HUME È naturale che noi cerchiamo una «regola del gusto»: una

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HUME
È naturale che noi cerchiamo una «regola del gusto»: una regola mediante la
quale possano venire accordati i vari sentimenti degli uomini, o almeno una
decisione che, quando venga espressa, confermi un sentimento e ne condanni
un altro.
V'è una specie di filosofia che recide ogni speranza di successo in un simile
tentativo, e mette in evidenza l'impossibilità di raggiungere qualsiasi regola del
gusto. Fra giudizio e sentimento, si dice, v'è una grande differenza. Tutti i
sentimenti sono giusti, perché il sentimento non si riferisce a nulla oltre se
stesso, ed è sempre reale ogniqualvolta se ne abbia consapevolezza. Invece
non tutte le determinazioni dell'intelletto sono giuste, perché si riferiscono a
qualcosa che è al di là di loro stesse, cioè a cose di fatto reali, le quali
costituiscono un paradigma cui non sempre i giudizi sono conformi: ma fra le
mille differenti opinioni che gli uomini possono avere intorno ad uno stesso
soggetto, ve n'è una, e solo una, che è giusta e vera, e l'unica difficoltà è
quella di fìssar1a e di scoprirla. Al contrario, mille sentimenti diversi, suscitati
dallo stesso oggetto, sono tutti giusti, perché nessun sentimento rappresenta
quello che vi è realmente nell'oggetto. Esso indica soltanto una certa
conformità o relazione fra l'oggetto e gli organi o facoltà dello spirito, e se
questa conformità non esistesse realmente il sentimento stesso non sarebbe
mai possibile.
La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella
mente che le contempla, ed ogni mente percepisce una diversa bellezza. È
persino possibile che una persona percepisca una bruttezza là dove un'altra
prova un senso di bellezza: ogni individuo dovrebbe accontentarsi del suo
sentimento personale, senza pretendere di regolare quello degli altri. La ricerca
della bellezza reale o della bruttezza reale è altrettanto feconda quanto la
pretesa di determinare ciò che è realmente dolce o ciò che è realmente amaro.
Secondo la disposizione degli organi lo stesso oggetto può essere tanto dolce
che amaro; e la sentenza ha giustamente stabilito che è inutile disputare sui
gusti. È naturalissimo, e persino necessario, l'estendere questo assioma al
gusto dello spirito, oltre che al gusto corporeo. Così il senso comune, il quale
così spesso è in disaccordo con la filosofia, e specialmente con la filosofia
scettica, si è ritrovato, una volta tanto, in accordo con essa nel pronunciare la
stessa sentenza.
Ma, sebbene questo assioma, fissato in una sentenza, sembri aver ottenuto la
sanzione del senso comune, vi è certamente una specie di senso comune che
gli si oppone, o almeno vale a modificarlo e a restringerne la portata. Se
qualcuno affermasse che Ogilby e Milton, oppure Bunyan ed Addison hanno lo
stesso genio o la stessa perfezione, si direbbe che sostiene un'assurdità non
minore che se sostenesse che un cunicolo di talpa è alto quanto Teneriffa
oppure che uno stagno è vasto quanto l'oceano. Sebbene ci possano essere
delle persone che dànno la preferenza a quei primi autori, nessuno prende sul
serio un simile gusto, e si dice senza esitazione che il sentimento di questi
pretesi critici è assurdo e ridicolo. In questo caso il principio dell'uguaglianza
naturale dei gusti è completamente trascurato, e mentre lo ammettiamo in
quelle occasioni in cui gli oggetti sembrano pressoché equivalenti, ci sembra un
paradosso stravagante, o addirittura un’assurdità evidente, quando sono messi
a confronto oggetti così sproporzionati. […]
Il fermare i ghiribizzi dell'immaginazione e il ridurre ogni espressione alla verità
e all'esattezza geometriche sarebbe la cosa più contrana alle leggi dell'estetica,
perché produrrebbe un'opera che, per esperienza universale, si è ritrovata
essere la più insipida e sgradevole.[…]
Sebbene tutte le regole generali dell'arte siano fondate soltanto sull'esperienza
e sull'osservazione dei sentimenti comuni della natura umana, non dobbiamo
però immaginare che, in ogni occasione, i sentimenti degli uomini debbano
essere conformi a queste regole. Sono fra le emozioni più sottili dello spirito, e
di natura molto tenera e delicata; esse richiedono il concorso di molte
circostanze favorevoli per poter agire, con facilità ed esattezza, in conformità
dei loro principi generali stabiliti. Il minimo impedimento esteriore che queste
piccole cause incontrino, o il minimo disordine interno, ne disturba il
movimento e confonde l'operazione di tutta quanta la macchina. Se volessimo
fare un esperimento di questo genere, e volessimo provare la forza di qualche
bellezza o bruttezza, dovremmo scegliere con cura momento e luogo adatti, e
portare la fantasia in una situazione e in una disposizione adatta. La perfetta
serenità di spirito, la concentrazione della mente, la debita attenzione
all'oggetto: se manca qualcuna di queste circostanze, il nostro esperimento
sarà fallace e non potremo giudicare della bellezza ortodossa e universale. La
relazione che la natura ha posto fra la forma e il sentimento sarà per lo meno
più oscura e richiederà una maggiore attenzione per rintracciarla e discernerla.
(D. Hume, La regola del gusto, a cura di G. Preti, Roma-Bari 1981, pp. 30-33)
VICO
[Metafisica poetica]
Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e
filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili, cioè
da' giganti. […]
Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette
incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or
degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett'essere di tai primi
uomini, siccome quelli ch'erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e
vigorosissime fantasie […] Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu una
facultà loro connaturale (perch'erano di tali sensi e di sì fatte fantasie
naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di
maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente
ammiravano, come si è accennato nelle Degnità. Tal poesia incominciò in essi
divina, perché nello stesso tempo ch'essi immaginavano le cagioni delle cose,
che sentivano ed ammiravano, essere dèi. […] Nello stesso tempo, diciamo,
alle cose ammirate davano l'essere di sostanze dalla propia lor idea, ch'è
appunto la natura de' fanciulli, che, come se n'è proposta una degnità,
osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come
fusser, quelle, persone vive.
In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente
gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità divisato, dalla lor idea
criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio:
perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria
le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d'una
corpolentissima fantasia, e, perch'era corpolentissima, il facevano con una
maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all'eccesso essi medesimi
che fingendo le si criavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco
suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande,
cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all'intendimento popolaresco, e che
perturbi all'eccesso, per conseguir il fine, ch'ella si ha proposto, d'insegnar il
volgo a virtuosamente operare, com'essi l'insegnarono a se medesimi. […]
Quivi pochi giganti […] spaventati ed attoniti dal grand'effetto di che non
sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal
caso la natura della mente umana porta ch'ella attribuisca all'effetto la sua
natura […] e la natura loro era, in tale stato, d'uomini tutti robuste forze di
corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si
finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono
Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori», che col fischio de' fulmini e col
fragore de' tuoni volesse dir loro qualche cosa […] e sì fanno di tutta la natura
un vasto corpo animato che senta passioni ed affetti […]
Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata da'
sensi nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue
con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l'arte dello scrivere, e
quasi spiritualezzata con la pratica de' numeri, ché volgarmente sanno di conto
e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di
cotal donna che dicono «Natura simpatetica» [..] così ora ci è naturalmente
niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que' primi uomini, le menti
de' quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla
spiritualezzate, perch'erano tutte immerse ne' sensi, tutte rintuzzate dalle
passioni, tutte seppellite ne' corpi. […]
In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina […], tutto ciò
che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credettero esser
Giove, ed a tutto l'universo di cui potevan esser capaci ed a tutte le parti
dell'universo diedero l'essere di sostanza animata. […]
Giove nacque in poesia naturalmente carattere divino, ovvero un universale
fantastico, a cui riducevano tutte le cose degli auspìci tutte le antiche nazioni
gentili, che tutte perciò dovetter essere per natura poetiche; che
incominciarono la sapienza poetica da questa poetica metafisica di contemplare
Dio per l'attributo della sua provvedenza; e se ne dissero «poeti teologi»,
ovvero sappienti che s'intendevano del parlar degli dèi conceputo con gli
auspìci di Giove, e ne furono detti propiamente «divini», in senso
d'«indovinatori» […]
Tal generazione della poesia ci è finalmente confermata da questa sua eterna
propietà: che la di lei propia materia è l'impossibile credibile, quanto egli è
impossibile ch'i corpi sieno menti (e fu creduto che 'l cielo tonante si fusse
Giove); onde i poeti non altrove maggiormente si esercitano che nel cantare le
maraviglie fatte dalle maghe per opera d'incantesimi […] E in cotal guisa i poeti
fondarono le religioni a' gentili.
E per tutte le finora qui ragionate cose si rovescia tutto ciò che dell'origine
della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotile, infin a' nostri Patrizi,
Scaligeri, Castelvetri […] Per la quale discoverta de' princìpi della poesia si è
dileguata l'oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi […], la quale fu
sapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano, non già sapienza
riposta di sommi e rari filosofi. Onde, come si è incominciato quinci a fare da
Giove, si truoveranno tanto importuni tutti i sensi mistici d'altissima filosofia
dati dai dotti alle greche favole ed a' geroglifici egizi, quanto naturali usciranno
i sensi storici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere. […]
[Logica poetica] Siccome la poesia è stata sopra da noi considerata per una
metafisica poetica, per la quale i poeti teologi immaginarono i corpi essere per
lo più divine sostanze, così la stessa poesia or si considera come logica poetica,
per la qual le significa. […]
Tal prima lingua ne' primi tempi mutoli delle nazioni […] dovette cominciare
con cenni o atti o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee […] Cotal primo
parlare, che fu de' poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di esse
cose (quale dovett'esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio
concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de' nomi alle cose
secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze
animate, la maggior parte immaginate divine. […] Ma essi poeti teologi, non
potendo far uso dell'intendimento, con uno più sublime lavoro tutto contrario,
diedero sensi e passioni, come testé si è veduto, a' corpi, e vastissimi corpi
quanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosi così vaste fantasie e
invigorendo l'astrazioni, furono presi per piccioli loro segni. E la metonimia
spose in comparsa di dottrina l'ignoranza di queste finor seppolte origini di
cose umane […]
[Corollari] Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de' quali la
più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora,
ch'allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione,
per la metafisica sopra qui ragionata: ch'i primi poeti dieder a' corpi l'essere di
sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e
di passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad
essere una picciola favoletta. Quindi se ne dà questa critica d'intorno al tempo
che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese
da' corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de' tempi ne' quali
s'eran incominciate a dirozzar le filosofie […]
Quello è degno d'osservazione: che 'n tutte le lingue la maggior parte
dell'espressioni d'intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo
umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell'umane passioni. Come
«capo», per cima o principio; «fronte», «spalle», avanti e dietro; «occhi» delle
viti e quelli che si dicono «lumi» ingredienti delle case; «bocca», ogni apertura;
«labro», orlo di vaso o d'altro; «dente» d'aratro, di rastello, di serra, di
pettine; «barbe», le radici; «lingua» di mare; «fauce» o foce di fiumi o monti;
«collo» di terra; «braccio» di fiume; mano, per picciol numero; «seno» di
mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; «costiera» di mare; «cuore», per lo mezzo
(ch'«umbilicus» dicesi da' latini); «gamba» o «piede» di paesi, e «piede» per
fine; «pianta» per base o sia fondamento; «carne», «ossa» di frutte; «vena»
d'acqua, pietra, miniera; «sangue» della vite, il vino; «viscere» della terra;
«ride» il cielo, il mare; «fischia il vento»; «mormora» l'onda; «geme» un corpo
sotto un gran peso […] «L'uomo ignorante si fa regola dell'universo», siccome
negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come
la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia», così questa
metafisica fantasticata dimostra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse
con più di verità detto questo che quello, perché l'uomo con l'intendere spiega
la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse
cose e, col transformandovisi, lo diventa.
Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti dar i
nomi alle cose dall'idee più particolari e sensibili; che sono i due fonti, questo
della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori
per l'opere nacque perché gli autori erano più nominati che l'opere; quella de'
subbietti per le loro forme ed aggiunti nacque perché […] non sapevano
astrarre le forme e la qualità da' subbietti; certamente quella delle cagioni per
gli di lor effetti sono tante picciole favole […]
La sineddoche passò in trasporto poi con l'alzarsi i particolari agli universali o
comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri. […]
L'ironia certamente non poté cominciare che da' tempi della riflessione,
perch'ella è formata dal falso in forza d'una riflessione che prende maschera di
verità. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l'origine della
poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo stati
semplicissimi quanto fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole
non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente
essere, quali sopra ci vennero diffinite, vere narrazioni.
Per tutto ciò si è dimostrato che tutti i tropi (che tutti si riducono a questi
quattro), i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono
stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor
origine aver avuto tutta la loro natia propietà: ma, poi che, col più spiegarsi la
mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi
comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co' loro intieri, tai parlari
delle prime nazioni sono divenuti trasporti. E quindi s'incomincian a convellere
que' due comuni errori de' gramatici: che 'l parlare de' prosatori è propio,
impropio quel de' poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopoi del verso.
I mostri e le trasformazioni poetiche provennero per necessità di tal prima
natura umana.
(G. Vico, La scienza nuova. Giusta l’edizione del 1744, Roma-Bari 1974, I, pp.
171-195)
BAUMGARTEN
§ 1. L'estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare
in modo bello, arte dell'analogo della ragione) è la scienza della conoscenza
sensibile.
§ 2. Il grado naturale delle facoltà conoscitive inferiori, sviluppato con la sola
pratica senza alcuna conoscenza disciplinare, può essere detto estetica
naturale, ed esser distinto, come è d'uso anche per la logica, in estetica innata
(l'ingegno bello innato) e acquisita; questa a sua volta la si può distinguere in
dottrinale e applicata.
§ 3. Fra le applicazioni principali dell'estetica artificiale (cfr. § 1), che si
aggiunge a quella naturale, ci sarà: (1) preparare la materia adatta per le
scienze che devono essere conosciute in modo preminente con l'intelletto, (2)
adattare alla comprensione comune le conoscenze scientifiche, (3) estendere
l'affinamento della conoscenza anche al di là dei limiti di ciò che possiamo
conoscere in modo distinto, (4) fornire buoni principi a tutti gli studi più gentili
e alle arti liberali, (5) nella vita comune, a parità di condizioni, eccellere nella
condotta.
§ 4. Da ciò le applicazioni speciali: (1) filologica, (2) ermeneutica, (3)
esegetica, (4) retorica, (5) omiletica, (6) poetica, (7) musicale, eccetera.
§ 5. Alla nostra scienza (cfr. § 1) si potrebbe obiettare: (1) che essa sia troppo
ampia perché la si possa esaurire in un solo libretto, in un unico compendio
accademico. Rispondo ammettendolo, ma è meglio qualcosa che nulla; (2) che
coincida con la retorica e la poetica. Rispondo: (a) è qualcosa di più ampio, (b)
comprende cose fra loro simili e comuni a queste e altre arti. Ogni arte, una
volta considerati tali elementi in questa appropriata sede estetica, potrà
coltivare più felicemente il proprio campo senza inutili ripetizioni; (3) che
coincida con la critica. Rispondo: (a) esiste anche una critica logica, (b) una
certa specie della critica fa parte dell'estetica, (c) a questa specie è quasi indispensabile una qualche precognizione del resto dell'estetica, se essa non
vuole limitarsi a disputare sui meri gusti nel giudicare di ciò che è stato
pensato, detto e scritto in modo bello.
§ 6. Alla nostra scienza si potrebbe obiettare: (4) che le cose sensibili, le
immagini fantastiche, le favole, le passioni e così via, siano indegne dei filosofi
e poste al di sotto del loro orizzonte. Rispondo: (a) il filosofo è uomo fra gli
uomini, e non fa bene se ritiene estranea a sé una parte tanto grande della
conoscenza umana, (b) si confonde la teoria generale di ciò che è pensato in
modo bello con la prassi e con l'esecuzione singola.
§ 7. Obiezione: (5) la confusione è madre dell'errore. Rispondo: (a) ma è
condizione indispensabile per la scoperta della verità, dal momento che la
natura non fa un salto dall'oscurità alla distinzione. Dalla notte, attraverso
l'aurora, si arriva al pieno mezzogiorno; (b) bisogna aver cura della confusione
appunto perché non ne nascano i tanti e tanto grandi errori che sono abituali in
chi non se ne cura; (c) non si raccomanda la confusione, ma si corregge la
conoscenza, nella misura in cui una qualche confusione è necessariamente
mescolata ad essa.
§ 8. Obiezione: (6) la conoscenza distinta è superiore. Rispondo: (a) presso
uno spirito finito lo è solo negli affari più importanti; (b) porre una cosa non
esclude l'altra; (c) proprio per questo innanzitutto procediamo a dirigere
secondo regole conosciute distintamente ciò che deve essere conosciuto in
modo bello, augurandoci che da questa possa sorgere in futuro una distinzione
tanto più perfetta (cfr. § § 3, 7).
§ 9. Obiezione: (7) c'è da temere che, coltivando l'analogo della ragione, il
territorio della solidità razionale riceva un qualche danno. Rispondo: (a) questo
argomento è una prova a maggior ragione, perché lo stesso pericolo, presente
tutte le volte che si ricerca una perfezione composta, incita alla cautela, non
persuade certo a trascurare la vera perfezione; (b) un analogo della ragione
non coltivato e piuttosto corrotto non nuoce di meno alla solidità razionale più
rigorosa.
§ l0. Obiezione: (8) l'estetica è arte, non scienza. Rispondo: (a) queste non
sono attitudini contrapposte. Quante di quelle che un tempo erano solo arti
non sono ora anche scienze? (b) Che la nostra arte possa essere oggetto di
dimostrazione lo proverà l'esperienza, ed è evidente a priori, perché la
psicologia e altre scienze filosofiche forniscono principi certi; che meriti di
essere elevata a scienza lo insegnano alcune delle applicazioni dell'estetica
ricordate, fra le altre, nei §§ 3-4.
§ 11. Obiezione: (9) estetici, così come poeti, si nasce, non si diventa.
Rispondono Orazio, Cicerone, Bilfinger, Breitinger. A un estetico nato giova una
teoria più completa, più raccomandabile per l'autorità della ragione, più esatta,
meno confusa, più certa, meno traballante (cfr. § 3).
§ 12. Obiezione: (l0) le facoltà inferiori, la carne, devono piuttosto esser
debellate che eccitate e rafforzate. Rispondo: (a) si richiede dominio, non
tirannide, sulle facoltà inferiori; (b) a tale scopo, fino a quel punto che è
possibile ottenere per via naturale, l'estetica condurrà quasi per mano; (c) le
facoltà inferiori, nella misura in cui sono corrotte, non devono essere eccitate e
rafforzate dagli estetici, ma piuttosto da essi guidate perché non si corrompano
ancor di più con attività sbagliate oppure, col pigro pretesto di evitarne l'abuso,
non ci si privi dell'uso di un talento concesso da Dio.
§ 13. La nostra estetica (cfr. § 1), come la logica, sua sorella maggiore, si
divide in (Il teoretica, dottrinale, generale, e dà insegnamenti: (1) in maniera
euristica sulle cose e su ciò che è da pensare; (2) sull'ordine lucente, ossia la
metodologia; (3) sui segni propri di ciò che è stato pensato e disposto in modo
bello, ossia la semiotica; (Il) pratica, applicata, particolare. Per entrambe: a
chi avrà scelto un oggetto secondo le proprie capacità non verranno mai meno
né l'abbondanza dell'eloquio né l'ordine lucente. L'oggetto sia la tua prima
cura, la seconda sia l'ordine lucente, e infine la terza i segni.
I - La bellezza della conoscenza
§ 14. Fine dell'estetica è la perfezione della conoscenza sensibile, in quanto
tale (cfr. § 1). E questa è la bellezza. Occorre invece guardarsi
dall'imperfezione di questa conoscenza, in quanto tale (cfr. § 1). E questa è la
bruttezza.
§ 15. L'estetico, in quanto tale (cfr. § 14), non si occupa degli elementi di
perfezione della conoscenza sensibile tanto nascosti da restarci del tutto oscuri
o da poter essere conosciuti soltanto per via dell'intelletto.
§ 16. L'estetico, in quanto tale, (cfr. § 14), non si occupa degli elementi di
imperfezione della conoscenza sensibile tanto nascosti da restarci del tutto
oscuri o da poter essere svelati solo per mezzo del giudizio intellettuale.
(A. G. Baumgarten, L’estetica, a cura di S. Tedesco, tr. di F. Caparrotta, A. Li
Vigni e S. Tedesco, consulenza scientifica e revisione di E. Romano, Palermo
2000, pp. 27-29)
KANT
PRIMO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA QUALITÀ
1. Il giudizio di gusto è estetico. Per discernere se una cosa è bella o no, noi
non riferiamo la rappresentazione all'oggetto mediante l'intelletto, in vista della
conoscenza; ma, mediante l'immaginazione (forse congiunta con l'intelletto), la
riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di
gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che
significa che il suo fondamento ncm può essere se non soggettivo. Ma ogni
rapporto delle rappresentazioni, ed anche delle sensazioni, può essere
oggettivo (e allora esso indica ciò che è reale in una rappresentazione
empirica); e non è tale soltanto il rapporto al sentimento di piacere e
dispiacere, col quale non vien designato nulla nell'oggetto, e nel quale il
soggetto sente se stesso, secondo la rappresentazione da cui è affetto.
Il rappresentarsi con la facoltà conoscitiva (in una rappresentazione chiara o
confusa) un edifizio regolare ed appropriato al suo scopo, è una cosa del tutto
diversa dall'esser cosciente di questa rappresentazione col sentimento di
piacere. In quest'ultimo caso la rappresentazione è riferita interamente al
soggetto, e, veramente al suo senso vitale, sotto il nome di piacere o
dispiacere; la qual cosa dà luogo ad una facoltà interamente distinta di
discernere e di giudicare, che non porta alcun contributo alla conoscenza, ma
pone soltanto in rapporto, nel soggetto, la rappresentazione data con la facoltà
rappresentativa nella sua totalità; di che l’animo ha coscienza nel sentimento
del proprio stato. Le rappresentazioni date in un giudizio possono essere
empiriche (e quindi estetiche); ma il giudizio che risulta da esse è logico, se
esse sono riferite soltanto nel giudizio all'oggetto. E viceversa, se anche le
rappresentazioni date siano razionali, qualora vengano riferite in un giudizio
unicamente al soggetto (al suo sentimento), il giudizio resterà sempre estetico.
2. Il piacere che determina il giudizio di gusto è scevro di ogni interesse. È
detto interesse il piacere, che noi congiungiamo con la rappresentazione
dell'esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la
facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto
necessariamente connesso col movente stesso. Ma, quando si tratta di
giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro
importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza; ma come la
giudichiamo contemplandola semplicemente (nell'intuizione o nella riflessione).
[…] Si vuol sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell'oggetto è
accompagnata in me da piacere, per quanto, d'altra parte, io possa essere
indifferente circa l'esistenza del suo oggetto. […] Ognuno deve riconoscere che
quel giudizio sulla bellezza, nel quale si mescola il minimo interesse, è molto
parziale e non è un puro giudizio di gusto. Non bisogna essere menomamente
preoccupato dall'esistenza della cosa, ma del tutto indifferente sotto questo
riguardo, per essere giudice in fatto di gusto. [Un giudizio sopra un oggetto del
piacere può essere del tutto disinteressato ed insieme molto interessante, vale
a dire che esso può non fondarsi sopra alcun interesse, ma produrne uno esso
stesso; tali sono i giudizii morali. Ma i giudizii di gusto non fondano per se
stessi alcun interesse. Solo nella società diventa interessante l'aver gusto, di
che la ragione sarà data in sèguito.]
3. Il piacere del piacevole è legato ad un interesse. Piacevole è ciò che piace ai
sensi nella sensazione. […] Quando si chiama sensazione una determinazione
del sentimento di piacere o dispiacere, la parola ha un significato del tutto
diverso da quando viene adoperata ad esprimere la rappresentazione di una
cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività inerente alla facoltà di conoscere).
Perché in quest'ultimo caso la rappresentazione è riferita all'oggetto, mentre
nel primo è riferita unicamente al soggetto, e non serve ad alcuna conoscenza:
nemmeno a quella con cui il soggetto conosce se stesso.
Ma, nella definizione data, intendiamo con la parola sensazione una
rappresentazione oggettiva dei sensi; e, per non correre sempre il rischio di
esser fraintesi, chiameremo col nome, del resto usato, di sentimento ciò che
deve restar sempre puramente soggettivo e non può assolutamente costituire
una rappresentazione di un oggetto. Il color verde dei prati appartiene alla
sensazione oggettiva, in quanto percezione d'un oggetto del senso; il piacere,
che esso produce, si riferisce invece alla sensazione soggettiva, con la quale
nessun oggetto è rappresentato: vale a dire al sentimento, nel quale l'oggetto
è considerato come termine del piacere (che non dà di esso alcuna
conoscenza).
Ora è chiaro che il giudizio, col quale io dichiaro piacevole un oggetto, esprime
un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la
sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili, e per conseguenza il piacere
non presuppone il semplice giudizio sull'oggetto, ma il rapporto della sua
esistenza col mio stato, in quanto sono affetto da un tal oggetto. Perciò del
piacevole non si dice semplicemente che esso piace, ma che esso diletta. Non è
una semplice approvazione che io ad esso concedo, ma in me si produce
un'inclinazione […].
4.Il piacere che dà il buono è legato all’interesse.Buono è ciò che, mediante la
ragione, piace puramente pel suo concetto. Chiamamo qualche cosa buona
(utile), quando essa ci piace soltanto come mezzo; un'altra invece, che ci piace
per se stessa, la diciamo buona in sé. In entrambe è sempre contenuto il
concetto di uno scopo, il rapporto della ragione con la volantà (almeno
possibile), e per conseguenza un piacere legato all’esistenza di un oggetto o di
un'azione, vale a dire un interesse.
Per trovar buono un oggetto, io debbo sempre sapere che specie di cosa è,
cioè averne un concetto. Per trovare in esso la bellezza non ho bisogno di ciò. I
fiori, i disegni liberi, quelle linee intrecciate senza scopo che vanno sotto il
nome di fogliami, non significano niente, non dipendono da alcun concetto
determinato e tuttavia piacciono. Il piacere, che dà il bello, deve dipendere
dalla riflessione su di un oggetto, la quale conduce a qualche concetto (non
importa quale); e si distingue perciò anche dal piacevole, che riposa
interamente sulla sensazione. […]
Pel buono sussiste sempre la domanda, se esso sia buono mediatamente o
immediatamente (utile o buono in sé); mentre pel piacevole la domanda non
ha ragion d'essere, poiché la parola significa in ogni caso qualche cosa che
piace immediatamente. (Ѐ così anche per ciò che io chiamo bello). […]
Ma, malgrado tutte queste differenze, il piacevole e il buono si accordano in
ciò, che entrambi son legati sempre con un interesse pel loro oggetto: non solo
il piacevole (§ 3) e il buono mediato (l'utile), che piace come mezzo per
ottenere il piacevole; ma anche ciò ch'è buono assolutamente e sotto ogni
riguardo, il buono morale, che include il più alto interesse. Giacché il buono è
l'oggetto della volontà (vale a dire di una facoltà di desiderare determinata
dalla ragione). Ma volere qualche cosa ed aver piacere della sua esistenza, cioè
prendervi interesse, sono la stessa cosa.
5. Comparazione dei tre modi specificamente diversi del piacere.
Il piacevole ed il buono si riferiscono entrambi alla facoltà di desiderare e
producono quindi, il primo un piacere condizionato patologicamente (da
eccitazioni, stimuli), il secondo un piacere pratico puro; cioè un piacere che è
determinato in entrambi i casi non semplicemente dalla rappresentazione
dell'oggetto, ma anche da quella del rapporto del soggetto con l'esistenza
dell'oggetto stesso. Non è soltanto l'oggetto che piace, ma anche la sua
esistenza. Perciò il giudizio di gusto è puramente contemplativo, è un giudizio,
cioè, che, indifferente riguardo all'esistenza dell'oggetto, ne mette solo a
riscontro i caratteri con il sentimento di piacere e di dispiacere. Ma questa
contemplazione a sua volta non è diretta a concetti; perché il giudizio di gusto
non è un giudizio di conoscenza (né teorico né pratico), e per conseguenza non
è fondato sopra concetti, né se ne p ropone alcuno.
Il piacevole, il bello, il buono designano dunque tre diversi rapporti delle
rappresentazioni verso il sentimento di piacere e dispiacere […] Ognuno
chiama p iacevole ciò che lo diletta; bello ciò che gli piace senz'altro; buono ciò
che apprezza, approva, vale a dire ciò cui dà un valore oggettivo. Il piacevole
vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini, nella
loro qualità di esseri animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi
sono semplicemente ragionevoli (come sono, per esempio, gli spiriti), ma in
quanto sono nello stesso tempo animali; il buono invece ha valore per ogni
essere ragionevole in generale. […] Si può dire che di questi tre modi del
piacere, unico e solo quello del gusto del bello è un piacere disinteressato e
1ibero; perché in esso l'approvazione non è imposta da alcun interesse, né dai
sensi, né dalla ragione. Del piacere quindi si potrebbe dire che esso si riferisce
nei tre casi esaminati all' inc1inaz ione, al favore o alla stima. Perché il favore
è l'unico piacere libero. L'oggetto di un'inclinazione e quello che è imposto da
una legge della ragione al nostro desiderio, non ci lasciano alcuna libertà di
farcene noi stessi un oggetto del piacere. Ogni interesse presuppone o produce
un bisogno, e, come motivo dell'approvazione, non lascia libertà al giudizio
sopra l'oggetto.
Definizione del bello desunta dal primo momento
Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione
mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un
piacere simile si dice bello.
SECONDO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA QUANTITÀ
6. Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l'oggetto di un
piacere u n i v e r s a le.
Questa definizione del bello può esser dedotta dalla precedente, per la quale
esso è l'oggetto di un piacere senza alcun interesse. Difatti colui che ha
coscienza di esser disinteressato nel piacere che prova di qualche cosa, non
può giudicare la cosa medesima se non come contenente un motivo di piacere,
che sia valevole per ognuno. Non essendo il piacere fondato su qualche
inclinazione del soggetto (o su qualche altro interesse consapevole), e
sentendosi invece colui che giudica completamente 1ibero rispetto al piacere
che dedica all’oggetto; egli non potrà trovare alcuna condizione particolare,
esclusiva del suo soggetto, come fondamento del piacere, e dovrà quindi
considerarlo come fondato su qualcosa, che si possa preesupporre anche in
ogni altro; per conseguenza, dovrà credere di aver ragione di pretendere dagli
altri lo stesso piacere. Egli parlerà così del bello come se la bellezza fosse una
qualità dell'oggetto, e il suo giudizio fosse logico (un giudizio che dà una
conoscenza dell'oggetto mediante il suo concetto), sebbene sia soltanto
estetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell'oggetto col
soggetto; perché, infatti, esso è simile in questo al giudizio logico, che si può
presupporre la sua validità per ognuno. […] Al giudizio di gusto, per
conseguenza, poiché in esso v'è la coscienza del disinteresse, deve unirsi
l'esigenza della validità per ognuno, sebbene tale validità non si tenga
connessa agli oggetti; in altri termini, il giudizio di gusto deve pretendere
all'universalità soggettiva.
7. Comparazione del bello col piacevole e col buono mediante l'osservazione
precedente.
Per ciò che riguarda il p i a c e voI e, ognuno ricoonosce che il giudizio che egli
fonda su di un sentimento particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli
piace, non ha valore se non per la sua persona. […] Perciò sarebbe da stolto
litigare in tali casi per riprovare come errore il giudizio altrui, quando differisce
dal nostro, quasi che tali giudizii fossero opposti logicamente; sicché in fatto di
piacevole vale il principio: ognuno ha il proprio gusto (dei sensi).
Per il bello la cosa è del tutto diversa. […] Perché egli non deve chiamarlo
bello, se gli piace semplicemente. Molte cose possono avere per lui attrattiva e
vaghezza; questo non importa a nessuno; ma quando egli dà per bella una
cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per
tutti, e parla quindi della bellezza come se essa fosse una qualità della cosa.
Egli dice perciò: - la cosa è bella; - e non fa assegnamento sul consenso altrui
nel proprio giudizio di piacere, sol perché molte altre volte quel consenso vi è
stato; egli lo esige. Biasima gli altri se giudicano altrimenti, e nega loro il
gusto, pur pretendendo che debbano averlo; e per conseguenza qui non si può
dire: - ognuno ha il suo gusto particolare.-Varrebbe quanto dire che il gusto
non esiste […]
8. L'universalità del piacere in un giudizio estetico è rappresentata solo come
soggettiva.
Questa particolare determinazione dell'universalità di un giudizio estetico, che
si rinviene in un giudizio di gusto, è un fatto degno di nota, non veramente per
il logico, bensì pel fìlosofo trascendentale, che spende non poca fatica per
scopnre la sua origine, ma con essa viene anche a scoprire una proprietà della
nostra facoltà di conoscere che senza questa ricerca sarebbe rimasta ignota
[…]
Col giudizio di gusto (sul bello) si pretende da ognuno il piacere riguardo ad un
oggetto, senza fondarsi però su qualche concetto (perché allora si tratterebbe
del buono) […]
Qui è innanzi tutto da notare che una universalità, che non abbia fondamento
nei concetti dell'oggetto (quand'anche soltanto empirici), non è punto logica,
ma estetica, cioè non include una quantità oggettiva del giudizio, sibbene
soltanto una quantità soggettiva; per la quale io adopero l'espressione validità
comune, che indica la validità non del rapporto di una rappresentazione con la
facoltà di conoscere, ma della rappresentazione medesima col sentimento di
piacere o dispiacere in ogni soggetto. […]
Ma da una universalità soggettiva, cioè quella estetica, che non ha fondamento
in alcun concetto, non si può concludere alla universalità logica; perché quella
specie di giudizii non si rapporta all'oggetto. Ma appunto perciò l'universalità
estetica, che è attribuita ad un giudizio, dev'essere di una specie particolare,
perché essa non lega il predicato della bellezza col concetto dell'oggetto
considerato nella sua intera sfera logica, e tuttavia lo estende all’intera sfera
dei giudicanti.
Rispetto alla quantità logica ogni giudizio di gusto è singolare. […] Così, per
esempio, la rosa, che io guardo, la dichiaro bella con un giudizio di gusto; e
invece il giudizio che corrisponde al paragone di molti giudizii singolari - le rose
in generale son belle - non esprime più un semplice giudizio estetico, ma un
giudizio logico fondato su di un giudizio estetico. Ora il giudizio - la rosa è
piacevole (all'odorato) - è bensì un giudizio estetico singolare, ma non è un
giudizio di gusto, sibbene un giudizio dei sensi. E si distingue dall'altro per
questo, che il giudizio di gusto implica la quantità estetica dell'universalità, cioè
la validità per ognuno, che nel giudizio del piacevole non si può trovare. […]
Quando si giudicano gli oggetti semplicemente secondo concetti, ogni
rappresentazione della bellezza va perduta. […]
Ora qui è da notare che nel giudizio di gusto non vien postulato altro che tale
voce universale, riguardo al piacere senza mediazione di concetti, e quindi la
possibilità di un giudizio estetico, che possa esssere nello stesso tempo
considerato valevole per ognuno. Il giudizio di gusto, per se stesso, non
postula il consenso di tutti (perché ciò può farlo solo un giudizio logico, che
fornisce ragioni); esso esige soltanto il consenso da ognuno, come un caso
della· regola, rispetto al quale esso attende la conferma non da concetti, ma
dalla adesione altrui. La voce universale è così soltanto una idea […]
9. Esame della questione, se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere
preceda il giudizio sull' oggetto, o viceversa.
La soluzione di questo quesito è la chiave della critica del gusto, e perciò degna
di ogni attenzione.
Se ci fosse prima il piacere per l'oggetto dato, e al giudizio di gusto spettasse
soltanto il compito di attribuire alla rappresentazione dell'oggetto la
comunicabilità universale di quel piacere, si avrebbe un procedimento
intimamente contradittorio. Perché allora quel piacere non sarebbe che il
semplice piacevole della sensazione, e, quindi, per sua natura, potrebbe avere
soltanto una validità particolare, perché dipenderebbe immediatamente dalla
rappresentazione, con la quale l'oggetto è dato.
È quindi la possibilità di comunicare universalmente lo stato d'animo,
prodottosi rispetto alla rappresentazione data, che deve stare a fondamento
del giudizio di gusto, come sua condizione soggettiva, e avere come
conseguenza il piacere per l'oggetto. Ma nulla può essere comunicato
universalmente se non la conoscenza e la rappresentazione in quanto è
conoscenza. Perché la rappresentazione solo allora è puramente oggettiva, e
ha perciò un punto universale di riferimento, col quale la facoltà
rappresentativa di tutti è obbligata ad accordarsi. Ora se deve essere pensato
come puramente soggettivo il fondamento del giudizio su questa
comunicabilità universale della rappresentazione, cioè senza un concetto
dell'oggetto, essa non può essere altro che lo stato d'animo che risulta dal
rapporto delle facoltà rappresentative tra loro, in quanto queste riferiscono una
rappresentazione data alla conoscenza in generale.
Le facoltà conoscitive, messe in giuoco da questa rapppresentazione, son qui in
un giuoco libero, perché nessun concetto determinato le costringe a una
particolare regola di conoscenza.[..] Ora, ad una rappresentazione con cui è
dato un oggetto, affinché ne nasca in generale una conoscenza, appartengono
la fantasia, per l'unione del molteplice dell'intuizione e, l'intelletto, per l'unità
del conncetto che unisce le rappresentazioni. Questo stato di libero giuoco
delle facoltà conoscitive in una rapppresentazione con cui è dato un oggetto,
deve poter essere universalmente comunicato […]
La comunicabilità soggettiva universale del modo di rappresentazione propria
del giudizio di gusto, poiché deve sussistere senza presupporre un concetto
determinato, non può essere altro che lo stato d'animo del libero giuoco della
fantasia e dell'intelletto (in quanto essi si accordano tra loro come deve
avvenire per una conoscenza in generale) […]
Ora, questo giudizio puramente soggettivo (estetico) dell'oggetto, o della
rappresentazione con cui esso è dato, precede il piacere per l'oggetto, ed è il
fondamento di questo piacere per l'armonia delle facoltà di conoscere […]
Il piacere che noi sentiamo, lo esigiamo come necessario da ognuno nel
giudizio di gusto, quando diciamo bella qualche cosa, proprio come se esso
fosse da considerarsi come una proprietà dell'oggetto […]
L'animazione di entrambe le facoltà (l'intelletto e l'immaginazione) in vista di
un'attività determinata, e purtuttavia concorde grazie allo stimolo della
rappresentazione data […] è la sensazione, la cui comunicabilità universale è
postulata dal giudizio di gusto. Un rapporto oggettivo può essere soltanto
pensato; ma in quanto esso, secondo le sue condizioni, è soggettivo, può
essere anche sentito nel suo effetto sull'animo: e di un rapporto che non abbia
a fondamento alcun concetto (come quello delle facoltà rappresentative con
una facoltà di conoscere in generale) non vi è altra coscienza che la sensazione
dell'effetto che consiste nel facile giuoco delle due facoltà dell'animo (intelletto
ed immaginazione), avvivate da un accordo reciproco.
Definizione del bello desunta dal secondo momento
Ѐ bello ciò che piace universalmente senza concetto
TERZO MOMENTO DEI GIUDIZII DI GUSTO, SECONDO LA RELAZIONE CON LO
SCOPO, CHE IN ESSI È PRESA IN CONSIDERAZIONE […]
Quando non si pensa semplicemente la conoscenza d'un oggetto, ma l'oggetto
stesso (la sua forma o la sua esistenza) come un effetto, possibile solo
mediante un concetto dell'effetto medesimo, allora si pensa uno scopo. […]
La facoltà di desiderare, in quanto può esser determinata ad agire solo
mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo, sarebbe la
volontà. Ma un oggetto, uno stato d'animo o anche un'azione, è detto
finalistico anche se la sua possibilità non presuppone necessariamente la
rappresentazione di uno scopo, e pel semplice fatto che la sua possibilità non
può essere spiegata e concepita da noi, se non ammettendo come principio di
essa una causalità secondo fini, cioè una volontà, che l'abbia così ordinata
secondo la rappresentazione di una certa regola. La finalità dunque può essere
senza scopo, quando non possiamo porre in una volontà la causa di quella
forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della sua possibilità se
non derivandola da una volontà. […] Sicché possiamo almeno osservare una
finalità secondo la forma, senza porre a fondamento di essa uno scopo (come
materia del nexus finalis), e scorgerla negli oggetti, sebbene non altrimenti che
con la riflessione.
11. Il giudizio di gusto non ha a fondamento se non la forma della finalità di un
oggetto (o della sua rappresentazione).
Ogni scopo, quando è considerato come fondamento del piacere, implica
sempre un interesse, come fondamento della determinazione del giudizio
sull'oggetto che suscita il piacere. Sicché non può esservi nessuno scopo
soggettivo a fondamento del giudizio di gusto. Il giudizio di gusto però, non
può essere nemmeno determinato dalla rappresentazione di uno scopo
oggettivo, cioè della possibilità dell'oggetto stesso secondo principii della
relazione con un fine, e quindi da un concetto del buono; poiché esso è un
giudizio estetico, non un giudizio di conoscenza, e quindi, come tale, non
concerne alcun concetto della qualità o della possibilità interna od esterna
dell'oggetto, derivante da questa o quella causa, ma soltanto il rapporto delle
facoltà conoscitive tra loro, in quanto sono determinate da una
rappresentazione. […]
Non altro dunque che la finalità soggettiva nella rappresentazione di un
oggetto, senza nessun fine (né oggettivo, né soggettivo), e quindi la semplice
forma della finalità nella rappresentazione con cui un oggetto ci è dato, può, in
quanto ne siamo coscienti, costituire il piacere che giudichiamo, senza
concetto, come universalmente comunicabile, e per conseguenza la causa
determiinante del giudizio di gusto.
12. Il giudizio di gusto riposa su fondamenti a priori. […]
La coscienza della finalità puramente formale nel giuoco delle facoltà
conoscitive del soggetto, nspetto a una rappresentazione con cui un oggetto è
dato, è il piacere stesso, perché essa implica un fondamento della
determinazione dell'attività del soggetto, diretto a vivificare le sue facoltà
conoscitive. […] Questo piacere non è in nessun modo pratico, né come quello
del piacevole che ha fondamento patologico, né come quello che ha a
fondamento intellettuale la rappresentazione del bene. Esso ha però una
causalità in se stesso, che consiste nel conservare, senza uno scopo ulteriore lo
stato della rappresentazione stessa e l'attività delle facoltà conoscitive. Noi
indugiamo nella contemplazione del bello, perché essa si rinforza e si riproduce
da sé. […]
Definizione del bello desunta da questo terzo momento
La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa viene
percepita senza la rappresentazione di uno scopo.
QUARTO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA MODALITÀ DEL
PIACERE CHE DANNO I SUOI OGGETTI
18. Che cosa è la modalità d'un giudizio di gusto. […]
Ma del bello si pensa che abbia una relazione necessaria col piacere. Questa
necessità però è di una specie particolare; non è una necessità teoretica
oggettiva, per la quale possa esser riconosciuto a priori che ognuno sentirà lo
stesso piacere dall'oggetto, che io ho chiamato bello; non è nemmeno una
necessità pratica, per cui, mediante concetti di un puro volere razionale, che
serve di regola ad un essere libero, il piacere sia la necessaria conseguenza di
una legge oggettiva, e non significhi altro se non che bisogni operare
assolutamente in un certo modo (senz'altro scopo). Ma, in quanto necessità
che è pensata in un giudizio estetico, essa può esser chiamata soltanto
esemplare, ed è la necessità dell'accordo di tutti in un giudizio considerato
come esempio d'una regola universale, che però non si può addurre. […]
20. La condizione della necessità, che presenta un giudizio di gusto, è l'idea di
un senso comune.
Se i giudizii di gusto (come i giudizii di conoscenza) avessero un principio
oggettivo determinato, colui che giudica pretenderebbe ad una necessità
incondizionata del suo giudizio. Se essi invece fossero senza alcun principio,
come quelli del semplice gusto del senso, nessuno penserebbe mai ad una loro
necessità. Sicché essi debbono avere un principio soggettivo, che solo
mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini
ciò che piace e ciò che dispiace. Un tale principio però non potrebbe esser
riguardato che come un senso comune […]
Soltanto dunque nell'ipotesi che ci sia un senso comune (col quale non
intendiamo nessun senso esterno, ma solo l'effetto del libero giuoco delle
nostre facoltà conoscitive), soltanto nell'ipotesi, dico, di un tal senso comune,
può esser pronunziato il giudizio di gusto.
21. Se si possa presupporre con ragione un senso comune.
Le conoscenze e i giudizii, con la convinzione che li accompagna, debbono
poter essere comunicati universalmente, altrimenti non si acccorderebbero per
nulla con l'oggetto; sarebbero tutti un giuoco puramente soggettivo delle
facoltà rappresentative, proprio come vorrebbe lo scetticismo. Ma se le
conoscenze debbono esser comunicabili, si deve poter comunicare
universalmente anche quello stato d'animo che consiste nella disposizione delle
facoltà conoscitive rispetto ad una conoscenza in generale, e quella
proporzione che conviene ad una rappresentazione (con cui è dato un
oggetto), affinché essa diventi una conoscenza; altrimenti, senza questa
proporzione, come condizione soggettiva del conoscere, la conoscenza, come
effetto, non potrebbe nascere. Ciò avviene effettivamente sempre quando un
oggetto dato, per mezzo dei sensi, eccita l'immaginazione alla composizione
del molteplice, e l'immaginazione a sua volta eccita l'intelletto all'unificazione
in concetti del molteplice stesso. Ma questa disposizione delle facoltà
conoscitive ha una diversa proporzione, secondo la diversita degli oggetti dati.
Tuttavia ve ne deve essere una nella quale questo rapporto interno al
ravvivamento (dell'una mediante l’altra) sia il piti favorevole per entrambe le
facoltà dell'animo, relativamente alla conoscenza (di oggetti dati) in generale;
e questa disposizione non può essere determinata altrimenti che dal
sentiimento (non da concetti). […]
Definizione del bello desunta dal quarto momento
Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere
necessario.
L’ANALITICA DEL SUBLIME
23. Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime.
Il bello si accorda col sublime in questo, che entrambi piacciono per se stessi.
[…] Entrambi i giudizii sono singolari, ma si danno come giudizii universali
rispetto ad ogni soggetto, sebbene pretendano solo al sentimento di piacere e
non alla conoscenza dell'oggetto.
Ma saltano agli occhi anche delle differenze considerevoli. Il bello della natura
riguarda la forma dell'oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime
invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o
provochi la rappresentazione dell'illimitatezza, pensata per di più nella sua
totalità […] Nel primo caso il piacere è quindi legato con la rappresentazione
della qualità, nel secondo invece con quella della quantità. Tra i due tipi di
piacere c'è inoltre una notevole differenza quanto alla specie: mentre il bello
implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della
vita, e perciò si può conciliare con le attrattive e con il gioco
dell'immaginazione, il sentimento del sublime invece è un piacere che sorge
solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo
impedimento, seguito da una più forte effusione, delle forze vitali, e perciò, in
quanto emozione, non si presenta affatto come un gioco, ma come qua1cosa di
serio nell'impiego dell'immaginazione. Quindi il sublime non si può unire ad
attrattive; e, poiché l'animo non è semplicemente attratto dall'oggetto, ma
alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una
gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere
chiamato un piacere negativo.
Ma ecco la più importante ed intima differenza tra il sublime il bello: se, com'è
giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il sublime degli
oggetti naturali (quello dell'arte è limitato sempre dalla condizione dell'accordo
con la natura), troveremo che la bellezza naturale (per sé stante) include una
finalità nella sua forma, per cui l'oggetto sembra come predisposto pel nostro
Giudizio, e perciò costituisce essa stessa un oggetto di piacere; mentre ciò che,
senza ragionamento, nella semplice apprensione, produce in noi il sentimento
del sublime, può apparire, riguardo alla forma, contrario alla finalità per il
nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà d'esibizione e quasi come
violento contro l'immaginazione stessa, nondimeno però soltanto per esser
giudicato tanto più sublime, quanto maggiore è tale violenza.[…]
Non possiamo dire se non questo, che cioè l'oggetto è capace dell'esibizione di
una sublimità che si può cogliere nel nostro animo; poiché il vero sublime non
può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della
ragione, le quali, sebbene nessuna esibizione possa esser loro adeguata, anzi
appunto per tale sproporzione che si può esibire sensibilmente, sono svegliate
ed evocate nell'animo nostro. Così l'immenso oceano sollevato dalla tempesta
non può esser chiamato sublime. La sua vista è terribile; e bisogna che l'animo
sia stato già riempito da parecchie idee, se mediante tale intuizione deve esser
determinato ad un sentimento, che è esso stesso sublime, in quanto l'animo è
sospinto ad abbandonare la sensibilità e ad occuparsi di idee che contengono
una finalità superiore.
.
45. L’arte bella è un’arte in quanto ha l'apparenza della natura.
Davanti a un prodotto dell'arte bella bisogna aver la coscienza che esso è arte
e non natura; ma la finalità della sua forma deve apparire libera da ogni
costrizione di regole volontarie, come se fosse un proodotto semplicemente
della natura. […] Vedemmo che la natura è bella quando ha l'apparenza
dell'arte; l'arte, a sua volta, non può esser chiamata bella se non quando noi,
pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura. […]
Sicché la finalità nei prodotti delle arti belle, sebbene sia voluta, deve apparire
spontanea; vale a dire, l'arte bella deve presentarsi come natura, sebbene si
sappia che è arte. Ma un prodotto dell'arte ha l'apparenza della natura quando
sia stata puntualmente ottenuta la conformità alle regole secondo cui soltanto
esso può essere ciò che dev'essere, ma senza sforzo, senza che trasparisca la
forma scolastica, vale a dire senza che per alcuna traccia si veda che l'artista
ebbe la regola sotto gli occhi e le facoltà del suo animo furono inceppate.
46. L'arte bella è arte del genio.
Il genio è il talento (dono naturale), che dà la regola all'arte. Poiché il talento,
come facoltà produttrice innata dell'artista, appartiene anche alla natura, ci si
potrebbe esprimere anche cosi: il genio è la disposizione innata dell'animo
(ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola dell'arte. […]
Sicché l'arte bella non può trovare da se stessa la regola secondo cui deve
realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto non
può mai chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all'arte nel soggetto
(mediante la disposizione delle sue facoltà), vale a dire l'arte bella è possibile
soltanto come prodotto del genio.
Da ciò si vede quanto segue: 1. Il genio è il talento di produrre ciò di cui non si
può dare una regola determinata, non un'attitudine particolare a ciò che può
essere appreso mediante una regola; per conseguenza, l'originalità è la sua
prima proprietà. 2. Poiché vi possono essere anche stravaganze originali, i suoi
prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari; quindi, benché essi
stessi non nati da imitazione, devono tuttavia servire per gli altri a ciò, vale a
dire come misura e regola del giudizio. 3. Il genio stesso non può mostrare
scientificamente come compie la sua produzione, ma dare la regola in quanto
natura; perciò l'autore di un prodotto, che egli deve al proprio genio, non sa
esso stesso come le idee se ne trovino in lui, né ha la facoltà di trovarne a suo
piacere o metodicamente delle altre, e di fornire agli altri precetti che li
mettano in condizione di eseguire gli stessi prodotti. (È perciò, probabilmente,
che la parola genio è stata derivata da genius, che significa lo spirito proprio di
un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo protegge, lo dirige, e
dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali). 4. La natura mediante il
genio non dà la regola alla scienza, ma all'arte, e a questa soltanto in quanto
dev'essere arte bella.
(I. Kant, Critica del Giudizio, tr. di A. Gargiulo, riveduta da V. Verra, Roma-Bari
1974, pp. 43-66, 81-86, 91-94, 164-167).
SCHILLER
L’oggetto dell'impulso sensibile, espresso in un concetto generale, si chiama
vita, nel significato più ampio del termine; un concetto che significa tutto
l’essere materiale e tutto ciò che è immediatamente presente nei sensi.
L’oggetto dell’impulso formale, espresso in un concetto generale, si chiama
forma, sia in senso traslato che in senso proprio; un concetto che sussume
tutte le caratteristiche formali delle cose e tutti i loro rapporti con le forze
intellettuali. L'oggetto dell'impulso al gioco, presentato in uno schema
generale, si potrà chiamare dunque forma vivente; un. concetto, questo, che
serve a designare complessivamente le carattenstiche estetiche dei fenomeni
e, in una parola, tutto ciò che nel senso più ampio del termine si chiama
bellezza.
Con questa spiegazione, ammesso che sia tale, la bellezza non viene estesa
all'intero àmbito del vivente, né semplicemente rinchiusa in tale àmbito. Un
blocco di marmo, sebbene sia e resti privo di vita, può nondimeno diventare
forma vivente grazie all'architetto e allo scultore; un uomo, per quanto viva e
abbia una forma, è lungi dall'essere perciò una forma vivente. Per questo è
necessario che la sua forma sia vita e la sua vita forma. Finché ci limitiamo a
riflettere sulla sua forma, essa è priva di vita, mera astrazione; finché
semplicemente sentiamo la sua vita, questa è informe, mera impressione. Solo
quando la sua forrma vive nella nostra sensazione e la sua vita prende forma
nel nostro intelletto egli è forma vivente, e questo accadrà dovunque noi lo
giudichiamo bello. […]
La ragione pone, per ragioni trascendentali, questa esigenza: deve esservi un
elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al
gioco, perché solo l'unità della realtà con la forma, della contingenza con la
necessità, della passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di
umanità. Essa deve porre quest' esigenza perché è ragione, perché secondo la
sua essenza tende alla perfezione e all'eliminazione di tutte le limitazioni, e
ogni attività esclusiva dell'uno o dell'altro impulso lascia invece incompiuta la
natura umana e pone in questa un limite. Di conseguenza, non appena essa
sentenzia che deve esistere un'umanità, ha con ciò promulgato la legge: deve
esserci una bellezza. L'esperienza può risponderci se vi è una bellezza, e lo
sapremo non appena ci avrà insegnato se vi è un'umanità. Come però la
bellezza possa esistere e come sia possibile un'umanità non ce lo può
insegnare né la ragione né l'esperienza.
L'uomo, come sappiamo, non è né esclusivamente materia, né esclusivamente
spirito. La bellezza come compiuta realizzazione della sua umanità non può
dunque essere esclusivamente mera vita, come è stato affermato da acuti
osservatori che si sono attenuti con troppa esattezza solo alle attestazioni
dell'esperienza, e a ciò il gusto del tempo vorrebbe abbassarla. E neppure può
essere esclusivamente pura forma, secondo il giudizio di alcuni filosofi
speculativi che si sono troppo allontanati dall' esperienza e di artisti
filosofeggianti, che nello spiegare la bellezza si sono fatti guidare
eccessivamente dalle esigenze dell'arte. Essa è l'oggetto comune dei due
impulsi, vale a dire dell'impulso al gioco. Questo nome è pienamente
giustificato dall'uso linguiistico, che suole designare con la parola gioco tutto
ciò che non è soggettivo o oggettivo in senso contingente, e che tuttavia non è
cogente né interiormente né esteriormente. Giacché l'animo alla vista del bello
si trova in un felice punto intermedio tra la legge e il bisogno, proprio perché si
divide tra i due è sottratto alla costrizione dell'uno e dell'altro. Sia l'impulso
materiale sia quello formale prendono seriamente le loro esigenze, poiché nel
conoscere l'uno si rapporta alla realtà, l'altro alla necessità delle cose; poiché
nell'agire il primo tende alla conservazione della vita, l'altro alla difesa della
dignità, entrambi dunque tendono alla verità e alla perfezione. Ma la vita
diviene più indifferente non appena interviene la dignità, e il dovere non è più
cogente non appena l'inclinazione spinge: parimenti, l'animo accoglie più
liberamente e serenamente la realtà delle cose, la verità materiale, non appena
questa entra in contatto con la verità formale e con la legge della necessità, e
non si sente più messo in tensione dall'astrazione non appena l'intuizione
immediata può accompagnarla. In una parola: ogni realtà perde la sua serietà
quando entra in comunanza con le idee, poiché diventa piccola, e il necessario
depone la propria quando si incontra con la sensazione, perché diventa
leggero.
Ma - sarete stato da tempo tentato di obiettarmi - considerare il bello come un
semplice gioco non lo abbasserà e non lo porrà sullo stesso piano dei frivoli
oggetti che da sempre portano questo nome? Non contraddice forse il concetto
razionale e la dignità della bellezza, che è comunque considerata uno
strumento della cultura, limitarla a un semplice gioco, e non contraddice il
concetto di gioco che ricaviamo dall'esperienza, che può sussistere escludendo
interamente il gusto, il limitarlo soltanto alla bellezza?
Ma che significa allora un semplice gioco, quando sappiamo che in tutti gli stati
dell'uomo proprio il gioco e solo il gioco è ciò che lo rende completo e dispiega
a un tempo la sua natura duplice. Quel che Voi chiamate, in base alla vostra
concezione, limitazione, io lo chiamo, in base alla mia concezione, che ho
giustificato con delle prove, estensione. Io direi dunque piuttosto, all'inverso: il
gradevole, il buono, il perfetto l'uomo li prende soltanto sul serio, ma con la
bellezza egli gioca. Certamente non dobbiamo pensare ai giochi correnti nella
vita reale e che di solito sono rivolti a oggetti assai materiali; ma nella vita
reale cercheremmo invano anche la bellezza di cui qui si parla. La bellezza
presente nella realtà vale l'impulso al gioco presente nella realtà; ma insieme
all'ideale della bellezza che è posto dalla ragione viene asssegnato anche un
ideale dell'impulso al gioco che l'uomo dovrebbe aver presente in tutti i suoi
giochi.
Non si sbaglierà mai a cercare l'ideale di bellezza di un uomo per la stessa via
per la quale questi soddisfa il suo impulso al gioco. […] Il bello non può essere
pura vita né pura forma, ma forma vivente, cioè bellezza, in quanto detta agli
uomini la duplice legge della assoluta formalità e dell'assoluta realtà. Di
conseguenza essa decreta: l'uomo con la bellezza deve solo giocare e deve
giocare solo con la bellezza.
Infatti, per dirla infine brevemente, l'uomo gioca soltanto quando è uomo nel
senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca.
(F. Schiller, L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Palermo 2005, pp. 5457)
_________________________________________________________
IL PIÙ ANTICO PROGRAMMA DI SISTEMA DELL’IDEALISMO TEDESCO
un'etica. Poiché in futuro l'intera metafisica rientrerà nella morale (cosa di cui
Kant, con i suoi due postulati pratici, ha solo dato un esempio, ma che non ha
affatto portato a commpimento), quest'etica non sarà nient'altro che un
sistema completo di tutte le idee o - il che è lo stesso - di tutti i postulati
pratici. La prima idea è naturalmente la rappresentazione di me stesso come
un essere assolutamente libero. Con l'essere libero, autocosciente, sorge al
contempo un intero mondo dal nulla - l'unica creazione dal nulla vera e
pensabile. Qui calerò nei campi della fisica; il problema è questo: come
dev'essere fatto un mondo per un ente morale? Vorrei una buona volta ridare
ali alla nostra lenta fisica che procede a fatica tra gli esperimenti.
Così, se la filosofia dà le idee, e l'esperienza i fatti, potremo finalmente
ottenere quella fisica in grande che io mi aspetto da epoche avanzate. Non
sembra che la fisica d'oggi possa soddisfare uno spirito creatore quale il nostro
è o deve essere.
Dalla natura passo all'opera umana: l'idea dell'umanità al primo posto, voglio
mostrare che non si dà alcuna idea dello stato, perché lo stato è qualcosa di
meccanico, così come non si dà l'idea di una macchina. Solo ciò che è oggetto
della libertà si chiama idea. Dobbiamo dunque oltrepassare anche lo stato!
Ogni stato, infatti, non può non trattare uomini liberi come rotelle di un
meccanismo; ma non deve farlo; perciò deve finire. Vedete da voi che qui tutte
le idee della pace perpetua etc. non sono che idee subordinate a un'idea più
elevata. Al contempo voglio qui stendere i princìpi per una storia dell'umanità e
mettere completamente a nudo tutta la miserevole opera umana di stato, costituzione, governo, legislazione. Alla fine vengono le idee di un mondo morale,
della divinità, dell'immortalità: rovesciare ogni superstizione, attaccare i preti,
che di recente simulano la ragione, mediante la ragione stessa! Assoluta libertà
di tutti gli spiriti che portano in sé il mondo intellettuale e non devono cercare
né Dio né l'immortalitàfuori di sé!
Per ultima, l'idea che le unifica tutte, l'idea della bellezza, , prendendo la parola
nell'elevato senso platonico. Ora io sono convinto che l'atto supremo della
ragione, quello col quale essa abbraccia tutte le idee, è un atto estetico e che
verità e bontà sono affratellate solo nella bellezza. Il filosofo deve possedere
altrettanta forza estetica quanta il poeta. Gli uomini senza senso estetico sono
i nostri filosofi che si fermano alla lettera. La filosofia dello spirito è una
filosofia estetica. Senza senso estetico non si può essere ricchi di spirito in
niente, non si può nemmeno ragionare, in modo ricco di spirito, di storia. Qui
deve diventar manifesto che cosa propriamente manca agli uomini che non
comprendono le idee e che confessano alquanto candidamente che per loro
tutto è oscuro non appena si va oltre le tabelle e gli elenchi.
La poesia riceverà così una dignità superiore, ritornerà a essere, alla fine, ciò
che era all'inizio: maestra dell'umanità; infatti, non ci saranno più né filosofia
né storia, l'arte poetica soltanto sopravviverà a tutte le altre arti e scienze.
Al contempo, sentiamo tanto spesso dire che la gran massa deve avere una
religione sensibile. Non solo la gran massa, anche il filosofo ne ha bisogno.
Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell'immaginazione e
dell'arte: ecco ciò di cui abbiamo bisogno!
Per la prima volta parlerò qui di un'idea che, a quanto ne so, non è ancora
venuta in mente a nessuno: noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma
questa mitologia deve stare al servizio delle idee, deve diventare una mitologia
della ragione.
Prima che le rendiamo estetiche, cioè mitologiche, le idee non hanno alcun
interesse per il popolo e, viceversa, prima che la mitologia sia razionale, il
filosofo deve vergognarsene. Così, alla fine, illuminati e non illuminati dovranno tendersi la mano, la mitologia dovrà diventare filosofica, e il popolo
razionale, e la filosofia dovrà diventare mitologica, per rendere sensibili i
filosofi. Allora regnerà eterna unità fra noi. Non più lo sguardo pieno di
disprezzo, non più il cieco tremare del popolo davanti ai suoi saggi e ai suoi
preti. Solo allora ci attende un eguale sviluppo di tutte le forze, sia del singolo
sia di tutti gli individui. Nessuna forza verrà più oppressa, allora regnerà
un'universale libertà ed eguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore, inviato
dal cielo, deve fondare fra noi questa nuova religione che sarà l'ultima, la più
grande opera dell'umanità.
(Hegel (?), Schelling (?), Hölderlin (?), Il più antico programma di sistema
dell’idealismo tedesco, a cura di L. Amoroso, Pisa 2007, pp. 21-27)
FRIEDRICH SCHLEGEL
La poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo fine non è solo
quello di riunire nuovamente tutti i separati generi poetici e di porre in contatto
la poesia con la filosofia e la retorica. Essa vuole, e deve anche, ora mescolare
ora combinare poesia e prosa, genialità e critica, poesia d'arte e poesia
ingenua, render viva e sociale la poesia, poetica la vita e la società, poetizzare
lo spirito (W itz), riempire e saturare le forme dell'arte col più vario e schietto
materiale di cultura, e animarle con vibrazioni di humor. Essa abbraccia tutto
ciò che è poetico, dal più grande sistema dell'arte (che contiene a sua volta in
sé più sistemi) al sospiro, al bacio che il fanciullo poetante esala in un canto
spontaneo. Essa può perdersi talmente nell'oggetto rappresentato da poter far
credere che caratterizzare individui poetici di ogni specie sia per essa l'Uno e il
Tutto; eppure non c'è ancora una forma che si presti ad esprimere
perfettamente lo spirito dell'autore, tanto che pareccchi artisti, che
intendevano scrivere semplicemente un romanzo, hanno rappresentato senza
volerlo se stessi. Essa sola può, pari all'epòs, divenire uno specchio di tutto il
mondo circostante, un'immagine dell' epooca. Eppure essa può anche
benissimo librarsi a metà, sulle ali della riflessione poetica, libera da ogni
interesse reale e ideale, fra l'oggetto della rappresentazione e il soggetto
rappresentante, tornare sempre a potenziare questa riflessione e moltiplicarla,
come in una serie interminabile di specchi. Essa è capace della più alta e della
più universale cultura, non solo dall'interno verso l'esterno ma anche
dall'esterno verso l'interno, in quanto organizza in maniera armonica tutte le
parti di ciò che nei suoi prodotti deve essere un'Unità; per cui le si apre la
prospettiva di una classicità che cresce illimitatamente. La poesia romantica è
fra le arti ciò che l'arguzia è per la filosofia, e la società, le relazioni, l'amicizia
e l'amore sono nella vita. Altri generi sono finiti, e possono ora venire
compiutamente analizzati. La poesia romantica è ancora in divenire; anzi,
questa è la sua vera esssenza: che può soltanto divenire, mai essere. Non può
venire esaurita da nessuna teoria, e solo una critica divinatoria potrebbe osare
di voler caratterizzarne l'ideale. Essa sola è infinita, come essa sola è libera, e
riconosce come sua legge prima questa: che l'arbitrio del poeta non soffra
legge alcuna. Il genere romantico è l'unico ad essere più che un genere, e
quasi la poesia stessa, in quanto che, in un certo senso, ogni poesia è o deve
essere romantica. […] C'è una poesia il cui uno-tutto è la relazione dell'ideale e
del reale, e che perciò, in analogia col linguaggio filosofico, potremmo
chiamare poesia trascendentale. Essa comincia, come satira, coll'assoluta
alterità dell' ideale e del reale, si libra poi, come elegia, nel loro mezzo, e
termina, come idillio, colla loro assoluta identità. Ma come attribuiremmo poco
valore a una filosofia trascendentale che non fosse critica, che non
rappresentasse insieme al prodotto anche il producente, e non contenesse nel
sistema dei pensieri trascendentali anche una caratteristica del pensare
trascendentale; così anche quella poesia dovrebbe unire i materiali e
proginnasmi trascendentali, non rari presso i poeti moderni, di una teoria
poetica
della
facoltà
estetica,
colla
riflessione
artistica
e
con
quell'autorispecchiamento estetico che troviamo in Pindaro, nei frammenti dei
lirici greci, nell'antica elegia, e, fra i moderni, nel Goethe, e, in tutto quello che
rappresenta, rappresentare anche se medesima, ed essere sempre, insieme,
poesia e poesia della poesia.
(F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Firenze
1967, pp. 64-65, 83)
SCHELLING
L'intuizione postulata deve riunire quanto esiste separatamente nel fenomeno
della libertà e nell'intuizione del prodotto naturale: identità del conscio e del
privo di coscienza nell'io, e coscienza di tale identità. Il prodotto di questa
intuizione confinerà quindi, per un lato, col prodotto della natura, per altro
lato, col prodotto della libertà, e dovrà riunire in sé i caratteri di entrambi.
Conoscendo il prodotto dell'intuizione, conosciamo altresì l'intuizione stessa,
sicché abbiam bisogno soltanto di dedurre il prodotto al fine di dedurre
l'intuizione.
Con il prodotto della libertà, il prodotto avrà in comune di esser creato con
coscienza, e in comune con il prodotto naturale di essere creato senza
coscienza. […] Più in breve: la natura inizia senza consapevolezza e termina
coscientemente; la produzione non è conforme a fini, bensì lo è certo il
prodotto. L'io, nell'attività di cui stiamo parlando, deve iniziare con coscienza
(soggettivamente) e finire nel privo di coscienza od oggettivamente: l'io è
cosciente secondo la produzione, privo di consapevolezza quanto al prodotto.
[…]
Ora, quel che era puramente e semplicemente impossibile per mezzo della
libertà, dov'essere possibile mediante l'agire qui postulato, il quale tuttavia,
precisamente per questa ragione, deve cessare di essere un libero agire e
diviene un agire in cui libertà e necessità sono assolutamente unificate. […] Le
due attività devono pertanto essere una sola, perché altrimenti non vi è
identità alcuna; le due attività devono essere se parate, perché altrimenti c'è
identità, ma non per l'io. Com'è risolubile questa contraddizione? […]
Dev'esserci dunque un punto nel quale l'una e l'altra coincidono in una sola, e,
viceversa, dove entrambe coincidono in una sola, la produzione deve cessare di
apparire come libera […]
Allorché questo punto è attinto nella produzione, il produrre deve
assolutamente cessare e colui che produce dev'essere nell'impossibilità di
continuare a produrre, perché la condizione di ogni produrre è appunto la
contrapposizione dell'attività conscia a quella priva di coscienza; ma queste
devono qui coincidere assolutamente, pertanto nell'intelligenza ogni conflitto
dev'esser superato, ogni contraddizione composta […]
Ogni impulso a produrre si placa nel compimento del prodotto, ogni
contraddizione è superata, ogni enigma risolto. […] Poiché la produzione aveva
preso avvio dalla libertà, ossia da una contrapposizione infinita delle due
attività […] essa si sentirà sorpresa e fortunata per quella medesima
unificazione, la considererà quasi un favore gratuito di una natura superiore
che con essa ha reso possibile l'impossibile.
Ma tale ignoto che qui pone l'attività oggettiva e quella conscia in un'armonia
inattesa altro non è che quell'Assoluto il quale contiene il fondamento generale
dell'armonia prestabilita tra il conscio e il privo di coscienza. Se quindi
quell'Assoluto viene riflesso dal prodotto, apparirà all'intelligenza come
qualcosa che sta al di sopra di essa e che, persino contro la liberta, aggiunge il
non intenzionale a quel che era stato iniziato con coscienza e intenzione. […]
Il prodotto postulato è nient'altro che il prodotto geniale, ovvero, essendo il
genio possibile soltanto nell' arte, il prodotto artistico.[…]
Che ogni produzione estetica riposi su un’opposizione di attività si può già
concludere a buon diritto dalla testimonianza di tutti gli artisti, secondo i quali
essi vengono spinti involontariamente alla creazione delle loro opere e
producendole non fanno che soddisfare un impulso irresistibile della loro
natura, perché se ogni impulso procede da una contraddizione, dimodoché,
una volta posta la contraddizione l'attività libera diviene involontana, allora anche il medesimo impulso artistico deve provenire da un tale sentimento di una
contraddizione interna. Tuttavia, questa contraddizione mettendo in
movimento l'uomo intero con tutte le sue forze è senza dubbio una
contraddizione che investe quel che vi è di ultimo in lui, la radice di tutta la sua
esistenza. […] Può essere pertanto solo la contraddizione tra il conscio e il
privo di coscienza nel libero agire a mettere in moto l'impulso artistico; allo
stesso modo, a sua volta, è all'arte soltanto che può esser dato di soddisfare il
nostro sforzo infinito e risolvere anche in noi l'ultima e più estrema contraddizione.
Come la produzione estetica procede dal sentimento di una contraddizione
apparentemente insolubile, così termina, secondo quanto riconoscono tutti gli
artisti e tutti coloro che partecipano della loro ispirazione, nel sentimento di
un'infinita armonia. Che questo sentimento accompagnante il compimento sia,
insieme, una commozione, già lo dimostra il fatto che l'artista ascrive la
perfetta soluzione della contraddizione non a se stesso, ma a un favore
gratuito della sua natura la quale, proprio come l'aveva spietatamente messo
in contraddizione con se stesso, gli aveva poi fatto la grazia di liberarlo dal
dolore di quella contraddizione. Infatti, come l'artista viene spinto
involontariamente alla produzione, e persino con intima resistenza (di qui le
espressioni ricorrenti presso gli antichi, quali pati Deum ecc., di qui in generale
l'idea di un'ispirazione recata da un afflato estraneo), similmente anche
l'oggettivo sopraggiunge nella sua produzione quasi senza suo intervento, cioè
appunto in modo meramente oggettivo. Proprio come l'uomo segnato dal fato
non porta a termine quello che vuole o che ha in mente, ma ciò che deve
compiere per un destino incomprensibile sotto il cui influsso egli giace, così
l'artista, per quanto sia chiaramente intenzionato, per l'aspetto propriamente
oggettivo della sua creazione pare tuttavia trovarsi sotto l'influsso di un potere
che lo separa da tutti gli altri uomini e lo costringe a esprimere o rappresentare
cose che lui stesso non vede perfettamente e il cui senso è infinito. Ora,
giacché quell'assoluto giungere a coincidenza delle due attività che si fuggono
non è ulteriormente spiegabile, eppure è un fenomeno il quale, sebbene
inconcepibile, proprio non può esser negato, allora l'arte è l'unica ed eterna
rivelazione che vi sia e il miracolo che, fosse esistito anche una volta soltanto,
dovrebbe persuaderci dell'assoluta realtà di quel supremo.
Inoltre se l'arte viene compiuta da due attività totalmente differenti l'una
dall'altra, il genio non è né una né l'altra, bensì ciò che è al di sopra di
entrambe. Se dobbiamo cercare in una delle due attività, vale a dire in quella
cosciente, ciò che in generale viene chiamato arte, pur essendone solo un
elemento componente, vale a dire quel che nell'arte viene esercitato con
coscienza, deliberazione e riflessione, ciò che può altresì venir insegnato e
appreso, venir raggiunto mediante la tradizione e l'esercizio personale, al
contrario, nel privo di coscienza che entra nell'arte dobbiamo cercare quanto in
essa non si può imparare né ottenere esercitandosi, o in altro modo, ma può
essere solamente innato per un favore gratuito della natura, e che costituisce
ciò che, in una parola, possiamo chiamare la poesia nell' arte.
Risulta di per sé evidente che sarebbe una questione perfettamente inutile
domandare quale delle due componenti sia da privilegiare rispetto all'altra,
perché in effetti nessuna di esse ha valore senza l'altra e unicamente assieme
entrambe producono quel che vi è di più elevato. Infatti, benché in generale si
consideri cosa più eccellente quella che non si raggiunge mediante esercizio,
ma è innata in noi, nondimeno gli dei hanno stretto così saldamente l'esercizio
di quella forza originaria alle gravi fatiche degli uomini, allo zelo e alla
meditazione, che senza il soccorso dell'arte, la poesia, anche laddove è innata,
crea soltanto prodotti per dir così morti, coi quali nessun intelletto umano può
provar diletto e che, per mezzo della forza cieca che vi ha efficacia, respingono
da sé ogni giudizio e persino l'intuizione. Viceversa ci si può aspettare più
facilmente che l'arte senza la poesia sia in grado di produrre qualcosa,
piuttosto che la poesia senza l'arte: un po' perché difficilmente si incontrerà un
uomo per natura spoglio di qualsiasi poesia, benché ve ne siano molti privi di
qualsiasi arte, un po' perché lo studio assiduo delle idee dei grandi maestri è
capace di supplire in certa misura alla carenza originaria di forza oggettiva.
Nondimeno, ne potrà scaturire sempre soltanto una parvenza di poesia,
facilmente riconoscibile per la sua superficialità contrastante con l'insondabile
profondità che il vero artista, seppure lavorando in modo estremamente
meditato, infonde involontariamente nella sua opera, e che né lui né alcun'altro
è capace di penetrare totalmente […].
La perfezione è possibile unicamente tramite il genio il quale, appunto perciò,
è per l' estetica quel che per la filosofia è l'io, cioè il supremo, l'assolutamente
reale, ciò che, inoggettivabile, è però causa di tutto l'oggettivo.
2. Carattere del prodotto artistico
1. L'opera d'arte riflette per noi l'identità di attività conscia e di attività priva di
coscienza. Ma l'opposizione di queste due attività è infinita e vien superata
senza ricorrere a qualsivogha intervento della libertà. Il carattere fondamentale
dell'opera d'arte è perciò un'infinità priva di coscienza. Oltre quanto vi ha
messo con un'intenzione manifesta, l'artista sembra aver esposto nella sua
opera, per dir così istintivamente, un'infinità che nessun intelletto finito è
capace di sviluppare interamente […]. La mitologia greca, di cui non si può
negare che contenga un senso infinito e simboli per tutte le idee, è nata in
seno a un popolo e in una maniera tali, l'uno e l'altra da far ritenere
impossibile un'intenzionalità permanente nell'invenzione e nell'armonia con la
quale il tutto si trova unificato in un unico vasto insieme. Così avviene per ogni
vera opera d'arte, perché essa, quasi vi fosse in lei un'infinità di intenzioni, è
capace di un'infinita interpretazione, benché non si possa mai dire se questa
infinità sia stata presente nell'artista medesimo o si trovi soltanto nell'opera
d'arte. Al contrario, nel prodotto che unicamente simula il carattere dell'opera
d'arte, intenzione e regola affiorano in superficie e paiono così delimitate e
circoscritte che il prodotto non è altro che l'impronta fedele dell'attività conscia
dell'artista e, con ciò, un oggetto soltanto per la riflessione, ma non per l'intui-
zione, la quale ama sprofondarsi in quel che intuisce e può trovar quiete
unicamente nell'infinito.
2. Ogni produzione estetica muove dal sentimento di una contraddizione
infinita, quindi bisogna altresì che il sentimento che accompagna il compimento
del prodotto artistico sia quello di una soddisfazione infinita, e questo
sentimento deve a sua volta trapassare nell' opera d'arte stessa. L'espressione
esterna dell' opera d'arte è pertanto l'espressione della quiete e della calma
grandezza, persino laddove si tratta di esprimere l'estrema tensione del dolore
o della gioia.
3. Ogni produzione estetica procede da una separazione, in sé infinita, delle
due attività che in ogni libero produrre sono separate. Ora, giacché queste due
attività devono essere presentate nel prodotto come unite tramite questo
prodotto medesimo, un infinito sarà così esposto in modo finito. Ma l'infinito
esposto in modo finito è bellezza. Il carattere fondamentale di ogni opera
d'arte, che comprende in sé i due precedenti, è allora la bellezza, e senza
bellezza non v' è opera d'arte alcuna. Infatti, sebbene vi siano opere d'arte
sublimi e, per certi aspetti, bellezza e sublimità siano contrapposte, una scena
della natura, per es., potendo esser bella senza perciò esser sublime, e
viceversa, nondimeno l'opposizione tra il bello e il sublime ha luogo solamente
in relazione all'oggetto, non al soggetto dell'intuizione, giacché la differenza tra
l'opera d'arte bella e l'opera sublime riposa unicamente sul fatto che, nel caso
della bellezza, la contraddizione infinita è tolta nell' oggetto stesso, mentre nel
caso della sublimità la contraddizione non è ricondotta a unità nell'oggetto
medesimo, ma soltanto spiritualizzata a un'altezza tale che essa si sopprime
involontariamente nell'intuizione, il che poi è lo stesso come se la
contraddizione fosse tolta nell'oggetto.[…]
Il prodotto artistico si distingue […] dal prodotto organico della natura
principalmente per il fatto che la produzione organica non procede dalla
coscienza, né conseguentemente dalla contraddizione infinita che è condizione
della produzione estetica. Il prodotto organico della natura non sarà quindi
neanche necessariamente bello, e se è bello, la bellezza, la cui condizione non
può venir pensata come esistente in natura, apparirà puramente e semplicemente casuale; di qui si spiega l'interesse affatto peculiare per la bellezza
naturale, non in quanto bellezza in generale, bensì in quanto è
determinatamente bellezza della natura. Si rende automaticamente evidente di
per sé in qual conto sia da tenere l'imitazione della natura in quanto principio
dell'arte, perché, ben lungi dall'essere la natura, che è bella per puro caso, a
fornire la regola all'arte, è al contrario ciò che l'arte produce nella sua
perfezione a fornire il principio e la norma per giudicare la bellezza naturale.
È facile giudicare in cosa il prodotto estetico si distingua dal comune prodotto
artistico, giacché ogni produzione estetica è, nel suo principio, assolutamente
libera, l'artista potendo venirvi spinto bensì da una contraddizione, ma solo da
una contraddizione che risieda in ciò che vi è di più elevato della sua propria
natura, mentre ogni altra produzione è suscitata da una contraddizione situata
al di fuori di colui che, propriamente, produce e ha pertanto altresì ogni scopo
fuori di sé. Da quell'indipendenza da fini estrinseci scaturisce quella sacertà e
purezza dell'arte che va così lontano da ripudiare non soltanto ogni affinità con
ciò che è mero piacere dei sensi (esigere quest'ultimo dall'arte è il carattere
proprio della barbarie) o con l'utile (il quale può esser richiesto all'arte soltanto
da un'epoca che pone gli sforzi più elevati dello spirito umano in invenzioni
economiche), ma persino l'affinità con tutto quel che appartiene alla moralità.
La sacertà dell'arte lascia dietro di sé staccandola considerevolmente, persino
la scienza la quale, al riguardo del suo carattere disinteressato, confina assai
da vicino con l'arte, e ciò per la sola ragione che la scienza persegue sempre
un fine esterno a essa e che, in fondo, deve servire soltanto quale mezzo per
quel che vi è di più elevato (l'arte).
Per quel che concerne, in particolare, il rapporto dell'arte alla scienza, nel loro
orientamento sono entrambe talmente contrapposte l'un l'altra che, se la
scienza avesse mai risolto ogni suo problema, come l'ha sempre risolto l'arte,
dovrebbero coincidere e fondersi in una sola, il che è la prova delle direzioni
diametralmente contrapposte. Infatti benché la scienza nella sua funzione più
alta abbia quell'unico e medesimo compito in comune con l'arte, questo
compito tuttavia, in ragione del modo di risolverlo, è per la scienza un compito
infinito, sicché si può concludere che l'arte sia il modello della scienza e che
dove l'arte è già presente debba sopravvenire la scienza. Appunto questo
permette di spiegare anche perché e in quale misura non vi sia alcun genio
nelle scienze, non nel senso quasi fosse impossibile risolvere genialmente un
problema scientifico, bensì perché questo medesimo problema, che può esser
risolto dal genio, è risolubile anche meccanicamente […]. Soltanto ciò che l'arte
produce è possibile esclusivamente e unicamente per via del genio, perché in
ogni problema risolto dall'arte si trova composta una contraddizione infinita.
Quel che la scienza produce può esser prodotto dal genio, ma non lo è
necessariamente. Pertanto, il genio è e permane problematico nelle scienze,
cioè si può sempre dire in modo determinato dove non è, eppure mai dove è.
Vi sono soltanto pochi indizi dai quali poter concludere alla presenza del genio
nelle scienze […] Si dovrebbe […] presupporre genio laddove palesemente
l'idea del tutto ha preceduto le singole parti. Infatti, giacché l'idea del tutto non
può precisarsi se non sviluppandosi nelle singole parti e, d'altro canto, le
singole parti sono possibili unicamente tramite l'idea del tutto, pare in tal modo
esservi qui una contraddizione, possibile soltanto mediante un atto del genio,
cioè per un'inattesa coincidenza dell'attività conscia e di quella priva di
coscienza. Un altro caso in cui vi sarebbe ragione di supporre l'intervento del
genio nelle scienze sarebbe quello in cui tal uno dica e sostenga cose il cui
senso gli sia impossibile da penetrare totalmente, o in ragione dell'epoca in cui
ha vissuto, o in ragione di altre sue osservazioni, ossia quando ha affermato
apparentemente
con
coscienza
cose
che
poteva
esprimere
solo
inconsapevolmente. […]
Per il fatto di risolvere una contraddizione altrimenti in nessun modo e da
nient'altro risolubile, il genio si distingue da tutto ciò che è mero talento o
abilità. In ogni produrre, anche il più ordinario e il più quotidiano, un'attività
priva di coscienza coopera con quella cosciente; tuttavia solo un produrre la cui
condizione era un'opposizione infinita tra le due attività è un produrre estetico
e reso possibile soltanto per opera del genio.
Corollario
[…] Non ci resta altro che indicare il rapporto intrattenuto dalla filosofia
dell'arte con l'intero sistema della filosofia in generale.
1. Tutta la filosofia muove e deve muovere da un principio che, in qualità di
assolutamente identico, è puramente e semplicemente non-oggettivo. Eppure,
in che modo questo assolutamente Non-oggettivo può esser chiamato sulla
scena della coscienza e venir compreso, il che è necessario se è condizione
della comprensione dell'intera filosofia? Non occorre alcuna prova del fatto che
possa tanto poco venir compreso quanto esposto mediante concetti. Non gli
resta che il venir presentato in un'intuizione immediata, la quale però è a sua
volta inconcepibile e, dovendo essere il suo oggetto qualcosa di puramente e
semplicemente non-oggettivo, sembra persino essere in se stessa
contraddittoria. Ma se pure ci fosse una simile intuizione, tale da avere per
oggetto l'assolutamente identico, in sé né soggettivo né oggettivo, e se per
opera di questa intuizione, che può essere soltanto intellettuale, ci si richiamasse all'esperienza immediata, allora in che modo può oggettivarsi a sua
volta? Cioè: come può venir posto fuor di dubbio che essa non riposi soltanto
su un'illusione puramente soggettiva, se di quell'intuizione non c'è
un'oggettività universale e riconosciuta da tutti gli uomini? Tale oggettività,
universalmente riconosciuta e innegabilmente irremovibile, dell'intuizione
intellettuale è l'arte stessa. Infatti, l'intuizione estetica è appunto quella
intellettuale divenuta oggettiva. Solamente l'opera d'arte mi riflette ciò che non
viene riflesso da nient'altro: quel medesimo assolutamente-Identico che nell'io
si è già scisso; l'arte opera il miracolo di irradiare dai suoi prodotti quello che il
filosofo ha lasciato che si scindesse già nel primo atto della coscienza, e che
altrimenti è inaccessibile a ogni intuizione.
Ma ciò che si oggettiva unicamente con la produzione estetica è non soltanto il
primo principio della filosofia e la prima intuizione da cui essa procede, bensì
anche l'intero meccanismo che la filosofia deduce e sul quale essa stessa
riposa. […]
Cos'è dunque quella facoltà meravigliosa per la quale, a detta del filosofo,
un'opposizione infinita si toglie nell'intuizione produttiva? […] Quella facoltà.
produttiva è la medesima di quella per cui anche all’arte riesce l’impossibile,
cioè superare un'opposizione infinita in un prodotto finito. La facoltà poetica è
ciò che, nella prima potenza, è l’intuizione originaria, e inversamente, ciò che
chiamiamo facoltà poetica è soltanto l’intuizione produttiva che si ripete nella
potenza suprema. Uno e il medesimo è attivo in entrambe, l'unico elemento
tramite il quale siamo in grado di pensare e riunire il contraddittorio l'immaginazione. […]
Se la produzione estetica muove dalla libertà, e se appunto per la libertà
quell'opposizione di attività cosciente e attività inconsapevole è assoluta, allora
non vi è, propriamente, che un'unica opera d'arte assoluta, la quale può bensì
esistere in esemplari affatto diversi, eppure è soltanto una, quand'anche non
dovesse ancora esistere .nella forma originaria. […]
2. Se l'intuizione estetica è unicamente quella trascendentale divenuta
oggettiva, è evidente che l'arte sia l'unico vero ed eterno organo della filosofia
e insieme l'unico documento che rende testimonianza sempre e
incessantemente a ciò che la filosofia non può esporre esternamente, e cioè il
privo di coscienza nell'agire e nel produrre, e la sua identità originaria con il
conscio. Appunto perciò l'arte è per il filosofo quel che vi è di supremo, perché
gli apre per dir così il sancta sanctorum ove in eterna e originaria unione, quasi
in un'unica fiamma, arde ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò
che nella vita e nell'agire, come nel pensiero, deve eternamente fuggirsi. La
visione della natura che il filosofo si costruisce artificiosamente è per l'arte
quella originaria e naturale. Ciò che chiamiamo natura è un poema che giace
nascosto in una segreta, meravigliosa scrittura. Se però l'enigma potesse
svelarsi, vi potremmo riconoscere l’odissea dello spirito che, mirabilmente
ingannato, rifugge se stesso nell' atto di cercarsi; giacché attraverso il mondo
sensibile, al pari del senso attraverso le parole, traluce stentatamente come in
una semidiafana nebbia quel paese della fantasia cui aneliamo. Ogni spendido
dipinto nasce, per dir così, al levarsi dell'invisibile sipario che separa il mondo
reale da quello ideale, e non è altro che l'apertura attraverso cui ci vengono
incontro nella loro pienezza quelle figure e quelle regioni del mondo fantastico
che soltanto imperfettamente tralucono nel mondo reale. Per l'artista la natura
non è più di quel che è per il filosofo, cioè solamente il mondo ideale che
appare tra permanenti limitazioni, soltanto il riflesso imperfetto di un mondo
che esiste non fuori di lui, ma in lui. […]
Ora, se soltanto l'arte riesce a rendere oggettivo, con valore universale, quel
che il filosofo può esporre unicamente in modo soggettivo, c'è da attendersi per trarre qui ancora questa conclusione - che la filosofia, così com'è scaturita
ed è stata nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle
scienze che per mezzo suo vengono recate a perfezione, una volta giunte alla
loro pienezza, come altrettanti singoli fiumi riconfluiranno in quell'universale
oceano della poesia da cui erano uscite. Quale poi sarà il tramite del ritorno
della scienza alla poesia, non è in generale difficile a dirsi, questo termine
intermedio essendo esistito nella mitologia, prima che fosse avvenuta questa
separazione la quale ora sembra insuperabile. Ma come possa nascere una
nuova mitologia, che non sia invenzione del singolo poeta ma di una
generazione nuova che quasi rappresenti, per dir così, un unico poeta, ciò è un
problema la cui soluzione si può attendere solamente dai futuri destini del
mondo e dal corso ulteriore della storia.
(F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi,
Milano 1997, pp. 551-581).
SCHOPENHAUER
Ma qual maniera di conoscenza studia ciò che stando fuori e indipendente da
ogni relazione è in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera sostanza
dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggetta e quindi in ogni tempo con
pari verità conoosciuta - in una parola, le idee, che sono l'immediata e
adeguata oggettità della cosa in sé, della volontà? È l'arte, l'opera del genio.
Ella riproduce le eterne idee afferrate mediante pura contemplazione,
l'essenziale e il permanente in tutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della
materia in cui riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Sua unica origine è
la conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa
conoscenza. Mentre la scienza, tenendo dietro all'incessante e instabile flusso
di cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad ogni mèta ragggiunta viene
di nuovo sospinta sempre più lontano e non mai può trovare un termine vero,
né un pieno appagaamento, più di quanto si possa raggiungere correndo il
punto in cui le nubi toccano l'orizzonte; l'arte all'opposto è sempre alla sua
mèta. Imperocché ella strappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal
corrente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: e quest'oggetto
sinngolo, ch'era in quel flusso una infinitamente minima parte, diviene per lei
un rappresentante del tutto, un equivalente del molteplice infinito nello spazio
e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ella ferma la ruota del tempo:
svaaniscono per lei le relazioni: soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi
possiamo adunque senz'altro indicarla come il modo di considerar le cose
indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della considerazione che
appunto di tal principio tien conto, la quale è la via dell'esperienza e della
scienza. Quest'ultima maniera di considerazione va paragonata ad una linea
orizzontale corrente all'infinito; la prima, invece, alla verticale che la taglia in
qualsivoglia punto. Quella che tien dietro al principio di ragione è la maniera
razionale, che nella vita pratica, come nella scienza, sola vale e soccorre;
quella che prescinde dal contenuto del principio stesso è la maniera geniale,
che sola vale e soccorre nell'arte. La prima è la maniera di Aristotele; la
seconda, in complesso, quella di Platone. La prima somiglia al violento
uragano, che senza principio e fine trascorre, e tutto piega, scuote, trascina
con sé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa la via di quell'uragano
senza esserne scosso. La prima somiglia alle innumerabili, impetuosamente
agitate gocce della cascata, che sempre mutando non posano un attimo: la
seconda al placido arcobaleno, che poggia su questo tumulto furioso. Solo
mediante la pura contemplazione sopra descritta, assorbentesi intera
nell'oggetto, vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appunto nella
preponderante attitudine a tale contemplazione: e poi che questa richiede un
pieno oblio della propria persona e dei suoi rapporti, ne viene che genialità non
è altro se non la più completa obiettità, ossia direzione obiettiva dello spirito,
contrappposta alla direzione subiettiva, che tende alla propria perrsona, ossia
alla volontà. Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella pura intuizione, a
perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in origine esiste soltanto in
servizio della volontà, sottrarre a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il
proprio volere, i propri fini perdere affatto di vista, e così spogliarsi appieno per
un certo tempo della propria personalità per rimanere alcun tempo qual puro
soggetto conoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma
così durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per riprodurre
con meditata arte il conosciuto […] Questo più di conoscenza, divenuto libero,
diventa allora un soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza
del mondo. Cosi si spiega la vivacità spinta all'irrequietezza in individui geniali,
di rado potendo loro bastare il presente, perché non riempie la loro conscienza:
questo dà loro quella tensione senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti
nuovi e degni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai appagata di
trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano comunicare;
mentre l'ordinario figlio della terra, tutto riempito ed appagato dall'ordinario
preesente, in esso si assorbe, e trovando inoltre dappertutto pari suoi,
possiede quello speciale benessere nella vita quootidiana, che al genio è
negato. […] In tal modo sarebbe la conoscenza del genio limitata alle idee degli
oggetti effettivamente presenti alla sua persona, e dipendenti dalla catena
delle circostanze che a lui li condussero se la fantasia non allargasse il suo
orizzonte molto di là dalla realtà dèlla sua personale esperienza e non lo
ponesse in grado di ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettiva
appercezione, tutto il rimanente; e cosi far passare davanti a sé quasi tutte le
possibili immagini della vita. Inol tre gli oggetti reali quasi sempre non sono
che manchevoli esemplari dell'idea in loro manifestantesi: quindi il genio ha
bisogno della fantasia, per veder nelle cose non ciò che la natura ha in effetti
formato bensì ciò ch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta […]
delle sue forme tra loro non è riuscita a compiere. […] La fantasia allarga
dunque la cerchia visuale del genio oltre gli oggetti offrentisi in realtà alla sua
persona; e l'allarga sia per la qualità che per la quantità. Quindi una non
comune forza della fantasia è compagna, anzi condizione della genialità.
Invece, quella non è prova di questa; anzi, possono anche uomini tutt'altro che
geniali aver molta fantasia. […]
L'uomo comune, questa merce all'ingrosso della natura, che ne produce
migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace solo fugacemente di
guardare le cose in maniera affatto disinteressata in ogni senso - ciò che
costituisce la vera contemplazione. Può alle cose volgere la sua attenzione solo
in quanto esse abbiano una qualsiasi relazione, anche se molto indiretta, con la
sua volontà. […] Quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra un oggetto; bensì
egli cerca sollecito in tutto ciò, che gli si offre, soltanto il concetto, al quale la
cosa va ricondotta […] Perciò si sbriga di tutto così alla svelta […] Egli non
s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita […], con l'osservazione della
vita stessa come tale non sta a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui
forza conoscitiva si sottrae, per la propria prevalenza, al servizio della sua
volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa, si sforza di raggiunger
l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni di ciascuna con le altre: perciò trascura
sovente la considerazione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre
quindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro. Mentre per l'uomo
comune il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna, che illumina la strada,
esso è per l'uomo geniale il sole, che disvela il mondo. […]
Ciò ch'io verrò dicendo[…]
li tocca solo in quanto e mentre essi sono
veramente in atto di aver la conoscenza geniale, e questo non è punto il caso
in ogni momento di lor vita; imperocché la grande - sebbbene spontanea -
tensione, che si richiede per vedere le idee fuori della volontà,
necessariamente si rilascia ed ha grandi pause […] Perciò s'è dai tempi più
remoti indicata l'attività del genio come un'ispirazione; anzi, secondo esprime
la parola stessa, come l'attività di un essere sovrumano distinto dall'individuo
medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di questo.
Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizione, il genio consista nella
capacità di conoscere, indipendentemente dal principio di ragione, le idee delle
cose invece che i singoli oggetti, i quali soltanto nelle relazioni hanno la loro
esistenza; e di essere, di fronte alle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia non
più un individuo, bensì puro soggetto del conoscere; - deve tuttavia questa
capacità trovarsi in minore e diverso grado presso gli uomini tutti: poiché
altrimenti sarebber questi altrettanto incapaci di goder le opere dell'arte,
quanto di produrle, e in genere non possederebbero per il bello e l'elevato
sensibilità alcuna; anzi queste parole non avrebbero per loro alcun senso.
Dobbiamo dunque ammetter come esistente in tutti gli uomini - se per
avventura non ve n'ha affatto incapaci d'ogni godimento estetico - quel potere
di conoscer nelle cose le idee rispettive, e spogliarsi così per un istante della
loro personalità. Il genio ha di fronte ad essi il solo vantaggio di possedere in
maggior grado e più durevolmente quel modo di conoscere; vantaggio che gli
permette di mantenere in questa conoscenza la riflessione necessaria per
riprodurre, a volontà, in un’opera, ciò che ha conosciuto in tal modo; e codesta
riproduzione è l’opera d’arte. […] L'artista ci fa attraverso i suoi occhi guardare
dentro al mondo. L'aver questi occhi, il conoscer nelle cose l'essenziale, che sta
fuor d'ogni relazione, è proprio il dono del genio, la qualità innata; ma l'essere
in grado di comunicare anche a noi questo dono, dare a noi i suoi occhi, è la
qualità acquisita, la tecnica dell'arte. […]
Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due inseparabili elementi: la
conoscenza dell' oggetto, non come cosa singola, ma come idea platonica,
ossia come permanente forma di tutta questa specie d'oggetti; quindi la
coscienza del conoscente, non come individuo, ma come puro, libero dalla
volontà soggetto della conoscenza. La condizione per cui entrambi gli elementi
si mostrano sempre uniti vedemmo essere il tralasciare la conoscenza legata al
principio di ragione, la quale è invece la sola che possa servire alla volontà,
com'anche alla scienza. Anche il piacere suscitato dalla contemplazione del
bello vedremo nascere da quei due elementi; or più dall'uno, or più dall'altro,
secondo l'oggetto della contemplazione estetica.
Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A
questa dà fine l'appagamento; tutttavia per un desiderio, che venga appagato,
ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le
esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara.
Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà
tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconoosciuto, questo un
errore non conosciuto ancora. Nessun ogggetto del volere, una volta
conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì
rassomiglia solltanto all' elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi
la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra con
scienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta
dei desiderii, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del
volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo. […]
Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposizione ci trae all'improvviso
fuori dall'infinita corrente del volere, e la conoscenza sottrae alla schiavitù della
volontà, e quando l'attenzione non è più rivolta ai motivi del volere, bensì
percepisce le cose sciolte dal loro rapporto col volere, ossia le considera senza
interesse, senza soggettività, in modo puramente obiettivo, dandosi tutta ad
esse, in quanto esse sono pure rappresentazioni e non motivi: allora
sopravviene d'un tratto, spontaneamente, la pace ognora cercata sulla prima
via, la via del volere, e ognora sfuggente; e noi ci sentiamo benissimo. È lo
stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene, e come condizione
degli Dei. […]
Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più sopra come necessario per
la
conoscenza
dell'idea
quale
pura
contemplazione,
assorbimento
nell'intuizione, smarrimento di sé nell'oggetto, oblio d'ogni individualità,
abolizione della conoscenza che segue il principio di ragione e soltanto le
relazioni afferra; è lo stato, in cui d'un subito e indissociabilmente s'innalza il
singolo oggetto intuito all'idea della sua specie, e l'individuo conoscente a puro
soggetto del conoscere fuori della volontà; sì che entrambi, in quanto tali, non
stanno più nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. È tutt'uno,
allora, se il sole che sorge si vegga da un carcere o da un palazzo. […]
A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'artista: ma facilitata e dal di
fuori favorita è quella disposizione d'animo, puramente obiettiva, da oggetti
che le si offrano, dalla pienezza della bella natura che invita, anzi costringe alla
contemplazione. Quasi sempre a lei riesce, ogni volta che si riveli d'un tratto al
nostro occchio, sia pure per qualche istante, di strapparci alla sogggettività,
alla schiavitù del volere, e trasportarci nello stato del puro conoscere. […] Sì
presso sta a noi perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati
al nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non appena una
qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostra volontà,
la nostra persona, si riaffaccia alla conscienza, ha fine l'incantesimo: noi
ricadiamo indietro nella conoscenza che il principio di ragione governa;
conosciamo non più l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena, alla quale
noi stessi apparteniamo; e siamo restiituiti a tutto il nostro affanno. I più degli
uomini, mancando loro affatto l'oggettità, ossia la genialità, stanno quasi
sempre in questa condizione. […]
L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee (platoniche); provocar la
conoscenza di queste (cosa possibile solo con una corrispondente
modificazione nel soggetto conoscitivo) mediante rappresentazione di singoli
ogggetti (ché non altro sono pur sempre le opere d'arte), è il fine di tutte le
altre arti. Tutte oggettivano adunque la volontà in modo mediato, ossia per
mezzo delle idee: e il nostro mondo non essendo se non fenomeno delle idee
nella pluralità, per essere entrate nel principium individuationis (forma della
conoscenza possibile all'individuo come tale), ne risulta che la musica, la quale
va oltre le idee, anche dal mondo fenomenico è del tutto indipendente, e lo
ignora, e potrebbe in certo modo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il
che non può dirsi delle altre arti. La musica è dell'intera volontà oggettivazione
e immagine, tanto diretta com'è il mondo; o anzi, come sono le idee: il cui
fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non è
quindi punto, come l'altre arti, l'immagine delle idee, bensì immagine della
volontà stessa, della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto della
musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti: imperocché
queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime l'essenza. Essendo
adunque la medesima volontà che si oggettiva, tanto nelle idee quanto nella
musica, ma solo in modo affatto diverso, deve trovarsi non proprio una diretta
somiglianza, ma tuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica e le idee,
delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto il mondo visibile.
(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. di P. SavjLopez e G. De Lorenzo, introd. di C. Vasoli, Roma-Bari 1993, vol. II, pp. 256261, 268-273, 346-347).
Hegel
Abbiamo già detto che il contenuto dell'arte è l'idea, che la sua forma è la
sensibile configurazione figurativa. Ora, l'arte deve mediare questi due lati in
una libera totalità conciliata. La prima determinazione che vi è implicita, è
l'esigenza che il contenuto che deve essere rappresentato artisticamente si
mostri in se stesso capace di questa rappresentazione. In caso contrario noi
abbiamo solo una cattiva unione, in quanto questa forma deve essere assunta
da un contenuto inadatto ad essere espresso in un'immagine ed in un'apparenza esterna, una materia per sé prosaica deve trovare l'adeguato modo
d'apparire proprio nella forma opposta alla sua natura.
La seconda esigenza, che si ricava dalla prima, vuole dal contenuto dell'arte
che esso non sia in se stesso un astratto, e non solo nel senso del sensibile
come concreto: in opposizione ad ogni spirituale e pensato, come quel che è in
sé semplice ed astratto. Infatti ogni vero dello spirito e della natura è in sé
concreto, e, nonostante l'universalità, ha in sé soggettività e particolarità. […]
Ora, come un contenuto, per essere in generale vero, deve essere di tale
specie concreta, così anche l'arte richiede uguale concretezza, giacché quel che
è solo astrattamente universale, non ha in se stesso la determinazione a
procedere a particolarità ed apparenza e ad unità con sé in esse.
Se ad un contenuto vero e perciò concreto devono corrispondere una forma ed
una figura sensibili, in terzo luogo questa forma e figura devono essere
parimenti un individuale in sé compiutamente concreto e singolo. Che ai due
aspetti dell'arte, il contenuto e la raffigurazione, si accordi il concreto, proprio
questo è il punto in cui entrambi possono riunirsi e corrispondere l'un l'altro.
]…] Perciò va respinta l'idea che un fenomeno reale del mondo esterno venga
preso come tale vera forma per pura accidentalità. Infatti l'arte non sceglie
questa forma perché la trova già dinanzi a sé, né perché non ve ne sia
alcun'altra; ma nel contenuto concreto vi è anche il momento stesso di una
apparenza esterna e reale e anzi sensibile. In compenso però questo concreto
sensibile, in cui si imprime un contenuto spirituale secondo la propria essenza,
è anche essenziale per l'interno; il lato esterno della forma per cui il contenuto
è intuibile e rappresentabile ha il fine di esistere solo per il nostro animo ed il
nostro spirito. Solo per questo motivo, contenuto e forma dell'arte si plasmano
l'uno nell'altro. […] Ma l'opera d'arte non è per sé così naturale: è invece
essenzialmente una domanda, un'apostrofe rivolta ad un cuore che vi risponde,
un appello indirizzato all'animo e allo spirito. Sebbene la sensibilizzazione
dell'arte non sia sotto questo rapporto accidentale, tuttavia essa non è anche il
modo supremo di cogliere il concreto spirituale. La forma superiore, di contro
alla raffigurazione mediante il concreto sensibile, è il pensiero che è, si, in
senso relativo, astratto, ma per essere vero e razionale deve essere pensiero
concreto e non unilaterale. Per vedere la differenza […] confrontiamo, per es.,
le divinità greche con la rappresentazione cristiana di Dio. Il Dio greco non è
astratto, ma individuale, ed è vicino alla forma naturale; il Dio cristiano è
anche personalità concreta, ma come pura spiritualità, e deve essere saputo
come spirito e nello spirito. L'elemento della sua esistenza è perciò
essenzialmente il sapere interno e non la forma naturale esterna, con cui egli
può essere manifestato solo imperfettamente e non nell'intera profondità del
suo concetto.
Ora, poiché l'arte ha come compito di render manifesta l'idea per l'intuizione
immediata in forma sensibile, e non nella forma del pensiero e della pura
spiritualità in generale, e poiché questo manifestare ha valore e dignità solo
nella corrispondenza e nell’unità dei due lati, l'idea e la sua forma, l'altezza ed
eccellenza dell'arte, nella realtà conforme al proprio concetto, dipenderà dal
grado di intimità e unità in cui idea e forma appaiono l'una nell'altra elaborate.
È in questo punto di superiore verità come spiritualità, raggiunto dalla forma
adeguata al concetto dello spirito, che si trova il fondamento della suddivisione
per la scienza dell'arte. Infatti lo spirito, prima di giungere al vero concetto
della sua essenza assoluta, deve percorrere una serie di fasi che si fondano su
questo concetto stesso, e a questo corso del contenuto che esso si dà,
corrisponde un corso immediatamente connesso di forme dell'arte, nelle quali
lo spirito come artistico si dà la coscienza di sé. […]
L'idea come bello artistico, non è l'idea come tale, quale cioè una logica metafisica deve concepirla come l'assoluto, ma l'idea in quanto si è foggiata a realtà
ed è entrata con questa realtà in unità immediatamente corrispondente. Infatti
l'idea come tale è si il vero in sé e per sé, ma il vero solo secondo la sua
universalità non ancora oggettivata; l'idea come bello artistico è però l'idea
accompagnata dalla determinazione più precisa, di essere realtà
essenzialmente individuale, e di essere una configurazione individuale della
realtà accompagnata dalla determinazione di fare apparire in sé
essenzialmente l'idea. Con ciò è già avanzata la richiesta che l'idea e la sua
configurazione come realtà concreta siano rese compiutamente adeguate l'una
all'altra. Così concepita, l'idea, come realtà configurata conformemente al suo
concetto, è l’ideale. […] La manchevolezza dell'opera d'arte non è da
considerare soltanto e sempre come incapacità soggettiva, ma […] la
manchevolezza della forma proviene anche dalla manchevolezza del contenuto.
[…] Quanto più eccellenti sono le opere d'arte, tanto più profonda verità
interna ha il loro contenuto e pensiero. […] Vi è per questo aspetto un'arte
imperfetta che rispetto al punto di vista tecnico e ad altri punti di vista può
essere del tutto compiuta nella sua sfera determinata, ma che appare manchevole in confronto al concetto stesso dell'arte e all'ideale. Solo nell'arte più alta,
l'idea e la sua raffigurazione sono veramente corrispondenti l'una all'altra, nel
senso che la forma dell'idea è in se stessa la forma vera in sé e per sé, perché
il contenuto dell'idea che essa esprime è a sua volta il vero contenuto. […] La
determinatezza è, per così dire, il ponte verso l'apparenza. Dove questa
determinatezza non è totalità che sgorga dall'idea stessa, dove l'idea non è
rappresentata come determinante e particolarizzante se stessa, ivi rimane
astratta ed ha la determinatezza e quindi il principio del particolare modo di
apparire a lei soltanto conforme, non in se stessa ma fuori di sé. Quindi l'idea
ancora astratta ha la forma non posta da essa, ma esteriore. L'idea in 'sé
concreta, invece, ha in se stessa il principio del suo modo d'apparire ed è
quindi il proprio libero formare. In tal modo solo l'idea veramente concreta
produce la forma vera e questa corrispondenza di entrambe è l'ideale. […]
Con questo sviluppo la bellezza artistica acquista una totalità di gradi e forme
particolari. Dopo aver considerato il bello artistico in sé e per sé, dobbiamo
dunque vedere come l'intero bello si dirompe nelle sue determinazioni
particolari. Quindi, come seconda parte, vi è la dottrina delle forme artistiche.
Queste forme hanno origine nel modo diverso di cogliere l'idea come
contenuto, da cui è condizionata la diversità della configurazione in cui essa
appare. Le forme dell'arte perciò non sono altro che i diversi rapporti di forma
e di contenuto, 'rapporti che sorgono dall'idea stessa, costituendo il vero
fondamento della suddivisione di questa sfera. […]
Noi dobbiamo qui considerare tre rapporti dell'idea con la sua configurazione.
a) L'inizio, in primo luogo, è costituito dall'idea in quanto essa diviene
contenuto delle forme artistiche quando è ancora indeterminata e priva di
chiarezza o dotata di determinatezza cattiva, falsa. Come indeterminata, essa
non ha ancora in se stessa quella individualità che esige l'ideale; la sua
astrazione e unilateralità lasciano la forma esteriormente manchevole ed
accidentale. La prima forma d'arte è quindi più una semplice ricerca della
raffigurazione che possibilità di vera rappresentazione; l'idea non ha ancora
trovato in se stessa la forma, vi aspira soltanto, si sforza ad essa. Possiamo
chiamare questa forma in generale la forma d'arte simbolica. L'idea astratta, in
questa forma, ha la sua configurazione fuori di sé, nella materia naturale
sensibile, da cui il configurare nasce e a cui appare legato. Gli oggetti
dell'intuizione della natura, da un lato vengono lasciati come sono, ma nel con
tempo vi viene immessa come loro significato l'idea sostanziale, cosicché ora
acquistano la vocazione ad esprimere questa e devono essere interpretati
come se in loro fosse presente l'idea stessa. Rientra in ciò il fatto che gli
oggetti della realtà hanno in sé un lato, secondo cui sono in condizione di
rappresentare un significato generale. Ma non essendo ancora possibile una
completa corrispondenza, questa relazione può riguardare solo una
determinatezza astratta, come quando, per es., con il dire leone, intendiamo
forza.
In questa astrattezza della relazione, d'altro canto, giunge pure a coscienza
l'estraneità dell'idea e dei fenomeni naturali; e l'idea, che non viene ad
esprimersi in nessun'altra realtà, pur effondendosi in tutte queste forme, si
cerca in esse, nella sua inquietudine e smisuratezza, ma non le trova a sé
adeguate, ed allora gonfia le forme naturali e i fenomeni della realtà stessa
nell'indeterminato e smisurato; barcolla dall'uno all'altro, freme e ribolle in
essi, fa loro violenza, li deforma e li esagera in modo innaturale, cercando di
elevare il fenomeno all'idea con la dispersione, la smisuratezza e lo sfarzo delle
immagini. […]
Nell'incongruenza dell'una con l'altra, il rapporto dell'idea con l'oggettività
diventa perciò un rapporto negativo, poiché l'idea come interno è essa stessa
insoddisfatta di questa esteriorità e in quanto universale sostanza interna di
essa, si solleva in modo sublime oltre tutta questa ricchezza di forme a lei non
corrispondenti. […]
Questi lati costituiscono in generale il carattere del primo panteismo artistico
dell'Oriente, che da una parte ripone il significato assoluto anche dentro gli
oggetti peggiori, dall'altra costringe con violenza i fenomeni ad esprimere la
propria concezione del mondo, e cosi o diviene bizzarro, grottesco e senza
gusto, oppure volge, con disprezzo, la libertà infinita ma astratta della
sostanza contro tutti i fenomeni in quanto nulli e caduchi. Perciò il significato
non può essere completamente impresso nella espressione e, pur con ogni
sforzo e tentativo, rimane sempre insuperata l'incongruenza di idea e forma.
Questa sarebbe la prima forma d'arte, quella simbolica, con il suo cercare, con
i suoi fermenti, con la sua enimmaticità e sublimità.
b) Nella seconda forma d'arte, che noi vogliamo indicare come quella classica,
viene cancellata la duplice insufficienza dell'arte simbolica. La forma simbolica
è incompleta, perché in essa da una parte l'idea passa a coscienza solo in una
astratta determinatezza o indeterminatezza, e dall'altra l'accordo di significato
e forma deve perciò rimanere sempre manchevole e solo astratto. La forma
d'arte classica come soluzione di questa doppia manchevolezza è la libera
impressione adeguata dell'idea nella forma peculiarmente appropriata, secondo
il suo concetto, all'idea stessa, con cui essa può quindi giungere a una libera,
completa concordanza. Con ciò, soltanto la forma classica dà la produzione e
l'intuizione dell'ideale compiuto e lo pone come realizzato. […]
La peculiarità del contenuto nella forma classica consiste nel fatto che esso
stesso è l'idea concreta e come tale lo spirituale concreto; infatti solo lo
spirituale è il vero interno. Bisogna allora cercare per questo contenuto, fra
quel che è naturale, ciò che per se stesso conviene allo spirituale in sé e per
sé. […] Questa forma, che ha in se stessa l'idea come spirituale - anzi la
spiritualità individualmente determinata -, se deve mostrarsi in una apparenza
temporale, è la figura umana. Spesso si è parlato male del personificare e
dell'umanizzare come di una degradazione dello spirituale, ma l'arte in quanto
si trova a portare ad intuizione in modo sensibile lo spirituale, deve procedere
a questa umanizzazione, giacché lo spirito appare sensibilmente in maniera
soddisfacente solo nel suo corpo. […]
Il corpo umano però, nelle sue forme, non vale piu, nella forma d'arte classica,
esclusivamente come esistenza sensibile, ma solo come esistenza e forma
naturale dello spirito, e deve quindi essere sottratto ai bisogni di tutto ciò che è
solo sensibile e alla finitezza accidentale dell'apparire. In questo modo la forma
è purificata, per esprimere in sé il contenuto a lei conforme. Ma d'altro canto,
se l'accordo di significato e forma deve essere completo, anche la spiritualità,
che costituisce il contenuto, dev'essere tale che sia in grado di esprimersi
compiutamente nella forma naturale umana, senza traboccare oltre questa
espressione sensibile e corporea. Lo spirito è qui perciò al contempo
determinato come particolare, come umano, non come senz'altro assoluto ed
eterno, giacché come tale può esprimersi e palesarsi solo come spiritualità.
Quest'ultimo punto è allora l'insufficienza, in cui la forma d'arte classica si
dissolve e richiede il passaggio ad una terza forma superiore, quella romantica.
c) La forma d'arte romantica distrugge a sua volta la compiuta unione dell'idea
con la sua realtà e ricolloca se stessa, sebbene in modo piu alto, nella
differenza e nell'opposizione dei due lati, che nell'arte simbolica erano rimaste
insuperate. La forma d'arte classica ha infatti raggiunto il massimo a cui la
sensibilizzazione dell'arte può pervenire, e se vi è in essa qualcosa di
manchevole, dipende dall'arte stessa e dalla limitatezza della sfera artistica.
Questa limitatezza consiste nel fatto che l'arte in generale prende a proprio
oggetto, sotto forma sensibilmente concreta, l'universale concreto infinito
secondo il suo concetto, lo spirito, e nella forma classica colloca il compiuto
uniformarsi dell'esistenza spirituale e di quella sensibile come corrispondenza
di entrambe. Ma in effetti, in questo amalgama, lo spirito non viene a
manifestazione secondo il suo vero concetto […] Secondo questo principio la
forma d'arte romantica distrugge di nuovo l'unità inseparata della forma
classica, avendo acquistato un contenuto che va oltre la forma classica e il suo
genere di espressione. Questo contenuto coincide […] con ciò che il cristianesimo dice di Dio in quanto spirito, a differenza della fede greca, che
costituisce il contenuto essenziale e piu adeguato dell'arte classica. In questa il
contenuto concreto è in sé l'unità di natura umana e divina, un'unità che,
proprio perché solo immediata ed in sé, viene ad adeguata manifestazione in
modo immediato e sensibile. Il dio greco è per l’intuizione schietta e per la
rappresentazione sensibile, quindi la sua forma è la forma corporea dell'uomo.
[…] Il grado superiore è ora il sapere di questa unità in sé essente […] Ma
questo elevare l'in sé a sapere autocosciente comporta una differenza immensa. È l'infinita differenza che separa per es. l'uomo in generale
dall'animale. […] Con ciò l'uomo dissolve le barriere della sua immediatezza in
sé essente, cosicché, proprio perché sa di essere un animale, cessa di esserlo e
dà a sé il sapere di sé come spirito. Se in tal modo l'in sé del grado precedente, l'unità di natura umana e divina, viene elevata da unità immediata ad
unità cosciente, il vero elemento per la realtà di questo contenuto non è piu
l'immediata esistenza sensibile dello spirituale, la figura umana corporea, ma
l'interiorità autocosciente. Per questo il cristianesimo, poiché porta a
rappresentazione Dio come spirito, e non come particolare spirito individuale,
ma come assoluto in spirito e verità, ritorna dalla sensibilità del rappresentare
alla interiorità spirituale, facendo di questa e non del corporeo la materia e
l'esistenza del contenuto della rappresentazione. […] Il nuovo contenuto così
acquistato non è perciò legato alla manifestazione sensibile come
corrispondente, ma è liberato da questa immediata esistenza, che deve essere
posta negativamente, sorpassata e riflessa nella unità spirituale. In tal modo
l'arte romantica è l'arte che va oltre se stessa, ma pur sempre entro il proprio
ambito e nella forma stessa dell'arte.
Possiamo brevemente soffermarci perciò sul fatto che in questo terzo grado
l'oggetto è costituito dalla libera spiritualità concreta, che deve apparire in
quanto spiritualità per l'interno spirituale. […] Questo mondo interno
costituisce il contenuto del romantico, ed esso dovrà essere perciò portato a
rappresentazione come tale interno e nella parvenza di questa intimità. L'interiorità celebra il suo trionfo sull'esterno e fa apparire nell'esterno e su di esso
questa vittoria, con cui è tolto ogni valore a ciò che appare sensibilmente.
D'altro canto, anche questa forma, come ogni arte, ha bisogno dell'esteriorità
per esprimersi. Ma in quanto la spiritualità si è ritirata in se stessa, dall'esterno
e dall'immediata unità con esso, l'esteriorità sensibile del configurare diviene
perciò inessenziale e caduca come nella forma simbolica, ed in egual modo lo
spirito e la volontà soggettivi e finiti vengono presi e raffigurati fin nelle
particolarità e arbitrarietà dell'individualità, del carattere, dell'agire, ecc.,
dell'avvenimento, delle complicazioni ecc. Il lato dell'esistenza esterna è
rimesso all'accidentalità ed è abbandonato alle avventure della fantasia, che a
suo arbitrio può rispecchiare ciò che esiste come esiste, come può anche
sconvolgere e distorcere in maniera caricaturale le forme del mondo esterno.
[…]
Si ripresenta quindi - come nella forma simbolica - l'indifferenza, l'adeguatezza
e la separazione di idea e forma, ma con questa differenza essenziale, che
nella forma romantica l'idea, la cui manchevolezza arrecava nel simbolo le
insufficienze del configurare, deve ora apparire come spirito e animo, in sé
compiuta, e sulla base di questa superiore compiutezza si sottrae
all'unificazione corrispondente con l'esterno, potendo cercare e realizzare la
sua vera realtà e apparenza solo in se stessa.
Questo sarebbe in generale il carattere della forma d'arte simbolica, classica e
romantica, in quanto carattere dei tre rapporti dell'idea con la sua forma
nell'ambito dell'arte. La prima consiste nello sforzarsi, la seconda nel
raggiungere, la terza nell'oltrepassare l'ideale quale vera idea della bellezza.
(G. W. F. Hegel, Estetica, tr. Di N. Merker e N. Vaccaro, a cura di N. Merker,
Torino 1967, pp. 82-104).
FREUD
Dobbiamo provare a cercare le prime tracce dell'attività poetica già nel
bambino? L'occupazione preferita e piu intensa del bambino è il gioco. Forse si
può dire che il bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta: in
quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un
nuovo assetto alle cose del suo mondo. Avremmo torto se pensassimo che il
bambino non prenda sul serio un tale mondo; egli prende anzi molto sul serio il
suo gioco e vi impegna notevoli importi d'affetto. Il contrario del gioco non ciò
che è serio, bensì ciò che è reale. Il bambino distingue assai bene il mondo dei
suoi giochi, nonostante i suoi investimenti affetttivi, dalla realtà e appoggia
volentieri gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili
del mondo reale. Soltanto queesto appoggio distingue l'attività del «gioco»
infantile dal «fantasticare ».
Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando: egli crea un mondo di
fantasia, che prende molto sul serio; che, cioè, carica di forti importi d'affetto,
pur distinguendolo nettamente dalla realtà. […]
L'individuo crescendo smette dunque di giocare, e sembra rinunciare al piacere
che ritraeva dal gioco. Ma chi conosce la vita interiore dell'uomo, sa che non vi
è cosa più difficile della rinuncia a un piacere già una volta gustato.
Effettivamente noi non possiamo rinunciare a nulla e solo barattiamo l'una cosa
con l'altra, cosi che ciò che sembra una rinuncia altro non è in realtà che la
formazione di un surrogato o di un elemento sostitutivo. Cosi anche
l'adolescente, quando smette di giocare, abbandona soltanto l'appoggio agli
oggetti reali: invece di giocare ora fantastica. […]
L'adulto […] si vergogna delle sue fantasie e le nasconde agli altri, coltivandole
entro di sé come cose assolutamente private e intime […].
Accingiamoci dunque ad apprendere alcuni dei caratteri dell'attività fantastica.
Si deve intanto dire che l'uomo felice non fantastica; solo l'insoddisfatto lo fa.
Sono desideri insoddisfatti le forze promotrici delle fantasie, e ogni singola
fantasia è un appagamento di un desiderio, una correzione della realtà che ci
lascia insoddisfatti. […]
Non dobbiamo immaginarci i prodotti di questa attività fantastica, e cioè le
singole fantasie, castelli in aria, sogni a occhi aperti, come rigidi e immutabili.
Si adattano invece alle variabili impressioni offerteci dalla vita, mutano a ogni
cambiamento di posizione, e da ogni nuova vivace impressione traggono per
cosi dire un «contrassegno temporale ». Il rapporto della fantasia col tempo è
in genere molto significativo. Si deve dire che una fantasia ondeggia quasi fra
tre tempi, i tre momenti temporali della nostra ideazione. Il lavoro mentale
prende le mosse da un'impressione attuale, un'occcasione offerta dal presente
e suscettibile di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Di là si collega
al ricordo di un'esperienza anteriore, risalente in genere all'infanzia, in cui quel
desiderio veniva esaudito; e crea quindi una situazione relativa al futuro che
egli si raffigura quale appagamento del desiderio: questo è appunto il sogno a
occhi aperti o fantasia, recante in sé le tracce della sua provenienza
dall'occasione attuale e dal ricordo passato. Dunque passato, presente e
futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa. […]
Tutto ciò per le fantasie; ma ora occupiamoci del poeta. Dobbbiamo proprio
tentare di confrontare il poeta col «sognatore» di pieno giorno, e le sue
creazioni con i sogni fatti a occhi aperti? Certo s'impone qui una prima
distinzione. Dobbiamo separare quei poeti che accolgono una materia già
formata, come gli antichi epici e tragici, da coloro che sembrano creare
liberamente la loro materia. Limitiamoci a questi ultimi e scegliamo per il
nostro confronto, non i poeti massimamente valutati dalla critica, ma quei piu
modesti scrittori di romanzi, novelle e racconti, che proprio per ciò trovano un
piu vasto pubblico di lettori e di lettrici appassionati. Nelle opere di questi
narratori vi è un elemento tipico che ci deve colpire; esse hanno tutte un eroe,
che è posto al centro dell'interesse, per il quale l'autore cerca di guadagnare
con ogni mezzo la nostra simpatia e che egli sembra proteggere con una
provvidenza particolare.[…] Ritengo che questo trasparente carattere
dell'invulnerabilità renda senza fatica riconoscibile Sua Maestà l’Io, l’eroe di
tutte le fantasie come di tutti i romanzi. […]
Il romanzo psicologico deve la sua peculiarità in genere alla tendenza che lo
scrittore moderno ha di scindere, in base ai dati dell'autosservazione, il proprio
io in io parziali, personificando in più eroi i conflitti che agitano la propria vita
interiore. […]
Tanto l'attività poetica quanto la fantasticheria costituiscono una continuazione
e un sostituto del primitivo gioco infantile. […]
Non trascuriamo infine di tornare su quella classe di produzioni poetiche in cui
non sono da vedersi libere creazioni ma elaborazioni di un materiale già dato e
noto. Anche qui rimane al poeta una certa indipendenza, che può esprimersi
con la scelta del materiale e con le modificazioni talora profonde che egli vi
apporta. Tuttavia in quanto i materiali sono già dati, essi derivano dal
patrimonio popolare di miti, leggende e favole. […] Per i miti, è senz'altro
probabile che essi corrispondano ai residui deformati di fantasie di desiderio di
intere nazioni, e cioè ai sogni secolari [continuati per secoli] della giovane
umanità. […]
Si ricorderà che abbiamo affermato che il sognatore a occhi aperti nasconde
accuratamente agli altri le proprie fantasie, giacché ha motivo di
vergognarsene. Aggiungo ora che, anche se ce le comunicasse, non riuscirebbe
a procurarci piacere alcuno con le sue rivelazioni. Tali fantasie, quando le
apprendiamo, ci destano una certa ripugnanza, o tutt'al piu ci lasciano freddi.
Quando invece il poeta ci rappresenta i suoi drammi o ci racconta ciò che noi
siamo inclini a interpretare come suoi personali sogni a occhi aperti, proviamo
un vivissimo piacere che sembra provenire da molte fonti confluenti. Come il
poeta riesca a far ciò, è il suo particolarissimo segreto; la vera ars poetica
consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza […] Possiamo supporre
due mezzi di questa tecnica: il poeta addolcisce il carattere della sua
fantasticheria egoistica alterandola e velandola; e ci seduce mediante il
godimento puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella
presentazione delle sue fantasie. Tale godimento […] può esser detto premio di
seduzione o piacere preliminare. Io sono convinto che ogni piacere estetico
procuratoci dal poeta ha il carattere di un tale piacere preliminare, e che il vero
godimento dell'opera poetica provenga dalla liberazione di tensioni nella nostra
psiche. Forse contribuisce non poco a tale esito il fatto che il poeta ci mette in
condizione di gustare d'ora in poi le nostre fantasie senza quel rimprovero e
senza vergogna.
(S. Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, Torino 1972, V, pp. 375-383).
NIETZSCHE
1. Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non
soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata
dell'intuizione che lo sviluppo dell'arte è legato alla duplicità dell'apollineo e del
dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi,
attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo
periodicamente. […] Nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per
origine e per fini, fra l'arte dello scultore, l'apollinea, e l'arte non figurativa
della musica, quella di Dioniso: i due impulsi cosi diversi procedono l'uno
accanto all'altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un'eccitazione
reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di
quell'antitesi, che il comune termine « arte» solo apparentemente supera;
finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della «volontà» ellenica,
appaiono accoppiati l'uno all'altro e in questo accoppiamento producono
finalmente l'opera d'arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia
attica.
Per accostarci di più a quei due impulsi, immaginiamoli innanzitutto come i
mondi artistici separati del sogno e dell'ebbrezza […]
La bella parvenza dei mondi del sogno, nella cui produzione ogni uomo è
artista pieno, è il presupposto di ogni arte figurativa, anzi, come vedremo,
altresì di una metà essenziale della poesia. […] Tuttavia, nonostante la vita
suprema di questa realtà sognata, traluce ancora in noi il sentimento della sua
illusione […]
Questa gioiosa necessità dell'esperienza del sogno è stata ugualmente
espressa dai Greci nel loro Apollo: Apollo, come dio di tutte le capacità
figurative, è insieme il dio divinante. Egli, che secondo la sua radice è il «
risplendente », la divinità della luce, domina anche la bella parvenza del
mondo intimo della fantasia. […] Ma anche quella linea delicata, che
l'immagine del sogno non può oltrepassare, per non agire patologicamente (in
caso contrario la parvenza ci ingannerebbe come grossolana realtà), non deve
mancare nell'immagine di Apollo: quella moderata limitazione, quella libertà
dalle emozioni più violente, quella calma piena di saggezza del dio plastico. Il
suo occhio deve essere «solare », in conformità alla sua origine […] Si
potrebbe definire lo stesso Apollo come la magnifica immagine divina del
principium individuationis, dai cui gesti e sguardi ci parla tutta la gioia e la
saggezza della « parvenza », insieme alla sua bellezza. […]
Schopenhauer ci ha descritto l'immenso orrore che afferra l'uomo, quando
improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell'apparenza, in
quanto il principio di ragione sembra soffrire un'eccezione in qualcuna delle sue
configurazioni. Se a questo orrore aggiungiamo l'estatico rapimento che, per la
stessa violazione del principium individuationis, sale dall'intima profondità
dell'uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo
nell'essenza del dionisiaco, a cui ci accostiamo di più ancora attraverso
l'analogia con l’ebbrezza. O per l'influsso delle bevande narcotiche, cantate da
tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinarsi della
primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi
dionisiaci, nella cui esaltazione l'elemento soggettivo svanisce in un completo
oblio di sé. [..]
Sotto l'incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e
uomo ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di nuovo la
sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l'uomo. La terra offre
spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e
desertiche si avvicinano pacificamente.[…] Ora lo schiavo è uomo libero, ora
s'infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità l'arbitrio o la «
moda sfacciata» hanno stabilite fra gli uomini. […] Cantando e danzando,
l'uomo si manifesta come membro di una comunità superiore […] L'uomo non è
più artista, è divenuto opera d'arte: si rivela qui fra i brividi dell'ebbrezza il
potere artistico dell'intera natura, con il massimo appagamento estatico dell
unità originaria. […]
2. Finora abbiamo considerato l'apollineo e il suo opposto, il dionisiaco, come
forze artistiche che erompono dalla natura stessa, senza mediazione dell'artista
umano, e in cui gli impulsi artistici della natura trovano anzitutto e in via
diretta soddisfazione: da una parte come mondo di immagini del sogno, la cui
perfezione è senz'alcuna connessione con l'altezza intellettuale o la cultura
artistica del singolo; d'altra parte come realtà piena d'ebbrezza, che a sua
volta non tiene conto dell'individuo e cerca anzi di annientare l'individuo e di
liberarlo con un sentimento mistico di unità. Rispetto a questi stati artistici
immediati della natura, ogni artista è «imitatore », cioè o artista apollineo del
sogno o artista dionisiaco dell'ebbrezza: o infine - come per esempio nella
tragedia greca - insieme artista del sogno e dell'ebbrezza. […]
Dopo queste premesse e contrapposizioni generali, avviciniamoci ora ai Greci,
per vedere in qual grado e fino a quale altezza siano stati sviluppati in loro
quegli impulsi artistici della natura […]
Nel ditirambo dionisiaco l'uomo viene stimolato al massimo potenziamento di
tutte le sue facoltà simboliche; qualcosa di mai sentito preme per manifestarsi,
l'annientamento del velo di Maia, l'unificazione come genio della specie, anzi
della natura. Ora l'essenza della natura deve esprimersi simbolicamente; è
necessario un nuovo mondo di simboli, e anzitutto l'intero simbolismo del
corpo, non soltanto il simbolismo della bocca, del volto, della parola, ma anche
la totale mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra. […]
Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche,
l'uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle
capacità vuole esprimersi simbolicamente ]…] Con quale stupore dové
guardare a lui il Greco apollineo! Con uno stupore che era tanto piu grande,
quanto piu a esso si mescolava l'orrore di sentire che tutto quello non gli era
poi davvero cosi estraneo, anzi che la sua coscienza apollinea gli nascondeva
questo mondo dionisiaco solo come un velo.
3. Per comprendere ciò, dobbiamo per cosi dire disfare pietra per pietra il
geniale edificio della cultura apollinea, fino a scorgere le fondamenta su cui
esso è basato. […]
Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell'Olimpo e ci mostra le
sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per
poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita
sognata degli dèi olimpici. […] Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per
profondissima necessità, creare questi dèi […] Altrimenti quel popolo che aveva
una sensibilità cosi eccitabile, che bramava cosi impetuosamente, che aveva
un talento cosi unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare
l'esistenza, se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa da
una gloria superiore? Lo stesso impulso che suscita l'arte, come
completamento e perfezionamento dell'esistenza che induce a continuare a
vivere, fece anche nascere il mondo olimpico, in cui la «volontà» ellenica si
pose di fronte uno specchio trasfiguratore. […]
Dove nell'arte incontriamo 1'«ingenuo», dobbiamo riconoscervi l'effetto
supremo della cultura apollinea: quest'ultima dovrà anzitutto avere abbattuto
un regno di Titani e ucciso mostri ed essere risultata vittoriosa, per mezzo di
forti immagini chimeriche e liete illusioni, su una terribile profondità di
contemplazione del mondo e una eccitabilissima capacità di soffrire. […]
L'«ingenuità» omerica è da intendere solo come la perfetta vittoria dell'illusione
apollinea […] Questa è la sfera della bellezza, dove essi videro le loro immagini
in uno specchio, gli dèi olimpici. Con questo rispeccchiamento di bellezza la
«volontà» ellenica lottò contro il talento, correlativo a quello artistico, del
dolore e della saggezza del dolore: e come monumento della sua vittoria ci sta
innanzi. Omero, l'artista ingenuo. […]
4. Apollo ci viene incontro di nuovo come la divinizzazione del principium
individuationis […] Questo divinizzare l'individuazione, quando viene in genere
pensato in modo imperativo e normativo, conosce una legge sola, l'individuo,
vale a dire l'osservanza dei limiti dell'individualità, la misura nel senso ellenico.
Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la
conoscenza di sé. E cosi, accanto alla necessità estetica della bellezza, si fa
valere l'esigenza del «conosci te stesso» e del «non troppo», mentre
l'esaltazione di sé e l'eccesso furono considerati i veri demoni ostili della sfera
non apollinea, quindi qualità dell'epoca preapollinea, dell'età titanica, e del
mondo extraapollineo, cioè del mondo barbarico. […]
«Titanico» e «barbanco» appariva al Greco apollineo altresì l'effetto provocato
dal dionisiaco, senza comunque che potesse negare di essere egli stesso
intimamente affine a quegli eroi e a quei Titani precipitati. Qualcosa di più anzi
dovette sentire: tutta la sua esistenza e così ogni bellezza e moderazione,
poggiava su un fondamento - mascherato - di sofferenza e di conoscenza, che
a lui veniva di nuovo svelato da quel dionisiaco. Ed ecco che Apollo non poteva
vivere senza Dioniso! […]
Il dionisiaco e l'apollineo, con creazioni sempre nuove e successive, e
rafforzandosi a vicenda, dominarono la natura ellenica; come dall'età «del
bronzo» con le sue titanomachie e la sua aspra filosofia popolare, si sviluppò,
sotto il dominio dell'istinto di bellezza apollineo, il mondo omerico; come
questa magnificenza « ingenua» venne di nuovo inghiottita dal fiume
irrompente del dionisiaco, e come di fronte a questa nuova potenza l'apollineo
si elevò alla rigida maestà dell'arte dorica e della visione dorica del mondo. […]
In questa maniera la storia greca antica si sudddivide, nella lotta di quei due
princìpi avversi […] Nel caso in cui il periodo raggiunto da ultimo, quello
dell'arte dorica, non debba essere da noi considerato come il vertice e il fine di
quegli impulsi artistici […] si offre ai nostri sguardi l'opera d'arte sublime e
celebrata della tragedia attica e del ditirambo drammatico come la meta
comune dei due istinti, il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo una
lunga lotta precedente, in una tale creatura. […]
Questa tradizione ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro
tragico, e che originariamente essa era soltanto coro e nient'altro che coro […]
Il Satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta,
sotto la sanzione del mito e del culto. Che la tragedia cominci con lui, che
attraverso lui parli la saggezza dionisiaca della tragedia, è un fenomeno per noi
tanto sorprendente, quanto lo è in genere la nascita della tragedia dal coro.
Forse si può stabilire un punto di partenza per la nostra considerazione, se
pongo l'affermazione che il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo
civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà.
[…] L'uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri: e
l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che lo Stato e
la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo cedono a un soverchiante
sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione
metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia […] per cui in fondo
alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze,
indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione appare in corposa
chiarezza come coro di Satiri, come coro di esseri naturali che per così dire
vivono incorruttibili dietro ogni civiltà e, nonostante ogni mutamento delle
generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi.
Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico
per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo
tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale,
come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una
buddhistica negazione della volontà. Lo salva l'arte, e mediante l'arte lo salva a
sé - la vita. […]
In questo senso l'uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno
gettato una volta uno sguardo vero nell'essenza delle cose, hanno conosciuto,
e
provano nausea di fronte all'agire […] La conoscenza uccide l'azione, per agire
occorre essere avvolti nell'illusione […]
Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che
salva e risana, l’arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto
per l'atrocità o l'assurdità dell'esistenza in rappresentazioni con cui si possa
vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell'atrocità e il
comico come sfogo artistico del disgusto per l'assurdo. Il coro dei Satiri del
ditirambo è l'azione salvatrice dell'arte greca.[…]
L'arte non è solo imitazione della realtà naturale, bensì proprio un supplemento
metafisico della realtà di natura, posto accanto a questa per superarla. Il mito
tragico, in quanto appartiene in genere all'arte, partecipa inoltre pienamente a
questo fine metafisico di trasfigurazione che ha l'arte in generale […]
Per l'interpretazione del mito tragico la prima esigenza è proprio quella di
cercare il piacere a esso peculiare nella pura sfera estetica, senza invadere il
campo della compassione, della paura o del moralmente sublime. Come
possono il brutto e il disarmonico, il contenuto del mito tragico, suscitare un
piacere estetico?
Qui diviene necessario innalzarci con un ardito slancio sino a una metafisica
dell'arte,\mentre ripeto l'affermazione precedente, secondo cui solo come
fenomeno estetico l'esistenza e il mondo appaiono giustificati: in questo senso
proprio il mito tragico deve convincerci che perfino il brutto e il disarmonico
sono un giuoco artistico che la volontà giuoca con se stessa nell'eterna
pienezza del suo godimento.
(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. di S. Giametta, intrrod. di G. Colli,
Milano 1978, pp. 21-39, 50-56, 158-159)
DEWEY
Perché si è restii a mettere in connessione le alte realizzazioni dell'arte bella
con la vita comune, la vita che condividiamo con tutte le creature viventi?
Perché si pensa alla vita come a una faccenda di bassi istinti, o al più come a
qualcosa che si risolve in sensazioni volgari, sempre sul punto di degradare dal
suo livello migliore a quello della libidine e della brutale crudeltà? Per
rispondere in modo esauriente a tale domanda sarebbe necessario scrivere una
storia della morale in cui mettere in rilievo le condizioni che hanno determinato
il disprezzo per il corpo, la paura dei sensi e l'opposizione tra carne e
spirito.[…]
La vita è suddivisa in compartimenti, e i compartimenti istituzionalizzati sono
classificati come alti e bassi; i rispettivi valori come profani e spirituali,
materiali e ideali. […] Dal momento che religione, morale, politica, economia
hanno un compartimento proprio entro cui è opportuno che ciascuna resti,
anche l'arte deve avere il suo regno peculiare e privato. La compartimentazione delle attività e degli interessi provoca la separazione di quel
genere
di
attività
comunemente
chiamata
"pratica"
dal
capire,
dell'immaginazione dall'agire concreto, dello scopo significativo dall'opera,
dell'emozione da pensiero e azione. Ognuno di questi elementi ha, egualmente,
il suo proprio posto che deve rispettare. Per questo chi disegna l'anatomia dell'
esperienza suppone che tali divisioni ineriscano alla costituzione stessa della
natura umana. […]
Per gran parte della nostra esperienza, così come essa viene concretamente
vissuta secondo le attuali condizioni economiche e giuridico-istituzionali, è fin
troppo vero che persistono queste separazioni. […]
L’esperienza è il risultato, il segno e la ricompensa di quella interazione tra
organismo e ambiente che, quando raggiunge la pienezza, si trasforma in
partecipazione e comunicazione. […]
Quando un organismo cresce in complessità, si modificano e si prolungano le
alternanze ritmiche di lotta e soddisfacimento nelle sue relazioni con
l'ambiente, finendo per includere al loro interno una varietà infinita di sottoritmi. I progetti di vita diventano più ampi e più ricchi. La soddisfazione è più
forte e ha sfumature più sottili. […]
La forma presente nelle belle arti consiste nel saper rendere chiaro ciò che è
implicato nell'organizzazione dello spazio e del tempo prefigurata in ogni corso
in cui si sviluppa un'esperienza-della-vita. […]
L’arte viene quindi prefigurata nei processi stessi del vivere. Un uccello
costruisce il suo nido e un castoro costruisce la sua diga quando impulsi
organici interni cooperano con materiali esterni così che i primi sono soddisfatti
e gli ultimi sono trasformatl raggiungendo un culmine di appagamento.
Possiamo esitare ad applicare la parola "arte" finché dubitiamo della presenza
di un'intenzione guida. Ma ogni scelta deliberata, ogni intenzione consapevole
ha origine da cose eseguite in passato con organicità facendo interagire
energie naturali. Se non fosse così, l’arte sarebbe edificata su sabbie mobili,
anzi fluttuerebbe per aria. Il contributo peculiare dell'uomo è la consapevolezza
delle relazioni che si trovano in natura. […]
L'esistenza dell'arte è la prova concreta di ciò che si è appena affermato in
maniera astratta. È la prova che l'uomo usa i materiali e le energie della natura
con l'intenzione di espandere la propria vita, e che lo fa seguendo la struttura
del proprio organismo - cervello, organi di senso e sistema muscolare. L'arte è
la prova vivente e concreta che l'uomo è capace di restaurare
consapevolmente, e dunque a livello intenzionale, l'unione di senso, bisogno,
istinto e azione che è caratteristica della creatura vivente. L'intervento della
consapevolezza aggiunge ordine, selettività e riorganizzazione. Rende quindi le
arti infinitamente variabili. Ma il suo intervento spinge anche col tempo all' idea
dell' arte come idea cosciente - la più grande realizzazione intellettuale nella
storia dell'umanità. […]
È usuale, e da certi punti di vista necessario, distinguere tra arte bella e arte
utile o tecnologica. Ma il punto di vista da cui ciò è necessario è un punto di
vista estrinseco all' opera d'arte in sé. La distinzione usuale si basa
semplicemente sull' accettazione di determinate condizioni sociali esistenti. […]
Un pescatore può mangiare la sua preda senza con ciò perdere la soddisfazione
estetica di cui ha fatto esperienza lanciando e tirando la lenza. Ѐ questo grado
di completezza del vivere nell'espenenza di fare e di percepire che crea la
differenza tra ciò che è bello o estetico in arte e ciò che non lo è. […] Ovunque
vi siano condizioni tali da impedire all'atto produttivo di essere un'esperienza in
cui l'intera creatura è viva e possiede la sua vita con piacere, al prodotto
mancherà qualcosa per essere estetico. A prescindere da quanto sia utile per
fini particolari e circoscritti, esso non sarà utile in ultima istanza - quella di
contribuire in maniera diretta e liberale a una vita che si amplia e diviene più
ricca. […]
L’esperienza accade continuamente, poiché 1'interazione tra la creatura
vivente e le condizioni ambientali è implicata nello stesso processo del vivere.
[…] Spesso, tuttavia, 1'esperienza fatta è appena abbozzata. Si fa esperienza
di cose, ma non in modo tale da comporle in una esperienza. C’è distrazione e
dispersione […]
In contrasto con tale esperienza, facciamo una esperienza quando il materiale
esperito porta a compimento il proprio percorso. Allora e soltanto allora esso è
integrato e delimitato da altre esperienze entro il flusso generale
dell'esperienza. […] Un'esperienza del genere è un intero, e reca con sé la
propria qualità individualizzante e la propria auto-sufficienza. Ѐ una esperienza.
[…]
Per questa continua fusione, quando facciamo una esperienza non ci sono
buchi, né giunture meccaniche, né punti morti. Ci sono pause, luoghi di riposo,
che però mettono in risalto e definiscono la qualità del movimento.
Ricapitolano ciò che è stato subìto e ne prevengono la dissipazione e la vana
evaporazione. Un'accelerazione continua non dà tregua e impedisce alle parti
di venir separate. In un' opera d'arte atti, episodi, eventi differenti si
mescolano e si fondono in unità, e tuttavia quando ciò accade essi non
scompaiono e non perdono il loro carattere specifico - così come in una
conversazione brillante c'è un continuo scambio e rimescolamento, e tuttavia
ogni interlocutore non solo conserva il proprio carattere ma lo manifesta in
modo più chiaro del solito.
Un'esperienza ha un'unità da cui trae il proprio nome, quel pasto, quella
tempesta, quella rottura di un' amicizia. L'esistenza di questa unità è costituita
da una singola qualità che pervade l'intera esperienza nonostante il variare
delle sue parti costitutive. [..] Quando esaminiamo mentalmente un'esperienza
dopo che si è verificata, possiamo trovare che una particolare proprietà
piuttosto che un’altra è stata abbastanza dominante da caratterizzare
l'esperienza nel suo complesso. […]
Una esperienza di pensiero ha la sua propria qualità estetica. Viene distinta da
quelle esperienze che sono riconosciute come estetiche, ma solo per i suoi
materiali. Il materiale delle arti belle consiste di qualità; quello di un'
esperienza che ha una conclusione intellettuale è composto da segni o simboli
che non possiedono una qualità intrinseca per loro stessi, ma stanno per cose
che in un'altra esperienza possono essere esperite qualitativamente. La
differenza è enorme. […] Ma di per sé l'esperienza ha una qualità emotiva
appagante quando raggiunge al suo interno integrazione e compimento grazie
a un movimento ordinato e organizzato. Questa struttura artistica può essere
sentita immediatamente. In quanto tale è estetica. […] In breve, l'estetico non
può essere nettamente distinto dall'esperienza intellettuale dal momento che
quest'ultima deve avere un marchio estetico per essere in sé completa.
La medesima affermazione resta valida per un agire che si svolga su un piano
prevalentemente pratico, ossia che consista chiaramente di azioni. […] Ciò di
per sé non è arte, ma credo sia un segno che l'interesse non è esclusivamente,
forse nemmeno principalmente, suscitato dal risultato preso per sé (come nel
caso della mera efficienza), ma dal risultato in quanto esito di un processo. C'è
interesse a completare un'esperienza. Può trattarsi di un' esperienza dannosa
per il mondo che non si desidera veder realizzata. Tuttavia essa ha qualità
estetica. […]
L'identificazione greca del buon comportamento con il comportamento che ha
proporzione, grazia e armonia, il kalon-agathon, è un esempio più evidente
della peculiare qualità estetica di un' azione morale. […]
Ciò che è non-estetico è quindi racchiuso entro due confini. A un polo vi è la
successione slegata che non comincia in un luogo particolare e che ha fine - in
quanto cessa - in nessun luogo particolare. All'altro estremo vi è arresto,
costrizione, in quanto vi sono parti che hanno tra loro solo una connessione
meccanica. Vi è così tanta esperienza che rientra in uno questi due generi che
inconsapevolmente si finisce con il considerarli norme dell'intera esperienza.
[…] Al contrario […] nessuna esperienza, di qualunque sorta, [che] sia unitaria
[…] è priva di qualità estetica.
I nemici dell'estetico non sono né il pratico né l'intellettuale. Sono la
monotonia; l'inerzia dovuta a fini vaghi; la sottomissione a convenzioni nella
prassi e nel processo intellettuale. […]
Ho chiamato emotiva la qualità estetica che corona un' esperienza portandola a
completezza e unità. […] Le emozioni, quando sono significative, sono qualità
di un'esperienza complessa che si muove e cambia. Dico quando sono
significative perché altrimenti non si tratta che delle urla e degli strepiti di un
bambino a disagio. […] L'espenenza è emotiva, ma in essa non ci sono cose
separate chiamate emozioni. […]
L'emozione è la forza che muove e cementa. Essa seleziona ciò che è congruo
e tinge ciò che è selezionato con il suo colore, conferendo così unità qualitativa
a materiali all'apparenza eterogenei e dissimili. In tal modo essa introduce
unità nelle e attraverso le varie parti di un'esperienza. Quando l'unità è del
genere già descritto, l'esperienza ha carattere estetico anche se non è
prevalentemente un'sperienza estetica.
(J. Dewey, Arte come esperienza, a cura di G. Matteucci, Palermo 2007, pp.
47-52, 61-67).
CROCE
Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si
oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma
sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando,
esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a
congiungerle. L'attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa
proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio
nell'abito di dare alla parola 'espressione' un significato troppo ristretto,
assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono
anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante
da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di
manifestazioni dell'uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o
verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l'espressione, in una di
queste manifestazioni non può mancare all'intuizione, dalla quale è
propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura
geometrica, se non ne abbiamo così netta l'immagine da essere in grado di
tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuire
davvero il contorno di una regione, per esempio dell'isola di Sicilia, se non
siamo in grado di disegnarlo così come esso è in tutti i suoi meandri? A ognuno
è dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in
quel punto che riesce, a formolare a sé stesso le sue impressioni e i suoi
sentimenti. Sentimenti e impressioni passano allora, per virtù della parola,
dall'oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È
impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l'intuizione
dall'espressione. L'una viene fuori con l'altra, nell'attimo stesso dell'altra,
perché non sono due ma uno.
Ma la cagione principale che fa sembrare paradossale la tesi da noi affermata,
è l'illusione o pregiudizio che s'intuisca della realtà più di quanto effettivamente
se ne intuisce. Si ode spesso taluni asserire di avere in mente molti e
importanti pensieri, ma di non riuscire a esprimerli. In verità, se li avessero
davvero, li avrebbero coniati in tante belle parole sonanti, e perciò espressi. Se
nell'atto di esprimerli, quei pensieri sembrano dileguarsi o si riducono scarsi e
poveri, gli è che o non esistevano o erano soltanto scarsi e poveri [ ... ]. Il
pittore è pittore perché vede ciò che altri sente solo, o intravede, ma non vede.
Un sorriso crediamo di vederlo, ma in realtà ne abbiamo solo qualche vago
accenno, non scorgiamo tutti i tratti caratteristici da cui risulta, come, dopo
averci lavorato intorno, li scorge il pittore, che perrciò può fermarlo
compiutamente sulla tela [... ].
Ognuno di noi, insomma, è un po' pittore, scultore, musicista, poeta,
prosatore; ma quanto poco, rispetto a coloro che son chiamati così appunto pel
grado elevato in cui hanno le comunissime disposizioni ed energie della natura
umana; e quanto poco un pittore possiede delle intuizioni o rappresentazioni di
un poeta, o di quelle anche di un altro pittore! Pure, quel poco è tutto il nostro
patrimonio attuale d'intuizioni o rappresentazioni. Fuori di esse, sono soltanto
impressioni, sensazioni, sentimenti, impulsi, emozioni, o come altro si chiami
ciò che è ancora di qua dello spirito, non assimilato dall'uomo, postulato per
comodo di esposizione, ma effettivamente inesistente, se l'esistere è anche
esso un atto dello spirito.
(B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, RomaBari, 19509 , pp. 11-14).
In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c'è tutto l'umano
destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le
miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo se
stesso, soffrendo e gioendo.
È perciò intrinsecamente inconcepibile che nella rappresentazione artistica
posssa mai affermarsi il mero particolare, l'astratto individuale, il finito nella
sua finitezza; e quando sembra che ciò accada, e in certo senso accade
veramente, la rappresentazione non è artistica, o non è compiutamente
artistica. Nel travaglio del passaggio dal sentimento immediato alla sua
mediazione e risoluzione nell'arte, dallo stato passionale allo stato
contemplativo, dal pratico desiderare, bramare e volere all'estetico conoscere,
si è allora, invece di giungere fino al termine del processso, rimasti a mezzo, in
quel punto che non è nero ancora e il bianco muore, e che non può essere
stato fermato in tale estetica contraddizione se non per atto di vario e più o
meno consapevole arbitrio. Artisti che dell'arte sono tratti a valersi non solo
come contemplazione e rasserenamento della loro passione, ma come questa
passione stessa e a sfogo di essa, lasciano penetrare nella rappresentazione
che elaborano i gridi e gli urli delle loro libidini, strazi, sconvolgimenti d'animo,
e, con questa contaminazione, le conferiscono aspetto particolare, finito,
angusto. La quale particolarità, finitezza ed angustia non è del sentimento [ ...
], ma del sentimento che non è più semplicemente sentimento, e della
rappresentazione che non è ancora pura intuizione [ ... ].
Dare, dunque, al contenuto sentimentale la forma artistica è dargli insieme
l'impronta della totalità, l'afflato cosmico; e, in questo senso, universalità e
forma artistica non sono due ma uno. Il ritmo e il metro, le rispondenze e le
rime, le metafore che si abbracciano con le cose metaforizzate, gli accordi di
colori e di toni, le simmetrie, le armonie, tutti questi procedimenti che i retori
hanno il torto di studiare in modo astratto, e di rendere in tal guisa estrinseci,
accidentali e falsi, sono altrettanti sinonimi della forma artistica che,
individualizzando, armonizza l'individualità con l'universalità, e perciò nell'atto
stesso universalizza.
(B. Croce, Breviario di estetica, Milano 1990, pp. 153 -155)
LUKÁCS
La teoria del rispecchiamento non è affatto nuova in estetica. L'immagine, il
rispecchiamento stesso, in quanto metafora che esprime 1'essenza della
creazione artistica, divennero famosi per opera di Shakespeare, il quale, nella
scena dei commedianti nell'Amleto, indica questa concezione dell'arte, come
quella che costituisce l'essenza della sua stessa teoria e prassi letteraria. Ma
l'idea stessa è molto più antica ancora. Essa costituisce già un problema
centrale nell'estetica di Aristotele, e da allora predomina in quasi tutte le
grandi estetiche, - se si prescinde dalle epoche di decadenza [ ... ]. Ancora più
importante è la constatazione che tutti quasi i grandi scrittori della letteratura
mondiale hanno scritto istintivamente, oppure più o meno consapevolmente,
secondo tale teoria, e che i loro sforzi di chiarire a se stessi i principi capitali
della propria opera di creazione si sono rivolti in questa direzione. Il fine di
quasi tutti i grandi scrittori fu la riproduzione poetica della realtà; la fedeltà alla
realtà, lo sforzo appassionato per il conseguimento di una riproduzione vera ed
integrale di essa, costituirono per ogni grande scrittore (Shakespeare, Goethe,
Balzac, Tolstoj) il vero criterio della grandezza letteraria. [ ... ]
Pertanto nel campo dell'estetica e della teoria e storia letteraria possiamo
riassumere la situazione nel senso che il marxismo eleva alla sfera della
chiarezza concettuale quei principi fondamentali e centrali dell'attività creativa,
che da millenni vivono nei sistemi dei migliori pensatori e nelle opere dei più
eminenti scrittori e artisti. [ ... ]
Si tratta di una lotta, in cui il marxismo continua e sviluppa le concezioni, che i
veri grandi della letteratura hanno sempre condiviso circa l'essenza dell'arte
vera: concezioni, per cui il compito dell'arte è la rappresentazione fedele e
veritiera di tutta quanta la realtà nel suo insieme; 1'arte è altrettanto distante
dalla mera copia fotografica quanto dal trastullo - in ultima istanza vacuo - con
le forme astratte.
(G. Lukács, Contributi alla storia dell'estetica, a cura di E. Picco, Milano 1957,
pp. 233-235)
Per ciò che riguarda la particolarità stessa, dobbiamo ricordare quanto abbiamo
detto in precedenza, che i due estremi (universalità e singolarità) sono punti
sempre più spinti verso l'esterno, ma che in un determinato momento sono pur
sempre punti, mentre il particolare come medio è piuttosto un tratto
intermedio, un'estensione, un campo [ ... ]. Con ciò sembra però emergere
una difficoltà insolubile per la teoria del rispecchiamento estetico: quella di
determinare con esattezza la posizione di questo punto centrale. A priori
sembra un compito impossibile, se pensiamo alla struttura del rispecchiamento
teorico, giacché ogni scelta - considerata dal punto di vista del rispecchiamento
estetico in generale - deve apparire arbitraria; non è pensabile un criterio
generalmente valido che consenta una decisione.
Questa difficoltà doveva essere sottolineata con energia affinché sia messa
chiaramente in luce la separazione fra rispecchiamento teorico e
rispecchiamento estetico. In realtà un criterio teorico non esiste, e quello
artistico abbraccia (considerato in astratto) tutta 1'estensione del particolare; il
punto centrale può essere fissato dove si vuole, all'interno di questa
estensione. Potrà sembrare che in tal modo la difficoltà sia soltanto elusa, e
anzi spostata sul piano dell'irrazionale e dell'arbitrario, ma non risolta affatto in
modo soddisfacente. [ ... ]
Il fatto che dal principio più generale, più astratto, della dottrina del
rispecchiamento non possano essere dedotti direttamente principi estetici di
sorta è uno svantaggio soltanto dal punto di vista di un dogmatismo che vuole
prescrivere regole strette e tali che possano essere derivate per via formale.
Proprio in questo modo - e soltanto in questo modo - può essere teoricamente
motivato il fatto storico della molteplicità delle arti o, all'interno di un' arte,
degli stili ecc.
(G. Lukács, Prolegomeni a un'estetica marxista. Sulla categoria della
particolarità, a cura di F. Codino e M. Montinari, Roma 1957, pp. 151-152)
BENJAMIN
La dialettica [delle condizioni di produzione] si fa sentire nell'ambito della
sovrastruttura non meno che nell’economia. […] Esse eliminano un certo
numero di concetti tradizionali - quali i concetti di creatività e di genialità, di
valore eterno e di mistero --, concetti la cui applicazione incontrollata (e per il
momento difficilmente controllabile) induce a un'elaborazione in senso fascista
del materiale concreto. […]
1. In linea di principio, l'opera d'arte è sempre stata riproducibile. Una cosa
fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. […] La
riproduzione tecnica dell'opera d'arte è invece qualcosa di nuovo, che si
afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l'una dall'altra, e
tuttavia con una crescente intensità. […]
Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per
la prima volta scaricata delle piu importanti incombenze artistiche, che ormai
venivano ad essere di spettanza dell'occhio che guardava dentro l'obiettivo.
Poiché l'occhio è piu rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il
processo della riproduzione figuurativa venne accelerato al punto da essere in
grado di star dietro all'eloquio. L'operatore cinematogmfico nel suo studio,
manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità
con cui l'inteprete parla. […] Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva
raggiunto un livello, che le permetteva, non soltanto di prendere come oggetto
tutto l'insieme delle opere d'arte tramandate e di modificarne profondamente
gli effetti, ma anche di conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti
artistici. Per lo studio di questo livello nulla è piu istruttivo del modo in cui le
sue due diverse manifeestazioni - la riproduzione dell'opera d'arte e l'arte
cinematografica - hanno agito sull'arte nella sua forma tradizionale.
2. Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un
elemento: l’hic et nunc dell'opera d'arte - la sua esistenza unica e irripetibile
nel luogo in cui si trova. […]
L'hic et nunc dell'originale costituisce il concetto della sua autenticità. […]
L'intiero ambito dell'autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica - e
naturalmente non di quella tecnica soltanto […]
Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può
venirsi a trovare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca dell'opera
d'arte - ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc. […]
L'autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall'origine di
essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di
testimonianza storica. […] Ciò che così prende a vacillare è precisamente
l'autorità della cosa.
Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di
«aura»; e si può dire: ciò che vien meno nell'epoca della riproducibilità tecnica
è 1'«aura» dell'opera d'arte. Il processo è sintomatico; il suo significato
rimanda al di là dell'ambito artistico. La tecnica della riproduzione, cosi si
potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all'ambito della tradizione.
Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie
quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a
colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto.
Entrambi i processi […] sono strettamente legati ai movimenti di massa dei
nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema. Il suo significato sociale,
anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in essa, non è pensabile
senza quella distruttiva, catartica: la liquiidazione del valore tradizionale
dell'eredità culturale. […]
3. Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza
delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro
percezione sensoriale. Il modo secondo cui si organizza la percezione
sensoriale umana - il medium in cui essa ha luogo -, non è condizionato
soltanto in senso naturale, ma anche storico. […] E se le modificazioni nel
medium della percezione di cui noi siamo contemporanei possono venir intese
con una decadenza dell'«aura», sarà anche possibile indicarne i presupposti
sociali.
Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito
degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi
definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto
questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d'estate, una catena di
monti all'orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si
riposa - ciò significa respirare l'aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla
base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale
dell'attuale decadenza dell'aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe
connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E
cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, piu vicine è per le masse
attuali un'esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell'unicità di
qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa
valere in modo sempre più incontestabile l'esigenza a impossessarsi
dell'oggetto da una distanza il piti possibile ravvicinata nell'immagine, o meglio
nell'effigie, nella riproduzione. […] La liberazione dell'oggetto dalla sua guaina,
la distruzione dell'aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità
per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che
essa, mediante la riproduzione, attinge l'uguaglianza di genere anche in ciò che
è unico. […] L'adeguazione della realtà alle masse e delle masse alla realtà è
un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per l'intuizione.
4. L'unicità dell'opera d'arte si identifica con la sua integrazione nel contesto
della tradizione.[…] Il modo originario di articolazione dell'opera d'arte dentro il
contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. […] Il valore
unico dell'opera d'arte autentica trova una sua fondazione nel rituale,
nell'ambito del quale ha avuto il suo primo e originario valore d'uso. Questo
fondarsi, per mediato che sia, è riconoscibile, nella forma di un rituale
secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza[…]
Quando, con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente
rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente al delinearsi del socialismo),
l'arte avvertì l'approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è
diventata innegabile, essa reagì con la dottrina dell'arte per l'arte, che
costituisce una teologia dell'arte. Successivamente da essa è proceduta
addirittura una teologia negativa nella forma dell'idea di un'arte «pura», la
quale, non soltanto respinge qualsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi
determinazione da parte di un elemento oggettivo. […]
La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte emancipa per la prima volta nella
storia del mondo quest'ultima dalla sua esistenza parassitaria nell'ambito del
rituale. L'opera d'arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la
riproduzione di un'opera d'arte predisposta alla riproducibilità. […] Ma
nell'istante in cui il criterio dell'autenticità nella produzione dell'arte viene
meno, si trasforma anche l'intera funzione dell'arte. Al posto della sua
fondazione nel rituale s'instaura la fondazione su un'altra prassi: vale a dire il
suo fondarsi sulla politica.
5. La ricezione di opere d'arte avviene secondo accenti diversi, due dei quali,
tra loro opposti, assumono uno specifico rilievo. Il primo di questi accenti cade
sul valore cultuale, l'altro sul valore espositivo dell'opera d'arte. […]
Coi vari metodi di riproduzione tecnica dell'opera d'arte, la sua esponibìlità è
cresciuta in una misura così poderosa, che la discrepanza quantitativa tra i suoi
due poli si è trasformata, analogamente a quanto è avvenuto nelle età
primitive, in un cambiamento qualìtativo della sua natura. […] L'opera d'arte
diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle qualì quella
di cui siamo consapevolì, cioè quella artistica, si profila come quella che in
futuro potrà venir riconosciuta marginale
6. Nella fotografia il valore di esponibìlità comincia a sostituire su tutta la lìnea
il valore cultuale. Ma quest'ultimo non si ritira senza opporre resistenza.
Occupa un'ultima trincea, che è costituita dal volto dell'uomo. Non a caso ìl
ritratto è al centro delle prime fotografie. Nel culto del ricordo dei cari lontani o
defunti il valore cultuale del quadro trova il suo ultimo rifugio. Nell'espressione
fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l ultima volta
l'aura. È questo che ne costituisce la malìnconica e incomparabìle bellezza. Ma
quando l'uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo
propone la propria superiorità sul valore cultuale. […]
7. Privando l'arte del suo fondamento cultuale, l'epoca della sua riproducibilità
tecnicaestinse anche e per sempre l'apparenza della sua autonomia. […]
Ma le difficoltà che la fotografia aveva proocurato all'estetica tradizionale,
erano un gioco per bambini in confronto con quelle che il cinema avrebbe
suscitato. […] È molto istruttivo osservare come lo sforzo di far rientrare il
cinema nell'arte costringa tutti questi teorici ad attribuirgli, con una pervicacia
senza precedenti, quegli elementi cultuali che non ha. […]
12. La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte modifica il rapporto delle masse
con l'arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di
un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio
nei confronti di un Chaplin. […]
13. Il cinema non trova le sue caratteristiche soltanto nel modo in cui l'uomo si
rappresenta di fronte all'apparecchiatura necessaria alla ripresa, ma anche nel
modo in cui esso si rappresenta, con l'aiuto di quest'ultima, il mondo
circostante. […] Dopo la Psicopatologia della vita quotidiana questa situazione
è cambiata. Quest'opera ha isolato e reso analizzabili cose che in precedenza
fluivano inavvertite dentro l'ampia corrente del percepito. Il cinema ha avuto
come conseguenza un analogo approfondimento dell'appercezione su tutto
l'arco del mondo della sensibilità ottica, e ora anche di quella acustica. […]
Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallenntatore si dilata il
movimento. E come l'ingrandimento non costituisce semplicemente
chiarificazione di ciò che si vede comunque, benché indistintamente, poiché
esso porta in luce formazioni struttturali della materia completamente nuove,
cosi il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in
questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti […] Dell'inconscio ottico
sappiamo qualche cosa soltanto grazie ad essa, come dell'inconscio istintivo
grazie alla psicanalisi.
14. Uno dei compiti principali dell'arte è stato da sempre quello di generare
esigenze che non è in grado di soddisfare attualmente. La storia di ogni forma
d'arte conosce periodi critici in cui questa determinata forma mira a certi
risultati, i quali potranno per forza essere ottenuti soltanto a un livello tecnico
diverso, cioè attraverso una nuova forma d'arte. […] il Dadaismo cerrcava di
ottenere con i mezzi della pittura (oppure della letteratura) quegli effetti che
oggi il pubblico cerca nel cinema.
Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinate esigenze è destinata a
colpire al di là del suo bersaglio. […]
Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione sonora capace di
convincere, l'opera d'arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro
l'osservatore. Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito
l'esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di
ordine tattile. […] In virtù della sua struttura tecnica il film riesce a liberare
l'effetto di shock fisico, che il Dadaismo manteneva ancora impaccato, per così
dire, nell'effetto di shock morale, da questo imballaggio.'
15. La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni
comportamento abituale nei confronti delle opere d'arte. La quantità si è
ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno
determinato un modo diverso di partecipazione. L'osservatore non deve
lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesta dapprima
in forme screditate. […] Ѐ evidente che si tratta in fondo della vecchia accusa
secondo cui le masse cercano soltanto distrazione, mentre l'arte esige
dall'osservatore il raccoglimento. Si tratta di un luogo comune. […] La
distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che
consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all'opera d'arte vi
si sprofonda; penetra nell'opera […] Inversamente, la massa distratta fa
sprofondare nel prooprio grembo l'opera d'arte. Ciò avviene nel modo più
evidente per gli edifici. L'architettura ha sempre fornito il prototipo di un'opera
d'arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le
leggi della sua ricezione sono le più istruttive. […]
I compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all'apparato
percetttivo umano, non possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè
contemplative. Se ne viene a capo a poco a poco grazie all'intervento della
ricezione tattica, all'abitudine.
Anche colui che è distratto può abituarsi. Più ancora: il fatto di essere in grado
di assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra innanzi tutto che per
l'individuo in questione è divenuta un'abitudine assolverli. Attraverso la
distrazione, quale è offerta dall'arte, si può controllare di sottomano in che
misura l'appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi. Poiché del resto il
singolo sarà sempre tentato di sottrarsi a questi compiti, l'arte affronterà
quello pili difficile e pili importante quando riuscirà a mobilitare le masse.
Attualmente essa fa questo attraverso il cinema. La ricezione nella distrazione,
che si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti i settori dell'arte e che
costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell'appercezione, trova nel
cinema lo strumento più autentico su cui esercitarsi. Grazie al suo effetto di
shock il cinema favorisce questa forma di ricezione. Il cinema svaluta il valore
cultuale non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo, ma
anche per il fatto che al cinema l'atteggiamento valutativo non implica
attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto.
Postilla. La progressiva proletarizzazione degli uomini d'oggi e la formazione
sempre crescente di masse sono due aspetti di un unico e medesimo processo.
Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però
intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l'eliminazione. Il
fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non
di veder riconosciuti i propri diritti). Le masse hanno diritto a un cambiamento
dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella
conservazione delle stesse. Il fascismo tende conseguentemente a
un'estetizzazione della vita politica. Alla violenza esercitata sulle masse, che
vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di
un'apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali.
Tutti gli sforzi in vista di un'estetizzazione della politica convergono verso un
punto. Questo punto è la guerra. […]
«Fiat ars - pereat mundus», dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si
aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale
modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell'arte per
l'arte. L'umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell'Olimpo, ora
lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado
che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico
di prim'ordine. Questo è il senso dell'estetizzazione della politica che il fascismo
persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell'arte.
(W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. di
E. Filippini, Torino 1966, pp. 19-48).
HORKHEIMER/ADORNO
In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, dominio e lavoro. Il
dodicesimo canto dell'Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene […]
Il pensiero di Odisseo, ugualmente ostile alla propria morte e alla propria
felicità, sa di tutto questo. Egli conosce due sole possibilità di scampo. Una è
quella che prescrive ai compagni. Egli tappa le loro orecchie con la cera, e
ordina loro di remare a tutta forza. Chi vuol durare e sussistere, non deve
porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile, e può farlo solo in quanto non è in
grado di ascoltare. È ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e
concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciare stare tutto ciò
che è a lato. L'impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato - con rabbiosa
amarezza - in ulteriore sforzo. Essi diventano pratici. L'altra possibilità è quella
che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode,
ma è impotente, legato all'albero della nave, e più la tentazione diventa forte,
e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si
negheranno più tenacemente la felicità quanto più - crescendo la loro potenza
- l'avranno a portata di mano. Ciò che ha udito resta per lui senza seguito: egli
non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i
compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, e non della
sua bellezza, e lo lasciano legato all'albero, per salvarlo, e per salvare sé con
lui. Essi riproducono, con la propria, la vita dell'oppressore, che non può più
uscire dal suo ruolo sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato
irrevocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi: la loro
tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte.
L'incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo
grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso.
Così il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all'uscita dalla
preistoria. L'epos contiene già la teoria giusta. Il patrimonio culturale sta in
esatto rapporto col
lavoro comandato, e l'uno e l'altro hannno il loro
fondamento nell'obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura.
M. Horkheimer/ T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo,tr. di L. Vinci, Torino
19762, pp. 40-43).
ADORNO
La bellezza della natura è in quel suo sembrar dire di più di quel che essa
stessa non sia. Strappare questo di più alla contingenza, impadronisi della sua
apparenza, determinarla proprio come apparenza e anche negarla come irreale
è l'idea dell'arte. Il di più fatto dagli uomini non garantisce in sé il contenuto
metafisica dell'arte. Questo potrebbe essere del tutto nullo e nondimeno le
opere d'arte potrebbero porre quel più come cosa che si manifesta. Esse diventano opere d'arte producendo il di più; esse producono la loro propria
trascendenza. […] Dove l'arte non raggiunga quella trascendenza essa cade al
di sotto del proprio concetto, e viene disartizzata. Tuttavia l'arte tradisce anche
la trascendenza quando la ricerca entro un rapporto di causa-effetto. Ciò
implica un criterio essenziale di arte nuova. […]
Per descrivere il di più non basta la definizione psicologica della forma formata,
della Gestalt, che asserisce essere l'intero più delle sue parti. Infatti il di più
non è semplicemente il contesto bensi un qualcosa d'altro, mediato dal
contesto e tuttavia distinto. […] Già con Baudelaire la trascendenza della
manifestazione artistica viene contemporaneamente prodotta e negata. Sotto
questo aspetto la disartizzazione dell'arte si determina non solamente come
grado della liquidazione dell'arte ma come tendenza di. sviluppo. […] La
trascendenza estetica e il disincanto trovano l'unisono nel tacere: nell'oeuvre di
Beckett. Il linguaggio lontano dal significato non è un linguaggio parlante e ciò
istituisce la sua affinità coll'ammutolire. Forse ogni espressione, parente stretta
del trascendente, è così vicina al tacere, come nella grande musica moderna
niente ha tanta espressione quanto ciò che si estingue, il suono che fuoriesce
nudo dalla compatta forma, suono in cui l'arte, in virtù del movimento a lei
proprio, sbocca nel suo momento naturale.
Il momento dell'espressione nelle opere d'arte però non è la loro riduzione al
loro materiale considerato immediato, al contrario quel momento è oltremodo
mediato. Le opere d'arte diventano manifestazioni nel senso pregnante della
parola, cioè manifestazioni di un altro, quando l'accento cade sull'aspetto
irreale della lor propria realtà. Il carattere di atto, a loro immanente, dà ad
esse qualcosa di momentaneo, di improvviso, per quanto possano essere
realizzate come durature nei loro materiali. La sensazione di essere aggrediti,
che si ha al cospetto di ogni opera significativa, registra questo fenomeno. […]
Per chi le contempla con pazienza le opere d'arte si mettono in movimento.
Pertanto esse veramente nell'epoca dell'oggettualizzazione imitano il brivido
preistorico: la sua terribilità si ripete di fronte agli oggetti oggettualizzati. […]
L'attimo del manifestarsi è tuttavia nelle opere l'unità paradossale o lo zero a
zero fra ciò che scompare e ciò che si conserva. Le opere d'arte sono tanto
qualcosa di immobile quanto qualcosa di dinamico […]. Le opere d'arte sono
epifanie neutralizzate e in tal modo qualitativamente mutate. […] All'opera
d'arte come manifestazione si avvicina al massimo l'apparition, la
manifestazione celeste. Con essa le opere d'arte si mantengono d'accordo:
d'accordo sul suo sorgere sugli uomini lontana dalla loro intenzione e dal
mondo materiale. Le opere d'arte da cui l'apparition è stata cacciata senza che
ne restasse traccia non sono niente più che gusci, peggiori del puro e semplice
esserci perché nemmeno servono a qualcosa. […] Esse superano il mondo
realis mediante la propria dimensione di res, mediante la loro obbiettivazione
artificiale. Esse diventano eloquenti in forza dell'innesco di res e di
manifestazione. Esse sono res per le quali è importante manifestarsi. Il loro
processo immanente si mostra all'esterno come loro proprio fare, non come ciò
che gli uomini hanno fatto in esse e non solo per gli uomini.
Prototipico per le opere d'arte è il fenomeno dei fuochi d'artificio che a causa
della loro fugacità e come vuoto trattenimento non sono stati praticamente
degnati dello sguardo teoretico […] I fuochi d'artificio sono apparition […]:
manifestazione empirica, liberata dal peso dell'empiria (che è il peso della
durata), segno del cielo e prodotto al tempo stesso, premonizione, scrittura
sorgente in un lampo e scomparente che tuttavia non si lascia leggere per ciò
che significa. […] Le opere d'arte non si separano dal fallibile esistente
mediante una superiore perfezione bensi, simili ai fuochi d'artificio, ottengono
ciò col loro irraggiante attualizzarsi a manifestazione esprimente. Esse non
sono soltanto l'altro dell'empiria: tutto in esse diventa altro. […] Più che
possedere idealità, in virtù della loro spiritualizzazione le opere d'arte promettono una dimensione sensoriale già bloccata o negata. […] Anche opere
d'arte che incorruttibilmente si proibiscono d'essere festa e consolazione non
cancellano lo splendore anzi ne acquistano tanto più quanto più riuscite esse
sono. Oggi esso è passato addirittura alle opere d'arte più sconsolate. […] Fra
le difficoltà dell'arte oggi non ultima è che essa si vergogna dell' apparition,
senza tuttavia poterla rigettare […] In ogni opera d'arte genuina appare
qualcosa che non c'è. Esse non lo fantasticano mettendolo insieme da elementi
sparsi dell'esistente. Esse preparano, da questi, costellazioni che diventano
codici cifrati senza tuttavia porre davanti agli occhi il cifrato quale
immediatamente esistente, come fanno invece le fantasie. Dal bello naturale il
cifrato delle opere d'arte, che è un aspetto della loro apparition, si distingue
per il fatto che esso rifiuta bensi parimenti l'univocità del giudizio, tuttavia
nella propria configurazione, nel come, che è la faccia da esse rivolta a ciò che
è celato, acquistano grandissima determinatezza. In tal modo esse emulano le
sintesi del pensiero significante, loro inconciliabile nemico.
Quando un inesistente spunta come se fosse esistente, si mette in moto la
questione della verità dell'arte. In base alla sua semplice forma l'arte promette
ciò che non c'è, annuncia obbiettivamente (e per quanto manchevolmente) la
pretesa che tale non esistente, poiché si mostra, deve anche essere possibile.
L'inestinguibile anelito al bello, cui Platone, con la freschezza di ciò che accade
per la prima volta, trovò le parole, è l'anelito all'adempimento della promessa.
[…]
Seppure nelle opere d'arte l'inesistente spunta sempre repentinamente, esse
però non se ne impadroniscono corporeamente con un colpo di bacchetta
magica. Il non esistente è loro mediato dai frammenti dell'esistente, che esse
mettono insieme per farne un'apparition. Non sta all'arte di decidere mediante
la propria esistenza se quel non esistente che si mostra esiste tuttavia come
manifestantesi oppure se permane nell'apparenza. L'autorità delle opere d'arte
risiede in questo: esse costringono a riflettere su quale base mai esse, figure
dell'esistente ed incapaci di chiamare all'esistenza ciò che non esiste,
potrebbero divenirne l'immagine travolgente, se il non esistente non esistesse
di per se stesso. […] La critica di Platone all'arte non è stringente perché l'arte
nega proprio la realtà letterale dei propri contenuti materiali che egli le
rinfaccia come menzogna. L'innalzare il concetto al cielo del1'idea si allea con
la rozza cecità rispetto al momento della forma, che è centrale nell'arte.
Nonostante tutto ciò naturalmente la macchia della bugia non è cancellabile
dall'arte: niente infatti garantisce che l'arte mantenga la sua promessa
obbiettiva. Perciò qualunque teoria dell'arte deve essere nel contempo critica
dell'arte. […] Le opere d'arte attraggono credito su una prassi che non è
ancora cominciata e di cui nessuno saprebbe dire se onorerà le cambiali.
Come apparition, come manifestazione e non copia, le opere d'arte sono
immagini. […] L'arte mantiene fedeltà al progresso della ragionevolezza
nell'epoca illuminata da cui l'arte stessa è provocata. Ciò che in essa si manifesta non è più ideale ed armonia, il suo aspetto liberatorio ha sede
unicamente ancora nel contraddittorio e nel dissonante. […] L'arte […] è però
[…] la verità sulla società in quanto che nei suoi prodotti autentici si esterna
l'irrazionalità della costituzione razionale del mondo. Denuncia e anticipazione
sono in lei sincopati. Se l'apparition è lo sfavillio, l'esser toccato, allora
l'immagine è il tentativo paradossale di avvincere questo massimo di
fuggevolezza. Nelle opere d'arte un elemento momentaneo arriva alla
trascendenza; l'obbiettivazione rende l'opera d'arte attimo. […]
Le opere d'arte non si limitano a preparare «imagines» come un qualcosa di
duraturo. Esse divengono opere d'arte, tramite la distruzione della lor propria
imagerie, e con lo stesso diritto; per questo l'imagerie è profondamente
affratellata all'esplosione. […] Le opere d'arte non sono soltanto allegorie ma
anche il catastrofico adempimento di queste. Gli chocs che le più recenti opere
d'arte causano sono l'esplosione della loro manifestazione. […] Nelle vampe
della manifestazione esse si staccano con stridore dall’empiria, mostrando
d'essere l'istanza contraria di ciò che nell'empiria vive; l'arte oggi non è quasi
più pensabile altrimenti che come la forma di reazione che anticipa l'apocalissi.
[…] Ma la manifestazione e la sua esplosione nell'opera d'arte sono
essenzialmente fenomeni storici. L'opera d'arte è in sé, e non soltanto per la
sua posizione nella storia reale (come piace allo storicismo), non un essere
sottratto al divenire bensi, in quanto esistente, un processo in fieri. Ciò che in
essa si manifesta è il suo tempo interno, la cui continuità viene fatta saltare
dall'esplosione della manifestazione. L'opera è mediata con la storia 'reale dal
suo nucleo monadologico. Il contenuto delle opere d'arte può lecitamente chiamarsi storia. Analizzare le opere d'arte significa prender coscienza della storia
immanente in esse immagazzinata. […]
I processi latenti nelle opere d'arte ed erompenti nell'attimo, la loro storicità
interna, sono la storia esterna sedimentata. Il carattere vincolante della
obbiettivazione delle opere così come le esperienze di cui esse vivono sono
fatti collettivi. Il linguaggio delle opere d'arte è costituito, come qualunque
linguaggio, da una corrente sotterranea collettiva, specialmente il linguaggio di
quelle che da un cliché culturale vengono sussunte come solitarie, murate in
torri d'avorio; la loro sostanza collettiva parla dal loro stesso carattere di
immagini, non da ciò che esse vorrebbero enunciare con riferimento diretto al
collettivo […] Chi ritiene che l'opera d'arte debba essere impegnata o didattica
regredisce oltre tale operazione. Senza preoccuparsi della realtà delle immagini
estetiche, la concezione dell'opera d'arte impegnata incasella l'antitesi dell'arte
alla realtà generale e integra l'arte in tale realtà, che l'arte invece combatte.
Illuminate sono quelle opere d'arte che in inflessibile distanza dall'empiria
rendono testimonianza di una giusta coscienza.
(T. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Torino 1975, pp. 113125).
HEIDEGGER
Il problema dell'origine dell'opera d'arte concerne la provenienza della sua
essenza. Secondo il modo comune di vedere, l'opera nasce dall'attività e in
virtù dell'attività dell'artista. Ma in virtù di che cosa e a partire da che cosa
l'artista è ciò che è? In virtù della sua opera. Che un'opera faccia onore a un
artista significa infatti: solo l'opera fa dell'artista un maestro dell'arte. L'artista
è l'origine dell'opera. L'opera è l'origine dell'artista. Nessuno dei due sta senza
l'altro. Tuttavia nessuno dei due, da solo, è in grado di produrre l'altro. Artista
ed opera sono ciò che sono, in sé e nei loro reciproci rapporti, in base ad una
terza cosa, che è in realtà la prima, e cioè in virtù di ciò da cui tanto l'artista
quanto l'opera d'arte traggono il loro stesso nome, in virtù dell'arte. […]
Ma è dunque possibile che l'arte costituisca un'origine? Dove e in qual modo
sussiste l'arte? L'arte è ormai solo più una parola a cui non corrisponde nulla di
reale. […]
Ma poiché deve restare impregiudicato se e come l'arte in generale sia,
cercheremo di rintracciare l'essenza dell'arte là dove l'arte domina
indubitabilmente reale. L'arte si trova nell'opera d'arte. Ma che cos'è un'opera
d'arte?
Solo l'opera ci può dire che cosa sia l'arte. Si potrà osservare che ci andiamo
muovendo in un circolo vizioso. L'intelletto comune esige che si esca da questo
circolo, contrario alla logica. […] Il muovere da opere assunte come
semplicemente presenti e la deduzione da principi, sono procedimenti
egualmente impossibili che, quando sono adottati, non producono che illusioni.
Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un ripiego, né di
un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero, e nel non
uscire da esso la sua festa, posto che il pensiero sia un mestiere. […]
Per rintracciare l'essenza dell'arte, che risiede realmente nell'opera, ci
indirizzeremo verso un'opera concreta per chiedere ad essa che cosa e come
essa sia.
Tutti conoscono opere d'arte. […] Un quadro, ad esempio quello di Van Gogh
che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da una esposizione
all'altra. […] Tutte le opere hanno questo carattere di cosa. Che sarebbero
senza di esso? […] Noi dobbiamo prendere le opere quali appaiono a coloro che
le vivono e ne godono. Ma anche la tanto invocata immedesimazione estetica
nell'opera non potrà mai prescindere dal carattere di cosa che inerisce
all'opera. […]
O si tratterà di un problema secondario e ingannevole visto che l'opera è
qualcos'altro, al di sopra e al di là della cosalità? Quest'altro, è ciò che
costituisce l'artistico. L'opera d'arte è, si, una cosa fabbricata, ma dice anche
qualcos'altro oltre la pura cosa […] L'opera d’arte rende noto, qualcos'altro,
rivela qualcos'altro: è allegoria. Alla cosa fabbricata l'opera d'arte riunisce
anche qualcos'altro […] L’opera d'arte è simbolo. Allegoria e simbolo
costituiscono il campo entro cui si muove, già da tempo, la caratterizzazione
dell'opera d'arte. Ma questo qualcosa che manifesta nell'opera qualcos'altro,
che si riunisce a qualcos'altro, è proprio la cosità dell'opera d'arte. […]
Dobbiamo quindi incominciare col porre in chiaro la cosità dell'opera. Ma a tal
fine è necessario sapere chiaramente che cosa significa «cosa». […]
Bisogna cogliere il carattere di cosa della cosa. […]
Consideriamo, a titolo di esempio, un mezzo assai comune: un paio di scarpe
da contadino. Per descriverle non occorre affatto averne un paio sotto gli occhi.
Tutti sanno cosa sono. Ma poiché si tratta di una descrizione immediata, può
esser utile facilitare la visione sensibile. A tal fine può bastare una
rappresentazione figurativa. Scegliamo, ad esempio, un quadro di Van Gogh,
che ha ripetutamente dipinto questo mezzo. Che c'è in esso da vedere?
Ognuno sa come san fatte le scarpe. […] L'esser-mezzo del mezzo consiste
nella sua usabilità. […] A tal fine non dovremo considerare il mezzo usato
nell'atto del suo impiego? La contadina calza le scarpe nel campo. Solo qui
esse sono ciò che sono. Ed esse sono tanto piu ciò che sono quanto meno la
contadina, lavorando, pensa alle scarpe o le vede o le sente. Essa è in piedi e
cammina in esse. Ecco come le scarpe servono realmente. È nel corso di
questo uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il
carattere di mezzo. […]
Ciò che abbiamo potuto stabilire è l'esser-mezzo del mezzo. Ma come? Non
mediante la descrizione e l'analisi di un paio di scarpe qui presenti. Non
mediante l'osservazione dei procedimenti di fabbricazione delle scarpe, e neppure mediante l'osservazione di un qualche uso di calzature. Ma
semplicemente ponendoci innanzi a un quadro di Van Gogh. È il quadro che ha
parlato. Stando nella vicinanza dell'opera, ci siamo trovati improvvisamente in
una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo. L'opera d'arte ci
ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. […]
Che significa ciò? Che cos'è in opera nell'opera? Il quadro di Van Gogh è
l'aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è in verità. Questo ente si
presenta nel non-nascondimento del suo essere. […] Noi diciamo: «verità», e
non riflettiamo sufficientemente su questa parola. Se ciò che si realizza è
l'aprimento dell'ente in ciò che esso è e nel come è, nell'opera e in opera
l'evento della verità. […]
L'essenza dell'arte consisterebbe quindi nel porsi in opera della verità dell'ente.
[…]
Si vorrà far risuscitare quell'antiquata opinione secondo cui l'arte consiste
nell'imitare e nel copiare la realtà? La riproduzione della realtà semplicementepresente richiede infatti la corrispondenza con l'ente, la commisurazione ad
esso. […] Corrispondenza con l'ente, già da molto tempo, equivale a verità. Ma
crediamo veramente che nel quadro di Van Gogh si ritrae la semplice-presenza
di un paio di scarpe e che esso è un'opera d'arte perché l'intento è riuscito?
[…]
Da un lato: gli strumenti per comprendere il carattere di cosa dell'opera (i
concetti di cosa predominanti) sono apparsi inadeguati.
Dall'altro: ciò che presumevamo di poter assumere come piu prossima realtà
dell'opera, il basamento cosale, non rientra, a questo modo, nell'opera d'arte.
[…]
La nostra impostazione del problema dell'opera è andata a pezzi perché non
era diretta con vigore verso l'essenza dell'opera, ma ondeggiava fra cosa e
mezzo. In realtà non si tratta di un'impostazione nostra. È l'impostazione
caratteristica dell' estetica. Il modo in cui questa considera sin dall'inizio
l'opera d'arte è sotto l'influsso dell'interpretazione tradizionale dell'ente come
tale. […] Ѐ necessario che crollino le· barriere dell'ovvio e che siano messi da
parte i falsi concetti abituali. […] Il carattere di cosa dell'opera non può esser
negato; ma esso, proprio in quanto rientrante nell'esser opera dell'opera,
dev'esser concepito in base al carattere di opera dell'opera. In conseguenza di
ciò, il procedimento che mira alla determinazione della realtà cosale dell' opera
non andrà dalla cosa all'opera, ma al contrario, dall'opera alla cosa.
L'opera d'arte apre, a suo modo, l'essere dell'ente. Nell'opera ha luogo questa
apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell'ente. Nell'opera d'arte è posta
in opera la verità dell'ente. L'arte è il porsi in opera della verità. […]
Per renderci familiare l'argomento, bisogna chiarire ulteriormente lo
storicizzarsi della verità in opera. […]
Un edificio, un tempio greco, non riproduce nulla. Si erge semplicemente, nel
mezzo di una valle dirupata. […] Il tempio, in quanto opera, dispone e
raccoglie intorno a sé l'unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e
morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina
delineano la forma e il corso dell'essere umano nel suo destino. L'ampiezza
dell'apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico. In base ad
essa e in essa, questo popolo perviene al compimento di ciò a cui è destinato.
Eretto, l'edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell'opera
fa emergere dalla roccia l'oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non.
costruito. Stando lì, l'opera tien testa alla bufera che la investe, rivelandone la
violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in
dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l'immensità del cielo, l'oscurità
della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l'invisibile regione dell'aria. La
solidità dell'opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l'impeto con
la sua immutabile calma. L'albero e l'erba, l'aquila e il toro, il serpente e il
grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono. Questo
venir fuori e questo sorgere, come tali e nel loro insieme, é ciò che i Greci
chiamarono originariamente physis. Essa illumina ad un tempo ciò su cui e ciò
in cui l'uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo la Terra. Da ciò che
intendiamo con questo termine occorre tener ben lontano ogni idea di massa
materiale stratificata o di pianeta in senso astronomico. La Terra è ciò in cui il
sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è-presente la Terra come la
nascondente-proteggente.
Eretto sulla roccia, il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo,
alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale. […]
Stando li eretto, il tempio conferisce alle cose il loro aspetto e agli uomini la
visione di se stessi. Questa visione resta attuale fin che l'opera è tale, fin che
Dio non fugge via da essa. […]
Esser opera significa esporre un mondo. Ma cos'è un mondo? Lo abbiamo
intravi.Sto parlando del tempio. […]
Il Mondo non è il mero insieme di tutte le cose, numerevoli e innumerevoli,
note e ignote. Il Mondo non è neppure una semplice rappresentazione aggiunta
alla somma delle cose semplicemente-presenti. Il Mondo si mondifica ed è più
essente dell'afferrabile e del percepibile in cui viviamo fiduciosamente. Il
Mondo non è un possibile oggetto che ci stia innanzi e che possa essere intuito.
Il Mondo è il costantemente inoggettivo a cui sottostiamo fin che le vie della
nascita e della morte, della grazia e della maledizione ci mantengono
estatizzati nell'essere. Dove cadono le decisioni essenziali della nostra storia,
da noi raccolte o lasciate perdere, disconosciute e nuovamente ricercate, lì si
mondifica il Mondo. […]
L'opera, in quanto opera, espone un Mondo. L'opera mantiene aperta l'apertura
del Mondo. Ma l'esposizione d'un mondo è solo uno dei due caratteri fondamentali di quell'esser opera dell'opera che ci siamo proposti di esaminare. […]
Tutto ciò si fa innanzi perché l'opera si ritira nella massa e nel pesantore della
pietra, nella saldezza e nella flessibilità del legno, nella durezza e nello
splendore del metallo, nella luce e nell'oscurità del colore, nella tonalità del
suono e nella forza nominativa della parola.
Ciò in cui l'opera si ritira e ciò che, in questo ritirarsi, essa lascia emergere, lo
chiamiamo: la Terra. Essa è la emergente-custodente. La Terra è l'assiduainfaticabile-noncostretta. Su di essa ed in essa l'uomo storico fonda il suo
abitare nel mondo. Esponendo un mondo, l'opera pone-qui la Terra. Il porrequi è assunto nel significato rigoroso del termine. L'opera porta e mantiene la
Terra nell'aperto di un mondo. L'opera lascia che la Terra sia una Terra. […]
La pietra si ritira nella costante impenetrabilità e nella gravezza dei suoi frammenti. Se cercheremo di raggiungere il nostro scopo ricorrendo a una bilancia,
il pesantore si perderà nel calcolo di un peso. […] Quando pretenderemo di
scomporlo in un calcolo di vibrazioni, ci sarà di già sfuggito. Esso si manifesta
solo se resta integro e inesplicito. La Terra destina al fallimento ogni tentativo
di penetrare in essa e condanna al fallimento ogni indiscrezione calcolatrice.
[…] Aperta e illuminata in se stessa, la Terra appare soltanto se è garantita e
conservata come la essenzialmente indischiudibile, sottraentesi a ogni
dischiudimento e mantenentesi in un costante rifiuto. […]
Il contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta. […] Nella lotta autentica, i lottanti
- l'un l'altro - si elevano all'autoaffermazione della propria essenza. […] La
Terra non può far a meno dell'aperto del Mondo se deve essa stessa, in quanto
Terra, apparire nel libero slancio del suo autochiudimento. Il Mondo, a sua
volta, non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni
destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro.
Nella misura in cui l'opera è l'esposizione di un mondo e il porre-qui la Terra
essa è, ad un tempo, l'attizzatrice di questa lotta. […]
Nell'opera si attua lo storicizzarsi della verità, e precisamente nel modo
dell'essere-in-opera. Perciò l'essenza dell'arte venne da noi intesa come il
porre in opera la verità. Ma questa determinazione è volutamente ambigua.
Per un lato significa: l'arte è il fissarsi della verità ordinantesi nella figura. Il
che ha luogo nel fare come produzione del non-esser-nascosto dell'ente. Ma
porre in opera significa anche: porre in moto e far esser storico l'esser-opera.
Il che ha luogo come salvaguardia. Così l'arte è la producente salvaguardia
della verità in opera. Ma in tal caso l'arte è il divenire e lo storicizzarsi della
verità. La verità sorge dunque dal nulla? Si, se per «nulla» si intende la pura
negazione dell'ente inteso come quella semplice-presenza abituale che l'opera,
nel suo limpido sussistere, denuncia e dissolve come l'ente solo presuntivamente vero. […] La verità, come illuminazione e nascondimento
dell'ente, si storicizza se viene poetata. Ogni arte, in quanto lascia che si
storicizzi l'avvento della verità dell'ente come tale, è nella sua essenza Poesia.
[…] L'efficienza dell'opera non consiste nel produrre effetti. Essa consiste
invece in quel mutamento del non esser-nascosto dell'ente che è connesso
all'opera: cioè in un mutamento dell'essere. […]
L'essenza dell'arte è la Poesia. Ma l'essenza della Poesia è la instaurazione
della verità. Instaurare qui è inteso in un triplice significato: come donare,
come fondare, come iniziare. […]
Il progetto poetico della verità che si pone in opera non ha mai luogo nel vuoto
e nell'indeterminato. La verità in opera è invece pro-gettata per i salvaguardanti a venire, cioè per l'umanità storica. […] Il soggettivismo moderno
equivoca il concetto di creatività, intendendola come l'azione geniale di un
soggetto sovrano. L'instaurazione della verità è instaurazione non solo nel
senso di libera donazione, ma anche nel senso di fondamento che fonda. Il
progetto poetico viene dal nulla, nel senso che non riceve il suo dono
dall'abituale e dal tramandato. Ma esso non sorge mai dal nulla assoluto,
poiché ciò che è pro-gettato in virtù sua, è semplicemente la determinazione
rattenuta dello stesso Esserci storico. […]
L'arte è la messa in opera della verità. In questa affermazione si nasconde un'
ambiguità essenziale in virtù della quale la verità è ad un tempo il soggetto e
l'oggetto del porre in opera. Qui, però, soggetto e oggetto sono termini
inadeguati. […] L'arte è storica e come tale è la salvaguardia fattiva della verità
in opera. L'arte si storicizza come Poesia. La Poesia è instaurazione nel triplice
senso di donazione, fondazione e inizio. […]
L'arte fa scaturire la verità. L'arte fa scaturire la fondante salvaguardia della
verità dell'ente nell'opera. Far scaturire qualcosa, porlo in opera con un salto
che muova dalla sua provenienza essenziale, tutto questo è racchiuso nel
significato della parola origine.
L'origine dell'opera d'arte, cioè, ad un tempo, dei facenti e dei salvaguardanti ossia dell’Esserci storico di un popolo - è 1'arte. E ciò perché 1'arte è nella sua
essenza origine e null'altro: una maniera eminente in cui la verità si fa essente,
cioè storica.
(M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, a cura di P.
Chiodi, Firenze 1979, pp. 3-61)
GADAMER
L'arte non ha davvero nulla a che fare con la conoscenza? Non c'è
nell'esperienza dell'arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella
della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa? E il
compito dell'estetica non è proprio quello di fondare teoricamente il fatto che
l'esperienza dell'arte è un modo di conoscenza sui generis, diverso beninteso
da quella conoscenza sensibile che fornisce alla scienza i dati sulla cui base
essa costruisce la conoscenza della natura, diversa altresì dalla conoscenza
morale della ragione e in generale da ogni conoscenza concettuale, ma tuttavia
pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità?
Ciò è difficile se si continua a seguire Kant nel misurare la verità della conoscenza in base al concetto di conoscenza e di realtà proprio delle scienze della
natura. È necessario pensare il concetto di esperienza in maniera più ampia di
quanto abbia fatto Kant, in maniera che anche l'esperienza dell'opera d'arte
possa venir intesa come esperienza. Per tale operazione possiamo rifarci alle
ammirevoli lezioni di estetica di Hegel. In esse il contenuto di verità che si
trova in ogni esperienza d'arte viene magistralmente riconosciuto e messo in
rapporto con la coscienza storica. L'estetica diventa così una storia delle
Weltanschauungen, cioè una storia della verità come essa si rivela nello
specchio dell'arte [ ... ].
Certo, in quanto in tal modo la verità del concetto diventa onnipotente e supera in sé ogni esperienza, Hegel torna a misconoscere quella via alla verità che
prima aveva riconosciuto nell'esperienza dell' arte. Se noi vogliamo però
renderle giustizia, dobbiamo renderci anzitutto conto di che cosa significhi qui il
termine verità. Sono le scienze dello spirito nel loro insieme quelle che devono
fornire una risposta a tale domanda [ ... ]. Il problema dell'arte si potrà
impostare adeguatamente non in base al concetto di coscienza estetica, ma
solo entro questo più ampio quadro.
Finora abbiamo fatto solo un passo in questa direzione, in quanto abbiamo
cercato di correggere l'interpretazione che dà di sé la coscienza estetica e
abbiamo riproposto il problema della verità dell'arte, della quale è
testimonianza l'esperienza estetica [ ... ]. L'esperienza dell'arte non deve venir
falsata riducendola a un semplice momento della cultura estetica, in modo da
neutralizzarla in ciò che autenticamente vuole essere. Come vedremo, in ciò è
contenuta un'importante conseguenza ermeneutica, in quanto ogni incontro
con il linguaggio dell'arte è un incontro con un evento non conchiuso ed è esso
stesso parte di questo evento. È questo che si deve opporre alla coscienza
estetica e alla sua neutralizzazione del problema della verità.
Nel suo tentativo di superare il soggettivismo e agnosticismo estetico, fondato
sulla dottrina kantiana, innalzandosi al punto di vista del sapere infinito,
l'idealismo speculativo [ .. .] implicava necessariamente la soppressione
dell'arte nella filosofia. All'opposto, per noi si tratterà di tener fermo il punto di
vista del finito. Mi sembra sia un risultato fecondo della critica heideggeriana al
soggettivismo della filosofia moderna il fatto che la sua interpretazione
temporale dell'essere ha aperto per questo specifiche possibilità.
(H. G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano 1983, pp. 128130)
Il vero e proprio enigma che il tema dell'arte ci pone è proprio la contemporaneità del passato e del presente [ ... ]; dobbiamo chiederci che cosa una tale
arte in quanto arte porti con sé, ed in che modo l'arte sia un superamento del
tempo.
Abbiamo cercato di rispondere a ciò in tre passi successivi. Il primo passo
ricercava una fondazione antropologica nel fenomeno dell'eccedenza del gioco [
…] Uno dei motivi fondamentali di quanto ho svolto era quello di rendere
consapevoli che la vera e propria operazione del tener fermo quanto ci sfugge
è il proposito primo del nostro rapporto col mondo e del nostro sforzo creativo,
sia che creiamo forme, sia che partecipiamo attivamente al gioco delle forme.
Perciò il fatto che in questa attività si ripercuota in modo particolare
1'esperienza della finitezza dell'esistenza umana, non è dovuto alla semplice
casualità, ma piuttosto è il sigillo spirituale che si esprime sulla trascendenza
interiore del gioco, questa eccedenza di ciò che è facoltativo, di ciò che viene
scelto, e scelto liberamente [ ... ]
Questo era il primo passo. Ad esso si è aggiunta poi la questione di che cosa
propriamente sia ciò che in questo gioco di forme, nel suo processo formativo e
nella sua 'fissazione' in un'opera, ci parli in modo significativo. Ed era all'antico
concetto del simbolico che ci eravamo riallacciati [ ... ]
Io ho cercato di mostrare che non possiamo semplicemente parlare di tempi
ricchi, in cui prospera una generale familiarità con i simboli, e di tempi poveri,
in cui si assiste al generale svuotamento dei simboli, come se il favore dei
tempi e l'inclemenza del presente fossero dei semplici dati di fatto. In verità il
simbolo è un compito: esso deve essere costruito. È necessario che noi
ricuperiamo le possibilità del suo riconoscimento, e questo in un ambito molto
ampio di compiti, e rispetto a delle possibilità di incontro molto diverse [ ... ]
Ed infine [ ... ] la festa. Non vorrei più ripetere in che modo il tempo, ed il
tempo proprio dell' arte, in particolare, si rapporta al tempo proprio della festa,
ma vorrei concentrarmi invece in un singolo punto, e cioè sul fatto che la festa
è ciò che unisce tutti [ ... ]. È parte essenziale del bello il suo esser rivolto alla
pubblica opinione ed il suo esser tenuto nella massima considerazione.
(H. G. Gadamer, L’attualità del bello, a cura di R. Dottori, Genova 1986, pp.
50-54)
JAUSS
Avanzo questa tesi:
L’atteggiamento della godibilità, che l’arte suscita e rende possibile, è
l’esperienza estetica fondamentale; non se ne può fare astrazione, ma deve
sempre divenire oggetto di riflessione teoretica, se oggi siamo interessati a
difendere la funzione sociale dell’arte e delle discipline ad essa connesse contro
i suoi detrattori, colti o incolti […]
Chi oggi avesse il coraggio di usare per l'esperienza esteetica la parola
godimento nel senso del noto verso del Faust: «e ciò che è assegnato
all'umanità intera, / io voglio godermelo nella profondità del mio intimo» (v.
1770), si esporrebbe al rischio di essere tacciato di ristrettezza d'idee oppure ancor peggio - del desiderio di soddisfare nel modo piu scoperto i bisogni del
consumismo o del Kitsch. Ammmettere di trarre piacere dall' arte è oggi
consentito soltanto facendo del turismo. Il piu antico significato fondamentale
di godimento, vale a dire «l'uso o l'utilità di un oggetto», viene oggi ancora
percepito soltanto in un uso linguistico obsoleto o di linguaggio tecnico […] Nel
Faust di Goethe il concetto di piacere poteva essere esteso a tutti i gradi
del1'esperienza, fino alle più alte richieste di conoscenza (dal piacere della vita
individuale […] attraverso il piacere dell'azione […] e il piacere accompagnato
dalla consapevolezza[…], fino al piacere dell'atto creativo […]).
Se un tempo il godimento, inteso come impossessamento del mondo e
conquista della certezza del sé, giustificò la relazione con 1'arte, oggi invece
1'esperienza estetica è riconosciuta come genuina soltanto quando si è lasciata
indietro ogni piacere e si è elevata al grado di riflessione estetica. La critica più
accanita ad ogni esperienza dell'arte fondata sul godimento si trova nella teoria
estetica, pubblicata postuma, di Theodor W. Adorno. Chi cerca e trova piacere
nelle opere d'arte, deve essere per forza un filisteo […] Chi non è capace di
purificare l'arte dal gusto del piacere, la pone accanto ai prodotti della
gastronomia o della pornografia. […]
La pittura e la letteratura d'avanguardia del secondo dopoguerra hanno senza
dubbio dato il loro contributo a rendere l'arte nuovamente ascetica, e con ciò
sgradita al godimento della borghesia, di contro all'opulenza della società dei
consumi. […] In questo contesto l'arte ascetica e l'estetica della negatività
ricavano la loro sterile e patetica legittimazione dall'opposizione all'arte di
consumo diffusa dai moderni mass media. Adorno, l'appassionato pioniere
dell'estetica della negatività, ha visto bene il limite di ogni esperienza ascetica
dell'arte quando osserva: «Ma se l'ultima traccia di godimento fosse estirpata,
la domanda per che fine mai ci siano le opere d'arte metterebbe in imbarazzo».
A questa domanda la sua teoria estetica non dà alcuna risposta; come del
resto le teorie attualmente dominanti della scienza dell'arte, dell'ermeneutica e
dell'estetica.
Per la scienza dell' arteoggi, per lo più, l'esperienza artistica acquista dignità
teorica soltanto una volta superato lo stadio della contemplazione o del
godimento che, come aspetto soggettivo di tale esperienza, può essere lasciato
alla psicologia, che appena se ne interessa, oppure può essere condannato in
quanto falsa coscienza della cultura consumistica del capitalismo maturo. Il
problema del piacere estetico […] non interessa il pensiero contemporaneo,
rappresentato dalla filosofia ermeneutica di H.G. Gadamer, che sotto l'aspetto
della critica alla coscienza estetica, considerata responsabile del museo
immaginario nel quale si riflette una soggettività che gode di se stessa, e alla
quale si contrappone la struttura evenimenziale di un pensiero interpretante
[…]
Tanto la verità ontologica che la verità sociale dell’arte hanno avuto scarso
bisogno della mediazione del piacere estetico, fattore che unico ha invece
liberato, in un’esperienza secolare, l’atteggiamento nei confronti dell’arte […]
In che cosa consiste però l'esperienza estetica originaria? Come si distingue il
piacere estetico dal piacere sensuale in genere? […] Da una parte occorre dire
che godere e lavorare costituiscono di fatto una netta contrapposizione che si
presenta all'idea stessa di esperienza estetica. […] D’altra parte l'esperienza
estetica non si è assolutamente posta per sua natura in contrapposizione con il
conoscere e l’agire. La funzione conoscitiva del piacere estetico, come ancora il
Faust di Goethe la intende contro l’astratta conoscenza concettuale, è stata
sacrificata soltanto nel XIX secolo con il passaggio alla concezione autonoma
dell’arte [...]
Il piacere estetico si distingue dal mero piacere sensuale […] in virtu della
«distanza dell'io e dell'oggetto» o distanza estetica. A differenza
dell'atteggiamento teoretico, che presuppone altrettanta distanza, nel piacere
estetico si attua la liberazione del soggetto percipiente dai ceppi della prassi
quotidiana, attraverso l'immaginario. […] La coscienza immaginativa deve
negare l'oggettività già data, per poter essa stesssa produrre, a seconda che i
simboli estetici appartengano ad un testo verbale, visuale o musicale, una
forma costituita di parole, immagini o suoni. Il piacere estetico, nel quale la
coscienza immaginativa si scioglie dalla costrizione delle abitudini e degli
interessi, consente proprio con ciò all'uomo prigioniero della sua attività
quotidiana di liberarsi per altre esperienze. Da ciò segue la mia seconda tesi:
la liberazione attraverso l'esperienza estetica può compiersi su tre piani: la
coscienza come produttività che crea un mondo, come sua propria opera, la
coscienza come ricettività che determina una possibilità di percepire il mondo
diversamente da come esso si presenta, ed infine - aprendo l'esperienza
soggettiva all'intersoggettività - l'accordo con un giudizio richiesto dall'opera o
l'identificazione con norme dell'agire in essa tracciate e che devono essere
successivamente determinate.
L'esperienza estetica è dunque sempre ad un tempo liberazione da e per
qualcosa, come già risulta dalla dottrina aristotelica della catarsi. […]
Riassumendo le dimensioni dell'esperienza estetica […] possiamo ora
introdurre i tre concetti fondamentali della tradizione estetica, vale a dire la
Poiesis, l'Aisthesis e la Katharsis. Poiesis, intesa come «sapere poietico»,
designa allora l'esperienza estetica fondamentale per cui l'uomo può soddisfare
il suo bisogno generale di sentirsi nel mondo come in patria, e di abitarvi,
attraverso la creazione artistica; e ciò in quanto priva il mondo esterno della
sua riluttante estraneità, e lo determina come sua propria opera, ed in questa
determinazione consegue un sapere che si distingue tanto dalla conoscenza
concettuale della scienza, quanto dalla prassi, vincolata a fini specifici, di una
manualità
ripetitiva.
Aisthesis
designa
quindi
l'esperienza
estetica
fondamentale per cui un'opera d'arte riesce a rinnovare la percezione delle
cose appiattita nell'abitudine, da cui segue che l'Aisthesis può ricollocare neI
suo pieno diritto la conoscenza intuitiva contro la tradizionale priorità accordata
alla conoscenza concettuale. Infine Katharsis designa l'esperienza estetica
fondamentale per la quale l'osservatore neI processo di fruizione dell'arte viene
liberato, da e per il piacere estetico, dei suoi pregiudizi legati agli interessi
della vita pratica e reso disponibile alla comunicazione o all’assunzione di
norme di comportamento sociale. […]
Quarta tesi:
L’esperienza estetica si trova del tutto espropriata della sua funzione sociale
primaria quando l’atteggiamento nei confronti dell’opera d’arte rimane chiuso
nel circolo vizioso che va dall’esperienza dell’opera all’esperienza del sé, senza
aprirsi a quell’esperienza dell’altro che si compie da sempre nella prassi
estetica attraverso quei momenti dell’identificazione primaria quali
ammirazione, choc, commozione, compianto, riso, e che soltanto uno snobismo
estetico può prendere per volgari.
(H. R. Jauss, Apologia dell’esperienza estetica, tr. di C. Gentili, Torino 1985,
pp. 5-13, 34-35).
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