propone in pianta due rettangoli con un incastro angolare, che danno origine a due aree con diversa funzione: quella
alberghiera e quella dedicata all’amministrazione
dell’ocst. Tra maggio e luglio del 1963, viene presentato un secondo progetto sempre in scala 1:500, anche
in questo caso i disegni sono eseguiti a mano libera, la
pianta è caratterizzata da un edificio trapezoidale i cui
lati sono paralleli a quelli lunghi del lotto, con due scale
circolari alle estremità. In questa soluzione intermedia
Carloni esplora la possibilità di svincolare l’edificio dal
contesto urbano arretrando rispetto all’allineamento
di via Balestra. L’immobile viene enfatizzato dai due
semicilindri posti sui fronti. In sezione appare per la
prima volta un livello ammezzato destinato a una sala
da pranzo riservata, che si affaccia sul piano terreno
occupato da bar e ristorante. La pianta del piano tipo,
così come è stata disegnata, prevede 8 camere con bagno per i cinque livelli superiori. Il progetto va avanti e
siamo al 1966 quando viene presentato, in scala 1:200,
con una nuova proposta nella quale il volume ritorna
ad allinearsi sul fronte stradale, il lungo parallelepipedo è parallelo al confine a est con i blocchi delle
scale che si configurano come torri a sé stanti staccate dal resto. Il piani interrati si riducono a un solo livello, al piano terreno ritroviamo il ristorante, mentre al primo piano prendono posto salette di diverse
dimensioni per conferenze. I piani secondo, terzo e
quarto, sono destinati a uso ufficio, mentre le camere
dell’hotel occupano il quinto e sesto piano.
Il progetto definitivo viene presentato per la domanda
di costruzione nel febbraio del 1969, l’impostazione di
base è la stessa del progetto del 1966. I corpi scale però
sono integrati nel volume principale che risulta scavato nell’area occupata dagli uffici, come si evince molto
bene dalla prospettiva che accompagna la presentazione del progetto e dove viene esplorata l’opzione del rivestimento, che poi in fase esecutiva lascerà il posto
all’intonaco. Il piano terreno mantiene la forma trapezoidale allineandosi con il confine del terreno e dando luogo ad una zona di ricezione, bar e ristorante più
articolata rispetto alle precedenti versioni.
Il presente schema è orientativo.
Tut ti i problemi devono essere ulteriormente analizzati
in scala mag giore.
Relazione.
1. Programma
2° cantinato: cantine-rifugi per albergo, cantine-rifugi
per uf fici, posteg gio per 10/13 vet ture, locale riscaldamentoelet trici-ventilazione
1° cantinato: salone per ca. 150 posti (seminterrato),
of fice per banchet ti, eventuale piccolo podio (palco),
casina per cinema-rip. sedie, wc per spet tatori
Piano terreno: ristorante-bar per ca. 120 posti, cucina,
of fice, entrata albergo, entrata uf fici
Piano tipo: corpo anteriore: 5 uf fici (ca. mq 16), grande
corridoio d’at tesa, wc per impiegati e pubblico corpo
posteriore: 5 camere (ca. mq 14) di cui, 4 con wc-bagno,
1 senza wc-bagno, of fice per il ser vizio sui piani e pulizia
Per 4 piani si ottengono: 20 uffici, 20 camere a 2 letti (= 40 letti)
Sul tetto: lavanderia-stireria, deposito biancheria,
ser vizi diversi, impianti di ventilazione
2. Cubatura + costo approssimativo
Totale cubatura: mc. 16’165
Costo approssimativo: mc. 16’165 a fr. 200/mc = fr. 3’233’000
3. Punti da chiarire
a) Livello dell’acqua del sot tosuolo
(fiume Cassarate e Lago di Lugano)
b) Permesso per salone al 1° cantinato
Questione delle uscite di soccorso
c) Ret tifiche dei confini. Senza tali ret tifiche il fondo non è
edificabile.
d) Calcolazione persone per i rifugi antiaerei.
Se saranno conteg giati interamente i posti del ristorante e
del salone bisognerà sacrificare i posteg gi al 2° cantinato.
Tale area sarà appena suf ficiente per i rifugi.
e) Permesso per un corpo arretrato sul tet to con lavanderiastireria-ecc. senza tale corpo non c’è altrove spazio per
questi ser vizi.
Übersicht zum Planungsablauf
Von den ersten Entwurfskizzen zum endgültigen Projekt – die Originalzeichnungen aus dem Archiv des Studio Carloni in Rovio liefern
Einblicke in die Überarbeitungen und alternativen Lösungen in der
Genealogie des OCST-Projekts, das im Jahr 1962 begonnen und 1971
abgeschlossen wurde.
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TITA CARLONI
Schema di edificazione luglio 1962, scala 1:500
Planimetria generale
Disegno prospet tico
Pianta primo, secondo, terzo e quar to piano
Pianta piano terra
Pianta primo piano interrato
Sezione trasversale
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TITA CARLONI
Proposta preliminare maggio-luglio 1963, scala 1:500
Pianta piano tipo
Pianta piano ammezzato
Pianta piano terra
Sezione trasversale
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TITA CARLONI
Pianta secondo piano interrato
Pianta primo piano interrato
Vista sud-ovest del plastico del proget to definitivo
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TITA CARLONI
Proposta preliminare aprile 1966, scala 1:200
Pianta quinto, sesto piano, albergo
Pianta secondo, terzo e quar to piano, uf fici
Pianta piano interrato, posteg gi e ser vizi
Sezione trasversale
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TITA CARLONI
Pianta primo piano, sala conferenze
Pianta piano terra, ristorante
Viste sud e nord del plastico del proget to definitivo
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TITA CARLONI
Domanda di costruzione 1967-1969, scala 1:100
Pianta primo piano
Pianta piano terra
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Prospet tiva febbraio 1969
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TITA CARLONI
Progetto definitivo 1969-71, scala 1:200
Planimetria generale 1:1000
Pianta primo, secondo, terzo, quar to, uf fici
Pianta quinto, sesto piano, albergo
Pianta piano terra, ristorante
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TITA CARLONI
Prospet to nord
Prospet to est
Prospet to sud
Prospet to ovest
Sezione trasversale
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TITA CARLONI
Le foto d’epoca che intercalano i disegni
sono di Alfredo Finzi
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Franz Graf*
L’architettura
e la costruzione
Ghiaia
Impermeabilizzazione
Isolamento
L’edificio si erge perpendicolare alla strada principale e termina in aggetto ai piani superiori per permettere un miglior
utilizzo delle superfici e dei volumi, nel rispetto delle norme
edilizie vigenti. I muri portanti esterni sono in «Beton» rivestiti da intonaco plastico di colore rosso scuro. Il linguaggio
impiegato – formulazione rigorosa di un volume geometrico
strutturato da sbalzi graduali e dalla disposizione ripetitiva
delle finestre – stabilisce un ponte con il pensiero del «Neues
Bauen». Testo liberamente tratto e tradotto da «Das
Werk», n.1, 1972.
I disegni di dettaglio, le assonometrie e i modelli
costruttivi, elaborati dagli studenti di secondo anno
dell’Accademia di architettura di Mendrisio nell’ambito del corso «Sistemi e processi della costruzione»,
mettono esplicitamente in luce il sistema costruttivo
dell’edificio e la relazione che intercorre tra architettura e costruzione. (L’analisi costruttiva come strumento didattico è stata decritta per esteso in Archi,
n. 3, 2012 e su
).
Betoncino
Calcestruzzo armato
Intonaco interno
Intonaco esterno
Mattoni
Isolamento
Calcestruzzo armato
Linoleum
Betoncino
Isolante
Calcestruzzo armato
Intonaco interno
* professore ordinario di Costruzione e Tecnologia all’aam
Lastre di cemento
Sabbia
Impermeabilizzazione
Isolamento
Betoncino
Calcestruzzo armato
Naomi Guastini, Louise Gueissaz
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TITA CARLONI
Naomi Guastini, Louise Gueissaz
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Pianta quinto, sesto piano, albergo
Pianta primo, secondo, terzo, quar to piano, uf fici
Vista parziale, fronte ovest
Eleonora Sbrissa, Claudia Soricelli
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Eleonora Sbrissa, Claudia Soricelli
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TITA CARLONI
Apparati
Case del Popolo: avanguardie politiche
e tradizione costruttiva*
Tita Carloni
Nel mio paese, che è anche quello di Mario Scascighini, l’emigrazione ha rappresentato per molti secoli
una costante, o meglio una necessità, e si è interrotta
definitivamente soltanto negli anni ’50 -’60.
Quando un operaio ticinese arrivava per la prima volta in una città transalpina, negli anni ’20 o ’30, trovava sovente il suo primo alloggio, forse il suo primo
vero bagno, e nuovi compagni nella Casa del Popolo,
significativamente «... à trois minutes de la gare».
Il fatto è rilevante perché al di là degli aspetti strettamente logistici nella Casa del Popolo il nostro emigrante avrebbe finito presto o tardi per cambiare addirittura coscienza (politica s’intende).
Egli vi incontrava forme di cultura e di solidarietà
che gli erano il più delle volte sconosciute e che non
avevano mai fatto parte della vita e del mondo dei
suoi secolari predecessori.
La nuova solidarietà era soprattutto una solidarietà di
classe, che non teneva gran conto della provenienza
del nuovo arrivato e pur non facendo riferimento
esplicito a valenze «internazionaliste» lasciava comunque intendere l’esistenza di valori generali e sopranazionali, legati in primo luogo alla condizione operaia.
Gli emigranti più antichi, quelli del ’700 e dell’800
avevano conosciuto altre forme di mutuo sostegno.
Chi arrivava nella città sconosciuta, Praga o Torino o
Salisburgo o ... , trovava appoggio presso i compaesani (solidarietà d’origine), presso gente dello stesso
mestiere (solidarietà di corporazione) o presso i
«confratelli» (solidarietà d’ispirazione religiosa tra
gli appartenenti a una stessa «società» devozionale).
La vicenda ticinese, per piccola che sia, è assai
significativa del passaggio dalle forme antiche di mutuo soccorso corporativo a quelle moderne della solidarietà operaia, fondate sulla presa di coscienza politica della classe lavoratrice in sé e «per sé» e sul
superamento dello spirito di campanile.
Il Ticino è una di quelle contrade svizzere ed europee
che hanno fornito tra il 1850 e il 1950 una quantità
impressionante, se rapportata alla popolazione locale, di forza lavoro trasmigrante dalle campagne povere e senza futuro verso i grandi centri industriali in
forte crescita dell’Italia settentrionale prima e della
Svizzera tedesca e romanda dopo.
Nessuno ha mai scritto sinora, neanche nell’anno del
settecentesimo fasullo, la storia di questa umile epopea.
Il libro di Mario Scascighini, trattando specificamen-
te degli edifici della Casa del Popolo, ne descrive in
certo qual modo il quadro ideologico e ambientale.
È proprio in questo quadro che si mossero umanamente e politicamente innumerevoli figure rimaste
anonime di lavoratori e di militanti come quelle nascoste dietro le misteriose iniziali E.S. e M.T. poste in
epigrafe al testo.
Non sarà certo irriverente rivelare che E.S. è Ernesto
Scascighini, scalpellino, e M.T. Mario Terzi, piastrellista, ai quali l ’autore ha voluto dedicare, con commossa gratitudine, la sua fatica.
Il terzo personaggio nascosto è Arthur Villard. Tutti
coloro che vissero le lotte politiche e sociali degli anni
’50 e ’60 come l’emigrato a Bienne Mario Scascighini
lo ricordano con affetto ed ammirazione.
Ma torniamo appunto alle Case del Popolo e alla loro
architettura.
In fondo questi edifici avrebbero potuto diventare il
luogo deputato per la nascita di uno stile «operaio»,
di un’estetica antitetica rispetto a quella borghese.
In realtà se osserviamo le Case del Popolo costruite
nei maggiori paesi europei e in Svizzera constatiamo
che la forma, in pianta e in elevazione, deve molto
dapprima agli stilemi dell’Art Nouveau e del Liberty
(e non solo in Belgio), poi di un certo espressionismo
simbolista, e, nell’insieme, alle manifestazioni moderate del cosiddetto Movimento moderno.
Il termine «moderato» non è da intendere qui secondo la comune accezione politica.
Esso si riferisce piuttosto ai caratteri costruttivi e formali degli edifici.
Dunque mi piacerebbe porre il problema della forma
delle Case del Popolo sotto due aspetti: quello del
rapporto con le avanguardie artistiche e quello di
un’eventuale estetica di classe.
Io credo che le avanguardie artistiche, dai futuristi in
su, abbiano rappresentato le punte avanzate di una cultura essenzialmente borghese, o per lo meno elitaria,
informata a volte dall’ideologia dell’artista come essere
d’eccezione non organico rispetto alla società nel suo
insieme e tantomeno a una classe specifica, a volte da
illuminate velleità riformistiche, tra il paternalistico e il
demiurgico, vicine al massimo alle idee socialdemocratiche del patto sociale al di sopra delle classi.
Dentro questo ambito culturale sono nati i prodotti
dell’astrattismo e del purismo figurativo e architettonico, sovente piuttosto deboli sul piano tecnico e costruttivo, sostanzialmente lontani dalle aspirazioni, dal gusto, e, occorre dirlo, anche dalla corretta
interpretazione dei veri bisogni delle classi popolari.
Gli operai che promossero e costruirono le Case del
82
TITA CARLONI
Popolo possedevano, oltre a una coscienza politica,
anche una forte coscienza del valore del lavoro.
Essi avevano ereditato in certo qual modo dagli antichi artigiani quella cosa indefinibile che andava sotto
il nome di «virtù» e che comprendeva il saper far
bene il proprio mestiere, il fare economia di mezzi, di
forze, di materiali, l’alto rispetto della competenza e
dell’esperienza, l’amore per le forme espressive, parlanti, simboliche se si vuole, di una certa tradizione
figurativa, e tant’altro ancora.
Non v’è dunque da meravigliarsi che non trovassero
grande credito presso i costruttori delle Case del Popolo né le bolsaggini accademiche della cultura borghese ufficiale né le sperimentazioni formali di talune avanguardie architettoniche (i puristi, i razionalisti
astratti).
Ne fanno fede i risultati dei concorsi che si svolsero in
Svizzera, i nomi degli architetti premiati e talune realizzazioni principali.
Come il bel progetto di Hermann Baur per la Casa
del Popolo di Basilea, il celebre Volkshaus di Berna di
O. Ingold, di cui non rimane purtroppo che la facciata o la recentemente rinnovata Maison du Peuple di
Bienne dell’architetto E. Lanz, tesa tra una modernità un po’ espressionistica e modi costruttivi solidi,
massicci, per certi versi ancora tradizionali.
Bisogna dunque dar atto a quei costruttori di aver saputo trovare una robusta sintesi tra taluni valori della
tradizione del lavoro, propria della classe operaia di
allora, e la modernità di un tema che si presentava per
la prima volta nella storia delle città industriali: la casa
del popolo, un edificio destinato ad essere, nello stesso
tempo, luogo di incontro, di divertimento, di formazione, di organizzazione politica, di alloggio, di passaggio, di cura dell’igiene personale, di festa e di lotta.
Altrove, nella patria della rivoluzione, i tentativi di rispondere ai bisogni nuovi della classe operaia con le
formule dell’avanguardia artistica (certa parte del costruttivismo russo) o con l’imitazione sciocca della
tradizione accademica (l’architettura dello stalinismo)
avevano portato a fallimenti diversi e pur simmetrici
per ciò che concerneva l’appropriazione materiale e
morale dei nuovi edifici da parte della classe cui erano destinati.
Anche se, non senza un certo cinismo, Giuseppe Stalin aveva detto pressapoco: «Il popolo vuole pizzi e
merletti? Diamoglieli! Tanto tra dieci anni demoliremo tutto».
La storia ci mostrò in seguito che, purtroppo, non fu
demolito un bel niente.
A questo punto siamo ormai entrati nel tema dell’esistenza o meno di un’estetica di classe, antitetica rispetto all’estetica cosiddetta dominante, prodotto
della classe dominante, tanto per usare termini che
sono divenuti ormai desueti.
Se osserviamo l’architettura delle Case del Popolo
non possiamo identificare uno stile «operaio» da op-
porre allo stile dominante. In generale questi edifici
appaiono integrati nel gusto dell’epoca, talora addirittura con una certa prudenza e sobrietà.
Non si tratta praticamente mai di un’estetica di rottura.
Anche nel caso maggiore, e si potrebbe dire esemplare per tutta l’Europa, come la Maison du Peuple di
Bruxelles, Victor Horta impagina il bel palazzo ricorrendo agli stilemi dell’Art Nouveau, arte adottata sia
pure con declinazioni più molli, talora addirittura
sfatte, in tutti i salotti alla moda dell’epoca.
Semmai si potrebbe dire che nella Maison du Peuple
Victor Horta, uno dei più grandi architetti europei
del momento, sfrutta fino in fondo il nuovo tema postogli per raggiungere con grande rigore compositivo
e onestà intellettuale livelli elevati nell’esercizio della
sua arte.
Ciò dovrebbe spingere a un’ipotesi diversa da quella
che intravvedeva la possibile nascita automatica di
un’estetica di classe nel solco della presa di coscienza
e dell’organizzazione autonoma della classe operaia.
E l’ipotesi potrebbe essere questa: in taluni momenti
progressivi della storia le forze sociali e culturali migliori (classi, gruppi, individui) trovano momenti
d’incontro e di cooperazione che si fondano sulla
bontà dello scopo, su un comune slancio ideologico,
sull’esercizio appassionato delle proprie capacità intellettuali e pratiche… in una parola su una specie di
comunione operativa il cui cemento è dell’ordine
dell’etica.
Una simile ipotesi potrebbe essere più fruttuosa per la
lettura storica di taluni momenti di trasformazione
delle città e dell’architettura, di molti assunti teorici
(ideologici) di parte destra o sinistra, che in realtà offuscano i processi reali del lavoro sociale e individuale.
Penso che lo studio di Mario Scascighini, se preso per
il verso giusto, possa essere utile a tutti çoloro che si
proponessero di riscrivere un po’ di storia dell’architettura evitando i luoghi comuni del tipo «l’Archittetura e la Città al servizio dell’Uomo» (A, C e U maiuscole, mi raccomando) oppure «gli architetti sono
tutti imbecilli, dimenticano sempre le scale» (a, i, s,
minuscole, naturalmente).
Forse che per scrivere alcuni tratti di questa storia occorra essere un po’ meno Architetti e un po’ più cittadini comuni, come il nostro autore?
Mi permetto in ogni caso di raccomandare vivamente la lettura del suo lavoro.
* Testo originale inedito in italiano e datato dall’autore
9 agosto 1991. Pubblicato in francese (Maisons du Peuple:
avant-garde politique et tradition du métier) come prefazione
al volume di Mario Scascighini, La Maison du People:
e temps d’un edifice de classe, Presses polytechniques et
universitaires romandes, Lausanne 1991. Fonte: Archivio
Piero Conconi, Lugano.
83
TITA CARLONI
Biografia
Paolo Fumagalli
Tita Carloni (1931-2012) nasce a Rovio il 24 giugno
del 1931. Figlio di Taddeo e di Elvezia Piffaretti, conosce i rudimenti del disegno e la cultura del costruire
dal padre Taddeo, pittore e insegnante alla Scuola
dei pittori di Lugano. Nel 1950 inizia gli studi di architettura al Politecnico di Zurigo, svolge periodi di
pratica presso gli architetti Rino Tami a Lugano,
Peppo Brivio a Locarno e Boileau et Bourdette a Parigi, e ottiene il diploma di architetto nel 1954. Terminati gli studi, Carloni resta a Zurigo e apre un piccolo
studio in associazione con gli architetti Jean Pythoud,
Alex Huber, Rico Christ e Jacques Henry. Dopo alcuni progetti e concorsi senza esito, rientra in Ticino e
apre nel 1956 uno studio a Lugano, con Luigi Camenisch. Da questa collaborazione, che durerà cinque
anni, scaturiscono le prime opere, tra cui in particolare Casa Balmelli a Rovio (1957), l’Albergo Arizona a
Lugano (1957), Palazzo Bianchi a Lugano (1960). Sin
da questi primi progetti si evidenzia come per Carloni
non è tanto la coerenza di linguaggio che interessa,
ma piuttosto quanto di specifico propone il tema progettuale, e fondamentale è la ricerca della corretta soluzione per quel tema e per quel luogo. Carloni privilegia l’attenzione per il contesto in cui l’edifico va a
inserirsi, l’interesse per i fatti strutturali e costruttivi,
la scelta dei materiali e l’elaborazione dei dettagli,
nonché la ricerca, per ogni quesito architettonico,
dell’adeguata risposta funzionale. È da questi concetti
e criteri che deriva il suo interesse per i due aspetti,
apparentemente contraddittori, del razionale e dell’organico. Il razionale quale disciplina di lavoro: ma sempre stemperato dall’organico, che significa attenzione
per le valenze dei materiali costruttivi e per gli imperativi geografici, che hanno la forza di correggere il
rigore della geometria iniziale. Quindi, non tanto Le
Corbusier ma Wright, o piuttosto Alvar Aalto.
Dal 1961 al 1964 Tita Carloni apre un ufficio anche a
Losanna, chiamato a partecipare al progetto dell’Esposizione Nazionale Svizzera – di cui Alberto Camenzind era il direttore capo-architetto. A Max Bill e
a Carloni fu affidato il progetto del settore Art de vivre-Joie de vivre, un compito che i due architetti affrontarono in modo autonomo. Se infatti Bill si occupò delle sezioni della scuola, delle arti e della
pianificazione, al giovane Carloni toccarono le altre,
come turismo, chiesa, moda, salute. Questa suddivisione tematica tra i due architetti comportò ovviamente architetture diverse tra loro, con Bill a prediligere metallo e vetro e Carloni il legno, con il quale
realizza geometrici volumi verticali che emergono
alle spalle di un lungo portico orizzontale che definisce una piazza centrale. Conclusa l’esperienza losannese, e terminata la collaborazione con Camenisch,
Carloni ha poi un intenso periodo di lavoro in Ticino
tra il 1965 e il 1968. Molte le opere realizzate, tra cui
Tita Carloni, aprile 1956. Fondo Tita Carloni, Fondazione
sono da ricordare le Case d’appartamenti in via Beltramina a Lugano (1965), la casa-atelier Dobrzanski a
Gentilino (1966), la Pinacoteca Züst a Rancate (1967),
la casa parrocchiale a Sorengo (1968), la casa Perucchi ad Arosio (1969). Ma questo intenso lavoro professionale si interrompe quasi bruscamente nel 1970,
quando Carloni aderisce al Partito Socialista Autonomo, nato da una spaccatura del Partito Socialista: un
impegno nel politico e nel sociale che Carloni vive
con intensa (e spesso polemica) partecipazione, e
comporterà il brusco diradarsi degli incarichi pubblici e privati. Certo, porta a termine e realizza ancora
alcune opere, in particolare la Casa del Popolo a Lugano (1971), l’istitituto otaf a Sorengo, in collaborazione con Luigi Snozzi e Livio Vacchini (1974), e il
Centro scolastico di Stabio (1974). Ma il periodo dei
grandi progetti è oramai tramontato. Carloni si impegna allora maggiormente nell’insegnamento alla
Scuola di architettura dell’Università di Ginevra, che
aveva già iniziato nel 1968 con l’incarico di professore di progetto e teoria. Un compito difficile, in una
scuola che pativa la concorrenza di Losanna, con
pochi mezzi finanziari e afflitta da una profonda
contestazione studentesca. Una situazione che
Carloni affrontò in prima persona e che riuscì anche
per un certo periodo a risolvere positivamente, assumendone la direzione dal 1976 al 1982. Ma la concorrenza con Losanna fu progressivamente insostenibile, e la scuola di Ginevra perse progressivamente
importanza fino a chiudere nel 1991. Questa attività
nell’insegnamento non gli impedisce comunque di
lavorare nel Ticino: nel 1973, e per la durata di cin-
84
A AT
TITA CARLONI
que anni, Carloni fonda i Collettivi di progettazione,
con Lorenzo Denti, Fosco Moretti e altri. Tra i lavori
di questo periodo sono le Case popolari Cereda a Balerna (1974), case a schiera con alloggi per i meno
abbienti. Dopo un breve periodo di associazione con
Fosco Moretti tra il 1978 e il 1981, Carloni apre in seguito uno studio proprio a Rovio. Tra gli ultimi lavori
è la Stazione di servizio Stalvedro lungo l’autostrada
ad Airolo (1987), in collaborazione con Roberto Nico-
li, nonché alcuni restauri di monumenti: chiese, campanili, edifici storici.
Importante rimane sempre la sua presenza nel mondo
della cultura architettonica del Cantone, con diversi
saggi e articoli e conferenze sulla divulgazione dell’architettura, sulla storia contemporanea, sui problemi
del territorio e del restauro, sull’identità di un Ticino
confrontato con la virulenza dei mutamenti in corso.
Tita Carloni muore a Mendrisio il 24 novembre 2012.
Opere principali*
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1956-57 Casa unifamiliare Balmelli, Rovio
1957 Casa unifamiliare, Pregassona
1957 Albergo Arizona, Lugano
1960 Palazzo Bianchi, Lugano
1963 Nuovo pr Centro storico, Bellinzona
(con Luigi Snozzi e Livio Vacchini)
1964 Padiglione Expo Nazionale
«Art de vivre- Joie de vivre», Losanna
1965 Case d’appartamenti via Beltramina,
Lugano
1966 Casa-atelier Dobrzanski, Gentilino
1967 Pinacoteca Züst, Rancate
1968 Restauro case parrocchiali, Sorengo
1969 Appartamenti e Garni Milano, Mendrisio
1970-71 Edificio ocst, Lugano
1971-74 Istituto otaf, Sorengo
(con Luigi Snozzi e Livio Vacchini)
1974 Centro scolastico scuole elementari, Stabio
1974 Case popolari, Balerna
(con Collettivo di progettazione 1)
1987 Stazione di servizio autostradale Stalvedro,
Airolo (con Roberto Nicoli)
1992 Trasformazione Palazzo City, Chiasso
1993 Restauro rovine Chiesa S. Giovanni
Battista, Gnosca (con Angelo Martella)
1994 Casa unifamiliare Cereghetti, Salorino
(con Roberto Nicoli)
1996-97 Facciata Chiesa Parrocchiale dei
Santi Vitale e Agata, Rovio
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1 20
* Il regesto completo di opere e progetti è consultabile nel sito della Fondazione Archivi Architetti
Ticinesi www.fondazioneaat.ch
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Foto Marcelo Villada Or tiz
Aziende che hanno partecipato alla realizzazione dei progetti
p. 37
p. 45
p. 24
Galleria d’arte Ghisla, Locarno
Residenza ai Faggi, Lugano-Pazzallo
Impresa di costruzione VERZEROLI E FIGLI SA;
Ronco sopra Ascona
Impianto elettrico e illuminazione MONDINI SA ELETTRIGILÀ;
Tegna
Impianto ascensore OTIS SA; Tegna
Impianto sanitario BOTTA & CO SA; Losone
Impianto specchio d’acqua LINEAPOOLS SA; Brissago
Perforazioni geotermiche STUMP FORATEC SA; Giubiasco
Impianto ventilazione CLIMA SA; Camorino
Opere da falegname FALEGNAMERIA MARTINOLI SA; Locarno
Opere da metalcostruttore GIUGNI SA; Locarno
Pavimenti in legno PEDRAZZI PAVIMENTI SA; Locarno
Pavimenti in pietra SUD NORD GRANITI SA; Giumaglio
Opere da carpentiere e lattoniere LAUBE SA; Losone
Opere in cartongesso CASSINA SA; Locarno
Intonaci LECCI ANTONIO SA; Giubiasco
p. 46
Ponteggi CONRAD KERN SA; Cresciano
Serramenti ALU PROJECT SA; Cadro
Scavo e impresa generale di costruzioni BARELLA SA; Chiasso
Porte interne e opere da falegname MOOSE SA; Stabio
Serramenti e rivestimenti di facciata KELLER METALLBAU
Separazioni cantiere BRAUN RAUM SYSTEME AG;
AG; Hergiswil
Emmenbrücke
Impermeabilizzazioni tetto BENICCHIO GIARDINI SA;
Sottofondi SPALU SA; Lugano
Lamone, STELIO CONCONI; Corteglia
Pavimenti in pietra naturale BILSA SA; Lugano
Impermeabilizzazioni terrazze SPALU SA; Lugano
Pavimenti in pietra artificiale GAFFURI GIOVANNI & CO SA;
Rivestimenti antincendio COIBENTAZIONI SA; Novazzano
Coldrerio
Isolamento di facciata DI.GE.CO AMM. SA; Porza
p. 28 Pavimenti in piastrelle GEHRI RIVESTIMENTI SA; Lugano
Opere da pittore esterne CANEPA NITO SA; Savosa
Pavimenti in legno GIOTTO SA; Manno
Lamelle e tende SCHENKER SA; Lugano
Opere da pittore interne CANEPA NITO SA; Savosa
Impianti elettrici ELECTRASIM SA; Lugano
Pulizia dell’edificio BLU SERVICE SA; Lugano
Impianti risc., vent., refrig. ALPIQ INTEC TICINO SA; Rivera,
Pavimentazione tecnico LINARREDO SA; Lugano, LAUDATO
POZZI SILVANO SA; Balerna, SEEWERF CAMINI SA; Mezzovico
B&L SA; Vacallo, MOOSE SA; Stabio
Impianti sanitari ALPIQ INTEC TICINO SA; Rivera
Costruzione giardini e pavimentazione SPALU SA; Lugano
Cucine EXPÒ ARREDO SA; Mendrisio
Costruzione giardini BENICCHIO GIARDINI SA; Lamone
Ascensori SCHINDLER ASCENSORI SA; Bioggio
Intonaci interni, opere da gessatore BAZZANA SA; Cadempino
Costruzione metalliche VITROCSA DESIGN SYSTEM SA;
Taverne, ELMIC Sagl; Paradiso, KELLER METALLBAU AG;
Hergiswil, RUTSCHI TICINO SA; Cadempino, ALU PROJECT SA;
La lista delle aziende è stata fornita dagli studi dei progettisti
Cadro
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Ugo Bassi SA
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Wettbewerbsausschreibung
1. Building-Award 2015
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Am 18. Juni 2015 wird im Kultur- und Kongresszentrum
Luzern erstmals der Building-Award verliehen. Bewertet
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Die besten Akteure und ihre Teams werden im würdigen
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Ausschreibungsunterlagen
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