Favole Metodologiche

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Introduzione
FAVOLE METODOLOGICHE O GIOCHI METODOLOGICI
Abbiamo voluto raccogliere in queste pagine le favole metodologiche o giochi
metodologici che abbiamo utilizzato negli ultimi anni nel corso dei laboratori di teatro e
filosofia nelle scuole primarie torinesi. Favole o giochi sono termini interscambiabili,
come vedremo, perché sono favole inventate per far giocare i ragazzi come personaggi in
un contesto di fantasia. Un immaginario da condividere che obbliga ad avere nella storia
un ruolo non scritto, ad argomentare e sperimentare comportamenti e giudizi vestiti con
la gestualità e l’emotività del personaggio che si interpreta.
Nessuno in questo contesto è spettatore o critico teatrale perché mancherà l’esibizione
da applaudire. Siamo tutti coinvolti nella favola e se parte un applauso è rivolto al
personaggio, non all’attore. Per la stessa ragione le favole che qui abbiamo giocato a
mettere in prosa restano quel gioco prestato alla pagina per divertirsi a leggerle, sono
una semplice ipotesi di forma letteraria. La loro trama può e chiede di essere
riformulata, sviluppata o sintetizzata a piacere, per arrivare a giocare sui contenuti utili
al gioco.
Nella seconda parte di questo dossier raccontiamo quindi, per ogni favola, la dinamica
del gioco che ne consegue e il suo obiettivo metodologico. Il materiale così raccolto si
presta ad essere uno strumento di riferimento piuttosto che un documento, sebbene sia
una descrizione del nostro metodo di lavorare con i ragazzi. L’importanza che diamo alla
parola metodo – *hodos in latino è la strada, il cammino, quindi letteralmente dopo il
cammino, guardare indietro per proseguire - indica per noi una tensione alla verifica
continua degli strumenti e degli obiettivi, non certo per cristallizzare le modalità di
dialogo quanto per motivare la ricerca di queste modalità in coerenza con gli obiettivi e
le competenze, che nel nostro caso sono specificamente teatrali.
Per dare così anche il quadro in cui inseriamo la nostra ricerca abbiamo messo in
appendice alcune riflessioni sulle relazioni che tracciamo fra le parole: gioco, favola,
teatro, filosofia.
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Indice
p.1 Introduzione
p. 5 Prima parte - le favole
p.6 La sfida
p.8 La macchina delle domande
p.10 I mille re
p.12 Il tiranno
p.15 Favola della democrazia
p.16 Cane e gatto
p.19 Seconda parte - i giochi
p.23 Appendice
ILLUSTRAZIONI: Claudio Dughera
TESTI A CURA: Francesca Alongi, Elena Campanella, Alice De Bacco, Claudia Martore,
Pasquale Buonarota, Alessandro Pisci
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Prima parte
LE FAVOLE
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LA SFIDA
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Poco, ma davvero poco poco tempo fa, era sopravvissuto a secoli gloriosi un piccolissimo regno non malvagio ma
certo un po’ infelice, dove la gente a volte parlava e a volte ragliava senza preavviso. Era sempre stato così e così
nessuno se ne dava gran pensiero. Chiunque aveva almeno un amico o un parente asino, e qualcuno lo aveva anche
eletto sindaco, ma nessuno ne andava orgoglioso e tutti temevano le malelingue. Il guaio fu quando la gente si
accorse che anche il loro piccolo re era diventato un povero ciucco ma era vietato riderne per decreto regale.
Molti pensavano a un epidemia dovuta alle guerre recenti in terre lontane, altri a una maledizione di qualche vecchia
megéra, ma dottori e insegnanti non avevano scienza per negare o rimediare e si limitavano a insegnare alla piccola
Scuola Regia quel che avevano appreso nella Regia Università Reale dove chi sapeva era promosso e chi non sapeva
era un asino.
In un piccolo villaggio vicino al confine c’era una piccola scuola di montagna. Non era una scuola malvagia, ma
quando la vecchia maestra o il magnifico preside interrogavano quei ragazzi, fra i banchi serpeggiava il timore di
veder crescere alle spalle una coda pulciosa e di non saper più parlare o pensare, ma solo ragliare. Non che la vecchia
maestra o il magnifico preside fossero maghi o stregoni, no: era la paura di sbagliare a fare quell’orribile sortilegio di
dividere i compagni di classe in umani ed equini. La cosa davvero crudele fu che, col tempo, la vecchia maestra fu
troppo vecchia per distinguere gli uni dagli altri perché la vista era calata, l’udito si era fatto incerto e la situazione in
classe sempre più confusa. Da qualche tempo infatti ragliavano proprio quei sapientoni che davano dell’asino ai loro
compagni e senza avvedersi della propria coda incrementavano l’anagrafe asinina . La vecchia maestra decise allora
di ritirarsi in una pensione in riva al mare, dove i ciucchi erano pochi e tutti a faticare. Prese il suo posto una maestra
più giovane da poco sopraggiunta da un paese lontano ma non troppo lontano. Presto era diventato un incubo anche
per lei fare lezione e decise di porre fine a quello strazio.
Sembrava una mattina come le altre quando, ottenuta l’attenzione di tutti, la nuova maestra disse:
- Da oggi cominceremo a fare insieme qualcosa di bello e di importante che voi tutti ben conoscete: faremo della
filosofia.
Si sentivano volare le mosche intorno e, di quando in quando, il battere di una coda per allontanarle. Poveri ragazzi!
Non avendo mai sentito o studiato quella parola, non sapevano cosa dovevano sapere. Eppure la maestra aveva ben
scandito quelle parole: “…qualcosa che voi ben conoscete”.
Tutti avevano paura di alzare le zampe con quei ridicoli zoccoli duri e tacquero per prudenza in attesa di nuovi indizi.
Allora la maestra guardò negli occhi ognuno dei suoi ragazzi come si guarda un amico prima di iniziare un’avventura
elettrizzante e disse:
- Non sapete cos’è la filosofia? Allora voglio fare una sfida: scommettiamo che, qualunque cosa direte che sia, sarà
giusta?
La sfida sembrava interessante, ma l’istinto animale dei più faceva fiutare una trappola e così solo una zampa si levò
a mezz’aria nel silenzio. Era Matteo che stranamente si era fatto coraggio, lui che non era abituato a rispondere fra i
primi:
- È qualcosa che ha a che fare con un filo?
I suoi compagni avevano già iniziato ridacchiare fra le mosche, come facevano di solito alle risposte astruse di
Matteo. Ma la maestra, fra lo stupore di tutti, disse:
- Bravo Matteo, come immaginavo hai detto una cosa davvero interessante della filosofia e sono felice di confermare
che … qualcosa di vero c’è!
Tutti videro che la zampa di Matteo era tornata ad essere un braccio normale con la sua mano fatta di cinque dita; e
notarono anche che, ai piedi, aveva delle normali scarpe da ginnastica, proprio come quando, nel pomeriggio,
giocano con lui al campetto e Matteo corre veloce, senza coda, né orecchie lunghe e dribbla tutti gli avversari.
Insomma non era affatto un asino come credevano!
Allora alzarono la zampa anche Giorgia, Valentina, Jasmine e Mohamed e ad ogni loro risposta, per quanto strana o
diversa dalle precedenti, la maestra disse che qualcosa di vero c’era. Sembrava impossibile ed era meraviglioso.
Nessuno dava più dell’asino a nessuno e tutti trovarono un coraggio che non avevano mai avuto prima, perché
bastava immaginare un significato o anche solo desiderarlo per sentir risuonare ormai in coro che “…qualcosa di vero
c’è!”.
Questa filosofia doveva essere una cosa davvero interessante se rispondeva a tutte quelle aspettative
e intanto aveva già fatto una magia: in quella classe quasi tutti avevano azzardato un significato per quella parola e
anche chi non aveva detto nulla, lo aveva in cuor suo pensato o sperato; insomma, nessuno quella mattina
somigliava lontanamente a un asino perché tutti avevano una buona ragione. Ma come potevano avere tutti
ragione? Quando la maestra svelò il significato di quella parola, non volava più una mosca.
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-­‐ Fa che non mi faccia una domanda!
-­‐ Fa che non interroghi me!
-­‐ Speriamo che non mi chieda niente!
-­‐ Speriamo che nessuno oggi m’interroghi!
-­‐ Speriamo che oggi non si interroghi nessuno!
-­‐ Come sarebbe bello se da oggi sparissero le domande!
Il caso volle che quel giorno passasse di lì un mago che decise di esaudire il desiderio degli studenti:
da quel giorno in quella città non risuonò più una sola domanda.
Cent’anni dopo lo stesso mago tornò da quelle parti per vedere come andavano le cose: notò subito che i
palazzi erano tutti grigi e le case tutte uguali, perché gli architetti da tempo avevano smesso di chiedersi
come fare delle belle case.
La discarica poi era diventata così grande che era tutt’uno con la città: nessuno si era più chiesto come
aggiustare le cose che non funzionavano e così le buttavano. Tutte le macchine erano ferme, le automobili
abbandonate!
Il panettiere, invece, non aveva mai scelto di fare il panettiere: gli era capitato -­‐ e del resto il pane non era
un granché!
Il maestro in classe leggeva il libro e i bambini dovevano impararlo a memoria: quel buon uomo non si
chiedeva mai come far piacere le sue lezioni e le sue materie.
Quando i ragazzi tornavano a casa, trovavano sempre la stessa minestra poiché le mamme, facendo la
spesa, non si chiedevano “Cosa cucino oggi di buono?” e neanche “Come miglioro la mia minestra?”.
La sera poi, in quelle case, era noioso addormentarsi perché nessun bambino chiedeva al papà di
raccontargli una storia.
Il mago capì che così non poteva andare avanti e decise di fare qualcosa per rimediare a quel disastro.
Puntò negli occhi una bella signora e le chiese gentilmente:
-­‐ Come sta?
La signora, sorpresa, si era quasi spaventata perché mai nessuno gliel’aveva domandato e nemmeno lei se lo
era mai chiesto.
-­‐ Non lo so, come sto!
-­‐ Che peccato, potrebbe esser felice e non lo sa! – disse il mago, che aggiunse – Mi scusi se insisto: cosa
potrebbe renderla felice?
-­‐ Vorrei far volare un aquilone!
Quella domanda cambiò quella giornata: tutti rimasero a bocca aperta vedendo poco dopo volteggiare
l’aquilone nella piazza principale.
Dal panettiere al sindaco, dal carrozziere al postino, dalle mamme ai bambini, fu ben presto una gran
folla che chiedeva a quel mago nuove domande e nuovi problemi. Allora il mago ideò per loro un congegno
sorprendente:
-­‐ Costruiremo insieme una “macchina delle domande”!
E dopo aver fatto un elenco, affisso in municipio, dei modi in cui si formulano le domande ogni cittadino che
poneva un problema, o interrogava un argomento, diventava un ingranaggio di quella
macchina meravigliosa che rimise in moto la vita di tutta la città.
Ora provate voi a mettere in moto la macchina su un argomento a vostra scelta: scrivete su un
grande foglio tutti i modi che conoscete per formulare una domanda (Chi? Cosa? Come? Quando? Perché?
Dove? Quanto?...) e chiunque riesca formulare una domanda che contenga la parola chiave
dell’argomento mimerà un ingranaggio della Grande Macchina . Quando pensate di avere formulato
domande a sufficienza, mettete in moto il meccanismo col contributo rumoroso di tutti e avviate la vostra
favolosa ricerca. Buon viaggio!
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In un tempo lontano nel paese di Tuttipopoli si viveva bene e le giornate trascorrevano serenamente.
Un giorno di un mese di un anno arrivò un cavaliere da terre lontane.
Giunto al centro della grande piazza scese dal suo cavallo e chiese al primo uomo che passava dove
potesse trovare il Re di quel regno felice, perché il suo Sovrano voleva porgergli una grande domanda.
L’uomo, un po’ stupito, disse che lì non vi erano né castelli né tanto meno re.
Fatta una breve indagine, sembrava che nessuno in quel paese sapesse che cosa fosse un “Re” se non la
conosciutissima nota musicale.
Il problema era che il Cavaliere non poteva tornare da questa sua missione a mani vuote e cioè senza
una risposta.
Dopo qualche giorno di ricerche, uno degli anziani risultò essere l’unico in paese ad avere ricordo di
cosa fosse un Re e fu dunque incaricato di nominarne uno, così che il cavaliere potesse rivolgergli la sua
domanda. L’anziano chiese un giorno per riflettere.
Il mattino dopo, di buon’ora, il popolo di Tuttipopoli si radunò in piazza. Erano tutti intorno all’anziano
che nel silenzio delle prime ore del giorno disse:
-­‐ Re sarà colui che riuscirà a dare una risposta alla domanda del cavaliere.
Il silenzio, improvvisamente, si fece denso di pensieri.
Tutte le menti di Tuttipopoli erano pronte a trovare una pronta risposta alla domanda, quando il
cavaliere, solennemente, formulò il suo quesito:
-­‐ Il mio Re domanda alla Vostra Maestà il segreto per la felicità?
Non pochi furono gli attimi di attesa quando, fra folla, il panettiere fece un passo avanti:
-­‐ La felicità è vedere che la gente ama il mio pane, perché anch’io amo le mie pagnotte.
Il panettiere fu subito nominato Re e il Cavaliere fu felice di poter finalmente mettere nel suo sacco una
chiara risposta per il suo Sovrano.
Ma fu allora che si fece avanti la signora Cesira:
-­‐ Sua maestà, il nostro Re, ha ragione: amare il proprio lavoro rende felici. Però anche avere il tempo
di far niente dà felicità.
Anche lei, con l’approvazione del suo Re e della gente, venne dunque nominata Regina e il Cavaliere mise
nel sacco la sua risposta.
-­‐ Sua maestà ha ragione, ma la felicità sono anche i miei amici -­‐ disse forte il piccolo Ninetto, e visto che
tutti annuivano al suo cortese rilievo, fu anche lui nominato Re.
In breve: tutto il villaggio partecipò, dando ognuno la propria risposta e venendo incoronato Re
accanto agli altri Re. Il Cavaliere li salutò con grande rispetto, a uno a uno, per aver riempito il suo sacco
di così tante piccole risposte che contenevano così grandi verità, e fu felice lui stesso nel vedere tante
teste coronate illuminare come una sola luce il suo viaggio di ritorno.
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C'era una volta un Re, seduto sul sofà,
che chiese alla sua serva:
- Raccontami di me”
Allora la sua serva, esitando, cominciò:
- C’era una volta un re che aveva un bel sofà.”
- Tutto qui?”
- Tutto qui. - Rispose la sua serva.
- Ma il popolo che dice del suo amato re?"
- Che c’era una volta - rispose la sua serva – ma questa è un’altra storia”.
Allora il nostro re, seduto sul sofà, incominciò a sudare:
- Qualcosa mi ha distratto, non ho più detto un detto, non ho più fatto un fatto, e il popolo assuefatto non
sa di avere un re! Qualcosa devo dire, qualcosa devo fare! - e disse alla sua serva - Dichiarerò una guerra
per farmi ricordare!
- La guerra è fuori moda – rispose la sua serva – perché non va a dormire?
- Mi piacerebbe tanto, ma come prender sonno se non so quel che sono? Dimmelo tu mia serva: a cosa
serve il re, a cosa servo io?
- Voi non servite niente! – rispose la sua serva – servire è il mio mestiere.
Il re voleva piangere, ma non serviva a niente; voleva protestare, ma non serviva a niente;
voleva far qualcosa, ma non serviva a niente!
La serva, per consiglio, gli suggerì di smettere di lamentarsi tanto:
- Ma che ricordo indegno, un re senza contegno!
E scosso nel suo orgoglio il re pensò al suo regno:
- Farò una nuova legge che serva a ricordare quanta saggezza serve per farsi ricordare. Sua maestà regale
regalerà una regola: è legge dello stato... - ci pensò su un istante, perché ci vuole tempo per diventare
saggio! -...che sian buone le pere insieme ad il formaggio!”
- Bene maestà – commentò la serva - Quindi maestà?
- Q... q... q... quindi? - balbettò il re tremando spaventato – Cosa vuol dire quindi?”
- Vuol dire, sua maestà, che siete un buongustaio ma, per legiferare, dovete dire chiaro cosa dobbiamo
fare! Un re sa comandare!”
- Giusto, chiaro, brava, taci! – replicò quel re, saltando sul sofà – Se non m’interrompevi, avrei senz’altro
detto che nel mio regno è d’obbligo, per tutti i miei sudditi, mangiare del formaggio e mangiarlo con le
pere. Se non a colazione, direi tutte le sere. E chi non è d’accordo sia subito arrestato!
La serva, allora, non proferì parola. Il re, da quel momento, non chiese più consiglio. Ormai gli era ben
chiaro a cosa serve un re: a farsi rispettare! Chiamò a sé due guardie e la fece arrestare:
- La serva non mi serve e questo, ahimé, è reato!”.
E come non bastasse quella mattina il re incriminò la rima, che gli serviva prima a far la filastrocca per stare
in compagnia seduto con la serva - La rima è troppo sciocca per governare un regno. La voglio abolire e
non la voglio più sentire!” e fece incarcerare poeti e cantastorie.
Fece parlar di sé, come desiderava, ma il popolo diceva: “Il nostro non è un re, il nostro re è un tiranno!”.
E il re-tiranno, infatti, ci aveva preso gusto ad inventare regole e a motivarle bene, così che la sua legge, né
giusta né sbagliata, andava rispettata come ordinava il re. Neanche un’opinione che non fosse la sua e
anche questa presto divenne una sua legge.
Da allora ogni giorno si mise a sentenziare, davanti alla finestra in piedi sul sofà:
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- Da oggi nel mio regno tutti dovran mangiare una mela al giorno, perché come si sa, leva il medico di
torno. Dovete farlo sempre e senza eccezione! Lo dice il vostro Re che vuol salvaguardare benessere e
salute della sua amata gente!
Il medico al villaggio non ebbe un gran coraggio e andò a comprar le mele con le pere e il formaggio!
Il giorno dopo ancora, sentendosi ispirato, il re chiamò la gente per dire altre due leggi:
- D’ora in poi nessuno lavorerà più in gruppo, perché come si sa chi fa da sé fa per tre!
E questa era la prima, dettata la mattina; l’altra nel pomeriggio con gran declamazione:
- D’ora in poi sarà vietato ricordare il passato, perché è una perdita di tempo: il passato ormai è passato.
- La prego, Sua Maestà – lo scongiurò il fornaio – come farò a sapere chi mi ha ordinato il pane, la farina da
comprare..."
- Chi ha osato ribellarsi alla legge del suo Re? Prendete quel fornaio e che sia esiliato!
E questa fu la sorte del povero fornaio che fu di esempio a tutti come voleva il re.
E questo fu l’inizio di un nuovo regno giusto, secondo il buongusto di un nuovo grande re.
Che cosa non vi ho detto di tutta questa storia? Che il re, tiranno e giusto, son io che ora vi parlo e che i
miei bravi sudditi adesso siete voi! La nuova legge è…
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Gli esiliati dal regno del Re-Tiranno, all’improvviso senza villaggio, senza casa e senza re, decisero di
collaborare nel comune interesse.
-­‐ Va bene, chi decide?
-­‐ Io faccio il Re!
-­‐ No, lo faccio io!
-­‐ Io sarei una perfetta regina.
-­‐ Basta con i Re! Da oggi decideremo ogni cosa tutti insieme.”
La proposta, inattesa, mise tutti d’accordo. Venne dunque il momento di fare scelte comuni nel comune
interesse: una parola d’ordine, un nome, una bandiera. Decisero per prima cosa di scegliere la bandiera
che avrebbe anche a distanza riunito i loro cuori.
-­‐ Per me la bandiera dev’esser blu, perché il blu è il colore del cielo e il cielo è cosa che unisce noi
tutti uomini liberi.
E molti concordarono, ma non tutti.
-­‐ Io dico che la nostra bandiera deve essere rossa, perché il rosso è il colore del fuoco, del calore e
dell’amore che ci ha resi liberi.
-­‐ Forse potremmo disegnarvi un sole! Il sole ci scalda tutti nello stesso modo.
-­‐ Sono tutte buone idee e buoni gli argomenti! Sentiamo tutte le proposte e le motivazioni e alla fine
vedremo quali ragioni uniranno il cuore e il pensiero di tutti noi.
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Neanche loro ricordano più come sia potuto accadere che due villaggi così diversi, divisi da un grande
fiume, parlassero una stessa lingua senza parlarsi mai. A dirla tutta, parlarsi si parlavano, ma urlando da
una sponda “NO!” all’altra sponda.
Questo accadeva in occasioni straordinarie che avrebbero volentieri evitato, perché se uno aveva bisogno
di parlare l’altro certo non l’aveva, e se pure entrambe l’avessero avuta non sarebbero stati d’accordo
sull’argomento di cui parlare. Come cane e gatto.
Voglio dire che sì, certo, i due villaggi erano come “cane e gatto” perché si sa che cane e gatto non vanno
mai d’accordo. Però, ormai da molto tempo, i due villaggi erano noti in tutto il continente per essere
popolati l’uno da soli gatti e l’altro da soli cani. Era stata una delle più agguerrite dispute che avessero mai
affrontato e una delle solite che non avevano saputo risolvere: “Quale animale è domestico per
eccellenza?”. All’epoca infatti incombevano su quella gente due gravi pericoli: i topi e le volpi.
Minacciavano i raccolti e le galline, e in seguito ad un’eccezionale sciagura, dovettero correre ai rimedi.
Ma a destra del fiume c’erano grandi distese di grano, perché la terra correva in piano verso il mare:
e il grano attirava fra gli altri animali un gran numero di topi!
Alla sinistra del fiume, invece, grandi vigneti si arrampicavano sui primi rilievi della montagna e
molti di questi contadini allevavano conigli e galline e tacchini, prede ghiotte delle terribili volpi che erano
accorse da ogni parte. Inutile dire che avevano litigato anche su cosa è meglio fra il mare o la montagna, il
grano o la vigna, il pane o il vino! Invece quella volta furono i cani e i gatti a dividerli ancora di più.
Se gli uni, infatti, si affidavano ai cani per tenere lontane le volpi -­‐ e ogni abitante ne aveva almeno
uno -­‐ dall’altra parte del fiume proliferavano i gatti, che sono maestri nel cacciare con gran perizia il più
piccolo topolino.
Quando i primi gatti attraversarono il vecchio ponte che ancora univa le due rive incontrarono i
molti cani dell’altro villaggio e sembrò dovesse scoppiare una guerra.
Non tanto fra le bestie -­‐ che pure, in quell’occasione, non parevano così domestiche! -­‐ quanto fra i
padroni degli animali
Purtroppo i due parroci dei villaggi -­‐ che si detestavano cordialmente per chi avesse i paramenti più
preziosi per le feste patronali -­‐ riuscirono a fermare la violenza dei loro compaesani solo dopo la
distruzione del vecchio ponte che univa le due rive e li convinsero a discutere dalle due sponde
lontane per chi lo dovesse ricostruire.
Il dialogo fu appassionante su cosa fosse meglio: se avere un cane o avere un gatto; quali i pregi e
quali svantaggi l’avere l’uno o avere l’altro; e perché non dovessero i due villaggi avere l’uno e
l’altro! Alla fine a forza di urlare per la distanza e per il freddo, persero la voce tutti e per una settimana
nei due paesini regnò un silenzio di pace rabbiosa.
Nessuno di sicuro pensò in quel giorno, in quella settimana e negli anni successivi a costruire un ponte
su quel fiume che potesse consentire uno scambio più sereno di quei mondi così distanti. Provate a
pensare voi in quale dei due villaggi vorreste abitare e cosa vi terrebbe così lontani da non saper
immaginare un ponte per comunicare: se è meglio il mare o la montagna? Volare o navigare?
Cantare o giocare? Essere belli o essere forti?
E quando troverete l’argomento per una appassionante confronto, dopo averlo dibattuto, riuscirete a
costruire un ponte fra il villaggio dei cani e il villaggio dei gatti? Su quale ragione saprete convincere tutti a
costruire il ponte?
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Seconda Parte
I GIOCHI
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La sfida: “Qualcosa di vero c’è”.
Fiducia nei propri pensieri e nelle proprie intuizioni
È il primo dei giochi in ordine cronologico dei nostri laboratori perché pensato appositamente per
introdurre i nostri incontri con i ragazzi e invitarli a focalizzare immaginazione e desideri intorno alla
parola “Filosofia”. Il gioco si presenta come una sfida ai presenti sulla domanda: che cos’è la filosofia? Fra i
più piccoli è quasi certamente una parola nuovissima, ma anche per i più grandi è spesso una parola
sconosciuta o fraintesa, un luogo comune o una nozione incerta. Il conduttore dunque sfida i presenti a
immaginare il significato della parola e a osare una definizione di “Filosofia”: la scommessa, la sfida, è che
qualunque cosa verrà detta, per azzardo o fantasia, sarà vera. Questa premessa libera magicamente
ogni timore d’inadeguatezza dei presenti che subito scoprono il gusto di partecipare in prima persona
con ipotesi o supposizioni sempre sorprendenti, e queste a loro volta svelano e creano aspettative
favolose intorno a questa parola e al nostro obiettivo. Cosa sarà mai dunque questa “filosofia” che
risponde ad ogni attesa immaginata? La sfida non è truccata e si vince agevolmente svelando il significato
letterale ed etimologico della parola: “amore, amicizia per il sapere, la conoscenza”.
Il sapere non ha confini, tutto può essere oggetto di conoscenza e ha a che vedere con la filosofia, o per il
fine o come mezzo. Lo sfidante quindi, con un po’ di arguzia, potrà dimostrare che in tutte le ipotesi
azzardate sul significato o sul contenuto della filosofia “…Qualcosa di vero c’è!”.
Questa frase diventa subito un tormentone ribadito ad ogni ipotesi fatta e viene spesso ripetuta
coralmente dall’assemblea fino allo svelamento: la filosofia è il gusto per la conoscenza, di tutto: scienza,
poesia, musica, storia, racconto, teatro, danza; è una disciplina, una materia di studio, ma è anche il nome
proprio di una persona di nome Sofia (che significa ancora Sapere) e che se potessimo conoscere
diventerebbe probabilmente una nostra amica; è il filo sottile, chi dice cristallino, chi trasparente, chi più
robusto o nodoso, che lega i pensieri, le esperienze, le opinioni, i desideri, le sofferenze; è una pietra come
le parole sono pietre e come la pietra è alla base di ogni edificio della vita e del sapere; è ogni cosa bella
perché è bella e ogni cosa brutta perché è brutta, viva o inanimata, astratta o concreta, utile e inutile; ogni
metafora può essere una metafora della filosofia perché nulla è estraneo al sapere che tutto può indagare
con meraviglia e curiosità, senza mai esaurirsi.
Su questa base resta solo da chiedersi per iniziare a fare filosofia: cosa sappiamo e cosa vorremmo
sapere?
“La macchina delle domande”
La ricerca è una macchina articolata dalle domande.
Una volta svelata la grande domanda di un progetto (ovvero un grande tema interrogato al suo massimo
di astrazione con la domanda “cos’è?”: la vita, la morte, la giustizia, il tempo, la verità, i cambiamenti, la
bellezza?) vogliamo sfaccettarlo in tutti gli interrogativi di cui siamo capaci.
Chi conduce il gioco invita per questo a formulare il maggior numero di domande possibili sul tema e
dunque si elencano tutti i pronomi interrogativi scrivendoli possibilmente su una lavagna:
cosa, come, perché, dove, quando, quanto, chi? Ciascuno si divertirà o formulare una domanda che
contenga la parola del tema (per es. “tempo”. Cos’è il tempo? Cosa c’entra il tempo? Cosa me ne faccio
del tempo?... Perché c’è il tempo? Perché finisce il tempo? Perché passa il tempo?... Come passa il
tempo? Come si calcola il tempo?... Dov’è il tempo?... Chi è il tempo?) Qualunque domanda
grammaticalmente corretta è valida e chi l’ha formulata è invitato a mimare l’ingranaggio di una
macchina di fantasia accanto agli altri che hanno risposto e mimato a loro volta altri ingranaggi. Alla
fine del gioco avremo una macchina di ingranaggi (le domande), anche fantastici o grotteschi, che
verrà messa in moto con il contributo sonoro di tutta l’assemblea.
Insieme al divertimento, garantito dal coinvolgimento corale, intellettuale, linguistico e fisico dei
partecipanti, avremo indicato nel gusto per la domanda la strada maestra per la conoscenza: fare filosofia
sarà un continuo interrogare le parole e le esperienze.
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I mille re ovvero “Sì, Sua maestà ha ragione, però…”
Non accontentarsi mai di ciò che si sa o che gli altri dicono di sapere.
Anche questo gioco, come il precedente, può tornare utile in diversi momenti di un laboratorio o di una
festa, ma a differenza dei precedenti ha una più marcata cornice narrativa-favolistica. La sua premessa,
infatti, racconta di un paese immaginario che essendosi costituito da poco tempo, era del tutto
sprovvisto di un re che lo guidasse con saggezza e lungimiranza. I compaesani stabilirono così che chi
avesse saputo dare la risposta ad un quesito sarebbe diventato per tutti il Re. Fatta questa premessa, e
invitando i presenti a figurarsi di essere quei compaesani in cerca di un re, si pone a tutti la fatidica
domanda. Spesso si tratta di definire o giudicare esperienze comuni, come ad es. “È bello o brutto
cambiare?”
Il primo a dare una risposta accettata dai sudditi diventa Re, e un Re non va mai contraddetto.
Ma nessuno aveva stabilto che dovesse esserci un solo Re in quel paese e così chiunque sapesse fornire
altre risposte nel rispetto delle precedenti e della dignità regale, poteva a sua volta regnare accanto
all’altro re. Per rispondere è dunque necessario rivolgersi al re eletto con queste parole: “Sì! Sua maestà
ha ragione, però…”. Per ciascun Re gli elettori si ingegneranno a confezionare una adeguata corona, con il
risultato che a fine sondaggio saranno ben visibili una moltitudine di pacifici regnanti buffamente coronati.
La regola di questo gioco è con tutta evidenza anche la sua morale: le verità spesso convivono le une
accanto alle altre, non per confliggere ma per completarsi, raccontando tutte un’esperienza specifica e
riconosciuta dagli altri. Il rispetto e l’ascolto diventano dunque la chiave di partecipazione al gioco che
coinvolge tutti, anche i sudditi che sono giudici del valore delle risposte e che si divertono a incoronare
ogni monarca.
“Il tiranno”.
Il gusto nel prendere posizione “contro qualcuno” e “per qualcosa”.
Il gioco del Tiranno ha come il precedente una cornice narrativa ma si pone l’obiettivo quasi opposto al
precedente. In un’isola lontana un giorno il re del villaggio, forse stanco dei tanti sapientoni che lo
circondavano, o forse così insicuro del suo potere da volerlo testare con suo capriccio, decide di mettere a
tacere le opinioni diverse dalla sua e, spalleggiato dalle guardie fedeli, vietò a chiunque di pensare e,
peggio, di esprimere un parere non conforme al suo. Pena, il bando dal villaggio. A questo punto il
conduttore sostiene di essere quel tiranno, sceglie i suoi fedeli scagnozzi e tuona la sua verità indiscutibile.
(Per esempio: “Io, vostro tiranno, ho stabilito che il passato è inutile, non esiste perché è passato e non
deve più esistere per nessuno nel mio regno, chiaro?!” Oppure che “... chi fa da sé fa per tre e dunque
sono vietate nel regno le collaborazioni e le associazioni di qualunque tipo, chiaro?!”).
La tesi del Tiranno così impostata, non può che mortificare l’orgoglio oltre che il buon senso dei sudditi
che ben presto protesteranno di non essere d’accordo, ciascuno con le sue motivazioni,
e si faranno orgogliosamente bandire ed esiliare pur di essere liberi di dire quel che pensano. Il gioco ha
un’immediatezza straordinaria per la capacità di coinvolgere i ragazzi nel gusto per la ribellione, come nel
piacere di contarsi e riconoscersi uniti contro il malvagio.
Sorprendentemente non tarderanno a svelarsi anche i controrivoluzionari che, per spirito critico o anche
solo competitivo, sosterranno le ragioni del Tiranno, che non ha mai torto del tutto.
Il primo obiettivo del gioco è dunque già raggiunto: ciascuno dei presenti non può fare a meno di
schierarsi, e giocare a “schierarsi contro” qualcuno è sempre divertente.
Per farlo devono, però argomentare la propria contrarietà, dunque anche prendere posizione “a favore”
di una loro verità. Il gioco può già interrompersi qui, nell’ebbrezza garantita dalla crudeltà del
Tiranno che svela l’orgoglio dei sudditi per il libero pensiero.
I banditi, esiliati nella foresta o fuori le mura del regno, possono coalizzarsi e scoprire di essere forti a loro
volta, e magari abbastanza forti da porsi come regno contrapposto al primo. Nel fronteggiarsi
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argomentando le proprie verità, potranno fare nuovi adepti o subire delle defezioni, o ancora, potranno
cercare una sintesi utile per un armistizio che ricompatti il regno. Dunque, oltre al piacere di schierarsi pro
o contro qualcuno, il gioco offre l’opportunità di un confronto dialettico che stimola nel gioco qualità e
attitudini argomentative sorprendenti.
“La democrazia”
Persuadere e farsi persuadere per partecipare.
A metà strada fra i due giochi precedenti, quello della democrazia esalta la faticosa ricerca del consenso.
Si tratta di invitare i presenti a esprimere un pensiero, un’idea, un progetto da mettere ai voti
perché diventi un simbolo condiviso.
Un esempio può essere, in una cornice narrativa simile alle precedenti che veda l’istituzione di una
neonata repubblica libera e democratica fatta dai presenti, l’invito a inventare di sana pianta
una parola nota solo al gruppo, per indicare diciamo “l’ora”.
Un primo sondaggio produrrà decine di parole strane che ciascuno potrà anche indicare con necessaria e
adeguata ortografia, come “struffa” oppure “por”, piuttosto che “ghrab [pronuncia “greg”]” etc…
Passati alle votazioni si formeranno dei gruppi di gradimento che proveranno a spiegare vantaggi e virtù
della parola inventata, (come memoria, onomatopea, simpatia, brevità,
segretezza, etc…)
Infine le votazioni finali stabiliranno il suono e la grafia definitiva della parola che solo per questa
comunità significherà, appunto, “ora” (Che “ghrag” sono? Oppure “È il ghrag di andare!”) e i cui soli
appartenenti potranno intendere intendendosi. A conclusione del gioco si potranno comporre canzoni o
poesie con la nuova parola e gli attori conduttori ne faranno uso nei loro racconti.
“Cane e gatto”
I molti punti di vista
Questo è un gioco pensato per mettere in luce le diversità di opinione, esperienza e prospettiva di fronte a
quesiti partigiani del tipo: bello/ brutto, meglio/peggio, vero/falso...
Si è invitati a analizzare i poli opposti di giudizio, elencandoli possibilmente su due colonne parallele di un
foglio o di una lavagna, per evidenziarne la molteplicità e accettare le differenze argomentate. “Il mare è
bello perché.../ il mare è brutto perché...” oppure “È più domestico il cane perché.../È più domestico il
gatto perché...”, sono quesiti che non lasciano spazio a mediazioni finché non ci si ponga un obbiettivo di
sintesi o conciliazione ponendo il problema diversamente: “Quando il mare può piacere a tutti?”, “Come
far convivere cane e gatto?”. Quella che nella favola è la ricostruzione del ponte è un tentativo di sintesi o
di accettazione della diversità di opinione, un lieto fine che non toglie valore alla scoperta della diversità:
uno svelamento che può spingere i giocatori a scoprire che i giudizi possono variare non solo da persona a
persona ma anche nel tempo o per circostanze prima insospettate.
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Appendice
IL PENSIERO COME GIOCO
GIOCO E TEATRO
Il pensiero e il gioco di chi? Lo dice il contesto in cui operiamo: il teatro e la filosofia con i ragazzi. Vuol dire che,
qualunque cosa siano questo teatro e questa filosofia, vengono fatti con, quindi “insieme”, “in compagnia”, “per
mezzo di, grazie a” bambini e ragazzi. Non “di” e non “per”, ma “con”. Stiamo dunque parlando di un teatro e di una
filosofia, del gioco e del pensiero che chiunque non sia bambino né ragazzo fa insieme ai bambini e ai ragazzi, cioè
noi adulti: genitori, insegnanti, artisti, tutti compresi e messi in gioco da questo progetto insieme a, in compagnia
dei e grazie a loro: bambini e ragazzi.
Anche il teatro si è interrogato a lungo sulla preposizione adeguata a definire quel genere di teatro e quel
movimento artistico che negli ultimi cinquant’anni si è rivolto al mondo dei bambini e dei ragazzi, ed ha finito, per
non far torto alla complessità delle sue articolazioni di metodo e genere, per sopprimere la preposizione e
riconoscersi nella definizione “Teatro ragazzi”. Un settore e non un genere di teatro che, di nuovo, non vuole
escludere ma includere l’adulto accanto al bambino, nella creazione come nella fruizione dell’evento teatrale.
Per molti, sicuramente per noi, un’articolazione del cosiddetto teatro popolare nella sua accezione più alta.
Per tornare al titolo, ci chiedevamo chi fosse il protagonista di questo pensiero e di questo gioco cui vogliamo
rivolgerci: ebbene, è appunto l’adulto insieme al bambino e al ragazzo.
Questo progetto vuole mettere in gioco la nostra capacità di adulti di dialogare, pensare, ridere, commuoverci,
giocare, non come dei bambini ma insieme a loro.
IL CONSENSO AL GIOCO
Anche un bambino sa che io adulto ho una fisicità, un ruolo, delle responsabilità e delle conoscenze che mi rendono
diverso, addirittura distante: lui pensa che io posso, probabilmente so. Certamente pensa di potere e sapere meno
di me. Ma anche io penso che lui possa fare e sappia cose che io non so e forse non posso fare e capire.
Sembra un gioco delle parti, ma è un gioco pericoloso, senza ingaggio e dunque senza una fine, una eterna guerra
fredda generata nella diffidenza e nel silenzio.
Eppure i ruoli esistono fuori da ogni gioco, sono un’esigenza reale, sociale, formativa. “Lui”, il bambino, non vuole
che io sia diverso da quello che sono, con tutte le mie, anche odiose, responsabilità; né io vorrei che “lui” fosse
diverso da quello che è e dall’esperienza che è giusto che abbia. Non è un sospetto, è una consapevolezza comune.
Ciascuno al suo posto. Se poi si vuole cercare il dialogo, una buona massima di riferimento può essere: se io penso
che lui sia cretino, lui penserà che io sono un cretino.
Per fortuna esiste il Carnevale! Un rito, un’esigenza atavica di gioco che rovescia i ruoli costituiti: una vera e propria
sospensione dell’opportuno e del pregiudizio, che eleva a re il buffone e abbassa a buffone il re, ma è un gioco che
non posso fare o decidere da solo: il carnevale è per antonomasia un gioco condiviso, partecipato. Il carnevale è il
momento della liberazione dalle paure e dal ridicolo, dalla paura “del ridicolo”, che ci inchioda alle nozioni di
possibile e di probabile, di sciocco e di infantile. È una sospensione del noto dove l’anagrafe resiste solo nella taglia
dei vestiti, e persino la facoltà economica cede il passo alla creatività.
Questa sospensione del consueto è un gioco consentito, rivendicato periodicamente per spezzare la guerra fredda
fra generazioni e strati sociali, l’espressione di un bisogno di comunità rinnovata, di gioco comunitario.
Nel carnevale si rinasce insieme nella meraviglia, aperti all’imprevisto, all’improbabile e al diverso, senza vergogna e
senza troppi pudori perché il pudore e la vergogna ti estromettono dal gioco del carnevale, dalla comunità in festa. Il
carnevale ci carnevalizza, il gioco ci mette in gioco, ci costringe a ripensarci e ripensare gli altri, libera i nostri giudizi
dalle tossine delle consuetudini. Giocando si apprende a giocare e il nostro pensiero ha bisogno di giocare per
rigenerarsi “insieme ai pensieri degli altri”.
QUALE PENSIERO E QUALE GIOCO.
Ecco, forse il problema è che non può essere sempre carnevale, ma il carnevale è già un’idea, un’ipotesi di realtà che
vale la pena, ogni tanto, mettere in gioco. La filosofia, la narrativa e l’arte in generale hanno questa necessità di
ipotizzare, criticare, interrogare la realtà almeno quanto il gioco per generare il suo contesto mitico si relaziona con
la nostra vita. È una esigenza della mente, ovunque essa operi, legare in una visione, “intellìgere”, inscenare un
teatro delle relazioni.
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Il mito, la favola, la danza, il teatro generano relazioni fra esperienza e immaginario, conoscenza e profezia. Così
come i giochi sono favole, storie, proiezioni mitiche, mitopoiesi di una comunità sociale capace così di tramandare
nel tempo le imprese dei suoi eroi, con la corda come con la spada, eroi del cortile ed eroi dell’arena.
La forza del gioco di gruppo o comunitario è nel contagio di pensieri liberi di ipotizzare alternative al quotidiano, allo
sperimentato, al noto. Il gioco, sia chiaro, può essere per le stesse ragioni, pericoloso, tossico, crudele, addirittura
criminale, quando la regola è criminale, crudele, tossica e finisce per tradire il consenso.
Il gioco è per noi l’esercizio di libertà e responsabilità, individuale e collettiva, anche e con maggior rigore nella
finzione: un esercizio di civiltà e cultura, di conoscenza e rispetto. Questo è almeno il nostro concetto di gioco
filosofico.
QUALE FAVOLA
Una favola da giocare dunque. Qualunque favola può essere un gioco e viceversa, lo abbiamo detto, ma noi qui ci
proponiamo un obiettivo in più: vogliamo che il gioco e la favola rivelino un metodo per pensare insieme. L’oggetto
allora di queste favole non potrà che essere per noi il gruppo, la tribù, il villaggio, la comunità, con tutte le difficoltà
che esso racconta nell’avere un passato e un futuro, nei suoi conflitti interni ed esterni, nel giudicare e nell’operare
delle scelte, individuali e collettive.
Ogni giocatore sarà un personaggio di questa comunità costretto ad agire sulle premesse della favola e a
sperimentare nel gioco coerenze e incoerenze dei suoi giudizi legittimi perché legittimati dalla finzione. Prima di
tutto, per poter giocare sarà costretto ad ascoltare e valutare i pensieri, i giudizi, le azioni e le reazioni dei suoi
compagni di gioco; sarà libero di sperimentare ipotesi e comportamenti, di ricredersi o intestardirsi, di immaginare
e immaginarsi. Il gioco costringerà a sperimentare logica e logiche, etica ed etiche. Per gioco e per forza insieme agli
altri.
Per concludere
GIOCHI METODOLOGICI E FAVOLE TEATRALI
I giochi costringono a pensare agendo e se il gioco pone un problema filosofico la risposta dei giocatori
sarà un’azione o un pensiero sottoposti alla verifica del gioco. Maggiore il numero dei giocatori maggiore
il numero di risposte possibili.
La nostra fiducia sull’importanza di queste dinamiche ci ha portati a fissare alcuni giochi che, a differenza
di altri pensati per giocare su un argomento, noi chiamiamo “metodologici”.
Sono metodologici per noi quei giochi che hanno per contenuto le regole del fare filosofia insieme:
ascoltare, ipotizzare, argomentare, scegliere..
Questi giochi possono ritornare in ogni momento di un laboratorio o di una discussione - e pertanto su
qualunque argomento - perché rivelano dinamiche, valori e responsabilità del pensare insieme grazie a
una situazione posta da una favola.
Questi giochi sono perciò anche delle favole teatrali perché nascono da favole che ipotizzano situazioni
entro cui interpretare un ruolo, e questo ruolo guiderà i nostri pensieri e i nostri comportamenti.
TEATRO, FILOSOFIA, FAVOLA, GIOCO
Gioco è un parola ambigua. Intendiamo dire che ha bisogno di senso, non di significato, e quel senso non
possiamo che darglielo noi.
Ma anche la parola “filosofia” può essere ambigua se non ne precisiamo il senso, la funzione, il contesto.
Ambigue le parole “favola” e “teatro”: i dizionari non ci aiutano ma ci inchiodano alla responsabilità di un
investimento di senso.
Forse per questo “teatro, filosofia, favola, gioco” non si escludono fra loro ma si interrogano a vicenda e
pretendono di essere interrogate, esplorate, verificate. Non tanto o non solo con suadenti operazioni di
astrazione ma operando concretamente, verificando continuamente, mettendo in gioco le nostre competenze e
accettando il rischio di aver più da imparare che da insegnare teatro, filosofia, favole, giochi.
Noi ci proviamo convinti di non poter fare a meno di nessuna di queste parole e della loro forza di coinvolgere, di
co-interessare. Per farlo abbiamo bisogno dei ragazzi, almeno quanto loro di interrogare noi e di farsi ascoltare.
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