Il diritto alla famiglia ed al matrimonio, il passo in avanti del Registro delle Unioni Civili *** Marilisa D’Amico Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano Presidente della Commissione Affari Istituzionali, Comune di Milano *** SOMMARIO: PARTE PRIMA: LE UNIONI TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO 1. Premessa: uno spazio giuridico europeo per la tutela dei diritti. – 2. La Corte EDU nel caso Shalk v. Kopf. – 3. La vicenda italiana: l’art. 29 Cost. e la sent. 138 del 2010 della Corte costituzionale. 3.1. Premessa. - 3.2. L’art. 29 Cost. e la definizione di famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” fra analisi storica e interpretazioni dottrinali. - 3.3. L’art. 29 Cost. fra Corte costituzionale e legislatore. - 3.4. La sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale e l’orientamento della Corte di Cassazione. 4. Un caso emblematico: il caso portoghese. - 4.1. Confronto fra l’ordinamento italiano e quello portoghese. – 5. Conclusioni. PARTE SECONDA: L’ISTITUZIONE DEL REGISTRO DELLE UNIONI CIVILI A MILANO 1. L’istituzione del Registro delle Unioni civili a Milano. – 2. Il contenuto del provvedimento. – 3. L’attuazione degli artt. 2 e 3 Cost. e del principio costituzionale di laicità. – 4. Gli effetti “ordinamentali” del provvedimento. - 5. Gli effetti “concreti” del provvedimento. – 6. La natura dei registri. – 7. Conclusioni: “Unioni” contro “Famiglia”? PARTE PRIMA: LE UNIONI TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO 1. Premessa: uno spazio giuridico europeo per la tutela dei diritti. Il contesto in cui oggi i diritti trovano riconoscimento e garanzia è reso sempre più complesso dalla presenza di più livelli di tutela, giudiziaria e legislativa: quello regionale, quello statale, quello europeo[1] e quello internazionale[2]. Questa tutela, definita “multilivello”[3], in un quadro in cui le scelte politiche in tema di diritti sono il frutto molto spesso di una disputa ideologica, che altrove è stata definita contesa [4], rischia di trasformarsi in una formula vuota, nella quale i cittadini, e i non cittadini, europei rischiano di vedere perdere progressivamente la centralità delle loro esigenze di tutela, anziché di vedere avanzare le conquiste avutesi in tema di diritti. In particolare, occorre soffermarsi sulla necessità di prendere in considerazione nel nostro ragionamento la dimensione “europea” che sempre più caratterizza la portata e la garanzia dei diritti[5]. Questo spazio giudiziario è senz’altro una risorsa in più per la tutela dei diritti, che però può diventare problematico e anche contraddittorio. Insomma, la presenza di più livelli di tutela non è sufficiente a garantire in concreto i diritti, anzi diventa controproducente, in assenza di una risposta sul piano politico e legislativo, sia nazionale, sia europeo, ai problemi che pongono oggi certi diritti. Lo spazio giudiziario europeo rappresenta una risorsa se si considera che ai diversi “livelli” di tutela giurisdizionale corrispondono diversi giudici e diversi modelli processuali. Ad esempio, alla Corte europea dei diritti dell’uomo si accede direttamente, purché siano soddisfatti una serie di requisiti: ai sensi dell’art. 35, comma secondo, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorso individuale non deve essere anonimo, né essenzialmente identico a uno precedentemente esaminato dalla Corte o già sottoposto a un’altra istanza internazionale d’inchiesta o di risoluzione ovvero non deve contenere fatti nuovi. Altro requisito molto importante è costituito, come noto, dal previo esaurimento dei ricorsi interni. Invece, il nostro ordinamento non prevede un ricorso diretto alla Corte costituzionale da parte di chi ritenga di aver subito una lesione in forza di una norma legislativa. Ecco, allora, che lo spazio giuridico europeo amplia, anche sotto il profilo processuale, la possibilità di tutela, “bilanciando”, con l’accesso diretto alla Corte EDU, le “strettoie” previste dall’accesso incidentale alla Corte costituzionale[6]. Ci si limiterà in questa sede ad alcune considerazioni su qualche aspetto di fondo, venuto molto chiaramente in evidenza nelle note vicende giudiziarie degli ultimi tempi in relazione al matrimonio tra persone dello stesso sesso, in cui si può riscontrare il diverso modo di operare dei vari attori preposti alla tutela dei diritti in una dimensione, appunto, “multilivello”. Per il matrimonio tra persone dello stesso sesso, infatti, l’Europa rappresenta un’ulteriore possibilità per riaprire un discorso che in Italia la Corte costituzionale ha chiuso (sent. 138 del 2010, su cui ci si soffermerà oltre) e la politica intende lasciare chiuso. Ci si riferisce, in particolare, al ricorso che è stato presentato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel giugno del 2011 da parte di due coppie italiane, che si ritengono vittime di una discriminazione dettata dal loro orientamento sessuale. In particolare, i ricorrenti lamentano la discriminazione nel godimento del loro diritto al matrimonio e al rispetto della vita privata e familiare, a causa del divieto di sposarsi previsto nell’ordinamento italiano per le persone dello stesso sesso e dell’assenza di qualsivoglia altra forma di riconoscimento giuridico delle loro unioni. Da queste considerazioni emerge quanto sia importante la formazione di una sorta di “agorà europea” dei diritti stessi, di regole comuni, anche costruite in via giurisprudenziale, per tutelare i singoli individui nel godimento dei loro diritti. Gli individui (e non solo, anche i beni e i servizi) infatti circolano nello spazio europeo e, dunque, il riconoscimento di un nucleo uniforme nella tutela di certi diritti e la presenza di regole comuni sono divenuti imprescindibili per evitare incoerenze innegabili. Si pensi per esempio alle coppie omosessuali, che si sposano in un paese europeo in cui il matrimonio fra persone dello stesso sesso è possibile. La posizione giuridica viene considerata diversamente nel caso in cui le coppie decidano di spostarsi, esercitando il loro diritto di circolazione. Tuttavia, la “chance in più” per i diritti dello spazio europeo può rivelarsi problematica e contraddittoria, se non si approfondisce l’analisi dei casi. In conclusione, lo spazio di tutela europea è insufficiente se non interviene la politica. La contraddizione, le luci e le ombre dello spazio giudiziario europeo e del rapporto fra le Corti costituzionali nazionali, quelle europee e gli stessi giudici comuni sono e saranno inappaganti, se la tutela dei diritti fondamentali sarà affidata soltanto ai giudici; se la politica, almeno per quanto concerne l’Italia, non interviene o, come accade a livello dell’Unione europea, è inesistente, poiché mancano le competenze (ma forse col Trattato di Lisbona, che consente l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, potrebbero aprirsi nuovi scenari). Si sono iniziate queste brevi riflessioni di ordine generale, affermando che la tutela è complessa: preme ora concludere, prima di approfondire i profili attinenti alla questione del matrimonio omosessuale, ribadendo che se intervenisse la politica, in modo serio e coerente, la tutela sarebbe ancora innegabilmente complessa, dati i diversi livelli di garanzia che si susseguono, ma in misura minore, e, sicuramente, non sarebbe una tutela confusa. L’analisi della vicenda italiana e, in particolare, nell’ambito europeo, di quella portoghese, oltre alle valutazioni che derivano dalla giurisprudenza europea (su cui approfonditamente si soffermeranno altri relatori) permettono di inquadrare quindi il tema nel necessario quadro dello spazio europeo che sempre più caratterizza i diritti e la loro tutela. 2. La Corte EDU e il caso Schalk e Kopf v. Austria. Come si è visto dunque assume un rilievo particolare il ruolo della Corti europee e in particolare della Corte EDU. Alcune delle relazioni che seguiranno affronteranno in modo specifico l’evoluzione giurisprudenziale sul tema, ma si può brevemente richiamare quanto la Corte EDU ha da ultimo disposto in una decisione resa nei confronti dell’Austria. La Corte EDU doveva decidere sul ricorso n. 30141/04, (Schalk e Kopf v. Austria) promosso da due cittadini austriaci, che chiedevano di riconoscere come contrario ai principi europei il mancato riconoscimento del diritto al matrimonio anche tra persone dello stesso sesso. I ricorrenti facevano, in particolare, riferimento agli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio), 14 (divieto di discriminazione) CEDU. Nella sentenza del 24 giugno 2010, la Corte EDU ha dato una risposta molto simile a quella della Corte costituzionale italiana (sent. n. 138 del 2010). Da una parte, infatti, ha riconosciuto la dignità e il valore di “famiglia” all’unione tra persone dello stesso sesso. Dall’altra ha individuato un ambito di discrezionalità per il legislatore statale. Ha, quindi, negato che l’Austria abbia violato la normativa europea, in considerazione del fatto che ogni Stato può decidere se introdurre l’istituto del matrimonio o un diverso istituto, che riconosca diritti e doveri in capo alle coppie dello stesso sesso. Permane, peraltro come nella pronuncia della Corte costituzionale italiana, un margine di ambiguità: si riconosce infatti che non debbano sussistere discriminazioni tra coppie eterosessuali e omosessuali e, nello stesso tempo, si permette ai singoli Stati di introdurre nei propri ordinamenti un istituto diverso dal matrimonio, destinato alle coppie dello stesso sesso. Successivamente all’approvazione della CEDU è entrata in vigore la Carta di Nizza, che prevede all’art. 9 (Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia) “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Si coglie in questo articolo la volontà di operare una equiparazione e far rientrare nel concetto di famiglia anche tutte le fattispecie nazionali relative a unioni tra persone dello stesso sesso. Risultano particolarmente importanti inoltre due affermazioni della Corte EDU. Questa infatti ritiene che l’art. 9 della Carta di Nizza serva quale criterio interpretativo per leggere in un senso evolutivo l’art. 12 della CEDU. In secondo luogo, sembra sostenere che, qualora un numero maggiore di Paesi europei introducesse, nel rispettivo ordinamento, il matrimonio omosessuale, potrebbe essere ritenuto non più conforme ai principi europei il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. La pietra miliare di questa sentenza - così come era successo con la sent. n. 138 del 2010 della Corte Costituzionale italiana - è il riconoscimento alla coppia omosessuale della sua condizione di coppia. Rimane il problema di fondo, quello relativo al riconoscimento del diritto al matrimonio e non solo del diritto all’unione civile. Solo con il primo infatti si giunge al riconoscimento di una uguaglianza piena da parte di una categoria di soggetti che risulta discriminata in ragione del proprio orientamento sessuale. La Corte EDU, peraltro, ha opportunamente fatto riferimento all’evoluzione della legislazione. Nella sentenza resa nell’aprile del 2010, relativa alla questione della fecondazione eterologa e resa nei confronti dell’Austria[7], la Corte stessa aveva fatto riferimento a una nozione di “famiglia europea”, che risulta un concetto ampio e diversificato, in cui non è individuabile un modello interpretativo unico. Dopo l’introduzione del trattato di Lisbona e il conseguente recepimento della Carta dei diritti fondamentali che assume lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi, la Corte EDU deve tenere conto della rilevanza crescente delle proprie decisioni che sempre più spesso intervengono in settori che richiedono un difficile equilibrio (si pensi, ad esempio, non solo al caso del matrimonio fra persone dello stesso sesso, ma anche ai recenti casi, come si è visto, relativi al crocifisso e alla fecondazione eterologa). 3. La vicenda italiana: l’art. 29 Cost. e la sent. 138 del 2010 della Corte costituzionale. 3.1. Premessa. In Italia, come è noto, non vi è una specifica disciplina che preveda la possibilità per le persone di sesso diverso di contrarre matrimonio. Non vi è neanche una normativa specifica in tema di unioni civili, sia eterosessuali sia omosessuali, nonostante vi siano stati tentativi esperiti in tale senso (si pensi ai cd. DICO, ai CUS, …). Un importante intervento in materia si è avuto a seguito di numerosi ricorsi presentati da coppie omosessuali che si erano vista negata la possibilità di ottenere le pubblicazioni dall’ufficiale di stato civile. I giudici infatti hanno riconosciuto la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che riguardava alcuni articoli del codice civile, nella parte in cui non permettono che possano procedere alle pubblicazioni e dunque a contrarre matrimonio anche persone dello stesso sesso. In tale modo, quindi, la questione è stata sottoposta al Giudice delle Leggi (su questo aspetto, relativo al ruolo dei cd. giudici a quibus nel contesto del giudizio costituzionale occorrerebbe soffermarsi a lungo, poiché nel nostro ordinamento non è previsto un ricorso in via diretta da parte del singolo cittadino alla Corte. L’importanza del ruolo svolto dalla giurisprudenza di merito, infatti, è posta in particolare evidenza dal “grande sviluppo della sensibilità della magistratura comune nei confronti dei problemi di costituzionalità, dei quali essa diviene la prima interprete”[8]). 3.2. L’art. 29 Cost. e la definizione di famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” fra analisi storica e interpretazioni dottrinali. È necessario effettuare una ricognizione del contenuto dell’art. 29 Cost., avendo riguardo sia alla lettera della norma, sia all’evoluzione storico-sociale che ha avuto ad oggetto il medesimo articolo. Da questa analisi, infatti, è possibile individuare quale sia il significato dell’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento e comprenderne la portata, nel corso dei mutamenti storicosociali che hanno attraversato il nostro ordinamento. All’interno dell’Assemblea costituente si registrò un ampio ed acceso dibattito sull’art. 29 Cost., che portò ad un “accordo preciso”[9] sulla formulazione finale della norma. Sull’opportunità di inserire una definizione di famiglia in Costituzione si confrontarono due posizioni. La prima sosteneva la necessità che una definizione vi fosse. A questo riguardo, si può ricordare quanto espresso nella seduta del 30 ottobre dall’onorevole Togliatti, che riteneva che la formula proposta dall’onorevole Corsanego (“unità naturale e fondamentale della società”) fosse equivoca e costituisse una definizione astratta della famiglia (Ass. Costituente, I Sottocommissione). Al contrario, una seconda posizione, prediligeva una posizione neutrale, giudicando sufficiente un generico richiamo ai diritti della famiglia. A questo riguardo, Togliatti richiamò la proposta dell’onorevole Iotti, che considerava la famiglia il fondamento della prosperità materiale e morale dei cittadini e della Nazione, riferendosi con ciò a qualche cosa di molto concreto e stabilendo non solo il suo riconoscimento ma anche la sua tutela. Dopo aver deciso di inserire una precisa definizione di famiglia, si optò per la formula “società naturale”. Tale proposta venne avanzata dall’onorevole Togliatti, d’accordo con gli onorevoli Iotti e Corsanego (Ass. costituente, I Sottocommissione, 5 novembre 1946), con la quale si voleva evidenziare la preesistenza della famiglia rispetto allo Stato, e non una limitazione dello Stato in favore di un ordine giuridico di diritto naturale. Tale definizione, infatti, assegna alla famiglia una autonomia originaria, che circoscrive i poteri di regolamentazione del legislatore (MORTATI, Ass. Costituente, CII, 23 aprile 1947). E ancora, con riguardo all’art. 29 Cost., si precisò che non si trattava di una definizione, bensì di una determinazione di limiti (MORO, Ass. Costituente, XCV, seduta pomeridiana, 18 aprile 1947). Si sottolineò che tale espressione non fosse una vera e propria definizione, sebbene ne avesse la forma esterna. Con tale espressione infatti si intendeva definire la sfera di competenza dello Stato nei confronti delle diverse formazioni sociali, come la famiglia (MORO, Ass. Costituente, Commissione per la Costituzione, Adunanza Plenaria, 15 gennaio 1947). All’interno dell’Assemblea non mancarono perplessità, sia per quanto riguardava il possibile rinvio a valori di diritto naturale sia per la sua capacità di ricomprendere l’intera portata del “fenomeno familiare”[10]. La maggioranza dell’Assemblea approvò comunque questa formula poiché risultava chiaro che con essa non si voleva fare un rinvio al diritto naturale con ciò eliminando la possibilità di interventi da parte dello Stato. Con essa infatti si voleva sottolineare il carattere di preesistenza della famiglia rispetto allo Stato. Non si può non rilevare come la formula “società naturale” si presti a molteplici interpretazioni. Si è sostenuto, da una parte (interpretazione giusnaturalistica), che tale espressione rinviasse al diritto naturale tale per cui la famiglia in quanto sovrana attinge a valori e principi che si trovano al di fuori dell’ordinamento statale. Il riferimento al diritto naturale evidenzia la preesistenza della famiglia e le limitazioni che lo Stato incontra nel porre leggi in materia. L’espressione “società naturale” va intesa come “società di diritto naturale”, e dunque la famiglia preesiste allo Stato, esigendo un ordinamento dei suoi rapporti immutabile. L’interpretazione giusnaturalistica del primo comma dell’art. 29 Cost. prefigura quindi un ordinamento della famiglia dotato di poteri esclusivi di normazione, pur essendo smentita dalle disposizioni costituzionali che confermano come “il regime positivo della famiglia non integra un ordinamento a sé, limitandosi a precostituire modalità di tutela e garanzie di elevata autonomia conformi alle esigenze di una formazione sociale con funzioni istituzionali assolutamente particolari”[11]. In questo modo (interpretazione storicistica) si è criticata l’ipotesi di un concetto di famiglia immutabile ed astratto. Vi sono tanti modelli di famiglia quanti sono i diversi momenti storici. E anzi, di più: se nell’art. 2 Cost. vi è il riconoscimento e la garanzia per le formazioni sociali come la famiglia, “l’apprezzamento in termini di tutela si deve svolgere sul terreno dei processi sociologici, cioè guardando alla famiglia in concreto rilevante, prima ancora che su quello dei modelli astratti e normativi, con la conseguenza che dalla formula utilizzata dall’art. 29 deve ricavarsi una sua definizione elastica e dinamica”[12]. La previsione dunque del riconoscimento, da parte della Repubblica, dei diritti della famiglia intesa come società naturale, implica che lo Stato si impegna a non interferire nell’organizzazione interna della famiglia stessa. In questo modo il limite al potere legislativo è da intendersi come garanzia per la famiglia di avere una propria sfera di autonomia e non di sovranità originaria. Tale interpretazione storicista esclude qualsiasi rinvio al diritto naturale, poiché occorre tenere presenti i caratteri di “necessaria relatività e storicità dei principi di ordinamento della famiglia”[13], che derivano dall’evoluzione sociale che influenza, modificandoli, i contenuti stessi e le forme della famiglia. Per questo motivo un’astratta formulazione del concetto di famiglia che non tenga conto dei mutamenti storici non deriva dal primo comma dell’art. 29 Cost., bensì da “una opposizione di principio alle modalità e alla direzione dei processi di modificazione del rapporto familiare emergenti nella società civile” (ibidem). Si può dunque ritenere che sia la concezione di famiglia storicamente determinata a dover “intervenire” nell’applicazione concreta dell’art. 29 Cost., poiché solo le valutazioni sociali storicamente determinate possono determinare la struttura e l’organizzazione della famiglia stessa. In conclusione, con il riconoscimento della famiglia quale “società naturale” si intende rinviare ad un concetto di famiglia storicamente mutevole e non cristallizzato. Il carattere naturale non poteva essere inteso come strumentale al fine di dare della famiglia un inquadramento definitivo e non soggetto a mutamenti. Il termine “naturale” andava piuttosto inteso come “sociale” e quindi non si poteva ritenere che la famiglia come società naturale fosse fondata sul diritto naturale. Il termine naturale, infatti, non comporta che ci si debba riferire a valutazioni estranee rispetto al diritto positivo[14]. Nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente non si mancò di rilevare una sorta di contraddizione tra la formula “società naturale” e “fondata sul matrimonio”. Si sottolineò come “dal punto di vista logico” fosse “un gravissimo errore, che rimarrà nel testo della nostra Costituzione come una ingenuità, quello di congiungere l’idea di società naturale – che richiama al diritto naturale – colla frase successiva «fondata sul matrimonio», che è un istituto di diritto positivo. Parlare di una società naturale che sorge dal matrimonio, cioè, in sostanza, da un negozio giuridico è […] una contraddizione in termini.” (CALAMANDREI, Ass. Costituente, CII, seduta di mercoledì 23 aprile 1947). È interessante sottolineare come, dopo la promulgazione della Costituzione, si faceva riferimento al carattere “naturale” della famiglia come a qualcosa che appariva tale alla maggioranza, con ciò implicando una visione del matrimonio indissolubile e nel quale il marito godeva di una posizione dominante[15]. A questo riguardo, già nel corso dei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si fece riferimento alla “legge armonica dell’universo intesa a determinare secondo un criterio naturale la supremazia del marito sulla moglie” (RODI, Ass. Costituente, 17 aprile 1947). Peraltro, con riferimento al carattere indissolubile del matrimonio si può rilevare come tale aggettivo non compare nell’art. 29 Cost. Questa scelta lascia trasparire, ancora una volta, il carattere relativo e storicistico che si deve accogliere della definizione di famiglia. Tale carattere permette di non considerare necessario il carattere della indissolubilità del matrimonio, al contrario dell’interpretazione giusnaturalistica che vede nell’art. 29 Cost. un rinvio ad un modello di famiglia fondato sul diritto naturale. Imporre, inoltre, il carattere indissolubile del matrimonio, nel caso in cui vi sia una relazione familiare priva di significato affettivo, violerebbe l’art. 2 Cost. poiché si renderebbe incompatibile con la garanzia del diritto al pieno svolgimento della propria personalità. La mancanza di un riferimento all’indissolubilità del matrimonio ha peraltro permesso al legislatore di introdurre la disciplina del divorzio (legge n. 898 del 1970). In questo ambito la Corte costituzionale è stata chiamata ad intervenire e ha dichiarato infondate le questioni sollevate con riguardo all’estensione del divorzio ai matrimoni concordatari (sent. n. 169 del 1971, secondo la quale eventuali limitazioni della sovranità statale dovrebbero risultare espressamente e non da una interpretazione; sent. n. 176 del 1973, dove si sottolinea come la giurisdizione in materia di divorzio spetti ai tribunali civili, essendo tassativamente elencate la cause matrimoniali attribuite alla competenza ecclesiastica; sent. n. 181 del 1976, con cui, valutando l’eventuale contrasto della legge con l’art. 29 Cost., si è affermato che non vi è alcuna negazione o compressione dei diritti della famiglia garantiti dal medesimo articolo). Si può così sostenere, in conclusione, che l’art. 29 Cost. sia espressione di una concezione della famiglia aperta ai cambiamenti storici e sociali, poiché è nella formazione sociale stessa, costituita dalla famiglia, che occorre garantire il libero svolgimento della personalità dei suoi membri (a questo riguardo, MORO, Ass. Costituente, I Sottocommissione, 30 ottobre 1946, “Non si tratta infatti di una affermazione ideologica di parte, ma della conseguenza logica di quanto sancito nel primo articolo della Costituzione, in cui si è riconosciuto che lo Stato, con i suoi organismi sociali e politici, ha dei limiti naturali. Ammesso il fatto - che per i democristiani rappresenta una delle basi fondamentali della democrazia - che lo Stato come organismo politico e sociale nasce dall’uomo, considerato non isolatamente, ma come centrato in tutta la sfera sociale in cui si espande, poiché la famiglia è la cerchia sociale nella quale l’uomo si esprime più naturalmente, va considerata, in quanto tale, come un limite dello Stato, non nel senso comune della parola, ma come garanzia della stessa democrazia. Il valore giuridico dell’affermazione, contenuta nell’articolo in discussione, sta quindi nel riconoscere costituzionalmente che lo Stato ha dinanzi a sé delle realtà autonome da cui esso stesso prende le mosse, sia pure a sua volta influenzandole. Questa concezione dello Stato, che ritiene liberale, è stata consacrata nell'articolo dell'Onorevole Corsanego, riallacciandosi a quanto è stato affermato nel primo articolo in materia dei diritti dell'uomo e delle formazioni sociali in cui esso si concreta.”) “Lungi da evocare un astorico diritto di natura, il riferimento al carattere ‘naturale’ della societas coniugale significa semplicemente che il primo comma dell’art. 29 attribuisce al matrimonio la funzione di una struttura familiare storicamente aperta ai processi di revisione del suo regime (e delle sue forme) di tempo in tempo occorrenti per conformare l’istituto alle esigenze di una formazione sociale assolutamente peculiare”[16]. La stessa volontà dei Costituenti, peraltro, si è espressa in questa direzione, laddove l’obiettivo dichiarato non era quello di cristallizzare la famiglia con definizioni legate ad un certo momento storico o di irrigidire la vita sociale. Posto quindi il nucleo essenziale di “società naturale”, si sottolineò (Togliatti) che la disciplina e le diverse forme dell’istituto sarebbero state poi storicamente determinate. Fu inoltre evidenziato (Calamandrei) come non passò l’idea di dare al matrimonio un carattere religioso e dunque incidente sulla libertà di coscienza dei cittadini. Si deve escludere, inoltre, che l’aggettivo naturale abbia “un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame puramente di fatto”. Non si vuole dire “con questa formula che la famiglia sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è un fatto, la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico e quindi qui «naturale» sta per «razionale». D’altra parte, non si vuole escludere che la famiglia abbia un suo processo di formazione storica, né si vuole negare che vi sia un sempre più perfetto adeguamento della famiglia a questa razionalità nel corso della storia; ma quando si dice: «società naturale» in questo momento storico si allude a quell’ordinamento che, perfezionato attraverso il processo della storia, costituisce la linea ideale della vita familiare. Quando si afferma che la famiglia è una «società naturale», si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare.” (MORO, Ass. Costituente, Commissione per la Costituzione, Adunanza Plenaria, mercoledì 15 gennaio 1947). Si può, pertanto, ritenere che la famiglia, come società naturale, non implica una immutabilità della sua regolazione normativa. Quest’ultima, al contrario, può mutare seguendo l’evoluzione della società, e dunque tenendo conto dell’evolversi delle concezioni di famiglia che in quest’ultima si registrano. Si può sostenere, inoltre, che la Costituzione ponga una norma in bianco, che per ciò stesso rimanda al costume e alla coscienza sociale. Il legislatore dovrà dunque rispettare questa evoluzione[17]. Peraltro proprio l’evoluzione così rapida della concezione della famiglia e del matrimonio su cui essa si fonda ha portato alla riforma del 1975. In definitiva, “la famiglia è perciò ‘naturale’ in quanto peculiare aggregazione affettivosolidale di due persone ed espressione di un’esigenza oltremodo diffusa nonché connaturata alla volontà di realizzazione personale dei suoi componenti”[18]. 3.3. L’art. 29 Cost. fra Corte costituzionale e legislatore. Se si deve riconoscere che l’Assemblea costituente molto probabilmente non pensava alla famiglia fondata sul matrimonio tra omosessuali, è anche vero che il testo di una Costituzione è destinato a durare nel tempo e pertanto necessita della continua e dinamica interpretazione delle sue disposizioni. La Corte costituzionale su questo aspetto ha peraltro avuto modo di pronunciarsi (sentt. nn. 87 del 66 e 9 del 65) e ha affermato che l’origine e la ratio storica di una disposizione non possono considerarsi decisive ai fini di una esatta interpretazione del sistema. Al contrario, “quali che siano il tempo e la occasione che le hanno dato vita, la norma va esaminata nella sua obiettiva struttura ed interpretata nella sua reale portata, per essere posta a confronto col precetto costituzionale, che si assume violato”. Analogamente, anticipando quanto si dirà su questo punto, si può ritenere che nelle intenzioni del Costituente non vi fosse la possibilità per i transessuali di sposarsi dopo essersi sottoposti a un’operazione chirurgica per il mutamento del proprio sesso di origine. Questa considerazione non ha peraltro impedito al legislatore di introdurre nel nostro ordinamento la disciplina che regola il procedimento che porta alla rettificazione dell’attribuzione del sesso e che quindi permette alla persona che si sia sottoposta ad operazione chirurgica di sposare una persona del suo stesso sesso originario. In Costituzione non vi è una esplicita definizione di matrimonio e, dunque, non vi sono ostacoli, dal punto di vista della lettera, all’ammissibilità di matrimonio fra persone dello stesso sesso o fra persone dello stesso sesso di origine. Per quanto riguarda le norme contenute nel codice civile, si deve riconoscere la necessità di ricorrere ad una interpretazione che tenga conto dell’evoluzione sociale nonché normativa di quelle disposizioni da cui alcuni sostengono di poter ricavare il carattere necessariamente eterosessuale del matrimonio. Occorre, infatti, anche nel caso in cui si ritenesse insormontabile il dato letterale del codice che fa riferimento a una moglie e a un marito e lo si volesse ricondurre per ciò solo alla necessità che la moglie sia una donna e il marito un uomo, adeguare tali disposizioni alle nuove esigenze sociali, fermo restando che questo risulta possibile perché non si rintraccia in Costituzione alcun dato letterale in senso contrario. Occorre, dunque, farsi carico dell’evoluzione normativa e socioculturale che ha interessato le norme del codice in materia (la Corte costituzionale del Sudafrica, nella sua sentenza del primo dicembre del 2005, ha rimosso il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso ricordando che il fatto che un pregiudizio sia antico non giustifica la permanenza). A questo proposito è utile ricostruire, se pur brevemente, quella che è stata l’evoluzione storica dell’istituto del matrimonio, sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale sia a livello normativo. In un primo tempo il principio di parità fra i coniugi sancito al secondo comma dell’art. 29 Cost. è stato valorizzato dalla Corte costituzionale non trascurando i principi di organizzazione e unità della famiglia. La Corte argomenta tale posizione partendo dalla considerazione per cui il principio di uguaglianza stabilito dall’art. 29 Cost. non gode di garanzia assoluta come invece per l’art. 3 Cost. (sent. n. 64 del 1961: in tale pronuncia la Corte ha dichiarato la questione di legittimità dell’art. 559 c.p. che puniva in modo diverso l’adulterio commesso dalla moglie rispetto al marito infondata; sentt. nn. 46 del 66, 147 del 69, 126 e 127 del 68). A fronte di tale posizione giurisprudenziale di bilanciamento tra principio di parità tra i coniugi e principio dell’unità familiare, si sono registrate delle proposte di riforma del diritto di famiglia. Se in un primo momento (progetto di riforma Reale, 1966) accanto al principio di parità, quanto a diritti e doveri dei coniugi, rimane il potere per il marito, in caso di disaccordo, di decidere in via definitiva sull’organizzazione della famiglia, successivamente tale potere scompare e si introduce l’intervento del giudice. Tale evoluzione normativa è stata dovuta ad un profondo mutamento socio-culturale che ha registrato il percorso di emancipazione della donna (di cui la stessa Corte costituzionale prende atto, sentt. nn. 126 e 127 del 1968) e un mutamento nel modo di intendere lo stesso matrimonio. Nel passaggio da un tipo di economia agricola ad una industriale, infatti, la funzione sociale dell’istituto perde la cornice sociale che giustificava vincoli morali e economici[19]. L’organizzazione gerarchica e autoritaria del matrimonio, frutto della concezione sociale tradizionale, viene così messa in discussione, comportando un mutamento nelle relazione dei soggetti che compongono la famiglia medesima. La famiglia diviene luogo di espressione della personalità del singolo, che trova ulteriore ed espressa tutela nell’art. 2 Cost. Un’organizzazione di tipo gerarchico della famiglia non può essere giustificata poiché occorre che i suoi membri svolgano ed esprimano al suo interno la propria personalità. Con particolare riguardo alla necessaria conformazione delle norme in materia di rapporti personali tra coniugi e principi costituzionali, la Corte costituzionale svolge un fondamentale ruolo che anticipa alcune delle soluzioni adottate con la riforma del 1975. Viene innanzitutto dichiarato incostituzionale l’art. 151 c.c. nella parte in cui stabilisce che l’infedeltà del marito possa essere causa imputabile di separazione solo se si riscontrano circostanze particolarmente ingiuriose per la moglie (sent. n. 127 del 1968). E così pure è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 c.p. a causa del diverso trattamento riservato alla moglie in caso di adulterio, con ciò modificando il proprio precedente che aveva dichiarato infondata la questione (sent. n. 64 del 1961, in cui si legge che “la norma impugnata, dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, nulla presenta nel suo contenuto e nelle sue finalità che possa qualificarla come violazione del principio di eguaglianza. Con tale norma non è stata creata a carico della moglie alcuna posizione di inferiorità, ma soltanto è stato preso atto di una situazione diversa, adattandovi una diversa disciplina giuridica. Che poi tale disciplina soddisfi ogni esigenza e sia mezzo idoneo e sufficiente per le finalità prese in considerazione, è questione di politica legislativa, non di legittimità costituzionale”; sent. n. 126 del 1968 per cui “Con la sentenza n. 64 del 23 novembre 1961, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 559, primo comma, del Codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. L'ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno prima, e le altre successivamente hanno riproposto la questione ulteriormente argomentando e sostenendo che, negli ultimi anni, è sostanzialmente mutata in materia la coscienza collettiva. Di conseguenza sarebbe necessario accertare se - nell'attuale momento storico sociale - continui a sussistere oppure no quella diversità obbiettiva di situazione che nella precedente sentenza la Corte ritenne di riscontrare sì da giustificare il differente trattamento, fatto dal legislatore penale all'adulterio della moglie rispetto a quello del marito. La Corte ritiene che la questione meriti di essere riesaminata. 4. - Il principio che il marito possa violare impunemente l'obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita - più o meno severamente - rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale. Da allora molto è mutato nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l'uomo; mentre il trattamento differenziato in tema di adulterio è rimasto immutato, nonostante che in alcuni stati di avanzata civiltà sia prevalso il principio della non ingerenza del legislatore nella delicata materia. ”; e ancora: “È questione di politica legislativa quella relativa alla punibilità dell'adulterio. Ma, poiché la discriminazione fatta in proposito dall'attuale legge penale viola il principio di eguaglianza fra coniugi – il quale rimane pur sempre la regola generale - occorre esaminare se essa sia essenziale alla unità familiare. Infatti solo in tal caso sarebbe ammissibile il sacrificio di quel principio di base nel nostro ordinamento. Ritiene la Corte, alla stregua dell'attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall'essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest'ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale.”) È stata inoltre dichiarato incostituzionale il comma quinto dell’art. 156 c.c. con ciò liberando la moglie separata dal dovere di portare, in caso di pregiudizio, il cognome del marito (sent. n. 128 del 1970). Con sent. n. 133 del 1970 la Corte si occupa dell’obbligo del mantenimento, tradizionalmente inteso a carico del marito in quanto considerato “capo-famiglia”, indipendentemente dalle condizione economiche della moglie. Viene dichiarato incostituzionale il primo comma dell’art. 445 c.c. laddove non subordina al fatto che la moglie non abbia mezzi sufficienti il dovere del marito di somministrarle, in proporzione delle sue sostanze, tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita. La Corte è intervenuta anche nella materia della potestà sui figli minori, confermando la legittimità del previgente art. 340 c.c. (poi abrogato dalla legge 151 del 1975) che negava alla moglie vedova che si era risposata l’amministrazione dei beni dei figli minori (sent. n. 49 del 1966) e dell’art. 260 c.c. (anche questo abrogato dalla riforma del 1975) che attribuiva la potestà esclusiva al padre, in materia di filiazione naturale (sent. n. 71 del 66). Al contrario, nel bilanciamento rispetto al principio di unità della famiglia, la Corte costituzionale non ha ritenuto fosse illegittima la disposizione che prevede l’automatica attribuzione del cognome del marito ai figli. Nell’ord. n. 176 del 1988 si legge che “l'interesse alla conservazione dell'unità familiare, tutelato dall'art. 29, comma secondo, Cost., sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell'atto costitutivo della famiglia, in guisa che ai figli esso sia non già imposto, cioè scelto, dai genitori (come il prenome) in sede di formazione dell'atto di nascita, bensì esteso ope legis”. Inoltre “sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all'evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell'autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall'art. 29 Cost., anziché avvalersi dell'autorizzazione a limitare l'uno in funzione dell'altro”. Si sottolinea peraltro che una tale innovazione normativa è una questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusiva del legislatore. La Corte ha poi confermato questa decisione (sent. n. 61 del 2006), richiamando espressamente i propri precedenti (ordd. nn. 176 del 1988 e n. 586 del 1988). Con riguardo poi al regime dei rapporti patrimoniali, la Corte ha contribuito in misura decisiva all’evoluzione normativa della materia. Con la sent. n. 133 del 1970, infatti, si dichiara l’incostituzionalità dell'art. 145, primo comma, c.c., nella parte in cui non subordina al fatto che la moglie non abbia mezzi sufficienti il dovere del marito di somministrarle, in proporzione delle sue sostanze, tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita (la questione era invece stata dichiarata infondata con la sent. n. 144 del 1967). Vengono dichiarati incostituzionali anche gli artt. 164, primo comma, c.c. (nella parte in cui non ammette i terzi a provare la simulazione delle convenzioni matrimoniali, sent. 188 del 1970) e art. 781 c.c. (che faceva divieto di donazioni fra coniugi, sent. 91 del 1973). 3.4. La sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale e l’orientamento della Corte di Cassazione. La Corte costituzionale, con la nota sent. n. 138 del 2010, poi ribadita dalle successive ordd. nn. 276 del 2010 e 4 del 2011, ha ritenuto quella del matrimonio fra persone dello stesso sesso una delle scelte conformi all’art. 2 Cost., scelta che risulta possibile per riconoscere diritti e doveri in capo alle coppie omosessuali, rinviando al legislatore il compito di intervenire con una compiuta disciplina sul punto. Come anticipato, in questa materia si individua una relazione tra il livello di tutela garantito a livello nazionale e dunque interno e quello internazionale, essendo pendente un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia, che intende ottenere dalla Corte europea il riconoscimento della necessità di una disciplina che regoli questi aspetti. Rispondendo alle richieste provenienti da diversi Tribunali[20], la Corte costituzionale ha affrontato per la prima volta, nella decisione n. 138[21], la questione del “diritto al matrimonio” delle coppie omosessuali. In assenza di decisioni da parte del legislatore, che ignora il tema da anni, e una volta naufragati, come anticipato, progetti di legge in tale direzione, quali i DICO [22] e i CUS[23], la sentenza n. 138 può essere letta come una decisione importante, ma ambigua. Importante, perché la Corte per la prima volta è stata chiamata a pronunciarsi sulla natura della discriminazione fra coppie eterosessuali ed omosessuali, positiva per alcune affermazioni sui diritti delle coppie omosessuali, in una certa misura deludente rispetto al quesito relativo all’individuazione di una giustificazione ragionevole che impedisca in Italia, tenuto conto dei principi costituzionali, letti in modo evolutivo, a una persona omosessuale di scegliere liberamente il proprio compagno, pur dello stesso sesso. La Corte, in particolare, ha ritenuto le richieste inammissibili, con riguardo ai profili attinenti agli artt. 2 e 117, comma 1, Cost., e infondate, in relazione agli artt. 3 e 29 Cost. La decisione non si limita a ratificare il diritto di ogni singolo individuo, eterosessuale o omosessuale, a fare le proprie scelte, ma sancisce, in modo inequivocabile, “il diritto fondamentale dell’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, a vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. La Corte costituzionale ha ritenuto che la scelta di porre una disciplina generale, astrattamente realizzabile non soltanto con l’estensione dell’istituto matrimoniale, ma anche in modi diversi, rientri nella sfera di discrezionalità che spetta al Parlamento, cui, la sentenza n. 138, viene rivolto un “monito”:il riconoscimento giuridico della coppia omosessuale, tutelata direttamente dall’art. 2 Cost., “necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia”. Peraltro la Corte costituzionale rafforza tale indicazione sottolineando che “può accadere infatti che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. Con particolare riferimento poi al parametro costituito dal primo comma dell’art. 117 Cost., che impone che le leggi italiane siano conformi ai principi del “diritto comunitario e degli obblighi internazionali”, la Corte costituzionale offre una lettura in un certo senso riduttiva, perché proprio l’art. 9 della Carta dei Diritti dell’Unione Europea, oggi norma giuridicamente vincolante, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, riconoscendo il diritto di “sposarsi” e di “avere una famiglia”, come aspetti scindibili ed entrambi esigibili, costituisce parametro fondamentale per la stessa questione di legittimità costituzionale e anche per integrare il parametro costituito dall’art. 29 Cost.[24], in relazione al quale la questione è stata ritenuta infondata. Certamente, il fatto che nel quadro europeo si possano ravvisare soluzioni differenti adottate dai legislatori nazionali in ordine all’istituto specifico (matrimonio, unioni civili, PACS) può giustificare il rinvio operato dal Giudice delle Leggi alla discrezionalità del legislatore. Occorre richiamare anche l’intervento in materia della Corte di Cassazione (sent. n. 4184 del 2012), chiamata a pronunciarsi, rigettandolo, su un ricorso presentato da una coppia di cittadini italiani dello stesso sesso che intendevano ottenere la trascrizione in Italia del matrimonio celebrato in Olanda. In particolare, la Corte di Cassazione, riprendendo ampiamente quanto stabilito dalla Corte costituzionale, ha affermato che i componenti della coppia omosessuale, che siano conviventi in stabile relazione di fatto, se anche non possono far valere il diritto a contrarre matrimonio e quello alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, sono comunque titolari del diritto alla vita familiare e del diritto inviolabile di vivere liberamente la loro condizione di coppia, oltre che del diritto a una tutela giurisdizionale per specifiche situazioni. 4. Un caso emblematico: il caso portoghese. Occorre soffermarsi su quanto si è verificato in Portogallo, poiché la sua analisi consente, ancora una volta, di mettere porre in evidenza le anomalie della situazione italiana. All’interno delle diverse soluzioni elaborate sullo statuto giuridico delle unioni omosessuali, quella portoghese può presentare diversi spunti di riflessione poiché riguarda un ordinamento raffrontabile a quello italiano soprattutto per quanto concerne il percorso iniziale che ha visto la questione della legittimità costituzionale del divieto del matrimonio omosessuale portata all’attenzione del Giudice costituzionale di entrambi gli ordinamenti attraverso la proposizione di ricorsi che chiedevano l’estensione del matrimonio anche alle coppie omosessuali. Inoltre in entrambi gli ordinamenti il Giudice costituzionale ha rivolto un monito al legislatore, ritenendo che in materia fosse necessario un suo intervento. Sotto questo profilo si delineano le differenze fra Italia e Portogallo: in quest’ultimo, infatti, a fronte del monito del Giudice costituzionale, il legislatore è intervenuto in modo tempestivo. È stata introdotta nell’ordinamento portoghese una legge volta a riconoscere il matrimonio omosessuale eliminando in tal modo il riferimento alla diversità di sesso prevista nel codice civile (fermo restando il divieto per la coppia sposata dello stesso sesso di adottare i minori) [25], che ha superato il controllo di legittimità costituzionale operato ancora una volta dal Tribunale costituzionale con la pronuncia n. 121 dell’8 aprile 2010. Occorre rilevare, inoltre, un ulteriore elemento di differenziazione tra i due ordinamenti. In Portogallo infatti già nel 2001 (l n. 7 del 2001) si era operata l’estensione alle coppie dello stesso sesso della normativa disposta a tutela delle unioni di fatto tra persone di sesso diverso (l. n. 135 del 1999). Peraltro, questa disciplina prevede due importanti eccezioni intorno all’assoluta estensione della disciplina, che riguardano l’adozione e l’accesso alla procreazione medicalmente assistita, che infatti risultano permesse alle sole coppie composte da membri di sesso diverso. Con la decisione n. 359 del 2009 il Tribunale costituzionale non ha ritenuto che il matrimonio tra persone dello stesso sesso potesse considerarsi imposto in ragione delle norme costituzionali che sanciscono i principi di dignità e di eguaglianza (art. 13 Cost.) e il diritto a formare e a tutelare la famiglia garantita (art. 36 Cost.), che dispongono che “tutti hanno il diritto di costituire una famiglia e di contrarre matrimonio in condizione di piena uguaglianza” e che “la legge regola i requisiti e gli effetti del matrimonio e del suo scioglimento per morte o per divorzio, indipendentemente dalla forma della celebrazione”. A seguito di questa pronuncia, il legislatore, come si anticipava, ritenuto dal Giudice costituzionale come l’unico soggetto che avrebbe potuto introdurre nell’ordinamento una modifica ella nozione di matrimonio, ha approvato la legge 9/XI, introduttiva del matrimonio omosessuale eliminando l’inciso “due persone di sesso diverso” e sostituendolo con “due persone”. Tale legge è stata successivamente impugnata, attraverso l’istituto del cd. ricorso preventivo di costituzionalità del Presidente della Repubblica (art. 278 Cost.) [26]. Il Tribunale costituzionale si è pronunciato per la non incostituzionalità della norma e il Capo dello Stato non ha esercitato il suo potere di rinvio. Il Giudice costituzionale ha giustificato la propria decisione ritenendo che la scelta del legislatore fondata sull’art. 36 Cost. che prevede che la legge regoli “i requisiti e gli effetti del matrimonio” (disponendo che tutti hanno il diritto di costituire una famiglia e di contrarre matrimonio e non facendo alcun riferimento alla condizione di ‘uomo’ o di ‘donna’) non ha come conseguenza la negazione e la limitazione del diritto di sposarsi o di non sposarsi. Si ritiene, inoltre, che non venga indebolito l’istituto del matrimonio riferito a persone di sesso diverso, né che i diritti delle persone di sesso diverso che intendono sposarsi vengano in alcun modo lesi. Inoltre, l’art. 67 Cost. non fornendo una definizione unica e cristallizzata di famiglia, consente la legittimazione del matrimonio omosessuale poiché una simile estensione non contrasta con il riconoscimento della tutela apprestata alla famiglia, considerata elemento essenziale della società. 4.1. Confronto fra l’ordinamento italiano e quello portoghese. Come si è visto dunque la differenza di approccio che emerge dall’analisi dei due ordinamenti presi in considerazione porta a concludere che i diritti delle coppie che richiedono il riconoscimento del matrimonio trovano diverse tutele e possibilità del loro esercizio. Questo dato è particolarmente interessante alla luce della considerazione già anticipata relativa al fatto che le decisioni dei rispettivi Giudici costituzionali hanno svolto argomentazioni in parte assimilabili. Infatti, in entrambe le pronunce, si sottolinea come le nozioni costituzionali di famiglia e di matrimonio non possano considerarsi cristallizzate e dunque definite una volta per tutte[27]. Questa conclusione peraltro è supportata dal fatto che nel momento in cui le Carte costituzionali entrarono in vigore le ipotesi di matrimoni o di unioni omosessuali non venne discussa. Tale conclusione, nelle considerazioni di entrambi i Giudici costituzionali, non può però condurre a estendere la portata della nozione di matrimonio per via interpretativa, essendo necessario che intervenga sul punto, il legislatore: l’introduzione ad opera delle Corti costituzionali del matrimonio omosessuale e dunque l’estensione dell’istituto anche alle coppie dello stesso sesso non è un risultato costituzionalmente imposto. Come è stato osservato[28] il Tribunale costituzionale portoghese si è pronunciato, avendone gli strumenti, nel senso della conformità a Costituzione della previsione del matrimonio omosessuale. Al contrario, la Corte costituzionale italiana si è espressa in modo non diretto intorno alla legittimità costituzionale di un’eventuale estensione da parte del legislatore alle coppie omosessuali dell’istituto matrimoniale. 5. Conclusioni. Alla luce delle considerazioni svolte, risulta evidente che l’irrobustirsi dello spazio giuridico europeo nella tutela dei diritti fondamentali costituisce una concreta possibilità per la garanzia e la tutela dei diritti stessi. In altre parole, dalla vicenda relativa al matrimonio tra persone dello stesso sesso emerge quanto sia fondamentale che si formi un vero e proprio spazio giuridico europeo di diritti e di regole comuni, che vengano definite anche in via giurisprudenziale. Questa necessità, peraltro, si mostra particolarmente stringente considerando che agli individui ormai è riconosciuta la più ampia libertà di circolazione nello spazio comune europeo, non più limitata alla loro dimensione strettamente ed esclusivamente economica (si pensi a questo proposito al caso di coppie omosessuali, che si sposano in un certo paese europeo in cui il matrimonio è per loro possibile, e che decidano poi di spostarsi in un altro stato membro). PARTE SECONDA L’ISTITUZIONE DEL REGISTRO DELLE UNIONI CIVILI A MILANO 1. L’istituzione del Registro delle Unioni civili a Milano. La proposta di delibera per l’approvazione del Regolamento per il riconoscimento delle unioni civili per il Comune di Milano è stata depositata l’11 giugno 2012. La proposta di delibera di iniziativa consiliare è stata analizzata nelle commissioni Affari Istituzionali e Pari Opportunità ed è stata approvata dai Consigli di zona dopo un’attenta e approfondita discussione, con alcune importanti osservazioni. Si tratta di un provvedimento dal valore molto importante, in quanto costituisce una forma di riconoscimento di realtà ormai imprescindibili nel territorio del Comune di Milano: realtà che tanto nuove non sono, fondate, anziché sul matrimonio, sul legame affettivo dei loro componenti. Questa proposta di delibera è frutto di un percorso lungo e travagliato ed è finalizzata a consentire al Comune di Milano di dare una formale attestazione di "unione anagrafica basata su vincolo affettivo" a coloro che, coabitando nello stesso Comune, ne facciano richiesta. 2. Il contenuto del provvedimento. Il Consiglio comunale ha approvato la delibera che istituisce il Registro delle unioni civili, svolgendo alcune importanti considerazioni che è necessario richiamare in questa sede. Il Consiglio comunale, infatti, ha preso atto che “la comunità cittadina, al pari di quella italiana, è caratterizzata dal crescere di forme di legami affettivi che non si concretano o non si possono concretare nell’istituto del matrimonio e che si denotano per una convivenza stabile e duratura”. Inoltre, “ai sensi dell’art. 5, comma 1, dello Statuto ‘il Comune riconosce e concorre a garantire le libertà e i diritti costituzionali delle persone e delle formazioni sociali, informa la sua azione all’esigenza di rendere effettivamente possibile a tutti l’esercizio dei loro diritti’”. E, ancora, “ai sensi dell’art. 5, comma 2, ‘Il Comune garantisce uguaglianza di trattamento alle persone e alle formazioni sociali nell’esercizio delle libertà e dei diritti, senza distinzione di età, sesso, razza, lingua, religione, opinione e condizione personale o sociale’”. Il provvedimento del Comune di Milano, inoltre, non manca di fare costante riferimento alle disposizioni costituzionali. In particolare, il Consiglio comunale ha ribadito che “già da tempo è stato ritenuto che l’ambito di operatività e quindi di riconoscimento e tutela costituzionale dell’articolo 2 della Costituzione si estende sicuramente alla fattispecie della famiglia di fatto dal momento che, come nella sua giurisprudenza costante ha rilevato la Corte Costituzionale, un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali”. In relazione alla giurisprudenza del Giudice delle Leggi, viene ricordata espressamente la sentenza n. 138 del 2010, con cui si è “riconosciuto tale fondamento costituzionale stabilendo che ‘per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico’” e si è “precisato che nella richiamata nozione di formazione sociale ‘è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri’”. Il Consiglio comunale ha altresì tenuto conto della successiva giurisprudenza della Corte di cassazione, che nel marzo del 2012 “ha affermato, proprio sulla scorta, in particolare, dell’art. 2 Cost., che i conviventi in stabile relazione di fatto […] sono titolari del diritto alla ‘vita familiare’, del diritto inviolabile di vivere liberamente la loro condizione di coppia e, in specifiche situazioni, del diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata, che possono far valere dinanzi all’autorità giurisdizionale”. Sebbene la legittimazione a creare un nuovo status personale debba essere riconosciuta solo al legislatore nazionale, tuttavia il Comune ha “la possibilità di operare in materia nell’ambito dei principi e delle regole fissate dalla legislazione statale e per le finalità ad esso assegnate dall’ordinamento”. A fronte di questa possibilità, quindi, il Comune, nell’ambito delle proprie competenze può operare “per promuovere pari opportunità per le unioni di fatto, favorendone l’integrazione sociale e prevenendo forme di disagio, con particolare riferimento alle persone anziane, nonché forme di discriminazione fondate sull’orientamento sessuale”. E, ancora, si è riconosciuto che “per raggiungere questo obiettivo è necessario stabilire forme di identificazione delle unioni civili basate su vincolo affettivo, così come la stessa legge anagrafica e il relativo regolamento attuativo prevedono”. La delibera è composta di cinque articoli. Nell’art. 1 (Istituzione del registro delle unioni civili) si dispone che: “E’ istituito il Registro amministrativo delle unioni civili presso il Comune di Milano per gli scopi e le finalità contenute negli artt. 2 e 3 di questo Regolamento.” All’art. 2 (Attività di sostegno delle unioni civili) si definisce l’unione civile comunale, facendo riferimento alla definizione contenuta nella disciplina legislativa del Regolamento anagrafico (comma 1); si definiscono le finalità del regolamento e le aree tematiche nelle quali gli interventi sono da considerarsi prioritari (comma 3); si chiarisce che l’Amministrazione deve avere attenzione alle particolari condizioni di “svantaggio economico e sociale”(comma 4); si introduce una disposizione molto importante dal punto di vista pratico, e cioè che all’interno del Comune di Milano “chi si iscrive al Registro è equiparato al parente prossimo […] ai fini della possibilità di assistenza” (comma 5). “1. Ai fini del presente Regolamento si intende per unioni civili ‘due persone maggiorenni’ legate da vincoli affettivi coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune […]. 2. Il Comune provvede […] a tutelare e sostenere le unioni civili, al fine di superare situazioni di discriminazione e favorirne l’integrazione […] nel contesto sociale, culturale ed economico del territorio. 3. Le aree tematiche entro le quali gli interventi sono da considerarsi prioritari sono: a) casa; b) sanità e servizi sociali; c) politiche per giovani, genitori e anziani; d) sport e tempo libero; e) formazione, scuola e servizi educativi; f) diritti e partecipazione; g) trasporti. 4. Gli atti dell’Amministrazione devono prevedere per le unioni civili […] condizioni non discriminatorie di accesso agli interventi in tali aree, evitando condizioni di svantaggio economico e sociale, nel quadro generale della particolare attenzione alle condizioni di disagio economicosociale. 5. All’interno del Comune di Milano, chi si iscrive al Registro è equiparato al ‘parente prossimo del soggetto con cui si è iscritto’ ai fini della possibilità di assistenza”. L’art. 3 (Rilascio di attestato di […] unione civile basata su vincolo affettivo) prevede il rilascio di “attestato di […] ‘unione civile basata su vincolo affettivo’” per chi lo richiede, prevedendo che l’ufficio competente possa verificare “l’effettiva convivenza delle persone che richiedono l’attestato” (comma 3, art. 3). “1. L’Amministrazione Comunale rilascia, su richiesta degli interessati, attestato di ‘unione civile basata su vincolo affettivo’ inteso come reciproca assistenza morale e materiale, ai sensi dell’articolo 4 del Regolamento anagrafico, in relazione a quanto documentato dall’Anagrafe della popolazione residente […]. Il riferimento famiglia anagrafica contenuto nell’art. 4 del D.P.R. 223/1989 va inteso in senso esclusivamente anagrafico, in considerazione della differenza tra le unioni civili, come formazioni sociali, previste e tutelate dall’art. 2 della Costituzione e la famiglia, prevista e tutelata dall’art. 29 della Costituzione. 2. l’attestato è rilasciato per i soli usi necessari al riconoscimento di diritti e benefici previsti da Atti e Disposizioni dell’Amministrazione comunale. 3. L’ufficio competente […] verifica l’effettiva convivenza delle persone che richiedono l’attestato.” L’art. 4 (Iscrizione nel Registro) individua i requisiti per l’iscrizione, ovvero la domanda congiunta di due persone maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, che siano residenti e coabitanti nel Comune di Milano. “1. Possono richiedere di essere iscritte al Registro delle unioni civili due persone maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, residenti e coabitanti nel Comune di Milano. 2. Le iscrizioni nel Registro avvengono esclusivamente sulla base di una domanda presentata al Comune congiuntamente dagli interessati. 3. L’iscrizione nel Registro non può essere richiesta da coloro che facciano già parte di una diversa unione civile, i cui effetti non siano cessati al momento della domanda di iscrizione, né dalle persone coniugate fino al momento dell’annotazione della separazione personale sull’atto di matrimonio.” L’art. 5 (Cancellazione dal registro) prevede che l’unione civile venga cancellata nel caso in cui cessi la coabitazione o la residenza nel Comune di Milano. Nel caso in cui la coabitazione non cessi, ma i rapporti affettivi o la reciproca assistenza venga meno, la cancellazione può determinarsi solo a seguito di richiesta congiunta o di una sola parte. “1. Il cessare della situazione di coabitazione e/o di residenza nel Comune di Milano determina la cancellazione d’ufficio dal registro. 2. Nel caso di permanenza della coabitazione ma del venir meno dei rapporti affettivi e/o della reciproca assistenza morale e/o materiale, la cancellazione avviene solo su richiesta di una o di entrambe le parti interessate. 3. Nel caso non vi sia una richiesta congiunta, il Comune provvede a inviare all’altro componente una comunicazione.” 3. L’attuazione degli artt. 2 e 3 Cost. e del principio costituzionale di laicità. Occorre ribadire, a conclusione del percorso compiuto dal Consiglio, i principi costituzionali cui con questo provvedimento si intende dare attuazione. In primo luogo, vengono in rilievo il principio costituzionale di uguaglianza e il divieto di ogni discriminazione. Da questo punto di vista, la delibera segna indiscutibilmente un passo in avanti nella protezione delle formazioni sociali diverse dalla famiglia tradizionale, ma non per questo meno degne di tutela, come le unioni omosessuali. Queste formazioni sociali già nel 2010 sono state ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito di applicazione dell’art. 2 Cost., che protegge i diritti inviolabili dell’uomo, con ciò riconoscendole titolari del diritto “a vivere liberamente la condizione di coppia” e chiedendo al legislatore di intervenire con una disciplina generale (sent. n. 138 del 2010). Siamo peraltro ben consapevoli, lo si è ben chiarito nel corso del dibattito in Consiglio, che il Comune con questa delibera non può e non intende sostituirsi al legislatore statale, competente in tema di diritto di famiglia. Il Comune intende invece unicamente, nell’ambito delle competenze che gli sono attribuite e in qualità di ente che la Costituzione colloca al livello più vicino ai cittadini e dunque alle loro esigenze concrete, dotarsi dello strumento necessario per predisporre azioni volte a tutelare e sostenere queste formazioni sociali, nell’esercizio dei poteri organizzativi a esso spettanti. Il registro è necessario, infatti, per la più piena attuazione di provvedimenti del Comune di Milano già presi in questa direzione, come il Fondo anticrisi e le misure a sostegno delle assunzioni dei giovani, e renderà immediato e semplice l’intervento dello stesso Comune nei settori indicati nella delibera, come la casa, la sanità e i servizi sociali, le politiche a sostegno di giovani, genitori e anziani, lo sport e il tempo libero, la scuola e i servizi educativi, e i trasporti. Questo provvedimento attua la Costituzione anche su un altro versante. Si tratta infatti di una delibera ispirata al principio costituzionale di laicità, intesa non solo e non tanto come separazione dell’ordine statale e religioso, ma come metodo, che passa innanzitutto attraverso il dialogo e il confronto e che porta conseguentemente all’apertura alle differenti realtà sociali, nel senso della loro inclusione. Proprio in questa ottica, quindi, occorre sottolineare questo punto: le unioni civili – e il loro riconoscimento – non costituiscono una minaccia per la famiglia tradizionale, ma si affiancano ad essa. 4. Gli effetti “ordinamentali” del provvedimento. Il primo profilo da considerare in relazione agli effetti ordina mentali del provvedimento che istituisce il registro è quello simbolico e formale. In un ordinamento come quello italiano, da questo punto di vista quasi un unicum a livello europeo, in cui il legislatore nazionale continua a non voler disciplinare la diffusissima realtà delle unioni basate sul legame affettivo, anche il Comune di Milano, ente locale che opera in una delle aree territoriali trainanti, da un punto di vista sia culturale sia economico, per tutto il paese, ha deciso di intervenire, nel rispetto dei limiti delle proprie competenze. Da questo punto di vista, soprattutto per le coppie omosessuali che oggi sono le più discriminate, il Comune di Milano dimostra di dare seguito alle importanti affermazioni della Corte costituzionale, che con la già citata sentenza n. 138 del 2010, ha riconosciuto alle stesse il diritto “a vivere liberamente la propria condizione di coppia”, inserendole a pieno titolo tra le formazioni sociali protette dall’art. 2 Cost., chiedendo al legislatore di intervenire con una disciplina generale. Nello stesso senso, si è pronunciata di recente anche la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 4184 del 2012, ha riconosciuto in capo ai membri della coppia legata da un vincolo affettivo stabile la titolarità del diritto alla “vita familiare” e del diritto inviolabile di vivere liberamente la condizione di coppia, nonché, in specifiche situazioni, il diritto a beneficiare un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata. 5. Gli effetti “concreti”del provvedimento. A fronte di queste considerazioni, occorre soffermarsi sugli effetti concreti che derivano dal riconoscimento dell’unione civile. Secondo il regolamento il Comune tutela e sostiene le unioni civili al fine di superare ogni discriminazione e favorire la loro integrazione nel contesto sociale, culturale ed economico del territorio. Il regolamento, peraltro, indica precisamente le aree tematiche in cui gli interventi del Comune, in questa direzione, sono prioritari in considerazione delle specificità del territorio. In particolare, come si è visto, si tratta di settori come la casa, la sanità e i servizi sociali, le politiche a sostegno di giovani, genitori e anziani, lo sport e il tempo libero, la scuola e i servizi educativi, i diritti e i trasporti. Il regolamento prevede, altresì, che l’iscrizione al Registro delle Unioni civili sia idonea a conferire ai componenti dell’unione la qualifica di “parente prossimo” ai fini della possibilità di prestare assistenza nel Comune di Milano. In questi ambiti, quindi, per il Comune di Milano sarà possibile riconoscere diritti e prevedere azioni di sostegno per le famiglie anagrafiche registrate ai sensi del Regolamento, che quindi vedranno così riconosciuto il proprio legame affettivo. Inoltre, il riconoscimento di queste unioni costituisce il presupposto essenziale affinché il Comune di Milano possa predisporre azioni volte a tutelare e sostenere queste formazioni sociali, nel rispetto delle proprie competenze. In parole più semplici, è vera l’obiezione secondo la quale già ora il Comune può e deve operare in modo non discriminatorio, ma il riferimento alle coppie “registrate” consentirebbe al Comune di operare in modo più chiaro e senza possibilità di equivoci. Occorre, infatti, rilevare come l’istituzione del Registro si riveli necessaria per la più piena attuazione di provvedimenti del Comune di Milano già volti in questa direzione, tra cui si possono richiamare in particolare quelli a sostegno della città contro la crisi (come il Fondo anticrisi e le misure a sostegno delle assunzioni dei giovani) e i cui dati, presentati dall’Assessorato alle Politiche sociali e Cultura della salute e dall’Assessorato al Lavoro, dimostrano come il riconoscimento delle unioni civili attraverso un Registro consenta anche una verifica e un controllo delle realtà che possono accedere ai benefici previsti da questi provvedimenti. In relazione alla definizione di unione civile, rilevante ai fini dell’iscrizione nel Registro, quale insieme di persone legate da vincoli affettivi, si deve sottolineare come il riferimento sia inequivocabilmente rivolto all’unione di due persone, ossia esclusivamente alle coppie, anche se questo profilo potrebbe essere meglio precisato, con una specificazione che chiarisca la stessa definizione testuale introdotta dall’art. 2. 6. La natura dei registri. In relazione alla discussa natura dei registri delle unioni civili e alla loro reale portata, occorre richiamare la chiarissima decisione del Tar Toscana del 2001. Con questa pronuncia il giudice amministrativo, respingendo in toto un ricorso contro l’istituzione del registro nel comune di Firenze, afferma testualmente che “Il registro comunale sulle unioni civili non è diretto a creare un nuovo status, ma ad assicurare a siffatte formazioni sociali, che sono un dato di fatto che non può essere ignorato, parità di trattamento rispetto alle tradizionali coppie di fatto o alle convivenze di varia natura […] e ovviamente nei limiti del rispetto dei principi derivanti dalla legislazione statale o regionale delle varie materie coinvolte […]; tale limite, se pur non espresso nella specie, deriva all’evidenza dal sistema di gerarchia delle fonti che caratterizza il nostro ordinamento pluralistico. Rientra quindi nell’autonomia comunale la tenuta di registri, diversi e ulteriori rispetto a quelli dello stato civile e dell’anagrafe, di carattere particolare e diretti alla rilevazione di dati della realtà sociale, che possono essere utili per l’esplicazione delle competenze comunali e per la loro programmazione a fini amministrativi e finanziari.” 7. Conclusioni: “Unioni” contro “Famiglia”? Nel Comune di Milano, le unioni basate sul vincolo affettivo sono oramai numerose, ma non solo: esse rappresentano una realtà consolidata, sia pure solo nei fatti, che non può certo essere messa in discussione a causa del suo mancato riconoscimento normativo. Tale realtà dimostra come le unioni basate sul vincolo affettivo non mettono in crisi la famiglia tradizionale, poiché non le “fanno concorrenza”. I fattori di difficoltà della famiglia tradizionale sono da ricercare, se mai, altrove. Gli interessi riconducibili alla famiglia tradizionale, peraltro, sono gli stessi che impongono di conferire dignità giuridica anche alle unioni basate sul legame affettivo. In conclusione, occorre prendere atto del fatto che la società “è più avanti del legislatore” e che quest’ultimo in Italia dovrebbe svolgere pienamente il proprio compito, ovvero quello di recepire e regolamentare le nuove istanze provenienti dalla società stessa. Ecco perché l’intervento del Comune di Milano, nel rispetto delle proprie competenze e con la consapevolezza dei propri limiti, acquisisce oggi tanto valore in considerazione, da un lato, delle indicazioni che provengono dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di cassazione e, dall’altro, di un panorama europeo da cui emerge in modo sempre più evidente la necessità di un’attuazione piena nel nostro Paese dei principi della laicità e del pluralismo, intesi come dialogo, confronto e rispetto delle reciproche differenze, in un quadro che tenga sempre al centro quel principio costituzionale della persona a cui hanno contribuito insieme tutti i nostri costituenti, di certo appartenenti a “fedi” diverse fra loro, ma uniti dal comune principio della tolleranza e del rispetto. [1] Si intende il livello di tutela dell’Unione europea. In particolare, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si veda a proposito S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001. [2] Sul tema si rinvia a P. BILANCIA, E. DE MARCO (a cura di), La tutela multilivello dei diritti: punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004. [3] [4] M. D’Amico, I diritti contesi, Milano, FrancoAngeli, 2008. In particolare, occorre richiamare la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2004/38 che contribuisce all’attuazione della libertà di circolazione intesa in senso non esclusivamente economico e che fornisce interessanti spunti di riflessione anche per la questione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, nel momento in cui intende garantire il diritto al ricongiungimento familiare oltre che per i coniugi anche per chi sia legato da forme di unione registrate (che devono però essere riconosciute dallo Stato ospitante) [5] Sul punto v. R. ROMBOLI, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, 1985; inoltre, sia consentito rinviare a M. D’AMICO, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Torino, 1990 e, successivamente, a M. D’AMICO; I soggetti del processo costituzionale nella giurisprudenza della Corte costituzionale: una rilettura, atti del Seminario del 12 novembre 2010, tenutosi alla Corte costituzionale, in www.giurcost.org. [6] Sentenza del primo aprile 2010, peraltro superata dalla pronuncia del novembre 2011 della Grande Camera che ha ritenuto la disciplina austriaca non contrastante con la CEDU. [7] M. D’AMICO, “La Corte costituzionale”, in V. ONIDA, M. PEDRAZZA GORLERO (a cura di), Compendio di Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2008, 345. [8] [9] A. PUGIOTTO, Alla radice costituzionale dei “casi”: la famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio», in www.forumcostituzionale.it. L’onorevole RODI dichiarò che “società naturale” era una definizione incompleta e singolare, Ass. Costituente, 17 aprile 1947; l’onorevole BASSO dichiarò di non poter “approvare l'aggettivo «naturale», contro il quale ha già avuto occasione di pronunciarsi. Se con questo si intendesse fare un'affermazione storica nel senso di considerare la famiglia come la prima forma naturale della società, si direbbe un'eresia scientifica, poiché lo Stato riconosce oggi una determinata famiglia che è il frutto di un'evoluzione storica.”, Ass. costituente, I Sottocommissione, 30 ottobre 1946. [10] [11] BESSONE, “Art. 29”, in BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione. [12] CAGGIA - ZOPPINI, “Art. 29”, in Commentario alla Costituzione, UTET. [13] BESSONE, “Art. 29”, in BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione. [14] RESCIGNO, voce Famiglia, in Enciclopedia italiana. GATTUSO, “Appunti sulla famiglia naturale e il principio di eguaglianza”, in Questione Giustizia, 2007. [15] BESSONE, “Art. 29”, in BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, con particolare riferimento all’istituto del divorzio. [16] GATTUSO, “Appunti sulla famiglia naturale e il principio di eguaglianza”, in Questione Giustizia, 2007. [17] [18] P. VERONESI, “Costituzione, «strane famiglie» e «nuovi matrimoni»”, in Quad. cost., 2008. [19] CAGGIA – ZOPPINI, “Art. 29”, in Commentario alla Costituzione, UTET. Ordinanze di rimessione del Tribunale di Venezia, 3 aprile 2009, e della Corte di Appello di Trento, 29 luglio 2009. Per un inquadramento puntuale, si veda R. BIN, G. BRUNELLI, A. GUAZZAROTTI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), La «società naturale» e i suoi “nemici”. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, Giappichelli, Torino, 2010. [20] B. PEZZINI, “Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale”, e R. ROMBOLI, “Il diritto [21] ‘consentito’ al matrimonio ed il diritto ‘garantito’ alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la Corte dice ‘troppo’ e ‘troppo poco’”, entrambi in www.associazionedeicostituzionalisti.it, in corso di pubblicazione sul n. 3/2010 di Giur. cost. [22] A commento del disegno di legge sui DICO (ddl n. 1339, recante “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, presentato al Senato il 21 febbraio 2007), si veda L. VIOLINI, “Il riconoscimento delle coppie di fatto: praeter o contra constitutionem?”, in www.forumcostituzionale.it. Disegno di legge relativo ai Contratti di Unione Solidale, che ha sostituito il disegno di legge sui DICO, presentato al Senato nel luglio 2007. [23] Si veda, per gli aspetti generali, F. BASSANINI, G. TIBERI (a cura di), Le nuove istituzioni europee: commento al Trattato di Lisbona, Il Mulino, Bologna, 2008. [24] Si tratta della legge 9/XI. A commento della pronuncia del Tribunale costituzionale portoghese e per un confronto con la decisione qui in esame della Corte costituzionale, si veda E. CRIVELLI, “Il matrimonio omosessuale e la ripartizione di competenze tra legislatore e organo di giustizia costituzionale: spunti da una recente decisione del Tribunale costituzionale portoghese”, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. [25] Si prevede in particolare la legittimazione del Capo dello Stato a sottoporre una legge nel termine di 8 giorni dal suo ricevimento per la promulgazione al Tribunale costituzionale, il quale deve pronunciarsi entro 25 giorni. [26] Si veda, con particolare riguardo alla Costituzione italiana, i lavori preparatori dell’Assemblea costituente, ampiamente ricostruiti negli atti presentati alla Corte costituzionale nell’ambito del giudizio che ha portato alla decisione n. 138 del 2010. [27] [28] E. CRIVELLI, “Il matrimonio omosessuale”, cit.