ACHAB Rivista di Antropologia 2009 numero XIV Università degli Studi di Milano-Bicocca AChAB - Rivista di Antropologia Numero XIV - giugno 2009 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paola Abenante, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 ISSN: 1971-7954 (versione online); 1971-7946 (testo stampato) Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. * Immagine in copertina di Lorenzo D’Angelo, Pray Until Something Happens, Freetown, Sierra Leone, 2007 Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: [email protected] ACHAB In questo numero... 3 Lévi-Strauss: Quale eredità per l'antropologia del XXI secolo di Pietro Scarduelli 6 Antropologia, filosofia, diritto e mondo moderno: dieci anni dopo un colloquio con Lévi-Strauss di Lorenzo Scintillani 14 Il pensiero selvaggio nell’era elettrica di Gianni Trimarchi 17 Lévi Strauss in classe La top ten dell’antropologia strutturalista di Fabio Dei 22 Lévi-Strauss erudita Alcune note critiche sulla genealogia e attualità del pensiero lévistraussiano di Michele Parodi 29 Suole di vento Jean Rouch fra antropologia e cinema di Alessandro Jedlowski 36 Il consumo di funghi allucinogeni fra i Mazatechi della Sierra di Oaxaca nel mutamento del contesto storico e sociale di Fabio Pettirino 43 Il gioco del calcio: fra campo, campi e mass media Interrogativi ed argomenti per un’ antropologia dello sport di Sara Ferrari 49 La selva degli uomini Riflessioni sul tema del suicidio nel contesto migratorio di Davide Bruno 53 La crisi ambientale del lago d’Aral tra realtà e percezione di Stefano Piastra 58 O fenomeno da intolerancia religiosa Produtor de novas identidades sociais no interior da religião afro-brasileira di Álvaro Roberto Pires 1 ACHAB 64 Recensione : Identità catodiche, rappresentazioni mediatiche di appartenenze collettive di Pietro Vereni a cura di : Gianni Trimarchi 66 Recensione : Il Contemporaneo di Giorgio Agamben a cura di : Valerio Fusi 2 ACHAB Lévi-Strauss: quale eredità per l'antropologia del XXI secolo di Pietro Scarduelli Lévi-Strauss compie cento anni. Per le culture che quantificano il tempo e che lo calcolano mediante il sistema decimale, 'cento' è un numero 'pieno', dotato di notevole valore simbolico. A ciò si aggiunge la considerazione che i pochi che toccano il secolo di vita superano di molto la durata media della vita umana e suscitano stupore e ammirazione. In terzo luogo è un dato di fatto che Lévi-Strauss, a prescindere dai suoi compleanni, è entrato a fare parte ormai da decenni dell'Olimpo dei grandi antropologi del XX secolo. Tutto ciò concorre a fare di questa scadenza un evento che merita una celebrazione. Il modo migliore per celebrare un antropologo è ovviamente offrire un contributo alla riflessione sul posto che occupa nella storia delle teorie antropologiche. È vero che su questo tema sono stati scritti innumerevoli libri e saggi e che un contributo significativo a questo dibattito è stato dato proprio dall'Italia, dove le opere di Lévi-Strauss vennero tradotte già negli anni Sessanta e lo strutturalismo si è diffuso ed è stato assimilato e dibattuto non solo in campo antropologico ma anche filosofico. Può quindi sembrare che questo tema sia già stato trattato a sufficienza. Io però vorrei porre la questione in altri termini. Non intendo proporre una riflessione sullo strutturalismo, questione troppo complessa per essere affrontata in queste pagine, ma piuttosto su ciò che dallo strutturalismo può attingere un'antropologia che ormai ha imboccato altre strade. In altri termini: che cosa può essere conservato del pensiero di Lévi-Strauss dall'antropologia che si affaccia al XXI secolo? A prima vista, nel panorama dell'antropologia di questi ultimi anni, sembra che del pensiero di Lévi-Strauss sia rimasto poco o nulla. Lo strutturalismo di Lévi-Strauss è una delle ultime cattedrali teoriche edificate dall'antropologia, probabilmente la più elegante, la più raffinata. In seguito, a partire dagli anni Ottanta, si è delineata all'interno della disciplina una progressiva caduta d'interesse nei confronti delle teorie 'forti'. In proposito osservo, per inciso, che questo 'collasso' teorico si verifica in una congiuntura storica caratterizzata dal crollo delle ideologie; fra i due fenomeni vi è, a mio avviso, un nesso che probabilmente, in altra sede, meriterebbe di essere analizzato. Per quanto attiene al tramonto delle grandi teorizzazioni in campo antropologico il 'merito' (se così lo vogliano definire) va alla revisione critica (impietosa, spesso eccessiva) operata dall'antropologia interpretativa e post-moderna, che ha liquidato le concezioni essenzialiste delle culture umane, le teorie che a tali concezioni si ispirano (funzionalismo, strutturalfunzionalismo, strutturalismo, ecologia culturale) e i loro corollari metodologici (ad esempio il modo di intendere la raccolta dei dati sul campo). Gli attacchi dell'antropologia post-moderna hanno avuto come effetto non solo l'espulsione dall'antropologia di ogni prospettiva essenzialista; il rigetto delle vecchie teorie si è trasformato in un atteggiamento di diffidenza indiscriminata nei confronti di tutti i paradigmi e delle teorie forti. La conseguenza è stata l'abbandono da parte delle nuove generazioni di studiosi delle due ultime grandi teorie nate in ambito antropologico: lo strutturalismo e l'ecologia culturale neoevoluzionista. Il panorama della disciplina degli ultimi decenni è caratterizzato dall'assenza di paradigmi e di modelli solidamente strutturati e dal prevalere dell'eclettismo e del bricolage teorico. Fra gli antropologi oggi nessuno si ispira più allo strutturalismo lévistraussiano. Questo silenzio significa che nulla di questo grande corpus teorico è ritenuto utilizzabile? Io vorrei indicare almeno due aspetti dello strutturalismo che considero patrimonio irrinunciabile dell'antropologia. Il primo è il rapporto fra cultura e linguaggio. Ponendo questo tema al centro della propria riflessione Lévi-Strauss si colloca nel solco di un filone antropologico in cui è preceduto da Boas, che aveva sostenuto la 'equipotenza' di tutte le lingue umane e sottolineato l'importanza delle lingue indigene come via d'accesso alla comprensione delle culture, Malinowski che aveva legato il significato degli enunciati verbali al loro uso e al contesto in cui vengono prodotti, Whorf, sostenitore della teoria secondo cui dalle categorie linguistiche dipendono le categorie fondamentali del pensiero. Lo strutturalismo si caratterizza perché disegna il rapporto cultura-linguaggio in termini di radicale dipendenza della prima dal secondo, una dipendenza che in seguito, negli anni Ottanta e Novanta, è stata messa in discussione da prospettive teoriche che tendono a ridisegnare il rapporto fra linguaggio e cultura ridimensionando portata e influenza del primo sulla seconda (Bloch, D'Andrade, Strauss e Quinn). Ciò a mio avviso non intacca la rilevanza del contributo lèvistraussiano. Lévi-Strauss più di ogni altro antropologo sostiene la natura linguistica dei fenomeni culturali, utilizzando la struttura della lingua (più precisamente la sua struttura fonologica) come modello per la comprensione della cultura nei suoi diversi 3 ACHAB aspetti, dalle relazioni di parentela ai miti. Ciò lo porta a formulare una tesi che rappresenta uno dei suoi contributi teorici più rilevanti alla riflessione antropologica, la tesi secondo cui, a somiglianza della lingua, la cultura ha una matrice inconscia e un'organizzazione sistemica basata su strutture di relazioni. Vale la pena di sottolineare che questa attenzione nei confronti della dimensione linguistica è condivisa dallo strutturalismo di Lévi-Strauss e dalla teoria interpretativa di Geertz, cioè da due prospettive teoriche lontanissime l'una dall'altra. Geertz considera la cultura un 'testo' che l'antropologo deve essere in grado di 'leggere' e interpretare ricostruendo le trame dei significati indigeni. Questo approccio ermeneutico è ovviamente del tutto diverso dall'impianto teorico dello strutturalismo ma non bisogna dimenticare che il 'testo' di cui Geertz ci parla è pensato e formulato tramite il linguaggio. Strutturalismo e antropologia ermeneutica sono dunque accomunate dall'attribuzione al linguaggio di un ruolo predominante nella produzione della cultura (anche se per Lévi-Strauss il linguaggio è inteso come struttura inconscia e per Geertz come dimensione del significato). Il secondo aspetto del pensiero di Lévi-Strauss la cui importanza, a mio parere, trascende le specificità della teoria strutturalista e che può essere considerato un contributo irrinunciabile alla riflessione teorica in ambito antropologico va rintracciato nella sua teoria dei modelli. Questa teoria è caratterizzata da più distinzioni: modelli consci e inconsci, modelli meccanici e statistici, modelli del nativo e dell'osservatore. Io ritengo che la duplice distinzione modelli nativi/dell'osservatore e consci/inconsci sia di importanza strategica per la ricerca antropologica. Si pensi alle pagine da lui dedicate all'organizzazione sociale degli indios Bororo nel saggio del 1952 poi inglobato nell'Antropologia strutturale, dove egli spiega come la rappresentazione del villaggio bororo diviso in due metà esogamiche abitate da due diversi clan matrilineari e legate da un rapporto di scambio matrimoniale per cui gli uomini di una metà possono sposare solo le donne dell'altra metà costituisca non una descrizione esatta dell'organizzazione sociale ma il modo in cui gli indigeni se la rappresentano, un modo incompleto perché parziale, in quanto in realtà ogni metà è a sua volta suddivisa in tre sezioni (superiore, media e inferiore) e gli uomini di una sezione superiore possono sposare, nell'altra metà, solo le donne della corrispondente sezione superiore, quelli della sezione media le donne della corrispondente sezione media e quelli della sezione inferiore le donne della corrispondente sezione inferiore. Dunque la struttura dualistica descritta dai nativi 'nasconde' una soggiacente struttura tripartita: mentre la rappresentazione indigena disegna un villaggio diviso in due metà, questo è in realtà costituito da tre gruppi, ognuno dei quali è diviso in due metà. A commento di questo esempio Lévi-Strauss sottolinea l'importanza di non appiattire la descrizione etnografica sui modelli espliciti enunciati dagli indigeni perché "il funzionamento reale" di una società è "diversissimo da come appare in superficie"; pertanto l'osservatore non deve "confondere le teorie degli indigeni sulla loro organizzazione sociale… e il funzionamento della società". Le rappresentazioni native - aggiunge - possono riflettere (spesso solo parzialmente) il funzionamento della società ma anche "ignorarne alcuni elementi" o "contraddirlo". Si tratta, a mio avviso, di una riflessione fondamentale, da cui emerge una concezione deterministica del comportamento umano, le cui cause (per Lévi-Strauss ma anche, ad esempio, per Bourdieu e per Godelier e più in generale per i pochi antropologi di ispirazione strutturalista o marxista) dovrebbero essere ricercate non nelle scelte degli attori sociali ma in fattori o in meccanismi che esercitano la loro influenza al di là della consapevolezza e al di fuori della coscienza degli individui. Questa prospettiva si discosta radicalmente da quella interpretativa, la cui egemonia si è affermata nell'ambito dell'antropologia a partire dagli anni Ottanta. La differenza fra le due prospettive va ricondotta ad una diversa scelta del livello a cui collocare il significato: gli antropologi interpretativi privilegiano i significati manifesti, letterali, elaborati dagli attori sociali, cioè l'esegesi indigena; gli antropologi che io definirei 'esplicativi', come Lévi-Strauss, distinguono fra un significato letterale e un significato latente, implicito, inconscio, l'accesso al quale è possibile solo all'osservatore. Oggi la nozione di 'inconscio' non è più di moda in antropologia ma vale la pena di riflettere sul potenziale esplicativo di tale nozione, sia nella prospettiva strutturalista che in quella marxista. Lévi-Strauss - come è noto - si ispira per la costruzione della propria teoria alla struttura fonologica della lingua, di cui i parlanti sono inconsapevoli: essi ignorano le leggi che regolano la formazione degli enunciati eppure costruiscono continuamente enunciati corretti. Qualcosa di analogo viene sostenuto dal marxismo su un altro piano: gli attori non sono consapevoli dei reali meccanismi di funzionamento della società, anzi ne elaborano interpretazioni distorte e mistificanti (come i Bororo di Lévi-Strauss…) ma ciò non impedisce che essi agiscano 'correttamente' per garantirne il mantenimento e la riproduzione. Naturalmente il significato di inconscio cambia a seconda che venga riferito ai processi linguistici o ai comportamenti sociali. Il carattere inconscio dei processi linguistici va inteso nel senso che la consapevolezza non è necessaria all'attivazione e al funzionamento dei meccanismi che presiedono alla produzione di enunciati linguistici corretti. Invece nel caso dei meccanismi sociali la nozione di inconscio viene utilizzata nel senso che la non consapevolezza è necessaria affinché sia garantito il loro funzionamento. Sia nella loro versione linguistico-strutturale, lévistraussiana, sia in quella sociologico-marxista, le nozioni di 'struttura' e 'inconscio' sono state letteralmente spazzate via dal dibattito teorico antropologico. La rapidità con cui 4 ACHAB strutturalismo e marxismo sono spariti di scena e la radicalità dell'epurazione richiamano, su un altro piano, la solerzia con cui dopo l'implosione dell'Unione Sovietica e la caduta dei regimi socialisti, ogni traccia culturale, simbolica e topografica del socialismo è stata cancellata. Naturalmente è ovvio che il rinnovamento teorico all'intero dell'antropologia è inevitabile perché, banalmente, il mondo cambia con rapidità impressionante: i nuovi scenari creati dalla globalizzazione (migrazioni planetarie, deterritorializzazione e delocalizzazione delle culture, flussi di merci, tecnologie, informazioni verso i paesi extraeuropei, anche quelli più periferici e marginali, presenza sempre più massiccia e invasiva di turisti, nuove forme di consumo e di comunicazione) creano letteralmente nuovi 'oggetti' di indagine e obbligano gli antropologi a forgiare nuovi strumenti concettuali e nuove tecniche d'indagine. Tuttavia trovo che non avrebbe molto senso celebrare il centenario di Lévi-Strauss se ci limitassimo a collocarne prematuramente il busto nella galleria dei padri della disciplina e considerassimo la sua teoria obsoleta e 'inutile' per l'antropologia contemporanea. Le teorie nascono, vivono la loro vita e muoiono ma la scelta di fondo di Lévi-Strauss, una scelta metateorica, cioè la sua opzione 'esplicativa', l'idea che lo sguardo dell'antropologo debba andare al di là degli enunciati degli indigeni perché essi non ci dicono tutto della cultura a cui essi appartengono, l'idea che esistono aspetti della organizzazione sociale che si collocano al di là della consapevolezza degli attori sociali, che pertanto la ricerca della spiegazione debba tenere conto della divaricazione oggettiva fra pratiche e interpretazioni indigene, l'idea, in sostanza che il senso del comportamento umano non coincida esclusivamente con ciò che gli uomini dicono, è amio avviso, un’idea viva e vitale a cui la’ntropologia del XXI secolo non deve rinunciare. *** Una pagina del libro di Lévi-Strauss, Saudades do Brasil, Companhia das Letras, São Paulo, 1994. 5 ACHAB Antropologia, filosofia, diritto e mondo moderno: dieci anni dopo un colloquio con Lévi-Strauss di Lorenzo Scillitani come quella di Norbert Rouland, esploratore delle terre di confine fra il diritto e l'antropologia (5) mi aveva probabilmente preparato ad un impatto meno 'traumatico' con la realtà vivente e parlante di un'autorità presente in carne ed ossa. C'è da aggiungere che, qualunque fosse l'interesse, o forse anche solo la curiosità, capace di spingermi alla richiesta di un appuntamento con Lévi-Strauss, non vi ero stato esortato da nessuno: qualcuno, anzi, alla vigilia della mia partenza per la Francia, aveva provato a dissuadermene, chiedendomi, beffardo, se il personaggio fosse ancora in vita…(e lo è ancora, per sua e per nostra fortuna, dieci anni dopo). Ma al dunque, a colloquio finalmente avviato con Lévi-Strauss, si trattava di entrare nella questione, non più rinviabile: che cosa sono, in ultima analisi, le strutture elementari della parentela? Testimone la mia amica Isabelle Bourbon:"Elles ne sont que le droit", Lévi-Strauss dixit. Una risposta del genere, secca e senza perifrasi, data ad uno che si era impegnato a ricercare il giuridico nel pensiero e nell'opera di Lévi-Strauss, fu quantomeno confortante. Mi astengo da qualunque commento, del tipo: mi diede ragione. Spesso si può dare ragione a qualcuno per tenerlo contento, per pura compiacenza, o perché non si ha tempo da perdere con lui. In questo caso, se anche così non fosse, l'avere ragione sarebbe semplicemente riduttivo. E poi: avrebbe a sua volta 'ragione' LéviStrauss a parlare del diritto, quando non ne ha scritto (quasi) mai? E, quando pronuncia il termine 'diritto', a quale parametro di identificazione Lévi-Strauss fa riferimento? Ne parla da antropologo, o si atteggia anche lui a filosofo, o teorico, del diritto? Le obiezioni potrebbero fioccare copiose, e non è certo questa la sede in cui poter affrontarle. Resta che la formula in cui si risolve la società umana - corrispondente alle strutture elementari della parentela - è qualificata da Lévi-Strauss in persona come giuridica. Per chi si agita a tentare di 'fare giustizia' del diritto (6) è un duro colpo. Vorrà pur dire qualcosa se LéviStrauss si è 'sbilanciato' a tal punto, e con estrema e sorprendente lucidità, da nominare il giuridico come elemento qualificante la socialità elementare: in senso proprio e pieno, Lévi-Strauss ha detto il diritto, affermando la sua competenza a chiamare le cose con il loro nome. In un'epoca in cui 1'esperto di diritto - il giurista -, identificando il diritto di volta in volta con la 'norma', col 'sistema', con le 'procedure', confessa di fatto di rinunciare a dire che cos'è il diritto, e che cosa ne è del diritto, assecondato in questo da una filosofia giuridica che, assimilandosi sempre più ad una 'teoria generale' (7), mostra paradossalmente di non voler più sapere del A colloquio con Lévi-Strauss In un freddo pomeriggio dell'inverno parigino del 1999 - il 12 febbraio -, ebbi al Collège de France il sospirato rendez-vous con uno degli ultimi 'grandi vecchi' (forse l'ultimo?) del secolo. La sorpresa destata dall'incontro con l'uomo fu pari a quella riportata dall'ascolto delle parole dell'antropologo. L'agilità dei movimenti ed il timbro di voce di una persona di oltre novant'anni mi colpirono forse più di quanto dovettero colpire, a suo tempo, un testimone illustre ed autorevole come l'antropologo, e storico, del diritto Norbert Rouland, che in proposito aveva avuto a scrivermi, nella primavera del '99, riferendosi al suo incontro con Claude Lévi-Strauss: "la sua mano tremava, ma non il suo spi-rito! Confesso di essere stato affascinato dall'avere dinanzi un uomo di tale statura". L'aver condiviso con l'amico Rouland questa singolare esperienza mi fece comprendere meglio il senso della sua testimonianza. Per la verità, nonostante uno scambio epistolare incoraggiante con Lévi-Strauss mi avesse portato a vincere le mie ultime esitazioni a rendergli visita, alcune considerazioni sul temperamento dell'uomo - comunicatemi tempo addietro da Alessandro Di Caro (1) e dalla lettura di un articolo polemico dello stesso Lévi-Strauss (2), poc'anzi pubblicato - non mi lasciavano ben sperare nella cordiale accoglienza della quale egli mi avrebbe invece onorato nel suo studio, che domina la biblioteca del Laboratorio di Antropologia Sociale. La fortuita coincidenza della pubblicazione di un numero di 'Critique' celebrativo della figura e dell'opera di Lévi-Strauss (3), in distribuzione proprio nei giorni in cui mi trovavo a Parigi, sembrava propiziare un buon esito dell'atteso incontro. Atteso perché, e da quanto? La mia conoscenza della produzione dell'antropologo francese risale ai tempi della mia tesi di laurea in giurisprudenza, un capitolo della quale fu dedicato dietro suggerimento del mio professore, Pierfranco Ventura - alle Strutture elementari della parentela; in seguito, sotto la guida del mio tutor di dottorato, Sergio Cotta, impostai una tesi in filosofia del diritto sulla giuridicità nell'antropologia strutturale (4). A questo lavoro era limitata la mia 'conoscenza' di Lévi-Strauss - per quanto e nella misura in cui un lettore può conoscere, sempre in via indiretta, l'autore dei libri che adopera. Non essendo a mia volta antropologo, tantomeno 'sul campo', non avevo mai nemmeno potuto accedere a quel tipo di conoscenza, certo un po' meno indiretta, che la condivisione di una medesima vocazione o, per lo meno, di una medesima proiezione professionale talvolta permette. Nel caso specifico, la mediazione rappresentata dal frequentare, con un intenso rapporto epistolare, una personalità 6 ACHAB diritto stesso, vietandosi di pensarlo (8), l'affermazione di LéviStrauss per cui qualcosa è diritto (piuttosto che: il diritto è questo o quello...) non può non dare, oltre che da conoscere, anche da pensare. Che un'indicazione del genere venga da un antropologo come Lévi-Strauss, per quanto sollecitatovi e non di sua spontanea iniziativa, è da registrare come un contributo suscettibile certo di essere ridiscusso e problematizzato in altra sede - attorno a domande come: il diritto è solo una struttura?, è essenziale alla determinazione del giuridico una fenomenologia della parentela, e della famiglia?, l'elementare coincide col 'fondamentale'?, e via di seguito -, ma anche come testimonianza che il diritto esiste, e che ha una sua consistenza fenomenicamente osservabile. Partito col desiderio di conoscere personalmente Lévi-Strauss, mi sono dunque trovato a dover riconoscervi un pensiero giuridico vero e proprio, da lui esposto nei termini seguenti: che le strutture elementari della parentela siano il diritto - piuttosto che: esse siano semplicemente diritto - è dovuto al fatto che i cosiddetti primitivi pensano queste strutture non già come qualcosa che è, ma come qualcosa che deve essere, nei termini di quella che per noi si dà come normatività obbligante. La precisazione che LéviStrauss, su questo punto non richiestone, ha voluto fare è illuminante: il diritto coincide, nel 'pensiero selvaggio', con ce qu'il faut, in una maniera tale da implicare un dispositivo di obbligatorietà che, mentre trascende il piano della pura necessità biologica, postula al tempo stesso una 'necessarietà' strutturale delle leggi che sono alla base della socialità umana. In sostanza, per Lévi-Strauss il diritto non è il prodotto di un'artificialità arbitraria, ma è la modalità attraverso la quale l'uomo esprime il suo essere in società in quanto dover essere, cioè in quanto regolato normativamente: ce qu'il faut è una struttura, cioè qualcosa che corrisponde ad un modo di essere che non si dà altrimenti che in quella forma, benché - come Lévi-Strauss si è affrettato a soggiungere - la parentela e la famiglia, oggi, non assolvano più i compiti che, per millenni, hanno assolto. (strettamente) filosofica, come l'Antropologia pragmatica, il compito di rappresentare, quale principio dell'unità della stessa filosofia, niente meno che l'uomo (11). È ancor più significativo che l'interrogazione antropologica kantiana, filosoficamente motivata e sostenuta, ma non metodologicamente impostata in termini filosofici - come Heidegger rilevava (12) - , investa l'uomo come uomo del diritto (13), come quel-l'ente alla cui determinazione, come genere umano, è essenziale non solo la necessità di essere membro di una qualche società civile (14) ma altresì il suo tendere alla realizzazione di un cosmopolitismus capace di valere come principio regolativo (15). A prescindere dai problemi filosofici dell'antropologia kantiana che affronta le questioni non trattate dalla filosofia critica (16) non si può fare a meno di notare la sorprendente coincidenza tra il registro in cui il filosofo Kant, atteggiandosi ad antropologo, inscrive il carattere dell'umanità (17), e quello a cui l'antropologo Lévi-Strauss, duecento anni dopo, consegna l'intero significato delle sue ricerche: nell'uno come nell'altro caso, si tratta di un registro declinato in termini di normatività obbligante, e nominato esplicitamente come giuridico. Se, infatti, "l'umanesimo criticista si afferma, in Kant (...), come umanesimo giuridico" (18), che conosce, con l'Antropologia, un punto di fuga (19) di fatto incollocabile (20), ma cionondimeno centrale nell'insieme della filosofia pratica di Kant (21), la testuale affermazione, con cui Lévi-Strauss ha definito l'opera sua principale, Le strutture elementari della parentela, come un'opera sul diritto, configura la dimensione giuridica (benché implicitamente) come altrettanto centrale nella sua antropologia. Da Kant a Lévi-Strauss, passando per Hegel, Marx, Engels, Durkheim, Mauss, Freud, è come se un medesimo filo, esile o comunque non ben visibile, avesse fatto incontrare la filosofia e l'antropologia, fino a far ipotizzare che una certa proiezione antropologica della filosofia, evidente in Kant, trovi riscontro in un'altrettale (per quanto non confessata) proiezione filosofica dell'antropologia che, attraverso LéviStrauss, si ripropone come riedizione della tradizione umanistica (22) documentata ampiamente dalla prima delle tre conferenze giapponesi su L'antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno (23). Che questo incontro si sia realizzato sul piano del diritto accende la possibilità di verificare la portata speculativa sviluppata da una vocazione (anche educativa) al diritto che la filosofia, almeno a partire da Kant, mostra di comunicare alla scienza antropologica, nella persona del suo rap-presentante più autorevole. Posto che l'interrogazione antropologica, pur procedendo dalla filosofia, non si dà essa stessa come filosofica - come si è detto di Kant, che si astiene dal proporre, dal punto di vista pragmatico, un'antropologia filosofica -, resta che la posizione dell'uomo come problema è enunciata, da Kant apertamente, come filosofica, anzi come il senso ultimo della filosofia in quanto tale. L'impostazione kantiana del problema sarebbe stata condivisa, ma solo parzialmente e con molte riserve, da Heidegger: "se l'antropologia raduna già in sé, in certo senso, tutti i problemi centrali della filosofia, c'è da chiedersi perché questi si lascino ricondurre alla domanda: che cos'è l'uomo?"(24). L'aver proposto, da parte di Da Kant a Lévi-Strauss Ora, comunque sia apprezzabile il valore delle dichiarazioni verbali rese da Lévi-Strauss, è degna di nota la singolare convergenza, a due secoli di distanza, tra la formulazione antropologica del diritto data da un filosofo, come il Kant del 1798, e la interpretazione levistraussiana dell'antropologia strutturale in termini di antropologia del diritto. È noto che, nel suo Corso di logica, Kant riassume le tre domande fondamentali della Critica della ragion pura - che cosa posso sapere?; che cosa devo fare?; che cosa posso sperare? - in una quarta domanda decisiva: che cos'è l'uomo?, la quale da sola occupa tutto il campo della filosofia (9). Si sa pure che Kant ha insegnato antropologia - e geografia - per tutta la sua vita accademica (dal 1755 al 1796), connotando come pragmatica la sua dottrina della conoscenza dell'uomo concepita sistematicamente: per conoscenza pragmatica ha da intendersi "quello che l'uomo come essere libero fa oppure può e deve fare di se stesso" (10). È singolare che Kant abbia assegnato ad un'opera generalmente riconosciuta come non 7 ACHAB Kant, un'antropologia non 'pura' ma 'empirica, non un analitica ontologica del Dasein - per usare un vocabolario heideggeriano ma una analisi condotta a livello ontico-esistentivo (25), sarebbe tale da frustrare qualunque tentativo di aprire una via filosofica all'antropologia (26). D'altronde, l'antropologia che Kant ha insegnato per circa trent'anni, se non filosofica, non è neppure 'scienza umana', nel senso in cui lo è, ad esempio, 1'antropologia strutturale di Lévi-Strauss. Non collocabile né da una parte né dall'altra, l'antropologia pragmatica, che Kant ha cura di distinguere dall'antropologia pratica - identificata come morale pura a priori (27) - nonché dall'antropologia fisiologica (28), esprime tuttavia un punto di vista originale, al quale il compianto Pierre Watté riteneva di poter legare l'antropologia e la filosofia (29). Occorre in proposito una precisazione: per pragmatica Kant intende l'attitudine umana alla civiltà per mezzo della cultura, "principalmente per mezzo delle qualità sociali e della tendenza naturale, propria della specie, ad uscire nella vita associata fuori dalla rozzezza del puro egoismo, e a diventare un essere accostumato (se non ancora morale) atto a vivere con gli altri" (30). A questa disposizione pragmatica, che sta fra la tecnica e la morale (31), è inerente una preoccupazione di ordine educativo, essendo l'uomo "capace e bisognoso di una educazione intesa tanto come ammaestramento quanto come disciplina" (32). Si tratta di educare quell'insocievole socievolezza che altrove Kant attribuisce agli uomini, nel celebre passaggio - schiettamente antropologico - della quarta tesi dell'Idea di una storia universale (33). Non va dimenticato che Kant ha elaborato sue originali Riflessioni sull'educazione, consegnate a corsi specifici da lui tenuti sull'argomento: in queste riflessioni l'educazione si dà come fisica o come pratica - ovvero morale, articolandosi quest'ultima in tre momenti, corrispondenti alla didattica, alla cultura pragmatica - che riguarda la prudenza -,e alla cultura morale (34). La cultura della prudenza ,in particolare, prepara l'individuo umano a diventare cittadino (35), ad acquisire cioè piena coscienza di sé in rapporto agli altri secondo il diritto: fa parte della fase formativa pratica la pedagogia dei doveri - verso di sé e verso gli altri (36) -, tra i quali i doveri verso gli altri comportano un'esplicita valenza giuridica, nella misura in cui gli altri sono riconosciuti titolari di un diritto assoluto ad essere rispettati in quanto uomini (37). Dove portano queste considerazioni? Innanzitutto a rilevare che caratteristica fondamentale dell'essere umano è, secondo Kant, questa sua attitudine pragmatica che, se ed in quanto sottoposta ad un processo educativo,viene a maturazione in quella virtù - la Weltklugheit - che appartiene al modo di essere in società che è il con-essere giuridico proprio dell'individuo-cittadino. L' invito formulato da Watté, a recepire il pragmatico come punto di vista fondamentale, che già per Kant costituiva la base degli altri punti di vista, compreso quello morale (38), può essere dunque accolto come sollecitazione ad approfondire i legami che, tra filosofia e antropologia, si annodano attorno alla declinazione dell'antropologia pragmatica come pedagogia giuridica, o quantomeno come fase preparatoria di una educazione al diritto la quale postula, difatti, la conoscenza dell'uomo come cittadino del mondo (39). Come si è di recente sottolineato, con particolare riferimento a Lévi-Strauss - al quale sto per tornare -, "il fatto che la comprensibilità integrale della condizione umana implichi di per sé, dal punto di vista dell'antropologia, il riconoscimento della presenza della dimensione della giuridicità, mostra il legame cognitivo fra l'esserci del diritto e la forma del suo dover essere (deontico)" (40). Nel qualificare come giuridica l'architettura di prescrizioni e di proibizioni entro la quale si costruisce l'edificio della società 'primitiva', Lévi-Strauss ha come rilanciato, da antropologo, la proposta, formulata da Kant in lingua filosofica, di leggere la condizione umana sotto il segno del diritto. C'è da chiedersi, a questo punto, se l'Hinsicht pragmatico possa abbracciare filosofia e antropologia proprio sul terreno, giuridico, che sembra mettere l'una a contatto dell'altra (41): trattasi di contiguità tematica puramente occasionale, oppure sono in questione nessi più profondi, attingibili ad un livello metafisico? Va ricordato, a tale proposito, dal lato filosofico, che per Kant "non si può fondare la metafisica dei costumi sull'antropologia, ma si può ad essa applicarla" (42), in quanto l'antropologia, a differenza della Weltwissenschaft metafisica, così come della scienza della natura, indaga il campo della Weltkenntnis, determinata dall'intersoggettivo (43). L'intersoggettività è la dimensione propria dell'etica, della politica, del diritto, ed è tale da poter essere conosciuta appropriatamente in base non tanto alla ragion pura quanto all'esperienza, come Kant insegnava nell'Introduzione alla sua Geografia (44): significativamente, il filosofo di Königsberg precisava, in effetti, che "per quel che concerne le fonti e l'origine delle nostre conoscenze, noi vi attingiamo sia nella ragion pura sia nell' esperienza che, a sua volta, istruisce la ragione" (45). Già la geografia fisica, prima ancora della stessa antropologia, non risulta essere filosoficamente indifferente, nella misura in cui le conoscenze che essa fornisce istruiscono la ragione, alimentandone la speculazione: essa costituisce una propedeutica alla conoscenza del mondo, che si sviluppa in quella conoscenza dell'uomo che è l'antropologia pragmatica (46). A questi livelli conoscitivi, indicati come pre-speculativi, nel senso di introduttivi ad una razionalità pratica (47), la filosofia non può restare indifferente, perché anzi "la vera filosofia consiste nel se-guire la diversità e la varietà di una cosa attraverso tutte le epoche" (48): diversità e varietà sono le caratteristiche di prima evidenza, e di prima approssimazione, che la moderna antropologia culturale coglie nei fenomeni dei quali si occupa. Posto che l'antropologia, così come la geografia, non sono capaci di attingere un'universalità normativa, ma tutt'al più una universalità empirico-'estensiva' (49), i1 ricorso alla speculazione critico-razionale si renderebbe necessario ai fini di una comprensione adeguata dei dati della conoscenza. Ma proprio qui è il nodo: se una metafisica dei costumi non può fare a meno di un'antropologia geografica e pragmatica, che altro non è se non un'antropologia dei costumi, il materiale che questa può offrire a quella si riduce alla funzione di mero combustibile di una 8 ACHAB riflessione filosofico-pratica puntata sull'universale, oppure la fenomenologia antropologica è portatrice di conoscenze già cariche di significati filosofici? Si è precedentemente avuto modo di enucleare, nella prospettiva antropologica indicata da Kant, una specifica dimensione deontologica (50), propria dell'intersoggettività giuridica: dimensione, questa, che configura l'antropologia pragmatica, piuttosto che come una metafisica 'applicata', come il terreno di sondaggio fenomenologico-empirico di quello che spesso è stato presentato come il momento saliente dell'intero percorso filosofico kantiano, vale a dire il diritto (51). Non è forse casuale il ricorrere, nella Kennmis antropologico-pragmatica, di due termini, come diritto e prudenza la sintesi - tradizionale - dei quali dà luogo alla giuris-prudenza: quest'ultima corrisponde ad una forma di sapere che, da sempre, non è assimilabile né ad un Wissen né ad una Wissenschaft, semmai è quella che i romani chiamavano iusti atque iniusti scientia - per dirla con Ulpiano (cfr. Digesto 1,1,10) - , che si annuncia come divinarum atque humanarum rerum notitia (52). In una lettera a Christian Garve, proponendosi come 'professore di prudenza', Kant afferma di volere "stabilire il sistema della filosofia da un punto di vista pragmatico come dottrina dell'abilità e della prudenza" (53), la quale ultima virtù coincide col saper prendersi cura dei propri interessi, come già sanno fare i primitivi (54). La prudenza riferita al diritto consente di articolare quello specifico sapere pragmatico che è il sapere giurisprudenziale, che sta tra il sapere propriamente scientifico ed il sapere filosofico: il punto di osservazione kantiano considera la giurisprudenza come sapere conoscitivo ed insieme pragmatico, la cui specificità, antropologicamente documentata nonché teoreticamente argomentabile, libera il sapere giuridico da riduzionismi tecnicistici, attestandolo su di una posizione dalla quale è la ragione stessa a dire il diritto, di fronte alla scienza così come alla morale. Con l'ispirare 'prudenza', il sapere che procede pragmaticamente trova nel diritto la sua espressione più adeguata, realizzando un modo di conoscere e di operare nel mondo che corrisponde ad una antropologia da intendersi nel senso di scienza delle regole - di prudenza - della condotta effettiva dell'uomo, come da Kant puntualizzato nelle sue Lezioni di etica (55). Questa scienza mostra di sapere che, per conoscere - ed educare - l'uomo, occorre appunto quella 'prudenza' che né le 'leggi del pensiero' illustrate dalla metafisica né gli imperativi della morale possono suggerire: in questo senso, si può supporre che esista un sapere giurisprudenziale che non è assimilabile né alla metafisica né alla morale, pur partecipando di elementi dell'una e dell'altra e che a questo sapere appartengono un'antropologia ed una filosofia. Vi appartiene un'antropologia perché vi è implicato tutto un modo, sapientemente impostato ed articolato, d'intendere il comportamento dell'uomo - informato alla prudenza, che non dipende né da una tecnica né dall'adempimento di doveri morali; vi appartiene una filosofia perché vi sono in questione un potere (sapere), un dovere (di essere e di fare), un diritto (di attendersi qualcosa da qualcuno), che corrispondono alle tre domande fondamentali che la Logica kantiana rapporta alla quarta, riguardante l'uomo. La tensione fra questi due distinti - ma forse non separabili - poli di interesse, l'antropologico e il filosofico, genera una modalità di accesso alla conoscenza ed alla prassi che si sottrae al dualismo fra teoria e pratica, proprio ad un punto di vista 'sistematico', per attuarsi come concezione pragmaticogiuridica dell'esperienza umana in quanto esperienza intersoggettiva. Il punto di vista pragmatico formulato da Kant consente pertanto di pensare l'intersoggettivo, il sociale, i legami che esso comporta, come modulati secondo il diritto, in una maniera tale da presentare il diritto non come 'funzione' della società, e neppure anzitutto come 'forma' di quest'ultima, ma come un'esigenza - metafisica - della ragione. Ne risulta un modo di intendere la socialità umana come proiezione di questa esigenza giuridica, in termini sia di dimensione strutturale testimoniata da Lévi-Strauss - sia di dinamica di sviluppo storico, che ancora richiede di essere presa in esame, soprattutto alla luce della Critica della ragione dialettica di Sartre. Tutto questo complesso di elementi si agita dietro una lettura della socialità umana elementare - come quella proposta da LéviStrauss - nella quale, nominato apertamente, il diritto incide in via principale, quale modalità culturale autorappresentativa del sociale stesso. La ragione giuridica, che presiede al modo di conoscere pragmatico-prudenziale, interessa più direttamente, in Kant, la condotta umana e le sue regole, mentre in Lévi-Strauss il giuridico tende a coincidere con la stessa ragion d'essere della socialità umana, quale necessità ontologica ad essa intrinseca. Non si tratta, comunque, a tale riguardo, di ricercare e di accertare elementi di kantismo nell'opera di Lévi-Strauss, né di accentuare oltre il dovuto la portata antropologica della filosofia di Kant. Siamo di fronte, in realtà, a due fonti di pensiero - una antropologica, l'altra filosofica - che invitano, a diverso titolo e con differente competenza, a riconoscere nel diritto la modalità eminente, ad un tempo attuativa e conoscitiva, con la quale l'uomo si comporta e si concepisce in rapporto all'altro uomo. Certamente, l'una e l'altra impresa intellettuale ci dicono poco della relazione inter-umana: Lévi-Strauss evita addirittura di parlare di 'soggetti', avendo impostato la sua analisi strutturalistica 'oltre' il soggetto. Tenuto presente questo limite, non ci si può esimere dal tentativo, sin qui accennato, di appurare elementi di reciproca fecondità fra le due posizioni. Freud e Lévi-Strauss Ora, quando si parla di relazione, si parla del "punto di riferimento antropologico-coscienziale essenziale dell'introspettiva psicologia del 'profondo' e, in particolar modo, della psicoanalisi" (56). Non è questa la sede per discutere dei rapporti fra l'antropologia e la psicoanalisi, anche se va rilevato che Lévi-Strauss è stato un assiduo lettore di Freud (57). La circostanza per la quale oggi, dall'interno stesso di importanti esperienze di ricerca psicoanalitica, cresce l'interesse attorno al diritto (58) - ma a prescindere da un confronto aperto con l'antropologia di Lévi-Strauss (59) - è tra i motivi che impongono di acquisire il contributo della psicoanalisi alla ricerca di 9 ACHAB interazioni feconde tra filosofia e antropologia in materia di diritto. Si sa che, per Lévi-Strauss, la soglia d'ingresso dell'umanità nello stato di cultura è data dalla proibizione dell'incesto, regola sociale per eccellenza che consente il superamento della chiusura della famiglia biologica attraverso l'instaurarsi di reti di reciprocità fra i gruppi, che ricevono dall'istituzione del matrimonio la loro forma essenziale, sintetizzabile nel termine polisenso alliance, di valenza giuridica e insieme politica. È altrettanto risaputo che a Lévi-Strauss non interessa indagare l'organizzazione psichica di questo assetto giuridico originario, secondo il quale la società umana si struttura. Per lui, infatti, la 'coscienza' di un soggetto umano, sul quale deve pur fare presa qualcosa come una proibizione, non è altro che il riflesso di strutture inconsce che, prima di essere pensate dall'uomo, 'si pensano' nell'uomo sotto forma di miti (60). La vicenda nella quale Totem e tabù e Il disagio della civiltà di Freud ambientano, sulla scorta del Ramo d'oro di Frazer, il primo formarsi della società umana come società giuridica, fa apparire formazioni dell'inconscio riferibili al lavoro di un soggetto, che prende sempre più coscienza del suo dovere di diventare Ich in rapporto ad un contesto che si dà come relazionale in quanto, sin dall'inizio - con il padre, la madre, i fratelli -, già familiare, e non al contrario (come accade in LéviStrauss, dove la famiglia istituzionale compare per effetto di una relazione posta da una proibizione). Dell'io, in Lévi-Strauss, non c'è traccia visibile: già questo basterebbe a smontare qualunque tentativo di 'psicologizzare' l'approccio dell'antropologo alla genesi del sociale. Invero, non si può fingere di ignorare che LéviStrauss ha in-dividuato, di questa socio-genesi, il punto focale nel giuridico, qualificando l'alliance come formula elementare della socialità umana. Alliance può voler dire, a seconda dei contesti semantici, ora 'alleanza', ora 'matrimonio', ora parentela-imparentamento. L'alliance ou la mort potrebbe essere il motto - parafrasato da un'altra indagine a cavallo tra lo psicoanalitico e l'antropologico (61) - della socialità umana secondo secondo Lévi-Strauss. Come dire: il diritto o la morte. Tutto ciò che per Freud si presenta come organizzazione psichica profonda del sociale, in Lévi-Strauss acquista il significato 'povero' di organizzazione linguistica: l'uno e l'altro approccio postulano il giuridico come livello qualificativo comune. Sia l'uno sia l'altro assumono, però, il giuridico - sia pure a partire da una diversa interpretazione del fenomeno totemico - come qualcosa che prima non c'era e, da un certo punto in poi, c'è stato: in Freud, il giuridico si coglie nel passaggio dal regime del padre detentore di tutte le donne al regime civile-familiare dei fratelli; in LéviStrauss, la famiglia 'biologica' passa ad essere famiglia civileculturale solo per l'intervento della regola esogamica rappresentata, in negativo, dalla proibizione dell'incesto. L'acquisizione del giuridico all'ordine del sociale è data, prima di essere un dato sociologicamente registrabile: è data come è data la parola - come in molti miti dei popoli primitivi, dove si narra che gli uomini hanno cominciato a riconoscersi fra di loro come tali per il fatto di aver cominciato a parlare -; data come è data la vita umana, come vita psichica. Dove c'è dello psichico, li c'è già del giuridico; dove c'è del linguistico, lì c'è già dello psichico e del giuridico. Questi tre livelli primari di apparizione dell'umano si danno già come 'familiarizzati', e - se ci si può concedere l'espressione - 'donativizzati'. La triangolazione edipica struttura, per Freud, la vita psichica dell'individuo come vita giuridica; parimenti, la alliance, per Lévi-Strauss, struttura la vita sociale come vita giuridica. Il punto è: l'alliance o la proibizione dell'incesto? O tutt'e due? A. Delrieu fa notare che, se LéviStrauss avesse davvero creduto nella tesi della proibizione dell'incesto, sarebbe dovuto, prima o poi, ritornare a Freud, ed in particolare a quel che Freud ha detto della colpa che pesa su legame sociale (62). L'aver declinato, da subito, la proibizione in prescrizione, esogamica, di alliance ha fatto slittare in termini di 'positività' tutto ciò che il 'negativo' sembrava riferire ad un'istanza psichica inconscia. Evitando lo scoglio dell'incesto 'freudiano', Lévi-Strauss ha polarizzato la valenza istitutiva del legame sociale nella versione prescrittivo-esogamica del tabù. Tutto questo porta ad una domanda: la prima forma del diritto è negativa - fino al punto che si può immaginare il diritto penale come primo diritto - o è positiva, dandosi come esistenzialmente e sociologicamente 'primo' il diritto di famiglia? Ancora: può la prima forma del diritto, come negativa e positiva ad un tempo, consistere in un ordinamento giuridico, civile e penale, della famiglia? Se si ammette, con Delrieu, che il diritto viene prima dell'interdetto dell'incesto (63), non è la presunta universalità di quest'ultimo a dare ragione del fenomeno giuridico, ma è l'universalità del diritto a spiegare l'esistenza, tra le altre, anche di questa regola. In questione è l'uomo stesso come essere di diritto (64), portatore di strutture mentali universali - afferenti a quella che, per Kant, sarebbe la ragion pratica (65) - che Lévi-Strauss indica nella regola, nella reciprocità e nel dono (66). Il confronto fra Lévi-Strauss e Freud permette di tornare a Kant con l'acquisizione, problematica ma imprescindibile, di un pensiero antropologico che pensa l'universale, il diritto, l'uomo in termini non empirico-descrittivi, ma filosofici (67). Si può concludere, con B. Karsenti - uno studioso che ha di recente rivalutato il pensiero e l'opera di Marcel Mauss (68) - , che "le scienze umane hanno una portata filosofica che deborda largamente il quadro limitato e datato della loro formulazione originaria" (69); che, in particolare, l'antropologia si atteggia da subito - già con Durkheim - a filosofia sociale, che propone un'ontologia dell'unità uma-na intesa come unità sociale (70). Non si può concordare con Karsenti, tuttavia, nel sostenere che l'antropologia si sviluppa filosoficamente solo quando si libera della problematica del fondamento giuridico del legame sociale (71). Si è visto, all'opposto, che l'impulso a sviluppare la portata filosofica dell'antropologia viene, in maniera significativa, proprio dall'urgenza delle questioni di diritto che si agitano nella riflessione del filosofo che guarda all'uomo con gli occhi dell'antropologo e del geografo (Kant), dello psicoanalista che scruta le profondità della psiche da quasi-filosofo (Freud), dell'antropo1ogo, infine, che enuncia, da anti-filosofo, tesi di filosofia giuridica, morale, sociale non dichiarata (Lévi-Strauss). 10 ACHAB Note * Il presente lavoro costituisce la rielaborazione di un saggio da me pubblicato in appendice al Quaderno 2000 della rivista di scienze umane 'Nuovo Sviluppo', contenente il testo inedito di Claude Lévi-Strauss che raccoglie le tre conferenze tenute dall'antropologo a Tokyo, tra il 15 e il 16 aprile del 1986, sul tema L'antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno (chi sia interessato può rivolgersi al seguente indirizzo: [email protected]). In sèguito, Lévi-Strauss accettò di entrare nel comitato scientifico di 'Nuovo Sviluppo' - unico caso, a quanto mi risulti, di una sua qualificante ed autorevole partecipazione a sedi editoriali del genere, almeno in Italia. 1 Vedi A. DI CARO, Lévi-Strauss: teoria della lingua o antropologismo?, Milano 1981. 2 Cfr. C. LÈVI-STRAUSS, Retours en arrière, 'Les temps modernes', 598/1998, pp.66-77, scritto in risposta, ferma e a tratti dura, ad un articolo, comparso sul n. 596/1997 della medesima rivista, a firma di C. Delacampagne e B. Traimond in merito alla polemica Sartre/Lévi-Strauss risalente ai primi anni Sessanta. 3 Cfr. 'Critique', 620-621/1999. A dieci anni di distanza dall'incontro con quella che Bernard Henri-Lévy ha definito, forse non iperbolicamente, l'incarnazione di un momento specificamente francese del pensiero occidentale, dopo i momenti greco e tedesco (si veda il suo articolo Ce que nous devons à Lévi-Strauss, 'Le Point', 1888/2008), tra le tante ed autorevoli pubblicazioni sull'opera di Lévi-Strauss mi permetto di segnalare, in particolare, gli agili volumetti di Frédéric KECK, Lévi-Strauss et la pensée sauvage, Paris 2004 (di taglio più spiccatamente filosofico), e Claude Lévi-Strauss, une introduction, Paris 2005, nonché i saggi raccolti nel numero speciale di 'Le Temps Modernes', 628/2004, dedicato al grande antropologo. In lingua italiana, oltre alla riedizione, ampliata e ripensata, del libro di Sergio MORAVIA, La ragione nascosta (Firenze 1969), intitolata Ragione strutturale e universi di senso (Firenze 2004), va ricordata la recentissima antologia di testi Lévi-Strauss. Fuori di sé, Macerata 2008. In traduzione italiana va inoltre tenuto presente l'originale Lévi-Strauss di Catherine CLÉMENT (Roma 2004), della quale si può leggere altresì il recentissimo, interessante saggio su Lévi-Strauss et la France ('La règle du jeu', 37/2008, pp. 81-96). In questi ultimi anni non ho mancato, dal canto mio, di proseguire le mie ricerche, discusse con studiosi di lingua francese e inglese, intorno al Nostro, in una chiave di lettura antropologicofilosofica tale da consentire un ripensamento profondo del diritto quale struttura di coordinazione. Traccia di queste ricerche si trova in lavori in corso di stampa, o appena avviati. 4 Cfr. il mio Dimensioni della giuridicità nell'antropologia strutturale di Lévi-Strauss, Milano 1994, nonché, per maggiore autorevolezza, S. COTTA, Soggetto umano. Soggetto giuridico, Milano 1997, cap. IV. 5 Cfr. in particolare N. ROULAND, Antropologia giuridica, Milano 1992. 6 Cfr. G. VATTIMO, Fare giustizia del diritto, in Diritto, giustizia e interpretazione, a cura di ID. e J. DERRIDA, Roma-Bari 1998; in ideale risposta cfr. Rendre justice au droit, a cura di F. X. DRUET e E. GANTY, Namur 1999. 7 Cfr. B. MONTANARI, Itinerario di filosofia del diritto, Padova1995; ID. - A. COSTANZO, Teoria generale del diritto, Torino 1998. 8 Cfr. P. VENTURA, Pensare oggi al diritto, Introduzione a AA.VV., Pensando al diritto, Torino 1999. 9 Cfr. A. RENAUT, La place de l'Anthropologie dans la théorie kantienne du sujet, in L'année 1798 - Kant sur l'anthropologie, a cura di J. FERRARI, Paris 1997, p.51. 10 I. KANT, Antropologia pragmatica, Bari 1985, p. 3. 11 Cfr. A. RENAUT, loc. cit., p. 61. 12 Cfr. M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafìsica, Bari 1989, p.182:"un'antropologia può dirsi filosofica quando segue un metodo filosofico, ossia, su per giù, quando prende in considerazione l'essenza dell'uomo". 13 Cfr. S. GOYARD-FABRE, L'homme et le citoyen dans l'anthropologie kantienne, in L'année 1798, cit., p. 97. 14 Cfr. I. KANT, Antropologia pragmatica, cit., p. 225. 15 Cfr., op. cit., p.227. 16 Cfr. N. DELATTRE-DELEC, Sciences humaines, sciences de l'homme, science de la nature: le laboratoire transversal de Freud, in AA.VV., Les sciences humaines sont elles des sciences de l'homme?, Paris 1998, pp.54-55. 17 Cfr. I. KANT, Antropologia pragmatica, cit., p. 225. 18 A. RENAUT, La place de l'Anthropologie, cit., p. 62. 19 Cfr. op. cit., p. 63. 20 Cfr. op. cit., p. 57. 21 Cfr. S. GOYARD-FABRE, L'homme et le citoyen…, cit., p. 82 22 Cfr. J. B. FAGES, Comprendere Lévi-Strauss, Toulouse 1972, p. 109. 23 Il testo delle conferenze pronunciate da Lévi-Strauss a Tokyo fra il 15 e il 16 aprile del 1986 presso la Fondazione Ishizaka intitolate L'anthropologie face aux problèmes du monde moderne - non è stato mai pubblicato nell'originale francese, e ha conosciuto, su autorizzazione dell'autore e di Satoshi Tsuzukibashi, una prima traduzione in Occidente nel Quaderno 2000 della rivista di scienze umane 'Nuovo Sviluppo', diretta dal compianto Luigi Pasquazi, per poi registrare, nel 2006, una traduzione in giapponese a cura di 11 ACHAB Kawada Junzo e di Kozo Watanabe, dell'Università Ritsumeikan di Kyoto. Dalla lettura di queste pagine emerge un Lévi-Strauss in presa diretta con alcuni dei problemi fondamentali del nostro tempo - e, tra questi, vi sono problemi giuridici sui quali Lévi-Strauss non si è mai soffermato così a lungo -, esaminati con lo spirito dell'antropologo che sa di essere un uomo di cultura di formazione occidentale a confronto con la cultura e la storia di un Oriente geograficamente e spiritualmente estremo, come quello nipponico. Chi conosce Lévi-Strauss può ravvisarvi l'espressione di una libertà di opinioni che si ritrova forse solo nelle Riflessioni sulla libertà, che l'antropologo espose nell'Assemblea Nazionale francese nel maggio del 1976, e in qualche raro intervento polemico. Chi non conosce Lévi-Strauss potrà rendersi conto della portata complessiva degli esiti principali di tutta una vita di ricerche: esiti che qui incontrano la 'prova' dell'attualità, oltre che - come nella migliore tradizione antropologica - la prova dell'alterità radicale di usi, costumi, credenze, lo sguardo da lontano trovando qui di che spaziare da un meridiano culturale all'altro. Chi si interessa all'Oriente, ed in specie al Giappone, potrà allargare il suo sguardo con l'originale proiezione ottica di Lévi-Strauss, attestata in particolare dalla conferenza di Kyoto del 9 marzo 1988 su La place de la culture japonaise dans le monde, pubblicata nella 'Revue d'Esthétique' (18/1990). Non mancherà, infine, chi crederà di poter scorgere, in alcuni passaggi di queste conferenze, l'abbozzo di una 'antropologia dell'alterità' che, proprio pensando anche al Giappone, un filosofo che vi abitò e vi insegnò da esule tra il 1936 e il 1941, Karl Löwith, tentò in una sua opera poco conosciuta (Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen), e pubblicata in traduzione italiana soltanto nel 2007. 24 M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 185. 25 Cfr. N. PIRILLO, Morale e civiltà, Napoli 1995, pp. 71-73. 26 Su questo punto, e sulle sue implicazioni problematiche, mi permetto di rinviare al mio L'antropologia culturale alla ricerca del suo fondamento: l'archeologia fenomenologica, 'Rivista internazionale di filosofia del diritto', 3/1998, p. 403, n. 2. 27 Cfr. S. GOYARD-FABRE, L'homme et le citoyen..., cit., p. 90. 28 Cfr. I. KANT, Antropologia pragmatica, cit., p. 3. 29 Cfr. P. WATTÉ, Anthropologie et philosophie: un double retour au fondement, 'Revue philosophique de Louvain', mai 1993, p. 227, n. 30. 30 I. KANT, Antropologia pragmatica, cit., pp.2l8-219. 31 Cfr. op. cit., pp.2l7-220. 32 Op. cit., pp.219. 33 Cfr. ID., Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino I971, p. 127. 34 Cfr. ID., La pedagogia, Firenze 1975, p. 21. 35 Cfr. op. cit., pp. 21-22. 36 Cfr. op. cit., pp. 64-65. 37 Cfr. loc. cit.: la proiezione pedagogica dell'antropologia pragmatica di Kant, in termini conoscitivi piuttosto che pratici, è stata messa in evidenza nel mio L'educazione ai diritti dell'uomo, cap. IX del mio Per una antropologia filosofica dei diritti dell'uomo, Foggia 2001, in Appendice al quale si può leggere una prima stesura del presente saggio. 38 Cfr. R. BRANDT, Commentaire de la Préface de l'Anthropologie du point de vue pragmatique, in L'Année 1798, cit., p. 202. 39 Cfr. I. KANT, Antropologia pragmatica, cit., p. 4. 40 S. COTTA, Soggetto umano. Soggetto giuridico, cit., pp. 86-87. 41 Su questo contatto 'di frontiera', mi permetto rinviare ai miei Studi di antropologia giuridica, Napoli 1996, cap. V. 42 I. KANT, Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scritti politici, cit., p. 392. 43 Cfr. N. PIRILLO, Morale e civiltà, cit., pp. 26 e 27. 44 Nella pagina culturale di uno dei principali quotidiani italiani, i francesi sono stati accusati di aver 'perso tempo' a tradurre la Physische Geographie, pubblicata per la prima volta nel 1802, ed alla quale Kant aveva dedicato un numero di corsi (49) maggiore di quelli dedicati all'etica (46), all'antropologia (28), al diritto (16), e minore soltanto rispetto a quelli dedicati alla logica e alla metafisica (54). Se dal 1757 al 1796 Kant ha perso tempo..., è probabile che perdere tempo dietro al Kant geografo e geofilosofo del diritto sia un lusso che ci si può permettere (su tutto questo cfr. in particolare M. CAMPO, La genesi del criticismo kantiano, Varese 1953, pp. 178-179). "È per questo necessario che l'antropologia - almeno in senso kantiano - non divenga scienza, ma sia in qualche modo di aiuto e di verifica dell'indagine filosofica e scientifica propriamente detta" (I. F. BALDO, Kant e la ricerca antropologica, in AA.VV., Il problema dell'antropologia, Padova 1980, p. 75), anche se il passaggio operato dallo stesso Kant, "dalla Naturbeschreibung alla Naturgeschíchte, segnerà la prima fondamentale tappa per uno sviluppo effettivo dell'antropologia come scienza" (op. cit., p. 72). 45 I. KANT, Géographie, Paris 1999, p. 66. Se la conoscenza del mondo "ha lo stesso significato di antropologia pragmatica (conoscenza degli uomini)" (M. HEIDEGGER, L'essenza del fondamento, in Essere e tempo, Torino 1978, p. 655), proprio dalla conoscenza del mondo che si esprime nella geografia fisica "sorgeranno quegli interrogativi che spingeranno Kant ad impostare un autonomo corso di antropologia, dopo aver preparato un testo (Urtext) nel 1759 di geografia ed aver ampliato il campo di indagine della geografia stessa, che dev'essere anche morale e politica oltre che fisica" (I. F. BALDO, Kant e la ricerca antropologica, cit., p. 75). 12 ACHAB 46 Cfr. I. KANT, Géographie, cit., p. 66. 47 N. PIRILLO, Morale e civiltà, cit., p. 29. 48 I. KANT, Géographie, cit., p. 71. 49 Cfr. M. CASTILLO, L'actualité de l'anthropologie kantienne, in L'Année 1798, cit., p. l78. 50 Cfr. op. cit., p. 183. 51 Cfr. O. DEKENS, D'un point de vue géographique sur la philosophie kantienne, 'Revue de métaphysique et de morale', 2/1998, pp. 259-260. Ciò non vale solo per la filosofia kantiana perché, "in una certa maniera, la riflessione sul diritto mette in discussione la ragione filosofica nel suo insieme, nel suo divenire storico come nella sua attualità, nella sua essenza come nelle sue procedure" (J.GREISCH , Présentation a AA.VV., Le droit, Paris 1984, p. 5). 52 Sulla discussione della giurisprudenza come specifica forma di sapere 'sapiente', piuttosto che scientifico in senso moderno, cfr. P. VENTURA, Introduzione a Pensando al diritto, cit., pp.7-16. 53 Cit. in R. BRANDT, Commentaire de la Préface de l'Anthropologie, cit., p. 200. 54 Cfr. ibidem. 55 N. PIRILLO, Morale e civiltà, cit., p. 33, n. 50. Circa il rapporto fra il diritto e la prudenza valgono le seguenti considerazioni del compianto Sergio Cotta: "il diritto considerato globalmente è il prodotto di un esercizio della ragione in quanto calcolo, previsione, organizzazione. Per usare un linguaggio classico, la virtù che meglio gli si addice è la virtù della prudenza. Si potrebbe persino dire che, nel campo della prassi, esso rappresenta lo sforzo maggiore di questo tipo di ragione e di questo tipo di virtù" (S. COTTA, Itinerari esistenziali del diritto, Napoli 1972, p. 139). Più in generale mi permetto rinviare al mio Phrònesis, prudentia, giuris-prudenza, 'Nuovo Sviluppo', Quaderno 2004, pp. 59-93. 56 ID. Soggetto umano. Soggetto giuridico, cit., p. l03. Su tutto quanto riguarda i rapporti fra psicoanalisi, diritto, antropologia e filosofia cfr. in particolare P. VENTURA, Freud e la giuridicità della coesistenza, Milano 1979, e ID., La psicoanalisi collettiva, Milano 1984. 57 Cfr. A. DELRIEU, Lévi-Strauss lecteur de Freud, Cahors 1993: questo libro, del quale qui di sèguito saranno discussi alcuni passaggi, reca come sottotitolo: Il diritto, l'incesto, il padre e lo scambio delle donne. Centrale, nella considerazione dell'autore, è il ruolo che il diritto svolge nell'elaborazione levistraussiana, da Delrieu peraltro non condivisa del tutto, di alcune categorie fondamentali della psicoanalisi freudiana. 58 Si pensi alla pubblicazione su L'esperienza giuridica. Istituzioni del pensiero laico, a cura di C. ZANZI, Milano 1999, che raccoglie numerosi e variegati contributi alla riflessione sul diritto, stimolata dal lavoro dello Studium Cartello diretto da Giacomo B. Contri. 59 Cfr. G. B. CONTRI, Libertà di psicologia, Milano 1999, p. 13. Un'inimicizia così aspra, come quella che traspare da questo volumetto, pur estremamente apprezzabile per la questione filosofica e giuridica che solleva, si può forse spiegare con la fratellanza intellettuale profonda che legava uno strutturalista come Lacan, maestro di Contri, a Lévi-Strauss (a ciò fa pensare un libro di N. Panoff, dedicato a Lévi-Strauss e a Roger Caillois, Les frères ennemis, Paris 1993). 60 In proposito cfr., in particolare, M. GALLO, Pensiero e realtà. Logica e ricerca in Lévi-Strauss, Napoli 1998. 61 Cfr. M. SAFOUAN, La parole ou la mort, Paris 1993. 62 Cfr. A. DELRIEU, Lévi-Strauss lecteur de Freud, cit., p. 74. 63 Cfr. op. cit., p. 54. 64 Cfr. op. cit., p. 64. 65 Cfr. op. cit., p. 25. 66 Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela, Milano1976, p. 139. È stato rilevato, criticamente, che lo strutturalismo etnologico si atteggia a teoria generale dell'uomo, filosoficamente pretenziosa (cfr. R. BOUVERESSE, La philosophie et les sciences de l'homme, Tours 1998, p. 45). Il problema è che gli elementi per una tale teoria - a forte impronta giuridica - non mancano. 67 Un recente tentativo di far passare Lévi-Strauss per un quasi-filosofo esistenzialista sembra per lo meno azzardato: cfr. A. BRUNO, Saggio su Claude Lévi-Strauss. Esistenza-Etica, Manduria 1999. 68 Cfr. B. KARSENTI, Marcel Mauss.Le fait social total, Paris I993 e ID., L'homme total, Paris 1997. 69 ID., La philosophie et les sciences de l'homme, 'Revue des Sciences morales et politiques', 3/1997, p. 48. Per un quadro più generale, si veda anche S. BORUTTI, Filosofia delle scienze umane, Milano 1999. 70 Cfr. B. KARSENTI, La philosophie et les sciences de l'homme, cit., p. 52. 71 Cfr. art. cit., p. 59. 13 ACHAB Il pensiero selvaggio nell’era elettrica di Gianni Trimarchi Non è semplice comparare il rigore scientifico delle opere di C. Levi-Strauss con l’ironica narratività di McLuhan: egli ama definirsi, shakespeareamente, come un buffone (fool) che “rompe gli schemi dati e forza una presa di coscienza attraverso un linguaggio altro, liberato dalla logica letterale” (Lamberti, p. 3435). Ciò nonostante, alcune analogie fra i due autori appaiono con molta evidenza, soprattutto per quanto riguarda alcuni aspetti della civiltà industriale avanzata, che McLuhan non esita a definire come totemici. Certo non a caso, nella prefazione a La sposa meccanica, viene citato proprio Levi-Strauss. In sostanza, come scrive Ugo Fabietti a proposito della teoria di Levi-Strauss: “Questa prospettiva porta alla caduta dell’antica distinzione tra pensiero logico, razionale e civilizzato da un lato e pensiero prelogico, mistico e primitivo dall’altro. Si tratta piuttosto, per Lévi-Strauss, di definire quelle leggi del pensiero che sono sempre le stesse” (U. Fabietti, Levi-Strauss moderno..., p. 10). Anche MacLuhan ravvisa una caduta di antiche distinzioni, così come, per altro verso, aveva ravvisato una convergenza fra vita e macchina, intesa a rompere la tradizionale rivalità fra meccanicismo e vitalismo.1 L’alimentatore delle macchine elettroniche è in certa misura un cuoco, che prepara alimenti (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 74), mentre il carburante è qualcosa di simile a un cibo che la macchina digerisce, (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 199). Una fabbrica automatizzata di automobili in certo senso le secerne, come il fegato secerne la bile, o una pianta fa le foglie (M. Mcluhan, La sposa meccanica, p. 74).2 Tutto ciò, nel contesto de La sposa meccanica, possiede forti tendenze distruttive, che sembrano assimilare il pensiero di MacLuhan ad alcuni aspetti della critica di Horkheimer e Adorno all’industria culturale,3 come compare da un passo relativo alla moda femminile, nella società industriale avanzata, che tende ad assimilare la donna a una macchina. “Leggendo La sposa meccanica vengono in mente le ricerche di Levi-Strauss sull’anima primitiva. (...) È nota l’affermazione di McLuhan, che...ci riporta al villaggio tribale, anche se su scala planetaria (...). L’americano medio ricorda stranamente le tribù protagoniste dei viaggi dell’antropologo francese” (R. Faenza, prefazione a: M. MacLuhan, La sposa meccanica, p. 7). Anzitutto il Nostro definisce la nostra epoca come una sopravvivenza dell’età del cacciatore, dando però a questo termine un particolare significato; egli parla infatti dell’“uomo in caccia perenne di dati e informazioni indispensabili per la sua sopravvivenza” (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 10). Anche il titolo di un giornale, in questa lettura, esprime elementi arcaici, poiché si tratta di un “grido primitivo di rabbia”, nato fra le passioni violente (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 23). Il mondo nel suo insieme, proprio grazie alla dimensione “elettrica”, tende sempre più a comprimersi e a dare sempre più spazio alla dimensione della contemporaneità, assumendo le caratteristiche di un villaggio tribale (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 28). In questo contesto la civilizzazione si presenta in una forma ben singolare, dal momento che in molti casi “un eminente scienziato ha spesso emotività e gusti di lettura tipici di un bambino avido di violenza” (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 28). Facendo un discorso sostanzialmente analogo, una decina di anni dopo Levi-Strauss scrive: “Per la ragazza moderna le gambe come il busto sono punti di potere, corredo necessario al successo, piuttosto che in senso erotico, o sensuale (...) sono semplicemente oggetti da mettere in mostra, come le cromature di una vettura (La sposa meccanica, 197) (...). Quando una donna vuole apparire nella sua luce migliore non solo si infila una camicia di forza, ma si mette i tacchi a spillo, per essere sicura che non sarà capace di un solo gesto libero del braccio, o della gamba” (id: 291). Questo risulta anche in un certo tipo di narrativa, che mostra una spiccata tendenza a trasformare in automi gli uomini. Il cow boy dei grandi western, così come il direttore d’azienda, tutto preso dal suo lavoro, risulta “emotivamente indurito e insensibile a tutto, fuorché a una ristretta area di esperienza. Egli è capace di agire, ma non di sentire” (M. McLuhan, La sposa meccanica, p. 299). In certa misura per McLuhan, come per Horkheimer e Adorno, un certo tipo di sviluppo sembra portare a una nuova barbarie, non a caso i due filosofi parlano dell’illuminismo come “angoscia mitica radicalizzata” (M. Horkheimer, Th. Adorno, Dialettica “Durante la prima guerra mondiale, Linton aveva fatto parte della 42° divisione, o “Divisione Arcobaleno”, nome arbitrariamente scelto, perché la divisione raccoglieva unità provenienti da numerosi stati e quindi i colori dei suoi reggimenti erano tanti come i colori dell’arcobaleno (...). Cinque o sei mesi dopo si affermava che si vedeva un arcobaleno ogni volta che la divisione entrava in azione” (C. Levi-Strauss, Il totemismo..., pp. 13-14). 14 ACHAB dell’illuminismo, p. 24) e delle sue tragiche conseguenze. che accosta l’australiano...ma il procedimento...essenzialmente non differisce” (C. Levi-Strauss, Il Totemismo..., p. 135). “La ripetizione monotona di parole e di gesti sono altrettante imitazioni organizzate di pratiche magiche, la mimesi della mimesi. Il capo, dal viso lubrificato e col carisma dell’isteria a comando, conduce la ridda (...). Il fascismo è totalitario anche in ciò, che cerca di mettere la rivolta della natura oppressa contro il dominio direttamente al servizio di quest’ultimo” (M. Horkheimer, Th. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 197). In questo contesto, ci troviamo a fare una curiosa scoperta: “Bergson è un filosofo che, per certi aspetti, pensa come un selvaggio” (C. Levi-Strauss, Il Totemismo..., p. 139). Con sottile ironia Levi-Strauss cita un passo di Durkheim, dal quale risulta che il discorso sull’élan vital faceva già parte della cultura dei Sioux, ben prima che il filosofo francese lo pronunciasse. In questo senso il suo pensiero “era in simpatia con il pensiero delle popolazioni totemiche” (C. Levi-Strauss, Il totemismo..., p. 138139). Ragionando in termini rigorosamente antropologici, secondo Radcliffe-Brown, abbiamo un’omologia di struttura fra il pensiero umano e l’oggetto umano a cui si applica. Infatti ogni livello della realtà sociale appare come un complemento indispensabile, senza il quale sarebbe impossibile comprendere gli altri livelli. I costumi rimandano alle credenze e queste alle tecniche, tuttavia: Anche McLuhan riprende il discorso sull’angoscia come fondamento di certi comportamenti dell’uomo contemporaneo. Come un tempo gli uomini terrorizzati entravano spontaneamente nelle pelli degli animali totemici, noi siamo arrivati ad assumere i meccanismi di comportamento delle macchine che ci spaventano e ci dominano. “La tecnologia è un tiranno astratto che compie le sue devastazioni sulla psiche a un livello più profondo di quanto non facessero lo smilodonte e l’orso bruno” (M. McLuhan, La sposa meccanica p. 73). “I diversi livelli non si riflettono semplicemente gli uni sugli altri, ma reagiscono dialetticamente fra loro, in modo che non si può sperare di conoscerne uno solo, senza aver prima di tutto valutato, nelle loro relazioni di opposizione e di correlazione rispettiva, le istituzioni, le rappresentazioni e le situazioni” (C. Levi-Strauss Il Totemismo..., p. 129). Questi enunciati divergono da alcune delle conclusioni di C. LeviStrauss; il suo discorso sul totemismo infatti esclude la dimensione del terrore.4 Egli aveva verificato che il pericolo non chiama necessariamente il rituale con funzioni di rassicurazione (C. Levi-Strauss, Il totemismo..., p. 97). Al contrario, in vari casi, è proprio il rito a creare un senso di insicurezza e di pericolo (Ibid). Questo modo di intendere diverge decisamente da quanto affermato da McLuhan ne La sposa meccanica, ma sembra convergere con quanto da lui scritto una decina di anni dopo. In questa prospettiva, il totemismo “fa parte dell’intelletto e le esigenze cui risponde, il modo in cui cerca di soddisfarle, sono anzitutto di ordine intellettuale. In questo senso non c’è nulla di arcaico, o di lontano” (C. Levi-Strauss, Il Totemismo..., p. 146). Assistiamo ad un intreccio di codici diversi, compresenti nel pensiero. In questo ambito “ciò che vogliamo salvare non sono i primitivi in quanto tali, ma ciò di cui essi sono custodi. Essi custodirebbero infatti le ‘verità ultime’ per mezzo delle quali e nelle quali si è reso possibile ‘dissolvere l’uomo’” (U. Fabietti Levi-Strauss moderno..., p. 19). Questo complesso intreccio di strati dialetticamente connessi ci invita a riflettere sul linguaggio dei nuovi media, che esprimono, secondo McLuhan, una grammatica e una sintassi ancora sconosciute. (Lamberti, McLuhan, p. 168-169). L’insieme dei codici che caratterizzano il pensiero primitivo sembra infatti richiamare quello dei codici multimediali, reperibili in teatro, cinema e televisione. Anche a prescindere da McLuhan, vari testi di mediologia mostrano attenzione alle analisi linguistiche degli antropologi, in funzione della conoscenza del linguaggio stratificato, che caratterizza il totemismo. Questo tema ha già una sua bibliografia, ma potrebbe meritare ulteriori approfondimenti.5 “L’uomo moderno, a partire dalle scoperte elettromagnetiche di oltre un secolo fa, sta riassumendo tutte le caratteristiche dell’uomo arcaico e altre ancora. L’arte e la scienza dell’ultimo secolo e oltre non sono state niente di più che un monotono crescendo di primitivismo arcaico” (M. MacLuhan, La galassia Gutenberg, p. 105). Sappiamo del resto che “fra la logica del pensiero religioso e la logica del pensiero scientifico non esiste un abisso (...). [La religione] usa i meccanismi logici con una specie di goffaggine, ma non ne ignora alcuno” (Durkheim, citato in: C. Levi-Strauss, Il totemismo..., p. 136). Levi-Strauss precisa che spiegare significa dimostrare come una cosa partecipi di una o di molte altre. “Certo i termini che noi uniamo in questo modo non sono quelli 15 ACHAB Note 1. Siamo in quell’ambito di identificazione fra uomo e macchina che già era stato previsto anche dai formalisti russi: “Mentre lui penzolava (da una forca), meschino, ripugnante, nei salottini le donne, fabbriche senza fumo e senza ciminiere, costruivano baci a milioni, d' ogni genere, grandi, minuscoli, di tutte le misure, con leve carnose di labbra battenti.” ("Qualche cosa a proposito di un direttore d' orchestra", v. 400-450) Oltre a questa meccanizzazione della donna, potremmo ricordare l’animalizzazione della macchina in Ejzenstejn, per quanto riguarda il palpitare del motore della corazzata Potemkin la notte prima della battaglia, ben reso dalla musica di E. Meisel, o per quanto riguarda una sorta di orgasmo messo in atto da una scrematrice meccanica in La linea generale. Per quanto riguarda una filmografia più recente, va citato: Jean Rouch, Dioniso e la pantera profumata, del 1980 dove si parla di mettere in atto un ritorno ai principi dionisiaci in università, in fabbrica e nel bosco. Una Citroen 2CV maculata viene fatta a pezzi e con i suoi elementi si costruiscono nuovi strumenti musicali (cfr. Canevacci Antropologia della comunicazione visuale, Meltemi, pp. 178-179). 2. Sulla macchina come prolungamento dell’essere umano v. P. Ortoleva, Il secolo dei media, p.120. 3. Cfr. Lamberti, McLuhan, p. 27. 4. Il suo lavoro empirico sui popoli primitivi dell’Amazzonia portò Levi-Strauss a verificare che la barbarie non era lì. Sfuggito al genocidio in Europa, Levi-Strauss si trova ad essere testimone di un etnocidio in Brasile, le cui radici tuttavia non hanno nulla a che vedere con l’irrompere del primitivismo barbarico all’interno del mondo civilizzato. Egli parla dei primitivi che ha incontrato con profonda commozione, forse rivivendo in certa misura la propria storia, ad esempio quando scrive: “mi sentivo già selvaggina per un campo di concentramento” (Tristi tropici, p. 21). A proposito dei Nambikwara egli dice: “Povera selvaggina presa al laccio della civiltà meccanizzata, indigeni della foresta amazzonica... devono febbrilmente saziare delle vostre ombre il cannibalismo nostalgico di una storia dalla quale siete già stati sopraffatti” (Tristi tropici, p. 39). “Il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli indiani è preso dall’angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo di questa umanità così totalmente indifesa...nuda e rabbrividente davanti a fuochi vacillanti, (...) ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa (...). Si indovina in tutti un’immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione animale e, mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualcosa che somiglia all’espressione più commovente della tenerezza umana”. (Tristi tropici, p. 278) 5. Fra i vari testi che cercano di coniugare antropologia e linguaggio dei media cfr. P. Ortoleva Mediastoria, e Il secolo dei media. V anche G. Trimarchi, Lev Vygotskij, il «dramma vivente del pensiero» e le premesse della multimedialità. 16 ACHAB Lévi-Strauss in classe La top-ten dell’antropologia strutturalista di Fabio Dei Lévi-Strauss è considerato difficile dagli studenti. L’argomento più difficile del manuale di storia dell’antropologia. Quando lo chiedi agli esami si sparge il terrore, soprattutto fra i non frequentanti. Si capisce che ne parlano nei corridoi: “Chiede LéviStrauss? Accidenti!”, e via a ripassare quelle pagine sottolineate con tanti colori. Ho molti studenti non frequentanti, impegnati in curricola di storia e beni culturali, più raramente di filosofia, che all’esame devono “portare il Fabietti”, come dicono loro. Sono al primo approccio con la disciplina (è il loro primo e ultimo esame di M-DEA/01, qualche volta di soli 5 crediti); trovano difficoltà a dominarne il linguaggio e soprattutto a seguirne la complessità argomentativa. Sono abituati più a “storie di fatti” che non a “storie di teorie”. Di solito sanno meglio la prima metà del libro, peggio la seconda. Non sono mai riuscito a capire se gli autori e gli argomenti della seconda parte sono davvero più difficili, o se semplicemente dopo un po’ si stancano di studiare con la stessa determinazione. Morgan, Mauss e Malinowski li sanno un po’ tutti. Lévi-Strauss e Geertz quasi nessuno. Io Lévi-Strauss ormai lo chiedo solo quando l’esame comincia bene e la preparazione si dimostra solida: è una specie di domanda-bonus che apre la possibilità di un voto alto. Altrimenti mi imbatterei – lo so già – in un muro di silenzi o, peggio, di larghi e inconcludenti giri di parole che nascondono il nulla. È giusto passare un esame di antropologia culturale non avendo capito nulla di Lévi-Strauss? Non è come passare un esame di letteratura italiana senza conoscere Leopardi, o uno di ingegneria senza conoscere le leggi della statica? Può darsi. Certo, si può dire che farsi un’idea di un autore così complesso in poche pagine di manuale è praticamente impossibile. Quasi tutti conservano qualche appiglio. Si ricordano la proibizione dell’incesto, ad esempio, o i mitemi. Ma i singoli temi restano isolati, il senso ultimo dell’approccio strutturale resta incompreso. Io me ne stupisco sempre. Continuo a dare per scontato, ormai contro ogni evidenza, che gli studenti di una Facoltà di Lettere e Filosofia dovrebbero essersi imbattuti nello strutturalismo in chissà quante altre occasioni: ad esempio nelle teorie della letteratura o del cinema, nella linguistica, nella storiografia, eccetera. Invece no, proprio no. Di solito non ne hanno mai sentito parlare (peraltro, in ciò lo strutturalismo è in buona compagnia). Vorrei evitare le tirate moralistiche su cosa è diventata oggi l’università, che bella quella di un tempo eccetera. Non credo siano molto realistiche. Però è vero che nelle Facoltà umanistiche il nuovo ordinamento ha prodotto una tendenza alla parcellizzazione che sembra abbastanza pericolosa. I grandi caposaldi del pensiero contemporaneo - dal marxismo alla psicoanalisi, dallo strutturalismo alla filosofia della scienza, da Wittgenstein a Foucault - non sono affatto patrimonio minimo e irrinunciabile in una Facoltà di Lettere e Filosofia. Anzi, sono esclusi dalla maggior parte dei corsi di laurea, a favore di contenuti più tecnici e specifici. E questo è un problema. Insomma, Lévi-Strauss come bestia nera per gli studenti? Sì, ma per fortuna gli usi didattici di Lévi-Strauss non riguardano solo i non frequentanti e il manuale. C’è la didattica vera e propria, ci sono le lezioni. Devo fare due premesse a questo proposito. Prima: nei miei corsi non faccio la storia degli studi in modo sistematico. Dovendo presentare l’antropologia culturale a studenti che non l’hanno mai fatta prima, e in buona parte non la faranno mai più, scelgo di trattarla attraverso corsi monografici di ampio taglio, che presentino nessi forti con il corso di laurea in cui il mio insegnamento si colloca (storia). Negli ultimi anni, ad esempio, i temi sono stati la violenza, il dono, la memoria, la dimensione quotidiana e il relativismo culturale. La storia degli studi e gli autori classici sono presentati selettivamente in relazione a questi fili conduttori. Seconda premessa: mi ritengo, diciamo, un fedele geertziano, e dovrei provare una certa avversione verso Lévi-Strauss. “The cerebral savage” - la critica a Lévi-Strauss poi espunta dall’edizione italiana di Interpretazione di culture - è uno dei primi pezzi di Geertz che ho letto; e “Gli usi della diversità” è stato a lungo il mio Vangelo multiculturalista. Il povero Claude non ne esce bene. Di fronte alla sensibile fragilità delle ragnatele di significato, i meccanismi tritatutto della sua analisi strutturale sembrano goffi e ingombranti, un po’ ridicoli come gli enormi calcolatori dei film di fantascienza degli anni ’60. E il suo “sguardo da lontano” ci appare irrimediabilmente impigliato in una concezione essenzialista della cultura, dalle ambigue connotazioni etico-politiche. Eppure, eppure…Nei corsi Lévi-Strauss riemerge sempre, in un modo o nell’altro. Anche a non volere. Malgré Geertz. Non c’è nulla di importante su cui quell’uomo non abbia scritto qualcosa di importante. E di suggestivo. Di ampio respiro teorico, di spiazzante, roba che apre nuove prospettive – buona da pensare, come diceva lui. Se riusciamo per un attimo a dimenticarci quei 17 ACHAB passi un po’ presuntuosi in cui vuol farci credere che l’antropologia è una specie di cibernetica; se rimuoviamo la frustrazione per non avercela fatta a leggere fino in fondo le Mythologiques (via, diciamo la verità: chi non ha saltato un po’ di pagine, qualche giaguaro e qualche pappagallo ara?); quello che resta, allora, è un pensiero arioso, ricchissimo, di cui non finiamo di nutrirci. Su tutto. Qualsiasi corso monografico uno possa pensare, Lévi-Strauss viene fuori, si impone, c’è bisogno di confrontarci con lui. Si potrebbe addirittura pensare di adottare le Introduzioni a Lévi-Strauss esistenti sul nostro mercato librario (come quella di Enrico Comba, Laterza 2000, o di Catherine Clément, Meltemi 2004) come manuali generali di antropologia. In questa occasione celebrativa vorrei divertirmi a compilare una top ten dei temi lévistraussiani che emergono con più regolarità e profondità nella didattica – nella mia, almeno. Rovesciamo per una volta il rapporto fra antropologia e cultura popolare, applicando alla prima un classico modulo pseudo-classificatorio della seconda. Una classifica. Ognuno poi potrà continuare il gioco proponendo la propria. Devo subito avvertire, a proposito di classificazioni, che la mia predilezione va in modo sfacciato ai temi del Pensiero selvaggio. La teoria della parentela mi annoia di più, e la nostalgia per i perduti mondi amazzonici è passata così a fondo nel senso comune che mi sembra oggi difficile apprezzarne l’originaria forza. Alberto M. Cirese, negli anni 70, classificava i suoi studenti in due categorie: quelli che avevano letto prima Tristi tropici, e quelli che avevano letto prima Il pensiero selvaggio. E’ come se da queste letture venissero degli imprinting irreversibili, romantico e letterario il primo, scientifico e razionalista il secondo. A me piacerebbe rimescolare le carte, e scegliere un approccio letterario e razionalista al tempo stesso. Ma, inequivocabilmente, ho letto prima Il pensiero selvaggio. Un altro peccato di leso geertzismo. Cominciamo, dunque. Al primo posto, d’obbligo: cultura vittoriana, come ha scritto una volta Jesi, Lévi-Strauss introduce la modernità negli incubi. Lo stesso pensiero è in azione: ugualmente ricco, basato sulle medesime matrici generative. La dicotomia bricoleur-ingegnere è stata naturalmente criticata e riletta, ad esempio in termini di tecnologie comunicative (oralità/scrittura, secondo la nota tesi di Goody e Watt). Ma senza la logica del concreto non ci sarebbe stata la cosiddetta “analisi culturale” di Mary Douglas, né il senso pratico di Pierre Bourdieu. Di quest’ultimo si è detto che ha rimesso Lévi-Strauss con i piedi in basso e la testa in alto, come Marx aveva fatto con Hegel. Riprendendo il principio strutturale secondo il quale occorre analizzare non le cose ma le loro relazioni, Bourdieu l’avrebbe spostato da una dimensione astrattamente intellettuale a quelle delle pratiche (e di conseguenza del potere). Non sono sicuro che si possa proprio dire così. Pensare Lévi-Strauss come idealista significa, mi pare, fraintendere proprio il senso della logica del concreto – che rappresenta, in definitiva, una grandiosa teoria della cultura materiale. 2. I churinga e il sapore diacronico Il rapporto tra storia e struttura è l’altro grande tema del Pensiero selvaggio. Nella didattica è inevitabile tirarlo in ballo ogni volta che si parla delle concezioni culturali del tempo, della memoria e dunque di una interpretazione antropologica del concetto di storia (e nel mio caso, di fronte a studenti di storia che sostengono un unico esame di antropologia, mettere in discussione alcune delle loro certezze epistemologiche mi sembra l’unica cosa sensata da fare). L’immagine suggestiva dei churinga australiani, e il provocatorio accostamento che Lévi-Strauss propone tra di essi e i moderni archivi, sta al centro di tutto ciò. Si ricorderà che questi oggetti sacri e inalienabili, che rappresentano i corpi degli antenati, sono analizzati nel Pensiero selvaggio come dispositivi che assimilano la diacronia, il trascorrere del tempo, all’interno di un ordine meramente sincronico. Attraverso di essi, il passato arriva ad esistere materialmente nel presente. Anche qui, come per il bricoleur e l’ingegnere, si apre una possibile dicotomia ma anche una possibile continuità. La dicotomia è quella fra società fredde e calde. Le prime sono quelle che cercano di annullare gli effetti rischiosi del divenire storico, non negandolo ma ammettendolo come “forma senza contenuto” – nella dimensione del mito e del pensiero classificatorio. Le seconde, quelle che “hanno scelto di spiegarsi a se stesse attraverso la storia”, che “interiorizzano risolutamente il divenire storico per farne il motore del loro sviluppo” (p. 256). Si tratta di una tra le più criticate espressioni di Lévi-Strauss, la cui intuizione tuttavia non è stata mai veramente superata. Non esistono società del tutto fredde e società del tutto calde, certo. L’ambiguità sta nella tentazione di utilizzare questa concezione del rapporto fra struttura e tempo per rileggere la filosofia progressista della storia. Ma in definitiva, anche qui, l’obiettivo di Lévi-Strauss era quello di costruire tessuto connettivo piuttosto che di riaffermare troppo rigide dicotomie. Non voleva sostenere l’esistenza di società senza storia o fuori dalla storia. La contrapposizione 1. Logica del concreto: il bricoleur e l’ingegnere Il più classico tema lévistraussiano. Il pensiero che esercita la sua inestinguibile forza ordinante non solo su simboli astratti ma anche e soprattutto sulla materia in sé caotica dell’esperienza sensibile è un tema sempre di grande fascino. Apre a nuovi modi di guardare le cose, a un riorientamento gestaltico. D’un colpo, un secolo di speculazioni sul pensiero selvaggio sono spazzate via – anche se c’è in fondo una qualche continuità con le origini della riflessione antropologica. Lévi-Strauss si accosta a Tylor e Frazer non solo perché privilegia una dimensione intellettuale (lo fa, diversamente dai primi, in una chiave epistemologica radicalmente antiempirista), ma per il fatto di ipotizzare il dominio di una forma di pensiero analogico che governa in profondità la nostra cultura e la nostra vita; laddove il pensiero “scientifico”, basato sulla trasparenza dei significati e sulle procedure astrattive, non rappresenta che una superficie forse inessenziale. Certo, il bricoleur è figura più rassicurante del frazeriano “orrendo prete” di Nemi – entrambi emblemi dell’umanità selvaggia che è ben presente appena sotto la superficie della “civiltà”. Se Frazer introduceva incubi nella 18 ACHAB serviva a far vedere meglio la strategia della concezione classificatoria del passato, che è anche nostra. È qui che si colloca lo splendido riferimento agli archivi. Si perderebbe qualcosa con la distruzione di un archivio già interamente pubblicato? Sì, il “sapore diacronico” incorporato nella sua materialità. Anche qui troviamo una teoria della cultura materiale (altro che idealismo), nonché l’intuizione di una dimensione simbolica e rituale che si infiltra nell’intimo del sapere storico – anzi nel nucleo stesso della sua oggettività, i giacimenti delle fonti. comparativo. Lavorando non sulle cose in sé ma sulle loro relazioni, si arriva a vedere la somiglianza laddove meno te lo aspetti – cioè, la stessa logica generativa al lavoro non solo in culture diverse, ma in ambiti apparentemente inconciliabili dell’esperienza. Quella di Lévi-Strauss è una comparazione particolare: non affianca casi per poi tentare di estrarne induttivamente i punti comuni. Piuttosto, nel tentativo di descrivere un meccanismo culturale, ne cerca le componenti in diversi casi empirici - nessuno dei quali, da solo, potrebbe esemplificare l’intero modello. Il lavoro sulla parentela e sul mito è di questo tipo. Ma trovo che la performance più spettacolare, affsscinante e di immediato impatto di questo uso del metodo comparativo sia rappresentata dal breve saggio su “Babbo Natale giustiziato”. Qui c’è tutto quello che serve per far capire a studenti del primo anno che cos’è l’antropologia. La partenza da un fatto banale, per quanto curioso, dell’esperienza quotidiana. Un approccio estraniante, che fa scoprire inaspettate e misteriose profondità nel tessuto del senso comune. Il “giro lungo”, che passando da molto lontano ci aiuta a capire meglio certi aspetti della nostra stessa vita che resterebbero altrimenti opachi e scarsamente significativi. L’uccisione rituale di Babbo Natale di fronte alla cattedrale di Digione, nel 1951, per reati di paganizzazione, eresia ed allontanamento dallo spirito religioso del Natale, è il punto di partenza per una densa discussione che si interroga sul significato strutturale di questa sia pur moderna e consumistica figura. Gli ingredienti del Natale – i bambini e i nonni, i premi e le punizioni, i doni, la contrapposizione fra tempo della festa e tempo ordinario, il consumo vistoso e così via – sono mobilitati ad evocare una grandiosa teoria dello scambio, della trasmissione tra generazioni, del rapporto tra la vita e la morte. La comparazione con gli spiriti katchina degli Hopi gioca in ciò un ruolo cruciale; morti che tornano dall’aldilà per portare minacce e doni ai bambini, impersonati da nonni e genitori nascosti da maschere. L’identità emerge in un contesto di radicale alterità: l’accostamento etnografico fa risaltare la possibilità che il rapporto tra vivi e morti stia al centro anche del nostro Natale, i cui doni rappresenterebbero “un vero sacrificio alla dolcezza di vivere, che consiste soprattutto nel non morire”. 3. La comune umanità si realizza in culture tradizionali Se Il pensiero selvaggio è la celebrazione dell’Uno, del grande e universale Linguaggio di Programmazione, un’altra componente del pensiero lévistraussiano celebra la diversità irriducibile. È la sua componente rousseauviana, quella che emerge in Tristi tropici, certo, ma anche e soprattutto in quella linea di riflessione che va da Razza e storia allo Sguardo da lontano. È il LéviStrauss innamorato delle culture amazzoniche, nostalgico della loro perduta autenticità, impegnato in una lotta per la difesa, diciamo, della biodiversità culturale, che lo vedrà alla fine contrapporsi al troppo facile universalismo dell’Unesco. Il punto di snodo di tutta questa tematica è quel passo cruciale di Razza e storia in cui si afferma che la comune umanità si realizza attraverso e non malgrado le differenze culturali; e che il contributo delle culture alla civiltà consiste non tanto nella somma delle acquisizioni di ciascuna, quanto negli scarti differenziali che presentano fra loro. È questo il punto che non viene colto dalla cultura illuministica dei diritti: “le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo spesso dimentico del fatto che l’uomo non realizza la propria natura in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali”. Molto forte. C’è dietro tutto questo una concezione della soggettività umana come costituita dalle differenze – contro la visione illuminista secondo la quale le differenze sono incrostazioni superficiali e “ideologiche” che si innestano su un nucleo astratto, universale, intercambiabile. È compatibile tutto ciò con l’idea del Grande Linguaggio di Programmazione? Sì, certo. Anzi, capire questa compatibilità vuol dire capire LéviStrauss, al di là delle facili etichette che sono state attribuite allo strutturalismo come “universalismo senza soggetto”; e ben al di là delle ingenerose accuse di “razzismo differenzialista” suscitate dalle posizioni di Lo sguardo da lontano. Abbiamo un razionalista, convinto assertore della universalità delle strutture cognitive, che si misura però fino in fondo con i problemi del relativismo etico. In fondo, la visione di una soggettività agente nella quale le differenze giocano un ruolo costitutivo è ciò che accomuna Lévi-Strauss e Geertz – e che ci fa leggere “Gli usi della diversità” non solo come una critica, ma come l’accettazione di una eredità (per quanto depurata da quella che oggi chiameremmo una nozione essenzialista di cultura). 5. Efficacia simbolica “La cura consiste nel rendere pensabile una situazione data all’inizio in termini affettivi e nel rendere accettabili alla mente dolori che il corpo si rifiuta di tollerare […] Lo sciamano fornisce alla sua malata il linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente stati non formulati ed altrimenti non formulabili”. La celebre analisi dell’incantesimo cuna per il parto, pubblicata in Antropologia strutturale, sta alla base di tutte le successive eleborazioni antropologiche sull’efficacia simbolica – e, per questo tramite, della moderna antropologia medica. Il linguaggio e i simboli costruiscono un ordine che si impone sul caos indifferenziato dell’esperienza di sofferenza, e pone le premesse della guarigione, del ristabilimento dell’equilibrio. Anche qui è un raffronto inatteso a produrre una affascinante comprensione: quello con la psicoanalisi, una tecnica che affronta 4. I regali di Natale e gli spiriti katchina Ciò che impressiona spesso in Lévi-Strauss, e che rende così cruciali nella didattica molti suoi passaggi, è la vastità del respiro 19 ACHAB i conflitti ponendoli “in un ordine e su un piano che permettono il loro libero manifestarsi e conducono al loro scioglimento”. Lo stesso Ernesto de Martino, che pure non amava molto LéviStrauss, aveva inserito queste pagine nell’antologia Magia e civiltà, e le aveva certo usate nella sua rappresentazione del meccanismo di crisi e reintegrazione della presenza. L’efficacia dei complessi mitico-rituali, soprattutto nella declinazione che ne viene data in La terra del rimorso, ha a che fare con questo. De Martino aveva anzi colto ed evidenziato molto bene un aspetto importante del testo di Lévi-Strauss: il ruolo del mito, che lo studioso italiano esprimerà attraverso i concetti di metastoria e destorificazione. La crisi, che è sempre storica, viene superata evocando un orizzonte metastorico in cui tutto è già avvenuto ed è stato risolto, il quale si impone e dà forma all’esperienza immediata. Lévi-Struass, come sempre, non si accontenta e va oltre. Nelle pagine conclusive del saggio si allude a un ancor più profondo e ontologico radicamento dell’efficacia simbolica: una reale “risonanza” basata sull’isomorfismo fra le strutture ordinanti che agiscono rispettivamente al livello della psiche e del corpo. “L’efficacia simbolica consisterebbe propriamente in questa proprietà induttrice che possiederebbero, le une in rapporto alle altre, strutture fondamentalmente omologhe, che si possono edificare, con materiali diversi, ai diversi livelli della vita: processo organico, psichismo inconscio, pensiero riflesso”. Qui lo strutturalismo si avvicina a una metafisica; potrebbe sembrare pura speculazione, se non fosse che il problema posto è terribilmente concreto e reale. lessico della disciplina la nozione di credenza, Schneider lo farà per la parentela – altro concetto apparentemente neutrale che nasconde in realtà insidiosi e svianti pregiudizi etnocentrici. Si può discutere sui singoli casi, ma l’istanza critica fatta valere da Il totemismo oggi resta un fondamentale richiamo metodologico – la madre di tutte quelle che sarebbero poi state chiamate “decostruzioni”. 6. La critica del totemismo Torniamo al clima del Pensiero selvaggio per citarne un corollario che tuttavia assume vita propria. Lévi-Strauss mostra in modo eccezionalmente persuasivo come l’insieme di pratiche religiose che l’antropologia classica aveva definito “totemismo” non abbia una sua unità sostantiva, ma possa esser meglio compreso in termini di articolazioni dei sistemi classificatori: quei sistemi che, come abbiamo visto, cercano di ricomprendere la diacronia nell’ambito della sincronia e si fondano sul presupposto dell’omologia tra gli ordini che governano i diversi ambiti dell’esperienza (il mondo naturale, il corpo individuale, la parentela e le relazioni sociali). L’uscita di Il totemismo oggi, nel 1962, ha un grande impatto: la tradizione di studi sul totemismo, profondamente radicata nell’Ottocento, ne risulta improvvisamente distrutta. Non si tratta solo di una critica o una riformulazione teorica. Di più. L’idea è che la categoria stessa di totemismo abbia rappresentato un idolo, in senso baconiano: un costrutto che, piuttosto che aiutare a capire la realtà empirica, impediva di vederla, proiettando su di essa i pregiudizi del nostro stesso sguardo. “Il totemismo è, innanzitutto, la proiezione al di fuori del nostro universo, e come per esorcismo, di attegiamenti mentali incompatibili con l’esigenza di una discontinuità tra uomo e natura, che il pensiero cristiano considerava fondamentale”. La forza di questa mossa va anche al di là del caso specifico. Nell’antropologia successiva, qualcosa di simile sarà applicato ad altri concetti. Needham proporrà di espungere dal 8. L’uomo nudo: mito e rito Sono le pagine finali del volume finale della tetralogia. Non so se sembrano così belle per il sollievo di essere arrivati alla fine di una lettura tanto impegnativa e a tratti francamente pesante e noiosa, con tutto quel rincorrersi di infinite varianti e di accostamenti interpretativi non sempre facili da seguire. Fatto sta che si esce dalla fitta e intricata giungla di giaguari e ara, miele e tabacco, crudo e cotto, coccodrilli e snidatori d’uccelli, e ci troviamo in una radura ariosa da cui ammirare un vasto orizzonte: nientemeno che una teoria generale del rapporto tra mito e rito. “Il vissuto, con la sua fluidità, tende perennemente a sfuggire attraverso le maglie della rete che il pensiero mitico gli getta sopra…Frazionando le varie operazioni e suddividendole in mille particolari insancabilmente ripetuti, il rituale si sforza di effettuare una minuziosa rabberciatura, cerca di chiudere gli interstizi, alimentando così l’illusione che sia possibile risalire alla rovescia il mito e ricostruire la continuità partendo dalla discontinuità”. L’opposizione tra rito e mito è quella fra il vivere e il pensare, afferma Lévi-Strauss. Il “disperato tentativo, sempre destinato al fallimento, per ristabilire la continuità del vissuto smantellato dallo schematismo che il pensiero mitico ha sostituito a esso, costituisce l’essenza del rituale…”. Bellissimo. 7. Natura, cultura e il tabù dell’incesto Si sarà capito che Le strutture elementari della parentela non è il mio libro preferito. Ma sta lì il dispositivo di apertura dell’antropologia strutturalista. Certo, si è costretti a illustrarlo in classe semplificando un’argomentazione in sé molto tecnica; ma la proibizione dell’incesto come universale architrave delle distinzioni su cui si fondano gli ordini della parentela, e come garante della separazione della cultura dalla natura, è un tema che funziona sempre. E anche gli studenti non frequentanti comprendono l’articolazione fra le strutture della parentela e la logica dello scambio e della reciprocità. Semmai, c’è da dire che la teoria della parentela è forse la più datata tra le acquisizioni lèvistraussiane: o meglio, la parentela è il campo che si è trasformato in modo più radicale, e chiede oggi di essere pensato a partire da basi molto diverse. Lo stesso non si può dire del mito, che dunque finisce per esser preferibile come terreno di esplorazione della logica strutturale. A questo proposito, scegliere un aspetto delle Mythologiques da inserire in classifica è molto difficile. Pensando e ripensando, la mia scelta si indirizza verso: 9. Le pitture corporee caduvee Concludo con due pagine da Tristi tropici, che ho finora ingiustamente trascurato. La prima è quella sulle pitture corporee 20 ACHAB e i tatuaggi fra i Caduvei. Importante perché vi si trovano i fondamenti di un’antropologia dell’arte, in grado di collegare un’analisi stilistica, una serie di ipotesi sulla funzionalità sociale dell’espressione estetica e infine una comprensione del loro profondo senso strutturale. Le pitture corporee sono prima di tutto, dice Lévi-Strauss, un modo di caratterizzare l’ “umanità” e distinguerla dalla natura; in secondo luogo, differenziandosi secondo la casta, esprimono identità e relazioni sociali. Ma tutto questo non basta. Anche qui, Lévi-Strauss ha bisogno di trovare una omologia profonda tra le matrici generative di questa forma di arte e quello che potremmo chiamare l’ethos della società caduvea (anzi, del gruppo Mbaya cui i Caduvei appartengono). Individua così una corrispondenza fra l’essenza dello stile artistico, l’opposizione fra un principio di organizzazione simmetrico e uno asimmetrico, e quella della struttura sociale, fondata sulla sovrapposizione e contraddizione fra un principio gerarchico e uno di reciprocità. La corrispondenza è non poco forzata, ma basta per affermare che l’arte è un modo per esprimere e rendere pensabile la contraddizione costitutiva del sistema sociale. Non riuscendo a risolverla sul piano istituzionale, come i loro vicini Bororo e Guana, i Caduvei hanno “sognato” un rimedio. “Non in una forma diretta che avrebbe urtato contro i loro pregiudizi; ma sotto una forma trasposta e in apparenza inoffensiva: nella loro arte”. Analisi troppo forte, si dirà, in cui mancano troppi passaggi. Il tritatutto strutturalista in azione. Sì, certo, ma il terreno dell’analisi dell’estetica e del gusto come fenomeni sociali è gettato. Tutto sommato, e per inciso, non siamo poi tanto lontani dall’amico-nemico Clifford Geertz, e dall’analisi della scultura Yoruba proposta in “L’arte come sistema culturale”. Per nulla lontani. cui tutte le culture aspirano: la possibilità di distaccarsi “nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto”. Fine del divertissment. Un modo per ripercorrere, tra il serio e il giocoso, la prodigiosa ed a volte emozionante profondità del pensiero del nostro autore. Si potrebbe naturalmente riflettere sulle esclusioni. E si potrebbe divertirsi anche a compilare una lista del “peggio” – i luoghi più datati e più infelici. Se dovessi farlo, credo che partirei dalla citazione di Tylor posta in apertura delle Strutture elementari della parentela: “Se ci sono delle leggi da qualche parte, devono essercene dovunque”. E proseguirei con una delle metafore più essenzialiste che siano mai state pensate per esprimere il concetto di cultura, quella dei treni formulata in Lo sguardo da lontano (“Le culture sono simili a treni che circolano più o meno in fretta, ognuna sul suo binario e tutti in direzioni diverse [...] Ogni membro di una cultura le è solidale, tanto quanto quel viaggiatore ideale è solidale col suo treno [...] Noi ci spostiamo trascinandoci dietro, letteralmente, questo sistema di riferimento…). Una reificazione che sta alla base della nota formula della “sordità agli altri valori” e dei suoi ambigui usi etico-politici negli anni Ottanta. Forse aggiungerei l’Introduzione all’opera di Marcel Mauss, un testo decisamente affascinante ma nel quale Lévi-Strauss si lancia nelle sue più spericolate previsioni verso una necessaria matematizzazione del sapere antropologico, il quale, da regno del “completo arbitrio”, dovrebbe diventare dominio del “ragionamento deduttivo”. Un testo nel quale, ancora, Lévi-Strauss compie un passo che è sembrato per decenni eroico e che ci appare invece oggi singolarmente miope: la liquidazione dell’intuizione maussiana sullo hau – lo spirito della cosa donata – come chiave dell’obbligo a ricambiare i doni, e la sua sostituzione con il principio di reciprocità. Mauss era stato ingannato da una teoria indigena, diceva Lévi-Strauss: come si può far dipendere un grande principio strutturale da una mera credenza locale? Ma la moderna teoria del dono si fonda proprio sul recupero dello hau, visto come emblema di un rapporto opaco e inestricabile fra persone e cose – se vogliamo, della presenza di una agency nelle cose stesse - che sfugge invece al trasparente ed elegante meccanismo strutturale. Ma basta. Ognuna di queste affermazioni andrebbe corredata da bibliografie e note a pie’ di pagina, ed è quello che non voglio fare. Adesso, come nella cultura popolare, ognuno può divertirsi a compilare le proprie playlist. Come sarà la cartella “Lévi-Strauss” sul vostro Ipod? 10. Il gatto di Tristi tropici Infine, la conclusione del romanzo filosofico – questa volta assai poco didattica, e anzi oscura e piena di un mistero mai del tutto risolto, proprio come l’animale cui si fa riferimento. Al culmine di una discussione del buddhismo, Lévi-Strauss filosofeggia sul fatto che la civiltà umana consiste in un processo di dispersione di energia che produce necessariamente effetti entropici, per cui ogni passo fatto verso il progresso è un passo verso la distruzione. Le culture – l’ “arcobaleno delle culture” – contribuiscono a questa schiavitù entropica, ma contengono al loro interno anche il principio opposto: la tendenza a fermarsi nella contemplazione, a sospendere il cammino, a trattenere l’impulso ossessivo “a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità”. È questa tendenza o desiderio che ci fa mantenere un tenue legame con “l’inaccessibile”, cioè con quella parte del mondo che già c’era prima dell’uomo e che continuerà ad esistere dopo di lui. Ed è in definitiva questo il bene ultimo e universale 21 ACHAB Lévi-Strauss erudita Alcune note critiche sulla genealogia ed attualità del pensiero lévistraussiano di Michele Parodi un’osservazione empirica prolungata, contiene dei chiari elementi polemici e di valore. Per Lévi-Strauss è la società occidentale ad essere caratterizzata in termini di privazione: Cercherò nelle seguenti note di ordinare con grande libertà alcune critiche a Lévi-Strauss che sono venuto formulando durante le mie ricerche di campo in Brasile tra il maggio 2006 e l’ottobre 2008. La lettura di un libro di Edmund Leach dedicato a LéviStrauss (Leach 1970) e la conoscenza di alcuni dettagli dell’esperienza brasiliana dell’etnologo francese, hanno ispirato le mie prime riflessioni sul pensiero lévistraussiano, parte anche di una indagine personale sulle origini della mia vocazione etnologica. Nel momento in cui un nuovo interesse per il folclore (i saperi tradizionali, la cultura materiale, i patrimoni intangibili), sponsorizzato dalle influenti politiche diffuse dall’UNESCO, sembra affermarsi con una sorprendente naturalezza, senza che tale ritorno (come un ritorno del rimosso) sia oggetto di un esteso ed approfondito esame critico da parte di antropologi e scienziati sociali1, evidenziare un certo tipo di genealogia del pensiero di Lévi-Strauss, mostrarne le contiguità con lo stile enciclopedico estetizzante degli studi folclorici più tradizionali, permette di rilevare il percorso sotterraneo che l’ideologia folclorica ha compiuto, sotto false spoglie, negli ultimi decenni. “Le nostre relazioni con altri non sono più, se non in maniera occasionale e frammentaria, fondate su un’esperienza così globale, su una comprensione così concreta dei soggetti tra loro. […] Siamo collegati al nostro passato, non più attraverso una tradizione orale che implica un contatto vissuto con persone – novellieri, preti, saggi o antichi – ma per tramite di libri immagazzinati in biblioteche […]. E sul piano del presente, comunichiamo con la grande maggioranza dei nostri contemporanei attraverso ogni sorta di intermediari – documenti scritti o meccanismi amministrativi – che certo allargano immensamente i nostri contatti, ma conferendo loro nello stesso tempo un carattere di inautenticità” (id: 401, corsivo mio). Certamente, continua Lévi-Strauss, “le società moderne non sono integralmente inautentiche. […] possiamo anzi constatare che, interessandosi sempre più dello studio delle società moderne, l’antropologia si è applicata a riconoscere e isolare in esse livelli di autenticità” (id: 402). Lévi-Strauss conclude trionfalmente il paragrafo esaltando i futuri meriti dell’antropologia: Il criterio dell’autenticità Nell’ultimo capitolo di Anthropologie Structurale (Lévi-Strauss 1958b)2 appare la traccia del programma di una peculiare etnologia della prossimità. La progressiva scomparsa reale e concettuale dello specifico oggetto di studio dell’antropologia, le società “primitive”, sottilmente ed ambiguamente enunciata da Levi-Strauss già in Tristi Tropici (Levi-strauss 1955), induce l’antropologo francese a spostare il suo sguardo di etnologo rimpatriato dai luoghi esotici della sua iniziazione professionale al proprio territorio di origine, trovando così una nuova missione e un nuovo campo di ricerca: la rivelazione dell’autenticità preservatasi nei complessi meandri della società moderna. È significativo che il concetto di autenticità tanto caro ai folcloristi si ripresenti nel testo della svolta strutturalista di Lévi-Strauss. Nel paragrafo intitolato Il criterio dell’autenticità, l’autore, ribaltando le tipiche definizioni negative con cui, ancora alla fine degli anni ’50, erano individuate le società primitive – società “non civili, senza scrittura” (Lévi-Strauss 1958a: 400) – ne identifica le sostanziali caratteristiche positive: la raffinata complessità di relazioni sociali “fondate su relazioni personali, su rapporti concreti tra individui”, costruite “sul tipo delle relazioni più dirette, di cui la parentela offre il solido modello” (id). Ciò che interessa qui osservare, è il fatto che tale ribaltamento, più che essere il frutto dell’approfondimento di un’analisi fondata su “L’avvenire giudicherà probabilmente che il più importante contributo dell’antropologia alle scienze sociali, sta nell’avere introdotto (d’altronde inconsciamente) questa fondamentale distinzione fra due modalità di esistenza sociale: un genere di vita percepito in origine come tradizionale o arcaico, che è anzitutto quello delle società autentiche; e forme, di più recente apparizione, da cui il primo tipo non è certo assente, ma in cui gruppi imperfettamente e incompletamente autentici si trovano organizzati in seno a un sistema più vasto, affetto a sua volta da inautenticità” (id: 402-3). Nostalgia di una unità perduta La nostalgia di Lévi-Strauss per le società “autentiche” – per un luogo fortemente desiderato e definitivamente perduto, ipotetico stato di natura originariamente incontaminato, al medesimo tempo, luogo epistemologico della scoperta e fantasma di desideri più profondi e inconfessati – è continuamente presente anche in Tristi tropici. Lo stile riflessivo di Tristi tropici percorre con una vena angustiante tutto il testo dell’antropologo francese, tentativo di svelare a se stesso e a noi qualcosa di oscuro. Tale progetto di auto-indagine sarà però successivamente messo in secondo piano dall’autore conquistato dal fascino estetico di altre logiche e altre 22 ACHAB strutture. Un famoso brano di Tristi tropici rimane la sintesi testuale più compiuta di questa nostalgia: del rimosso, trovando nuove vesti con cui accedere al livello dell’espressione. Si tratta di veri e propri sintomi, nella accezione psicoanalitica del termine, arcaismi che al medesimo tempo definiscono percorsi di ricerca, posizionamenti teorici, suggestionano polemiche accademiche tra scuole e dipartimenti rivali, senza che una riflessione antropologica effettiva ne sveli la struttura più intima. Secondo Belmont la condanna degli studi del folklore è avvenuta in Francia “senza processo” (Belmont 1986: 260)3. Mentre al livello internazionale più generale, a partire dalla fine degli anni settanta, una vasta interrogazione autocritica ha colpito l’antropologia, fino a mettere in discussione le fondamenta stesse della disciplina, paradossalmente, la critica “scientifica” agli studi folclorici, limitatasi in precedenza agli aspetti teorici metodologici (il descrittivismo, l’assenza di rigore e oggettività), in seguito, confinata la loro presenza ai margini dell’accademia, non si è più rivolta all’indagine e allo svelamento della loro dimensione ideologica più profonda. È questo “non detto” (id) a consentire l’attuale riemergere dell’ideologia folclorica in ricerche metodologicamente distanti dal dilettantismo dei folcloristi del passato, come nel caso dello strutturalismo o dell’etnosemiotica.4 “il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli indios è preso dall’angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo di questa umanità così totalmente indifesa; schiacciata, sembra, contro la superficie di una terra ostile da qualche implacabile cataclisma, nuda e rabbrividente accanto a fuochi vacillanti. Egli circola a tastoni fra la sterpaglia, evitando di urtare una mano, un braccio, un torso di cui si indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non si interrompono al passaggio dello straniero. S’indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione animale, e mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualche cosa che somiglia all’espressione più commuovente della tenerezza umana” (Lévi-Strauss 1955: 316) Affiora qui un desiderio erotico, dove la nostalgia di una mitica unità perduta non è certo la nostalgia degli indigeni, ma la proiezione su di essi della nostalgia dell’autore per una “ingenua soddisfazione animale”. L’atteggiamento polemico e nostalgico di Lévi-Strauss pur nella sua inadeguatezza analitica e metodologica, manifesta l’espressione di un malessere, di una sofferenza interiore che non riesce ad incontrare forme efficaci di mobilitazione pratiche o teoriche. È interessante notare come, ad un certo punto, LéviStrauss tenti legittimare le sue affermazioni citando Wiener, il rappresentante della “più moderna delle scienze sociali – quella della comunicazione”: Estetismo enciclopedico Ciò che accomuna Lévi-Strauss ai folcloristi è l’idea che l’oggetto dei propri studi sia irrimediabilmente perduto, e che il proprio impegno debba di conseguenza concentrarsi nella raccolta e conservazione di ciò che va sparendo. Un misto di romanticismo e di positivismo che anela alla conoscenza dell’altro, ma al medesimo tempo lo irrigidisce nei suoi aspetti esteriori, così piegandolo ai propri fini polemici ed ad uno sguardo estetizzante che si limita a manipolarne gli aspetti formali in un puro gioco combinatorio. Vi è in Lévi-Strauss un rifiuto radicale della possibilità e della opportunità di condividere la vita dei propri interlocutori di campo. Qui si percepisce l’eredità della tradizione etnografica maussiana, caratterizzata dal sospetto nei confronto dei discorsi nativi (dove opererebbero continuamente forme di mascheramento e di omissione) e dominata dalla stima per la sicurezza eloquente degli “oggetti autentici e autonomi” (cfr. Mauss in Clifford 1988: 85). È a partire da queste premesse che Griaule, seguendo un diverso percorso, non abdicando a confrontarsi con le difficoltà del campo, svilupperà il suo peculiare metodo “giudiziario”, “antagonistico” (id: 79, 94). L’etnografia di Lévi-Strauss, portando agli ultimi esiti questa logica, si riduce invece alla mera raccolta di reperti, di resti, di rovine, di miti. Secondo Lévi-Strauss si è irrimediabilmente troppo lontani o troppo vicini per poter afferrare le stranezze dei selvaggi. Da qui l’ironia del famoso passo di tristi tropici citato da Geertz (1988: 52-53): “Alla fine di un viaggio esaltante avevo trovato i miei selvaggi. Ma ahimè, essi lo erano troppo […] erano là pronti ad insegnarmi i loro costumi e le loro credenze e io non conoscevo la loro lingua. Vicini a me […] potevo toccarli ma non potevo comprenderli” (Lévi-Strauss 1955: 361-62). Questa impossibilità, che Lévi-Strauss vuol qui far passare come epistemologica (o episodica: la mancanza di tempo, “le limitate “It’s no wonder that the larger communities […] contain far less available information that the smaller communities, to say nothing of the human elements of which all communities are built up” (Wiener in Lévi-Strauss 1958b: 401). Lévi-Strauss sembra qui percepire il fenomeno proliferativo entropico che caratterizza la cultura nelle società industriali, e l’inflazione dei valori culturali che tale espansione induce (James Clifford ironicamente lo definisce “rassegnato «entropologo»”; Clifford 1988: 277), senza però comprendere come la missione che intende proporre, sostenuta dal metodo analitico strutturalista, si inscriva proprio in questo stesso processo, essendone anzi uno dei supporti compensatori: riesumazione nostalgica e consolatoria di un astratto paradiso perduto infinitamente manipolabile, decontestualizzata da una seria analisi di ordine storico-politico. Ritorno del rimosso L’esame del testo di Lévi-Strauss mostra un funzionamento discorsivo simile a quello della retorica folclorica, così confermando la complicità sotterranea tra l’antropologia e gli studi del folclore segnalata verso la metà degli anni ’80 da Nicole Belmont (Belmont 1986). Permangono in Lévi-Strauss visioni polemiche venate di nostalgia in cui i complessi inconsci presenti nelle concezioni folcloriche riemergono in una specie di ritorno 23 ACHAB correttamente e utilizzare il lavoro fatto da altri” (Lévi-Strauss 1988: 70, 72) risorse”, “il deperimento fisico”; cit. in id, p. 361), dipende invece essenzialmente dalle specifiche finalità conoscitive dell’autore che lo hanno spinto a vagare per mesi nell’amazzonia piuttosto che a stabilirsi permanentemente in un villaggio indigeno, guidato da “un melange di estetismo […] e di enciclopedismo illuminista” (Geertz 1988: 39). A Lévi-Strauss in verità non interessava comprendere i significati della vita indigena, ma, con sguardo di esteta, mettere a sistema la diversità delle manifestazioni materiali che si davano alla sua vista: tatuaggi, ornamenti, rappresentazioni grafiche, oggetti rituali, relazioni di parentela, miti e loro varianti. È questo tipo di attività che ha caratterizzato anche le ricerche folcloriche, nella fase in cui, verso la fine dell’ottocento e i primi del novecento, tentarono di darsi una parvenza di scientificità. La linguistica strutturalista darà a Lévi-Strauss gli strumenti con cui nobilitare questa attività dandone una veste più filosofica. L’atteggiamento di Lévi-Strauss, come quello dei folcloristi, è simile ai fenomeni di fissazione su un “monumento” della vita passata che caratterizzano certi tipi di nevrosi, dove le manifestazioni isteriche possono arrivare fino a negare la realtà e il presente (cfr. Freud 1909: 135-36; cit. in Belmont 1986: 265). Lévi-Strauss erudita Quanto detto finora corrisponde alla tesi presentata da Edmund Leach nel primo capitolo del suo libro dedicato a Lévi-Strauss (Leach 1970), dove include l’antropologo francese nella genealogia degli antropologi eruditi, famiglia a cui assegna come prototipo Frazer e alla quale contrappone la genealogia degli antropologi che fanno della ricerca di campo intensiva il momento cruciale della loro professione, primo fra tutti, secondo Leach, il padre dell’“osservazione partecipante” Bronislaw Malinowski. In effetti tutta l’esperienza etnografica di LéviStrauss si può ridurre ad alcuni mesi trascorsi tra gli indios Caduvei e Bororo (tra il 1935 e il 1936, alla fine del primo anno accademico all’università di São Paulo dove era professore visitante) e tra gli indios Nambikwara (giugno-dicembre 1938; cfr. Faria 2001; Domingues, Monte-Mór, Sorá, 1998). Se i frutti della prima missione etnografica nel Mato Grosso si concretizzarono nella raccolta di una importante collezione di artefatti etnografici per conto del futuro Musée de l’Homme, la seconda missione tra i Nambikwara, nel cui territorio LéviStrauss trascorse circa quattro mesi, fu spesa per la gran parte in spostamenti. Come riconosce Lévi-Strauss, intervistato dall’antropologo e fotografo brasiliano Marcelo Fiorini Lévi-Strauss archeologo Per Lévi-Strauss il lavoro etnografico consiste nel viaggio (nonostante il famoso incipit di Tristi tropici dica il contrario: “Odio i viaggi e gli esploratori; Lévi-Strauss 1955: 19) e nella raccolta dei “reperti” incontrati lungo il percorso (Geertz provocatoriamente considera Tristi tropici il risultato della mescolanza di più generi di testi: un libro di viaggi, una etnografia polemica, un testo filosofico, addirittura, una guida turistica; Geertz 1988: 40-50). Lévi-Strauss più che ad un etnografo può allora essere paragonato ad un archeologo, ad una specie di “flâneur antropologico” (Clifford 1988: 274) o ad un collezionista (non ad un viaggiatore “puro” i cui vagabondaggi comportano sempre anche la possibilità di un non ritorno e da qui probabilmente l’incipit sopra citato)5. Questa ipotesi è confermata, dall’idea che egli ha sempre avuto del destino dell’antropologia. Nel 1988 intervistato dal giornalista francese Didier Eribon affermava: “[L’antropologia] cambierà la sua natura. Se l’indagine sul campo non avrà più oggetti, ci trasformeremo in filologi, storici delle idee, specialisti di civiltà avvicinabili solamente attraverso i documenti che antichi osservatori hanno raccolto” (Lévi-Strauss 1988: 202). In realtà questa trasformazione per Lévi-Strauss è avvenuta precocemente, alla conclusione della sua esperienza brasiliana nel 1939. In seguito, scrollatosi di dosso l’impiccio di ogni residuo etnografico potrà “dedicarsi al tema che – come afferma Geertz – gli è veramente proprio: il gioco formale dell’intelletto umano” (Geertz 1988: 37). Non è di conseguenza un caso che la ricerca di campo tra i Nambikwara, la più prolungata della sua carriera, non occupi un ruolo di rilievo nella sua produzione teorica. In effetti è lo stesso Lévi-Strauss a riconoscerlo: “io mi sentii ben presto uomo da biblioteca piuttosto che uomo da campo. […][Ho lavorato sul campo] abbastanza per imparare e capire che cos’è questo lavoro, condizione indispensabile per giudicare “[i Nabikwara] non parlavano il portoghese, salvo alcuni di essi che conoscevano una decina di parole. Io stesso non sapevo parlare Nabikwara, con competenza, e, pertanto, noi costruimmo insieme un tipo di gergo comune, formato per metà di parole portoghesi e per metà di parole Nabikwara, il che ci permetteva un minimo di comunicazione. Evidentemente con ciò non si poteva andare molto lontano” (LéviStrauss in Fiorini 2007: 11). Leach osserva: “É perfettamente vero che un antropologo sperimentato, visitando per la prima volta una “nuova” società primitiva e lavorando con l’aiuto di interpreti competenti, sarà capace, dopo una permanenza di alcuni giorni, di sviluppare nella sua mente un “modello” ragionevolmente esauriente di come funziona il sistema sociale; ma è anche vero che, se permanesse lì sei mesi e apprendesse a parlare la lingua locale, molto poco resterebbe di quel “modello” iniziale. Significativamente, il compito di comprendere come il sistema funziona sembrerà ancora più formidabile di quanto non lo fosse stato nei primi giorni successivi al suo arrivo. Lévi-Strauss non ebbe mai l’opportunità di soffrire questa esperienza demoralizzante […]. [Egli] come Frazer, è insufficientemente critico, in riferimento al corpo basico di informazioni su cui lavora. […] Qualsiasi prova, per molto dubbia che sia, è accettabile – dal momento che si aggiusti ad aspettative logicamente calcolate” (Leach 1970: 20). Dopo le prime iniziazioni etnografiche in Brasile, Lévi-Strauss non compirà più alcuna significativa ricerca di campo dedicandosi interamente allo studio minuzioso dei testi 24 ACHAB etnografici raccolti da altri antropologi, sulla cui base elaborerà le sue opere teoriche più famose. numerose le spedizioni folcloriche nei dintorni di São Paulo a cui Lévi-Strauss partecipò insieme a de Andrade: “qualcuno ci informava dello svolgimento di una festa di mori e cristiani o di Bumba-meu-boi e noi ci andavamo” (Sandroni 1993: 239). Viceversa fu lo stesso de Andrade, per tramite del “Dipartimento di Cultura” del municipio di São Paulo, da lui diretto dal 1935 al 1938, a finanziare parzialmente le missioni etnografiche di LéviStrauss nell’interno del Brasile (id: 238). L’elogio della diversità assumeva per de Andrade un significato emancipatorio, rivelando la singolarità brasiliana, per Lévi-Strauss un significato etico: elogio, come dirà nei primi anni ’50, della varietà in sé “in un mondo minacciato dalla monotonia” (Lévi-Strauss 1952: 407). Di qui l’irrilevanza di una permanenza prolungata sul campo e la preferenza per missioni itineranti di breve durata dove collezionare un vasto e diversificato numero di artefatti etnografici7. Entrambi erano posseduti da una vera e propria voracità antropofaga di “oggetti culturali”8: un “cannibalismo nostalgico” (Lévi-Strauss 1955: 48) di “turisti apprendisti” (nel 1927 de Andrade iniziò a scrivere per il giornale O Diario Nacional una sorta di quaderno di viaggio poetico e critico intitolato O Turista Aprendiz) su cui fondare, secondo de Andrade, la incerta identità nazionale brasiliana, per Lévi-Strauss, un istintivo gusto per il bricolage e i giochi combinatori consentiti da un insieme di oggetti, o di stili, sciolti dalle proprie relazioni sociali. Per entrambi, alle origini di questo comune sentire, vi era il surrealismo e il simbolismo francese (nel caso di Andrade anche il futurismo italiano), ma il senso di spaesamento che nei surrealisti più militanti diventava elemento di trasgressione e di fiduciosa adesione alla dinamica imprevedibile del reale, era vissuto in loro in modo più angoscioso, contrastato da un turbato e contraddittorio bisogno di identità e di confini. Così per entrambi, ad un certo punto, la dissociazione della cultura e l’attacco sovversivo surrealista si sciolgono in operazioni di rielaborazione e sistemazione estetica di frammenti culturali che la legittimazione scientifica e l’azione ordinatrice delle istituzioni consentono di accumulare. Non per caso l’universalismo differenzialista e nazionalista dell’UNESCO all’inizio del nuovo millennio ha ritrovato in LéviStrauss un interlocutore ideale (cfr. Stoczkowski 2008), mentre il famoso Anteprojeto di de Andrade (Andrade 1936) – il “Piano preliminare per la creazione del servizio del patrimonio artistico nazionale” – da lui elaborato nel 1936 su sollecitazione dell’allora ministro dell’educazione Gustavo Capanema e accantonato durante la dittatura di Vargas (1937-1940), è diventato in seguito una delle principali fonti di ispirazione delle politiche del patrimonio brasiliane (da Silva 2002).9 Sia Lévi-Strauss che de Andrade, seppur con sfumature diverse, amano le identità ben definite. Il nazionalismo per de Andrade era l’unica maniera di universalizzarsi: “Poiché un popolo solo si universalizza nel momento in cui concorre con il suo contingente particolare e inconfondibile ad arricchire questa cosa sublime, uniforme ma multipla che è l’umanità” (Andrade 1924-1936: 150). Citazione che ricorda un famoso brano di Razza e storia (testo commissionato a Lévi-Strauss dall’UNESCO): “il Lévi-Strauss e il Brasile La retorica testuale di Lévi-Strauss, il suo eruditismo e il suo moralismo (Geertz, nell’articolo già citato, parla di Tristi tropici anche come di un “trattatello riformista”; Geertz 1988: 46), hanno la loro origine nella storia personale dell’etnologo francese (ad esempio nel fatto che il padre fosse un pittore di ritratti rovinato dall’avvento della fotografia…), nella sua condizione di classe (borghesia intellettuale in declino), e nella sua specifica traiettoria accademica (è lo stesso Lévi-Strauss a dichiarare il carattere autodidatta dei suoi primi studi antropologici; cfr. Fiorini 2007: 11). La lunga intervista rilasciata da Lévi-Strauss a Didier Eribon nel 1988 è da questo punto di vista illuminante (Lévi-Strauss 1988). Ci sembra però che la permanenza in Brasile di Lévi-Strauss abbia assunto un’importanza speciale nel definire la sua vocazione e la sua traiettoria intellettuale. In particolare nel definire il suo estetismo etnografico e il suo eruditismo polemico. È nota l’influenza di Lévi-Strauss e dello strutturalismo sullo sviluppo dell’antropologia e delle scienze sociali in Brasile (vedi ad esempio i primi lavori di Roberto da Matta; da Matta 1973 e 1976). Forse meno nota l’influenza del modernismo brasiliano e delle ricerche folcloriche di questo paese sul suo pensiero. Con la moglie Dina, durante la sua permanenza in Brasile come professore visitante, partecipò nel 1936 alla fondazione della Sociedade de Etnografia e Folclore (FUNARTE, INF 1983: 70), organizzata da Mario de Andrade – romanziere, poeta, etnografo, musicologo, tra i fondatori con Oswald de Andrade nel 1928 del modernismo antropofago brasiliano. Dina, segretaria della rivista della Sociedade (id: 10, 72), pubblicherà a puntate sul Boletim le Istruções práticas para pesquisas de Antropologia Física e Cultural (Lévi-Strauss D. 1936), una specie di Notes and Queries aggiornato, inspirato dalle esigenze enciclopediche dei lavori di Frazer e Mauss.6 È qui importante segnalare l’affinità profonda che univa LéviStrauss e Mario de Andrade, accomunati da medesimi studi umanistici e filosofici, figure poliedriche in cui la scrittura etnografica e la letteratura si incrociano spesso. Negli anni del loro incontro si trovarono uniti nella comune missione per la salvaguardia di un patrimonio di cui temevano la rapida estinzione: la cultura delle “ultime” popolazioni indigene e le tradizioni folcloriche del popolo brasileiro, culture localizzate nel Brasil profundo, sopravvissute alla rapida avanzata della frontiera brasiliana. Da qui l’urgenza per entrambi di dislocarsi nei territori “selvaggi”, dove ancora era possibile incontrare questo Brasile. Si trattava per de Andrade di riscoprire l’inconscio della nazione, mentre nella visione universalizzante dell’etnologo francese di rivelare l’inconscio dell’uomo stesso. Si può forse ipotizzare che il progetto universalista di LéviStrauss sia nato proprio a partire dall’incontro con de Andrade e il Brasile, dalla mediazione del disegno nazionalista di de Andrade per tramite della tradizione illuminista francese. Furono 25 ACHAB contributo delle culture non consiste nell’elenco delle loro invenzioni particolari, ma nello scarto differenziale che esse presentano fra di loro” (Lévi-Strauss 1952: 403). Possiamo così vedere come nazionalismo e relativismo culturale in Lévi-Strauss e de Andrade (per de Andrade l’identità brasiliana è sostanzialmente meticcia) si siano influenzati reciprocamente, diventando le due facce di una stessa medaglia (come nei paradossi del razzismo culturalista). Entrambi ossessionati dal confine (Clifford Geertz giunge fino ad accusare Lévi-Strauss di etnocentrismo; Geertz 1986: 546-547), mossi da un polemico impulso interventista più sensoriale che politico (id. 1988: 47), hanno finito per inscrivere parte della loro militanza nelle istituzioni degli Stati e delle organizzazioni internazionali, lasciando in esse le tracce del loro pensiero. asimmetrie di potere e le dinamiche economiche globali che sono alla base della riduzione a simulacri della diversità delle culture. Lo sguardo da lontano di Lévi-Strauss che rifiuta di interagire con i suoi oggetti (interlocutori con cui non vuole interloquire) limitandosi a contemplarli con nostalgia, finisce per sostenere una visione depoliticizzata della cultura e della ricerca etnografica, contribuendo al più generale arretramento della sfera pubblica e della critica. Nello strutturalismo levistraussiano la ricchezza della ricerca etnografica si confonde con la moltiplicazione dei suoi oggetti in detrimento di una interrogazione più radicale, sostituita da “un’arte della descrizione che impone la sua propria finalità” (Jeudy 2005: 34). L’etnografia, al contrario è il luogo dell’incontro, il luogo di un apprendimento sensibile e relazionale che si avvera sul piano etico della pluralità. Luogo dove nella dialettica tra generale e particolare l’oggetto e i limiti del campo sono decisi nella pratica (cfr. Bourdieu 1992: 185) Tale esperienza in Lévi-Strauss risulta impoverita, poiché sistematicamente scissa dall’impianto teorico. Ed è proprio questa separazione a definire l’antipolitica del suo metodo. Le culture sono apprese nella rigidezza dei dati raccolti dall’etnografo e delle analisi strutturali compiute dall’antropologo, non nella loro realtà fluida e dinamica. L’ideologia folclorica, depurata dei suoi residui moralistici (la critica tradizionalista del presente), aggrappandosi ai vettori forniti dal contesto competitivo del tardo capitalismo, e da paradigmi teorici sincronici come lo strutturalismo, si riattiva in forme nuove purificate dalle passate interdizioni. Si afferma un’arte seduttiva, come denuncia Henri-Perre Jeudy parlando degli studi dell’etnologia della Francia, dove le ricerche etnologiche, abbandonato qualsiasi proposito teorico, si riducono alla missione di rianimare le identità e le memorie collettive “mostrando ciò che non si mostra” (come nel caso dell’esposizione organizzata delle memorie operaie; cit. in Jeudy 2005: 34-35)11. Non vi sono allora più problemi da investigare, ma solo patrimoni da rivelare. Conclusioni provvisorie In queste note sintetiche ho cercato di mettere in luce i punti di contatto sintomatici tra l’opera di Lévi-Strauss e i tratti caratteristici degli indirizzi più tradizionali degli studi folclorici: 1) attrazione nostalgica e polemica per le antichità (i “selvaggi” o i “primitivi” nel caso di Lévi-Strauss); 2) dilettantismo erudito e autodidatta; 3) contatto diretto, anche se temporaneo e di breve durata, con gli oggetti di studio; 4) fascinazione per gli artefatti (compresi le testimonianze orali, i miti, i proverbi) e disinteresse per i problemi e i processi sociali; 5) organizzazione sistematica e formale dei materiali empirici; 6) ossessione per i confini e le classificazioni; 7) più o meno velato campanilismo (regionalismo, nazionalismo patriottico o etnocentrismo).10 Il gusto estetizzante, quasi antiquario, che ha caratterizzato la traiettoria complessiva di Lévi-Strauss, ci sembra essere il medesimo che oggi guida le politiche di selezione e salvaguardia dei monumenti nazionali (materiali o intangibili, “eruditi” o “popolari” che siano), così come la messa in ordine delle diversità culturali organizzate dall’UNESCO nella lista dei patrimoni dell’umanità. Si tratta di forme discorsive che occultando in opposizioni distintive e giustapposizioni spettacolari l’artificiosità convenzionale di queste operazioni, allo stesso tempo dissimulano, naturalizzandoli, i meccanismi reali di dominio, le Note 1. Il seminario La costruzione del patrimonio culturale – discussioni critiche tra antropologia e altri territori, organizzato dalla “Fondazione Basso” e dalla “Società Italiana per la museografia e i beni Demo Etno Antropologici” (simbdea) nel marzo-maggio 2007, e la pubblicazione di alcuni volumi sulle politiche e le poetiche patrimoniali (Palumbo 2003; Pizza 2004; vedi anche l’“Annuario di Antropologia” dedicato al patrimonio culturale curato da Irene Maffi nel 2006) segnalano l’emergere tra gli antropologi italiani di una prospettiva di analisi dei processi di patrimonializzazione più problematizzante e critica. In Francia e nel Nord America un simile dibattito è iniziato già verso la fine degli anni ottanta (vedi ad esempio i lavori di Lowenthal 1985 e 1997, Handler 1988, Jeudy 1990, Choy 1992, Poulot 1993). La presenza di questi lavori è però relativamente marginale, almeno in Italia, rispetto al proliferare di pubblicazioni e ricerche documentarie descrittive. L’elenco di iniziative, conferenze, seminari, master e scuole di specializzazione inscrivibili in un ottica “applicativa” avente come finalità l’inventario, la protezione o la rivitalizzazione dei patrimoni, è praticamente infinito. Si verifica qui una convergenza tra gli interessi di certi gruppi accademici (come i settori del design culturale, della comunicazione, della moda, delle belle arti e del restauro) e le istanze di valorizzazione identitaria organizzate o sponsorizzate dagli enti locali e condotte da un numero crescente di associazioni ed istituzioni museali (si veda per fare solo un esempio il convegno, 26 ACHAB Patrimonio culturale immateriale, tradizione locale e rete globale, organizzato dalla Regione Lombardia nel maggio 2008 a Milano; locandina dell’evento disponibile in internet: http://www.agranelli.net/DIR_rassegna/convegno_LombBBCC_08.pdf; ultimo accesso 3 maggio 2009). 2. Cap. XVII: Place de l’Anthropologie dans les sciences sociales et problèmes posés par son ensegnement (testo già pubblicato nel 1954 nel volume edito dall’UNESCO, Les Sciences sociailes dans l’enseignement supérieur). 3. Le traduzioni italiane di testi citati in bibliografia in lingua originale sono dell’autore. 4. Da questo punto di vista il caso italiano e l’egemonia che gli studi demo-antropologici hanno conservato nel campo delle scienze antropologiche del nostro paese fino alla fine degli anni settanta, presenta delle specificità rilevanti. In Italia l’influsso del pensiero di Gramsci ha consentito un precoce rinnovamento teorico e metodologico degli studi folclorici e ha permesso una precoce, anche se non sempre efficace, critica del folclore e delle analisi folcloriche (v. ad esempio i lavori di Cirese, de Martino e Lombardi-Satriani). Alla fine della militanza politica degli anni settanta, è seguita, però, una fase di ristagno delle ricerche sul folclore, a partire dalla quale gli studi folclorici sono potuti riemergere gradualmente in una forma pura, filtrata dalle precedenti finalità politico-ideologiche, elaborando “conoscenze essenzialmente rivolte al passato” (Bravo, Tucci 2006: 12). In Brasile si è verificato un fenomeno simile in cui la fase di latenza ha coinciso con il primo decennio della dittatura militare (1964-1985). 5. In un passo di Tristi tropici, Lévi-Strauss si riconosce “viaggiatore, archeologo dello spazio, che invano tenta di ricostruire l’esotismo con l’aiuto di frammenti e rottami” (Lévi-Strauss 1955: 50). Una delle tante confessioni contenute nel libro e successivamente rimosse, come se la confessione delle proprie contraddizioni avesse reso Lévi-Strauss più agile e leggero nel convivere con le proprie ossessioni. Ugo Fabietti, in una recente lezione seminariale, osserva come guardando la traiettoria complessiva dei lavori di Lévi-Strauss si resti colpiti dall’affiorare, scomparire e riapparire di alcuni nuclei di idee ricorrenti, come se nel suo pensiero lavorassero delle forme fisse che non si sviluppano in modo irreversibile, ma si ripresentano ciclicamente in forme solo leggermente variate (Fabietti 2008). 6. Un questionario speciale fu organizzato dalla Sociedade al fine di realizzare una “carta geografica” di alcuni costumi popolari nello Stato di São Paulo, carta che, su invito di Dina Lévi-Strauss, fu presentata al Congresso Internazionale del Folclore di Parigi nel giugno 1937. Il tema specifico del congresso riguardava la cartografia folclorica (promossa in Francia da Van Gennep; cfr. Cocchiara 1952: 521) e la promozione dell’accesso degli studi folclorici al campo delle scienze antropologiche (FUNARTE, INF 1983: 11, 73-75). 7. Come noto durante le spedizioni del 1935-1936 Lévi-Strauss collezionò un grande numero di oggetti. Il successo della mostra che egli e la moglie Dina organizzarono sulla base di questi materiali, permise a Lévi-Strauss di ottenere i fondi per la spedizione del 1938 (Lévi-Strauss 1988: 37-38; 1955: 265). Nei “viaggi etnografici” del 1927 e del 1928-1929, e nella famosa missione folclorica nel Nord del Brasile del 1938, Mário de Andrade raccolse invece una importante collezione di registrazioni musicali, di fotografie e immagini filmate delle tradizioni popolari brasiliane (cfr. Nogueira 2005). 8. In una lettera a Luís da Câmara Cascudo (fondatore a Natal nel 1941 della “Fundação da Sociedade Brasileira de Folclore”), nel settembre 1924, de Andrade scrive: “Ho una fame per il Nord, che non immagina. Mi mandi alcune fotografie della sua terra. Vi sono opere di arte coloniale? Immagini di legno, chiese interessanti? Conosce i loro autori? Ha delle fotografie? Mi creda: tutto ciò mi interessa più della vita. Non abbia paura di inviarmi un ritratto di una casa abbandonata che sia. O di un fiume, o di un albero comune. Sono le delizie della mia vita queste fotografie di pezzi familiari del Brasile. Non è per sentimentalismo. Ma so sorprendere le cose comuni della mia terra. E la mia terra è ancora il Brasile” (Andrade 1991: 34). 9. L’Anteprojeto di de Andrade includeva, già a quell’epoca, tra i patrimoni degni di protezione, l’arte archeologica e amerindia, il folclore e l’arte popolare (cfr. Andrade 1936), anticipando di più di trent’anni le politiche di protezione dei beni culturali dell’UNESCO sancite per la prima volta dalla “Convenzione sulla Protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale” di Parigi nel 1972. 10. Giulio Angioni, agli inizi degli anni settanta, formulava così le caratteristiche del “quadro clinico” della demologia italiana di stampo romantico-positivista: “propensione alla genericità astratta o sentimentale”, “gusto del pittoresco”, “vagheggiamento idillico”, “difesa campanilistica dei buoni villici delle proprie regioni” (Angioni 1971: 183). Secondo Angioni la mancata attenzione critica ai dislivelli socio-economici e culturali conduceva le ricostruzioni storico-diacroniche a “una sterile ricerca del «fossile culturale» in via di sparizione, da raccogliere in un museo o da ripristinare più o meno contraffatto in qualcuna delle numerose manifestazioni turisticodopo-lavoristiche (per le quali è sempre facile trovare finanziamenti da parte di burocrati […][e] mecenati provinciali appassionati di storia locale)” (id: 185), privando al medesimo tempo le ricerche sociologico-sincroniche di oggetti significativi cui dedicarsi. Concludeva dichiarando l’abitudine dei demologi italiani “a ricercare esclusivamente oggetti («monumenti» dell’arte popolare) e prodotti «letterari» orali, e non comportamenti e concezioni” (id). 11. Si osserva qui una strana sinergia dove la freddezza delle analisi strutturali può accoppiarsi con gli approcci che puntano a valorizzare il punto di vista nativo, rinforzando processi antagonistici di estetizzazione e frammentazione identitaria. Si tratta di una questione complessa e delicata che non abbiamo qui la possibilità di approfondire. Ci sia consentito lasciare questo cenno sperando di poter in futuro verificare e chiarire la nostra posizione. 27 ACHAB Bibliografia Andrade M. de, 1991, Cartas de Mário de Andrade a Luís da Câmara Cascudo, Villa Rica, Belo Horizonte/Rio de Janeiro. – 1936, Anteprojeto para a criação do Serviço do Patrimônio Artístico Nacional, “Revista do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional”, n. 30, pp. 270-287. – 1924-1936, Cartas de Mário de Andrade a Prudente de Moraes Neto 1924-1936, a cura di Georgina Koifman, Nova Fronteira, Rio de Janeiro, 1985 Angioni G., 1971, Alcuni aspetti della ricerca demologica in Italia nell’ultimo decennio, in Cirese (a cura di) 1972, pp. 169-195. Bravo G. L., Tucci R., 2006, I beni culturali demoetnoantropologici, Carocci, Roma. Borofsky R., 1994, L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000. Bourdieu P., 1992, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. Choay F., 1992, L’allégorie du patrimoine, Seuil, Parigi. 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Nel 1954, dopo una serie di episodi che cambiarono profondamente la sua vita, divenne il quinto dottore in etnologia della storia della Francia, ma ciò solo dopo aver vinto nel 1949 un premio al Festival du film maudit di Biarritz, luogo di consacrazione del nuovo cinema francese. Come antropologo, egli ha scritto. Ma come cineasta ha soprattutto filmato. Facendo incontrare queste due vocazioni egli è riuscito a stimolare da un lato quella rivoluzione che la Nouvelle Vague ha determinato nel cinema e, dall’altro, a fornire all’antropologia un nuovo strumento e delle nuove tecniche capaci di trasformarne in certi casi l’efficacia. L’uso dei documenti filmati per la costruzione del resoconto etnografico, ma soprattutto la pratica del feed-back hanno offerto agli etnografi molti spunti di riflessione. “Cinema e scienza continuano e continueranno sempre a dividersi lo stesso schermo, a condividere la stessa avventura, nella quale lo spirito dell’uomo brucia come una fiamma ardente” (Rouch, 1986: 10). Rouch ha vissuto la sua vita al confine fra scienza ed arte, senza mai voler far prevalere l’una sull’altra. C’è sempre qualcosa di poetico nei suoi documentari, così come qualcosa di profondamente scientifico abita i suoi film di finzione. Il suo metodo, legato ad una attenta e prolungata pratica dell’improvvisazione, non è tuttavia anarchico. E’ un metodo forse irripetibile, poiché esplicitamente fondato su doti e caratteristiche prettamente personali, ma è un metodo che si lega intimamente alla realtà e ad una sua espressione sincera e veritiera. In questo testo, dunque, considerando proprio il valore innovativo dell’opera di Rouch e l’interesse specifico che essa ha suscitato nell’ambito della ricerca antropologica, proporrò un’analisi della metodologia grazie alla quale tale opera è stata realizzata e delle riflessioni teoriche che da esse possono scaturire. In Rouch ogni intuizione pratica ha una stretta rispondenza teorica, l’uso di un particolare tipo di obbiettivo, piuttosto che di determinate attrezzature corrisponde intuitivamente ad un prolungamento della sua personale teoria antropologica. Per questa ragione non risulta facile dissociare un discorso tecnico sulla presa del suono o sull’utilizzazione di un cavalletto da uno teorico sulla condivisione dei risultati della ricerca o sulla presenza dell’antropologo sul terreno. Per esigenze di chiarezza ho dovuto, tuttavia, operare ugualmente questa divisione fittizia cercando di costituire al tempo stesso una rete di rimandi che permetta di mantenere visibile l’integrità del pensiero di questo autore. Il ruolo del suono nei film di Rouch Può sembrare paradossale iniziare l’analisi dell’opera di un cineasta da quell’unico aspetto che non riguarda il piano dell’immagine. Il sonoro appare facilmente come un elemento naturale, dovuto, implicito all’esistenza di un film. Può apparire come subordinato al valore dell’immagine. Al contrario, come Rouch sottolinea in diverse occasioni, esso è un elemento fondamentale, che spesso ha guidato e guida l’elaborazione di un film, specie dei film documentari. Inoltre si tratta dell’aspetto filmico che più ha beneficiato delle innovazioni tecniche legate all’industria cinematografica. L’invenzione della presa sonora in sincrono, e di conseguenza la possibilità di registrare il sonoro in presa diretta, ha trasformato il cinema più di molte altre invenzioni che hanno riguardato la presa di immagini. Il sonoro dei primi film di Rouch, all’incirca fino alla fine degli anni 60’ è registrato in studio e successivamente sincronizzato, in sede di montaggio, con le immagini. Il cinema italiano, con Rossellini, è forse il primo a porsi il problema delle riprese in esterno. L’arrivo di nuove telecamere più piccole e maneggevoli permette ai cineasti di andare in strada, ma per il momento impedisce di far recitare agli attori direttamente il copione: le telecamere fanno ancora un rumore insopportabile, che coprirebbe qualsiasi tentativo di registrazione del sonoro. Si ricorre allora al doppiaggio ed all’elaborazione di effetti sonori che riproducano i suoni della realtà. Il sonoro nei primi film di finzione. Il caso di Moi, un noir Rouch gira Jaguar2 e Moi, un noir3 in queste condizioni. Si tratta dei suoi primi due film di finzione. Essi però sono girati con tecniche prese in prestito dal film documentario. Si tratta dunque di film basati sull’improvvisazione, privi di sceneggiatura scritta e immersi nella realtà e nella contingenza delle esperienze quotidiane di attori non professionisti. Per la sonorizzazione di questi due film Rouch ha un’intuizione fondamentale, che vede la 29 ACHAB sua riuscita migliore in Moi, un noir, grazie al talento sorprendente di Oumarou Ganda, attore principale ed improvvisatore del sonoro. Gli attori vengono convocati in sala di registrazione a film già montato e sono invitati dal regista, che gli offre un canovaccio da seguire, ad improvvisare il sonoro, mescolando accenni di dialoghi compiuti al momento delle riprese a reazioni dovute alla visione del film, e ancora a riflessioni generali sulla loro vita, sul loro passato come sul loro futuro. Lo spettatore impara a conoscere gli attori, vede “dove essi vivono, ciò che mangiano, il loro lavoro e ciò che essi fanno del proprio tempo libero. Ma ciò che è più significativo, li ascolta parlare di queste cose con le loro proprie parole, e queste parole non parlano soltanto di ciò che essi sono o del loro modo di vivere, ma anche di ciò che essi amerebbero essere, del modo in cui vorrebbero vivere, soggetti a malapena sfiorati dagli scritti antropologici di quell’epoca” (Piault; 1996: 144). L’innovazione introdotta da Rouch permette per la prima volta di ascoltare la voce stessa degli africani commentare le immagini che li riguardano ed il sonoro diventa così il primo campo entro il quale Rouch riesce a proporre la possibilità concreta di un’antropologia “condivisa”. “Gli attori occasionali di Moi, un noir non conoscono formule, non conoscono le tecniche, per mettersi al di fuori di sé, o dentro sé stessi, in un luogo nel quale mantenere uno scarto fra il personaggio, oggetto mostrato per la riuscita del gioco, e l’attore, soggetto nascosto dal proprio ruolo. Essi recitano il ruolo di sé stessi, il che non implica la necessità di questo scarto. Ma in realtà il dispositivo adottato da Rouch li confronta molto direttamente agli effetti ed alle emozioni provocate dalla vista della propria immagine sullo schermo. Credendo di lavorare alla postsincronizzazione del film, essi hanno in verità lavorato attraverso un effetto particolare, il feed-back. Il cinema non aveva ancora utilizzato un simile effetto, ed è tanto interessante quanto più per il fatto che Rouch ha cercato di preservarlo, gesto moderno per eccellenza del suo cinema” (Scheihfeigel; 1995: 113). Con l’avvento delle innovazioni tecniche nel campo della sonorizzazione Rouch ha adottato nei suoi film di finzione la registrazione del suono in sincrono, mettendo da parte, purtroppo, la sua originale soluzione. Con l’avvento di queste nuove tecnologie il suono si è trasformato, il suo peso nell’economia del film e nella fase del montaggio è aumentato. Rouch sottolinea come con l’avvento della sincronizzazione, i registi così come i montatori usino innanzitutto il sonoro come elemento di raccordo fra le immagini, e su di esso si concentrino nel momento in cui sono sul terreno. “Quando giravo con la mia “Bell and Howell” facevo il montaggio mentre riprendevo (bisognava infatti staccare ogni venticinque secondi per ricaricare la bobina, nda), mentre oggi, con il suono sincrono, il cinema è diventato terribilmente chiacchierone: non si sa più tagliare, inquadrare, si ascolta soltanto parlare”4. Il fascino dei primi film di Rouch, invece, è quello dei film muti, nei quali il gesto, l’immagine, il movimento pittorico delle immagini hanno un ruolo centrale. Film muti che trovano a loro modo un sonoro che, come si vedrà a breve, pur ampliando il rapporto delle immagini con la realtà, è in grado di stabilire con essa una relazione di natura poetica. I documentari antropologici e la peculiarità del commento Nei documentari antropologici di Rouch il commento è un elemento fondamentale. Se nei film di finzione la parola dell’altro, la voce degli africani, protagonisti delle vicende narrate, ha avuto uno spazio ed una libertà d’espressione ampi e inattesi, al contrario nei documentari Rouch si è sempre riservato il ruolo di unica voce narrante. Anche quando negli anni settanta l’innovazione tecnica apportata dall’introduzione dei sottotitoli avrebbe permesso di lasciare libera espressione alla voce dei protagonisti, il commento, la voce sottile e poetica dell’autore hanno mantenuto il loro ruolo, lasciando emergere il suono originale solo in brevi e sporadiche occasioni. Questa ostinazione è costata al Rouch della seconda stagione creativa, quella fra gli anni 70’ e gli anni 90’, non poche critiche. Come Colette Piault sottolinea, “dal momento in cui c’era la possibilità di lasciare all’altro la libertà di esprimersi e tradurre le sue parole nei sottotitoli, parlare al suo posto è divenuto un «abuso di potere», presto assimilato ad un’attitudine paternalista, o peggio neocolonialista” (1996: 146). Di fronte a coloro che gli ponevano questo problema Rouch ha sempre risposto in modo piuttosto evasivo, sostenendo che l’uso dei sottotitoli toglieva spazio all’immagine, distoglieva l’attenzione dalla globalità del film, e inoltre non poteva che risultare, in termini di contenuto, riduttivo rispetto alla complessità delle parole pronunciate nelle lingue locali. Il commento, invece, poteva raggiungere, grazie alla forza di una parola più volte spinta ai limiti dell’atto poetico, livelli di chiarezza e di profondità narrativa insperati. “Mettendo solo dei sottotitoli, non si tradurrà che una parte del messaggio – le parole – lasciando da parte tutta la varietà del linguaggio gestuale, allorché con il commento fatto da me, provo a integrare in un solo linguaggio la parola ed il gesto per trasmettere la totalità del senso”5. Al di là delle risposte più o meno esplicite di Rouch sull’argomento, a mio avviso, una spiegazione a questo suo attaccamento al commento come parte integrante del suo modo di fare documentari può essere data a partire dall’analisi della funzione che tali commenti hanno nell’economia complessiva del film. Rouch commenta i propri film in modi assai differenti, a seconda dei casi. A volte il commento è stringatissimo, accenna a malapena alla presentazione di ciò che sta avvenendo lasciando l’attenzione libera di concentrarsi integralmente sulle immagini. E’ il caso ad esempio di Mamy Water 6, splendido e brevissimo film sulla cerimonia funebre per la morte di un’anziana sacerdotessa in Ghana, nella quale la bellezza delle immagini che ritraggono il corteo funebre lungo la spiaggia non hanno bisogno d’altro che di qualche parola a proprio supporto. In altri casi invece il commento è onnipresente, ben studiato, improntato ad una narrativa di alto livello poetico. Nei suoi commenti, in effetti, Rouch si è sempre ispirato all’esempio, da lui ben conosciuto, della narrazione orale dei griot. In tal modo egli tentava di proporre uno stile narrativo che, almeno nelle 30 ACHAB intenzioni, avrebbe dovuto ricalcare quello che uno dei personaggi del documentario avrebbe forse naturalmente adottato. Il caso de La chasse au lion à l’arc7 è un esempio chiaro di questo genere di commento. Girato nell’arco di sette anni, questo film ripercorre, come si trattasse di un’epopea, le gesta di un gruppo di cacciatori dell’ansa del Niger, impegnati nella caccia di un pericoloso leone che da tempo minaccia le loro mandrie. Il tono della narrazione è tutt’altro che scientifico e non mira certo a dare una spiegazione di ciò che sta avvenendo sullo schermo (la storia ad esempio si ambienta nella “brousse qui est plus loin que loin, le pays de nulle part”). L’obiettivo sembra piuttosto quello di coinvolgere lo spettatore in un ambientazione mitico poetica molto più vicina a quella che un esperto griot avrebbe creato per un uditorio attonito. In molti hanno criticato tale attitudine di Rouch, sostenendo che nel vedere i suoi documentari si ha l’impressione che siano le immagini a fare da supporto al commento piuttosto che l’inverso, o che ad ogni modo tali commenti nella maggior parte dei casi non aiutino lo spettatore a capire ciò che succede davanti a lui (è ad esempio la critica che più spesso è stata fatta relativamente al commento di Le maître fous), ma piuttosto lo confondano facendolo assalire da una serie di dubbi sulla natura del fenomeno che ha visto manifestarsi sullo schermo. A mio avviso il punto centrale della questione risiede, e lo si vedrà meglio nell’ultima parte di questo testo, in quello che per Rouch è un punto centrale: l’indeterminazione del confine fra realtà e finzione. Se il commento di Rouch non spiega non si può dire che non sia chiaro, e con altrettanta certezza non si può dire che lasci lo spettatore nella solitudine del suo dubbio. Piuttosto, ciò che Rouch cerca di fare è di immergere lo spettatore nella comprensione dei fatti per via poetica più che razionale, per intuizione più che per deduzione. Se secondo una critica di LeviStrauss a Rouch tale atteggiamento è pericoloso poiché “l’approccio poetico e quello scientifico non possono convivere in uno stesso film” (Grisolia; 1988: 11), per Rouch il problema non si pone poiché “la poesia, in senso stretto, è già scienza” (Rouch; 1981: 42). Il metodo di lavoro che Rouch utilizza è semplice ed immediato quanto la relazione che lui si propone di stabilire con le persone verso le quali dirige l’obbiettivo della propria telecamera. L’antropologo deve essere anche regista ed operatore. La squadra di lavoro dev’essere ridotta al minimo, poiché “due bianchi in un villaggio africano formano già una comunità, un corpo estraneo più solido e dunque maggiormente sottoposto a rischi di rigetto (Rouch; 1988c: 57). L’unico bianco è l’antropologo, dunque, accompagnato da un tecnico del suono formato in loco. “Il fonico deve assolutamente capire la lingua della gente che si registra: è indispensabile quindi che appartenga all’etnia filmata e che riceva in aggiunta un’accurata formazione tecnica” (1988c: 57). Per le riprese la telecamera deve restare libera, priva di cavalletto e pronta ad improvvisare, fra le mani dell’operatore, una danza che le permetta di inserirsi anonimamente nell’azione ed avvicinarsi così con libertà ai protagonisti. “Per me la sola maniera di filmare è di camminare con la macchina da presa, di condurla là dove è più efficace e di improvvisare con lei un particolare tipo di balletto, nel quale la macchina diventa viva come le persone che filma […] Allora, invece di usare lo zoom, l’operatore cineasta penetra realmente nel suo soggetto, precede o segue il danzatore, il prete o l’artigiano, non è più sé stesso ma un «occhio meccanico» accompagnato da un «orecchio elettronico». E’ la bizzarra trasformazione della persona del cineasta che ho chiamato, per analogia con i fenomeni di possessione, la cinetranse” (Rouch; 1988c: 59). Con ciò che Rouch chiama la cine-transe l’antropologo-cineasta diventa parte del fenomeno che osserva. La telecamera, che come tutti gli strumenti di registrazione utilizzati durante la ricerca (la macchina fotografica, il registratore, ma anche il taccuino e la penna) è di solito vista come un elemento estraneo, aggressivo ed intrusivo, diventa, in quest’ottica, un tramite, un potenziale elemento per la costruzione di un contatto reale ed approfondito. “A partire dal momento in cui si gira con degli obbiettivi grandangolari si è molto vicini alle persone che si filma e, se si è il proprio operatore, c’è qualcosa che può accadere: l’aggressione diventa uno stimolo alla relazione” (Rouch citato in Prédal; 1996: 13). L’antropologo grazie alla telecamera si espone, si posiziona al centro dell’azione ed al tempo stesso provoca una reazione. “La cosa straordinaria è che si è compromessi in prima persona in un’avventura del genere. Abbiamo inventato, con Blanchet e Beauviala, una parola per parlare delle macchine da presa di cui disponiamo ora: diciamo che sono delle camere da contatto. Effettivamente, la macchina da presa non è assolutamente, o piuttosto sempre di meno, un ostacolo fra due persone; anzi, utilizzata in un certo modo diviene uno strumento, uno stimolatore di contatto. Quando si sa che ci si mette in scena, durante la ripresa, nel momento in cui si interviene apertamente in ciò che succede si è coinvolti personalmente” (Rouch; 1988b: 47). La telecamera “vissuta” secondo questi principi, utilizzata con spontaneità e sincerità si apre ad una aperta accettazione o ad un aperto rifiuto da parte di coloro che rientrano nel suo campo visivo. “Quando si è alla normale distanza di comunicazione, tutti i problemi di «voyerismo» scompaiono, perché l’altro, a La telecamera di contatto e la cine transe Fra le mani di Rouch la telecamera diviene un essere vivente, protagonista attivo delle dinamiche che determinano lo sviluppo delle relazioni umane su un terreno di ricerca. Ispirato dalle gesta dei suoi “padri”, Flaherty e Vertov su tutti, Rouch fa partecipare la telecamera all’azione, ne fa uno strumento di contatto fra sé stesso e colui che gli si trova di fronte. “Se Flaherty e Nanook riescono a raccontare la difficile storia della lotta di un uomo contro la natura prodiga di doni e sofferenze, questo è possibile perché c’è fra loro un terzo personaggio. Una piccola macchina capricciosa ma fedele, con una memoria visiva infallibile, che mostra a Nonook le sue stesse immagini man mano che vengono impresse sulla pellicola, la macchina da presa che Luc de Heush ha magnificamente chiamato « la camera partecipante »” (Rouch; 1988c: 52). 31 ACHAB cinquanta centimetri da chi filma, non è obbligato a farsi filmare. Può mandarlo al diavolo con un solo gesto. Ha questo diritto. Chi filma lo sa. E lo sa chi è filmato. Molto stranamente, chi sarebbe infastidito a dieci metri, quando è molto vicino all’operatore, se accetta, accetta completamente. Si produce allora una sorta di capovolgimento della situazione. Sono gli altri che fanno il film, e non chi filma” (Rouch; 1988b: 47). poter cominciare, tutti si erano avvicinati in cerchio intorno al proiettore, credendo che tutto sarebbe successo intorno a quella strana macchina. Ma non appena le immagini cominciarono ad essere proiettate sul lenzuolo bianco, tutto fu chiaro. In breve le persone cominciarono a riconoscersi, alcuni piangevano perché rivedevano delle persone che nel frattempo erano morte, altri gioivano a vedere le loro gesta coraggiose durante la caccia. Il film dovette essere riproiettato sei o sette volte, e alla fine chiesi cosa ne pensavano. Ed allora, per la prima volta ricevetti delle critiche: mi dissero ad esempio che l’ippopotamo non si vedeva abbastanza […] poi mi rimproverarono perché avevo messo della musica sulle immagini della caccia, che invece deve svolgersi in assoluto silenzio: con quella musica l’ippopotamo avrebbe avvertito la presenza dei cacciatori e sarebbe scappato. Da quel momento un vero e proprio scambio è nato fra di noi, le cose si sono evolute. Uno di loro mi ha proposto di fare un vero e proprio film, un film di finzione, e così abbiamo girato Jaguar e uno dei cacciatori, Damouré Zika, è diventato un ottimo attore ed uno dei miei migliori collaboratori” (Rouch; 1996: 72-73). Senza aggiungere inutili commenti a quanto già Rouch rende esplicito con le proprie parole, è sufficiente notare che il feedback in quest’ottica diventa il principio in base al quale fondare una nuova antropologia, un’antropologia polifonica e dialogica, o meglio, per usare i termini dello stesso Rouch, “un’antropologia condivisa”. L’osservatore perde la sua abituale centralità gerarchica, mostrando il proprio sguardo si espone a quello di coloro che ha osservato. “Con il feed-back gli «osservati» hanno due rivelazioni fondamentali, da una parte la rivelazione della propria immagine, che è già uno choc straordinario, ma dall’altra parte, e soprattutto, essi hanno la rivelazione di che cos’è l’osservatore” (Rouch; 1988b: 46). Tutto ciò risulta particolarmente interessante se si tiene conto del dibattito teorico che negli ultimi decenni si è sviluppato in seno alle discipline antropologiche. Con grande forza Rouch offre all’antropologia uno strumento attraverso cui ridimensionare la posizione dell’antropologo sul campo. La telecamera diventa uno strumento che l’etnografo non può trascurare. Rouch profetizza che ben presto “sarà impossibile essere un antropologo senza essere anche un cineasta” (1981: 44) e, per quanto a livello accademico questa consapevolezza non sia ancora stata raggiunta, sono sempre più numerosi i ricercatori che si avvalgono degli strumenti cinematografici per condurre le proprie inchieste. “Il metodo della restituzione a posteriori del film è solo agli inizi, ma introduce già, tra l’antropologo e il gruppo studiato, relazioni completamente nuove, prima tappa di quella che alcuni di noi cominciano a chiamare l’antropologia condivisa. Infatti l’osservatore esce dalla sua torre d’avorio; la sua macchina, il registratore, il proiettore lo hanno condotto per uno strano itinerario iniziatico al cuore della conoscenza e, per la prima volta, può essere giudicato sul posto, dagli stessi uomini che è venuto ad osservare” (Rouch; 1988c: 65). Nelle intenzioni di Rouch, ad ogni modo, il processo innescato dalla restituzione, dal feed-back, non si ferma qui. Se nella prima fase di questa antropologia condivisa l’antropologo è chiamato a L’utilizzazione del feed-back, ovvero verso la creazione di “un’antropologia condivisa” L’onestà metodologica di Rouch e del suo “cinema diretto” escludono a priori la possibilità dell’uso di tecniche «voyeristiche» come quelle della “candid-camera” o delle “immagini rubate”8. Il principio base dell’antropologia visuale di Rouch, ciò che per lui fa della telecamera uno strumento insostituibile per la riuscita di una ricerca sul campo, quello del feed-back, è un banco di prova sul quale l’onestà metodologica e critica dell’antropologo sono esposte al giudizio di coloro sui quali la ricerca è stata compiuta. Tale metodo ha assunto fin dal principio della carriera di Rouch una tale importanza da indurre l’autore a parlarne in diversi suoi scritti ed in numerose interviste. Data la centralità di questo tema, riporto qui di seguito un lungo estratto nel quale Rouch narra la propria scoperta del feed-back, e l’importanza che essa ha avuto per lo sviluppo del suo lavoro. “Il cinema è per me, soprattutto, uno strumento d’inchiesta insostituibile. In effetti, esso non permette soltanto di vedere e rivedere i fenomeni analizzati, di cercare di analizzare ciò che succede, di comprendere meglio ciò che era sfuggito al nostro quaderno d’appunti, di sapere chi fa cosa, ma soprattutto di disporre di quello che per me è un elemento essenziale e che noi chiamiamo nel nostro gergo feed-back, ovvero la restituzione alle persone che sono state filmate del film nel quale esse sono state filmate, per approfondire tutte le dimensioni di un’autentica conoscenza ed al tempo stesso per essere compresi nella propria attività di antropologi dalle persone che sono state osservate. Tradizionalmente, in effetti, gli antropologi rimandano i testi che hanno pubblicato agli informatori che li hanno aiutati durante la ricerca. Io l’ho fatto con la mia tesi, elaborata in Niger. Dopo qualche tempo, quando sono tornato a trovare le persone con le quali avevo lavorato, esse mi hanno ringraziato, ma mi sono presto reso conto che esse avevano semplicemente ritagliato le foto e che si erano serviti della carta per altre funzioni; non sapevano che farsene della mia tesi! Avevano proposto al loro istitutore di leggergliela in francese e, nonostante avessi cercato di scrivere in una forma semplice ed immediata, per loro era risultata incomprensibile. Al contrario, appena hanno potuto vedere i film che avevo girato, hanno immediatamente capito ciò che avevo fatto. Ad esempio nel 1951 avevo ripreso una caccia all’ippopotamo ed ero tornato nel 1954 per proiettare il film nel villaggio. Quelle persone non avevano idea di cosa fosse il cinema, tuttavia, in meno di un minuto, si sono adattate ed hanno capito tutto: il film era a colori, c’era il sonoro e gli interpreti erano loro stessi. Non ci fu nessun problema di comprensione, anche se prima della proiezione, aspettando che il buio calasse per 32 ACHAB negoziare una rappresentazione adeguata con coloro che hanno costituito l’oggetto della sua ricerca, in un secondo momento egli deve spingere “gli osservati” a divenire essi stessi osservatori, ed a restituire una rappresentazione del mondo da cui l’antropologo proviene. Questa provocatoria ma stimolante idea, è stata ripetutamente inseguita da Rouch nell’arco della sua carriera. Egli ha formato, infatti, numerosi giovani antropologi e cineasti africani9 invitandoli a viaggiare in Europa e a produrre rappresentazioni e resoconti antropologici sull’Occidente. In un film dello stesso Rouch, Petit à petit10, si assiste all’esilarante inchiesta antropologica di un commerciante nigerino, venuto a Parigi per cercare di carpire il segreto della costruzione dei grandi grattacieli europei. Egli si ritrova a misurare crani e a porre astruse questioni sull’uso della cravatta, piuttosto che di qualche altro “strano” abito, lungo gli Champs Elysées. L’impegno profuso da Rouch nel tentativo di appoggiare la nascita e lo sviluppo di un cinema indipendente in Africa è stato da tutti riconosciuto11. Conscio dell’importanza che le immagini rivestono oggi nella formazione di rappresentazioni collettive riguardo culture differenti e lontane, Rouch ha più volte auspicato una larga diffusione del cinema prodotto in Africa, un cinema capace di sradicare, grazie alle sue storie ed all’immaginario di cui è espressione, i pregiudizi che ancora influenzano lo sguardo occidentale nei confronti di questo continente. un’epoca come quella in cui viviamo, che si costruisce e si autorappresenta incessantemente a partire dalle immagini che di essa vengono diffuse, il confine fra realtà e finzione è sempre più incerto. La realtà concreta può essere radicalmente influenzata dalla rappresentazione, per quanto erronea o parziale possa essere, che di essa è stata data in un determinato momento storico. L’antropologia conosce bene questo problema, se è vero, come ad esempio riconosce Amselle (1990), che in non poche occasioni gli antropologi si sono trovati a risentire i resoconti raccolti dai propri maestri enunciati da nuovi informatori sul terreno. I resoconti etnografici, dunque, hanno sempre basato la propria legittimità su un terreno di confine fra realtà e finzione. Tuttavia non sono molti gli autori che hanno accettato questa ambiguità senza riserve e si sono dedicati con continuità alla ricerca di nuovi equilibri. In Rouch i film cosiddetti di finzione, come Jaguar o Moi, un noir “smentiscono, grazie ai loro differenti livelli, la presunzione che qualsiasi film etnografico possa o debba sempre mirare ad essere la rappresentazione diretta, senza mediazioni, di un’altra cultura. La differenza sta proprio nella riflessività, cioè in una forma di partecipazione per cui i registi ed i soggetti etnografici collaborano nel creare una rappresentazione dialogica di se stessi e per se stessi” (Asch, Taylor; 1998: 158). La realtà è in qualche modo negoziata, costruita, e tuttavia risulta essere veritiera, sincera, poiché nata da un atto creativo spontaneo, non mediato; un atto creativo che è in se stesso realtà dirompente. “Il cinema produce bellezza dal reale almeno quanto ne è il riflesso, semplicemente perché l’unica verità, la sua verità, è l’istante stesso di questa produzione che ha una parte nell’elaborazione di ogni film, e su cui invece Rouch pone l’accento considerandolo il momento del cinema, quello in cui il film si cristallizza” (Chevrie; 1998: 116). In effetti, come già si è accennato in precedenza, il cinema, il film da fare, diventa per Rouch la ragion d’essere della realtà filmata. Ciò in particolare per ciò che riguarda i suoi film di finzione. Il film smette di essere “l’illustrazione di una sceneggiatura prestabilita, […] o la rappresentazione di una fantasmagoria inventata di sana pianta come nel cinema holliwoodiano. E’ invece fin da subito uno strumento, una tecnica di registrazione del reale. Il reale, tuttavia, non è la realtà, ma ciò che si produce nel momento in cui si filma e per il fatto che si filma […] La finzione non preesiste più al film ma ne è prodotta, nella coincidenza tra l’atto di filmare e ciò che viene filmato” (Chevrie; 1998: 115, 117). Se Rouch difende la necessità dell’impiego degli audiovisivi nelle scienze umane, rivendica con uguale forza i fattori soggettivi che lo spingono a realizzare film etnografici. “A chi gli chiede perché faccia questo genere di film, continua a rispondere «Per me». Rifiuta l’approccio «scientista» all’etnografia che privilegia una fredda descrizione di tecniche e di riti, mascherando sotto una presunta oggettività il velo impalpabile, ma indistruttibile, dei pregiudizi culturali. L’approccio «poetico» che Rouch predilige si risolve nell’abbandono al ritmo organico della realtà” (Grisolia; 1988: 8). Attraverso la diversità di forme, figure e luoghi che questo Fra documentario e finzione Nell’affrontare l’opera di Jean Rouch la definizione di un confine fra realtà e finzione appare impropria. Lo dimostrano i suoi film così come i suoi scritti e le sue interviste. In un articolo del 1988, per affrontare il problema, Rouch narra una vicenda interessante riguardo Ejzenštejn. L’inizio di un movimento di ortodossia comunista negli anni ‘20 aveva portato, in Russia, certi puristi a condannare i film di finzione sostenendo la necessità di mostrare al popolo solo la realtà rivoluzionaria. “La finzione è oppio per i popoli”, sostenevano questi individui. Ad Ejzenštejn fu commissionato in quegli anni un film sui moti rivoluzionari del 1905. Egli pensò di realizzarlo a Leningrado, ma dato che in quei giorni non la smetteva di piovere, decise di trasferirsi ad Odessa e di girare il film là. Inoltre, per far fronte alle insufficienze del proprio budget già rimaneggiato dagli spostamenti, ridusse gli episodi commissionati da tre a uno. Ne uscì un capolavoro, La corazzato Potemkine, nel quale la maggior parte degli avvenimenti narrati sono in verità irreali, o quanto meno fortemente modificati rispetto alla realtà storica dei fatti. Con suo grande stupore, alcuni anni dopo l’uscita del film Ejzenštejn, facendo una ricerca sui fatti del 1905, trovò un dossier completo compilato dalla Marina Militare: le illustrazioni erano tratte dal suo film. Come si può desumere da questo aneddoto, Rouch riconosce come il giudizio che lega una data rappresentazione ad una specifica realtà sia più complesso di quello che sembra. Ciò che si conosce della realtà è a volte noto a partire da rappresentazioni che di essa sono state fornite e che rispondono a determinate esigenze creative (tecniche, metodologiche, artistiche, ecc.). In 33 ACHAB determinante: materialità per cui l’enunciato sembra il discorso fluttuante di una soggettività non delimitabile, presente ed al tempo stesso rifiutata nel corso della sua stessa enunciazione” (Fieschi; 1998: 100). Il cinema stesso, il processo che ne determina la nascita, è in Rouch documentato. Questo può forse essere considerato l’elemento di incontro fra realtà e finzione nei suoi film. Si può, infatti, sostenere che l’ingresso del cinema nella realtà, il modo in cui esso vi si adatta e, per altri versi, le modalità attraverso le quali la realtà reagisce al suo ingresso, costituiscono il tema fondamentale dell’opera di Rouch, il filo conduttore implicito di tutti i suoi film. Rouch non filma soltanto i suoi attori, i riti a cui è interessato, i luoghi che lo affascinano, egli filma anche se stesso mentre compie queste azioni, si mette in scena attraverso il proprio commento, si offre al giudizio ed alle critiche dei propri collaboratori attraverso il feed-back, non maschera gli inconvenienti che lo obbligano a modificare i piani delle riprese. Si tratta di un metodo volto a scardinare la centralità della posizione che l’osservatore ha da sempre ritagliato per se stesso. Un metodo rischioso, affascinante, ed al tempo stesso rivoluzionario. Un metodo che a mio avviso suggerisce un’interessante via d’uscita dalle complesse reti di critiche entro le quali l’antropologia si è imbrigliata in epoca postcoloniale. processo, sul filo del suo percorso avventuroso e persino dei suoi capricci, acquisisce da un movimento oscillatorio tra tecniche e culture, viene a costituirsi una vera poetica, con le sue leggi e le sue norme. “Una poetica la cui appartenenza letteraria è evidente, e che sembra derivare tutt’intera dal principio surrealista dell’incontro, dell’accostamento. Questo incontro precipita, come fanno reciprocamente due elementi chimici, una nuova realtà, irriducibile alla semplice somma delle sue parti” (Fieschi; 1998: 104). E’ dunque in questo senso che nei film di Rouch realtà e finzione non possono essere distinte rigidamente, ma sono piuttosto rintracciabili in una compenetrazione unica ed irripetibile. Le tecniche di lavoro tipiche di un film documentario vanno ad innestarsi sullo svolgimento di una storia inventata. Regista, attori, tecnici si trovano ad improvvisare un’interazione, che è fittizia poiché dovuta al film, ma che non può che mostrare, in modo estremamente perspicuo, la realtà, poiché vive della stessa spontaneità e della stessa imprevedibilità del reale. E’ vero, infatti, che “nel cinema di Rouch, per la prima volta, vengono avanti sul proscenio, messi, si potrebbe quasi dire, sullo stesso piano della rappresentazione, tutti gli accidenti tecnici con cui la materia resiste […] E’ probabile che questa scoperta della materialità del cinema abbia avuto per Rouch un’importanza Note 1. Università degli studi di Roma “La Sapienza”. 2. Jaguar, colore 16/35mm, durata 131’, prodotto da Les films de la Pléiade; commento e dialoghi: Damouré Zika, Lam Ibrahima Dia, Illo Gaoudel, Amadou Koffo; sonoro: Damouré Zika; musiche: Enos Amelodon, Tallou Mouzourane, amisata Gaudelize, Yankori, ama, Dijenne, Molo Kari; montaggio: Josée Matarasso, Liliane Korb; interpreti: Damouré Zika, Illo Gaoudel, Lam Ibrahima Dia, Douma Besso; riprese: Niger, Burkina Faso, Ghana; 1957-1967. 3. Moi, un noir, film colore 16/35 mm, durata 71’; prodotto da Pierre Braunberger, Les films de la Pléiade; musiche originali: Yopi Joseph Degré; canti: Miriam Touré, N’Daye Yéro, Amadou Demba; montaggio: Marie-Josèphe Yoyotte, Catherine Dourgnon; commento in francese: Amarou Ganda, Ibrahim Dia; interpreti: Amarou Ganda, Petit Touré, Alassane Maiga, Amadou Demba, Seydou Guede, Karidyo Faoudou, M.lle Gambi; riprese: Abidjan; 1960; Prix Delluc 1959. 4. Nell’intervista di Colette Piault a Jean Rouch, “Parole dominée, parole dominante…”, in CinémAction n.81/1996, “Jean Rouch ou le ciné-plaisir”, p. 156. 5. In “Parole dominée, parole dominante…”, op.cit. , p.154. 6. Mamy Water, colore 16/35 mm, durata 19’, prodotto da Pierre Braunberger, Les films de la Pléiade; riprese. Accra e Shama (Ghana), 1953. 7. La chasse au lion à l’arc, colore 16/35 mm, durata 88’; prodotto da Pierre Braunberger, Les films de la Pléiade; sonoro: Idrissa Meiga, Moussa Amidou; montaggio: Josée Matarasso, Dov Hoenig; interpreti: Tahirou Koro, Wangari Moussa, Issiaka Moussa, Yaya Koro, Belebia Hamadou, Ausseini Dembo, Sidilo Koro, Alì; riprese: frontiera fra Niger, Mali e Burkina Faso, 1957-1964; Leone d’Oro alla XXVI Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. 8. Per un analisi dei casi in cui tali tecniche sono state utilizzate vedere Chiozzi; 1997, cap. V. 9. Lo stesso Oumarou Ganda, ad esempio, protagonista di Moi, un noir, è diventato un importante regista nel panorama del nascente cinema africano. 10. Petit à petit, colore, 16/35 mm, durata 90’; prodotto da Les Films de la Pléiade, dal CNRS del Niger e dal Musée de l’Homme; soggetto: improvvisato; sonoro Moussa Hamidou; montaggio: José Matrasso, Dominique Villain; interpreti: Damouré Zika, Lam Ibrahima Dia, Illo Gaudel, Safi Faye, Ariane Brunneton; riprese: Parigi (1968), Niger (1972). 11. Si veda ad esempio Diawara, 1992, cap.III. 34 ACHAB Bibliografia AA.VV., 1998; Jean Rouch. Le renard pâle, catalogo della retrospettiva omonima organizzata dal Centro Culturale Francese di Torino e dal Museo Nazionale del Cinema di Torino; Asch T., Taylor L.; 1998; “Contributo all’antropologia. Jean Rouch come cineasta etnografico” in AA.VV, 1998; pp. 157-160; Amselle J.-L.; 1999; Logiche meticce; Bollati Boringhieri, Torino; Chevrie M.; 1998; “Al vento dell’eventuale. Da Moi, un noir alla Nouvelle Vague” in AA.VV.; 1998; pp.115-118; Chiozzi P.; 1997; Manuale di antropologia visuale; Unicopli, Milano; Dei F.; “La libertà di inventare fatti: antropologia, storia, letteratura” in Il Gallo Silvestre, n.13, pp. 180-196; Diawara M.; 1992; African Cinema. Politics and Culture; Indiana University Press, Bloominghton e Indianapolis; Faeta F.; 1995, Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media; Franco Angeli, Milano; Fieschi J.-A.; 1998; “Derive della finzione. Note sul cinema di Jean Rouch” in AA.VV.; 1998; pp. 99-106; Geertz C.; 1987; Interpretazione di culture; Il Mulino, Bologna; Grisolia R. (a cura di); 1988; Jean Rouch. Il cinema del contatto; Bulzoni, Roma; Hoffner P.; 1996; “L’avis de cinq cinéastes d’Afrique Noire”, in CinémAction n.81/1996, “Jean Rouch ou le ciné-plaisir”, pp. 89-103; Piault C.; 1996; “«Parole interdite», parole sous controle…” in CinémAction n.81/1996, “Jean Rouch ou le ciné-plaisir”, pp. 140-147; Predal R.; 1996; “Rouch d’hier à demain”, in CinèmAction n.81/1996, “Jean Rouch ou le ciné-plaisir”, pp. 12-18; id.; 1996a; “La place du Surrealisme” in CinémAction n.81/1996, “Jean Rouch ou le ciné-plaisir”, pp. 56-58; Rouch J.; 1981; “Etnografia e cinema” in La ricerca folklorica n.3/1981, “Antropologia visiva. Il cinema”, pp. 41-45; id.; 1986; “Préface” in CinémAction n.38 “La science à l’écran”, pp. 5-10; id; 1988; “A proposito dei film etnografici”, in Grisolia,1988, pp. 19-23; id.; 1988a; “Saggio sulle metamorfosi della persona del posseduto, del mago, dello stregone, del cineasta e dell’etnografo”, in Grisolia, 1988, pp. 26-39; id.; 1988b; “Mettere in circolazione oggetti inquietanti”, in Grisolia, 1988, pp. 44-47; id.; 1988c; “La macchina da presa e gli uomini” in Grisolia, 1988, pp. 49-67; id.; 1996; “Filmer pour comprendre soi-même ou pour faire comprendre?” in CinémAction n.81/1996, “Jean Rouch ou le ciné-plaisir”, pp. 72-73; id.;1999; Dionysos; édition Arcom, Paris; Sheinfeigel M.; 1995; “Eclats de voix (Robinson ne dit pas son vrai nom)” in Admiranda. Cahiers d’analyse du film et de l’image n.10/1995, “Le géne documentaire”, pp. 110-118; 35 ACHAB Il consumo di funghi allucinogeni fra i Mazatechi della Sierra di Oaxaca nel mutamento del contesto storico e sociale di Fabio Pettirino Dall’analisi di molteplici testimonianze archeologiche e a nascondere i propri culti tanto che in seguito si arrivò addirittura documentazioni storico-antropologiche (cfr. ad es. Dobkin de a dubitare che i funghi fossero realmente usati come allucinogeni Rios, 1974) si deduce che i funghi allucinogeni hanno avuto un in determinate cerimonie (Marozzi, Mari, Bertol, 1996: 289). ruolo importante nei rituali religiosi delle antiche civiltà pre- Infatti, nonostante le intenzioni repressive delle istituzioni colombiane e tutt’oggi, particolarmente presso le popolazioni del coloniali, l’uso rituale dei funghi sacri riuscì a conservarsi nel Messico meridionale e del Guatemala, è diffuso l’impiego dei segreto delle pratiche degli uomini di conoscenza, nihe’s o medesimi funghi per fini di cura o in cerimonie religiose e shinahes in lingua mazateca3, che furono gli artefici della divinatorie. perpetuazione del rituale che continuò ad essere celebrato in I funghi utilizzati oggi in queste celebrazioni appartengono a circa segreto, permanendo simbolicamente come referente culturale due dozzine di specie. La maggior parte di esse appartiene al indigeno e spazio simbolico di resistenza di fronte alla cultura genere Psilocybe, una al genere Conocybe ed una al genere dominante. Stropharia, chiamato anche dagli autoctoni hongo de San Isidro Se le fonti antiche menzionavano soltanto vagamente l’impiego di (Marozzi, Mari, Bertol, 1996: 284). Attualmente l’uso intensivo funghi sacri, la riscoperta del rituale fra i mazatechi della Sierra dei sacri funghi è presente soprattutto tra i Mazatechi di Oaxaca. Madre orientale, nella regione che fa capo a Huautla de Jiménez, Lo scopo di questo articolo1 è quello di ripercorrere l’evoluzione fu merito, come noto, di G. Wasson (Levi-Strauss, 1973, cap. II). dell’impiego rituale di funghi in epoca recente fra i Mazatechi Nel corso degli anni Cinquanta visitò quelle regioni e partecipò della regione di Mazatlán, individuando dapprima degli elementi alla velada, la cerimonia notturna in cui si ingeriscono i funghi, di continuità storica congiuntamente alle ragioni della loro guidato dalla famosa sacerdotessa Maria Sabina che si sarebbe permanenza, per rilevare in seguito alcune delle trasformazioni poi convertita in un simbolo per la generazione hippie dopo la occorse nella celebrazione divulgazione dei primi del rito in relazione alle articoli pubblicati dinamiche del mutamento dall’autore. Il rituale professato da Maria del contesto socio-culturale. Sabina, dettagliatamente Nello specifico, sarà dedicata particolare riportato da Wasson, attenzione alle figure che presenta elementi di officiano la cerimonia ed origine pre-ispanica oltre a chiari riferimenti al culto all’influenza esercitata delle cristiano che rivelano missioni religiose sui alcune commistioni significati del culto. sincretiche che si sono La storia dei rituali associati prodotte nel corso del al consumo di piante tempo influenzando i inebrianti in Messico - dopo significati del rito. In la Conquista - è stata in primo luogo una storia di questo, ad esempio, i repressione. Prima della funghi vengono a Conquista, i funghi erano r a p p r e s e n t a r e Fig. 1: La regione di Mazatlán utilizzati in cerimonie di esplicitamente “la carne di carattere pubblico2 mentre in seguito il loro consumo continuò Dio” (teonanácatl, in lingua nahuatl) costituendo un tramite fra soltanto in riunioni private (Wasson, 1998: 11). In epoca coloniale l’individuo e l’entità divina. il consumo di funghi allucinogeni si convertì, nell’interpretazione Un altro autore ad interessarsi più di recente del culto fu Eckart dei missionari cattolici, in una manifestazione diabolica che Boege, che affrontò l’argomento in uno scritto monografico diventò oggetto di forte repressione da parte delle autorità realizzato a seguito di una ricerca etnografica effettuata durante ecclesiastiche che tentarono con ogni mezzo di estirpare la gli anni Ottanta nel territorio mazateco di Jalapa de Díaz. I pratica. La persecuzione religiosa indusse la popolazione indigena risultati della sua indagine restituiscono un’interpretazione che 36 ACHAB descrive il rituale sostanzialmente come una pratica curativa volta al ripristino dell’equilibrio personale e dell’ordine sociale nel quale il nihe disimpegna un ruolo privilegiato di mediatore fra l’esperienza individuale e la realtà sociale della comunità. Boege intende tutte le tecniche estatiche mazateche adottate dai guaritori come delle strategie simboliche atte ad intervenire in diversi ambiti sociali, tale che qualsiasi atto di tipo economico, politico o sociale può essere tradotto, interpretato e teorizzato in funzione del mondo simbolico che viene manipolato attraverso differenti pratiche rituali (Boege, 1988: 167). Il viaggio estatico4, guidato dal nihe, induce uno ‘stato di sogno’ denso di visioni che assumono significato attraverso l’interpretazione del linguaggio simbolico dei funghi, i quali a loro volta forniscono indicazioni sulla natura dei disturbi e dei problemi che tormentano l’interessato e suggeriscono le possibili soluzioni alla situazione di disagio. L’alterazione psichica provocata dall’ingestione dei funghi costituisce soltanto la cornice fisiologica che rende possibile l’apparizione di visioni (cfr. Lewis-Williams, Dowson, 1988), mentre il contenuto di tali visioni è determinato dal contesto culturale, dalle credenze religiose e dalle rappresentazioni indigene del mondo invisibile (Scarduelli, 2007: 135). L’associazione tra il viaggio ed il sogno si basa sulla credenza mazateca che lo spirito umano - inteso come congiunto ed articolazione di diverse componenti animiche - possa vagare durante il sonno. Secondo l’interpretazione indigena il sogno ha carattere conoscitivo e premonitore e può dare indicazioni verosimili sul futuro degli accadimenti ed influenzare il destino degli individui precorrendolo. Ma se le immagini oniriche si presentano quando si dorme, senza che si possa perciò intervenire sul corso degli eventi ai quali si deve assistere necessariamente in modo passivo, il viaggio estatico è, al contrario, uno stato di sogno indotto in condizioni di veglia, prodotto appositamente per poter intervenire in maniera diretta sulle questioni che causano il disagio e provocano uno squilibrio nel rapporto con la natura o con la società. Si tratta di un viaggio verso una realtà parallela e trascendente nella quale però trova origine e sostegno la realtà quotidiana. L’intervento trascendente diviene possibile attraverso l’esperienza degli uomini di conoscenza. Essi affermano di potersi muovere consapevolmente nella dimensione estatica del viaggio allucinogeno interpretando il linguaggio simbolico dei funghi per ricondurlo alla storia personale del paziente ed al complesso tessuto sociale della comunità, che essi conoscono profondamente. Tale complesso di conoscenze si tramuta di fatto in un dominio esercitato dai nihe’s sulla sfera sacra e simbolica, uno spazio ideologico a sua volta influente sulle relazioni sociali e di potere (Boege, 1988). Da questo punto di vista la conservazione della ritualità e la perpetuazione dell’ordine simbolico e culturale ad essa connesso può essere relazionata al mantenimento di una forma di autorità tradizionale. Essa si riproduce anche attraverso l’interpretazione dei sogni e le divinazioni che possono contribuire al mantenimento dell’ordine esistente, assumendo la funzione di determinare il corso degli eventi e la perpetuazione della percezione del loro corso necessario. Valutando lo svolgimento del rito da una prospettiva strettamente formale, è possibile osservare come si sia preservato inalterato il ricorso ad alcuni elementi cerimoniali5. Essi trovano corrispondenza e significato nella mitologia e nella cosmologia tradizionale mazateca e si sono sottratti dalle influenze dei mutamenti storici, giacché collocati simbolicamente in una dimensione temporale mitica, destoricizzata ed immutabile. Il rito si caratterizza inoltre per l’elevata formalità performativa, simbolica e linguistica. Boege e Wasson descrivono nei loro testi cerimonie officiate secondo un rituale strutturato in maniera piuttosto rigida, caratterizzato da una elevata formalizzazione Fig. 2 Fase rituale: ammollo dei funghi linguistica con recitazione di preghiere ed orazioni alternate a canti ed intonazioni ripetute. Analogamente, i miti e le orazioni tradizionali mazateche tramandati per via orale, non sono recitati o narrati, bensì cantati e talvolta intonati proprio in forma di cantilena (Pettirino, 2002). Seguendo le argomentazioni di Bloch (1974), il ricorso ad una modalità linguistica altamente formalizzata nei rituali può essere inteso come un tipo di potere atto specificamente a riprodurre la realtà; l’elevato grado di formalizzazione riduce infatti in modo drammatico ciò che può essere detto facendo scomparire la specificità e la storicità di un evento (Bloch 1974, trad. it, 1980: 192). Allo stesso modo, Tambiah individua nella formalità e rigidità della comunicazione rituale non improvvisata e spontanea, ma codificata ed articolata come in una “ripetizione disciplinata di atteggiamenti corretti” 37 ACHAB (Tambiah, 1995: 139), una modalità che più che trasmettere nuovi arrivava certo alla tolleranza di pratiche rituali considerate contenuti ed informazioni punta alla integrazione sociale ed alla idolatre. Il culto dovette poi essere sottratto allo sguardo dei continuità. Se l’ortoprassi e la ripetizione rituale standardizzata missionari protestanti che, anziché voler assorbire la loro assolvono a funzioni regolative e di controllo sociale, religione, erano maggiormente interessati ad evangelizzare gli riproducendo e perpetuando l’ordine esistente attraverso il indios proponendo loro l’abbandono di ogni ritualità cerimoniale controllo della struttura formale del rito, rimane da spiegare (Wasson, 1998: 15). A partire dalla metà degli anni Cinquanta, l’evenienza del cambiamento. L’innovazione, in un rito nelle comunità indigene mazateche arrivarono i primi sporadici contraddistinto da una così elevata formalizzazione, non può gruppi di missionari protestanti appartenenti in parte al essere portata dall’individuo, giacché la forma sembra resistere movimento dell’ILV (Istituto Lingüistico de Verano); istituto che proprio in virtù delle caratteristiche linguistiche legate alla a seguito di un accordo stipulato con il governo messicano si ripetitività ed alla modalità espressiva che non favoriscono, anzi, poneva l’obiettivo di studiare le lingue autoctone e con esse le ostacolano l’iniziativa e la riflessione personale. L’innovazione ed caratteristiche culturali delle popolazioni indigene. Questo i mutamenti che investono il rituale sarebbero piuttosto da programma era però affiancato da chiari intenti evangelizzatori a attribuire al mutevole contesto culturale che piega i contenuti a favore di un protestantesimo volto a sradicare il tessuto sincretico nuove esigenze, in tal modo favorendo le traslazioni semantiche. che si era sedimentato attraverso i secoli nelle comunità indigene In particolare, le più recenti variazioni alle strutture formali e (cfr. Cuturi, 2004). Un cambio di prospettiva si ebbe durante gli semantiche del rito sono da ricondurre all’influenza della anni Ottanta, quando alcuni catechisti formati nella corrente della moderna stagione dell’attività missionaria e, più in generale, ai teologia della liberazione cercarono di intraprendere la loro opera processi di progressiva modernizzazione degli stili di vita nelle di evangelizzazione secondo un diverso modello teologico. comunità mazateche. Sebbene infatti le missioni religiose abbiano Rifiutando la politica evangelizzatrice radicale, tradizionalmente come fine principale la conversione degli individui, esse finiscono repressiva ed intransigente, che dirigeva i propri sforzi soprattutto per operare come veri e propri verso la sostituzione dei valori agenti del cambiamento che locali con quelli universali della influenzano l’assetto dei sistemi fede cristiana, la teologia della delle relazioni sociali e politiche liberazione scelse una condotta all’interno della società oltre alle differente, che assegnava pratiche comunicative e maggiore considerazione al simboliche. patrimonio culturale delle pratiche locali. In termini teorici Ne è testimonianza la specifica si può affermare che nel solco evoluzione del rito nella regione concettuale tracciato dai mazateca di Mazatlán Villa de documenti del Concilio Vaticano Flores, che viene ancor oggi II, da una religione legata realizzato sebbene in forma metodologicamente alla filosofia assolutamente discreta (Pettirino, si acquisì una nuova prospettiva, 2002). Per altro, non solo la pratica adottando una strumentazione del consumo dei funghi sacri viene analitica aperta alle scienze celata, ma in genere viene sociali. Dal punto di vista sociale mantenuto il riserbo relativamente i teologi della liberazione si a qualsiasi atto di tipo magicoposero a difesa dei poveri e degli religioso, come le offerte fatte in Fig. 3: Processione religiosa oppressi, indagando i osservanza della topografia sacra del paesaggio culturale o alla ritualità legata al mondo agricolo. meccanismi sociali dell’oppressione ed auspicando una Seppur con discrezione, il rituale continua ad essere praticato con liberazione dallo ‘sviluppo’ imposto dall’esterno, anche se non si continuità sorprendente, potendo calcolare con buona schierarono apertamente contro il cambiamento ma contro la approssimazione che durante la stagione delle piogge da giugno a dipendenza che esso implica. Dal punto di vista teologico si ebbe ottobre, quando i funghi sono maggiormente disponibili alla lo sviluppo di una teologia dei ‘segni dei tempi’ fondata sul raccolta, ogni famiglia può celebrare la cerimonia fra una e discernimento, nella storia e nella società, dei segni della presenza quattro volte secondo necessità, ricorrendo saltuariamente in altre o del disegno divino, che invita la ricerca dell’azione divina stagioni dell’anno ai funghi conservati, di solito sotto miele. nell’evento storico (Tomei, 2004: 100). L’imbarazzo o il timore correlati a queste pratiche sono il risultato Tale impostazione maggiormente ‘accomodante’ consentì storico dell’azione religiosa del cattolicesimo tradizionale che a l’interpretazione delle espressioni culturali locali come eventi Mazatlán fu opera soprattutto dei frati Giuseppini. Essi giunsero storici nei quali poteva incarnarsi e rivelarsi la verità universale nei territori mazatechi intorno alla fine del XIX secolo e la loro della fede cristiana. Da allora il culto dei funghi sacri non soltanto propensione al compromesso religioso con le credenze locali non iniziò ad essere maggiormente tollerato, ma divenne oggetto di 38 ACHAB scatenare e fomentare il dissidio e la discordia . Per i motivi elencati, si è prodotta una progressiva carenza di nihe’s, che sta determinando la scomparsa dalla scena sociale di quella figura che in passato ha rappresentato il mediatore tra l’individuo e la comunità; il depositario dei valori comuni, capace di ristabilire l’equilibrio biologico e spirituale dell’individuo e l’ordine delle relazioni sociali attraverso la gestione dell’ambito simbolico e rituale, oltre a rappresentare l’elemento cardine necessario alla celebrazione tradizionale del rito di ingestione dei funghi sacri. Per questa ragione principale il culto ha cominciato a svilupparsi necessariamente, senza la presenza di figure specializzate, indirizzandosi verso una ritualità domestica. In ambito familiare, il rito viene generalmente officiato dalle donne che, essendo per tradizione profonde conoscitrici empiriche delle proprietà terapeutiche delle erbe, hanno ereditato il ruolo di leader nella conduzione della cerimonia cominciando ad adottare, in ambito familiare, il ruolo tradizionalmente ricoperto dal nihe. In altre occasioni il rito può essere celebrato da figure femminili dette rezadoras, persone solitamente vicine alla chiesa cattolica, spesso appartenenti a delle confraternite di preghiera. Esse conducono la cerimonia aderendo principalmente ad una visione cristiana e perpetuando antichi elementi sincretici ed introducendone di nuovi. Il cambiamento più evidente e radicale rispetto alla struttura tradizionale del rito risiede dunque nell’assenza del nihe, congiunta alla scomparsa del riferimento alla dimensione comunitaria per la quale il rituale è divenuto perlopiù una forma di integrazione familiare e di rafforzamento dell’unità domestica (Pettirino, 2002). Anche in Boege ritroviamo menzionata l’importanza del ruolo giocato dai familiari nello svolgimento del rito, ma sempre relativamente al ripristino dell’ordine riferito ad una dimensione sociale più ampia. studio degli stessi catechisti, i quali iniziarono a diffondere l’idea che Dio potesse essere presente anche nelle pratiche culturali locali, mentre le visioni che si manifestavano durante il viaggio estatico potevano essere considerate una rivelazione della sua grandezza. L’ideologia di questi religiosi, molti dei quali erano mazatechi formati come catechisti, si realizzava nell’idea di ‘comprendere per trasformare in profondità’. Per loro la pratica rituale dell’ingestione di funghi, anziché costituire un ostacolo da rimuovere sulla strada della conversione, poteva favorire l’interiorizzazione dei valori cristiani attraverso una pratica storica e locale già radicata nello ‘spirito mazateco’. Tale atteggiamento strumentale permise di raggiungere quel risultato che precedenti tentativi di conversione religiosa avevano colto soltanto parzialmente, riuscendo a colonizzare il profondo dello spirito e dell’immaginario locale; approfittando peraltro, di un percorso già tracciato e profondamente segnato da anni di predicazione di dottrina cristiana, durante i quali si era sviluppato un sincretismo che, ad esempio, aveva rafforzato nell’immaginario locale il valore sacramentale conferito al momento dell’ingestione dei funghi. *** Si è detto in precedenza del ruolo fondamentale che i nihe’s hanno avuto nella conservazione del rito e dell’importanza della loro figura nell’orizzonte delle relazioni comunitarie istituita attraverso la gestione delle pratiche rituali6. Ma in uno scenario comunitario sempre più destrutturato dalla modernizzazione degli stili di vita, si sta determinando una progressiva mancanza di ricambio nell’officio di ‘specialista del sacro’; mancanza dovuta ad una sensibile crisi delle vocazioni nella popolazione di giovani mazatechi. Le giovani generazioni di mazatechi hanno infatti maturato aspettative differenti e percepiscono le pratiche culturali legate all’ambito tradizionale e, con esse, il ruolo del nihe, come appartenenti a un complesso devalorizzato legato simbolicamente al passato. I pochi nihe’s operanti subiscono inoltre, in misura sempre maggiore, la concorrenza della medicina ufficiale sul versante delle loro pratiche curative, mentre rispetto alla sfera sacra e rituale si è fatta sempre più presente l’ingerenza dei proseliti operati da missionari di differenti movimenti religiosi. La progressiva destrutturazione dell’orizzonte comunitario e la conseguente riorganizzazione delle relazioni sociali avviene poi, sempre più spesso, in un moderno scenario religioso e politico fazioso, che ha incrinato il sistema delle ‘alleanze primordiali’ basate principalmente sui vincoli di parentela. Gli attriti fra nuclei familiari e fra i loro membri sono sempre più ascrivibili alle diverse appartenenze partitiche oppure all’adesione a differenti gruppi di predicazione religiosa. In tale contesto, sono stati molti i nihe’s accusati di stregoneria esercitata a fini politici e molti di essi sono stati assassinati a seguito di tali accuse. Dal ruolo tradizionale di risolutore di conflitti e controversie gestite sul piano simbolico, il guaritore viene sempre più spesso inteso come un elemento capace (attraverso le sue conoscenze prodigiose) di *** In conclusione è interessante notare, in termini comparativi, come nel capoluogo di un territorio confinante a quello di Mazatlán, il rituale abbia modificato i suoi significati e la sua forma in relazione a specifiche dinamiche sociali locali. In netta controtendenza rispetto al resto della regione mazateca, Huautla de Jiménez ha conosciuto un rilevante incremento del numero di guaritori, dovuto in maniera piuttosto evidente all’opportunità di rispondere alla crescente domanda del turismo psichedelico, che spinge giovani di tutte le nazionalità verso Huautla per sperimentare stati di coscienza alterati, ai quali vengono attribuiti significati edonistici e trasgressivi7. Il movimento turistico verso Huautla ebbe inizio all’indomani della pubblicazione degli articoli di Wasson in epoca hippie, ed i mazatechi residenti nella cittadina e negli immediati dintorni8 hanno colto l’opportunità di fornire a questa tipologia di visitatori il servizio richiesto. Come ogni buon servizio turistico, esso si è costruito principalmente sulla base delle aspettative dei clienti, tanto che lo scritto che relaziona la velada - officiata da Maria Sabina e dettagliatamente 39 ACHAB descritta da Wasson - è divenuta un’eccellente testa di ponte in grado di mediare il servizio proposto dagli improvvisati guaritori e le aspettative dei clienti desiderosi di sperimentare un ‘viaggio autentico’. I funghi, freschi o conservati, vengono anche venduti ai viaggiatori, i quali in qualche caso preferiscono consumarli privatamente secondo una propria ritualità, sconosciuta ed incompresa in quei luoghi. Il turismo psichedelico è divenuto, nel corso degli anni, una fonte stabile di ingressi economici per un discreto numero di famiglie mazateche, anche attraverso lo sviluppo di un artigianato parallelo di gadgets e di una ridotta economia di accoglienza turistica. Gli ‘specialisti’, in considerevole aumento, si dimostrano in molte occasioni dei veri e propri ciarlatani, che hanno fatto avverare la profezia di Wasson (1980:16-17) il quale aveva previsto uno svilimento dei contenuti originari del rito nella sua celebrazione a favore di stranieri poco rispettosi dei suoi significati sacri. Ciò sta inoltre contribuendo ad allontanare dalla coscienza popolare quei significati profondi che continuano ad essere conservati nell’esperienza dei rari eredi della tradizione sciamanica del nagualismo (cfr. Klein, 2002: 392), capaci, secondo le credenze popolari, di trasformarsi in differenti animali, separare da sé consapevolmente una parte della loro anima, oltre a poter volare e disputare memorabili lotte con i propri simili per il dominio della realtà parallela. Note 1. Il presente articolo si basa sulla sistemazione di una parte di dati etnografici raccolti durante una ricerca effettuata durante tutto il 2002 nel territorio mazateco di Mazatlán Villa de Flores, su incarico dell’Instituto Latinoamericano de Comunicación Educativa. Parte dei risultati dell’indagine, particolarmente quelli inerenti alla sfera educativa, sono stati presentati durante una conferenza tenutasi presso l’Università Pedagogica Nazionale di Tehuacán, Puebla, in data 22 giugno 2002, nell’ambito di un ciclo di conferenze dedicate alla cultura pedagogica. 2. Seguendo le illuminanti argomentazioni di Lucero (2004), sulle politiche del rituale fra gli antichi Maya, non è da escludere che anche in altre regioni nell’antichità pre-ispanica si possa essere verificata l’estensione del rituale da una dimensione familiare e privata ad una collettiva e pubblica incentivata dall’élite dominante che trovava legittimazione nella consacrazione della visione del mondo popolare amplificata a livello sociale e strumentalizzata a livello politico. La pratica sociale enfatizzata nel rito era dunque legittimata insieme ai loro esecutori da un orizzonte culturale comune già presente nei riti familiari. 3. La lingua mazateca è classificata come Oto-Manguean, Popolocan e conta otto differenti varianti. Secondo ethnologue.com il grado di intelligibilità della variante mazateca di Mazatlán è dell’80% con la variante di San Jerónimo, del 78% con quella parlata nel territorio di Huautla, 16% Jalapa de Díaz e 8% Chiquihuitlán. 4. Le motivazioni per le quali i mazatechi ricorrono al consumo rituale di funghi sono molteplici. Frequentemente si ricerca la soluzione ad un problema di salute la cui causa non di rado viene collegata alla sfera simbolica, come nel caso di un susto (nella traduzione letterale ‘uno spavento’); si crede infatti che l’emozione faccia perdere all’individuo parte del suo corredo di forze spirituali causando anche seri problemi all’organismo. In altri casi i funghi possono essere assunti a scopo divinatorio dal nihe per poter ritrovare un animale disperso o rubato oppure per stabilire un contatto con il mondo dei defunti. Secondo l’interpretazione indigena i funghi hanno proprietà curative prodigiose. Sono ingeriti interi sempre in numero pari, solitamente dopo averli ammollati in una mistura di acqua e cacao con l’aggiunta qualche goccia di sangue di tacchino. Ai funghi sacri ci si può riferire con il termine ndi xhi jtho, ovvero el que brota (quello che sboccia), oppure na t’iara na’mina, la cui traduzione letterale è saliva di Dio, e sta ad indicare la capacità che i funghi hanno di parlare a chi lo ingerisce, la metafora della saliva sarebbe dunque da ricondurre alla ‘capacità di parola’ del fungo. Prima della cerimonia bisogna rispettare un periodo di riflessione, digiuno e astinenza da relazioni sessuali. La giornata che precede la notte della cerimonia deve essere passata in compagnia di un bambino o di una bambina sino all’inizio del rito, forse per ritrovare un animo giocoso e spensierato privo di preoccupazioni; da notare che i funghi sono metaforicamente assimilati a figure di bambini e frequentemente appaiono nelle visioni allucinogene proprio in tal forma. Solitamente il soggetto interessato riceve una quantità maggiore di funghi, mentre non sembrano esserci regole fisse per gli altri partecipanti al rito che possono anche astenersi del tutto dalla loro ingestione partecipando comunque alla cerimonia. Nella mia esperienza, anche ai bambini è stata data una piccola coppia di funghi oppure è stata loro fatta ingerire la mistura nella quale i funghi sono stati lasciati in ammollo prima del consumo. La cerimonia si svolge nella completa oscurità ed il suo fine principale è la ricerca di un profondo grado di introspezione individuale, un esame di coscienza e una revisione della storia individuale che possa lasciar emergere ogni possibile disagio che diviene l’oggetto di un’analisi guidata dall’officiante che, secondo necessità, prende le misure necessarie per diminuire l’intensità dell’effetto allucinogeno oppure invita i presenti alla preghiera o ancora propone soluzioni e dispensa suggerimenti interpretando il linguaggio simbolico dei funghi. L’introspezione individuale non di rado prende la forma di un’analisi collettiva. Durante la mia permanenza nella regione mazateca mi è stata data la possibilità di partecipare per due volte alla cerimonia grazie all’amico, nonché principale informatore, Maximino Bolaños Carrizosa che, in un dato momento, ha ritenuto di presentarmi alla madre di sua moglie Antonia che si è gentilmente resa disponibile a guidarmi nel viaggio estatico nonostante 40 ACHAB fossi straniero. 5. A tutt’oggi la cerimonia è officiata ricorrendo a elementi rituali che fanno riferimento al mito ed alla cosmologia indigena: il copal, resina da bruciare che nell’interpretazione indigena rappresenta l’elemento primo, quello che apre il cammino verso l’altra dimensione e mette in comunicazione con essa; le uova di gallina, che sono apprezzate come ‘coloro che sanno parlare’ in quanto possono dialogare con gli spiriti padroni della natura; il tacchino (o qualcosa che lo rappresenta come ad esempio un uovo o delle piume), stimato come saggio, in grado di risolvere qualsiasi tipo di problema per la sua capacità di comunicare con l’altra dimensione e proprio per questa sua caratteristica viene solitamente sotterrato con le offerte rituali; semi di cacao, rappresentano il denaro e la bontà, nella credenza indigena si offrono ai Chakunes, gli spiriti guardiani, come pegno per poter passare all’altra realtà; il cacao ha inoltre la proprietà di aiutare a liberare lo spirito di una persona che è rimasta ‘imprigionata’ durante il viaggio; il tabacco fresco o picietl considerato come una potente difesa contro i malos vientos e gli spiriti maligni, per questo motivo prima della cerimonia le giunture degli arti vengono strofinate con un trito di foglie di tabacco fresco che viene inoltre confezionato in piccoli pacchetti da conservare in tasca per ottenere protezione; piume di pappagallo, portatrici di messaggi ed intermediarie ‘senza timore alcuno’; sono inoltre sempre presenti sull’altare: le candele che rappresentano la vita e l’esistenza umana ed i fiori freschi che evocano allegria e tenerezza. Sull’altare, rigorosamente collocato in asse est-ovest, figurano anche una molteplicità di immagini ed icone cattoliche che sono state integrate nello scenario cerimoniale attraverso il corso degli anni a testimonianza di come il rituale abbia progressivamente incorporato elementi simbolici, pratiche e significati mutuati dalla religione cristiana. 6. A testimonianza di quanto l’ambito simbolico e la sfera sacra possano influenzare la sfera politica fra i mazatechi della Sierra Madre di Oaxaca è interessante riportare un aneddoto che si inserisce in un contesto di grave disordine politico che, durante il 1991, portò il territorio mazateco di Mazatlán Villa de Flores ad un’aperta insurrezione politica alla quale seguì l’istituzione della sovranità dell’assemblea comunitaria e la dichiarazione di autonomia del territorio indigeno: ‘Melquìades R. B. era un diacono con forti ambizioni politiche che a qual tempo lavorava come aiutante del sacerdote nella chiesa di Mazatlán. Un pomeriggio, in una rancherìa (piccolo complesso di case, frazione) non distante dalla cabecera municipal (capoluogo territoriale) dove era situata la chiesa, ad un loquito (folle, visionario) apparve in visione una virgen (madonna). Siccome Melquìades era mazateco poté fungere da intermediario linguistico fra l’istituzione ecclesiastica ed il racconto del visionario del quale però divenne presto un forte sostenitore. Al contrario del sacerdote, che aveva tenuto un atteggiamento cauto, fin da subito la gente credette senza riserve alla versione del loquito sostenuta dal diacono e smise di frequentare la chiesa per iniziare a portare offerte e radunarsi in preghiera nel luogo dove era apparsa la virgen. L’unica persona a non credere affatto nel miracolo fu il presidente municipale (principale carica politica della comunità) appartenente allo storico Partido Revolucionario Institucional (PRI) che sottovalutò completamente la portata simbolica dell’evento. In realtà esso si dimostrò in seguito un solido fondamento metafisico sul quale avviare un’insurrezione. Infatti il diacono Melquìades interpretò quell’apparizione come un segno trascendente che lo invitava all’azione politica e ricorse all’aiuto di un nihe il quale decise di indire un’immediata seduta di ingestione di funghi sacri durante la quale una visione mostrò l’avversario politico vestito da donna. Quella visione fu interpretata come un chiaro segno di debolezza del presidente, evento che diede origine ad una rivolta capeggiata dallo stesso Melquìades che si rivelò vittoriosa per il fatto di aver trovato senza indugi l’appoggio del popolo, coinvolto dagli accadimenti simbolici dei giorni precedenti e tradotti in azione politica dal diacono attraverso il ricorso e la mobilitazione dell’universo simbolico. 7. Per approfondire l’approccio ‘ricreativo’ all’uso di sostanze psicoattive cfr. Piñeiro, 2000. 41 ACHAB Bibliografia Bartolomé, M. 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De tout rituel on attend qu’il s’accomplisse (semblable à lui-même, immuable comme le latin d’Église) et qu’il accomplisse: qui la pluie tombe, qui l’épidémie s’arrête, que les récoltes soient bonnes et les dieux favorables. Le ritual répète mais il inaugure, ouvre l’attente. Dans le rituel sportif l’attente se comble avec la célébration elle-même: à la fin du temps réglementaire les jeux seront faits mais le futur aura existémorceau de temps pur, grâce proustienne à usage populaire.” Il calcio e l’antropologia. Questo mio interesse è nato chiedendomi perché, considerando il gioco del calcio un “fatto sociale totale”, una sorta di quasi-religione contemporanea, un mito e un rito, un evento-spettacolo di grande impatto mediatico e globale, esso sia stato, a mio parere, oggetto di limitato interesse da parte delle scienze sociali, interesse che negli ultimi anni va crescendo. Il calcio è, in primis, un gioco, ma spesso è stato studiato prescindendo da tale prospettiva. Così le scienze sociali, sulla scia degli studi relativi alla “tribù” dei fans del Manchester United, si sono inizialmente concentrate sulle indagini del fenomeno hooligans. Inizialmente la sociologia sugli hooligans ha acquisito dignità accademica (Amstrong, Giulianotti; 1997; Sociological Review,1991) soprattutto per l’analisi dei risvolti “psicologici” delle guerriglie urbane, fuori e dentro gli stadi, provocate dai gruppi più aggressivi del tifo inglese. Nei successivi studi post-hooligans l’interesse sullo sport inizia a concentrarsi sul tema della globalizzazione e sulle questioni identitarie insite nei fenomeni del tifo. Un pionieristico articolo di Marc Augé sull’ argomento (1982) si concentra sulla possibile natura religiosa dello sport (del calcio in particolare): Augé individua quindi una connessione fra il rituale religioso e la partita di calcio, oltre a constatare l’importanza della dimensione televisiva globale del football affermando che, per la prima volta nella storia dell’umanità, gran parte della popolazione del pianeta segue lo stesso evento (la finale di un mondiale di calcio) contemporaneamente. Tale suggestione ci conduce così, attraverso i mediascape (Appadurai, 1996 ), in scenari glocali. Augè nota inoltre come nelle colonie francesi d’Africa il calcio si diffuse in modo analogo al cristianesimo. L’amministrazione coloniale del resto tenne un atteggiamento ambiguo verso uno sport “importato”. Da un lato lo considerò un modo sano di canalizzare le energie giovanili, dall’altro lato gli assembramenti per le partite di “Si, de Charléty à Santiago, les stades deviennent peu à peu un lieu de sens, de contresens et de non-sens, un symbole d’espoir, d’erreur ou d’horreur, on pressent bien que ce n’est pas simplement à cause de leur “capacité d’accueil”, 43 ACHAB calcio e il nascere di associazioni sportive facevano paura (divide et impera). Una specificità antropologica negli studi sul football va inoltre individuata nell’indagine sulle identità locali e nazionali catalizzate nel tifo verso una compagine calcistica. In Italia e in Francia tale tematica è centrale nei lavori di Dal Lago (1990) e Bromberger (1995), sulle manifestazioni del tifo a Milano, Torino, Napoli e Marsiglia. Altri interessanti articolazioni sull’argomento sono raccolte in Actes de la recherche en sciences sociales (1994; volume 103, numero 1). Nell’introduzione al volume, sulla base delle argomentazione di Pierre Bordieau (1980; 1987; 1989), s’individua l’ambito di ricerca socioantropologica dello sport, oltre che nella composizione sociale dei suoi praticanti e tifosi (ambito che riporta ai primi studi sul fenomeno hooligans), nell’interesse collettivo che esso riveste come spettacolo e nel suo essere investito di significati e simbolismi identitari, politici e religiosi. Scegliere il calcio come tematica di ricerca implica il porsi nella prospettiva della de-localizzazione; il campo dell’etnografo si pluralizza così nei campi, anche nella loro valenza mediatica ed immaginaria, ove si gioca, si guarda, si parla, di football. Il campo antropologico può allora diventare il bar (sempre più sostituito nella sua accezione classica di osteria in Italia, o pub nel Regno Unito, dalle caffetterie dei grossi centri commerciali) attrezzato di maxischermo per gli eventi sportivi, il campetto dell’oratorio, un parco cittadino, uno stadio di provincia, S.Siro, il Maracanã o il divano di casa dal quale: “regarder la télévision, et rendre compte du fait que pour la première fois dans l’histoire de l’humanité, à intervalles réguliers et à heure fixe, des millions d’individus s’installent devant leur autel domestique pour assister et, au sens plein du terme, participer à la célébration d’un même rituel” (Augé, 1982). Nella precisa Un certo disinteresse verso localizzazione spaziale il calcio quale sport del campo glocale (Appadurai,1997, dell’antropologo va forse A m s t r o n g , cercata una seconda parte Giulianotti,1994) per di risposta al perché le quanto riguarda scienze sociali si siano l’antropologia culturale disinteressate in modo può essere messo in quasi snobistico relazione al suo classico e Fig. 1: Kribi, Cameroon 2006: partita a pallone sulla battigia (nonostante ci siano fondante oggetto di studio, esempi di intellettuali i gruppi umani “primitivi ed esotici” da preservare nella loro olistica etnicità, appassionati e dediti al football: Pasolini, Maurice Merleaurinchiusa in un a-storico contesto locale ben Ponty, Jean-Paul Sartre che nella “Critique de la raison dialectique” si riferiva ad una squadra di calcio per geograficamente e culturalmente delimitato. Anche in tempi più recenti rispetto a quelli dell’ etnografia verificare la teoria dei “gruppi in fusione”), al gioco più coloniale, avvicinarsi ad argomenti di ricerca sottintendenti popolare dell’ultimo secolo, in larga parte del mondo. fondamento un’idea dell’Altro come simile all’uomo bianco occidentale, Il campo in antropologia è stato un “altrove” più vicino ai luoghi dove il sapere, la politica epistemologico oltre che “rito di passaggio” e d’iniziazione e la storia credono d’avere pieno ed esclusivo diritto e per potersi definire vero antropologo (Clifford,1999); il potere d’esistenza, avrebbe allontanato da un’ idea campo è stato, anche e soprattutto, costruito attraverso romantica ed esotica di antropologia, quale studio delle operazioni di de-storificazione (Fabian, 2001). Porre lo differenze culturali, ça va sans dire: diversità aventi quale sguardo scientifico su un fenomeno popolare globale, termine di riferimento il contesto euro-americano. Come interconnesso e contemporaneo nella sua storicità allora poter studiare uno sport che per certi aspetti sembra (rappresentata nella ciclicità di campionati e coppe del essere, nella sua diffusione e nella sua interdizione nei mondo) avrebbe probabilmente anticipato la formulazione di pressanti interrogativi epistemologici. Se l’antropologia contesti coloniali, metafora e paradosso del colonialismo? Forse che osservare il “selvaggio”, ai tempi di una certa ha trovato, per buona parte della sua storia, un fondamento etnografia coloniale, e constatarne la passione per un gioco disciplinare oltre che metodologico in una certa idea di “occidentale” avrebbe potuto significare renderlo meno campo, oltre che in certi e specifici temi, cosa ne sarebbe stato dei fondamenti positivisti, garanzia di scientificità, Altro, tribale e primitivo? 44 ACHAB metaforizzati nel campo dell’antropologo, un campo immaginato e rappresentato come un laboratorio chiuso e auto-referenziale, sul modello delle scienze naturali? Cosa ne sarebbe di quel campo se esso potesse essere, metaforicamente e paradossalmente, ovunque si rincorra un pallone in cuoio o una palla di carta e stracci. Forse per gli stessi motivi, come nota Hannerz (1998; 2001) ci sono così pochi lavori di etnografia della televisione? La questione coinvolge quelli che, per un lungo periodo di tempo, e ancora oggi per chi è legato a certi presupposti esotici della disciplina, sono stati i fondamenti dell’antropologia culturale, oltre che i suoi confini disciplinari, soprattutto verso la disciplina “sorellastra”, la sociologia. Il campo, nella sua accezione antropologica e in quella di campo da gioco, diviene allora luogo d’incontro-scontro fra “culture” ed “identità”, ma anche non-luogo dell’immaginario; un non-luogo rappresentato e mediato dagli schermi televisivi, attraverso i quali, una finale di coppa del mondo diviene l’evento più seguito del pianeta. dei mondiali del 1998. Come nota Jean-Loup Amselle (1999,29) sull’argomento: “in quell’occasione, la stampa scritta, radiofonica e televisiva sia francese sia internazionale non ha mancato di celebrare il carattere multicolore della nostra squadra riproponendo il vecchio scenario di una Francia meticcia che occupava la Ruhr dopo la prima guerra mondiale con i suoi fucilieri senegalesi e che si opponeva così a una Germania razzialmente pura.” Due facce di una stessa medaglia appunto: parlando di Black-Blanc-Beur i media non hanno fatto altro che rafforzare la credenza nelle razze e nelle loro differenze:la discriminazione positiva crea quindi altrettanti problemi di quanti cerchi di risolverne (Amselle, 1996:37). Nella rappresentazione mediatica dei rituali del calcio tale meccanismo è abusato ed evidente; la nazionale diventa stereotipo, rappresentazione teatrale e catartica del “carattere nazionale”. La partita di calcio può così assumere i connotati di una battaglia (Dal Lago,1990), di una “continuazione della guerra con altri mezzi”, e non mancano i casi in cui la guerra negli stadi ha anticipato la guerra reale, come nella dissoluzione della ex-Jugoslavia. Il calcio si presta inoltre fin troppo agevolmente nell’inquadrare ed ampliare i meccanismi di messa in atto di Il propagarsi d’immagini mediatiche relative allo sport (e di immaginari globali: gran parte della popolazione mondiale può infatti immaginare di vivere altre vite o avere nuove possibilità, sulla scia di spot pubblicitari, documentari impegnati o “polpettoni” sentimentali) può arrivare a strutturare il modus vivendi, le rappresentazioni, gli usi e i costumi dell’evento sportivo. Lo studio del pensiero di Baudrillard può essere strumento teorico per comprendere più a fondo come l’impatto della tecnologia possa aver modificato la vita sociale e le sue manifestazioni, gioco del calcio compreso. In estrema sintesi, per Baudrillard (1999) il virtuale ha assorbito il reale. Nel tempo del virtuale, ridotto all’istante, lo spazio si moltiplica interagendo nel tramite degli schermi mediatici. Anche le manifestazioni del football, nella loro diffusione “virtuale” televisiva, rientrano quindi in significativi ambiti d’indagine dell’antropologia dei media. Le rappresentazioni mediatiche del calcio, soprattutto per quanto riguarda gli eventi quadriennali di Mondiali ed Europei, sono inoltre un esempio di quella città virtuale che Paul Virilio (1999) contrappone alla città reale, influenzandola nel tramite delle reti mediatiche. Il calcio è dunque anche uno spettacolo visivo, una forma d’arte del corpo, ma questo lo è sempre stato. La differenza, banale certo, e forse per questo poco considerata ed interpretata, fra i tempi di Giuseppe Meazza e quelli di David Beckam, è la sua diffusione in diversi angoli di mondo attraverso il mezzo televisivo. Differenza banale ma rilevante, oltre che rivoluzionaria, nel modificare pratiche, Duala, Camerun aprile 2006: Eto’s fan club quelle “comunità immaginate” teorizzate da Benedict Anderson (1983). La nazionale di calcio è così la più seguita, famosa ed amata rappresentante di stereotipi nazionali nell’interpretazione mediatica delle sue vittorie o sconfitte; può inoltre diventare l’oggetto di “culto” di pericolose derive verso il biologismo culturale. In questo senso due esempi diversi, ma quasi due lati della stessa medaglia, appaiono molto significativi: la nazionale dell’Italia fascista, vincitrice dei mondiali del 1934 e 1938, dove l’idea di purezza razziale implicò la credenza in una superiorità fisica, e i Black-Blanc-Beur francesi, vincitori 45 ACHAB rappresentazioni, immagini ed interpretazioni del football. In tv il gioco del calcio è oggi strumento di marketing, sponsor, oltre che (aspetto inquietante dell’epoca “videns”) vetrina, scenario, luogo di decisione e propaganda ideologico-politica. Il calcio televisivo veicola quindi una forma di consumo dello spettacolo, funzionale al mantenimento di una società dei consumi. Non è casuale che la gran parte dei centri commerciali sia dotata di appositi spazi per la visione delle partite in onda sulle tv a pagamento. L’evento della partita di calcio attira potenziali compratori, oltre ad essere in quanto performance mediatica. Come nota Sartori (1999), la radio, oltre ad aver musicalizzato le nostre vite, ha lanciato sport “raccontabili”, come il calcio. Nell’ascoltare una partita per radio più spazio è quindi lasciato all’immaginazione della sfera visuale. Nel calcio televisivo invece il vedere prevale sul parlare, il telespettatore è quindi soprattutto un essere vedente. La televisione svaga e diverte, gratifica l’homo ludens, trasformando tutto in spettacolo. E ciò riguarda, in particolar modo, l’oggetto calcio, trasformato in spettacolotelevisivo, in evento mediatico per eccellenza. Negli ultimi dieci anni, gli spazi nei palinsesti televisivi dedicati al football si sono moltiplicati e pluralizzati, così com’ è cambiata l’immagine del calciatore professionista: da semplice sportivo a personaggio televisivo a tutto tondo, attento all’estetica e seguito da specialisti addetti alla cura dell’ immagine. Nonostante tali metamorfosi, la moltiplicazione del calcio in tv non è stata accompagnata da un disinteresse per le performance “dal vivo”, piuttosto dal suo contrario. Tale moltiplicazione di spazi televisivi ne ha piuttosto accentuato l’interesse da parte d’individui precedentemente profani, l’universo femminile per esempio, colpito dagli immaginari legati al calciatore quale soggetto veicolante mode e stili. L’evento televisivo sta dunque influenzando le pratiche del calcio giocato e della sua fruizione. Durante il lavoro d’indagine fra oratori, parchi e campi sportivi di periferia ho sentito spesso pronunciare l’espressione: “succede anche nelle partite fra professionisti, che vedi in televisione” riferendosi in particolar modo a tafferugli in campo o disaccordi fra giocatori. La mimesis (la riproduzione di rappresentazioni per imitazione, nel caso specifico soprattutto di linguaggio ed immagini) sembra quindi entrare in campo, non solo per quanto riguarda le mode, di cui è testimonial il calciatore, ma nelle pratiche del gioco stesso. La pubblicità addensa gran parte della sua efficacia sulla capacità di suscitare desideri di mimesis, verso stili di vita assimilabili e rappresentabili in oggetti di consumo. La partita di calcio assume quindi le sembianze di oggetto di consumo (di spettacolo) veicolante, nella sua ormai intrinseca dimensione pubblicitaria, altri fini consumistici. Attraverso gli schermi televisivi inoltre il calcio entra maggiormente nella vita famigliare ed amicale, scandendone spesso i momenti di ritrovo e strutturando pratiche di socialità condivisa. Nella mia storia personale il seguire una partita di calcio in tv, o le accese sfide dei tornei universitari di cui sono memore, o la “gita” allo stadio, son momenti di ritrovo, riti condivisi con famiglia ed amici. Oggi seguo gli stessi riti, sul campo o attraverso i campi mediatici, con sguardi e pensieri antropologici. El Jadida, Marocco dicembre 2007: Linee del campo prodotto esso stesso. Il calcio-consumo, subordinato a nuovi spazi di marketing diffusi tramite vecchi e nuovi media, sta aprendo nuove dinamiche e interpretazioni della sua ritualità. Gli attuali videogiochi (che riproducono fedelmente l’immagine del calciatore), i blog di tifosi, il proliferare di video relativi a gesta sportive o alle celebrazioni di vittorie e sconfitte, conducono inoltre a nuovi modus viventi di una passione collettiva. Dai telefoni cellulari, ormai trasformati in accessori multifunzione, ci si può collegare, in audio o video, al rituale della partita. La domenica pomeriggio capita d’incontrare chi, ascoltando le partite via telefonino, ricorda modalità “tecnologiche” d’ altri tempi: la radio portatile, oggetto d’uso ricorrente nelle passeggiate domenicali degli italiani. La questione sui modi di trasformazione di un rito e delle memorie sociali ad esso connesse, sulla selezione a cui tali rappresentazioni collettive del ricordo siano sottoposte in relazione agli sviluppi tecnologici, è aperta e coinvolge molteplici fatti, pratiche, immaginari ed interpretazioni sociali; il calcio è solo una fra queste dimensioni, e lo è in modo emblematico, 46 ACHAB Bibliografia Amselle Jean-Loup, Logiques métisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Payot&Rivages, Paris, 1990. Trad.it. Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. Amselle Jean-Loup, Vers un multiculturalism français: l’empire du coutume, Aubier, Paris, 1996. Amstrong G., Giulianotti R., Entering the field, New Perspectives on World Football, Berg, Oxford,1997. Amstrong G., Giulianotti R., Football Cultures and Identities, Macmillan, London, 1999. 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Già Durkheim (1897) ha dimostrato come influenze di ordine sociale possano giocare un ruolo fondamentale nella genesi dell’atto suicidario, nel momento in cui l’equilibrio tra fattori protettivi e spinte suicidogene si rompe a sfavore dei primi. Il gesto suicidario ripropone pertanto il tema del rapporto tra la dimensione individuale e il contesto sociale. L’obiettivo che mi propongo in questo lavoro è quello di tentare una riflessione sul suicidio nel contesto migratorio attraverso un approccio che tenga conto non solo degli aspetti idiosincrasici della personalità dell’individuo o dell’assetto neurotrasmettitoriale del cervello (cosa di cui si occupa con maggior o minor successo un certo tipo di psichiatria), ma che abbia come punto di partenza una visione integrata di ordine biopsico-sociale. ripresentarsi sulla terra per vendicarsi delle persone che gli hanno arrecato danno (samsonic suicide). Presso i Serer, invece, chi si suicida apparterrebbe alla categoria dei “tji:d a paxer”, individui che intrattengono con il mondo dei morti particolari legami che fanno sì che essi siano continuamente tentati di ritornarvi (Collomb, Collignon 1974). Il carattere trasgressivo e di “rottura” proprio dell’atto suicidario si ritrova in alcune storie di persone che hanno tentato il suicidio. Verrà quindi presentato il caso di Alfonso, giovane Miskito, raccolto da Moro e Martin (1989) e una vignetta clinica relativa ad un paziente afferente al Servizio di psichiatria in cui mi trovo a lavorare. Alfonso e il Bla Il Bla è un fenomeno che, sotto forma di crisi, interessa essenzialmente gli adolescenti della popolazione Miskito del Nicaragua recentemente esiliata in Honduras. Chi è colpito dalla crisi cade (caer) in uno stato di trance per cui corre brandendo un machete o un bastone. E’ possibile che gli adolescenti colpiti feriscano o uccidano le persone che incontrano sul loro cammino, ferendosi e uccidendosi a loro volta. La crisi di Bla ha dei segni prodromici specifici quali malessere generalizzato, nausea, cefalea, irritabilità e lipotimia. In uno stato alterato di coscienza emergono visioni che hanno una sequenza fissa: un uomo a cavallo invita l’adolescente a montare in sella attraverso l’offerta di una coppa di sangue e di un pugnale. Al termine della crisi chi ne è colpito si risveglia tranquillo, in uno stato di torpore, non ricordando nulla di ciò che è avvenuto. Alfonso, uno dei giovani che frequentemente va incontro a crisi, descrive così a Moro e Martin (1989:109) il momento in cui questa inizia: Vivere ai confini, qui e altrove Svariati sono i motivi addotti a spiegazione del gesto suicidario ma nessuno è, di per sé, capace di renderne interamente conto. In alcune società africane si può rinunciare alla vita in seguito alla sconfitta in battaglia, alla vergogna per aver compiuto atti contrari alla morale condivisa o per un lutto familiare improvviso (Calderoli, 2001). Nella società occidentale Durkheim individua diverse motivazioni a spiegazione del suicidio, tra cui la miseria e i rovesci della fortuna, i dispiaceri in famiglia e nella vita amorosa, il disgusto della vita. Inoltre, mentre in alcune società il comportamento suicidario è culturalmente determinato, in altre le tecniche per darsi la morte sono variabili. Da ultimo, il giudizio di valore riguardante il suicidio può cambiare a seconda delle differenti società e delle differenti epoche storiche (Barbagli 2009). Quello che pare però accomunare i giudizi e i discorsi che la società fa sul suicidio è il suo carattere extra-ordinario e, per così dire, trasgressivo. I suicidi sono dei revenants che necessitano di peculiari riti di fissazione e purificazione (Coppo 2005). La possibilità, per le vittime di morte violenta, di tornare nel mondo dei vivi è legata per la psicoanalisi all’azione che il senso di colpa esercita sui sopravvissuti mentre in altre società è legata alla mancata azione di rituali specifici. Presso i Nyoro dell’Uganda, ad esempio, è prescritto che se un soggetto si impicca ad un albero, quell’albero venga sradicato, tagliato in pezzi e bruciato. Parimenti la sua abitazione dev’essere abbandonata e distrutta. Questi accorgimenti eviteranno che lo spirito del defunto possa “Inizialmente mi sento male, ho nausea. Dopo ho male alla testa, sento come dei colpi in testa. E poi comincia il cuore, come se volesse fermarsi, come se volesse battere più forte del normale. In quel preciso istante perdo conoscenza, tutto sparisce. appare una persona strana, non come la gente che si vede in giro, un altro tipo di persona, con occhi immensi, denti grandi. […] Quando perdo conoscenza appare un uomo a cavallo, spesso non se ne percepisce che la testa, oppure è nudo come i bambini…E’ sempre un uomo e mai una donna…non assomiglia né ai Miskito, né ai Sumo, né ai Garifuna. […] Il suo cavallo è nero, ha sulla fronte una stella a cinque punte e sulla testa è scritto il mio nome. “E’ il tuo cavallo, sali in sella, vai” mi dice l’uomo. E’ un cavallo strano, la testa somiglia a quella di un orso e il corpo a quello di un cavallo. E’un cavallo alto come quelli che ci sono qui. L’uomo porta infine una coppa di sangue e dice “prendi questa coppa di 49 ACHAB sangue”. E se si beve il sangue allora accade il peggio. Se non lo si beve ci si calma, ma se lo si prende è lui che ti guida…”3. psichiatrica. Passare le frontiere: la storia di Juan6 In qualità di medico ospedaliero mi capita sempre più spesso di prendermi cura di adolescenti in difficoltà: tra gli altri mi viene alla mente il caso di un giovane ragazzo poco più di diciottenne che un collega che lavora in ambulatorio aveva deciso di ricoverare in seguito ad un tentativo di suicidio7. Egli mi aveva chiesto di occuparmene in quanto era preoccupato dalla giovane età del ragazzo e per il fatto che non c’erano apparentemente ragioni per un gesto così grave, né problemi familiari né altro. In occasione del nostro primo colloquio mi sono trovato di fronte un adolescente dall’aria un po’ persa che non diceva una parola. Mi guardava, sorridendo. Decisi di iniziare la nostra conversazione proponendogli di dirmi qualcosa di lui: mi raccontò così che si chiamava Juan ed era originario del Perù essendo stato adottato all’età di sei anni da una coppia di Livorno. In effetti egli pronunciava il suo nome, cosa che mi aveva molto colpito, con una G aspirata tipica dell’accento toscano. Continuò il suo racconto riferendomi quali erano i suoi gusti in tema di vestiti e di musica. Gli domandai se c’erano delle cose che amava a scuola. Mi rispose che andava piuttosto bene, se la cavava, e che le sue materie preferite erano il corso di italiano e di inglese. “Ami le lingue?”, gli chiesi. Juan esita un po’, mi guarda e sospira dicendo di sì: gli piace abbastanza l’inglese, ma avrebbe preferito imparare lo spagnolo in quanto è la sua lingua di origine. Rimango un po’ stupito da questa affermazione così improvvisa, ma il ragazzo non mi lascia il tempo di riprendermi e aggiunge immediatamente che è tempo di fare un viaggio in Perù: con i suoi o, se non lo desiderano, da solo. Gli domando quindi come immagina questo suo paese, ma senza rispondere, mi torna a guardare sorridendo. Quel giorno era presente in reparto una infermiera dell’èquipe originaria del Perù. Decisi quindi di invitarla al colloquio insieme alla madre di Juan. Nel corso delle presentazioni, come di consueto, pronuncio il nome del ragazzo e l’infermiera lo ripete, spontaneamente, con il suo accento. Juan ( e la sua mamma!) restano come di sasso e, dopo qualche secondo, egli aggiunge: è così che mi chiamavano da me! Racconterà quindi che prima di arrivare in Italia era un ragazzo di strada e che guadagnava la giornata frugando nella spazzatura. La madre riprende il discorso del figlio dando maggiori notizie riguardo all’adozione e alla vita che Juan conduceva nel suo paese. Ricorda inoltre che il figlio, una volta arrivato da loro, aveva molta paura di attraversare le frontiere: un giorno, avendo deciso di passare le vacanze in Svizzera, l’intera famiglia è stata costretta a tornare indietro in quanto Juan era stato preso da una crisi di profonda angoscia all’idea di essere abbandonato all’estero. Il padre di Alfonso afferma che quando il figlio è preso dalla crisi afferra un machete e comincia a correre. Nessuno può fermarlo né togliergli l’arma in quanto sarebbe troppo pericoloso, solo gli altri giovani colpiti a loro volta dalla crisi possono avvicinarlo. Gli adulti assistono alla scena in uno stato di totale impotenza e con il timore che i figli possano defenestrarsi o gettarsi nel fiume. Anche i medici occidentali non possono intervenire perché nulla appare efficace: solo alcuni trattamenti tradizionali sembrano avere un qualche effetto terapeutico. L’inefficacia della presa in carico da parte dei terapeuti nostrani ripropone non solo il problema dell’adeguatezza delle cure in contesti culturalmente diversi4, ma mette anche l’accento sul fatto che una medicina centrata sull’esperienza individuale della sofferenza quale quella occidentale si rivela del tutto impropria ad affrontare i problemi legati a comportamenti culturalmente codificati che sembrano trarre la loro forza da motivazioni di origine sociale. Non è qui la sede per discutere approfonditamente delle vicende di ordine storico e politico che hanno portato alla migrazione della popolazione Miskito (Lanternari 2006), basti però ricordare che per i due autori citati il Bla sarebbe originato da una sorta di resistenza nei confronti di un processo di acculturazione che per gli indios è stato rapido e massivo5. Torna in questa visione l’idea del trauma migratorio come “ferita aperta” attraverso cui emergerebbero elementi culturali ancestrali legati ai riti di iniziazione. Il tentativo sarebbe quindi quello di proporre una “ristrutturazione sociale” utilizzando componenti traumatofiliche che trovano la loro incarnazione nell’azione degli adolescenti Miskito i quali si trovano a vivere un’età considerata essa stessa fragile e di passaggio. Utilizzare categorie ben note alla psicologia in campo antropologico è un’operazione che è stata oggetto di diverse critiche, in particolare in riferimento alla nozione di trauma quale strutturante psichico proposta, ad esempio, da Tobie Nathan (1991). Tuttavia, questa nozione contiene in nuce l’idea di una circolazione di materiali “perturbanti” a livello della società allargata che coagulerebbero in comportamenti culturalmente determinati nel tentativo di trovare una via di scarica e di risoluzione nei confronti di questi materiali ansiogeni attraverso il linguaggio del rito. Com’è noto, il rito è stato oggetti di diversi studi in campo antropologico (Turner 1982, Severi e Houseman 1994), alcuni dei quali hanno dato avvio a interessanti teorie che hanno permesso il dialogo con alcune discipline appartenenti alle scienze della mente quali, ad esempio, la psicologia sistemica (Bateson 1936). La domanda che va qui definendosi è se il comportamento suicidario sia in qualche modo legato alla possibile risoluzione di un momento di crisi (nel caso, ovviamente, che questo non venga portato a termine) e qual sia il luogo occupato dalla società in queste condotte, cercando di tenere una prospettiva di comprensione sovraindividuale. Per tentare di definire meglio il problema ritornerò al “campo” di osservazione che mi è proprio rappresentato dalla clinica Alcune considerazioni conclusive La riflessione sul suicidio propone il tema del legame tra individuo e gruppo sociale. Questo legame sembra trovare nel corpo un mezzo privilegiato di espressione: come nel caso di Juan, molti pazienti che hanno tentato il suicidio riportano che in 50 ACHAB quel momento sentivano preclusa ogni capacità di pensiero che potesse alleviare l’angoscia. Il corpo rappresenta quindi l’unico polo di scarica di emozioni ed affetti vissuti in maniera massiva ed insopportabile. Per la psicoanalisi la fantasia suicidaria “deriva da un abbassamento di livello del processo simbolico con un uso del simbolo di tipo feticistico. Si ha invece una perdita di esso quando dalla fantasia si passa all’atto, al suicidio. Nel primo caso l’angoscia di separazione o di perdita funziona come segnale che mette in moto difese adattative; nel secondo, invece, travolge le possibilità di contenimento e di integrazione e viene espulsa in un agito” (Giaconia 1889). L’idea del suicidio non realizzato come un tentativo di rimettere in circolazione materiali ansiogeni che paralizzano il pensiero per cercare una via d’uscita sembra trovare nella psicologia individuale delle possibili spiegazioni. Per cercare tuttavia un’articolazione con il sociale sembra necessario tornare alla riflessione sul corpo che si mostra a tal proposito come un oggetto ambivalente e sovradeterminato: il corpo può infatti essere considerato la quintessenza della soggettività (si pensi ad esempio all’idea del DNA come caratterizzante specificamente ogni individuo), ma esso può essere anche inteso come una costruzione tipicamente culturale. Il terreno del corpo non è infatti un terreno neutro: esso viene plasmato dalla società grazie a tecniche e rituali specifici (Calderoli 2006) a mezzo dei quali ogni gruppo sociale inscrive su di esso ciò che è considerato possibile o al contrario interdetto, ciò che è considerato desiderabile o al contrario disprezzato. Al corpo come mera “res extensa” si contrappone un corpo fantasmatico, in senso individuale e collettivo: come gli orifizi corporei sono luogo di introduzione ed espulsione di sostanze da e verso l’esterno, il corpo di trova ad essere luogo di proiezione ed interiorizzazione delle relazioni affettive, delle prescrizioni, degli interdetti e delle istituzioni sociali (Berlincioni 2001). Corpo anatomico e corpo fantasmatico si trovano quindi in un rapporto di scambio continuo in cui l’uno rimanda all’altro e viceversa. Non è quindi un caso se l’eliminazione del corpo biologico da parte del suicida scatena violente reazioni da parte della collettività per cui sono necessari particolari atti di purificazione e di messa a distanza: la società si sente minacciata non solo in quanto uno dei suoi membri ha rinunciato alla vita, ma anche perché il gesto suicidario rimette in discussione quei sistemi di valori e di norme condivise che, inscritti nel corpo, permettevano la vita stessa. Si pensi a questo proposito ai veri e propri processi ai corpi dei suicidi che venivano celebrati prima dell’avvento delle teorie illuministiche in Europa: l’individuo era considerato appartenente alla società e per disincentivare il suicidio venivano inoltre confiscati i beni suoi e della famiglia. Analoghe misure erano prese se il suicida apparteneva al corpo militare in cui i legami di appartenenza erano ancora più forti (Barbagli 2009). Da un punto di vista complementare si possono citare come esempi dello stretto legame che intercorre tra società e corpo dell’individuo le eccellenti descrizioni di Mauss (1950) in relazione alla morte psicogena di individui che avevano ricevuto un giudizio di condanna a morte da parte della collettività. Il disagio di molti individui sottoposti a processi di acculturazione massiva sfocia spesso in attacchi al corpo attraverso gesti autoeteroaggressivi che sembrano proporre il problema identitario di come cambiare rimanendo fedeli a sé stessi. Se nel nuovo contesto di vita i costumi appresi nel paese di provenienza non hanno più lo stesso valore, com’è possibile sottoporsi al cambiamento senza tradirsi? La migrazione è una situazione liminale di grande rischio in quanto può sì portare a trovare soluzioni creative al problema identitario, ma può anche sottoporre a gravi stress che determinano condizioni inquadrate dalla biomedicina nel campo della psicopatologia. Come emerge da quanto esposto finora, il tema del corpo si presta come luogo interdisciplinare di riflessione (Pandolfi 2007), esso è inoltre oggi di grande attualità, come dimostra ad esempio la recente proposta del testamento biologico in campo legislativo (id). In questo contesto, l’assunzione ed il mantenimento di una prospettiva interdisciplinare a carattere bio-psico-sociale può permettere una miglior esplorazione e comprensione dei significati sottesi a questi temi. Note 1. “La selva degli uomini” del titolo allude emblematicamente al paesaggio tratteggiato da Dante nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno dove sono collocati coloro che avevano avuto “in sé mano violenta”. 2. Psichiatra, ha partecipato al Corso di perfezionamento in Antropologia Medica presso Università degli Studi di Milano-Bicocca, durante l’a.a. 2007-2008. 3. Traduzione mia. 4. Vedi a tal proposito Berlincioni (2002), Bruno (2008). 5. Interpretazioni analoghe sono state date a proposito di altre sindromi culturalmente determinate: per alcuni autori l’amok è da leggere in senso eminentemente politico, come un modo nazionale e onorevole di commettere l’atto suicidario, diventando la strategia più estrema di riparazione a una ferita narcisistica che coinvolge l’intera società (Beneduce 2007). 6. Questo caso clinico è stato presentato, con qualche variante, nel corso del congresso “Le bébé, l’enfant, l’adolescent et les langues”, Bobigny, 12-13 dicembre 2008 (Atti in corso di pubblicazione). I nomi e gli elementi non fondamentali alla comprensione del caso sono stati variati per ragioni deontologiche. 7. Sul tema dell’adozione e dell’attacco al corpo cfr. Bruno 2007. 51 ACHAB Bibliografia Barbagli M. (2009), Congedarsi dal mondo. Il suicidio in occidente e in oriente, Il Mulino, Bologna Bateson G. (1936), Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi, Torino, 1988 Beneduce R. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura. Carocci, Roma Berlincioni Petrella V. (2002), “Etnopsichiatria, etnopsicoanalisi: problemi vecchi e nuovi”, Quaderni de gli Argonauti, 4. Berlincioni V. (2001), “Gestione culturale dell’identità: le mutilazioni genitali”, Gli Argonauti, n 83, anno XXI Bruno D. 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Non è dunque un caso che Al Gore, vincitore del Premio Nobel 2007 per la Pace, nel suo libro e relativo film Una scomoda verità (a metà strada tra il saggio ed il pamphlet politico) citi tale crisi ambientale come esempio emblematico di un uso non sostenibile delle risorse idriche (Gore 2006); il disseccamento dell’Aral è inoltre ampiamente utilizzato in ambito educativo, sia italiano che internazionale, come caso paradigmatico di uno squilibrato rapporto uomo-ambiente (Piastra 2008a). Il contributo in oggetto, dopo aver accennato alle cause di innesco e agli sviluppi di quello che nella bibliografia viene frequentemente menzionato come il più grave disastro ecologico del XX secolo (Feshbach, Friendly 1992), frutto di una pianificazione dissennata ai tempi dell’Unione Sovietica, intende focalizzarsi sull’impatto psicologico e sugli aspetti percettivi di tale processo. In particolare, limitandoci qui al solo caso italiano, sarà analizzata la macroscopica contraddizione legata alle odierne rappresentazioni cartografiche dell’Asia centrale, dove non vi è quasi mai traccia della regressione del lago, e verranno successivamente presi in esame alcuni articoli giornalistici, racconti di viaggio e opere artistiche e letterarie dedicati a questo fenomeno, distinguendo tra realtà scientifica e trasfigurazioni in chiave simbolica: presso larghi strati dell’opinione pubblica, la crisi dell’Aral è infatti stata assurta al rango di ammonimento circa il futuro del pianeta, qualora non si adotti concretamente, a livello globale, una prospettiva di sviluppo sostenibile. Il presente lavoro si inserisce in un filone di studi ormai consolidato, legato alla percezione delle tematiche ambientali e geografiche (Corna Pellegrini 1985; Milani 2005); dal punto di vista delle fonti utilizzate, alla tradizionale bibliografia cartacea sono state affiancate ricerche su internet, in quanto importante strumento di divulgazione, pubblicazione e dibattito circa questo argomento. La crisi ambientale del lago d’Aral Il lago d’Aral ha conosciuto negli ultimi decenni un disseccamento drammatico di cui si sono occupati i media di tutto il mondo. L’origine di tale disastro va collocata storicamente negli anni ’50 del Novecento, quando l’URSS, sotto la guida di Nikita Krusciov, cercò di potenziare la coltivazione del cotone nelle steppe centroasiatiche, con l’obiettivo dichiarato di raggiungere l’autosufficienza riguardo ad esso e di diventarne il primo produttore mondiale, sorpassando gli USA. I nuovi campi coltivati a cotone furono irrigati derivando, tramite canali, enormi quantità di acqua dall’Amu-Darya e dal Syr-Darya, i due fiumi del bacino endoreico dell’Aral. Fig. 1 – Il progressivo disseccamento del lago d’Aral (da Micklin 2007). La produzione cotoniera aumentò sensibilmente, ma il rovescio della medaglia di questi interventi fu che il lago iniziò progressivamente ed inesorabilmente a disseccarsi. I due immissari, depauperati dai prelievi idrici, non erano infatti in grado di bilanciare le acque perse per evaporazione. A partire dagli anni ’60 del Novecento l’Aral ha quindi sperimentato la più rapida fase di regressione della sua storia, abbassando il proprio livello di oltre 20 metri e riducendo la propria superficie di circa il 75% ed il proprio volume di circa il 90% (fig. 1). Questo processo, a lungo tenuto nascosto dall’URSS, è stato talmente intenso che nel 1989-1990 l’Aral si è frazionato in due distinti corpi d’acqua: il piccolo Aral (detto anche Aral del nord), alimentato dal Syr-Darya ed interamente in territorio kazako, ed il grande Aral (detto anche Aral del sud), 53 ACHAB alimentato dall’Amu-Darya e diviso tra Kazakistan ed Uzbekistan, a quel tempo ancora ricompresi all’interno dell’Unione Sovietica. Tale disseccamento ha provocato uno dei più gravi (e dimenticati) disastri ambientali del Novecento (Lètolle, Mainguet 1996; Glantz 1999; Micklin 2007). Conseguentemente alla riduzione del livello delle acque è esponenzialmente aumentata la salinità, passata dagli originari 10 g/l ai 160 g/l attualmente riscontrabili in aree ben specifiche, trasformando buona parte del lago da bacino salmastro a bacino iperalino. Quest’ultimo fatto ha avuto gravissime ripercussioni sul piano ecologico, provocando dapprima la scomparsa totale dell’ittiofauna locale, sostituita da specie esotiche introdotte dall’uomo; in seguito un drastico calo anche di queste ultime. L’economia e la cultura della zona, basate sulla pesca, sono state così cancellate nell’arco di pochi decenni: i pescherecci che oggi arrugginiscono arenati sulle sabbie laddove un tempo si estendeva l’Aral sono diventati l’emblema di questa crisi ambientale (fig. 2) (Cencini, Piastra 2008). La riduzione della superficie del lago ha inoltre causato cambiamenti climatici a scala regionale: venuta meno l’azione mitigatrice della massa idrica, il clima ha visto cioè un accentuarsi del suo carattere continentale, sperimentando estati più calde e secche ed inverni più freddi. Ma non è tutto. Laddove l’Aral si è ritirato, l’antico fondale, caratterizzato da depositi salini e da sostanze inquinanti raccolte dai fiumi del bacino lungo il loro corso (metalli pesanti, fertilizzanti, pesticidi, ecc.), è ora esposto ai venti, con gravi ripercussioni sull’ecosistema e sulla salute della popolazione locale. Nel cosiddetto Priaralye, la regione che si affaccia conflittuale delle acque del bacino da parte delle neonate repubbliche centro-asiatiche ( K a z a k i s t a n , Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan). Nonostante il quadro generale appena esposto, negli ultimi decenni si sono moltiplicati progetti ed interventi, soprattutto ad opera di enti internazionali (UNEP, UNDP, Banca Mondiale), finalizzati al ripristino di alcune aree (Piastra 2008b). Ma se il piccolo Fig. 3 – Stralcio cartografico relativo al lago d’Aral dall’Atlante Geografico De Agostini, Aral, interamente in edizione 2008. L’Aral è rappresentato ai livelli territorio kazako, da più degli anni ’50 del Novecento, di un decennio appare precedentemente cioè all’innesco della fase avviato verso una regressiva odierna: il più grave disastro ambientale del XX secolo è di fatto gestione sostenibile delle completamente ignorato. Il centro di Moynaq acque del suo bacino e ha (nella carta indicato come Mujnak, seguendo conosciuto una rinascita la dizione russa), in Uzbekistan, appare del comparto locale della affacciato sul lago, mentre oggi è in realtà posto a circa 40 km dalle sue sponde. pesca, nel caso del grande Aral l’assenza di serie politiche rivolte alla sua salvaguardia ne fanno prevedere agli studiosi, nel giro di pochi decenni, un disseccamento totale. L’“inganno cartografico” Sebbene la crisi ambientale del lago d’Aral possa essere a buon diritto considerata, come detto, una delle più gravi catastrofi ecologiche del Novecento, ciononostante, almeno nella maggioranza dei casi, essa non è stata recepita dalla produzione cartografica italiana. In altre parole, anche se il volume del nostro corpo idrico negli ultimi 40 anni si è ridotto del 90%, le carte regionali e i planisferi continuano tuttora a rappresentare l’Aral ai livelli degli anni ’50 del Novecento, precedentemente cioè al programma di potenziamento del cotone in Asia centrale voluto da Krusciov e all’innesco della fase regressiva odierna. Sulla base di una pluralità di fattori, quali le poche informazioni in Occidente circa l’Asia centrale post-sovietica, le difficoltà, limitatamente alla toponomastica, connesse alla situazione linguistica (il russo è stato repentinamente sostituito come lingua ufficiale dagli idiomi centro-asiatici; questi ultimi, in alcuni casi, sono nel frattempo passati per la scrittura dall’alfabeto cirillico a quello latino), oppure ancora l’assenza, in questi Paesi, di enti cartografici dagli standard occidentali, e sulla scia del diffuso quanto errato convincimento dell’immutabilità di alcuni aspetti fisici (idrografia, orografia, ecc.), quasi tutti gli atlanti geografici Fig. 2 – Il cimitero delle navi di Moynaq (Uzbekistan), un tempo principale porto dell’Aral (foto S. Piastra, maggio 2007). sull’Aral, la falda acquifera, pesantemente contaminata e non più utilizzabile a fini potabili, si è abbassata, contribuendo alla salinizzazione dei suoli ed alla desertificazione. La gravità della situazione è stata nel frattempo ulteriormente peggiorata dall’implosione dell’URSS (1991), che ha portato ad una instabilità geopolitica a livello regionale e ad una gestione 54 ACHAB italiani, i globi, i libri di testo scolastici mostrano una cartografia non aggiornata, cristallizzata alla situazione di 50 anni fa. È il caso ad esempio dell’Atlante Geografico De Agostini nelle sue ultime edizioni sino a quella più recente (2008) (fig. 3), oppure del Calendario Atlante che esce annualmente per la stessa casa editrice (e che quindi più di ogni altro dovrebbe essere aggiornato). Quella che a prima vista potrebbe apparire come una svista di poco conto, in realtà è un fatto grave, in quanto nega completamente, in sede di rappresentazione, il dramma vissuto dalla popolazione locale negli ultimi decenni. Si tratta di uno di quegli “inganni” o “violenze cartografiche” su cui si è soffermato F. Farinelli (Farinelli 2003, pp. 78-79): la cartografia, in questo come in altri casi, mostra cioè apertamente il suo carattere soggettivo, e non oggettivo come siamo solitamente abituati a pensare. La “negazione cartografica” del disseccamento dell’Aral presenta inoltre importanti implicazioni nel campo della divulgazione della regressione del lago, in quanto un discreto numero di persone che potrebbero sapere del disastro ambientale dalla cartografia, proprio da quest’ultima ne vengono tenute all’oscuro. In altre parole, in questo caso le carte vengono completamente meno alla loro funzione di medium della conoscenza, facendo anzi passare come esatte informazioni in realtà sbagliate. Moynaq (Uzbekistan), un tempo principale porto sull’Aral. La trattazione di Cecchi è emozionale, e insiste sull’aspetto lunare dell’ex fondale lacustre ora esposto ai venti, sulla desolazione e, di riflesso, sul senso di angoscia che deriva dalla visione del disastro ambientale (Cecchi 2005, pp. 287-308). Sullo sfondo, si staglia la politica ambientale dell’URSS incardinata su uno sfruttamento scriteriato delle risorse naturali, considerate all’epoca virtualmente illimitate: il disseccamento dell’Aral costituisce forse la conseguenza forse più eclatante di tale avventata politica. Ultimo in ordine di tempo, Duilio Giammaria ha dedicato un volume alla sua esperienza di inviato giornalistico in Asia centrale. Il capitolo sull’Aral (Giammaria 2007, pp. 6-66) è dichiaratamente scritto con piglio da romanzo d’avventura; il suo limite principale è costituito dallo scollamento temporale tra la pubblicazione del libro (2007) e la narrazione, che fotografa la situazione ai primi anni ’90 del Novecento: molti dati risultano oggi completamente inattendibili, a partire dai timori relativi all’ex isola di Vozrozhdeniye, sede di una base sovietica per la sperimentazione delle armi batteriologiche, attualmente bonificata e monitorata. In tutti i casi qui analizzati, la crisi ambientale dell’Aral è implicitamente tratteggiata come una sorta di monito per le generazioni future, affinché non ripetano gli errori del passato. Sullo sfondo, sono ben presenti le incertezze e le grandi contraddizioni nate dalla disgregazione dell’Unione Sovietica. Solo Ettore Mo, sebbene a sproposito, accenna ai buoni risultati ottenuti dagli interventi di ripristino ecologico messi in atto nel piccolo Aral. Gli articoli giornalistici e i racconti di viaggio I pezzi giornalistici e la letteratura di viaggio, oggetto di una diffusione più ampia rispetto alla bibliografia scientifica, possono contribuire notevolmente a divulgare un determinato tema presso la popolazione; allo stesso tempo però, la qualità dell’informazione fornita al lettore dipende direttamente dal controllo critico operato dall’autore sulle proprie fonti, dal metodo più o meno scientifico adottato, dalla capacità di accedere alla letteratura internazionale. Un taglio sensazionalistico o iperbolico può inoltre concorrere a radicare nel pubblico opinioni errate o distorte. Nel caso del disseccamento del lago d’Aral, un problema comune a tutta quanta la pubblicistica dedicata all’argomento riguarda il fatto che vengono spesso diffusi come attuali dati o situazioni riscontrati dai vari inviati nel corso dei propri viaggi, ma che ormai appartengono al passato. Del resto, la regressione del lago è un fenomeno ad evoluzione estremamente rapida, soggetto a notevoli variazioni nell’arco anche di un solo anno: ogni affermazione in proposito necessiterebbe dunque di un controllo rigoroso. Accade così che Ettore Mo, autore nel 2006 di un reportage sull’Aral per il Corriere della Sera, avanzi l’ipotesi che i progetti di ripristino ambientale intrapresi nel piccolo Aral possano avere ripercussioni positive sul grande Aral, quando invece i due corpi idrici sono totalmente indipendenti l’uno dall’altro (Mo 2006). Riguardo ai racconti di viaggio, mentre Tiziano Terzani fa solo un brevissimo accenno alla crisi ambientale del lago (in quegli anni poco nota in Occidente) (Terzani 1992, p. 233), Umberto Cecchi dedica un intero capitolo del suo libro al cimitero di barche di Le guide turistiche I testi che forse più di altri contribuiscono alla formazione di un immaginario collettivo in riferimento a un territorio estero vanno ricercati nelle guide turistiche. La guida più diffusa al mondo relativa all’Asia centrale va individuata con certezza in quella della casa editrice australiana Lonely Planet. Nel testo, alla crisi dell’Aral sono dedicati alcuni paragrafi specifici, con informazioni puntuali (Mayhew et al. 2005, pp. 77-79); l’apparato cartografico risulta aggiornato, mostrando la bipartizione tra piccolo e grande Aral e l’avvenuta saldatura alla terraferma, in seguito alla regressione delle acque, da parte dell’ex isola (attualmente penisola) di Vozrozhdeniye (Mayhew et al. 2005, pp. 4, 95, 180, 245). Ulteriore pregio, la guida delinea correttamente le situazioni antitetiche odierne del piccolo e del grande Aral: nel primo, in Kazakistan, il quadro è notevolmente migliorato negli ultimi anni (Mayhew et al. 2005, p. 143); nel secondo, diviso tra Kazakistan e Uzbekistan, la situazione continua a peggiorare (Mayhew et al. 2005, p. 257) Nel complesso, la trattazione della guida Lonely Planet offre un’informazione obiettiva, chiaro frutto di riscontri autoptici, senza incoraggiare il cosiddetto Dark (o Black) Tourism (turismo “estremo” collegato a guerre, disastri, ecc.) e non nascondendo i seri problemi logistici di un viaggio di questo tipo. 55 ACHAB Le rappresentazioni artistiche e letterarie Chernobyl, esso è inoltre diventato il simbolo di uno sbilanciato L’odierna fase regressiva dell’Aral ha attirato l’attenzione di approccio tecnocratico alle risorse naturali, tipico dell’allora scrittori ed artisti, che lo hanno scelto come sfondo della propria URSS. produzione. In ambito italiano, se alcune guide turistiche (in primis quella qui Ciò che oggi resta del lago d’Aral può dunque essere annoverato analizzata della Lonely Planet) si sforzano nel dare tra i cosiddetti luoghi letterari (Anselmi, Ruozzi 2003; Dossena un’informazione obiettiva riguardo alla regressione del lago, nei 2003), siti in cui è cioè possibile comparare la situazione reale con reportage giornalistici così come nei racconti di viaggio, tutti la sua trasposizione letteraria. dedicati al grande Aral, prevalgono un'informazione incompleta e Si svolge tra Moynaq e l’isola di Vozrozhdeniye il nucleo una suggestione “nera” legata al disastro ambientale; in aggiunta principale del romanzo L’anatra dalla testa bianca di G. Brayda a ciò, non sono quasi mai riportate le positive esperienze di (Brayda 2004). Si tratta di un Ecothriller, all’interno del quale si ripristino ecologico effettuate in territorio kazako nel piccolo Aral. intrecciano le vicende di terroristi In molti casi, tale pubblicistica alla ricerca di armi batteriologiche e risulta attardata su vecchi dati, di ricercatori e tecnici impegnati in palesando ad esempio di ignorare progetti di ripristino ambientale nel come, pur permanendo una delta dell’Amu-Darya (di qui il situazione critica, la fase più acuta titolo, connesso a un uccello relativa all’emergenza sanitaria sia migratore a rischio ancora attestato ormai alle spalle: anche nel nel delta fluviale). La narrazione di Karakalpakstan, Repubblica Brayda indugia notevolmente sul Autonoma ricompresa all’interno pericolo antrace collegato all’ex dell’Uzbekistan e affacciata sul centro di ricerca sovietico di grande Aral, a partire dagli anni ’90 Vozrozhdeniye. del Novecento i tassi di mortalità E. Burlini ha ambientato nella infantile, che a metà degli anni ’80 Moynaq odierna il suo racconto dello stesso secolo avevano Come un soffio (Burlini 2006), raggiunto un picco assimilabile a spronando il lettore, nelle righe valori tipici dell’Africa subconclusive, a documentarsi circa la sahariana, hanno iniziato a scendere tragedia dell’Aral. F. Maccioni ha (Cencini, Piastra c.s.). invece elaborato un racconto La stessa trasfigurazione futuribile, che ha luogo nel 2036 Fig. 4 – Il mare della morte, albo a fumetti della serie horror Dampyr “apocalittica” della crisi dell’Aral è ambientato sul lago d’Aral (da Boselli 2002). quando ormai il lago d’Aral si è ben presente anche nelle completamente disseccato ed al suo posto si è formato un nuovo ambientazioni di alcuni racconti, romanzi e fumetti: il lago deserto di sale, l’Aralkum (in uzbeko, letteralmente “il deserto disseccato, le barche in secca, i villaggi semiabbandonati sulle dell’Aral”) (Maccioni 2008). rive, sono cioè percepiti come la location ideale in cui ambientare Da ultimo, Moynaq e l’isola di Vozrozhdeniye fanno da sfondo a storie post-moderne o horror. un episodio della collana di fumetti horror Dampyr (Boselli 2002) L’aspetto forse più sorprendente relativo alla percezione in Italia di (fig. 4). questo disastro ecologico consiste però nella sua mancata In tutti e quattro i casi qui presi in esame, l’Aral è trasfigurato nel rappresentazione nella cartografia, sia negli atlanti che nei libri di luogo, per antonomasia, dell’inquietudine, della solitudine, della testo scolastici, dove le carte dell’Asia centrale mostrano una desolazione. situazione vecchia di più di 40 anni, precedente all’innesco della regressione del lago. Tale constatazione va ricondotta in parte alla Conclusioni poca informazione circa le repubbliche centro-asiatiche, in parte a La crisi ambientale del lago d’Aral, accanto al filone della ricerca superficialità, ma forse ancor di più all’errata convinzione che gli scientifica, mostra ormai anche una dimensione psicologica e elementi di geografia fisica di un territorio (le montagne, i culturale. In Italia, come anche a livello internazionale (cf. ad ghiacciai, i fiumi, i laghi, ecc.) siano qualcosa di fisso e esempio Sinoué 2001; Kapuscinski 2007, pp. 214-222), il immutabile. disseccamento del corpo idrico è stato infatti assurto a emblema di uno sviluppo non sostenibile; accanto al disastro nucleare di E-mail [email protected] 56 ACHAB Bibliografia ANSELMI G.M., RUOZZI G. 2003, Luoghi della letteratura italiana, Mondadori, Milano. BOSELLIM. (a cura di) 2002, Dampyr. Il mare della morte, n. 31, Sergio Bonelli Editore, Milano. 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Il presente articolo pretende riflettere sulla postura reattiva assunta di fronte a questi episodi da molti sacerdoti e sacerdotesse dei culti afro-brasiliani, dal povo de santo [insieme dei fedeli delle religioni afro-brasiliane], dai ricercatori e dal movimento negro brasiliano.** A despeito dos argumentos carregados de pré-noções acerca das manifestações culturais dos “africanos no Brasil” (título do conhecido livro de Nina Rodrigues), que foram sendo construídas ao longo da história brasileira, particularmente das estruturas religiosas que vieram juntamente com os corpos dos homens e mulheres reclusos nos porões das naus estrangeiras, catapultadas pelos ventos do “progresso” rumo a construção da sociedade contemporânea que hoje conhecemos, podemos afirmar que tais estruturas cheias de sentido, a partir do aparato mítico-religioso encontrado nos terreiros onde brota a religiosidade afro-brasileira bem como em suas comunidades, foram fundamentais para o adensamento da cultura brasileira. As matrizes africanas encontradas no bojo das religiões afrobrasileiras puderam ser observadas e estudadas a partir da primeira viagem realizada por Roger Bastide em 1944 ao Nordeste brasileiro, conforme se evidencia em seu livro Imagens do Nordeste Místico em Branco e Preto [1945], que segundo as afirmações do autor é o local “onde sopra o espírito”. Expressando-se a partir de um texto que faz a apresentação da utopia africana de Roger Bastide em seu livro O Candomblé da Bahia: rito nagô, Fernanda Arêas Peixoto diz que “a “opéra fabulosa” das danças, a linguagem gestual e a marcação rítmica expressam a “complexidade da alma”, que as metamorfoses do corpo e da personalidade evidenciam. O que está em jogo nessa dramaturgia particular é uma concepção alargada do “ser”, que rejeita a concepção kantiana de que não existiram estágios intermediários entre o “ser” e o “nada””. (BASTIDE, 2001: 12). Desta feita as religiões afro-brasileiras disseminadas nas capitais, pequenas cidades, interiores, lugarejos desconhecidos de nosso país puderam incorporar-se as dobras e ranhuras que compõem o denso tecido da cultura brasileira, feito de pequenos eventos cotidianos que vislumbram a grandeza do espírito humano no momento em que a relação homem/sagrado se estabelece pela presença do encantado, vodum, caboclo, preto-velho, erê, orixá, muito próximo do filho ou filha de santo que concebe sua presença emprestando seu corpo a cosmogonia de origem. A dimensão que a prática mítico-religiosa possui no interior dos terreiros da religião afro-brasileira pode ser entendida pelo olhar mais aguçado para dentro da cultura brasileira, na qual poderemos ver o papel do negro(a) na trama que é vivida diariamente, ou através do entendimento que possuímos da noção de patrimônio. Muniz Sodré ao fazer a análise das relações existentes entre brancos e negros, dando ênfase ao direcionamento dos descendentes de escravos afirma que “O patrimônio simbólico do negro brasileiro (a memória cultural da África) afirmou-se aqui como território político-míticoreligioso, para a sua transmissão e preservação. Perdida a antiga dimensão do poder guerreiro, ficou para os membros de uma civilização desprovida de território físico a possibilidade de se “reterritorializar” na diáspora através de um patrimônio simbólico consubstanciado no saber vinculado ao culto dos muitos deuses, à institucionalização das festas, das dramatizações dançadas e das formas musicais. É o egbé, a comunidade litúrgica, o terreiro, que aparece na primeira metade do século dezenove (...) como a base físico-cultural dessa patrimonialização. (...) “Os terreiros podem dizer-se de candomblé, Xangô, pajelança, jurema catimbó, tambor de mina, umbanda ou qualquer que seja o nome assumido pelos cultos negros em sua distribuição pelo espaço físico brasileiro.”. (SODRÉ, 1988: 50-51). É importante frisar que Sodré ao mencionar a solidariedade existente entre os negros cativos, durante o suplício que se tornou a passagem do Atlântico para as terras brasileiras, e o intercâmbio encontrado por aqueles que conseguiram fazer a perigosa e dramática travessia, hoje alocados por seus descendentes nos terreiros tradicionais da Bahia, abre espaço para nossa reflexão acerca da compreensão que deverá ser apreendida pelos negros(as) brasileiros(as) a respeito da cultura que agora fazem 58 ACHAB Nosso pensamento acostumado a conceber tão somente estruturas lógicas a partir do ponto em que estamos situados, considerando também o foco de nosso olhar (quase sempre treinado a não enxergar as particularidades dos processos culturais, detendo-se apenas nas generalidades) é pego na rede da perplexidade ao enxergar os orixás, voduns, inquices ou outras entidades do panteão que funda a religiosidade afro-brasileira, em suas diversas matizes, concebidos aquém das manifestações religiosas; são suportes simbólicos que oferecem sentido a condução das regras de trocas sociais para o povo de santo. São as regras das trocas sociais estabelecidas internamente a partir da hierarquia assentada em cada terreiro, por intermédio das ações cotidianas da yalorixá2 ou babalorixá3, declinando até o mais jovem neófito e, irradiando-se pela comunidade de pessoas que circulam no entorno do local onde está “plantado” o axé4, que revitaliza a relação entre divindades e nossa condição humana. parte, considerando que a matriz da cultura brasileira possui muitos elementos simbólicos ou materiais que reafirmam esse entendimento. Os argumentos acerca da travessia feita pelas centenas de milhares de negros e negras do continente africano para o chamado “novo mundo”, nos leva diretamente a mencionar o fundamental trabalho de Paul Gilroy intitulado O Atlântico negro: modernidade e dupla consciência, no qual o autor estabelece as matrizes fundantes de seu pensamento abordando um fragmento no interior da complexidade existente na conjunção histórica vivida. Nela o autor lança luz “...as formas culturais estereofônicas, bilíngües ou bifocais originadas pelos – mas não mais propriedade exclusiva dos – negros dispersos nas estruturas de sentimento, produção, comunicação e memória, a que tenho chamado heuristicamente mundo atlântico negro”. (GILROY, 2001: 35 [49 ed. It.]). O mundo atlântico negro construído por Gilroy possui a sutileza de transparecer o sentido do movimento dado pela densidade líquida dos mares por onde as naus com sua preciosa carga deram continuidade ao suplício humano. Para o autor “A imagem do navio – um sistema vivo, microcultural e micropolítico em movimento é particularmente importante por razões históricas (...) Os navios imediatamente concentram a atenção na Middle Passage [passagem do meio]1, nos vários projetos de retorno redentor para uma terra natal africana, na circulação de idéias e ativistas, bem como no movimento de artefatos culturais e políticos chaves: panfletos, livros, registros fonográficos e coros” (idem, pg. 38 [51 ed. It.]). É lícito pensar que as religiões afro-brasileiras já reúnem as objetivas condições para que possam ser compreendidas por todos(as) aqueles(as) que a freqüentam, não apenas como o lócus privilegiado onde seus filhos e filhas irão em busca tão somente do conforto espiritual, simbolismo que será automaticamente revertido nas condições concretas de sua existência, mas enquanto construção histórica e cultural à qual por intermédio do sentido de pertencimento ao grupo criador das concepções acerca de uma determinada condição de ver e agir no mundo, oferece a seus adeptos e simpatizantes o equilíbrio de quem pode ser a parte, porém dinamicamente em sintonia com o todo. Tal equilíbrio somente poderá ser conquistado através da permanência de nossas divindades na polifonia entre universo simbólico (religioso) e aquele pertencente ao mundo material. Sodré argumenta que Caminhada Contra a Intolerância Religiosa na cidade de Salvador/BA apresentada no dia 21 janeiro de 2009, Dia nacional de combate à intolerância religiosa. A Tarde on line. Fernando Vivas. Assim podemos perceber que a comunidade-terreiro ganha uma dimensão fundamental para o conjunto dos filhos de santo ou aqueles que não o são, justamente pela cosmovisão que é estruturada através dos suportes simbólicos que lhe dão sustentação. Esta concepção do mundo concreto aliado a contra parte simbólica, mítica, vai delineando contornos diferenciados e definidos muito mais pelas relações mantidas no interior do terreiro, simultaneamente irradiadas para a comunidade, que afetam seu cotidiano, do que as relações que são determinadas pelas regras dadas na sociedade abrangente, estas distanciadas dos conteúdos míticos proporcionados pelo sentimento de pertença a uma comunidade que cunhou sua história a partir do conhecimento ancestral. Tal conhecimento penetrou fortemente nas fundações da cultura brasileira oferecendo um resultado nada convencional no que se refere às representações simbólicas, materiais que seu povo elaborou, contrariando as projeções feitas pelas nações européias que colonizaram este país bem como aqueles que apostaram no mito da degradação cultural, primeiramente dos africanos e, posteriormente de seus descendentes. A despeito daqueles que fizeram deste mito sua “Fatos dessa ordem são importantes para a compreensão da cultura negro-brasileira, porque demonstram que os orixás ou os voduns ou os inquices (bantos) não são entidades apenas religiosas, mas principalmente suportes simbólicos – isto é, condutores de regras de trocas sociais – para a continuidade de um grupo determinado. “Zelar” por um orixá, ou seja, cultuá-lo nos termos da tradição, implica aderir a um sistema de pensamento, uma filosofia, capaz de responder a questões essenciais sobre o sentido da existência do grupo”. (1988: 55). 59 ACHAB razão de existir no novo continente “...foi o negro quem viu/a crueldade bem de frente/e ainda produziu milagres/de fé no extremo ocidente...” [Milagres do Povo, Caetano Veloso]. Acompanhando pari passu o desenvolvimento da cultura brasileira é possível perceber o movimento de estruturação e fixação da religião afro-brasileira no Brasil. Sob diversas denominações que lhe foram dadas, considerando o conjunto de nações africanas que para cá vieram, hoje é possível perceber a rica gama de manifestações desta religiosidade em nosso país, afirmando a força das ritualísticas, cantos, musicalidade, vestimentas, comida votiva que foi transformada em alimentação profana e muito apreciada por todos (a culinária baiana, por exemplo, possui sua base construída na “comida de santo”, preparada para receber em festa as divindades do panteão negro, na reciprocidade do receber, dar, retribuir) [Mauss]. Desde os tempos mais remotos em que foram instalados os terreiros tradicionais sejam de candomblé, umbanda, tambor de mina, batuque, xangô, até nosso complexo e virtual tempo globalizado, os terreiros da religião afro-brasileira adquiriram visibilidade e respeito em todas as instâncias da vida citadina de nosso país, apesar das manifestações de intolerância e truculência que ainda assistimos nas relações sociais cotidianas que são travadas por pessoas e instituições que desconhecem os amálgamas encontrados em nossa cultura a partir da presença do negro no interior de sua construção mítica, religiosa, simbólica, a qual oferece sustentação para o modus vivendi aqui “plantado”. Focalizando nosso olhar para o interior dos terreiros, encontraremos uma sociedade hierarquicamente construída cujo funcionamento acopla as orientações do universo mítico-religioso e aquelas determinações sociais que estabelecem as regras e normas que deverão ser executadas coletivamente no espaço sócio-sagrado. Começando pelos neófitos na religião cujo caminhar nas dependências do ilê5 apresenta-se inseguro, quase sempre temeroso em cometer qualquer atitude desabonadora diante dos filhos de santo mais velhos, passando por estes que já tendo um certo “traquejo” frente às formalidades que fazem o cotidiano desta religião, podem a partir do ponto onde estão situados negociar certas regalias com aqueles que ocupam cargos mais elevados, sem com isso subverter a hierarquia estabelecida, até chegarmos às sacerdotisas e sacerdotes que ocupam os altos postos no terreiro, na qual sua sabedoria e conhecimento nas “coisas do santo” devem atuar no sentido de agregar a comunidade interna e externa que circunda aquelas dependências religiosas, dirimindo os conflitos que possam existir e potencializando o axé plantado para sua expansão intra e extramuros. Se por um lado as hierarquias forçam os membros do terreiro a postarem-se de uma determinada maneira no cotidiano sóciosagrado ali instaurado, desempenhando seus papéis com a máxima atenção para que a concepção de mundo afro-brasileira possa concretizar-se, por outro lado os seres sociais que ali estão desempenham papéis dinâmicos de cunho ideológico, político na sociedade abrangente, muito embora não os definamos com estas categorias, dentro do barracão, apesar de estarem implícitas. Quase sempre encontraremos nos filhos de santo deste ou daquele terreiro a qualidade de um(a) ativista do movimento social, dirigente sindical, professor(a), vendedor(a) de doces, e afins, papéis que são desempenhados na tessitura social. Esta interposição de papéis sociais encontrada com freqüência em nosso cotidiano, muitas vezes encobre os componentes dinâmicos que os estruturam, oferecendo ao adepto(a) da religiosidade afrobrasileira a condição de manutenção daquilo que George Marcus define como a reflexividade essencial por ser “...uma característica integrante de qualquer discurso” (MARCUS, 1994: 18) por ser uma parte inerente ao uso da linguagem. No entanto o que mais interessa ao autor é justamente a dimensão da reflexividade ideológica, aquela que é usada para determinados fins políticos bem definidos. Embora Marcus esteja referindo-se, em parte, aos tipos de reflexividade encontrados na antropologia, após o surgimento do pós-modernismo ter influenciado as ciências sociais, acredito que seja possível operarmos estas categorias no ambiente social da religiosidade afro-brasileira. Os eternos “sujeitos” pesquisados por diferentes categorias de cientistas sociais, até bem pouco tempo considerados “objetos” de estudo, receptáculos de um conhecimento que não seria partilhado em igualdade de condições com o “outro”, informante privilegiado do pesquisador profissional, este, ávido em recolher os “dados” que pudessem tornar mais conhecido as concepções acerca do mundo construído por aquele, sua estrutura social, religiosa, a manutenção de suas festas e afins, dedicaram-se a construir seu conhecimento, sua sabedoria, no universo próprio da religiosidade à qual foram iniciados, na maior parte das vezes ocupando-se das inúmeras tarefas reservadas a eles dentro do terreiro, considerando o grau de importância que é conferido ao cargo ocupado. Um diminuto grupo de sacerdotes e sacerdotisas postados nos ilês de algumas capitais brasileiras, principalmente aqueles mais próximos dos grandes centros, conseguem conciliar as atividades intramuros dos terreiros com aquelas voltadas para o aperfeiçoamento das práticas sócio-religiosas pertinentes ao conjunto de iniciação comum, pertencentes a mesma matriz. Situação diferente pode ser constatada junto aos terreiros que possuem suas casas nas cidades periféricas aos grandes centros urbanos. Por haver maior dificuldade para a locomoção, além da escassa comunicação destes com outros sacerdotes e sacerdotisas, pela do acesso à comunicação pela internet, criando assim redes construídas com a finalidade de amplificar a interlocução, constatamos que este grupo de sacerdotes e sacerdotisas pouco usufruem dos canais de comunicação hoje existentes. As duas situações apresentadas nas quais encontram-se inseridos sacerdotes e sacerdotisas, povo de santo, evidenciam a relação abismal estabelecida no universo da religião afro-brasileira, cuja implicação terá seu rebatimento nas dificuldades relacionadas com a capacidade de mobilização visando a resolução de problemas comuns, principalmente aqueles voltados para a relação externa entre o terreiro e a sociedade abrangente. Optei aqui por partir do geral para chegar ao particular no enfoque da relação existente entre os terreiros da religiosidade afro-brasileira e as instituições da sociedade civil brasileira. 60 ACHAB Dentre os problemas visualizados entre os terreiros e a sociedade abrangente podemos destacar aquele que tem colocado sacerdotes “A perspectiva dualista, a interpretação bíblica que hipertrofia a e sacerdotisas, povo de santo numa situação de superação relação agonística entre Deus e diabo e a defesa contumaz do permanente: nos últimos anos o Brasil tem presenciado o resgate e da difusão de crenças e práticas do cristianismo recrudescimento das ações de acirramento proporcionadas pelas primitivo, em especial das práticas mágicas e taumatúrgicas religiões neopentecostais contra aquelas de matriz africana ou identificadas com o ministério terreno de Cristo, constituem as afro-brasileiras. Conforme afirma SILVA “os casos de principais razões e justificativas pentecostais para: 1) disseminar intolerância, antes apenas episódicos e sem grandes a crença na ação e no poder maléficos do diabo e dos demônios repercussões, hoje se avolumaram e saíram da esfera das sobre a humanidade; 2) realizar rituais exorcistas; 3) evangelizar relações cotidianas menos visíveis para ganhar visibilidade tendo como foco a missão concomitantemente conversionista e pública, conforme atestam as freqüentes notícias de jornais que salvacionista e de combate às forças demoníacas e a seus agentes os registram em inúmeros pontos do Brasil.” (2007: 10). A e representantes terrenos. Em suas doutrinas, tais missões são visibilidade pública das ações belicosas contra a religião afro- indissociáveis”. (2007: 129-130). brasileira tem instaurado um clima de intranqüilidade, medo, desespero da parte de vários sacerdotes e sacerdotisas que já Assim a justificativa que oferece sentido aos ataques foram (ou serão) alvo das atrocidades cometidas por conta proporcionados pelas religiões neopentecostais, cujo fundamento daqueles que almejam tão somente a existência de uma única encontra-se estruturado em teorias facilmente apreendidas pelos maneira do homem relacionar-se fiéis freqüentadores das igrejas e com o sagrado, evitando por locais de culto, também vão todos os lados o surgimento do deslocar-se para um terreno contraditório. A justificativa que propício em se tratando da oferece sentido aos ataques sociedade civil brasileira. Cabe efetuados pelas religiões certamente uma explicação a neopentecostais estão baseadas esta afirmação. Por mais que numa “...teologia assentada na estejamos hoje vivendo sob os idéia de que a causa de grande ventos da “democracia”, sem a parte dos males deste mundo presença coercitiva dos regimes pode ser atribuída à presença do totalitários, quer do ponto de demônio, que geralmente é vista político e sócio-cultural, associado aos deuses de outras ainda guardamos resquícios do denominações religiosas. (...) o período colonial que deu panteão afro-brasileiro é sustentação a formação da especialmente alvo deste Filhas de santo da comunidade-terreiro Axé Abassá de Ogun participando da sociedade brasileira. No interior Caminhada Contra a Intolerância Religiosa na cidade de Salvador/BA. A Tarde da construção erguida sob a ataque...”. (idem, pg. 11). Os argumentos que servem on line. Fernando Vivas, 2009. égide da separação, do como base de sustentação para justificar a postura intolerante das preconceito, do racismo, da dor, da morte, reservando ao religiões neopentecostais contra a religiosidade afro-brasileira em indivíduo social pertencente ao conjunto da escravaria aqui nosso país, configuram-se como sendo a reedição contemporânea presente a condição periférica de “coisa”, aquela condição de uso das concepções de mundo oriundas de um imaginário social com a qual os senhores de engenho, os administradores, a polícia construído a partir de elementos separatistas, xenófobos, os quais foram acostumados a tratar o contingente de trabalhadores nas viam as manifestações culturais advindas dos negros e negras no fazendas e arredores das cidades na colônia. O termo “coisa” aqui interior do sistema colonial como aberrações construídas por uma utilizado aproxima-se da condição humana degradante ocupada gente destituída da racionalidade e do comportamento sócio- pelos africanos trazidos ao Brasil como escravos, diferentemente cultural adequado, entregue as mais perversas manifestações da do termo utilizado por Durkheim quando define o que vem a ser animalidade, inclusive do ponto de vista religioso. Estas o fato social. Embora salvaguardadas as devidas diferenças entre maneiras de conceber o “outro” sob a ótica na qual o olhar os termos mencionados, existe alguma analogia que poderá ser encontra-se focado, foram determinantes para que ao longo da traçada entre eles. Para ele uma coisa é definida como construção da história e cultura brasileiras estas matrizes pudessem ser persistentemente usadas, a fim de justificar a “...todo objeto do conhecimento que não é naturalmente negatividade dos negros no Brasil. O sociólogo Ricardo Mariano penetrável à inteligência, tudo aquilo de que não podemos fazer ao falar sobre a demonização dos cultos afro-brasileiros evidencia uma noção adequada por um simples procedimento de análise argumentos que nos faz compreender as principais razões das mental, tudo o que o espírito não pode chegar a compreender a construções teóricas e práticas que dão sustentação as ações menos que saia de si mesmo, por meio de observações e daqueles considerados fiéis das igrejas pentecostais: experimentações, passando progressivamente das caracteres 61 ACHAB mais exteriores e mais imediatamente acessíveis aos menos visíveis e aos mais profundos”. (1995: XVII). receberá os serviços essenciais gerados pela sociedade (educação, saúde, trabalho, lazer). Cabe frisar que tal processo não ocorre sem o aparecimento de posições contrárias e favoráveis a sua implementação, instaurando dessa forma o consenso com o contraditório, condições necessárias para se repensar a práxis aqui existente. Os debates que começam a ser travados no interior da sociedade brasileira impõem novos olhares e responsabilidades na esfera pública, visando absorver as demandas que são apresentadas pelos movimentos sociais em geral e pelo movimento negro em particular. Dentre estas demandas podemos citar a Rede Nacional de Religiões Afro-Brasileiras e Saúde, instância de articulação da sociedade civil que envolve adeptos da religiosidade afrobrasileira, gestores e profissionais de saúde, integrantes de organizações não-governamentais, pesquisadores e lideranças do movimento negro, que possuem o intuito de: a) lutar pelo direito humano à saúde; b) valorizar e potencializar o saber dos terreiros em relação à saúde; c) monitorar e intervir nas políticas públicas de saúde, exercendo o controle social; d) combater o racismo, o sexismo, a homofobia e todas as formas de intolerância; e) legitimar as lideranças dos terreiros como detentores de saberes e poderes para exigir das autoridades locais um atendimento de qualidade, onde a cultura do terreiro seja reconhecida e respeitada; f) estabelecer um canal de comunicação entre os adeptos da tradição religiosa afro-brasileira, os gestores, profissionais de saúde e os conselheiros de saúde. A Rede Nacional de Religiões Afro-Brasileiras e Saúde a partir de seus objetivos propõe um diálogo profícuo com a esfera pública da mesma forma que aprofunda a interlocução com a sociedade civil organizada, demonstrando que o espaço do terreiro também é o lócus privilegiado para a troca de saberes. Os conhecimentos produzidos no interior do terreiro como aqueles descobertos a partir do trabalho profissional de pesquisadores alocados no interior dos órgãos de estado, relacionados com a saúde, muito embora sejam provenientes de universos distintos, a partir de concepções diferentes de mundo, operam a polifonia de seus discursos e práticas, considerando que o(a) adepto(a) da religiosidade afro-brasileira trafega em lógicas opostas, porém pertencentes a mesma realidade social. É perfeitamente plausível pensar o diálogo entre a saúde e as dinâmicas sócio-religiosas encontradas nos terreiros de candomblé, tambor de mina, umbanda e afins. A partir desse contexto é fundamental conceber que “... ao reunir numa só estrutura religião e saúde, a ser enfocada no interior das comunidades-terreiro ultrapassa, e muito, a dimensão consciente tanto da religião quanto da saúde para o bem-estar do ‘povo-desanto’; digamos que os atores, direta ou indiretamente, envolvidos com este projeto encontram-se diante de processos sócio-culturais, éticos, políticos, filosóficos, os quais redimensionam o sentido coletivo e individual de suas existências concretas (...)”. Estas interações “contribuem sobremaneira no re-ordenamento dos elementos que envolvem questões referentes à saúde e que secularmente permeiam todas as relações nos ilês6, além de abrirem diversas possibilidades e caminhos a serem Com o passar do tempo a sociedade brasileira assimilou o tratamento inferiorizado dado ao escravo bem como ao seu sucessor liberto, cujos predicativos da subalternidade permaneceram incólumes, oferecendo a seus descendentes os piores lugares na pirâmide do desenvolvimento social e cultural (desenvolvimento visto pelos descendentes dos senhores de engenho, sem considerar que o negro possuía nas diversas nações africanas, um ethos cultural relevante cuja matriz disseminou-se nos lugares onde sua mão, seu corpo, seu ritmo, sua espiritualidade fez morada). Com maior ou menor empenho os diversos governos que assumiram o controle do país, após a proibição definitiva do tráfico negreiro, pressionados também em maior ou menor grau pelo movimento social organizado (nele está contido o movimento negro nacional), desenvolveram ações paulatinas que pudessem minorar a condição degradante pela qual passava a maioria dos negros e negras no Brasil. Numa tomada panorâmica veremos os diversos estágios da sociedade brasileira onde a discussão e, principalmente as ações, voltadas para a inclusão do negro(a) na sociedade brasileira avançaram ou retrocederam, expondo nosso encantamento e nossa desilusão acerca da possibilidade de vislumbrarmos um novo país. No contexto atual a sociedade brasileira é convidada a travar um sério debate a respeito das relações étnico-raciais, colocando-as na agenda nacional, muito embora setores conservadores da sociedade brasileira não queiram enfrentá-lo. Este debate proporcionará as condições objetivas para que a nação possa pensar a inclusão de políticas públicas em todos os quadrantes da vida ativa de seus cidadãos e cidadãs. Este debate vem sendo travado com alguma dificuldade, a partir dos obstáculos colocados pelos setores mencionados acima. A sociedade brasileira já se encontrava acostumada a ver o negro(a) em seu “devido lugar”, ocupando os espaços subalternos na pirâmide social tal qual havia sido estabelecido pelas nações detentoras do cobiçado papel de dirigir o processo civilizatório [Elias]. As ações desenvolvidas pelos movimentos sociais em geral e o movimento negro em particular alavancaram as condições propícias para pressionar os gestores do estado brasileiro a fim de que afirmassem publicamente a intenção de erradicar o racismo, o preconceito das relações sociais aqui existentes. Cabe frisar que a organização do movimento negro ocorre desde os tempos coloniais, por intermédio dos quilombos, da capoeira, das irmandades religiosas, etc. Delineava-se assim o papel político/ideológico da organização negra em nosso país, cujo aperfeiçoamento ganhará sua consolidação no século XXI com a intervenção mais qualificada destes atores sociais nos embates travados. As afirmações publicitadas a partir do movimento negro e outros movimentos sociais ajudaram a implementação em determinados locais (por exemplo, as universidades públicas e estaduais) das políticas de ações afirmativas ou políticas de inclusão positiva visando o ingresso de jovens, homens, mulheres e crianças no interior do grupo que 62 ACHAB trilhados pelos adeptos e adeptas das religiões de matriz africana, nas questões relacionadas à saúde e, conseqüentemente do fortalecimento da autoconfiança, da auto-estima e do sentimento de pertença do povo-de-santo, possibilitando também o reconhecimento do seu patrimônio imaterial, despertando o respeito devido a este segmento pelo sistema oficial de saúde e pela sociedade em geral.” (PIRES/AQUINO, 2004: 8). A partir do diálogo que deverá existir entre os órgãos que compõem a esfera pública e os altos sacerdotes, sacerdotisas, povo de santo da religiosidade afro-brasileira, muito possivelmente estaremos assegurando a manutenção das bases de fundação da cultura brasileira, esta devedora da contribuição oferecida pelas culturas indígena e africana. A interlocução entre estas esferas devem possibilitar novos desafios surgidos dos dilemas a nós apresentados na trama social. Tal qual Exu, o orixá que comanda os princípios da comunicação e da transformação, a organização do mundo deve acontecer através da fala, sendo a palavra proferida o elemento recriador das dinâmicas sociais. A analogia entre a figura de Exu e a comunicação entre as comunidades-terreiro e a esfera pública devem legitimar o universo da cultura brasileira, aceitando as contribuições valiosas da cultura indígena e negra em sua totalidade. Note * Università Federale del Maranhão, membro do Núcleo de Estudos Afro Brasileiros (NEAB), coordenador em exercício do Comitê de Ética em Pesquisa da UFMA. ** Traduzione del sommario a cura della redazione. 1. A expressão Middle Passage possui uso consagrado na historiografia de língua inglesa e designa o trecho mais longo – e de maior sofrimento – da travessia do Atlântico realizada pelos navios negreiros (N. do R.) (pg. 38). [Si riferisce al momento decisivo dell’attraversata quando, superata la metà del tragitto, il ritorno diventa più lungo e difficile della continuazione del viaggio. N.d.R]. 2. O mesmo que a mãe zeladora dos orixás. 3. O mesmo que o pai zelador dos orixás. 4. Utiliza-se este termo para designar o poder de realização que move indivíduos, suas ações, as cerimônias religiosas. É a mistura de elementos minerais, animais, e vegetal. 5. Palavra utilizada para designar casa. 6. Plurale di “ilê”, in lingua yorubá “casa”, quindi per estensione “casa di culto” [N.d. R.]. Bibliografia BASTIDE Roger, Image du Nordeste mystique em noir et blanc. Paris, Ed. Pandora, 1978. id.,.O Candomblé da Bahia: rito nagô. SP, Cia. das Letras, 2001. DURKHEIM Émile, As Regras do Método Sociológico. SP, Martins Fontes, 1995. ELIAS Norbert, O Processo Civilizador. RJ, Jorge Zahar Editor, 2001. GILROY Paul,O Atlântico Negro: modernidade e dupla consciência. RJ, UCAM/Editora 34, 2001. MARIANO Ricardo, Pentecostais em Ação: a demonização dos cultos afro-brasileiros. In: SILVA, Vagner Gonçalves da. Intolerância Religiosa: impactos do neopentecostalismo no campo religioso afro-brasileiro. SP, EDUSP, 2007. MARCUS George E., O que vem (logo) depois do pós: o caso da etnografia. SP, EDUSP, Revista de Antropologia, 1994. MAUSS Marcel, Sociologia e Antropologia. SP, Cosac & Naify, 2003. PIRES Álvaro Roberto & AQUINO Hildenir Salomão, Avaliação do Projeto Ato-Ire: religiões afro-brasileiras em São Luís/MA. São Luís, 2004. RODRIGUES Nina, Os Africanos no Brasil. SP, Cia. Editora Nacional, 1976. SILVA Vgner Gonçalves da, Intolerância Religiosa: impactos do neopentecostalismo no campo religioso afro-brasileiro. SP, EDUSP, 2007. SODRÉ Muniz, O Terreiro e a Cidade: a forma social negro-brasileira. Petrópolis, Vozes, 1988. 63 ACHAB Recensione : Identità catodiche, rappresentazioni mediatiche di appartenenze collettive. Pietro Vereni, Meltemi, Roma 2008 Nel panorama della recente bibliografia sui media si distingue il testo di Piero Vereni. L’autore definisce il suo lavoro in forma rapsodica, come «una serie di riflessioni di impronta antropologica sul rapporto fra i media e l’identità collettiva» (12). Non si tratta, in senso stretto, di un lavoro di antropologia dei media, che «deve disinteressarsi al messaggio in sé per ricostruire i percorsi produttivi e la sua funzione di innesco per l’immaginazione come pratica sociale» (ibid.) e nemmeno di un testo dedicato all’etnografia, che pure costituisce «l’obiettivo della ricerca» (ibid.). L’oggetto di riflessione dichiarato sono i media, che «non esistono come struttura autonoma e slegata dalla cultura. Il loro ruolo è mediare fra cultura come esperienza vissuta e cultura come rappresentazione» (17). Rifacendosi in certa misura ad alcuni temi elaborati da Stuart Hall, Vereni parla della dimensione attiva dello spettatore che non si limita alla decodifica dei programmi, ma si traduce anche anche «in pratiche sociali» (17), in certo qual modo esterne alla funzione mediatica. Ciò del resto già avveniva nel mondo di Madame Bovary, il cui sentimento amoroso era «il prodotto delle letture romantiche della protagonista, piene di sofferenze, dolore, passioni ed effluvi di lacrime». (17) Anche nel nostro mondo «ogni storia romantica che leggiamo e ogni soap opera che guardiamo può incrementare le nostre reali sperienze» (18). Superando l’ormai obsoleta concezione di un universo mediatico autonomo e determinante per lo spettatore, Vereni afferma: «Si tratta di due livelli di esperienza fra i quali si dà uno scambio continuo». (18) In questa prospettiva viene citato Ugo Fabietti, che in un suo recdente saggio parla di antropologia come «studio di una simultaneità di vissuti immaginati», difficilmente riscontrabile per le società prive di scrittura (34), ma facile ad attuarsi oggi. Infatti i mezzi elettronici risultano efficacissimi in questo ambito, proprio in quanto sono in grado di intensificare la contemporaneità, per cui «l’alter ego non mi è mai dato in carne ed ossa, ma io so della sua coesistenza con me». (34) Partendo da questa base, l’autore rielabora in forma significativa il discorso di Pierre Bourdieu relativo all’habitus. Ogni classe detiene un capitale economico e un capitale culturale, risultato del curriculum di studi seguito dalle singole persone. La mobilità sociale non modifica in toto gli elementi acquisiti in precedenza, che sopravvivono, dando luogo ad una complessa diversificazione fra appartenenza di classe, titoli accademici conseguiti e stili di vita. A queste considerazioni, ricavate dal grande sociologo francese, Vereni aggiunge alcune significative glosse, concernenti le variazioni di habitus legate alla fruizione mediatica. « Il gusto quindi può configurarsi non solo in base al titolo di studio, o alla storia familiare, ma anche in base a ciò che vediamo in TV» (61). Nel testo viene citato Marx, quando afferma, ne L’ideologia tedesca, «non senza una certa brutalità» (58), che « l'uomo riesce a vedere solo in funzione della sua borsa... Le classi popolari non hanno nessuna idea del sistema di bisogni delle classi previlegiate» (58). Nel nostro tempo però la situazione risulta in buona parte cambiata, proprio a causa dei media, che portano alla conoscenza dell’opinione pubblica vari sistemi di bisogni, o di valori. Oggi le classi popolari hanno ben assimilato l’immaginario borghese, del quale sono forse molto più esperte dei borghesi stessi. (59-60) In questa diffusione universale di concezioni del mondo che una volta appartenevano a ristrette élites, Vereni ravvisa ciò che definisce come «soapizzazione dell’anima». Usando la normale terminologia degli sceneggiatori, egli parla dei programmi high concept, caratterizzati dall’azione, che tendono ad essere soppiantati dai programmi low concept, caratterizzati da personaggi che agiscono poco, in quanto sono essenzialmente alla ricerca di una loro collocazione sociale e affettiva. (62) Questa dimensione, per il nostro autore, è facilmente attribuibile anche alle trasmissioni di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. In sostanza questa coppia di autori «democratizza la crisi borghese del soggetto» (65) permettendo allo spettatore medio di conoscerla e di viverla, ovviamente nel disprezzo dei ceti colti, che «si vedono svelare sotto il naso il trucco fondativo della loro identità». (66) Non a caso, con sottile ironia Vereni osserva che questo passaggio dalle narrazioni high a quelle low era già avvenuto ai tempi di Fichte (67). In questo ambito «Le masse, attraverso la televisione, fanno in un paio d'ore un corso accelerato sulla filosofia del soggetto da Hegel a Heidegger». (66) Le categorie enunciate sino a qui vengono poi verificate 64 ACHAB attraverso due indagini empiriche alle quali il nostro autore dedica gli ultimi due capitoli del testo. Nel primo excursus, Vereni prende in esame l’immagine degli albanesi che veniva diffusa dai media italiani intorno al 1997. Qui assistiamo a una vera e propria campagna denigratoria messa in atto dai nostri mezzi di comunicazione, secondo i quali la ferocia degli albanesi era in pesante contrasto con la bontà italiana. Si parlava di «Migliaia di prostitute, ragazzini ai semafori schiavizzati dai loro zii... consuetudine etnica al saccheggio... lotta per il controllo del territorio secondo i costumi africani» (sic!). (81) A partire dal 2002 Kledi Kadiu inizia a comparire nelle trasmissioni di Maria De Filippi. Si tratta di un giovane serio, di buona famiglia, fornito di un diploma rilasciato dall’accademia di danza di Tirana. Per un verso egli esprime compiutamente i comportamenti scrupolosi e professionali di una certa borghesia albanese, peraltro la sua presenza nella trasmissione gli permette di affermarsi come sex symbol e come uomo di successo per le giovani spettatrici del programma. A partire dalla comparsa di Kledi in televisione, l’immagine degli albanesi in Italia risulta sensibilmente cambiata, anche nei media cartacei, in un processo in cui la fiction e le pratiche quotidiane del nostro personaggio non si contrappongono staticamente, ma interagiscono dialetticamente. (106) Nel secondo excursus, dedicato all’immagine del sud, Vereni ci spiega che la televisione riproduce elementi della realtà meridionale, mentre va ad un tempo ricordato che certi suoi programmi rappresentano «una delle forme di produzione del sud». (150) della situazione» (150) (Testimonianza di un giovane di Corigliano Calabro, recentemente raccolta da Vereni). Tornando al libro, il discorso si snoda secondo una precisa linea direttrice, mostrandoci la televisione ad un tempo come prodotto storico e come «agente di storia», capace di modificare l’habitus dello spettatore medio, sia pure nella sua stratificazione. Nello svolgersi dell’argomentazione si verifica «quanto della cronaca passi nella fiction... e quanto della fiction passi negli usi e nelle pratiche quotidiane». (150) Sorprende peraltro un certo pessimismo di fondo dichiarato dall’autore, in base al quale l’emittenza sembrerebbe potersi muovere esclusivamente in base a canoni a carattere sostanzialmente conservatore. «Le domande non sono più "come arrivo a fine mese?", ma "Chi sono io veramente?". Qui non rimane spazio per progettare. La borghesia è in crisi, ma anche i subalterni non stanno meglio. Vorrà dire che ci faremo sopra un bel talk show». (68) Ben altrimenti Benjamin e Brecht si erano espressi, già negli anni venti, sulle valenze potenzialmente positive dei media. Questo discorso potrebbe meritare oggi un approfondimento, soprattutto tenendo conto del fatto che l’abbattimento dei costi legato al digitale modifica di molto il quadro dell’industria culturale, aprendo possibilità di accesso a soggetti sociali che risultavano esclusi fino a qualche anno fa. Questo aspetto, forse un po’ opinabile del nostro testo, non toglie tuttavia nulla alla serietà del lavoro nel suo insieme e all’originalità delle tesi sostenute, che trascendono l’ambito inizialmente dichiarato di una semplice «serie di riflessioni di impronta antropologica». Non va trascurato il fatto che in questo testo troviamo una compiuta rassegna di tutti i saggi più importanti relativi all’antropologia dei media, utile guida per chi inizia a studiare questo argomento. «Ogni volta che torno a Corigliano Calabro, non posso farfe a meno di pensare al porto e alle pescherie, che sono punti di approdo e di distribuzione della droga... a volte mi par di rivivere alcune scene da film stile Damiano Damiani, in cui le comparse impersonano le folle spaventate e quasi fiancheggiatrici dei sicari, che corrono in sella alla moto, dopo aver appena ucciso il disgraziato di Gianni Trimarchi 65 ACHAB Recensione: Il contemporaneo. Giorgio Agamben, Nottetempo, 2008 …io sono all’antica, mi piace il moderno Carlo Rocchi, muratore di Buriano In mezzo a loro, ma non dei loro…Ectoplasmi del contemporaneo Filosofia per antropologi La filosofia occidentale, anche quando esplori o dichiari apertamente la propria impotenza, anche quando prenda atto dei propri limiti e del proprio scacco gnoseologico, si offre sempre e comunque come una visione totalitaria, il prodotto di un pensiero che ha l’ambizione titanica di rintracciare un senso e una ragione per tutto quello che c’è, non fosse altro che per dichiararne l’inesistenza. In questo senso rappresenta insieme l’apoteosi e la quintessenza dell’etnocentrismo: una ideologia definitiva che esclude ogni altra possibile visione. Più ancora della religione, la quale almeno ammette sincretismi e persistenze ontologiche tra fedi diverse, e tollera una qualche misura di ecumenismo trascendentale, o teleologico, e persino una possibile comunità fenomenologica. E’ per questo forse che sin dall’inizio un dio geloso ha confuso le lingue dei filosofi, producendo nei secoli quella stupefacente gemmazione di visioni e architetture di pensiero che ha reso le nostre vite più ricche e inquiete, senza peraltro raggiungere uno solo dei suoi scopi. E’ questa aura sapienziale della filosofia che occulta – ai filosofi in primis – la sua natura essenziale di prodotto culturale determinato, di sublimato etnocentrico per eccellenza. Partendo da una consapevolezza del genere un antropologo potrebbe fare sua la filosofia come oggetto e caso di studio (ammesso che riesca a venire a patti con la sua tradizionale sensazione di minorità nei confronti di quella sofisticata disciplina, e smetta di risentire delle proprie umili origini epistemiche). Da questo particolare punto di osservazione, allora, la filosofia occidentale potrebbe essere studiata, alternativamente, come un sistema complesso di credenze, un generatore di miti fondativi, un linguaggio per la narrazione delle origini, una retorica formulare, una società segreta, uno strumento di propaganda politica, un preparato etnoiatrico per la cura della depressione e dell’ansia, o un po’ di tutto questo insieme. Il testo che segue nasce come reazione allo scritto di un filosofo [Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo 2008], e anche se non ne offre propriamente una lettura antropologica, cerca di assumere quel punto di osservazione di cui 66 si diceva, e di liberare - per come può - una riflessione indipendente sul modo in cui nello spazio culturale dell’occidente contemporaneo vengono confezionati gli interrogativi e le risposte della filosofia, e su come gli stili argomentativi e la retorica siano delegati talvolta - in mancanza di meglio - a compensare il difetto di introspezione e perspicuità del pensiero. La domanda è un debito Che cos’è il contemporaneo? Facile a dirsi così, come se si trattasse di riempire un questionario, nel tentativo di arrivare a quella definizione vera, autentica, che sta da qualche parte, autonoma e conclusiva, e che qualcuno già possiede. Come se si trattasse di sfogliare un dizionario: qui stanno tutte le risposte, avanti con le domande! Come se il mondo là fuori contenesse già da sempre tutto quello che c’è, e tutto quello che c’è da sapere - incurante di noi e delle nostre domande - , e come se l’unica cosa da fare consistesse nel rintracciare quello che c’è da sapere in quella confusione di lingue, in quel viluppo di dati nel quale il mondo ci è stato consegnato da un qualche trickster o demone dispettoso. C’è qualcosa che non convince, in questa rassicurante rappresentazione, qualcosa di poco rassicurante. E se pure siamo in cuor nostro convinti che non c’è altro modo di procedere che questo, ogni volta di nuovo ci assale la sensazione che questo processo proceda avvolgendosi su sé stesso, ritornando sempre sui propri passi. Ci interessa allora sapere cos’è il contemporaneo. Ma prima ancora ci interessa conoscere perché questo ci interessi: la domanda sul contemporaneo, così come ogni domanda, ne racchiude inevitabilmente un’altra, dalla quale è a sua volta racchiusa, una metadomanda, una domanda sulla domanda. La domanda è un debito, il riconoscimento di un debito, di una insolvenza nei confronti della realtà che chiede di essere saldata. E insieme la domanda è un desiderio, la pressione di un desiderio che aspira alla soddisfazione, ad una condizione di completezza dove collocare il proprio agio. La tensione verso uno stato temporaneo di quiete che risolve uno stato temporaneo di inquietudine. Ma di dove venga, e dove vada poi a finire non lo sappiamo, se pure viene da qualche parte, e sia diretta da qualche parte. Se c’è qualcosa oltre l’inquietudine inesausta in nome della quale si esprime ed insieme interroga sé stessa. ACHAB fatto di formulare in questo modo la mia domanda, dò per scontato che io, o il mio interlocutore, possediamo già, già ci rifacciamo ad una definizione di contemporaneo, ad una percezione pur approssimativa della sua natura, estensione, significato, o quello che sia, rispetto alla quale mi propongo in alternativa di produrre un sistema, una regolarità, un algoritmo semantico da utilizzare in tutte le circostanze opportune, uno scenario di verità, insomma, che sia sottratto alle contraddizioni ed alle ambiguità, alle improprietà, alla inattualità di quella primitiva definizione. Nel pormi quella domanda, chiamo allora a raccolta tutte le definizioni, le percezioni, le accezioni in cui quel termine ha avuto per me, nel tempo, una legalità semantica, una comprensibilità ed un uso pratico, tutte le versioni che ho ritenuto accettabili ed utilizzabili, o che altri come me hanno ritenuto accettabili ed utilizzabili e in base alle quali ho intrattenuto con i miei interlocutori diretti o indiretti una discussione, una relazione che presumeva una preventiva condivisione di significato. Lo scopo è fare una ricognizione di quel particolare campo semantico, esplorarne i confini (se è un campo, avrà pure dei confini), ricondurre a sistema, ad un sistema intelligibile e ripetibile, comunicabile, i suoi contenuti e le sue contraddizioni, più o meno come fa un vocabolario. Lo scopo è quello di poter infine asserire fondatamente, alla prima occasione in cui dovessi assistere all’entrata in scena di qualcosa di contemporaneo: “ecco, passa il contemporaneo” (ma il contemporaneo può davvero passare?). [Purtroppo il vecchio Quine, che la sapeva più lunga di tutti, ci aveva già messo in guardia per tempo contro le illusioni di un simile modo di procedere, anche se, come tutti i buoni filosofi, ci ha cacciato in una buca dalla quale neanche lui è riuscito a tirarci fuori]. Vuoti e pieni La domanda, come ogni altro evento mentale, come in fondo ognuna delle cose della nostra vita a cui diamo un valore ed alle quali ci aspetteremmo di riconoscere un senso, è un mistero assoluto. Benché volta per volta ci illudiamo di congelarla in una qualche definizione, di catturarla all’interno di un vocabolario, è la sua natura più propria che ogni volta ci sfugge. Il fatto di averle dato un nome l’ha resa con ciò stesso un oggetto come tutti gli altri del nostro linguaggio, di quella messa in scena della realtà che il linguaggio ci offre, e ci impedisce di riconoscere al contrario che la domanda non è affatto un oggetto, una qualità ontologica, il connotato di un paesaggio mentale rappresentabile geograficamente, una categoria dell’essere, e neppure un tropo della retorica argomentativa, o il membro riconoscibile di un insieme di oggetti simili che possono essere all’occorrenza tirati giù da uno scaffale e messi in opera. Un’ipoteca ottimistica sulla verità e realtà del mondo, come se ciò che non è dato conoscere sia comunque dato di per sé come entità conoscibile, oggetto potenzialmente descrivibile, spazio definito da riempire. La domanda nasce insieme con la sua risposta possibile, un dualismo inscindibile; è un vuoto al quale deve corrispondere un pieno, ma un vuoto nel senso dello stampo, un vuoto predeterminato, che deve essere riempito nella forma e secondo le regole che quello stampo fornisce. Che cosa è il contemporaneo? Prendiamo allora la nostra domanda di oggi, la domanda che si (ci) pone Giorgio Agamben: “che cosa è il contemporaneo?” Ora, non ci si chiede di definire un termine assolutamente sconosciuto, come si fa con chi parla una lingua diversa dalla nostra, al quale si potrebbe chiedere che cosa è ‘voor’, o ‘drast’, o ‘baxbr’. Cose del genere. La domanda completa suona invece così: che cosa veramente è quello che noi chiamiamo ‘contemporaneo’, che cosa vogliamo significare con questa parola? Riconosciamo così sin dall’inizio un altro dualismo: la definizione vera (che deve pur esserci) da una parte, e quella corrente, quella che si presume si abbia in mente o che venga alla mente all’udirne il suono. Questo approccio già implica una petizione di verità (ed una istanza ontologica) che, come sappiamo, in filosofia sono tutt’altro che concetti pacifici, e insieme una pretesa maieutica: c’è una definizione errata di contemporaneo, o incompleta, o insoddisfacente, ed una vera, una buona che in qualche modo dovrà saltar fuori nel corso dell’esame. Eppure è proprio l’esistenza di quella definizione errata che rende possibile la domanda. Perchè è a partire da quella che si è potuto allestire lo scenario: non uno degli innumerevoli, possibili tentativi frustrati di sciogliere un enigma preesistente ed autonomo, ma la condizione stessa e lo sfondo ontologico contro il quale soltanto è possibile praticare l’esercizio del dubbio. Una ipoteca, in fondo, sulla definizione vera, sulla sua architettura possibile e sulla libertà e praticabilità dei suoi ambiti cognitivi. Se (mi) chiedo quindi che cosa sia il contemporaneo, proprio per il Vocabolari E’ il modello del vocabolario quello che inevitabilmente si impone in questo caso, il modello cioè di una macchina che sforna significati a fronte di domande, appunto, del tipo “cos’è….?”. E’ un modello che veicola una ingannevole sensazione di stabilità e corrispondenza, di sazietà cognitiva: i nostri vocabolari possono essere imperfetti, ma funzionano. Nessuno ci impedisce di immaginare allora un vocabolario perfetto, che contenga tutte le domande e provveda tutte le risposte. Alla voce ‘contemporaneo’ ci aspettiamo allora di trovare ogni possibile, pensabile, immaginabile accezione. Alcune di queste ci potranno essere utili, altre avranno senso solo in contesti che a noi non interessano, altre risponderanno, speriamo, alla nostra ansia di sapere. Da un punto di vista strettamente etimologico, la paroletta è assolutamente innocua: “contemporaneo” implica essenzialmente un’idea di sincronicità. Nella sua forma sostantivata ha lo scopo, genericamente, di alludere ad una entità ed un contesto insieme culturale e temporale, e, pur essendo usata contrastivamente all’interno dello stesso ambito semantico di definizioni del tipo di ‘moderno’, ‘antico’, ‘postmoderno’, ‘classico’, e simili, ne è separata da un sostanziale 67 ACHAB discrimine concettuale e ontologico. Le prime infatti fanno riferimento tutte ad un determinato, convenzionale arco di tempo, un dominio cronologico relativo e presumibilmente omogeneo quanto a tratti caratteristici il cui senso è definito e rappresentabile esclusivamente nel suo rapporto con ciascuna delle altre. Al contrario, il contemporaneo o è sempre tale di per sé, o non lo è affatto. Ciò che era contemporaneo un momento fa cessa di esserlo ora, sostituito da un contemporaneo altrettanto effimero e transitorio. L’essenza del contemporaneo è per definizione l’assenza di tempo, una condizione di immediatezza e simultaneità, una natura di punto geometrico lungo la retta del tempo (o la circonferenza, o la spirale, o quello che sia), privo di dimensioni. Ovviamente - inevitabilmente - nell’uso corrente, e anche in ambito filosofico, l’accezione implica una sia pur minima temporizzazione, l’individuazione di una misura pur breve in base alla quale sia possibile mettere in opera una distinzione significante all’interno di un sistema classificatorio. Anche così normalizzato, tuttavia, il contemporaneo conserva intatta la propria intrattabilità semantica, e la sua discontinuità ontologica con ogni altra possibile determinazione temporale. Il moderno, l’antico, il postmoderno, ecc., sono individuati e discriminati per tipologie, per ambiti di classificazione, per connotati salienti: la loro identità si produce per mezzo di una selezione. Il contemporaneo, al contrario, è appunto, né più né meno, tutto quello che c’è ora, un ‘ora’ che contiene e metabolizza in sé anche tutte le idee del tempo possibili ora, tutte le sue pensabili determinazioni, percezioni e sopravvivenze. Per questo è così difficile definirlo. Per questo è così facile definirlo. Valori, ectoplasmi Vivere nel contemporaneo, essere contemporanei, è quindi un valore. Per questo è essenziale sapere che cosa sia il contemporaneo, perché altrimenti c’è il rischio che qualcuno si illuda di vivere nel contemporaneo, mentre vive invece in un altro tempo. E vivere in un altro tempo è – come dice il senso comune, ma anche Agamben, espressamente – oltremodo deleterio, ed è soprattutto una stolida illusione nostalgica caratteristica di soggetti mediocri e poco sensibili. Anche se siamo tutti - almeno cronologicamente, per definizione contemporanei, è però vero che ce ne sono alcuni più contemporanei di altri, che si accorgono o si studiano di essere autenticamente contemporanei, laddove gli altri, poveretti, solo si illudono di esserlo, mentre sono invece degli sciocchi nostalgici, oppure gente che aderisce troppo adesivamente al proprio tempo, e questo non è bene, come ci fa notare Agamben. C’è un valore, allora, da salvaguardare, una autenticità da presidiare, e chi meglio di un filosofo può incaricarsi di un tale compito? Chi meglio di un filosofo contemporaneo, almeno, cioè di quel particolare tipo di professionista che nel nostro mondo contemporaneo è chiamato a produrre per mestiere una riflessione tecnica – dalla quale ricava i propri mezzi di sussistenza – il cui uso e consumo è riservato ad altri filosofi (che peraltro generalmente non si trovano affatto d’accordo con lui), a studenti che devono giustificare la loro presenza nelle università, e a un pubblico platonico e genericamente colto che ama ascoltare i buoni ragionamenti, senza per questo sentirsi tenuto a conformare ad essi le proprie pratiche di vita (quando anche fosse possibile o consigliato). Il fatto è che il filosofo, non essendo specialista di niente in particolare, è costretto ad assolvere a questo terribile incarico, per così dire, ‘a corpo’, vale a dire rappresentando(si) il contemporaneo non nelle sue (o in una delle sue) infinite parcelle, nicchie ed atomi culturali, non nelle percezioni e nei modi di vita di una quantità di uomini anche sorprendentemente diversi tra loro e da lui, ma come un tutto unico, una entità omogenea di un qualche genere, di cui si debba in qualche modo restituire ‘lo spirito’. Eccolo lì di nuovo, allora, ‘lo spirito’, il flogisto universale a cui ricorrere in ultima istanza, quando niente altro ha funzionato, che ci attende al varco sornione come sempre, a ricordarci quanta poca strada abbiamo fatto da Talete ad oggi. ‘Lo spirito del tempo’, di questo infine si tratta, di qualsiasi cosa si tratti. Il filosofo, in un certo senso, non è che uno spiritista, un evocatore di ectoplasmi con i quali cerca di dare un senso all’invisibile della nostra esistenza. Appartenere Con il termine ‘contemporaneo’ si viene così a circoscrivere una estensione semantica paradossale ma pur sempre riconoscibile: è contemporaneo ciò che appartiene essenzialmente, ontologicamente al tempo presente, alle circostanze ed alla congiuntura in cui ci troviamo a vivere. Dove ‘tempo presente’ a sua volta è il nome collettivo che usiamo convenzionalmente per indicare il contesto cronologico/storico/culturale/esperienziale della nostra esistenza, quello nel quale – come dice la stucchevole metafora – siamo gettati. Da questo procede una prima fondamentale conseguenza: se infatti il nostro essere quello che siamo è funzione dell’essere nel nostro tempo, dell’appartenere autenticamente al nostro tempo [benché il significato di queste abusate espressioni sia tutt’altro che chiaro], una tale corrispondenza ed una tale autenticità assumono la statuto di valore, cioè di ambito esemplare e desiderabile di vita, di esperienza e di identità, di datore ontologico di senso. Si capisce allora quale sia la posta in gioco: definire appropriatamente il contemporaneo significa riconoscere appropriatamente il nostro posto nel mondo, quale sia il senso della nostra vita. Due cose a cui, pare, gli umani annettono una capitale importanza, per ragioni sconosciute. Odiare il proprio tempo Nietzsche, ci ricorda Agamben, aveva ben chiaro quale fosse lo spirito del suo tempo, del tempo di cui lui era contemporaneo. Era un uomo, sempre per dirla con Agamben, che sapeva ‘fare i conti con il suo tempo’, ‘prendere posizione rispetto al presente’ [ancora 68 ACHAB metafore, naturalmente: tutto il discorso sul contemporaneo (e sul tempo) è infestato di metafore che suppliscono come possono a quella profondità cui il pensiero non è in condizione di attingere]. Quel tempo era per lui qualcosa di intollerabile e insostenibile, verso cui nutriva una profonda avversione. La fonte di una sofferenza tragica e malata che segnò la sua vita e la fine della sua vita. Un inferno di cecità e follia che rifiuta il riscatto che lui gli propone e lo condanna a rimanere escluso dal consesso dei suoi contemporanei. Sfidando orgogliosamente la semantica negativa delle parole (inattuale, intempestivo) Nietzsche rivendica il suo essere fuori dal suo tempo, oltre il suo tempo. Come scrive ancora Agamben: “un uomo intelligente può odiare il suo tempo, ma sa in ogni caso di appartenergli irrevocabilmente, sa di non poter sfuggire al suo tempo”. Nietzsche odiava il suo tempo, forse sapeva pure di appartenergli irrevocabilmente, ma tutta la sua vita è stata segnata dalla volontà di sfuggirvi. Il suo delirio finale, la sua pretesa terminale di onnipotenza ci restituiscono un uomo che avrebbe voluto che fosse il suo tempo ad aderire a lui, ad appartenergli irrevocabilmente. Come che si voglia valutare l’originalità del pensiero e dell’esperienza di vita di Nietzsche, l’apporto unico e straordinario della sua riflessione alla consapevolezza del contemporaneo - o meglio, al rovello tragico e irrisolto del contemporaneo - , la sua lotta inattuale contro il proprio tempo lo accomuna invece paradigmaticamente alla vasta schiera di pensatori che hanno sofferto dell’incomprensione e dell’ostracismo della comunità a cui appartenevano e dalla quale si attendevano al contrario riconoscimenti ed onori. E’ questo rifiuto, l’offesa recata da questo rifiuto, che lo porta a percepire la contemporaneità essenzialmente come disvalore, perché essa annette valore (‘va giustamente orgogliosa’) a cose che sono ‘un male’, ‘un inconveniente’ e ‘un difetto’. C’è quindi un conflitto di valori tra la follia del contemporaneo e la follia del filosofo. E dato che il valore, aristotelicamente, non può coesistere con il proprio opposto, né ammettere alternative, uno dei due deve trovarsi inevitabilmente nell’errore. La missione di cui si investe filosofo, allora, che se lo confessi o meno, è quella di convincere il suo tempo dell’errore in cui vive, o in subordine, di vivere per sé stesso nella verità, rifiutandosi all’errore del mondo che gli è contemporaneo. Come che sia, c’è un percorso da fare dall’errore alla verità, benché nessun filosofo contemporaneo sia disposto a dichiararlo così crudamente (né con la stessa determinazione di Nietzsche), soprattutto dopo Wittgenstein. profondità di pensiero, ma si risolve poi interamente sulla superficie di un linguaggio giocato su più registri (la poesia, la fisiologia, l’astrofisica), a tratti perversamente cavilloso e pesantemente evocativo: “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire ed afferrare il suo tempo… La contemporaneità è una singolare relazione con il proprio tempo, che aderisce ad esso ed insieme ne prende le distanze; più precisamente essa è quella relazione con il tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo, Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso la sguardo su di essa”. Questo notevole brano di prosa contemporanea si segnala per l’(ab)uso fastoso di metafore spaziali, al quale è sottesa per contro una dialettica alquanto più elementare di distanza/prossimità. D’altra parte - a dispetto della sicurezza con cui vengono formulate, come se si trattasse di pure constatazioni di fatto – ciascuna di esse inviluppa un campo semantico effusivo a cui è difficile dare un senso compiuto: che cosa significa davvero per esempio [in difetto di una preventiva e condivisa definizione di ‘tempo’ in questo contesto] ‘appartenere al proprio tempo’, ‘adeguarsi alle pretese del proprio tempo’, ‘coincidere perfettamente (‘pienamente’ e addirittura ‘troppo pienamente’), ‘combaciare in ogni punto perfettamente’,‘percepire ed afferrare il proprio tempo’, ‘tenere fisso lo sguardo sull’epoca’ e, all’opposto, ‘prendere le distanze’, ‘aderire attraverso una sfasatura ed un anacronismo’? Per contro, alla vaghezza del riferimento si accompagna una perorazione di valore alquanto apodittica (e invero un po’ fastidiosa). Ridotto all’osso questo ragionamento può essere riassunto nello stupefacente precetto in base al quale si può aderire perfettamente al proprio tempo (qualunque cosa si intenda con questo) solo in quanto non vi si aderisca perfettamente. Agamben ci chiede cioè di accettare lo stampo della domanda e ci fornisce una risposta che non combacia, che non corrisponde, fino all’estremo paradosso: è contemporaneo ciò che non è contemporaneo, è autenticamente contemporaneo soltanto chi propriamente non lo è. Ora, è difficile sfuggire alla sensazione che tutto sia stato risolto infine in un elegante gioco di parole, a dispetto del rarefatto tenore retorico della perorazione. Chi non ha testa abbia Agamben Nella sostanza, la versione di Agamben non si discosta molto da questo schema obbligato ed inevitabile. E cosa altro può fare un filosofo, allora, quando non ha niente di nuovo da dire, se non tentare di dirlo in un modo diverso, che faccia sembrare nuovi e sorprendenti anche quei vecchi pensieri? E’ per questo che sceglie di forzare il suo discorso sin dall’inizio su una tonalità retorica molto particolare che allude ad una supposta Un ginocchio paziente Se lo volessimo riassumere con una parafrasi più accessibile, il ragionamento non apparirebbe così trascendentale: la persona che si adegua senza riflettere alle condizioni ed ai condizionamenti del proprio tempo, che ne subisce impassibile le mode e le conformità, 69 ACHAB che aderisce alla superficiale deriva collettiva dei costumi morali e intellettuali, accetta di vivere in una dimensione di valore inferiore a quella praticata del filosofo, il quale - non facendosi travolgere dalla corrente inconsapevole del dover essere come tutti gli altri se ne distacca per osservarla più accuratamente e forse, spassionatamente. Appartenere autenticamente al proprio tempo significa allora esperire un distacco etico ed intellettuale, che consente di non cadere preda dell’ottundimento a cui va soggetto l’uomo comune, una condizione da disprezzare e temere. Agamben ci sollecita quindi a non vivere fuori dal nostro tempo (che è scelta inane e onanista), ma insieme a non viverci troppo dentro (che è un’opzione ottusa e superficiale). Una via di mezzo, insomma: uno sfasamento, una adesione non troppo aderente nella quale si estrinseca un modello di vita intellettuale che si avvantaggia e trae piacere dalla sua appartenenza intrinseca al proprio mondo, ma allo stesso tempo è capace di distanziarsene per guadagnare un punto di vista più efficace: “in mezzo a loro, ma non dei loro” come diceva il poeta “non ho piegato un paziente ginocchio alle sue idolatrie, né gridato forte nell’adorazione di un’eco, ecc. ecc.”. Non è una grande novità, in fondo, né giustifica un tale efferato dispendio di energie espressive e retoriche, a fronte di un così magro carniere. Agamben ci somministra infine una banale lezione di buon senso. Ma chi ha bisogno di un filosofo per praticare il buon senso? della neurofisiologia della visione, la quale a suo dire ci offrirebbe un modello (o un’immagine) convincente di quel buio e della sua natura. Come se il buio di cui parla le neurofisiologia e quello di cui parla Agamben siano (in un senso qualsiasi) qualcosa di simile, come se il buio neurofisiologico, invece che essere, appunto, fisiologico, debba richiedere “una attività ed una abilità particolare”, e come se, infine, la filosofia avesse bisogno di affidarsi al frusto carisma cognitivo della scienza per legittimare le proprie metafore. Nel buio degli spazi siderali Ma la neurofisiologia non è la sola scienza che può dirci qualcosa di significativo sulla tenebra del contemporaneo. L’astrofisica, ad esempio, ci insegna - come diligentemente fa notare ancora Agamben - che quello che percepiamo come il buio del cielo altro non è che la luce delle galassie che si allontanano da noi, e che viaggia velocissima verso di noi senza tuttavia poterci raggiungere. Nella visione di Agamben l’astrofisica ha il curioso e controintuitivo compito di rimettere l’uomo al centro dell’universo: non solo la luce delle galassie viaggia verso di noi (cosa già difficile da mandare giù per un astrofisico), ma addirittura cerca di raggiungerci: “percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei”. Non che Agamben voglia dirci che è contemporaneo colui che percepisce la luce delle galassie in fuga, né forse neppure lui intende veramente che questa luce (o la luce buia del contemporaneo, di cui è la metafora) ci stia cercando. Il tentativo è piuttosto quello di praticare una alternativa retorica originale tra il linguaggio della scienza e quello della poesia, che ci metta in condizione di riaffermare un magistero qualsiasi della filosofia (o anche semplicemente un ruolo, una giustificazione di senso), in questo contesto contemporaneo nel quale essa non può invece che registrare il suo fallimento e la sua impotenza. Ma per Agamben il ricorso all’autorità della scienza è appena un pretesto. E’ invece soprattutto alla forza emotiva della poesia che si affida, alla persuasività di un argomentare prevalentemente effusivo che riduca al minimo il dominio dei processi logici e razionali per asserire una verità che riluce di per sé stessa, in ragione della sua sola forza emozionale ed etica. E’ questo il senso del riferimento alla poesia di Mandelstam, il quale ci viene proposto senza meno come interprete autentico del contemporaneo, come colui che in virtù dell’arcano potere medianico della parola poetica ha penetrato perfettamente la natura e l’essenza del nostro tempo: il poeta come vate e sensitivo, evocatore del mondo invisibile, la poesia come via maestra per la comprensione dell’essere. Se non è possibile conoscere con la ragione, cioè crudamente con il ragionamento, con il semplice uso della logica e dell’argomentazione raziocinante - perché questo non fa che rimandarci sempre di nuovo ad un punto di origine inspiegato ed inattingibile - allora non resta che affidarsi alla via esoterica. Quello che non può essere descritto, composto in algoritmi, strutturato in una immagine, forzato in un linguaggio, allora forse può essere Vedere la tenebra Il contemporaneo autentico, con una postura caratteristica, si distacca quindi dal suo tempo per poterlo osservare con agio, sotto una luce di verità. Ma anche questa osservazione non è un atto così neutrale. Dopo essersene distaccati, si deve anche evitare di venire abbagliati dalla luce di quello che si vede. Dove i falsi contemporanei sono accecati dal luccichio ingannevole del loro tempo, il vero contemporaneo ne percepisce invece il buio, l’oscurità e la tenebra, nella quale addirittura riesce ad ‘intingere la penna’ (dopo averne ricevuto il fascio ‘in pieno viso’). Non per vedere nel buio, ma per vedere il buio (“contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente”). Se vedere il buio vi sembra un obiettivo modesto e tutto sommato facile da raggiungere vi ingannate: “il buio non è un concetto privativo, la semplice assenza della luce…. Ciò significa che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività ed un’abilità particolare che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale che non è, però, separabile da quelle luci… Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”). Per sostenere questo punto di vista Agamben si impegna – abbastanza sorprendentemente – in una breve incursione nel campo 70 ACHAB attinto attraverso una sorta di percezione extrasensoriale. Poiché c’è comunque qualcosa, qualcosa che sentiamo, che fa parte di noi, qualcosa di cui siamo parte, e poiché questo che sentiamo non possiamo vederlo, sentirlo, percepirlo con i nostri sensi, descriverlo con le nostre parole e le nostre grammatiche, allora ci deve essere un sistema per evocarlo - come si fa con un ectoplasma, o uno spirito, in una seduta medianica - che eviti di rappresentarlo e renda possibile comunicarlo attraverso una condivisione di sensibilità e di simpatie esoteriche. un elementare teatrino delle ombre. La domanda sul contemporaneo è sbagliata perché ci chiede ancora una volta di comporre e acquietare la nostra inquietudine ed il nostro disagio nella costruzione di un ennesimo, rassicurante simulacro cognitivo, quando anche rivestito di brume esoteriche e scintillanti metafore. Ci chiede di accettare un principio generale (universale?) ed insieme un precetto etico, quando dovrebbe invece metterci in guardia da principi e precetti. Ci chiede di accettare l’onnipotenza dell’argomentazione e della retorica, quando dovrebbe invece riconoscerne la sconfitta ed il fallimento. Ci chiede di dare corpo ad una entità che non esiste, che non ha riscontro in natura, nella realtà, nel mondo là fuori, in nessun posto in particolare che non sia il linguaggio, la mente, l’esperienza, la cultura, il mestiere e gli interessi di chi si interroga su di lei. Un luogo immaginario e assolutamente sospetto, nel quale si è insediata una realtà virtuale totalitaria (quella che noi chiamiamo ‘realtà’, tout court) che pretende di annullare ed assimilare a sé tutte le altre, e che ci rende ciechi alla vista di ogni altra cosa. Una realtà che fa funzionare il nostro mondo (nel modo tragico, inutile e doloroso in cui ci riesce) a danno dei mondi di tutti gli altri. E’ così che il nostro contemporaneo, la luce e la tenebra del nostro contemporaneo, sopravvivono nel mondo artificiale che abbiamo costruito per loro, che essi hanno costruito per noi, all’interno di una fortezza planetaria circondata da una muraglia sempre più spessa di macerie e di ossa umane. Questa è la tenebra sulla quale non si può fissare lo sguardo, un contratto sociale nel quale anche i filosofi hanno stretto un patto di ferro con i macellai perché ognuno possa fare tranquillamente il proprio mestiere. Una assicurazione sulla nostra vita pagata con la vita di tutti gli altri. Se la filosofia non riesce a dirci niente di tutto questo, se continua a riproporci i soliti vecchi, frusti, manierati e retorici interrogativi, ai quali pretende di offrire, in risposta, una scelta elegante di universali, o - in alternativa - una rassegna patetica ed effusiva di angosce esistenziali e di innocui esoterismi, o una poetica collazione di arcani. Se non riesce a chiedersi per una volta che cosa sia veramente quello che vogliamo sapere, da dove nasca lo sconcerto ed il dolore delle nostre vite, allora davvero resterà confinata per sempre nel suo giardino di principe felice, dove tutte le domande hanno una risposta, ma né le une né le altre sono quelle di cui abbiamo bisogno. Che bisogno abbiamo di filosofi, se solo un poeta può dirci quello che vogliamo sapere? Il filosofo si sente sempre di più a disagio con il proprio linguaggio, con la lingua normalizzata, disinfettata e sublimata cha ha utilizzato fino ad oggi come lo strumento ideale per depurare la cruda percezione della realtà dalle sue imperfezioni, per riprodurre algoritmi che funzionino come per le scienze cosiddette esatte. Quel linguaggio è un altro dio che ha fallito, ed è venuto il momento di sostituirlo con una nuova retorica. Ecco allora venire in soccorso il poeta e la sua poesia. La poesia, che tutto riduce al suo impasto: utilizza la scienza, la filosofia, e quello che vuole, e attinge direttamente alla nostra inquietudine. E tuttavia Agamben - come tutti gli altri prima di lui che hanno tentato la stessa strada, rinunciando alla via impraticabile dell’argomentazione razionale per affidarsi al solo potere della parola poetica, alla suggestione dell’arcano e dell’allusivo - non riesce infine ad essere convincente né sul piano di una possibile condivisione di senso e di sensibilità, né su quello della potenza delle immagini e dell’evocazione. Il filosofo, che in origine si era incaricato del compito titanico di dare un senso al mondo, deve accontentarsi ora del ruolo sussidiario di chiosatore del poeta, il solo che in virtù della sua sprezzatura oracolare e del suo dono medianico possa avere accesso alla autentica essenza del suo tempo. E però alla fine quello soltanto che il poeta (e il filosofo con lui) riesce evocare è l’interno, un dentro del nostro sconcerto, ma non la sua soluzione. Dà voce alla nostra ansia, ma non ci offre quello stato di soddisfazione che cerchiamo con le nostre domande. Sbagliare domanda Arriva quindi il momento di chiedersi se davvero sono le nostre risposte ad essere sbagliate, o inadeguate, oppure se sia sbagliata la domanda. Se cioè la tenebra che dovremmo cogliere, conoscere ed esperire, la tenebra in cui dovremmo fissare lo sguardo, non sia infine così inguaribilmente tenebrosa da occultare sé stessa insieme a tutto il resto, offrendoci in cambio la modesta messa in scena di di Valerio Fusi 71 ACHAB “Pare um istante” (fermati un istante), foto di Michele Parodi, Abaixada maranhense, Brasile 2007 72 ACHAB Visitate il nuovo sito di Achab www.achabrivista.it La rivista è interamente scaricabile in formato pdf “Clinica da alma” (Clinica dell’anima), foto di Michele Parodi Abaixada maranhense, Brasile 2007 Note per la consegna e la stesura degli articoli Gli articoli devono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times o times new roman corpo 12. L'articolo deve avere una lunghezza minima di 3 cartelle e massima di 15 (interlinea 1,5; corpo 12). Si consiglia di ridurre al minimo le note che non dovranno essere inserite in automatico ma digitate come testo alla fine dell'articolo. Nel testo il numero della nota deve essere inserito mettendolo tra parentesi. Gli articoli devono essere spediti al seguente indirizzo: [email protected]. La redazione provvederà a contattare gli autori. FINITO DI STAMPARE NEL GIUGNO 2009 DALLA TIPOGRAFIA INGRAF Industria Grafica Srl - Milano. ACHAB Clicia Abreu, Santo perdido, gruppo folclorico “Bumba-meu-boi Capricho de União”, Santa Helena, Brasile 2007 ISSN 1971-7946