ASSOCIAZIONE ITALIANA PER L’EDUCAZIONE DEMOGRAFICA Consiglio delle Donne del Comune di Bergamo “SPECCHIO DELLE MIE BRAME” Corpi pubblicitari tra inganno e desiderio Convegno 22 settembre 2012 in collaborazione con: Assessorato Politiche Sociali e Pari Opportunità – Università di Bergamo, Centro di Studi sui Linguaggi delle Identità (Centro Zebra) – AIED Indice Presentazione 1 Luisa Pecce Saluti 3 Gugliemo Redondi Leonio Callioni Introduzione 5 Luisa Carminati Le ragioni di questo convegno 7 Silvia Dradi Mogli meccaniche e altre meraviglie 9 Stefano Asperti Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli 33 Alessio Capellani, Mattia Codazzi, Manola Del Greco, Manuela Rossi Lo sguardo e il corpo maschile: l’oscuro soggetto del desiderio 47 Stefano Ciccone La fotografia della finzione 59 Cristina Sivieri Tagliabue Città libere dalla pubblicità offensiva Una proposta CONSIGLIO delle DONNE Redazione: Luisa Carminati Grafica: Daniele Cortese Stampa: Spaggiari® S.p.A. – Parma Bergamo, gennaio 2014 63 Specchio delle mie brame Presentazione Luisa Pecce Consigliera comunale e Presidente del Consiglio delle Donne Benvenuti a tutte e a tutti. Come Presidente del Consiglio delle Donne, ente istituzionale del Comune di Bergamo, ho il piacere di introdurre il convegno voluto dal Consiglio delle Donne e in particolare preparato dalla IV Commissione “Politiche per la salute”. Il titolo che abbiamo dato al Convegno, “Specchio delle mie brame”, è quasi evocativo di una fiaba, che si traduce però immediatamente in realtà già nel sottotitolo “Corpi pubblicitari tra inganno e desiderio”. Si tratta di un argomento che colpisce la sensibilità, soprattutto delle donne, ma non solo delle donne: trattiamo, è ovvio, dell’immagine femminile così come viene trasmessa dal messaggio pubblicitario. Qualcuno potrebbe dire che suona come un tema un po’ bigotto, un po’ da femministe della prima ora, un po’ scontato. Niente di tutto questo perché il Consiglio delle Donne ha voluto, come sempre, una riflessione concreta, direi quasi scientifica. Noi donne lavoriamo e riflettiamo su un’ampia documentazione audiovisiva che proviene da una comunicazione che definirei ormai invasiva e che ogni giorno sperimentiamo (spot, riviste e cartelloni stradali). Emergono, accanto agli stereotipi femminili, anche quelli maschili. Nel nostro concetto di Pari Opportunità vogliamo mettere sul piatto della bilancia entrambi gli aspetti. Le immagini e gli slogan che oggi vi mostreremo aiuteranno a comprendere meglio quei messaggi, che per loro primaria vocazione vogliono essere persuasivi, nella loro varietà – permettetemi il riferimento al best seller di attualità – di “50 sfumature di rosa” e anche di azzurro. Che “realtà” ci mostrano i media? Cliché che, in maniera subdola, propongono modelli di comodo. Mi viene spontanea a questo punto una considerazione che definisce anche la bassa qualità di questo tipo di comunicazione quando ricorre così spesso all’ esibizionismo con chiaro riferimento sessuale. Altro non è che scarsezza di idee e quindi volontà di attirare l’attenzione a tutti i costi, anche con l’imbarazzo o con sollecitazioni di cattivo gusto. Mi ricorda la situazione di un comico che, non sapendo più far ridere con la genialità, squallidamente ricorre alle barzellette osè o alle “parolacce”. Tornando all’incontro di oggi voglio ricordare che Il Consiglio delle Donne ha potuto organizzare questo pomeriggio di studio grazie alla ormai consolidata capacità di creare sinergie. Abbiamo lavorato in sintonia con l’Assessore 1 Specchio delle mie brame Callioni il quale, avendo tra l’altro la delega alle pari opportunità, ci ha offerto un appoggio di tipo economico e ha condiviso le nostre scelte tematiche. Ma sostanziali apporti e sostegno sono giunti anche dall’Università di Bergamo e dall’AIED che ringraziamo per la collaborazione. Come al solito è nostra intenzione valorizzare al meglio gli interventi di oggi pubblicando gli atti del convegno. Per cui buon ascolto e un arrivederci alla presentazione del documento che scaturirà dalla odierna iniziativa. 2 Specchio delle mie brame Saluti Gugliemo Redondi Presidente del Consiglio Comunale di Bergamo Benvenuti in sala consiliare, sede ufficiale dell’attività amministrativa della città, ma anche sede accogliente di convegni, conferenze, incontri con la cittadinanza e con esperti di vari settori. Il Consiglio delle Donne organizza parecchi incontri e convegni che contribuiscono alla crescita della città. L’argomento di oggi è molto interessante: da alcuni decenni si parla di questo problema e da tempo il mondo femminile dice no alla donna oggetto, no al corpo della donna come semplice immagine per attirare attenzione e suscitare desideri. Sono pienamente d’accordo nel rifiutare l’utilizzo del corpo come oggetto. Però le tante presenze maschili e femminili in sala oggi, mi ricordano che oltre alla donna anche l’uomo adesso è diventato oggetto”: invece di valorizzare il cervello delle persone si valorizzano sempre di più i glutei, i seni e i muscoli per reclamizzare, per far vedere, per “vendere”. È un argomento di non facile soluzione perché il dio denaro imperversa e sembra imporre le sue scelte alla gente. Abbiamo con noi degli esperti che hanno competenza di questi temi: la nostra opzione è che dovremmo valorizzare meglio le qualità il cervello delle persone a scapito di qualche parte anatomica. Perciò buon ascolto e buon lavoro. 3 Specchio delle mie brame Saluti Leonio Callioni Assessore alle Politiche sociali, Pari opportunità, Servizi cimiteriali Anche da parte mia buongiorno a tutti. Permettetemi di dire grazie a voi che avete scelto di essere qui in un sabato pomeriggio meraviglioso per le passeggiate o per godersi altri momenti più rilassati, per dare una testimonianza al Consiglio delle Donne e alla comunità di Bergamo che questo è un tema sul quale intendete fare sul serio e sul quale intendete chiedere agli amministratori pubblici di fare sul serio. Questo è importante perché il pubblico amministratore non è un tuttologo e non deve e non può avere la pretesa di essere quello che sceglie e che esprime le valutazioni sulle politiche da attuare. L’amministratore deve avvalersi di realtà, associazioni, funzionari, collaboratori che sappiano affrontare professionalmente una tematica per poi scegliere quale indirizzo dare all’Amministrazione comunale. Per questo ringrazio il Consiglio delle Donne. In particolare la Presidente consigliera Luisa Pecce e la Vicepresidente signora Luisa Carminati. Il mio grazie non è formale: infatti sto citando il Consiglio delle Donne come esempio perché credo che la capacità di essere luogo di riflessione, di analisi e di proposta, dimostrata concretamente anche in questa occasione, possa essere di esempio per altre realtà territoriali e anche per altre manifestazioni promosse dalla società bergamasca. Il Consiglio delle Donne di Bergamo – ve lo dico da Assessore alle politiche sociali e alle pari opportunità – aiuta a scegliere e si pone come guida. Lo dico consapevole della forza di questa parola. Certo, insieme ai ringraziamenti devo anche scusarmi per l’esiguità dei finanziamenti che possiamo mettere a disposizione per le loro iniziative. Questo è il paradosso di un momento di difficoltà della pubblica amministrazione in Italia dove ci sono livelli di spreco intollerabili e vergognosi. Sono, però, orgoglioso di rappresentare l’Amministrazione comunale di Bergamo e l’Assessorato alle pari opportunità in questo convegno, i cui contenuti saranno sicuramente oggetto di attente riflessioni e contribuiranno a migliorare la vita nella nostra città. 4 Specchio delle mie brame Introduzione Luisa Carminati Vice Presidente del Consiglio delle Donne Buongiorno a tutti e a tutte. Prima di introdurre e moderare questo incontro, personalmente vorrei ringraziare alcune persone che per questo convegno si sono impegnate: la presidente Luisa Pecce, l’assessore Callioni e anche tutte le componenti della IV Commissione che hanno contribuito ad organizzare – e non è stato facile – questo convegno. In particolare vorrei ringraziare l’associazione AIED per la sua grande collaborazione. Tema di questo convegno è il corpo, come già è stato annunciato nei saluti ufficiali, e la sua immagine nella pubblicità: il corpo femminile o quello maschile, così come nel tempo è stato rappresentato, ma anche come viene usato da noi che spesso non lo accettiamo per come è e dai media che usando l’immagine assecondano i nostri desideri più nascosti. Il tema dell’utilizzo nella pubblicità dell’immagine femminile si è imposto in termini di emergenza lo scorso anno, ma è un tema che attraversa tutti i secoli della storia. Con l’avvento dei media ha spesso assunto caratteristiche discutibili. All’uso nella pubblicità dell’immagine femminile ha fatto seguito l’uso di quella maschile, in modo particolare il famoso uomo palestrato, e in un diminuendo di età sempre più vengono usate immagini di bambine e bambini. È solo un problema di ipersensibilità femminile rispetto all’uso dell’immagine dei corpi o è una questione che investe l’essenza stessa della dignità umana? È di questo che oggi parleremo. Incominceremo dando la parola a Silvia Dradi, che fa parte della IV commissione, e ha steso una breve relazione su quanto discusso e condiviso dalla commissione stessa. 5 Specchio delle mie brame Consiglio delle Donne Commissione “Politiche per la salute”: Luisa Carminati, Ruth Cuevas, Manuela De Vito, Annamaria Dorigatti, Silvia Dradi, Anna Pagnini, Agostina Penna De Beni, Carmen Plebani, Federica Sposi, Rosi Tentori, Christiana von Wunster 6 Specchio delle mie brame Le ragioni di questo convegno Silvia Dradi Consiglio delle Donne, commissione “Politiche per la Salute” L’idea di questo convegno nasce da un percorso di riflessione che è iniziato anni fa all’interno del Consiglio delle Donne, quindi da un impegno costante, diffuso, che abbiamo rivolto ai temi della corporeità, della sessualità e dei giovani. Come esempio ricordo solo un convegno che facemmo nel 2010 che si intitolava “Giovani corpi alieni – Sessualità e relazioni dei preadolescenti tra modelli culturali dominanti e nuove tecnologie”. L’esigenza che questo convegno esprime è quindi quella di ritornare a noi, a noi adulti, uomini e donne che fanno i conti con il proprio corpo e il proprio desiderio, anche noi alieni a noi stessi e mercificati nei modelli di plastica delle immagini pubblicitarie. Abbiamo quindi scelto di interrogarci e coinvolgere esperte ed esperti che con specifici sguardi di genere – sottolineo questa specificità – ci offrono strumenti di lettura e stimoli su questi temi. Riflettiamo e ci confrontiamo, quindi, sui corpi, su corpi che si rispecchiano, che ci inquietano, che ci condizionano nelle scelte e nelle relazioni, con un immaginario spesso prefabbricato cui dobbiamo sottoporci; corpi alieni quando ci sentiamo ingabbiati e irretiti in codici rigidi sociali e culturali. Ricordo che l’uso dell’asterisco che trovate sul programma del convegno non è un errore di battitura; intende segnare la necessità di andare oltre i generi e i ruoli stereotipati, invitando ad aprire una riflessione sull’uso della comunicazione, sull’uso quindi delle immagini, ma anche del linguaggio scritto e parlato e su come ogni comunicazione eserciti un’influenza sul modo di percepire la realtà. Ogni forma di comunicazione, quindi, influenza la nostra percezione della realtà. Il linguaggio non è affatto neutro né innocente, diffonde, riproduce, rafforza modelli e stereotipi potenti, non solo perché efficaci ma anche perché utili alla struttura di potere che li genera e li controlla; a maggior ragione il linguaggio della pubblicità ha come scopo di indurci a desiderare e ci persuade a comperare e a consumare. Tutte e tutti siamo contaminati e influenzati da immagini, da canoni estetici, dalla perfezione delle forme, dai corpi modellati che ovunque ci bombardano. Per questo anche noi non ci sentiamo affatto al riparo e ci siamo interrogate sul desiderio, sul nostro corpo, sul benessere, sul tempo, sull’invecchiare, sul cambiamento del corpo nel tempo. E allora queste sono le domande che ci siamo poste: “Cosa voglio io? Qual è il mio desiderio e quanto sto aderendo, invece, al desiderio dell’altro/a? La mia femminilità, la mia mascolinità si esprimono nei più conosciuti e radicati stereotipi di genere e negli atti che 7 Specchio delle mie brame tradizionalmente vi sono associati, o invece si esprimono in un’ampia varietà di emozioni, desideri, pratiche, negoziazioni irriducibili ai significati espressi dagli stereotipi?”. Per esempio come mai la retorica della virilità è ancora tanto diffusa, quando si dice che il virilismo è morto? Qual è l’impatto dei processi di cambiamento sociale (la presenza di cittadin*stranier*, di famiglie allargate, di coppie di fatto, di uomini “casalinghi”, di uomini apparentemente molto virili, ma in realtà molto materni, di donne single, di famiglie omogenitoriali….) sulle immagini pubblicitarie e sui modelli mercificati che tendono ad annullare soggettività e differenze? Per tornare alla nostra città, ha senso e serve introdurre regole, elaborare strumenti per contrastare la pubblicità offensiva e gli stereotipi di genere come ad es. codici etici e indicazioni vincolanti (a partire dagli spazi pubblicitari comunali)? Molti Comuni, per esempio, hanno adottato queste disposizioni. Ha senso sollecitare il nostro Comune e i nostri amministratori a lanciare campagne di sensibilizzazione contro le immagini degradanti della donna (e dell’uomo) nella pubblicità e nel marketing? (vedi la proposta a p. 63). Le immagini ci offendono non perché immorali o scandalose, ma perché ci pretendono passiv*, offendono l’intelligenza, umiliano e reprimono il nostro rapporto con il desiderio e con i nostri bisogni più profondi limitando il nostro immaginario. L’obiettivo del convegno è quindi anche quello di orientare il Comune di Bergamo a individuare iniziative e sostenere progetti su queste tematiche, evitando facili moralismi. Per me è importante adesso lasciare la parola alle relatrici e ai relatori, con l’aspettativa che ci aiutino ad aumentare la nostra capacità critica di donne e di uomini di fronte a una comunicazione di immagini scritte e parlate che spesso offende l’immaginario e l’intelligenza e direi che è diventata anche molto noiosa. Quello che vorrei evitare, almeno personalmente, è di cadere in moralismi, nel senso che non è una questione solo di parametri etici, non c’è solo scandalo e indignazione di fronte a certe immagini; a me interessa che si rifletta sul rapporto dell’io con il proprio desiderio, riflettere su queste immagini che ci pretendono passiv* e che minano la nostra soggettività, ciò che fa di noi l’essere soggetti e quindi diversi, tutti, gli uni dagli altri. 8 Specchio delle mie brame Mogli meccaniche e altre meraviglie Stefano Asperti Università di Bergamo/Centro di Studi sui Linguaggi delle Identità “Zebra” Introduzione In questo mio intervento analizzerò alcune immagini pubblicitarie di varie epoche, a partire dagli anni Venti del Novecento fino ai giorni nostri, allo scopo di evidenziare il permanere di certi stereotipi e di determinate visioni della femminilità che impregnano la nostra società e che da tempo immemore danno forma alle rappresentazioni delle donne, dei loro ruoli e dei loro corpi nell’arte, nella letteratura e nei media. Per motivi di formazione culturale personale il mio discorso prenderà in esame principalmente il contesto statunitense. Ritengo, tuttavia, che molte delle mie osservazioni e delle categorie da me utilizzate possano con buona approssimazione essere applicate anche alle immagini pubblicitarie che sono circolate e che continuano a circolare in Italia. Questo, innanzitutto, perché nel nostro paese si è assistito, già a partire dal secondo dopoguerra, a un notevole afflusso di prodotti di marchi statunitensi e, di conseguenza, alla diffusione dell’immaginario pubblicitario a essi legato. Inoltre Stati Uniti e Italia, pur con le differenze culturali che caratterizzano queste due nazioni, appartengono a quella parte del globo che siamo soliti definire come “mondo occidentale” e condividono un buon numero di convenzioni e di meccanismi rappresentativi. Prima di iniziare l’analisi vera e propria delle immagini, vorrei menzionare alcuni testi a cui mi sono ispirato e che fungeranno da riferimenti teorici per le mie analisi. Si tratta di tre saggi un po’ datati, ma ancora in larga misura validi. Il primo è il libro di John Berger intitolato Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità (1972).1 Il secondo è una delle pietre miliari del femminismo della seconda ondata, La mistica della femminilità2 (1963) di Betty Friedan, e il terzo è La sposa meccanica. Il folclore dell’uomo industriale 3 (1951) di Marshall McLuhan, critico sta- 1 John Berger, Ways of Seeing, London: British Broadcasting Corporation; Harmondsworth: Penguin, 1972; trad. it. di Maria Nadotti, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, Milano: Il Saggiatore, 1998. Tutte le citazioni da questo testo sono tratte da questa traduzione italiana. 2 Betty Friedan, The Feminine Mystique, New York: Norton, 1963; trad. it. di Loretta Valtz Mannucci, La mistica della femminilità (1964), Milano: Edizioni di Comunità, 1982. 3 Marshall McLuhan, The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man, New York: Vanguard Press, 1951; trad. it. di Francesca Gorjup Valente e Carla Plevano Pezzini, La sposa meccanica. Folclore dell’uomo industriale, Milano: SugarCo Edizioni, 1984. 9 Specchio delle mie brame tunitense meglio conosciuto come autore de La galassia Gutenberg e Gli strumenti del comunicare.4 John Berger, nel 1972, osserva come nessuna società, nel corso della storia, sia stata dominata da immagini e messaggi visivi quanto la nostra. La pubblicità, che ci circonda ogni giorno e in ogni momento della nostra giornata, ne è un esempio, così come lo sono le fotografie e le immagini che vengono caricate e diffuse su social network come Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest, ecc. Siamo saturi di immagini, dice Berger, eppure paradossalmente siamo sempre meno capaci di leggerle e spesso ne accettiamo acriticamente i messaggi e i contenuti ideologici. È importante, allora, soffermarsi sull’atto del vedere, che “determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda”.5 Non vediamo mai in modo completamente distaccato o neutro: il nostro modo di vedere le cose “è influenzato da ciò che sappiamo o crediamo”.6 Il vedere, secondo Berger, è il risultato del guardare, che presuppone un atto di scelta e l’esistenza di un rapporto tra noi e ciò che ci circonda, l’oggetto dell’osservazione. L’archivio delle nostre conoscenze e dei condizionamenti ideologici a cui siamo sottoposti orienta la nostra visione. Le immagini che produciamo, perciò, non coincidono mai con gli oggetti in esse rappresentati: sono visioni ricreate, riprodotte, che incorporano il nostro modo di vedere. Perfino le fotografie – apparentemente le rappresentazioni più fedeli – implicano un atto selettivo, l’inclusione di determinati elementi e l’esclusione di altri: la visione proposta è solo una tra una moltitudine di visioni possibili.7 Il modo di vedere incorporato dalle immagini pubblicitarie che prenderò in considerazione in questo saggio, perciò, è figlio del proprio tempo. Scrive ancora Berger: […] la macchina fotografica distrusse l’idea che le immagini fossero senza tempo. O, per dirla altrimenti, la macchina fotografica rivelò che la nozione di scorrimento temporale è inseparabile dall’esperienza visiva […]. Ciò che 4 Marshall McLuhan, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man, Toronto: University of Toronto Press, 1962; trad. it. La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma: Armando, 1962; Marshall McLuhan, Unterstanding Media: The Extension of Man, New York: McGraw Hill, 1964; trad. it. di Ettore Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Milano: Il Saggiatore, 1967. 5 John Berger, op. cit., p. 9. 6 Ivi, p. 10. 7 Ivi, pp. 11-12. 10 Specchio delle mie brame vedevi dipendeva da dove eri e in quale momento. Ciò che vedevi aveva a che fare con la posizione che occupavi nel tempo e nello spazio.8 Tra le pubblicità che saranno esaminate ve ne sono alcune, risalenti a qualche decennio fa, che oggi risulterebbero assurde o inammissibili e che provocherebbero la nostra indignazione. All’epoca, però, non era così: quelle immagini erano accettabili e non attiravano gli sguardi scandalizzati delle persone come avviene oggi. Ciononostante, anche ai giorni nostri ci troviamo di fronte a rappresentazioni di donne e uomini che propongono dei cliché. Queste rappresentazioni continuano a essere percepite come “naturali”, perché sono le concezioni dei ruoli e delle identità di uomini e donne che abbiamo introiettato in secoli di storia (e che diamo per scontate) e perché manca ancora, nella nostra cultura e nei nostri percorsi di studi, un’educazione all’analisi del testo visivo e dei media, in particolare della pubblicità, dei telefilm, dei prodotti della cultura “di massa”. La mistica della femminilità La divisione sessuale del lavoro è un tema centrale degli studi di genere che si occupano di economia, di pubblicità, di design, ecc. Certi compiti, svolti con determinati strumenti, sono stati associati al “lavoro femminile”, mentre altri sono stati tradizionalmente assegnati agli uomini. Scrive Ellen Lupton: Le personalità degli individui sono modellate sulla base delle condizioni sociali, dagli ideali di vita famigliare e di norme di comportamento a seconda del genere sessuale di appartenenza fino alle opportunità economiche a disposizione delle persone come conseguenza delle loro identità culturali. Il soggetto è, in qualche misura, un manufatto, un prodotto sociale.9 Nel corso degli ultimi due secoli le persone hanno definito sempre più se stesse sulla base dei prodotti acquistati e adoperati. Nel periodo tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento lo standard di vita americano si è innalzato notevolmente, una crescita testimoniata dalla diffusione sul mercato 8 Ivi, p. 20. Ellen Lupton, Mechanical Brides: Women and Machines from Home to Office, New York: Cooper-Hewitt National Museum of Design Smithsonian Institution; Princeton Architectural Press, 1993, p. 7. Tutte le traduzioni delle citazioni dal testo sono mie. 9 11 Specchio delle mie brame di una miriade di nuovi prodotti di consumo. Le principali utilizzatrici di tali prodotti – elettrodomestici, prodotti per la pulizia della casa, capi d’abbigliamento, alimentari, ecc. – e il target principale delle pubblicità che li reclamizzavano erano le donne sposate. Il consumismo americano ha cominciato a imporsi nell’Ottocento. Già negli anni Ottanta di quel secolo molte famiglie statunitensi acquistavano abiti, cibi, mobili e prodotti per la casa prodotti industrialmente. Mentre gli uomini, solitamente, lavoravano fuori casa, alle donne veniva lasciata la responsabilità di comprare, usare, pulire e conservare i beni di consumo. Le donne, quindi, divennero le principali destinatarie delle pubblicità. Da due secoli l’ideale di famiglia americana bianca borghese promosso dalle pubblicità è composto da padri/mariti lavoratori e madri/mogli che stanno a casa. Nonostante questa immagine “mitica” diffusa dalla pubblicità, già da molto tempo le donne hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro, per necessità o per ambizione personale. Questo ha portato alla identificazione di macchine da scrivere, telefoni e altri strumenti come simboli delle nuove professioni a loro riservate (telefoniste, segretarie, dattilografe, ecc.). Al tempo stesso si è venuto a creare un conflitto tra gli obblighi a cui le donne sono tenute a far fronte in ambito domestico e le loro opportunità e aspettative come percettrici di reddito. Questo conflitto è stato sfruttato, invocando l’ideale della vita domestica, per scoraggiare le donne dal competere con gli uomini in ambito professionale e per caratterizzare le loro attività lavorative come temporanee e non essenziali. L’ideale domestico è servito, inoltre, per descrivere le donne come “naturalmente” adatte a lavori che richiedono cura, cortesia e servizio.10 Betty Friedan, ne La mistica della femminilità, osserva come sia i contenuti delle riviste rivolte a un pubblico femminile, sia le inserzioni pubblicitarie pubblicate su quelle stesse riviste, tendano a rappresentare donne felici nel momento in cui svolgono il ruolo di casalinghe, madri e mogli devote, mentre le donne in carriera, che occupano posizioni lavorative anche di un certo rilievo fuori dalle mura domestiche, sono rappresentate come donne nevrotiche e infelici. Vi è, quindi, un tentativo di indirizzare il pubblico femminile verso una scelta di vita – presentata come l’unica in grado di garantire un senso di appagamento e di pienezza – che porta la donna a ricoprire i ruoli di madre, di casalinga, di moglie, di “prestatrice di cure” che sacrifica se stessa per il benessere dei figli e del marito. Questa visione è presente nelle pubblicità statunitensi già nel periodo tra le due guerre e si rafforza ulteriormente negli anni Cinquanta. 10 Ivi, pp. 7-9. 12 Specchio delle mie brame Nella pubblicità delle cravatte “Van Heusen” una donna porta la colazione a letto al marito e, stando in ginocchio, gliela porge su un vassoio. L’uomo, dal canto suo, si gode il privilegio. La cosa curiosa è che il marito, pur essendo ancora sotto le coperte, indossa camicia e cravatta. Il messaggio trasmesso è che l’uomo fa il suo dovere fuori dall’ambiente domestico, svolgendo un’attività professionale e percependo uno stipendio che gli permette di provvedere ai bisogni materiali della famiglia. Dentro le mura domestiche spetta invece alla donna il ruolo di prestatrice di cure. Inoltre, la donna stessa, deve essere sottomessa all’uomo e deve essere felice di ciò, come recita il testo della pubblicità: “Mostrale che il mondo è degli uomini. […] Le nuove stampe [delle cravate Van Heusen] le dimostrano che il mondo è degli uomini… e la rendono felice che sia così”. Il tema della sottomissione della donna all’uomo, come condizione “naturale”, è presente anche nelle pubblicità seguenti. In questa pubblicità di camicie stampate Van Heusen un uomo, con indosso bermuda, camicia a maniche corte e cappello coloniale, se ne sta seduto beatamente su una portantina, mentre un gruppo di donne attraenti e vestite di pelli lo trasportano, apparentemente felici di essere relegate al ruolo di schiave. Il testo dello slogan, in alto a destra, invita a tornare a una condizione “nativa”, primigenia. Le donne che hanno lasciato la casa per competere con gli uomini in ambito lavorativo, sono invitate a tornare a essere sottomesse, perché quella è presentata come la condizione originaria, l’ordine naturale delle cose. 13 Specchio delle mie brame In questa immagine vediamo una pelle di tigre, posata per terra, con una testa di donna. Un uomo di cui vediamo solo la parte inferiore del corpo, le posa un piede sul capo, in una posa trionfale e di dominio. Lo slogan di questa pubblicità di un marchio di pantaloni recita: “È bello avere una ragazza in giro per casa”. La donna ha una funzione decorativa, al pari di un tappeto. Al tempo stesso è un trofeo, ottenuto grazie a un’azione che dimostra la forza e il carattere dell’uomo. Ancora più eloquente è il testo scritto in corpo minore: “Benché fosse una donna tigre, il nostro eroe non ha dovuto spararle per atterrarla. Un solo sguardo ai suoi pantaloni Mr. Leggs e lei era pronta a lasciarsi calpestare da lui”. La donna tigre – la ribelle, colei che lotta, che potrebbe competere con l’uomo – alla fine viene domata dall’uomoeroe e accetta con piacere di essere soggiogata. Qui vediamo una donna sdraiata per terra nell’atto di ammirare, con il sorriso sulle labbra, una scarpa maschile. Nello slogan leggiamo: “Keep her where she belongs…” (“Tenetela al suo posto / al posto che le spetta”). Spostando l’affermazione dalla scarpa alla donna, ne ricaviamo che il posto che spetta alla donna è ai piedi dell’uomo, mentre l’espressione compiaciuta di lei ci dice che la donna deve essere contenta di questo stato delle cose. In questa immagine vediamo un uomo in procinto di sculacciare la moglie, la cui colpa è quella di non avere comprato per il marito il caffè più fresco e profumato – il caffè “Chase & Sanborn”, contenuto in particolari lattine ermetiche –, ma quello di un’altra marca, che risulta stantio. La pubblicità suggerisce che è dovere della donna fare del proprio meglio per compiacere il marito, comprargli e preparargli solo le cose migliori e renderlo felice. In caso contrario le spetterà una meritata punizione. 14 Specchio delle mie brame In questa pubblicità della birra Schlitz una donna è in lacrime perché ha bruciato la cena. A provocare il pianto è il senso di colpa per aver dimostrato di non essere affidabile e di non essere in grado di fare quello che socialmente ci si aspetta da lei: provvedere alla famiglia e alla casa e, nello specifico, cucinare. Notiamo, inoltre, come la donna abbia un aspetto impeccabile: i capelli sono acconciati, le labbra truccate, al polso sinistro c’è un braccialetto e, pur nello sconforto, il fazzoletto è portato agli occhi con grazia. Da parte sua l’uomo si dimostra protettivo e indulgente. Abbraccia la moglie con un sorriso un po’ divertito e le dice: “Non preoccuparti, cara, non hai bruciato la birra!”. Questa pubblicità di un farmaco antinausea per le donne in gravidanza ritrae una donna intenta a cucinare la colazione. La vediamo ancora in camicia da notte, ma truccata e con i capelli perfettamente in ordine, mentre, sorridente, è alle prese con uova e pancetta e caffè, presumibilmente per il marito. Il testo recita: “Ora può preparare di nuovo la colazione”. Siccome prima gli odori le provocavano la nausea, non era in grado di fare il suo “dovere”. Non poteva, dunque, essere la “moglie perfetta” che ci si aspettava che fosse. Ora, grazie al farmaco, può tornare a svolgere i compiti che le convenzioni sociali le attribuiscono. Non è dunque, il benessere fisico della donna che conta, ma il fatto che possa rendersi utile e svolgere, in modo efficiente, il proprio ruolo di moglie e casalinga. In questa pubblicità del 1969 di una asciugatrice della Whirlpool vediamo una donna imbavagliata e legata a una sedia. La parte più interessante della pubblicità la troviamo nel testo. Qui si legge: “Se questa donna non avesse avuto questa particolare asciugatrice, sarebbe stata in guai seri”. Perché? Perché rimanendo chiusi dentro una qualsiasi altra asciugatrice certi capi si sarebbero stropicciati, ma con l’asciugatrice della Whirlpool ciò non accade. La donna, pertanto, non è nei guai per il fatto di essere stata presa in ostaggio o, comunque, legata e imbavagliata, ma lo sarebbe stata se avesse permesso – non acquistando la “giusta” asciugatrice – che il 15 Specchio delle mie brame suo bucato si stropicciasse, dimostrando, quindi, di non essere una brava casalinga. Nelle tre immagini nella pagina vediamo, ancora, come l’amore e la devozione di una moglie per il marito sia testimoniata dalla capacità di questa di prendersi cura di lui, comprando e adoperando i prodotti migliori. Nella prima pubblicità vediamo una donna, abbracciare amorevolmente il marito che indossa una camicia di colore bianco splendente perché la donna l’ha lavata con il detersivo Tide. Nel testo notiamo l’uso di superlativi e comparativi (“Cleanest”, le più pulite; “cleaner”, più pulite) che evidenziano come tale detergente sia quello che pulisce meglio di tutti e, di conseguenza, la donna che ne fa uso si qualifica come la migliore moglie possibile. Nella pubblicità del tostapane Proctor (1942) viene stabilità un’equazione tra la capacità di una moglie di amare e onorare il proprio marito (“love, honor”) e quella di preparare il pane tostato più croccante (“Crisper toast”), cosa possibile grazie all’acquisto del tostapane in questione. Infine nella pubblicità della caffettiera Sunbeam (1950), la caffettiera stessa diviene il simbolo dell’amore coniugale: mentre una mano femminile perfettamente curata versa del caffé in una tazza, sulla superficie lucente dell’elettrodomestico si riflette il volto sorridente del marito, che solleva lo sguardo dal giornale per guardare amorevolmente la moglie che si prende cura di lui. 16 Specchio delle mie brame L’immaginario della donna come moglie e madre può essere trasportato anche al di fuori del contesto domestico, come nella pubblicità della compagnia aerea American Airlines (a lato), dove vediamo un’assistente di volo accovacciata su una sedia con un golfino sulle spalle e il mento appoggiato su una mano. Il suo sguardo è diretto allo spettatore e, anche in questo caso, l’aspetto è molto curato. La posa potrebbe ricordare quella di una casalinga che si prende un attimo di pausa dopo una lunga giornata di pulizie, bucato, cucina, ecc. Lo slogan recita: “Pensate a lei come se fosse vostra madre”, una frase che si può applicare sia alla compagnia aerea, sia all’assistente di volo che si prende amorevolmente cura dei passeggeri. Nel testo in corpo minore leggiamo: “Lei vuole solo il meglio per voi. Una bevanda fresca. Una buona cena. Un cuscino soffice e una coperta calda”. Un immaginario chiaramente materno, come ad affermare che anche una donna impegnata in ambito professionale possa svolgere solamente mansioni che riproducono quella che è ritenuta la sua “vocazione naturale”. Gli strumenti meccanici, dalle lavatrici alle macchine da scrivere, sono progettati per svolgere determinati compiti. La loro funzione, però, non è solo utilitaristica, ma anche culturale, in quanto contribuiscono a definire le differenze tra uomini e donne.11 Così, a partire dalla fine dell’Ottocento il mito di un progresso tecnologico inesorabile contribuì ad alimentare l’idea che l’invenzione di nuovi elettrodomestici e prodotti per la casa potesse liberare le donne dalle fatiche del lavoro domestico.12 I pubblicitari promisero alle donne che le nuove apparecchiature sarebbero state in grado di fare da sole tutto il lavoro, lasciando loro tempo libero per se stesse e per attività come lo shopping, il relax, ecc. Nella pubblicità del 1946 di una lavatrice Bendix vediamo una donna comodamente seduta su uno sgabello accanto a una lavatrice. La donna, in abbigliamento da casalinga, non 11 12 Ivi, p. 7. Ivi, p. 11. 17 Specchio delle mie brame sta facendo nulla se non osservare sorridente il lettore. Il testo dell’inserzione esprime il suo pensiero: “È meraviglioso il modo in cui la mia Bendix fa da sola tutto il bucato. Lava, risciacqua, centrifuga – si pulisce perfino da sola, scarica l’acqua e si spegne – tutto automaticamente”. Betty Friedan e, dopo di lei, molti storici hanno sottoposto a revisione la favola della liberazione della donna dalle fatiche dei lavori di casa grazie agli elettrodomestici.13 Se è vero che le abitazioni si sono andate riempiendo di nuove apparecchiature aventi il compito di facilitare lo svolgimento delle mansioni delle casalinghe, è anche vero che tra il 1920 e il 1960 gli standard di pulizia e di cura della prole si sono notevolmente innalzati, facendo sì che il lavoro delle donne aumentasse anziché diminuire. Inoltre il tempo risparmiato nello svolgimento di una determinata attività, spesso è riversato su un’altra. Questo avviene anche perché, come descritto da Betty Friedan ne La mistica della femminilità, le donne si sentono in colpa per il fatto di avere tempo a disposizione per se stesse. Esse infatti, hanno interiorizzato l’idea che il loro dovere sia quello di prendersi cura degli altri, di essere al loro servizio, per cui cercano di riempire ogni momento libero con altro lavoro. Nel rendere attraenti gli elettrodomestici, presentandoli come compagni in grado di aiutarle a raggiungere il benessere e la felicità, la pubblicità non ha fatto altro che incoraggiare le donne a rispondere con entusiasmo a quella che è presentata come la loro “vocazione naturale”. In questa pubblicità del robot da cucina Kenwood Chef vediamo in primo piano l’elettrodomestico e dietro di esso un uomo e una donna, entrambi sorridenti. In basso a destra leggiamo “I’m giving my wife a Kenwood Chef” (“Regalo un Kenwood Chef a mia moglie”), mentre in alto lo slogan recita: “The Chef does everything but cook – that’s what wives are for!” (“Lo Chef fa tutto eccetto cucinare – è a questo che servono le mogli”). L’uomo ha regalato alla moglie il robot, affinché possa prendersi cura di lui in modo ancora più efficiente. Se da un lato questo genere di elettrodomestico permette di svolgere in modo più rapido e preciso determinate operazioni, la cucina, così come il bucato, continua a essere un’attività associata al 13 Cfr. Oltre a Betty Friedan, La mistica della femminilità, cit., per una panoramica critica sul lavoro domestico e la tecnologia si vedano per esempio: Christine E. Bose; Philip L. Bereano; Mary Molloy, “Household Technology and the Social Construction of Housework”, Technology and Culture, n. 25, January 1984, pp. 53-82; Nona Glazer-Malbin, “Housework”, Signs, n. 1, 1976, pp. 905-922. 18 Specchio delle mie brame sesso femminile. È questo il compito naturale delle mogli e la donna raffigurata nella pubblicità accetta con entusiasmo di svolgerlo. In questa doppia immagine (entrambe pubblicità della AT&T, la prima del 1955 e la seconda del 1958) vediamo la diversità nella gestione del tempo libero degli uomini e delle donne. L’uomo si rilassa senza interruzioni, perché ha terminato la sua giornata lavorativa, e il telefono che sta utilizzando gli tiene compagnia come il fedele cane sdraiato ai suoi piedi. Per la donna, invece, la telefonata rappresenta solo una momentanea sospensione dei lavori domestici che sta svolgendo, come testimoniato dall’aspirapolvere che vediamo spuntare da dietro la poltrona. Per lei il soggiorno è al tempo stesso un luogo dove trascorrere il tempo libero e un luogo di lavoro. Il sesso debole Molte immagini pubblicitarie sembrano giustificare la condizione di inferiorità e di sottomissione delle donne raffigurandole come deboli, come fisicamente e attitudinalmente inadeguate a svolgere determinati tipi di attività e, per questo, come continuamente bisognose dell’intervento salvifico degli uomini. Questi ultimi, al contrario, sono ritratti come individui sani e vigorosi e indulgentemente protettivi nei confronti delle donne, di cui “comprendono” la buona volontà e “tollerano” i difetti. In questa immagine che pubblicizza una marca di salsa ketchup l’accento è posto sul fatto che la bottiglia sia così facile da aprire che perfino una donna può farlo. La donna, che guarda verso lo spettatore dell’immagine, ha un’espressione di totale sorpresa. La frase di commento recita: “Volete dire che una donna riesce ad aprirla?”, con la parola “donna” evidenziata per rendere ancora più esplicito il concetto. A questo stereotipo 19 Specchio delle mie brame dell’incapacità e della debolezza fisica della donna si accompagna la rappresentazione di caratteristiche ritenute estremamente femminili: le sopracciglia perfettamente curate, il rossetto brillante, la posa aggraziata della mano. L’idea che viene trasmessa, dunque, è che una donna bisognosa di aiuto o di speciali accorgimenti per far fronte a incapacità e debolezze ritenute a lei connaturate, al tempo stesso, deve offrire un’immagine di sé improntata al decoro. Nella pubblicità della marca di maglieria Drummond vediamo due uomini in cima a una montagna intenti a conversare. Appaiono vigorosi e sicuri di sé e il loro atteggiamento è quasi cameratesco. L’uomo sulla sinistra tiene in mano, senza sforzo, una corda a cui è aggrappata una donna che cerca faticosamente di raggiungere la vetta. La donna, di cui si vedono spuntare solo la testa, le spalle e le braccia, sembra in grande difficoltà, ma gli uomini non si curano affatto di lei. Il testo recita: “Gli uomini sono meglio delle donne. Al chiuso le donne possono essere utili, persino gradevoli. In montagna sono solo un peso morto”. Anche in questo caso l’idea veicolata è quella dell’uomo forte e prestante, adatto alle situazioni che richiedono resistenza, coraggio, capacità di adattamento. Al contrario le donne devono rendersi utili nell’ambiente domestico e svolgere una funzione decorativa (devono risultare gradevoli agli occhi dei mariti e delle altre persone). L’inserzione, che reclamizza un’automobile con cambio automatico, ritrae una donna al volante. Anche in questo caso notiamo l’estrema cura dell’aspetto estetico: unghie perfettamente laccate, gioielli in abbondanza, occhi truccati, acconciatura secondo la moda dell’epoca. Anche in questo caso la donna offre agli occhi del mondo un’immagine di sé impeccabile. Quello che colpisce la nostra attenzione, però, è la sua espressione buffa, un misto di sconcerto e di timore. Il messaggio che ne ricaviamo è che la donna che si pone alla guida non sa da che parte iniziare, è inadeguata a svolgere tale attività e ha paura di sbagliare. Le viene incontro la tecnologia: il cambio automatico facilita la guida, permettendo anche alle donne di farlo senza problemi (la didascalia, infatti, riporta “Mini Automatica. Per una guida semplice”). 20 Specchio delle mie brame I corpi delle donne Nel terzo capitolo del suo saggio Questione di sguardi John Berger osserva che “la presenza sociale della donna ha una qualità diversa da quella maschile”.14 La presenza dell’uomo è infatti legata al potere che ci si aspetta che egli eserciti a livello economico, morale, fisico, psicologico, sessuale o sociale e che ha per oggetto qualcosa o qualcuno che è esterno all’uomo stesso. Tale promessa (o aspettativa) di potere identifica ciò che l’uomo è capace di fare a qualcuno o per qualcuno. Il potere dell’uomo, quindi, deve essere esercitato sugli altri. Al contrario, la presenza sociale della donna “esprime l’atteggiamento che ella ha verso se stessa, e definisce cosa le si può e non le si può fare”.15 Come acutamente osservato già da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé e Le tre ghinee o da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, la donna è oggetto di una sorta di custodia, di sorveglianza da parte di un universo al maschile. Questo appare evidente in gran parte della storia dell’arte e dell’immaginario pubblicitario. Allo stesso tempo la donna deve sorvegliare costantemente se stessa, affinché il suo atteggiamento, le sue azioni e il suo aspetto rispettino determinati canoni a lei imposti. Ciò non avviene necessariamente con la forza: le convenzioni e le modalità di rappresentazione sono introiettate e fatte proprie attraverso una costante iterazione. La filosofa Judith Butler dà a questo meccanismo di ripetizione continua e subliminale di comportamenti e atteggiamenti il nome di performatività (performativity), termine che riprende dalla linguistica e dalla filosofia del linguaggio. È attraverso tale processo che delle identificazioni (che per loro natura sarebbero fluide e transitorie) si cristallizzano in “identità”. Judith Butler analizza anche il fenomeno delle drag queen. Benché queste figure siano biologicamente degli uomini, nelle loro performance incarnano un ideale/uno stereotipo di femminilità: una femminilità perfetta, da una prospettiva maschile. Di fronte a ciò l’interrogativo che si pone Butler è in che misura tale performance sia una copia di un originale, di un’essenza della femminilità. La performance drag, ci spiega Butler, gioca sulla triangolazione tra sesso biologico, identità di genere e performance di genere, fatta passare come una unità nella finzione normalizzatrice (maschile e eterosessuale). L’esistenza di una parodia, l’interpretazione del femminile da parte delle drag queen (o del maschile da parte dei drag king), non implica l’esistenza di un originale imitato. Viene parodiata, invece, la nozione stessa di esistenza di un originale: si 14 15 Ivi, p. 47. Ivi, p. 48. 21 Specchio delle mie brame imita il mito stesso di originalità. Il drag, quindi, rivela che tutti i generi sono già di per sé una parodia, il frutto di una costante performance, di una ripetizione di azioni. Il drag, pertanto, nulla ha a che vedere con l’appropriazione o l’espropriazione, da parte di individui appartenenti a un determinato sesso, del genere appartenente a un altro sesso biologico, perché in realtà nessun genere appartiene naturalmente ad alcun sesso.16 Tornando a John Berger, la donna è descritta come sorvegliata e, al tempo stesso, come sorvegliante di se stessa. Ella vive questa scissione, questo duplice ruolo, e arriva a considerare il sorvegliante e il sorvegliato che ha in sé come i due elementi costitutivi e pur sempre distinti della sua identità di donna. […] Per la donna il sentirsi esistente in sé è sostituito dal sentirsi riconosciuta dall’altro. […] Si potrebbe semplificare dicendo: gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse essere guardate.17 Questa dinamica non influenza solo il rapporto tra donne e uomini, ma anche quello delle donne con se stesse. Il sorvegliante che la donna ha dentro di sé è maschio, mentre il sorvegliato è femmina. Ecco allora che la donna si trasforma in un oggetto e, per essere più precisi, in oggetto dello sguardo, di una visione. Le donne sono state il soggetto principale di un importante genere della pittura a olio europea: il nudo. Nei nudi pittorici è possibile riscontrare molte delle convenzioni che hanno storicamente caratterizzato le donne in quanto oggetto dello sguardo: la donna peccaminosa e tentatrice, punita con la sottomissione all’uomo, la vanità, ecc. In tutti resta comunque sottinteso che la donna ritratta è consapevole di essere vista dallo spettatore. Non è nuda in quanto priva di vestiti. È nuda perché qualcuno la osserva e la vede tale. La nudità della donna è rappresentata secondo modalità che la rendono connivente nel suo essere trattata come oggetto di visione. La donna appare passiva, segno del suo assoggettamento all’uomo.18 John Berger, partendo da alcune osservazioni contenute nel testo Il nudo di Kenneth Clark, osserva che, mentre essere spogliati significa semplicemente non indossare indumenti, il nudo implica sempre una convenzionalità e che l’autorità delle convenzioni coinvolte deriva da una certa tradizione 16 Judith Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity (1990), New York; London: Routledge, 1999, pp. 174-180. 17 Berger, op. cit., p. 48-49. 18 Ivi, pp. 51-54. 22 Specchio delle mie brame artistica: “Essere nudi è essere visti spogliati e, tuttavia, non essere riconosciuti per se stessi. Per diventare un nudo, il corpo spogliato deve essere visto come un oggetto. […] Lo spogliarsi è rivelazione di sé. La nudità è esibizione”.19 Nella forma artistica del nudo, così come è stata elaborata in Europa, gli spettatori, i pittori e i proprietari dei dipinti erano solitamente uomini, mentre le persone trattate da oggetti erano per lo più donne. Oggi gli atteggiamenti che hanno per lungo tempo informato quella tradizione pittorica trovano espressione attraverso media diversi: la televisione, internet, la pubblicità, ecc. Il modo di vedere le donne, tuttavia, non è sostanzialmente cambiato. Esse vengono rappresentate diversamente dagli uomini, non perché maschile e femminile siano diversi, ma perché si suppone che lo spettatore ideale sia sempre maschio e l’immagine della donna abbia il compito di compiacerlo, di onorarlo, di farlo sentire potente. In campo pubblicitario associare l’immagine di un corpo femminile a quella dell’oggetto che deve essere comperato serve ad associare alla promessa di una vita più soddisfacente, grazie al possesso dei beni pubblicizzati, la promessa di una maggiore desiderabilità da un punto di vista sessuale o affettivo. Il meccanismo in gioco è quello dell’invidia: vediamo qualcuno che possiede un determinato bene, che l’ha trasformato in una persona più completa, più desiderabile, più glamour, e vogliamo essere come lui. L’immagine a lato è la pubblicità di un torneo di beach volley. In essa la donna non è rappresentata durante il gioco, ma in piedi. Lo sguardo è rivolto al lettore della rivista e il corpo, presentato pressoché frontalmente, è in bella vista. Inoltre, benché lo slogan pubblicitario reciti: “These girls can hit. Hard” (“Queste ragazze sanno colpire. Forte”) la giovane ha il polso destro fasciato perché si è fatta male. Ancora una volta, quindi, l’immagine ci dice che la donna è un oggetto da guardare e possedere ed è intrinsecamente debole e facilmente soggetta a infortuni. Nessuna azione sportiva è raffigurata e se non vi fossero una rete da beach volley sullo sfondo e i testi scritti non riusciremmo nemmeno a comprendere che cosa è pubblicizzato. 19 Ivi, p. 56. 23 Specchio delle mie brame In questa pubblicità una donna nuda è ritratta semisdraiata sopra un’enorme scatola di Velveeta, una crema spalmabile a base di formaggio. La posa plastica ricorda quella dei nudi pittorici. La parte superiore del busto e il capo compiono una leggera torsione in modo da consentire alla donna di fissare lo spettatore. L’accostamento della figura nuda e del prodotto commercializzato porta a una identificazione dei due. Nella pubblicità di un profumo di Burberry vediamo una donna nuda, solo parzialmente coperta da un trench (capo simbolo del marchio di moda). La giovane ha un atteggiamento passivo e fissa con intensità e voluttà lo spettatore, al quale sembra offrirsi completamente. L’idea della donna come oggetto sessuale che si sottomette all’uomo è rafforzata dal nome del profumo: “Body”, cioè “corpo”. Acquistare il profumo equivale a entrare in possesso del corpo della donna, quella ritratta nella pubblicità o, forse, quello della donna a cui il profumo sarà regalato. Anche in questa pubblicità di un’associazione australiana di donatori di organi una donna seminuda si porge allo sguardo dello spettatore e anche in questo caso l’atteggiamento è passivo, l’espressione sensuale e lo sguardo diretto fuori dall’immagine, in direzione del riguardante. Il testo, poi, è particolarmente esplicito per quanto concerne il meccanismo del desiderio sessuale, per cui il prodotto/servizio pubblicizzato si identifica con il corpo che si vuole possedere. Lo slogan, infatti, recita: “Diventare donatore è probabilmente la tua unica possibilità di entrarle dentro”. 24 Specchio delle mie brame Uomini duri, uomini veri L’immagine a lato risale al 1948 ed è tratta dalla rivista Esquire. In essa è ritratto un uomo il cui aspetto è definito “audace”. È un esempio di una tipologia di rappresentazione della maschilità che godeva di una certa fortuna a quell’epoca. Una “mascolinità aggressiva, severa, intelligente”.20 Anche la costruzione del maschile appare ideologica e stereotipata: laddove alla donna è richiesto di essere docile e remissiva, materna e servizievole, all’uomo si chiede di essere sicuro di sé, ben curato, virile, maturo. È l’uomo che si misura sulla base della forza fisica, del potere economico, della capacità di avere successo professionale, della presenza sociale. Ritroviamo lo stesso tipo di rappresentazione stereotipata nella fotografia della pubblicità del marchio di abbigliamento Bond. Il claim pubblicitario recita: “I’m tough” (“Sono un duro”). Marshall McLuhan definisce questa tipologia di uomo “neanderthalesca”. Nelle pubblicità degli anni Quaranta, ci dice il critico statunitense, l’immaginario maschile è spesso vagamente pre-industriale, primitivo. In questo caso il volto dell’uomo ritratto è duro, con tratti marcati e l’espressione seria. Tiene tra le dita un sigaro, simbolo di potere e di benessere. Nel testo della pubblicità è proprio lui a parlare: “Questa roba da signorine mi urta. Lavoro dieci ore al giorno. Lo faccio da quando ero ragazzo. La ghenga allo stabilimento mi chiama “capo”. Ora ne sono proprietario…”.21 Un uomo è giudicato un uomo “vero” se è un duro, se ha successo nella vita grazie all’instancabilità nel lavoro, se rifiuta categoricamente quelle frivolezze che lo farebbero sembrare troppo femminile e quindi lo degraderebbero (perché le donne sono considerate inferiori), se guarda alla sostanza e non agli orpelli, come nel caso degli abiti Bond: resistenti, pratici, fatti di ottimi materiali e ben tagliati. 20 21 Marshall McLuhan, The Mechanical Bride, cit., p. 43. Traduzione in Marshall McLuhan, The Mechanical Bride, cit., p. 251. 25 Specchio delle mie brame Le tre immagini nella colonna sono tutte dell’azienda telefonica americana AT&T. Le prime due risalgono rispettivamente al 1937 e al 1932. In contrasto con la ricezione “passiva” delle donne che svolgono professioni che hanno a che fare con il telefono, l’uso di questo strumento da parte degli uomini è rappresentato in termini più attivi. Così in queste fotografie le mani maschili non afferrano la cornetta con gentilezza, ma lo fanno con gesti decisi e quasi teatrali. Nella terza immagine, del 1920, per l’uomo ingegnere o dirigente, il telefono è contemporaneamente un frutto e uno strumento del progresso, esattamente come il treno, l’aereo, l’automobile, ecc. Il femminile, invece, è associato alla tecnologia in modo differente, come vediamo nell’immagine sotto, risalente al 1939: una donna dal volto dolce, quasi angelico, si serve del collegamento telefonico per stabilire un legame materno con gli Stati Uniti, che stringe idealmente in una sorta di abbraccio. 26 Specchio delle mie brame La sensualità delle donne: punire le perfide sorelle Lo slogan di questa pubblicità di un videogioco di azione (“Hitman. Blood Money”) gioca su un doppio senso piuttosto macabro. Nell’espressione “Beautifully executed”, infatti, il termine “executed” può significare sia “eseguito”, sia “giustiziata” (“beautifully”, invece, vuol dire splendidamente, perfettamente, in modo bellissimo, ecc.). Vediamo, perciò, una donna, attraente e con indosso solo della lingerie e scarpe con tacchi alti, che è sdraiata, morta, su un letto con lenzuola di seta rossa. Sulla fronte si nota chiaramente il foro di un colpo di pistola. La violenza che la donna ha subito è associata, anche nella morte, all’esposizione del suo corpo: la giacca da camera aperta rivela la pelle levigata e bianchissima, i capelli morbidi e lucenti si riversano come onde sul lenzuolo, le labbra sono carnose e dipinte di rosso (anche se un rivolo di sangue che fuoriesce da un angolo della bocca testimonia ulteriormente l’aggressione subita), le gambe e le braccia non sono scomposte, ma in una posa quasi da modella, la lingerie di pizzo nero rimanda a un’immagine di sensualità, così come i sandali dorati con il tacco alto. Pur rappresentando un atto di violenza, l’immagine ha un effetto estetizzante e anestetizzante. È come se il momento fosse stato congelato e l’attenzione fosse tutta concentrata non tanto sulla brutalità del crimine commesso, quanto sulla bellezza della donna, sul suo corpo esposto e sulla composizione formale e cromatica dell’immagine. Tale modalità rappresentativa, insieme al claim che l’accompagna (“Beautifully executed”), autorizza la violenza in essa implicita in nome di una qualità estetica. In Idoli di perversità (1986) Bram Dijkstra mostra come, nell’arte della seconda metà dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, tra le altre cose, il sesso femminile fosse rappresentato come narcisista e infantile, oppure fosse associato al mondo della natura e degli istinti anziché a quello della civiltà e della ragione. In questo modo si tendeva a giustificare la misoginia e a rafforzare un ordine sociale in cui gli uomini occupavano posizioni di dominio. Alle donne erano attribuite un’energia sessuale e un’istintualità che ne facevano delle creature non civilizzate, potenzialmente minacciose per la superiorità intellettuale degli 27 Specchio delle mie brame uomini.22 Accanto all’immaginario femminile virgineo, desessualizzato e materno, ve n’è dunque uno caratterizzato da una sessualità spiccata, addirittura vorace, potenzialmente pericolosa: la donna vampira, predatrice, capace di privare l’uomo delle energie e della ragione, che deve essere punita o addirittura eliminata. La violenza su donne così rappresentate (sensuali e provocanti) è dunque implicitamente giustificata come punizione di un crimine o di un peccato. In questa pubblicità di Dolce & Gabbana, che qualche anno fa ha fatto molto discutere, sembra essere inscenato il preludio a uno stupro di gruppo. Anche qui la scena è completamente estetizzata. La sensualità della donna, ancora una volta, offre una giustificazione per l’atto brutale che sta per subire, come troppo spesso avviene nell’opinione comune. L’immagine sotto è la pubblicità di un noto salone di bellezza di Edmonton, nella provincia canadese dell’Alberta. In un interno domestico vediamo una donna seduta su un divano con una stampa floreale, ai lati del quale si trovano due lampade da pavimento. La donna indossa un elegante abito corto e scarpe aperte con il tacco alto e ha un’acconciatura ricercata, vaporosa e volutamente “selvaggia”. Seduta in una posa femminile, mette in mostra gambe affusolate. Dietro di lei un uomo in giacca e cravatta con un’espressione vagamente inquietante tiene in mano una preziosa collana, 22 Bram Dijkstra, Idols of Perversity: Fantasies of Feminine Evil in Fin-de-siècle Culture, New York: Oxford University Press, 1986; trad. it. di Marisa Farioli, Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico, filosofico, letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Milano: Garzanti, 1988. 28 Specchio delle mie brame come se fosse stato catturato dalla fotocamera nell’istante appena prima di mettere il gioiello al collo della donna. Nel complesso l’immagine, nella sua grande compostezza, ricorda un ritratto fotografico in posa scattato in un ambiente domestico. La cosa che colpisce maggiormente, però, è l’occhio nero della donna. Ne deduciamo che sia stata picchiata. Forse il colpevole è proprio l’uomo che è alle sue spalle e che ora sta per regalarle un gioiello. L’accostamento produce un effetto stridente, ulteriormente accentuato dallo slogan “Look good in all you do” (“Presentati bene, qualunque cosa tu faccia”). Qualsiasi cosa accada – perfino se subisce delle violenze – l’imperativo per una donna è quello di essere sempre presentabile e di mantenere il contegno. Quel problema che gli uomini non hanno… La storica Lara Freidenfelds ha osservato che negli Stati Uniti degli anni Trenta e Quaranta gli odori corporei erano considerati estremamente offensivi dal punto di vista dei rapporti sociali. Ciò è testimoniato dalla moltitudine di pubblicità relative a collutori, deodoranti, shampoo e saponi profumati.23 In particolare, il problema degli odori genitali femminili, legati al ciclo mestruale, era fonte di grande preoccupazione, come testimoniano le pubblicità di seguito riportate. Nell’inserzione pubblicitaria, il marchio di disinfettanti Lysol, presenta un “quiz dell’amore” rivolto solo “alle persone sposate”. Il quiz consiste, in realtà, di un’unica domanda: “Perché lei passa tutte le sere da sola?”. Sopra questo interrogativo vediamo l’immagine di una donna seduta in poltrona, in lacrime, che probabilmente si pone la stessa domanda. Sullo sfondo vediamo un uomo con un cappotto sul braccio e un’espressione di disapprovazione, colto nell’atto di uscire di casa. L’intento dell’immagine è chiaro: ricordare alle donne quanto poco basti per far sì che gli uomini siano insoddisfatti di loro. Per far ciò prospetta uno scenario che, assai probabilmente, era uno dei più temuti dalle giovani mogli dell’epoca. 23 Lara Freidenfelds, The Modern Period: Menstruation in Twentieth-Century America, Baltimore: Johns Hopkins University Press, p. 53. 29 Specchio delle mie brame La pubblicità, poi, prosegue fornendo essa stessa la risposta all’interrogativo che ha posto. Non importa quanto una donna ami il proprio marito, quanto sia brava a occuparsi della casa o quanto si prenda cura del proprio aspetto: tutto ciò è inutile se non si preoccupa con altrettanto rigore della propria igiene. Il testo ci dice, dunque, che è implicito che i primi tre “requisiti” siano indispensabili affinché la donna sia una buona moglie, però non sono sufficienti. Il fatto che il marito la abbandoni per trascorrere la serata fuori sta a indicare che lei ha perso la sua preziosa “aria di romanticismo”, un profumo che i disinfettanti Lysol possono, a detta della pubblicità, aiutarla a recuperare, insieme alla sua “delicatezza” e alla fiducia nella propria capacità di risultare piacente. È evidente come questa inserzione pubblicitaria si fondi su una precisa ideologia di genere. Essa, infatti, descrive l’immagine convenzionale della donna in termini di igiene personale. Mostrando quali siano le caratteristiche che la donna ideale deve possedere per essere desiderabile, fissa gli obiettivi che tutte le mogli sono chiamate a perseguire: essere mogli capaci di piacere, di sedurre i loro uomini con la loro “aria di romanticismo”. Senza questa aria e, anzi, con un odore giudicato fastidioso, una moglie non è altro che una graziosa domestica, priva, però, di qualsiasi attrattiva per il marito. Lysol prosegue questa campagna con diverse pubblicità che esprimono lo stesso concetto: qualunque dubbio una donna abbia può essere risolto usando Lysol per fare un lavaggio intimo e recuperare la sua delicata femminilità e la capacità di compiacere il marito. Le donne possono ovviare ai “naturali” difetti del loro corpo con il semplice utilizzo di un disinfettante. In quest’altra pubblicità vediamo una donna, anch’essa in lacrime, letteralmente chiusa fuori dalla camera da letto in cui si trova il marito. I lucchetti che chiudono la porta sono contrassegnati dalle scritte “Dubbio”, “Inibizione” e “Ignoranza”. Quest’ultima è particolarmente interessante: non è colpa della donna se è inconsapevole della propria mancanza di femminilità (causata dall’odore mestruale). A tale ignoranza, però, può rimediare consultando un medico, il quale sicuramente le consiglierà di effettuare con regolarità dei lavaggi vaginali con Lysol, che le permetteranno di recuperare la propria “delicatezza” femminile. È interessante notare come gli odori intimi siano presentati come una malattia che 30 Specchio delle mie brame deve essere curata. Il corpo femminile è descritto come intrinsecamente sporco e difettoso, ma la donna può trovare una soluzione a tali difetti, a patto che sia disposta a rimediare alla propria ignoranza. Se ciò non avviene la colpa del fallimento del rapporto matrimoniale ricadrà solo su di lei. Le spose meccaniche Marshall McLuhan ha incluso nel suo libro La sposa meccanica un saggio sulle rappresentazioni dei corpi femminili come aggregati, simili a macchine, di parti staccabili e intercambiabili, schema che egli ritrova frequentemente nelle immagini pubblicitarie. L’espressione da lui usata, “sposa meccanica”, ricorda il fascino dei dadaisti e dei surrealisti per il sesso e la tecnologia. Marcel Duchamp, Man Ray e altri artisti delle avanguardie avevano visto nelle macchine non solo razionalità, ma anche componenti erotiche e distruttive.24 McLuhan nel suo saggio analizza l’immagine pubblicitaria riportata a lato, in cui un paio di gambe femminili, con indosso le calze di nylon reclamizzate, sono poste su un piedistallo. Per il critico americano le gambe separate dal corpo sono un esempio di una forma di standardizzazione del corpo femminile che porta le membra di questo ad assomigliare alle componenti di una macchina. Introducendo, inoltre, il tema del rapporto tra sesso e tecnologia, egli aggiunge: Non si tratta di un aspetto creato dagli agenti pubblicitari, ma sembra piuttosto essere il prodotto di un’avida curiosità, da un lato, di esplorare ed allargare il dominio del sesso per mezzo della tecnica meccanica e, dall’altro, di possedere la macchina in un modo sessualmente gratificante.25 In pubblicità come questa, tuttavia, il sesso è stranamente dissociato non solo dalla persona umana, ma anche dall’unità del corpo.26 Le donne, nei loro ruoli di consumatrici e di lavoratrici, sono state costantemente associate alla tecnologia. Al contempo nella progettazione e nella promozione di elettrodomestici, macchine e altri prodotti si sono presi a prestito attributi fisici e psicologici delle donne, trasfor- 24 25 26 Ellen Lupton, op. cit., p. 9. Marshall McLuhan, The Mechanical Bride, p. 188. Ivi, pp. 197-198. 31 Specchio delle mie brame mando le stesse apparecchiature per la casa e le attrezzature per l’ufficio in “spose meccaniche”, attraenti e al contempo efficienti. La pubblicità del televisore RCA Victor del 1966 paragona l’apparecchio televisivo a una donna. Entrambi hanno una parte frontale molto bella e una parte posteriore robusta e affidabile. Un simile confronto lo ritroviamo anche nella pubblicità degli arredi per ufficio Corry Jamestown (1966): in essa vengono mostrati il davanti e il dietro sia di uno schedario verticale, sia della segretaria intenta ad archiviare delle cartelle. L’immagine sotto a sinistra, tratta da un catalogo di arredi per ufficio della Globe-Wernicke del 1954, si serve della scomposizione fotografica del movimento di una segretaria e richiama alla mente gli studi sull’organizzazione scientifica del lavoro per dimostrare l’efficienza della scrivania a L. Infine, nell’immagine a destra (una pubblicità della General Electric del 1965), una donna appare “connessa” a una serie di elettrodomestici – l’asciugacapelli, il telefono, la teiera, il frullatore – confondendosi quasi con essi, come se fosse anche lei collegata a un sistema elettrico. 32 Specchio delle mie brame Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli Alessio Capellani, Mattia Codazzi, Manola Del Greco, Manuela Rossi di “InChiaro”, Laboratorio di Ricerca Sociale sui Media, Università di Milano-Bicocca Il Laboratorio di Ricerca Sociale sui Media “InChiaro” si è costituito all’interno del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca con l’intento di creare uno spazio dedicato allo studio dei media in quanto veicolo di rappresentazioni sociali. La principale attività del Laboratorio consiste nel monitorare, analizzare e interpretare i messaggi trasmessi dalle trasmissioni televisive del palinsesto italiano, della stampa e dei contenuti web, allo scopo di decostruirne i principali stereotipi riguardanti le relazioni di genere, di etnia e di generazione. Al fine di indagare il rapporto tra media e mutamento sociale, l’approccio che guida le nostre analisi attiene alla scuola costruttivista1 (Berger e Luckmann 1969); sul versante metodologico si prediligono le tecniche che si rifanno all’analisi del contenuto, alla sociologia visuale (Faccioli, Losacco 2003) e all’analisi documentaria applicata a documenti visuali2 (Arosio 2010). Introduzione InChiaro ha partecipato al convegno “Specchio delle mie brame. Corpi pubblicitari tra inganno e desiderio” proponendo un video stimolo dal titolo “Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli” (le immagini sono riportate nel corso del testo). Lo scopo del nostro contributo è stato quello di offrire uno stimolo per la riflessione sull’“immaginario sociale” diffuso dalle pubblicità presenti nei media tradizionali quali tv, riviste e cartellonistica, concentrandoci, in particolare, sui ruoli di genere, sulle rap- 1 Paradigma epistemologico secondo il quale la realtà (e gli elementi che ne fanno parte) non è data, bensì è costruita socialmente dagli attori che contribuiscono a reiterarla quotidianamente attraverso interpretazioni, azioni, linguaggio condiviso, istituzioni, pensiero dotato di senso. 2 Dall’analisi di documenti, in particolare di tipo segnico – cioè testi, filmati, immagini, creati con lo scopo di trasmettere un messaggio – possiamo trarre informazioni interessanti sul contesto sociale e culturale in cui sono prodotti. Attraverso i documenti si può rilevare il modo in cui gli individui o i gruppi sociali interpretano, vivono, rappresentano, idealizzano e avvalorano la propria esperienza nonché la realtà in cui sono immersi. 33 Specchio delle mie brame presentazioni maschili e femminili e sui modelli familiari che nelle pubblicità hanno rilievo (e non). Nello specifico si è inteso riflettere, attraverso il video-stimolo, sui cliché riguardanti i ruoli femminili e maschili messi in scena dagli spot pubblicitari, nonché sulle tipologie di famiglie rappresentate in essi, cercando di proporre un angolo visuale alternativo utile a comprendere e a guardare con occhio critico “quale parte di realtà” è proposta dalle pubblicità. Perché un video? Le immagini possono essere utilizzate in una duplice via: da un lato come oggetto di analisi in quanto veicoli di messaggi che contribuiscono alla produzione di un immaginario, dall’altro diventano uno strumento espositivo utile a produrre una riflessione sui contenuti stessi. Attraverso un collage di video e immagini abbiamo cercato di presentare gli immaginari di genere, etnia, orientamento sessuale, ruoli domestici, familiari e lavorativi che vengono costruiti nei messaggi pubblicitari e che definiscono uno spartiacque tra ciò che è legittimato socialmente e ciò che non lo è. Alcune domande hanno guidato il nostro percorso di analisi: quali modelli di femminilità e maschilità sono veicolati dai media? Persistono ancora ruoli tradizionali o vengono riflessi i mutamenti che stanno investendo i generi? Come sono rappresentati i corpi femminili e maschili? La sfera educativa viene legata alla rappresentazione della maschilità oppure resta ancora una dimensione prettamente femminile? Quale tipologia di famiglia è messa in scena? E, per quanto riguarda l’orientamento sessuale, quello eterosessuale resta il prevalente, se non l’esclusivo? Per la costruzione del video abbiamo compiuto un monitoraggio che ha riguardato due canali della televisione generalista e alcune riviste rivolte a donne, a uomini e ad adolescenti. Nello specifico abbiamo monitorato le reti ammiraglie Rai e Meidaset, Rai1 e Canale5, seguendo l’intero palinsesto di due giornate prese a campione, mercoledì 4 e domenica 8 luglio 2012 in modo da considerare sia un giorno feriale che festivo. Dalla registrazione abbiamo quindi estratto tutti gli spot andati in onda nelle giornate da noi considerate, i quali sono stati successivamente analizzati attraverso una griglia di analisi del contenuto costruita ad hoc. Inoltre, per rispondere al meglio agli obiettivi della nostra ricerca, sempre attraverso una griglia di analisi, abbiamo esplorato le immagini pubblicitarie presenti in tre riviste da noi scelte in base alla loro tiratura: “Men’s Health” (mese di agosto 2012) per quanto riguarda gli uomini, “Amica” (mese di luglio 2012) per le donne e “Top Girl” (mese di luglio 2012) per le adolescenti. Infine abbiamo rilevato dalla rete alcune immagini di cartellonistica che, a nostro avviso, erano particolarmente rilevanti e utili ai fini conoscitivi della nostra ricerca. 34 Specchio delle mie brame Alcuni concetti La questione del mutamento sociale è certamente di grande attualità e costituisce un angolo visuale privilegiato all’interno delle nostre ricerche. In generale, ci siamo chiesti quanto e se gli spot televisivi e della stampa rispecchiassero i cambiamenti che stanno investendo la società, e nel nostro caso particolare, i ruoli e le identità di genere. Questo partendo dalla consapevolezza che lo spot è una forma comunicativa che poco si presta alla rappresentazione di significati complessi: essa sembra infatti proporre ruoli riformabili ma sostanzialmente immutabili dove non c’è mai sovvertimento e reale innovazione ma si asseconda il divenire degli equilibri e squilibri sociali. Come è noto, i media possiedono il potere di creare una visione comune, legando i significati individuali a quelli sociali, il micro al macro, attraverso la funzione di story telling (Gerbner 1986). Le rappresentazioni che passano al loro interno sono quindi molto importanti poiché, data la loro elevata visibilità, diventano modelli di comportamento e di legittimazione sociale. Oltre a creare un senso condiviso, i media collegano il pubblico al privato, la dimensione sociale alla dimensione domestica della casa. Per usare le parole di Williams (1974) la televisione in maniera particolare, è una forma di “privatizzazione mobile” al servizio di un modo di vita mobile, che caratterizza la modernità, e al tempo stesso incentrato sulla casa. Inoltre Meyrowitz (1985) osserva come la televisione abbia abbattuto le barriere che hanno tradizionalmente diviso il “pubblico” e il “privato”, o, ricollegandosi a Goffman (1959) la “scena” e il “retroscena”. Il pubblico invade lo spazio privato e il privato diventa argomento pubblico. La presenza della televisione rende il contesto domestico uno spazio interconnesso con l’esterno: oltre a fare esperienze mediate, si può accedere a numerose informazioni che fanno avere la sensazione di partecipare alla vita sociale. Da quanto sinteticamente delineato nei paragrafi precedenti, possiamo dire che il ruolo dei media nella costruzione delle identità di genere è particolarmente importante dal momento che quasi tutti i contenuti mediatici presentano personaggi che si possono assegnare a una delle due categorie di genere. Questi personaggi rappresentano un ricco bacino di modelli per l’identificazione e l’imitazione e definiscono ciò che è normale e accettato dalla società cui appartengono, perciò rafforzato positivamente, ma anche ciò che si ritiene eccezionale o addirittura deviante, e perciò esecrato. Lo sfondo nel quale attraverso la nostra ricerca ci muoviamo è certamente quello del genere, considerando tutte le implicazioni che esso ha sull’identità, sui ruoli e sui modelli relazionali e famigliari. Sappiamo che il genere, come ormai consolidato da numerose teorie e studi 35 Specchio delle mie brame che si sono sviluppati a partire dalla seconda metà del secolo scorso (per una rassegna cfr. Wallace e Wolf, 1994; Piccone Stella e Saraceno 1996), è una costruzione sociale che a partire dalle differenze biologiche, cioè dal sesso, definisce i comportamenti ritenuti più appropriati all’essere donna o all’essere uomo. Le differenze, quindi, non sono “naturali” ma sono il prodotto della cultura umana, dunque variabili nel tempo e nello spazio. Il carattere sociale e quindi mutevole della dimensione di genere pare oggi alquanto evidente: viviamo una fase di profondo mutamento sociale che sta investendo le identità e i ruoli di genere, nonché le pratiche quotidiane e i rapporti tra i generi. Per fare alcuni esempi, ci basti pensare all’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, alla ridefinizione della divisione dei compiti di cura, alla crescente instabilità coniugale, all’instaurarsi di una società sempre più multiculturale, e così via. Alla luce di tali premesse, come già accennato, abbiamo rivolto la nostra attenzione alle rappresentazioni di genere, di ruolo e famigliari veicolate dai media perché riteniamo che esse siano un importante mezzo di diffusione e legittimazione di modelli femminili, maschili e familiari: come è stato scritto, oggi assistiamo a quel processo di “mediatizzazione della cultura” (Thompson, 1998) per cui «la presenza pervasiva e istituzionalizzata dei media induce trasformazioni nella cultura, nell’esperienza, nelle rappresentazioni sociali e nelle immagini di realtà» (Grossi, Ruspini, 2007, p. XIV). I media agiscono quindi come “agenti di socializzazione” che «propongono figure femminili e maschili che diventano modelli di comportamento normativi dal momento che la loro elevata visibilità li trasforma in strumenti di legittimazione sociale» (Capecchi, 2009, p. 4); e inoltre «il processo di generazione delle rappresentazioni costituisce il momento in cui il “sociale” esercita la sua influenza, mischiandosi ai nostri schemi e alle nostre conoscenze pregresse» (Ferrari, Capecchi 1998, p. 23). Ci sembra utile precisare, che con identità di genere si intende «la percezione sessuata di sé e del proprio comportamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva, che rende gli individui capaci di relazionarsi con gli altri, in quanto portatori di un’identità di genere riconoscibile, chiara e condivisa» (Ruspini 2001, p. 18). L’identità di genere è frutto di un processo relazionale che vede in gioco una molteplicità di fattori che incentivano la conformazione alle aspettative legate all’essere donna o uomo. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi, sono incoraggiati a comportarsi in modi differenti: imparano a camminare, parlare e atteggiarsi nel modo prescritto per il proprio genere e secondo le aspettative del gruppo sociale e della cultura di appartenenza (Lorber 1995). 36 Specchio delle mie brame Tuttavia le identità di genere non sono riconducibili al solo dualismo maschile/femminile; non sono immutabili ma possono, per esempio, tramutarsi in un senso di appartenenza al genere maschile, a quello femminile, o a particolari sfumature tra i due generi sessuali. Come sostiene Scott (1987), uomo e donna sono categorie prive di un significato definitivo in quanto modelli “ideali” che contengono al proprio interno costruzioni e rappresentazioni alternative e possibilità spesso negate. Essendo l’identità un processo relazionale, essa entra in relazione con le rappresentazioni veicolate dai media, e in questo caso con quelle presenti negli spot, e risulta quindi importante riflettere sui significati trasmessi da questi ultimi proprio perché, se è vero che non ci “costruiscono” è altrettanto vero che certamente ci influenzano, è ciò vale soprattutto per le generazioni più giovani. Il nostro video ha voluto quindi mettere in luce quali identità, ruoli, modelli di genere e famigliari sono rappresentati e quanto essi siano ancora pervasi da stereotipi o capaci di riflettere il cambiamento. In generale possiamo anticipare che «i ritratti di uomini e donne in TV descrivono un mondo sociale che differenzia i due generi in modo sistematico» (Lemish 2007, p. 114). Persistono quindi molti stereotipi di genere: le donne vengono associate all’essere nella sfera privata e paiono generalmente passive, emotive, solidali, infantili, sexy, subordinate agli uomini, di classe sociale inferiore. Il messaggio prevalente relativo alla femminilità implica una svalorizzazione dell’esperienza, delle competenze, dell’intellettualità delle donne, validando così l’ipotesi che vede una correlazione tra questo tipo di messaggio e la minor importanza attribuita alle donne rispetto agli uomini nella società (Capecchi 2006). Gli stereotipi veicolati dalla televisione non sono solo al femminile ma anche al maschile: complessivamente gli uomini si identificano con l’agire nella sfera pubblica e vengono associati a caratteristiche come l’intraprendenza, la razionalità, la determinazione, l’indipendenza, l’ambizione, la competitività, l’efficacia. L’uomo è ritratto come «vincente, conquistatore, seduttore, ma anche solidamente inserito nei ruoli familiari, ottimista, misurato nello stile, ben piazzato nei ruoli di potere» (Caligaris 1997, p. 85). La pubblicità: quali immaginari? La prima parte di “Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli” tratta la tematica del corpo. Sappiamo che il corpo oggi costituisce una dimensione importante in quanto si presenta non solo come il principale dell’espressione del sé, ma anche «dei valori prevalenti in 37 Specchio delle mie brame Da “Amica”, luglio 2012. Pubblicità profumo Dolce & Gabbana Pour Femme. Pubblicità cosmetici Dolce & Gabbana. una determinata epoca storica, dal momento che (i corpi) non si presentano mai “al naturale”, ma sono costruiti e ri-costruiti secondo l’ideologia dominante, (come) per esempio secondo i canoni estetici diffusi dai media» (Capecchi 2009, p. 38). Per quanto riguarda il genere femminile, la rappresentazione prevalente resta quella della “donna oggetto”: il tipico stereotipo di femminilità proposto dai media, ossia “corpo”, “belle donne dal giovane aspetto chiamate a esibirsi nei momenti di spettacolo” (Azzalini, 2009). L’aspetto esteriore risulta essere la caratteristica più importante dell’essenza di una donna. Quest’enfasi viene comunemente espressa attraverso la glorificazione di un determinato modello di bellezza: corpo snello, attraente e giovane (Ibid. 2007). L’esteriorità del corpo si collega direttamente all’enfasi eccessiva posta dai media sul ruolo sessuale delle donne, che vengono relegate a mero oggetto del desiderio maschile (Lemish 2007). Tale associazione è confermata anche dallo strettissimo legame tra la figura femminile e i prodotti di cosmesi: creme, depilazione, trattamenti dimagranti, antirughe, sono tutti prodotti a essa associati. Ciò indica come forti e omogeneizzanti siano le prescrizioni sulla cura e l’estetica del corpo femminile che deve essere, come abbiamo detto, snello, giovane e “presentabile” in ogni momento. Inoltre, questi legami simbolici riflettono la persistente subordinazione delle donne rispetto al genere maschile, e rimanda a uno dei più diffusi stereotipi di genere: quello che definisce l’uomo voyeur e la donna esibizionista. Questa relazione è stata definita male gaze o sguardo maschile (una prospettiva onnipresente ma invisibile, da poco identificata, tematizzata e messa in questione) che ha per lungo tempo permeato la produ38 Specchio delle mie brame Pubblicità profumo Dolce & Gabbana Light Blue. zione mediatica e televisiva in particolare (la prospettiva maschile è la “normalità”; Goffman 1976). Il male gaze si fonda su precisi stereotipi di genere che celano una chiara gerarchia: l’uomo osserva, guarda, desidera e la donna si fa guardare, è desiderata e accende il desiderio maschile (Grossi, Ruspini 2007). Anche la componente maschile ha iniziato negli ultimi anni a divenire oggetto di “sguardi” portando in primo piano la dimensione corporea. Infatti accanto alla tradizionale immagine dell’uomo virile e potente, nonché sessualmente attivo, si affianca, o meglio si innesta, una nuova tipologia di maschilità: il metrosexsual 3, il maschio particolarmente preoccupato dell’aspetto estetico e della cura del corpo (nonché della moda), narcisista, dai consumi metropolitani e tendenzialmente eterosessuale (Boni 2004). Questo modello cura il proprio corpo e il proprio aspetto con una sorta di autodisciplina (Foucault 1999) che fa riferimento a una stringente medicalizzazione della maschilità e una serie di forti prescrizioni (Inghilleri, Ruspini, a cura di, 2011), dove l’aspetto della cura è rivolto verso il raggiungimento di performance adeguate. È tuttavia necessario sottolineare che «i confini della metrosessualità paiono al contempo sempre più elastici: essa comprende uomini giovani e meno giovani, padri e non, eterosessuali e non. Per quel che riguarda il binomio metrosessualità-paternità, facciamo riferimento al già citato modello di David Beckham: quest’ultimo, uno degli uomini più belli, affascinanti, curati e contesi sia dal genere femminile che maschile, ma al contempo uomo coniugato e padre di quattro figli.» Pubblicità intimo Armani Underwear. 3 Questo termine è stato coniato dal giornalista Mark Simpson nel 1994 e indica appunto l’uomo che valorizza e cura il proprio corpo esattamente come avviene per le donne. Egli individua il prototipo del metrosessuale nel calciatore inglese David Beckham, che pur incarnando la maschilità tipica (è un calciatore quindi un “uomo vero”), ama essere oggetto dello sguardo altrui, maschile o femminile non importa. 39 Specchio delle mie brame Pubblicità detersivo Cilit Bang. Pubblicità bicarbonato Solvay. In generale possiamo affermare che per gli uomini i modelli di “manager”, “sportivo” e “seduttore” sono oggi i più rappresentati. Ma, come abbiamo visto, stanno emergendo figure alternative: «quelli che “fanno concorrenza” alla donna, per esempio per quel che riguarda l’abbigliamento, la cosmesi, la cura del corpo e nuove immagini più “fluide” come per esempio figure asessuate e che richiamano l’idea di omosessualità» (Grossi, Ruspini 2007, p. XXXIX). Inoltre il corpo maschile è oggi al centro dello sguardo dei media: oggi le maschilità sono oggetto e non solo soggetto dello “sguardo” (Boni 2007). L’enfasi sul corpo tonico degli uomini legittima così lo sguardo femminile sull’uomo, il così detto female gaze. Altra dimensione toccata dal nostro video è stata quella dei ruoli di genere: «modelli che includono comportamenti, doveri, responsabilità e aspettative connessi alla condizione femminile e maschile e oggetto di aspettative sociali: a essi uomini e donne sono chiamati a conformarsi» (Ruspini 2001, p. 20). Agendo attraverso i ruoli sociali vengono così sperimentati, appresi, espressi e consolidati quei dogmi che indicano cosa sia il maschile e il femminile e quali i “giusti” comportamenti e atteggiamenti da seguire. Il legame tra la figura femminile e i lavori domestici resta una costante: è lei che deve occuparsi della casa, dell’economia domestica, della cura della famiglia. È a lei che sono associati i prodotti alimentari, per la pulizia della casa mentre gli uomini al massimo si occupano della manutenzione o di lavori extraordinari. Inoltre le donne sono simbolicamente legate alla cura intesa anche nella sua accezione medica: la gran parte degli spot relativi a medicinali la vedono infatti come protagonista e questo ha un duplice significato. Da un lato viene riprodotto lo stereotipo che lega la figura femminile alla dimensione della cura e, dall’altro, attraverso la sua reiterazione si rafforza lo stereotipo stesso, rassicurando in questo modo il consumatore. L’educazione alle identità e ai ruoli di genere, come ricordato in precedenza, inizia già dalla tenera età. Non solo attraverso spot che pubblicizzano giochi per bambine e per bambini i cui protagonisti sono rispettivamente femmine 40 Specchio delle mie brame Pubblicità sottilette Kraft. Pubblicità dentifricio Mentadent. e maschi (abituati quindi alla separazione di genere già nelle attività ludiche), ma anche attraverso pubblicità che vedono come protagonisti i più piccoli impegnati in attività “da grandi”, come per esempio nello spot delle “Sottilette Kraft”, dove una bambina lava i piatti dopo aver preparato il pranzo. I bambini e le bambine vengono quindi “coltivati” da piccoli ad assumere quelli che socialmente sono considerate le identità e i ruoli adatti al proprio genere. Possiamo quindi proporre in questo contesto la teoria della coltivazione elaborata da George Gerbner (1986): l’uso massiccio del mezzo televisivo non ha effetti immediati sul pensiero ma produce nel lungo termine un effetto di “coltivazione” e provoca un cambiamento della percezione della realtà, facendo vivere lo spettatore in un mondo modellato su ciò che viene trasmesso nella televisione. Le rappresentazioni della componente maschile passano invece attraverso il ruolo dell’esperto: è l’uomo che possiede la professionalità, che è detentore del sapere, che dimostra la sua autorevolezza. Se c’è una pubblicità di detersivi, anche se è la donna a usarlo, è lui che spiega quali sono le componenti e le proprietà. Altro caso emblematico è costituito dagli spot sui dentifrici: indossando il camice bianco e un paio di occhiali l’uomo diventa il “dottore”, colui che garantisce la qualità del prodotto proprio a partire da suo ruolo di esperto. In questo modo vengono reiterate le differenze di genere che nella realtà quotidiana causano e legittimano discriminazioni e la subordinazione della figura femminile. Pensiamo per esempio al mondo del lavoro dove notevoli e persistenti sono le differenze tra le possibilità di carriera di uomini e donne e i rispettivi salari. Infine altra tematica affrontata da “Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli”, è quella relativa alle rappresentazioni dei modelli famigliari. Abbiamo precedentemente affermato, che sono molto profondi i mutamenti che stanno investendo le forme famigliari e i rapporti tra i generi. Innanzitutto è evidente il crescente fenomeno dell’instabilità coniugale. Biso41 Specchio delle mie brame gna dire che in Italia essa è minore rispetto agli Stati Uniti e i paesi dell’Europa settentrionale, e ciò può essere associato a un modello di relazioni familiari definito “dei legami forti”, tipico dei paesi dell’Europa meridionale, dove i rapporti famigliari rivestono un’importanza simbolica e materiale molto intensa (Micheli 2005). Tuttavia separazione e divorzio sono fenomeni in costante aumento anche nel nostro Paese, affermazione che trova corrispondenza nelle rilevazioni Istat (2012): dalle 81.359 separazioni del 2007 si è passati alle 88.191 del 2010, e dei 50.669 divorzi del 2007 si è passati ai 54.160 del 2010. Inoltre l’età media ai matrimoni è salita di 6 anni per entrambi i coniugi dalla metà degli anni Settanta a oggi (Rosina, Ruspini 2011), il 34% dei matrimoni è preceduto da un periodo di convivenza, si assiste a un abbassamento del tasso di fertilità che viene mantenuto stabile solo grazie alle presenze degli stranieri nel nostro Paese, che assicurano il 17% delle nascite. Infine l’allungamento della speranza di vita, insieme a una bassa probabilità di rimanere sani nell’età avanzata, ha portato un ulteriore carico all’interno delle famiglie, che a causa di un welfare carente diventano l’unico punto di riferimento per i suoi membri (Ruspini 2011). Altro fattore che concorre al cambiamento della famiglia italiana è quello legato all’immigrazione: sono in crescita, anche se in misura minore rispetto agli altri Paesi europei, i matrimoni misti e il numero di stranieri che chiedono il ricongiungimento famigliare e che vanno quindi a creare nel nostro Paese una famiglia a tutti gli effetti. C’è da dire, poi, che le questioni del riconoscimento ufficiale, cioè attraverso matrimonio, di coppie omosessuali e dell’omogenitorialità, cioè la possibilità di avere o adottare dei figli da parte di una coppia composta da persone dello stesso sesso, sono attuali ed emergenti, anche all’interno del dibattito pubblico, dove tuttavia le posizioni sono molto diverse e per lo più contrarie a questo tipo di forma famigliare che viene spesso definita come “innaturale”. Non si può quindi più parlare, per il contesto italiano, di famiglia nucleare, eterosessuale e composta da persone di pelle bianca, ma diventa sempre più necessario prendere coscienza dei mutamenti che stanno attraversando la famiglia e che producono nuove forme: allargate, ricostituite, multiculturali, monogenitoriali, omosessuali e omogenitoriali. A partire da queste considerazioni quello che ci siamo chiesti è se le pubblicità rappresentassero questi mutamenti rispecchiando le molteplici forme famigliari che caratterizzano la nostra epoca. La risposta sembra purtroppo negativa. All’interno dei media infatti domina fortemente ancora la famiglia tradizionale, caratterizzata da un legame affettivo eterosessuale tra uomo e donna dove è costante la presenza di figli e figlie. Ciò concorre certamente a legittimare un solo modello che è quello volto alla procreazione: la famiglia 42 Specchio delle mie brame Pubblicità “La macchina dell’acqua” Beghelli. giusta è quella eterosessuale il cui ruolo (e valore) è quello riproduttivo. I tipici esempi che possiamo fare sono quelli relativi agli spot che pubblicizzano i prodotti della “Mulino Bianco”, della “Barilla” (Dove c’è Barilla c’è casa), della “Beghelli”. Ciò che viene enfatizzato è il rapporto affettivo non solo tra i coniugi, che in questo modo riafferma l’ideale dell’amore romantico, ma anche tra diverse generazioni (genitori-figli, nonni-nipoti), che simboleggia l’importanza dell’identità e del sostegno reciproco (la famiglia è l’avere radici, è la propria storia). Questo in un contesto dove ancora forte è sì il modello familista, ma è al contempo estremamente in crisi perché come abbiamo visto sulla famiglia grava un compito che il nostro welfare non riesce a sostenere. La famiglia tradizionale rappresentata è poi composta esclusivamente da persone di pelle bianca escludendo dall’immaginario quella fetta di realtà che invece è composta dalle famiglie di persone immigrate, che ricordiamo essere cinque milioni, circa il 10% della popolazione italiana. Inoltre le rappresentazioni degli spot mettono in scena famiglie appartenenti alla classe media, benestanti, nel senso che sono per lo più raffigurate in belle case e si possono permettere acquisti anche superficiali. Certo è che le pubblicità devono accattivare e creare quell’ideale che è poi la molla che porta il consumatore ad acquistare la merce, tuttavia per far ciò essa concorre a creare un falso immaginario, soprattutto in un momento storico di crisi economica come questo, dove le famiglie in condizione di povertà crescono di giorno in giorno. Pubblicità lasagne Barilla. 43 Specchio delle mie brame Infine, sempre per rappresentare una famiglia ideale, i suoi membri sono sempre giovani e belli, curati, rispondenti ai dogmi estetici dominanti: così come le identità, le persone, anche le famiglie devono seguire i principi di giovinezza e bellezza caratteristici della nostra società. Belli, giovani e quindi sani come i prodotti ai quali vengono associati. Conclusioni A partire dai mutamenti che stanno investendo i generi, la relazione tra loro e la sfera famigliare, abbiamo visto che esiste una profonda scollatura tra gli immaginari proposti dai media attraverso le pubblicità e la realtà concreta, la nostra quotidianità. Il mondo dei media è ancora fortemente permeato da stereotipi: esso è al contempo prodotto e produttore di modelli e immagini stereotipate. È vero che essi sono lo specchio della società, ma è altrettanto vero che la realtà sociale non si esaurisce in essi. Se ci fermassimo a guardare soltanto le rappresentazioni che passano all’interno degli spot vedremmo una realtà limitata, ancorata a contesti che non ci sono più, ferma su identità e ruoli di genere che sono ormai superati. “Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli” intende rivolgere lo sguardo su tutto questo. Si tratta di uno sguardo critico su una realtà statica, omogenea, appiattita sulle solite rappresentazioni di genere, di ruolo e di famiglia, che offre un immaginario uniforme, dove le donne sono erotiche, casalinghe e madri, dove gli uomini sono virili, potenti, professionisti, esperti, e dove la famiglia è una sola possibile, quella tradizionale. Ciò che manca è tutta la varietà che caratterizza il nostro periodo storico post o tardo moderno (Lyotard 1981; Giddens 1990; Bauman 1999), vale a dire la frammentazione e la molteplicità dei vissuti, delle esperienze, dei modi d’essere e di fare famiglia; il crescente e inarrestabile multiculturalismo; la libertà di esprimere la propria identità e il proprio orientamento sessuale; l’invecchiamento della popolazione italiana. Tutti elementi che vengono eclissati dai media, che costruiscono così un immaginario “parziale e illusorio”, un mondo ideale (ma per chi?) separato dalla realtà quotidiana. Ci sembra dunque oggi più che mai necessario continuare a riflettere sulla relazione che intercorre tra immaginario diffuso dai media e realtà quotidiana. Ciò al fine di scardinare alcune “griglie” in cui si muove la società e che portano al rischio, tutt’altro che lieve, di non farci riconoscere i cambiamenti in atto, perpetrando stereotipi “discriminanti” e “marginalizzanti” che come sappiamo, e non sembra difficile da capire, comportano sostanziali ricadute sulla dimensione lavorativa, sociale, affettiva. 44 Specchio delle mie brame Bibliografia Arosio L. (2010), L’uso dei documenti, in de Lillo, Antonio (a cura di) (2010), Il mondo della ricerca qualitativa, UTET, Torino, pp.145-182. Azzalini M. (2009) La rappresentazione di genere, in Malchiodi M. (a cura di), Valori di Cartone. Esperienze e personaggi dell’animazione televisiva, Link RTI, Milano, pp. 77-86. Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna. Berger P.L., Luckmann T. (1969), La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna. Boni F. (2007), Maschilità e media, in Grossi G., Ruspini E. (a cura di), Ofelia e Parsifal. 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Ripartirei dalle cose che ci siamo detti dall’inizio, cioè come fare una riflessione critica sull’immaginario prodotto dalla pubblicità, dai media, senza cadere in una posizione moralistica che quindi sia facilmente marginalizzata come lamentazione, come resistenza più o meno ipocrita a un cambiamento in corso. Quindi su questo, secondo me, c’è da porre al centro la riflessione sul corpo e sul desiderio, anche evitando probabilmente un rischio che ritorna spesso in queste nostre riflessioni e cioè il rischio di individuare il corpo come un dato problematico nella soggettività. Che cosa intendo? Intendo dire che siccome, giustamente, facciamo una riflessione critica su quanto il corpo sia esposto, strumentalizzato, consumato ed enfatizzato, spesso siamo portati a dire che la soluzione è coprire questi corpi, contestare l’eccessiva esposizione o contestare il fatto che le persone vengano valutate per la loro bellezza anziché per la loro intelligenza o per la loro competenza, quasi riproducendo noi un dualismo, questo sì un po’ moralistico, che chiede che le donne vengano valorizzate per le loro competenze e non per il loro aspetto. Ciò rischia di portarci indietro perché il movimento femminista – io credo – ha avuto in positivo anche questo aspetto, cioè quello di affermare il corpo come luogo della soggettività, non come ingombro, non come problema ma, al contrario, come una parte costitutiva della nostra identità che deve avere cittadinanza nel mondo, nella politica, nelle istituzioni. Su questo ci tornerò subito dopo, però credo che dobbiamo evitare il rischio che una resistenza al consumo dei corpi ci porti a mettere da parte il corpo. L’altro elemento su cui, secondo me, dovremmo fare una riflessione è qual è il richiamo che facciamo agli uomini rispetto a questo, cioè se il nostro richiamo è una richiesta agli uomini di rispetto verso le donne, (cioè in qualche modo una richiesta agli uomini, politicamente corretta, di rispettare la dignità delle donne) o, al contrario, di riconoscere che questo terreno, (cioè il terreno della rappresentazione pubblica, sociale, dei corpi, del desiderio, della sessualità), è un terreno che riguarda donne e uomini, cioè che riguarda la libertà di donne e uomini; quindi, riflettere su questo come uomini non vuol dire farsi carico un po’ cavallerescamente della dignità delle donne ma, invece, di ri47 Specchio delle mie brame conoscere che dietro quella rappresentazione delle pubblicità che abbiamo visto c’è anche una gabbia per la libertà del desiderio maschile e quindi anche una gabbia per la costruzione di una propria identità come uomini. Quella pubblicità, insomma, non ci racconta solo come sono i corpi delle donne ma ci racconta quali sono le aspettative che donne e uomini hanno e quali sono le aspettative che noi abbiamo su uomini e donne, quindi in realtà costruisce dei destini segnati, dei ruoli segnati per tutti e due i sessi. Il problema non è quanto sono scoperti i corpi ma cosa ci dice quell’immagine dei corpi che vediamo e, quindi, quanto il corpo rimanda – da un lato – a una soggettività (cioè quanto quel corpo femminile o quale corpo maschile che vediamo è un soggetto autorevole, autonomo, determinato, che ha un suo desiderio, uno sguardo sul mondo) e quanto, appunto, dentro quel corpo c’è un nesso con la libertà. Ci tornerò poi molto velocemente nel tentativo di raccontarvi un po’ il nostro punto di vista come Maschile Plurale. Parto da immagini che non sono immagini pubblicitarie ma sono immagini istituzionali e da un tema che sembra non entrarci molto, che è il tema della violenza contro le donne. È un tema su cui noi, come Maschile Plurale, lavoriamo molto per le campagne di sensibilizzazione che spesso vengono fatte anche dalle Commissioni Pari Opportunità, da associazioni anche di donne, da istituzioni… L’immaginario che abbiamo più o meno è questo: una donna piegata in un angolo che si protegge, schiacciata da un’ombra. Cosa ci racconta questo tipo di immagine? Che le donne sono dei soggetti deboli che hanno bisogno di tutela e di protezione, 48 Specchio delle mie brame protezione che ovviamente può essere fatta dallo Stato, o dal marito, dal suo uomo. Pensate che fino al 1975 nel nostro Paese vigeva ancora l’autorità maritale, cioè l’idea che l’uomo, il capofamiglia dovesse proteggere e mantenere la donna ma potesse esercitare anche l’uso dei mezzi di correzione sui figli e sulla moglie. Quindi questa idea di donne deboli, che hanno bisogno di essere protette, rimanda a una precisa immagine di dominio e di controllo maschile, ma poi manda ovviamente immagini di controllo delle donne, le donne sono il nostro territorio, non si toccano e noi le proteggiamo dall’invasione degli altri: gli altri sono gli immigrati, gli stranieri, tutte le differenze, dai rom a quello che sia, ma possono essere anche gli italiani. Questa è una campagna svizzera: in questo caso c’è Ivan, ce n’è un’altra con Antonio, perché c’è un razzismo verso l’italiano che dice “Antonio (o Ivan) oggi violentatore e magari presto svizzero, cioè gli daremo la cittadinanza”. 49 Specchio delle mie brame Dietro questo aspetto c’è un immaginario da un lato di donna bisognosa di protezione ma anche di donna eterea, fragile. Questa è una campagna della Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne, ce ne sono tante molto simili: “Una donna non si tocca neanche con un fiore”. La donna è fragile, va rispettata e messa magari sotto una campana di vetro, come dire, di nuovo sotto controllo. In un video fatto dal Centro Antiviolenza di Siracusa, c’è Beppe Fiorello che gira per una città e incontra sempre più donne con la bocca coperta da una mano; il testo parla della violenza contro le donne e delle donne che non denunciano la violenza. Queste donne sono sempre di più, in fila, con Fiorello che le segue, fino a portarle dentro una villa e dentro questa villa, finalmente, è lui che le libera, abbassando la mano di una donna che tiene la bocca coperta. L’idea è che c’è un uomo salvatore di queste donne, le quali incapaci di prendere parola da sole, anche se sono in 100 in una stanza, tutte con la bocca chiusa, aspettano che un uomo le liberi. Questo immaginario quindi è dentro una comunicazione istituzionale, è anche dentro una comunicazione esplicitamente a sostegno delle donne, contro la violenza maschile. Non ce lo saremmo aspettati. 50 Specchio delle mie brame Questo tema rimanda a un altro aspetto che è quello della virilità. Questa è una campagna che si fa nelle scuole: “I veri uomini non picchiano le donne”. Qual è il concetto? Il concetto è che il “valore” è essere un vero uomo e un vero uomo è quello che rispetta le donne e che non le picchia; quindi, qui dentro, ci sono due elementi che strutturano il nostro immaginario. Il primo è che la virilità è un “valore”, è un dispositivo che controlla il comportamento maschile a cui noi dobbiamo fare riferimento (cioè: per contrastare la violenza che è frutto di un disordine nella nostra società dobbiamo tornare a un “valore”, che è quello tradizionale della virilità). L’altro immaginario è che gli uomini sono portatori di un desiderio e di una sessualità naturalmente bulimica e violatoria, ma che possono regolarla con il controllo virile dei propri sentimenti. Quale virilità? Quella di chi domina le proprie emozioni, le donne sono preda delle proprie emozioni, gli uomini sono quelli che le controllano e le dominano. L’idea della virilità torna: questa è una campagna romana, sempre fatta da un’associazione di donne, che dice “Colpire non è virile”, quindi, di nuovo, se picchi una donna non sei virile. Fino a questa campagna estrema, che è stata fatta dalla Commissione Pari Opportunità di Bolzano contro il bullismo, che dice “l’uomo è quello con una grande banana, il bullo è quello con un piccolo pisello (ovviamente stiamo vedendo una sottile metafora proposta dalla campagna). 51 Specchio delle mie brame Se ci pensate, cosa dicono i bulli a un ragazzino che viene perseguitato? Che ce l’ha piccolo, quindi in realtà stiamo facendo un’operazione di bullismo contro i bulli. In realtà la comunicazione istituzionale non è solo la comunicazione programmata ma è tutto un immaginario in cui noi siamo immersi. I bagni delle donne hanno l’immaginario che le donne abbiano anche uno spazio per prendersi cura dei bambini, anche con la nursery. Al contrario, sempre per l’immaginario, nella pubblicità dell’ATM, la compagnia della Metropolitana a Milano, la donna è in primo piano con la carrozzina, accanto a lei c’è un uomo, ma l’uomo è accanto, lei è con la carrozzina. Sempre a Milano, altra comunicazione che dice “questo è il bike sharing”, cioè prendi la bicicletta e usala, e dice “Perché essere fedele a una sola bicicletta quando puoi prenderle e lasciarle come ti pare?”. È un appello chiaro a un desiderio maschile, di avere appunto più donne che vuoi. L’immagine a lato rimanda all’estremità di questa idea di desiderio maschile, appunto “Diventare donatore è l’unica chance che hai per entrare dentro di lei”. Qui tornerei un po’ a questo aspetto, perché penso che questo sia un aspetto su cui dobbiamo ragionare e ci rimanderà poi all’aspetto conclusivo, almeno della mia riflessione. In questa rappresentazione di modelli c’è sì un’esposizione del corpo della donna, ma c’è anche un altro elemento ed è la rappresentazione di una asimmetria di desiderio: gli uomini desiderano e hanno un desiderio bulimico continuo; le donne… il loro desiderio è rimosso socialmente, non c’è una visibilità del desiderio femminile. Questa asimmetria di desiderio è quella che porta a due aspetti: da un 52 Specchio delle mie brame lato, il desiderio maschile naturalizzato, che va disciplinato; dall’altro, invece, l’idea che ci sia una differenza tra donne e uomini per cui c’è uno scambio ineguale tra donne e uomini, sesso contro denaro e potere, denaro e potere per ottenere sesso; quindi, la dimensione del consumo e della pubblicità non è solo un elemento che strumentalizza questa rappresentazione ma rimanda a questo aspetto: per consumare corpi di donne devo scambiare sesso, denaro e potere e il mio potere è condizione per disporre del corpo delle donne; al contrario la disponibilità di corpi delle donne è misura del mio potere. Pensiamo a personaggi del vicino passato in cui questa rappresentazione di disporre di corpi di donne era misura del proprio potere e del proprio successo maschile. Penso che ci sia un’altra riflessione che dovremmo fare e cioè il desiderio maschile che viene rappresentato in queste campagne: è un desiderio naturalizzato, cioè rappresentato come un dato naturale che può essere al massimo regolato dalle buone maniere, dal comportamento corretto, dal rispetto. Credo che, invece, dovremmo provare a riflettere su quanto il desiderio maschile sia colonizzato, obbligatorio, cioè gli uomini sono obbligati a desiderare in un certo modo; se non desideri non sei un vero uomo e le forme del tuo desiderio sono anche costruite dalla pubblicità, cioè la pubblicità non semplicemente fa riferimento a un desiderio preesistente a cui si adegua per vendere dei prodotti ma costruisce, struttura il mio modo di guardare, il modo di guardare le donne, il mio modo di pensare il mio corpo e di desiderare. C’è anche un obbligo da questo punto di vista. L’altro elemento che secondo me dovremmo riprendere con attenzione è quello della disponibilità femminile. La rimozione del desiderio femminile rimanda all’idea che le donne siano oblative, siano a disposizione del desiderio o del bisogno maschile (vedi la donna materna che c’era nelle pubblicità degli anni ’40 e ’50), cioè la donna che non sessualmente ma in modo materno risponde ai miei bisogni, oppure la donna che è a disposizione del mio desiderio maschile come terreno di consumo. Ora, si può dire che di fronte a una simile rappresentazione ci sia un nodo maschile su cui possiamo lavorare ed è anche quello della frustrazione maschile, cioè quanto in questa rappresentazione ci sia la ricerca di donne che rispondano al nostro bisogno di consumo: c’è anche una incapacità di fare i conti con la nostra dipendenza come uomini e il nostro bisogno? In realtà il consumo, l’idea di poter consumare qualcosa, mi permette di trasformare nel mio immaginario quello che è un mio bisogno, e che quindi sarebbe una mia debolezza (io ho bisogno di cure, di attenzioni, di affetto, di relazioni) in consumo (vado al supermercato e compro degli oggetti che io posso consumare). Questo è molto interessante, secondo me, perché rimanda a 53 Specchio delle mie brame un immaginario maschile molto importante che è quello della fuga dalla dipendenza delle relazioni. Molte pubblicità maschili, pensate a quelle per le auto, rimandano a questa idea: il sogno di libertà maschile è quello della solitudine, cioè di chi non dipende da nessuna relazione, che va in macchina in un deserto e in quella velocità misura la propria libertà. Questo aspetto, cioè di fare i conti con il fatto che siamo tutti inscindibilmente dipendenti da relazioni e affetti e che invece in questo c’è un’ansia maschile di emanciparsi dall’affetto e dalla relazione, è un dato su cui in questo immaginario molto forte dovremmo lavorare perché dietro questo c’è l’idea che se non ti allontani dalla gonna di tua madre non diventerai mai un uomo e che se ti fidanzi con qualcuno ti avrà messo il cappio al collo e non sarai più un uomo libero, quindi meglio avere tante donne come James Bond ma non una che ti vincoli nella tua libertà. Questo è l’immaginario che viene rimandato. Il rischio qual è? Che noi parliamo di tutto questo e facciamo un’operazione un po’ passatista, ci dicono guardate che non è più così, nel video che ci veniva proposto ormai i corpi maschili sono esposti, si vedono da tutte le parti, sono corpi nudi. Ecco, io penso che non sia così, penso che se guardiamo la presentazione dei corpi nudi che avete visto di uomini e di donne c’è qualcosa di diverso. L’esercizio è chiedersi che cosa stanno pensando o dicendo quegli uomini e quelle donne che guardiamo. Qui abbiamo due pubblicità, io le ho fotografate in una stazione di Torino perché sono un po’ fissato col cellulare. Questa è una pubblicità della Yamamay, sicuramente “lui” è bello come tanti ragazzi che avete visto nelle immagini, e poi c’è il suo contraltare femminile. La differenza è evidente, questa ragazza è qui e guarda voi, cioè dice: “Io ti sto aspettando, il mio scopo è quello di essere guardata da te, di aspettare il tuo sguardo”; mentre lui non sta aspettando nessuno, lui cavalca le onde con il surf, cioè lui non dipende dallo sguardo femminile per essere nel mondo. Non c’è un ballo delle debuttanti per gli uomini in cui tu esisti perché qualcuno ti sceglie, tu – maschio – esisti “a prescindere”, mentre lei 54 Specchio delle mie brame aspetta di essere guardata. David Beckham è oggetto dello sguardo delle donne che possono ammirarlo ma non dipende dal loro sguardo, lui è un campione del mondo, è uno super tatuato, determinato, che guarda fisso verso l’orizzonte, non sta lì per essere guardato, ma sta lì perché è sicuro del suo posto nel mondo. Questa è la nazionale di calcio. L’immagine anche qui qual è? Di uomini che stanno qui perché sono in esposizione allo sguardo femminile? No, loro sono campioni del mondo (…erano campioni del mondo), stanno in uno spogliatoio, cioè nessuno di questi uomini vi sta dicendo che dipende dal vostro sguardo. Allora il nesso tra corpo e soggettività è idem, qui è la stessa cosa, cioè quello che queste pubblicità ci dicono è che i corpi maschili possono essere esposti ma rimandano a dei corpi di uomini che sono soggetti pienamente, padroni del proprio destino, che non aspettano uno sguardo ma anzi invece sono a conquistare lo sguardo. Quindi da questo punto di vista il nesso non è quanto facciamo vedere – donne più o meno nude in televisione o nella pubblicità – ma come rappresentiamo quelle donne come corpi nudi ma come corpi muti, cioè corpi che non hanno desideri, non hanno parola, non hanno progettualità, non hanno autonomia, non hanno soggettività. Questa è una pubblicità svizzera che invece gioca il corpo maschile in modo diverso, cioè c’è un “gratta e vinci” e lei gratta sul petto di lui le lettere per cercare di vincere alla lotteria. Allora la lettura che si può dare è: 1°, non essere scelte ma scegliere e, 2°, un corpo maschile che può essere bello ma è bello come macchina, cioè come strumento che ha una prestazione, una sua performance. Qui la cosa, secondo me, è abbastanza interessante. 55 Specchio delle mie brame Questo è Iggy Pop e fa vedere un corpo maschile differente. Lui in qualche modo dice non mi vergogno di essere vestito da donna perché penso che non ci sia niente di vergognoso nell’essere donna, niente di ridicolo. Ci sono due aspetti: da un lato credo che sia interessante ragionare su come appunto l’immaginario rimandi a una femminilizzazione come perdita di autorevolezza e come questo sia un freno al cambiamento maschile, cioè tutte le rappresentazioni di cambiamento maschile vengono raccontate come femminilizzazione e quindi come perdita di virilità: i mammi che si prendono cura dei figli, l’uomo sensuale, l’uomo che si cura e quindi perde di femminilità. Ecco, io penso che qui ci sia un elemento interessante perché dopo un po’ questa immagine ci fa impressione ma non ci sembra ridicola, lui ha una forza nel suo sguardo talmente potente e autonoma che appunto dice che ci può essere un uomo che rompe con quello stereotipo. Questa sotto è l’immagine finale, questo è l’immaginario di una donna negli anni ’50 in Italia che, come vedete, non è vestita in modo particolarmente appariscente né è scoperta ma che cosa c’è in questa immagine? 56 Specchio delle mie brame L’immagine di una donna che è nello spazio pubblico, per strada, da sola, senza un uomo, e lo spazio pubblico è determinato dagli sguardi maschili, cioè da una rete di sguardi che possono essere ironici, seduttivi, aggressivi e che producono come uno spazio in cui lei è estranea, cioè lei non ha cittadinanza nello spazio pubblico. Allora io penso che dovremmo tornare a questo e dovremmo tornare a riflettere su come quindi la nostra costruzione si basi su questo aspetto, cioè da un lato le donne gravate dal loro corpo, che toglie cittadinanza alle donne, le donne se sono in gravidanza sono meno affidabili lavorativamente, le donne oggetto di desiderio sono prima oggetto che soggetto e via di seguito, e quindi noi in questo costruiamo un’idea che il corpo è una gabbia, il corpo è un qualcosa che ti frena dalla tua costruzione di autonomia e al contrario gli uomini hanno fatto un’operazione opposta, quella di rimuovere il corpo, cioè di essere qualcuno che non dipende dal proprio corpo, che usa il corpo come una macchina. Perché dico questo? Perché io penso che su questo ci sia un rischio. Veniva citata Judith Butler e tutta una riflessione su questo del femminismo degli ultimi anni. Il nostro rischio è quello di pensare a una prospettiva di libertà che non sia una libertà del corpo ma una libertà dal corpo e non una libertà nelle relazioni ma una libertà dalle relazioni. Allora io come maschio conosco molto bene questo sogno, questa fantasia di libertà, che è quella di liberarsi dal corpo e di considerare il corpo come la lavagna su cui noi scriviamo la nostra identità ma non invece qualcosa che costitutivamente è parte della nostra identità e quindi in questo credo che la nostra riflessione critica sull’uso dei corpi non possa essere basata sull’idea di allungare le gonne alle veline o di coprire i corpi che stanno sui manifesti ma invece, al contrario, di fare due operazioni. La prima è quella di riscoprire il corpo come luogo dell’identità e della soggettività; la seconda, fare i conti con un elemento di cambiamento nella nostra società che in queste ultime pubblicità emerge ma che noi non riconosciamo ed è il fatto che le donne non sono più un corpo ma hanno anche un desiderio. Allora per gli uomini misurarsi con il desiderio femminile, misurarsi con la soggettività femminile, viene oggi raccontato come una minaccia, come un pericolo. Io stamattina sono andato alle 6 a fare una trasmissione a Milano, a Uno Mattina, in cui Tiberio Timperi conduceva la trasmissione il cui tema era: “gli uomini non sono più uomini, le donne hanno preso il potere, le donne sono aggressive, si stanno mangiando tutti i posti di potere, gli uomini sono frustrati e depressi perché le donne sono anche sessualmente sempre più libere e intraprendenti”. 57 Specchio delle mie brame Ecco, questa narrazione può essere ribaltata? Io penso di sì, cioè possiamo ribaltarla dicendo che invece per gli uomini scoprire lo sguardo femminile, scoprire il desiderio femminile e quindi anche uno sguardo sugli uomini, che vuol dire che gli uomini tornano ad avere un corpo e le donne tornano ad avere uno sguardo, cioè superare quell’asimmetria per cui noi avevamo il potere e le donne avevano il corpo, io penso che su questo noi possiamo provare a fare un discorso anche sulla rappresentazione dei corpi nella pubblicità, meno schiacciato sull’alternativa tra moralismo e libertinismo o tra buone maniere e volgarità e invece scoprire che, su questo, è possibile costruire una riflessione che a partire dalla libertà femminile parli anche alla libertà degli uomini. 58 Specchio delle mie brame La fotografia della finzione Cristina Sivieri Tagliabue Giornalista e scrittrice L’intervento di Stefano Ciccone, che mi ha preceduto, offre la possibilità di sviluppare una riflessione in continuità. Sono una giornalista che insieme a un gruppo di videomaker e di donne creative ha avviato un’attività con caratteristiche particolari. L’8 marzo 2008, data significativa perché ricorre la festa della donna, insieme a 5 videomaker, registe, autrici, giornaliste, ho fondato una casa di produzione video1: ho dato vita a un’impresa sociale no profit dedicata alla produzione video, cioè alla produzione di format, (molte delle cose che vedete in televisione, i programmi televisivi, le pubblicità, l’advertising, sono format) e di documentari, che è un nuovo modo di fare giornalismo. Il documentario ha un linguaggio specifico che potete incontrare al cinema per esempio guardando “Bowling for Columbine” di Michel Moore, o che ritrovate in tutte le grandi inchieste (anche il programma di Milena Gabanelli “Report” usa in qualche modo un linguaggio documentaristico). È infatti un linguaggio anche cinematografico, non soltanto televisivo. Ebbene, con questa casa di produzione che si chiama “Non chiederci la parola”, (che è il titolo di una poesia di Eugenio Montale), abbiamo dato vita a una provocazione: abbiamo provato a raccontare con la nostra voce e i nostri occhi di donne, attraverso il linguaggio del video, quello che noi desideravamo. In realtà è proprio vero, noi donne non sappiamo esattamente cosa vogliamo. Per prima cosa perché non abbiamo mai avuto gli strumenti tecnici per raccontarlo, poi perché non abbiamo mai avuto l’opportunità di narrare il nostro mondo all’interno di mondi che non ci esponessero in prima persona. Non abbiamo mai avuto cioè la possibilità di essere presenti nel backstage. Il backstage è il luogo che sta dietro a quello che noi vediamo. È il lavoro dietro le quinte, quello che il pubblico non vede, ma contribuisce alla costruzione del suo immaginario per controllare sogni e desideri della società (negli anni ’60, a questo proposito, si parlava di persuasori occulti). Oggi noi donne abbiamo preso consapevolezza del fatto che era necessario entrare all’interno del mondo dei media per avere un ruolo nella costruzione dell’immaginario comune e provare a far vedere quello che invece noi desideravamo. 1 Quest’anno ho 39 anni, le mie colleghe socie hanno tra i 25 e i 45 anni. Adesso siamo diventate tante anche perché una azienda no profit è un’associazione che vive della collaborazione volontaria e ciascuna ci mette del suo nel dare il proprio contributo. 59 Specchio delle mie brame Prima di arrivare a fondare una casa di produzione, ho scritto lungamente per “Il Sole 24 Ore”. Dopo 15 anni di giornalismo, all’interno del quale mi sono misurata con tante inchieste nel mondo della cultura, ho pubblicato anche dei saggi su questi temi. In questo percorso mi sono resa conto che la maggior parte dei direttori, dei responsabili del mondo culturale italiano sono uomini. Questo cosa significa? Che coloro che creano l’immaginario che noi guardiamo in televisione o al cinema o negli spot, sono di genere maschile e in genere sono persone di un livello culturale non eccezionale. Hanno un’expertise di creatività, quindi sanno come va girato uno spot, conoscono la pellicola, conoscono lo strumento del montaggio, conoscono il computer, ma non conoscono cosa accade nel cervello. Eppure sono loro che decidono quali sono le pubblicità che andranno in onda, quali sono gli immaginari che stanno creando. A loro volta hanno dei committenti, che sono i direttori delle reti televisive e, guarda caso, in Italia sono tutti uomini. Lo stesso avviene per i responsabili delle pubblicità delle aziende italiane, dei grandi investitori, come Telecom Italia, Fastweb, Vodafone, (questo solo per parlare delle telecomunicazioni che sono i primi investitori in ambito pubblicitario). A decidere sono gli uomini, che poi utilizzano le donne per le loro pubblicità. Per illustrare questa verità, vi racconto un aneddoto, che ha valore di storia esemplare, relativo alla campagna pubblicitaria di Telecom con Belen Rodriguez come testimonial: mi riferisco a quella campagna dove lei cammina esibendo il fondoschiena nella piscina. Ovviamente non è che in Telecom Italia2 non esistano donne. Ci sono anche delle dirigenti donne pienamente consapevoli del fatto che il messaggio che viene dato dalla pubblicità della Telecom sia assolutamente sbagliato, anche proprio nei confronti delle clienti donne che devono comprare dei telefoni. Non più tardi di due anni fa si sono riunite in assemblea. Le 25 donne dirigenti (in Telecom Italia ci sono circa 300 uomini dirigenti e soltanto venticinque donne, ma questo è un altro discorso), con tutte le donne “quadri”, si sono messe insieme e hanno chiesto all’amministratore delegato il perché di questa pubblicità, che ovviamente consideravano offensiva. Dal momento che è l’immaginario creato dall’azienda nella quale vivono, che frequentano tutti i giorni e dalle quali si dovrebbero sentire rappresentate, hanno fatto un po’ la voce grossa. Allora l’amministratore delegato ha convocato Belen Rodriguez con tutti i dirigenti, cercando in qualche modo di creare un’atmosfera gioviale. C’è stata questa assemblea all’interno della quale Belen Rodriguez si è presentata in camicia 2 Telecom Italia è un’azienda che occupava 100 mila persone, e che adesso comunque occupa ancora circa 40 mila persone. 60 Specchio delle mie brame bianca, jeans, la scarpa bassa, cercando di fare amicizia con le donne. I dirigenti della Telecom alla fine hanno detto: ma vedete come è alla mano, come è fresca, come è carina questa ragazza? Non è un problema della ragazza, anzi noi crediamo che sia proprio il volto giusto, eccetera. Le donne presenti obiettarono che era chiaro che non era un problema della ragazza, o non solo della ragazza o del fatto che fosse associata a un immaginario simile a quello di Corona, eccetera, ma che il problema era di come veniva presentata la ragazza: che fosse vestita in un certo modo, che guardasse in un certo modo, che fosse ammiccante in un certo modo. A quel punto il direttore della pubblicità ovviamente ha portato le slides con i risultati delle ricerche che dimostravano come una donna ammiccante, una donna sensuale, cattura molto di più l’attenzione. Ovviamente si sostiene che se c’è una donna ammiccante all’interno della pubblicità il prodotto si vende di più. La pubblicità ha pochi secondi per cogliere l’attenzione della persona e quindi in un attimo parla ai nostri desideri più bassi, alle nostre aspettative immediate, non parla quasi al nostro cervello, parla al nostro istinto. E l’idea diffusa è che parla a coloro che dovrebbero essere i clienti-tipo e che sono i detentori del portafoglio, che tipicamente una volta erano uomini. Paradossalmente rispetto agli anni 50 non è cambiato assolutamente nulla nel mondo della pubblicità, mentre è cambiato tutto nel nostro mondo. Sappiamo che oggi il 60% dei clienti sono donne o comunque sono loro che decidono il portafoglio della spesa della famiglia. Comunque quest’assemblea di Telecom Italia si chiuse con le donne sempre più rammaricate, un po’ distrutte da questi numeri e che si ponevano la questione che allora non è possibile fare niente. Per rimediare al problema le donne hanno poi ha cercato di fare un’opera di sensibilizzazione attraverso diverse associazioni al femminile che in Italia operano in questo senso. Questo per darvi comunque un’idea di quanto sia difficile cambiare le cose anche dall’interno delle aziende, che in realtà sono molto meglio di quanto pensiamo, perché le aziende di per sé sono fatte di persone, che spesso sono molto meglio di quelli che sono i loro spot. Soprattutto all’interno di un’azienda il cammino della consapevolizzazione del mondo dell’advertising e della pubblicità è quanto mai complesso, perché è un mondo legato a dei grossi budget, è un mondo legato al potere. Quindi sono dei mondi molto difficili da disinnescare. Anche adesso che è diventata Presidente della Rai una donna, la dottoressa Tarantola, che ci ha coinvolto subito come casa di produzione al femminile per cercare di immaginare dei format un pochino più tesi alla narrazione al femminile, vi assicuro che dai direttori di rete ai vice direttori, ai capi di struttura, eccetera, il cammi61 Specchio delle mie brame no è lunghissimo perché comunque anche cambiando una posizione apicale in realtà poi c’è tutto un sistema che resiste. Qualche anno fa scrissi un libro che si intitolava “Appena ho 18 anni mi rifaccio”. In questo caso prendevo di mira i chirurghi plastici e quindi il mondo dei desideri indotti dalla chirurgia plastica e della bellezza. Dopo questo libro, ho fatto un documentario che verrà mandato in onda da Rai. Per questo progetto mi incontrai con Conchita Di Gregorio, che era allora direttore dell’Unità, e pensammo di creare una serie di racconti per spiegare cosa è il mondo pubblicitario odierno, cercando non di giudicare, ma di offrire strumenti alle persone che guardavano questi video, strumenti di interpretazione. In realtà fare pubblicità non è così difficile, ma ci sono alcune cose che vanno notate, che vanno sottolineate. Prima tra tutte, nelle pubblicità bisogna sempre, secondo me, andare a cercare la responsabilità. Su una pubblicità non c’è la firma come per un articolo o un format televisivo. Dunque di chi è la responsabilità di ciò che viene raccontato? La prima cosa che noi abbiamo insegnato attraverso questo format, che abbiamo chiamato “La réclame”, è stata quella di andare a cercare chi è il responsabile della pubblicità, chi l’ha firmata, perché comunque anche questo è un elemento importante per la valutazione del messaggio che andremo ad assorbire. Non dobbiamo fermarci all’azienda che presente il prodotto, ma risalire al creativo, al direttore creativo che lavora dentro l’agenzia e che ha preso la decisione. Spesso e volentieri i creativi che lavorano dentro l’agenzia di pubblicità vogliono raccontare quello che preme a loro, non tanto il prodotto. Usano il prodotto pubblicitario come una scusa per dare sfogo alle loro velleità. Allora, abbiamo cercato, attraverso questo format, di raccontare non soltanto chi sono i clienti ma anche chi sono i direttori creativi. Poi abbiamo cercato di destrutturare il linguaggio, cioè di separare le immagini. Il nostro tentativo è stato divulgato su internet, un po’ come una forma di guerrilla marketing, cioè messo in rete da donne che usano molto internet. Noi abbiamo proprio voluto cominciare così e tante donne lo hanno ritwittato, lo hanno postato nelle loro pagine Facebook: è cominciata una sorta di passaparola che ha fatto sì che ogni giorno ci arrivassero delle segnalazioni di spot. Ovunque delle donne hanno cominciato a fotografare con il cellulare cartelloni strani. Insomma, è stata una bellissima esperienza, un viaggio nel mio mondo, che è il mondo del video. (testo non rivisto dall’autrice) 62 Specchio delle mie brame Città libere dalla pubblicità offensiva Una proposta CONSIGLIO delle DONNE commissione “Politiche per la salute” Per contrastare la diffusione della pubblicità discriminatoria e lesiva della dignità soprattutto delle donne, proponiamo al Comune di Bergamo di aderire, attraverso una delibera della Giunta, all’iniziativa promossa dall’Unione Donne in Italia (U.D.I.), a sostegno della campagna “Città libere dalla pubblicità offensiva” per la moratoria delle pubblicità lesive della dignità della donna. Vorremmo che la Giunta approvasse le regole per la valutazione dei messaggi da affiggere sugli spazi in carico all’Amministrazione comunale. Gli stessi indirizzi dovrebbero essere seguiti anche dalle società ed enti partecipati dal Comune. In questo modo la città di Bergamo darebbe un forte segnale affinché i cartelloni pubblicitari, a partire da quelli sugli spazi comunali, siano ispirati sempre ai criteri di rispetto delle Pari Opportunità tra donne e uomini e di corretta rappresentazione dell’identità di genere, lontano da stereotipi avvilenti per la dignità delle persone. Potrebbe essere garantita una maggior effettività all’azione del Comune anche con l’individuazione di alcune tipologie di messaggi ritenuti incompatibili con l’immagine che si vuole promuovere; ad esempio: – le immagini che rappresentano o incitano atti di violenza fisica o morale; – i messaggi discriminatori e/o degradanti che, anche attraverso l’uso di stereotipi, tendono a collocare le donne in ruoli sociali di subalternità e disparità; – la mercificazione del corpo, attraverso rappresentazioni o riproduzioni della donna quale oggetto di possesso o sopraffazione sessuale; – i pregiudizi culturali e gli stereotipi sociali fondati su discriminazione di genere, appartenenza etnica, orientamento sessuale, abilità fisica e psichica, credo religioso. Si tratterebbe di un provvedimento molto importante per promuovere il principio di parità a tutti i livelli e un’assunzione di responsabilità per quanto riguarda la diffusione di immagini femminili. La mercificazione dei corpi, soprattutto – ma non solo – di quello delle donne, è un sintomo di imbarbarimento e non di libertà: non è “il corpo” – luogo fondante della nostra identità – a costituire un problema, ma la sua rappresentazione strumentale. Perciò l’adesione alla campagna non vuole essere una censura moralistica, ma un impegno per la dignità e inviolabilità della persona e un’occasione per riflettere. Oggi 63 Specchio delle mie brame più che mai, il tema della violenza alle donne non può essere affrontato senza intervenire anche sull’utilizzo dell’immagine femminile nella pubblicità. Questo provvedimento si inserirebbe nel percorso dettato dall’Unione europea con la risoluzione n. 2038 del 3 settembre 2008, con l’obiettivo di valorizzare una comunicazione che si impegni a veicolare messaggi commerciali positivi. La sperimentazione di queste regole, che sono il frutto di un percorso che ha coinvolto molti soggetti impegnati su questi temi (a partire dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria), può rappresentare un primo passo. 64 Il Consiglio delle Donne Il Consiglio delle Donne, organo istituzionale del Comune di Bergamo, venne istituito il 1° aprile del 1996 usufruendo delle indicazioni contenute nell’art. 70 dello Statuto Comunale. Questo organismo di partecipazione ha lo scopo di: • dare voce alla presenza, alla soggettività, alla competenza, all’autorevolezza delle donne; • far emergere, proporre, confrontare valori e riferimenti che stanno alla base di una convivenza democratica, partecipata, nonviolenta e che determinano la qualità della vita delle persone; • presentare proposte in merito ai problemi della città; • essere punto di riferimento per le associazioni e i gruppi femminili; • far conoscere il punto di vista delle donne; • costruire una città solidale da vivere e condividere. Il Consiglio delle Donne ha funzioni di: • studio, ricerca, documentazione e proposta sulle problematiche riguardanti la vita della città; • proposta nei confronti della Giunta e del Consiglio Comunale; • consultazione esprimendo pareri su tematiche riguardanti l’organizzazione sociale e politica della città; • supporto, incentivazione, consulenza, messa in rete coordinamento di gruppi e associazioni di donne; • progettazione e realizzazione di percorsi di riflessione, confronto e azione in collaborazione con l’Amministrazione comunale e agenzie del territorio. Il Consiglio è costituito dalle donne elette nel Consiglio comunale, dalle rappresentanti delle consigliere circoscrizionali e dalle referenti di gruppi e associazioni della città. Il Consiglio delle Donne svolge i suoi compiti attraverso l’assemblea, l’esecutivo e le commissioni. Le commissioni, che costituiscono i laboratori dove vengono ideate, progettate, organizzate le diverse iniziative, stanno sostanzialmente affrontando le seguenti tematiche: • le politiche educative e familiari, con particolare attenzione ai minori; • le politiche culturali, tese alla valorizzazione dei saperi delle donne attraverso le parole e le pratiche delle stesse; • le politiche per una città accogliente e accessibile, per vivere Bergamo come luogo di incontro, di benessere e di sicurezza; • le politiche per la salute, per star bene con se stesse, con gli altri e le altre; • le politiche per l’ambiente, per ritrovare armonia con la natura con particolare attenzione ai parchi; • le politiche per il territorio, per una visione al femminile circa la ricaduta delle scelte urbanistiche sulle dinamiche sociali. Segreteria organizzativa: Comune di Bergamo - Consiglio delle Donne Palazzo Frizzoni, P.zza Matteotti - Bergamo tel. 035.399897; fax 035.399898 (in continuo) email: [email protected] orario: (da lunedì a giovedì: 9.30-12.00 e 14.30-17.00; venerdì solo mattino).