Arlecchino servitore di più autori regia e ricerche storiche Federico Corona con Federico Corona – Daniela Zamperla – Rita Lelio – Francesco Corona scheda di approfondimento Strumenti e modalità di rappresentazione Il testo Il testo tra spunto da un antico canovaccio ritrovato nei bauli della famiglia Lelio, di cui gli attori fanno parte, riadattato per un pubblico giovane. Abbiamo operato un intenso lavoro di cucitura drammaturgica tra le più importanti scene che il teatro goldoniano e della commedia dell’arte ci hanno lasciato in eredità, con il risultato di una scrittura agile, divertente e mai noiosa. All’interno si riscoprono vere e proprie chicche stilistiche, come la tirata in un maccheronico italicomedioevale del Capitan Spaventa da Vall’Inferna di Francesco Andreini, la memorabile, per dinamicità e spontaneità delle trovate comiche, scena della lettera tratta da Il servitore di più padroni di Caro Goldoni, la cantilena altalenante e ritmata del lazzo tra Arlecchino e Pantalone (da autore anonimo), o la scena di apertura, con un divertentissimo scenario inedito tratto dalla commedia dell’arte e recitato in parte a soggetto. Il percorso drammaturgico segue cronologicamente il cammino della commedia dell’arte, da lazzi e canovacci grevi e improvvisati, alla commedia borghese settecentesca di goldoniana memoria. Allestimento Nell’affrontare un testo che ripercorresse in maniera accessibile e precisa i fasti della commedia dell’arte, la compagnia ha deciso di utilizzare le tecniche proprie di quel periodo (mimica enfatizzata, utilizzo di lazzi e battute a soggetto, grande fisicità dei personaggi, interazione constante col pubblico…) con contaminazioni degli strumenti drammaturgici che offre il teatro moderno (luci, audio, testo e movimenti stabiliti e provati). Lo spettacolo offre una panoramica sul periodo che va dal XVI al XVIII secolo, creando giochi di teatro nel teatro e collegamenti storici per una più approfondita esamina dello scorcio, non solo artistico, ma storico dell’epoca. La scena, che rappresenta la facciata esterna di una locanda veneziana, è dipinta su tela con un effetto volutamente finto, in modo da ricordare i semplici scenari dell’epoca. Il linguaggio utilizzato Il linguaggio utilizzato è misto: per alcuni personaggi si usa la lingua italiana, nel fiorentino rinascimentale, Arlecchino e Pantalone invece utilizzano un dialetto veneto-bergamasco, ridotto e riadattato ad un pubblico moderno e quindi facilmente comprensibile da tutti. Si utilizza poi, in alcuni punti dello spettacolo, un recitar-cantando ricco di assonanze e ritmi tipici del grammelot e dell’arte spettacolare delle compagnie di comici della commedia dell’arte, che alternavano momenti di poesia a danze sfrenate, ambientazioni fiabesche a situazioni pragmatiche e spassose sull’italica arte di arrangiarsi. All’inizio dello spettacolo il regista presenterà il testo, le tematiche trattate, il percorso artistico e storico affrontato. Alla fine, se possibile, la compagnia si tratterrà con il pubblico per un dibattito a caldo e per rispondere ad eventuali domande. La commedia dell’arte La commedia dell'arte nacque alla metà del cinquecento: dopo la crisi dell'età medioevale e gli isolati tentativi di far rivivere i fasti dell'antichità nella commedia erudita d'epoca rinascimentale, il teatro rinacque quale fenomeno sociale supportato da una nuova organizzazione tecnica. Secondo l'interpretazione più comune, la commedia dell'arte fu così chiamata perché per la prima volta in Europa portava sulle scene attori professionisti, rappresentati cioè da un'Arte o Corporazione Professionale. Diverse testimonianze, tuttavia, sembrano contraddire questa ipotesi, ed evidenziano la diffusione di una opinione negativa nei confronti di coloro che si dedicano alla professione di attore per trarne un profitto: a parte le compagnie più famose, che portano la commedia in tutto il mondo e spesso davano vita a vere e proprie dinastie artistiche (come i Biancolelli, gli Andreini o i Riccoboni), e, a parte dilettanti dall'immenso talento, molti attori girovaghi erano spesso, purtroppo, ciarlatani che allestivano spettacoli squallidi o incentrati esclusivamente su acrobazie o lazzi scurrili, e che non difficilmente prestavano il fianco alle critiche degli intellettuali denigratori. L'esistenza di dinastie di commedianti, mostrava l'esigenza di una vera e propria abilità innata, sia di un allenamento rigoroso, per coloro che volevano veramente eccellere nella professione. Allora arte andrà intesa proprio nel significato che una volta era corrente, cioè di abilità speciale e talento singolare, quindi commedia della bravura, bravura che, come vedremo, era riferita in primo luogo alle eccezionali capacità di improvvisazione degli attori migliori, che resero questo genere diffuso e amato in tutta Europa. Fenomeno artistico complesso, per la varietà dei modi sperimentati in palese contrasto con la regolarità dei temi e delle situazioni rappresentati, e unico, in quanto manifesta espressione del desiderio di autonomia dell'attore rispetto l'autore, la Commedia dell'arte fu definita diversamente in relazione alle caratteristiche strutturali, alle modalità della rappresentazione scenica, ai ruoli dei personaggi, alla nazionalità. Fu detta anche Commedia buffonesca o istrionica, per via dei forti legami che intrattenne con la tradizione dei mimi goliardici d'età tardomedievale; acquistò fama come Commedia all'improvviso o a soggetto o a canovaccio, poiché recitata a partire da un abbozzo che l'improvvisazione degli attori riempiva di monologhi, dialoghi, lazzi. La si definì Commedia delle maschere, visto che gli attori vi recitavano in parte col viso coperto. Fu detta infine Commedia italiana quando, nel Seicento, il modello fu esportato fuori dall'Italia. Le prime compagnie di attori itineranti comparvero intorno alla metà degli anni quaranta del Cinquecento e subito fuggirono alla catalogazione dello storico del teatro. Si andava infatti dalle compagnie che nelle piazze innalzavano palchi improvvisati, magari solo per rappresentare qualche sketch alla fine del quale passare con il cappello per raccogliere l'elemosina o per vendere qualche intruglio, a quelle organizzate e seguite a tal punto da essere invitate alle rappresentazioni di corte. Molto si è detto e si è scritto intorno alla spontaneità di questo genere teatrale che, proprio perché libero da ambizioni letterarie, avrebbe parlato al popolo con immediatezza, conquistando allo spettacolo il consenso di chi difficilmente avrebbe potuto fruirne in altre forme. Capita spesso d'altro canto che la spontaneità sia un lavoro di mediazione tra la tradizione e le novità, ed enfatizzarla eccessivamente significa quindi trascurare i passaggi che la preparano. La Commedia dell'arte non nacque dal nulla; aveva infatti alle spalle la tradizione del teatro antico (greco o latino) che lo spirito della farsa popolare aveva tenuto in vita, inoltre essa poté attingere alla ricchissima tradizione italiana del Carnevale. L'improvvisazione, insomma, non era mai frutto di arbitrio, ma era decisa su generi disciplinati e prendeva spunto da un nutrito repertorio di entrate, congedi, intermezzi, tirate. I numerosi scenari pervenutici attestano il forte legame con la commedia antica e quella erudita cinquecentesca, di cui si riproponevano i travestimenti, gli equivoci, le beffe, le bastonate, il riconoscimento dei personaggi in finali inattesi e risolutivi. E a completare i canovacci c'erano poi i virtuosismi scenici, le acrobazie, le danze, la gestualità fortemente espressiva e gli accompagnamenti musicali. Arlecchino Le origini del nome del personaggio Sulle origini di questo personaggio, e del suo nome (conosciuto a livello planetario) si è molto disquisito: ciò che si sa per certo è che ad un certo momento della storia della commedia dell'arte appare come un alter ego dello Zanni, cioè il servo inurbato, antica maschera della commedia della quale il personaggio di Arlecchino è l'evoluzione. La carriera teatrale di Arlecchino nasce a metà del cinquecento con l'attore di origine bergamasca Alberto Naselli noto come Zan Ganassa che porta la commedia dell'arte in Spagna e Francia sebbene fino al 1600 - con la comparsa di Tristano Martinelli - la figura di Arlecchino non si possa legare specificatamente a nessuna attore. L'origine del personaggio è invece molto più antica, legata com'è alla ritualità agricola: si sa per certo, infatti, che Arlecchino è anche il nome di un demone ctonio. Già nel XII sec. Orderico Vitale nella sua Historia Ecclesiastica racconta dell'apparizione di una familia Herlechini, un corteo di anime morte guidato da questo demone/gigante. E allo charivari sarà associata la figura di Hellequin. Un demone ancora più noto con un nome che ricorda da vicino quello di Arlecchino è stato l'Alichino dantesco che appare nell'Inferno come capo di una schiatta diabolica. La stessa maschera seicentesca evoca in maniera abbastanza palese il ghigno nero del demonio presentando il resto di un corno perso dal diavolo nel suo aspetto più umanizzato. Quanto alla radice del nome, è di origine germanica Hölle König (re dell'inferno), traslato in Helleking, poi in Harlequin , con chiara derivazione infernale. Ma il particolare che accomuna tutti gli Zanni della Commedia dell'Arte è lo spirito villanesco, alle volte arguto (come il seicentesco Bertoldo di Giulio Cesare Croce), ma più spesso sciocco, ovvero quello del povero diavolo, come nei servi delle commedie sin dall'epoca di Plauto, attraverso le commedie erudite del Quattro-Cinquecento, sino alle commedie alla villanesca di Angelo Beolco, che attorno al primo Cinquecento metterà in scena le sventure del contadino Ruzante. Questa tipologia di personaggi sono legati tra loro dalla ritualità rurale e, attraverso i suoi miti legati alla sfera ctonia, da elementari passioni che si potrebbe definire più bestiali che umane. Già durante il medioevo, del resto, un certo aspetto di comicità appare con demoni che si aggiravano sulle scene delle sacre rappresentazioni: questo era da un lato probabilmente un tentativo di esorcizzare le paure del soprannaturale, ma anche di mettere in burla il potere dei demoni pagani della terra che erano ancora molto presenti nell'immaginario popolare, soprattutto nelle campagne, ed esercitavano ancora un grosso potere che l'ascesa del cristianesimo non era riuscito a sradicare. Lo stesso Alichino della Divina Commedia, cui si è accennato in precedenza, eredita - giocoforza - questo tratto burlesco. Arlecchino nella commedia Arlecchino approda nei palcoscenici al tempo dei cantimbanchi, dei cerretani e simili che hanno percorso le piazze e le fiere italiane sin dal Medioevo. Lo Zanni dei cerretani è presente in molte raffigurazioni (es. l'incisione della Fiera dell'Impruneta di Jacques Callot) sia anteriori che posteriori alla sua nascita come personaggio della Commedia dell'Arte. Arlecchino è un personaggio diretto discendente di Zanni dal quale eredita la maschera demoniaca (sebbene spesso la maschera di Zanni è stata rappresentata bianca) e la tunica larga del contadino venetobergamasco. Infatti la prima incisione di Arlecchino, che si trova nel libro Composition de Réthorique, di Tristano Martinelli, forse il primo Arlecchino o il primo attore che impose una forte presenza scenica a questo personaggio, porta ancora la tunica larga con molto bianco e alcune pezze colorate sparse. Da Tristano Martinelli a Antonio Sacco Tristano e il fratello Drusiano Martinelli sono i primi Arlecchini conosciuti, Drusiano partì alla fine del '500 per una tournée in Spagna, mentre il fratello Tristano ebbe la buona ventura di essere incluso nella compagnia dei comici che il Duca di Mantova inviò nel 1600 alla corte di Francia per allietare le nozze di Enrico IV di Francia e Maria de' Medici. La compagnia, che si chiamava dei comici Accesi, era una compagnia particolare, perché per l'occasione dei festeggiamenti parigini era composta dal gotha dei comici italiani: fra questi Nicolò Barbieri in arte Beltrame, Piermaria Cecchini in arte Frittellino e altri comici famosi. Tristano Martinelli che non aveva la notorietà degli altri non tardò ad imporsi con lazzi particolarmente apprezzati dalla reale coppia e dai cortigiani. Spesso Arlecchino usciva di scena e dialogava col pubblico, accettava suggerimenti e la cosa spiacque non poco agli altri attori della compagnia degli Accesi. Il Cecchini decise quindi ad un certo punto di sciogliere la compagnia, ma il Duca di Mantova per tutta risposta nominò Arlecchino nuovo capocomico. La forte presenza scenica di Martinelli, Arlecchino come continuerà a firmarsi fino alla morte, fu sempre un ostacolo alla buona pace delle compagnie comiche. Altri arlecchini divennero molto famosi nel corso dei secoli, attori come Dominique Biancolelli e Tommaso Visentini ebbero gran fama ma uno dei più importanti arlecchini della storia del teatro fu senz'altro Antonio Sacco o Sacchi. In realtà il nome in arte di Sacco era Truffaldino ma è evidente che questa non è che una sottigliezza per evitare di essere confuso con un Arlecchino suo contemporaneo. Antonio Sacco è stato l'ultimo grande Arlecchino della Commedia dell'Arte, colui che ha incontrato sulla sua strada Carlo Goldoni che ha scritto tanti capolavori per il suo personaggio. La riforma goldoniana, però, prevedeva il lento declino delle maschere in scena fino alla loro pressoché totale scomparsa, ma Antonio Sacco trovò allora in Carlo Gozzi un estimatore dell'antica Commedia dell'Arte e Arlecchino continuò ad andare in scena almeno fino agli ultimi decenni del XVIII secolo. I nuovi Arlecchini Con l'inizio del XX secolo rinasce una certa curiosità per questa arte teatrale che ormai era definitivamente scomparsa, molti critici si occuparono della Commedia dell'Arte da Konstantin Miclaševskij ad Allardyce Nicoll da Silvio D'Amico a Benedetto Croce. Anche alcuni registi teatrali tentarono l'impresa di rimettere in scena il teatro delle maschere, ma il vero problema era trovare degli attori veramente capaci di esprimere le passioni col corpo perché nascosti dalla fissità della maschera. Fra i registi che riuscirono nell'intento citiamo i due più famosi: Max Reinhardt e Giorgio Strehler, ambedue scelsero la stessa opera cioè Il servitore di due padroni di Goldoni per rimettere in scena Arlecchino (Strehler cambiò il nome della commedia in Arlecchino servitore di due padroni). Questa commedia goldoniana era stata scritta per evidenziare la presenza scenica di Antonio Sacco che è il vero e proprio mattatore di tutta la vicenda, una commedia costruita ad hoc per un grande Arlecchino. Nonostante le difficoltà nel reperire attori all'altezza del ruolo, Reinhardt trovò in Hermann Thimig un grande Arlecchino e Strehler in Marcello Moretti e poi Ferruccio Soleri, due attori che hanno replicato per anni questa messinscena passandosi il testimone di Arlecchino come facevano anticamente i comici del '600. I lazzi di Arlecchino Se gli altri attori erano legati comunque ad un copione da rispettare, almeno nelle sue parti fondamentali, i servi (ovvero gli zanni), avevano generalmente via libera nell'interpretazione dei loro personaggi. La presenza scenica, i costumi che li caratterizzavano e davano una precisa riconoscibilità all'attore mascherato, obbligavano lo zanni ad usare più il corpo che non la semplice recitazione, come avveniva invece per gli innamorati o il capitano (altri due ruoli obbligatori nelle compagnie della commedia dell'arte). Vi erano comunque anche delle parti recitate e delle battute comiche improvvisate nel repertorio classico degli zanni che sono giunte fino ai tempi nostri. Padre Adriani, un ecclesiastico amante della commedia, isolò, in un suo libro del '600, tutta una serie di battute comiche riferite allo zanni napoletano per eccellenza cioè: Pulcinella. Pulcinella rappresentava nelle compagnie comiche dell'Italia centromeridionale l'alter ego del bergamasco Arlecchino cioè il personaggio del servo sciocco, colui che nel linguaggio della commedia dell'arte veniva definito col nome di secondo zanni, in opposizione al primo zanni che era invece il servo arguto, in Goldoni rappresentato da Brighella. Il lazzo cioè la battuta comica, lascia spazio ad una libera interpretazione, sia recitativa che corporea, agli zanni. Le varie testimonianze delle commedie dell'arte messe in scena durante tre secoli, cioè i canovacci raccolti spesso da chi assisteva alle commedie (fra le carte di Galileo, ad esempio, sono stato trovati due resoconti di commedie dell'arte alle quali l'astronomo aveva assistito), ma anche di chi le produceva e metteva in scena, sono testimoni di queste parti libere. La raccolta più nota, sia per la qualità dell'opera che per la fama, quasi leggendaria che avvolge la figura dell'attore-autore-capocomico Flaminio Scala in arte Flavio, è Il Teatro delle Favole Rappresentative che comprende ben 50 canovacci di commedie dell'arte da lui scritte. Oggi, data la scarsità dei documenti coevi a queste rappresentazioni, dei lazzi rimangono soltanto delle note lasciate alla libera interpretazione degli attori. Ciò che sappiamo è che la parola lazzo deriva probabilmente dall'italiano laccio, ma ci sono due diverse interpretazioni cioè: il lazzo è una battuta che conclude un'azione particolarmente comica quindi nell'accezione di laccio, inciampo, lacciulo o trappola creata dal comico per chiamare l'applauso. L'altra interpretazione vuole che il lazzo non sia che una battuta, o un siparietto comico, che interrompe una scena per farne partire una nuova come un'allacciatura tra due parti della commedia. Qualunque fosse la loro origine nello sviluppo dei canovacci rimane soltanto un accenno di ciò che realmente si svolgeva sul palcoscenico. Ad esempio la definizione del “lazzo della mosca” e tutti gli altri tipi di lazzo non sono meglio specificate in senso drammaturgico ma probabilmente ciascun attore aveva un repertorio personale per ciascun lazzo. Ad esempio proprio il lazzo della mosca è stato interpretato in due modi nettamente differenti, anche se in periodi lontani tra loro; nel primo, il più antico, Padre Adriani riporta una battuta di Pulcinella: Pantalone dice al suo servo Pulcinella di stare attento che nella casa dove c'è la moglie, come sempre giovane e bella, non entri nemmeno una mosca; al suo ritorno trova invece la casa piena di corteggiatori, chiedendo spiegazioni a Pulcinella questo risponde candidamente che non è entrata nessuna mosca bensì uomini. L'altro lazzo della mosca viene recitato dall'Arlecchino strehleriano Ferruccio Soleri, in questo caso il lazzo è soltanto corporeo, cioè l'inseguimento dello zanni perennemente affamato di una mosca: quando questi la cattura inizia tutta una serie di gag con le quali Arlecchino rivolgendosi al pubblico esprime la sua felicità a gesti e grida di gioia e durante il quale gioca con la mosca stessa prima di mangiarsela. Donne e secondi Zanni L'introduzione delle donne in scena fu una delle novità più importanti, e per l'epoca scandalose, della commedia dell'arte professionistica. Nelle feste per il matrimonio di Ferdinando I de' Medici e Cristina di Lorena, svoltasi a Firenze nel 1589, fu invitata a dare una rappresentazione la compagnia comica più famosa in Italia di quel periodo: la compagnia dei comici Gelosi. Questa compagnia era guidata da Francesco Andreini in arte Capitan Spaventa, ma la vera “star” dei Gelosi era sua moglie Isabella Andreini, che recitava con il proprio nome di battesimo, nel ruolo dell'Innamorata. Isabella pare fosse un'attrice di rara bellezza e non esitò nel concedersi alla vista dei cortigiani della festa in abiti succinti nella commedia, messa in scena per l'occasione, intitolata La pazzia d'Isabella. Fu proprio nella scena di Isabella resa pazza dall'amore che l'Andreini, per motivi scenici, si stracciò le vesti mostrando agli astanti ciò che fino a quel momento era impensabile si potesse mostrare in una rappresentazione teatrale. Fra gli altri comici Gelosi spiccano i nomi di Flaminio Scala in arte Flavio, colui che scrisse i 50 canovacci di cui abbiamo già accennato, sempre nel ruolo dell'Innamorato, e quello di Giovanni Gabrielli in arte Scapino (o Scappino) nel ruolo del primo zanni. Da questa testimonianza deduciamo che già alla fine del '500 l'antico Zanni, il protagonista delle incisioni della raccolta Fossard e degli affreschi di Trausnitz, si era sdoppiato nei due ruoli di servo arguto e servo sciocco (primo e secondo zanni). In fondo il suo personaggio veniva da lontano se si pensa alla filiazione coi più famosi buffoni di corte a Venezia dalla fine del '400 agli inizi del secolo successivo: Zuan Polo e Zuan Cimador (la bravura dei quali è citata anche da Pietro Aretino, nelle Sei Giornate, che riporta una sequenza comica, a due personaggi ma recitata dal solo Zuan Polo, in un teatro veneziano agli inizi del XVI secolo). Gli altri personaggi della commedia dell’arte Lo Zanni Zanni o zani, secondo le pronunce toscana e veneta, è un sostantivo comune derivato dal nome proprio Giovanni modificato dall'uso dialettale. Lo scenario geografico che ne accolse i natali è la Valle Padana dove le compagnie teatrali che qui erano attive nel XV secolo annoveravano questo tipo tra i loro personaggi. Zanni è il montanaro bergamasco emigrato a Venezia dopo la conquista di Bergamo da parte della Serenissima. Egli ha in sé tutti i caratteri dei servi latini. Il colore bianco dell'originale costume scenico si confermò nella Commedia dell'arte dove lo zanni fu il servo per antonomasia e ricoprì un ruolo di spicco. È ignorante e furbo, è sciocco e saggio, è dritto ed è gobbo, è capace di lamentarsi ma anche di ironizzare sulla propria sorte. Lavoratore e scansafatiche lo Zanni è sofferente alla sola disciplina delle botte e schiavo solo di una fame atavica, ancestrale, che si porta appresso anche dopo aver mangiato, quando ci riesce. Da questa maschera deriveranno in seguito tutti quegli zanni che si chiameranno Arlecchino, Truffaldino, Trappola, Pulcinella, Brighella… Il Dottore Tra i caratteri più importanti della commedia dell'arte troviamo il Dottore, dapprima Graziano (così erano chiamati coloro che utilizzavano un linguaggio dotto e ricercato) poi Baloardo, Balordo,infine Balanzone. Il suo linguaggio è il bolognese, la sua dottrina è salda ed erudita ma accompagnata da dicerie. Della parte del dottore ci dice Andrea Perrucci (1651-1704) nel suo celebre trattato Dell'arte rappresentativa premeditata e all'improvviso. “La parte del dottore non ha da esser tanto grave, servendo per le parti di secondo padre (quelle di primo erano riservate al Magnifico), ma per la vivacità dell'ingegno, per la soverchia loquela, può darsene qualche licenza ed uscire dalla gravità. Il suo linguaggio ha da esser quello bolognese, ma in Napoli, Palermo ed altre città lontane da Bologna, non deve essere tanto stringato perché non se ne sentirebbe una parola, onde bisogna moderarlo qualche poco… La dottrina del dottor Graziano ha da esser salda, erudita, ma accompagnata da dicerie…” È indubbio che la tradizione dei comici nei riguardi di questa maschera si è impossessata a tal punto di questo carattere fino a farlo apparire oggetto di satira contro i medici in genere e i dotti in particolare. Pantalone Pantalone è il tipo del mercante veneziano ricco e avaro. Il suo nome deriva da Pantaleone, cognome assai diffuso nella Venezia del tempo e ricorrente tra chi da sempre esercitava il mestiere della mercatura. C'è poi chi fa derivare questo nome da l'associazione del verbo pianta e dal simbolo di Venezia, il leone, alludendo all'abitudine dei veneziani di piantare il loro simbolo con stendardi ovunque giungessero. Abbietto schiavo del denaro, fino al punto di lasciar morire di fame i suoi servi (spesso zanni), era in perenne ricerca di ragazze giovani e carine, che si prendevano sistematicamente gioco di lui. Questa maschera è direttamente discendente di Pappus, personaggio della farsa atellana vecchio e babbeo. Nel corso degli anni, e con l'avvento della riforma goldoniana, Pantalone perderà man mano questi suoi caratteri negativi per assurgere il ruolo del vecchio saggio. Il Capitano Senza dubbio diretto discendente di Pirgopolinice “dal Miles Gloriosus di Plauto” a sua volta imparentato col greco Alazon. Il Capitano è la maschera del conquistatore vanaglorioso, interessato a portar via quello che può, più che al bene dei sudditi. Il suo desiderio di avventura era tale che spesso perdeva di vista il confine tra realtà, tra il fatto e l'illusione del fatto. Il Capitano parlava in spagnolo, in napoletano in francese, ma soprattutto parlava pomposo, spesso egli non ha un nome proprio, poiché per rendere il personaggio più popolare, veniva storpiato il nome del Capitano della piazza, dove la compagnia si trovava ad operare. Uno dei capitani più popolari della commedia dell'arte, era il Capitan Spaventa da Vall'inferna interpretato da Francesco Andreini, dal quale abbiamo attinto la tirata del nostro spettacolo. Gli innamorati Non mancava nella commedia dell'arte il momento dedicato alla poesia, gli Innamorati, Florindo, Lelio, Ottavio e cosi via, erano i più famosi del tempo, il loro comportamento usciva dai canoni di satira delle altre maschere e il loro intervento era un pretesto per i poeti e i narratori, per divulgare le proprie opere letterarie. Il loro linguaggio era colto ed erudito, spesso in dialetto toscano o in lingua. Tra i migliori interpreti ricordiamo Luigi Riccoboni nella parte di Lelio e Isabella Andreini nella parte dell'innamorata, la quale, in molte commedie, prenderà addirittura il suo nome. Colombina Nelle prime rappresentazioni della Commedia dell'Arte non esiste nessuna attrice con il nome d'arte Colombina, la vera Colombina (o Colombine alla francese) debutterà soltanto alla fine del '600 nel teatro parigino della Comédie-Italienne. Il testo più antico dove compare citato il nome di Colombina è: Cicalamento in canzonette ridicolose, o vero trattato di matrimonio tra Buffetto, e Colombina comici (1646) scritto dal celebre Buffetto. Il personaggio della Servetta era stato comunque uno dei ruoli presenti nella commedia dell'arte fino dalle origini sotto i nomi più svariati, la Servetta più antica risale alla metà del '500 e compare, con il nome di Franceschina (o Francesquine) nelle incisioni della Raccolta Fossard una delle principali testimonianze iconografiche della commedia dell'arte. Fra gli altri nomi della servetta vanno citati Corallina, interpretata sempre in Francia, da Anna Veronese figlia del capocomico Carlo Veronese che compare anche nei Memoirès di Carlo Goldoni, intorno alla metà del '700, Ricciolina (che compare già alla fine del '500 nella Compagnia dei comici Gelosi interpretata da Maria Antonazzoni), Spinetta, Smeraldina (che appare in Carlo Gozzi, ne L'amore delle tre melarance e ne Il servitore di due padroni, L'uomo di mondo e altre fra le prime commedie scritte da Goldoni) e talvolta anche come Arlecchina. Il personaggio di Marionette che compare nella Vedova scaltra di Goldoni è la versione raffinata di Colombina. Brighella È il compare di Arlecchino. Entrambi sono i servi della commedia dell'arte, ed entrambi sono nati a Bergamo. Brighella non fa solo il servo come Arlecchino, ma un'infinità di altri mestieri, più o meno leciti ed onesti. Così si ritrova sempre in mezzo a svariati intrighi. Elementi caratteristici del personaggio sono la prontezza e l'agilità della sua mente, per escogitare inganni e preparare trappole in cui far cadere il prossimo, tutto questo solo per il gusto stesso di imbrogliare gli altri. È intrigante, molto furbo e senza scrupoli. Brighella inoltre è un tipo bugiardo, racconta frottole con sicurezza e convinzione che è quasi impossibile distinguerle dalla verità. Inoltre è molto abile nel cantare, suonare e ballare. Viene raffigurato con la giacca e i pantaloni sono decorati di galloni verdi. Carlo Goldoni e la riforma del teatro Goldoni è autore di oltre 200 opere, ma la sua fama è legata alle commedie. Egli tentò di attuare una riforma avente lo scopo di portare in scena la verità della vita, servendosi della commedia, che è proprio il genere più vicino alla realtà di tutti i giorni. Obiettivi della riforma: • La commedia dell'arte si basava sulle maschere, cioè su personaggi stereotipati e fissi (era una commedia per tipi); Goldoni volle portare sulla scena dei personaggi veri, con una loro psicologia (commedia per caratteri); • La commedia dell'arte si basava su trame complicate e inverosimili; Goldoni voleva un teatro impostato sull'analisi psicologica dei personaggi, senza intrecci secondari; • La commedia dell'arte era a soggetto, cioè non scritta interamente e gli attori dovevano improvvisare; Goldoni scrisse interamente le sue commedie (commedie "distese" ); • Le ultime commedie di Goldoni sono corali: non c'è un eroe, ma il protagonista è l'intero gruppo. Quindi gli elementi della riforma sono: • Approfondimento psicologico dei personaggi • Realismo delle situazioni • Attualità delle problematiche • Un chiaro messaggio morale Le prime opere furono canovacci da commedia dell'arte; quelle successive, alcune scritte in dialetto veneziano, affrontano temi diversi legati ai contrasti interni della società del tempo, soprattutto tra borghesi ed aristocratici. Goldoni parteggia apertamente per i borghesi che sono la classe sociale in ascesa. Le prime opere ritraggono il mondo laborioso e intelligente della borghesia veneziana o quello vivace delle classi popolari; nelle ultime, scritte in Italia, è rappresentato il fallimento delle virtù borghesi. L'italiano di Goldoni era un misto tra lombardo e toscano, una lingua di convenzione. Nella loro edizione a stampa, le commedie, erano precedute da avvertimenti ai lettori e l'autore sottolineava la funzione educativa del testo. Si definisce Goldoni scrittore razionalista perché rifiutava il cattivo gusto (scherzi grossolani, battute volgari) della commedia dell'arte e aveva un atteggiamento analitico nei confronti dei personaggi. Egli è anche definito classicista perché le sue opere hanno una morale e le commedie si svolgono nell'arco di un giorno, sempre ambientate nello stesso luogo, prive di intrecci secondari (questo non tanto per imitare i testi classici, ma per non turbare le abitudini del pubblico). Goldoni vorrebbe vedere nella borghesia un simbolo di laboriosità, onestà, serenità, cortesia, libertà e cultura. A lui il mondo appariva uno spettacolo bello, anche se non mancavano elementi drammatici, ma è l'intervento del buon senso che fa evitare la tragedia. In questo atteggiamento ottimistico Goldoni si rivela illuminista ed è proprio grazie a questa corrente di pensiero e movimento culturale che egli imparò che i difetti altrui sono anche i nostri difetti. Carlo Goldoni Figlio di un medico di origini modenesi, nel 1719 raggiunse il padre a Perugia, dove iniziò gli studi di retorica e grammatica presso il locale Collegio dei gesuiti. Dopo un breve soggiorno a Rimini, nel 1723 si immatricolò al Collegio Ghislieri di Pavia per studiarvi giurisprudenza, ma dalla città lombarda venne espulso nel 1725 in seguito allo scandalo provocato da una sua satira contro le donne della città. Abbandonati gli studi di legge, li riprese nel 1727 a Modena per interromperli nuovamente poco tempo dopo. Richiamato dal padre a Venezia, si impiegò prima alla Cancelleria di Chioggia, poi in quella di Feltre. Nel 1731, alla morte del padre, riprese gli studi e si laureò quello stesso anno a Padova. Alla carriera forense affiancò ben presto l'interesse per il teatro, iniziando a collaborare nel 1734 con la compagnia del San Samuele a Venezia, impegno a cui affiancò nel 1737 la direzione del teatro San Giovanni Grisostomo. Nel 1741 accettò l'incarico di console della Repubblica di Genova a Venezia. Costretto a fuggire da Venezia per debiti, si stabilì a Pisa dove riprese la professione forense, che esercitò per tre anni. Nel 1748, su proposta del capocomico Girolamo Medebach, diventò autore stabile del teatro Sant'Angelo a Venezia. Nel 1753 passò al teatro San Luca dove restò fino al 1762, anno in cui si trasferì a Parigi per dirigere la Comédie Italienne. Nella capitale francese Goldoni, pur non ottenendo il successo sperato, restò fino alla morte. Le prime opere Le prime opere goldoniane sono ancora legate strettamente alle forme espressive del melodramma e della Commedia dell'Arte, della quale l'autore avrebbe conservato anche in seguito lo schematico tratteggio di certi personaggi minori e alcuni facili effetti comici. È con questi due generi dominanti che il giovane Goldoni si confrontò agli inizi della carriera: della sua prima opera in musica, Amalasunta (1733), si sa solo che venne bruciata dallo stesso autore ancor prima di essere rappresentata, mentre la tragicommedia Belisario (1734) inaugurò la sua collaborazione con la compagnia Imer del teatro San Samuele. Fino al 1738 Goldoni scrisse in esclusiva per il teatro veneziano intermezzi, drammi in musica e tragicommedie. Dopo questa esperienza lirica creò il primo personaggio nel Momolo cortesan (1738; rielaborata nel 1755 con il titolo L'uomo di mondo), commedia a soggetto tranne che per la parte del protagonista, interamente scritta. Rispetto ai canoni espressivi della Commedia dell'Arte, Goldoni sentiva già la necessità di rendere più dinamica l'azione delle maschere, liberandole da ruoli fissi e immutabili. L'operazione riuscì in parte già nella prima commedia scritta per intero, La donna di garbo (1743), all'interno della quale la struttura scenica conferisce nuovi impulsi all'intreccio e alla caratterizzazione psicologica e sociale dei personaggi. Le opere maggiori Durante il soggiorno toscano la produzione goldoniana subì una pausa; un momento felice fu l'incontro con Antonio Sacchi, il grande Truffaldino - una maschera dai connotati simili a quelli di Arlecchino - che gli suggerì la composizione di uno dei suoi capolavori, il Servitore di due padroni (1745, rielaborato nel 1753). Dopo il ritorno a Venezia, nel 1748, Goldoni cominciò la collaborazione con Girolamo Medebach presso il teatro Sant'Angelo. In questo periodo avviò il tentativo di rinnovare le forme espressive del teatro settecentesco, attingendo alla realtà quotidiana e a caratteri, passioni, atteggiamenti e comportamenti egli uomini per trasferirli sul palcoscenico; il tutto avveniva non più seguendo l'effetto estemporaneo dell'improvvisazione, ma secondo precise regole di rappresentazione scenica. Questo tentativo trovò realizzazione nella sfida delle "sedici commedie nuove" composte nella stagione 1750-51 e introdotte da Il teatro comico, una sorta di manifesto della sua riforma. Tra le più famose figurano, in lingua e in dialetto, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo, I pettegolezzi delle donne. La collaborazione con il Sant'Angelo si chiuse nel 1753 con un altro capolavoro, La locandiera (1753), che segnò il definitivo superamento della Commedia dell'Arte con la messa in scena di caratteri del tutto autonomi e indipendenti dalla fissità delle maschere. Dopo il successo della Locandiera, Goldoni sottoscrisse un contratto triennale con il teatro San Luca, conoscendo però un periodo di crisi artistica che culminò con la produzione di commedie mediocri, povere dal punto di vista sia del carattere sia dell'ambiente. È proprio ricorrendo all'ambiente del popolo veneziano che Goldoni ritrovò le forme di caratterizzazione dei personaggi e dell'azione alla base delle felici commedie dialettali in versi della stagione 1755-56, Le massere, Le donne de casa soa e Il campiello, nelle quali il colore dialettale del popolo crea un'originalissima coralità scenica. Dopo una breve pausa romana, Goldoni tornò a Venezia per avviare un'altra fertile stagione, a cominciare da Gli innamorati, messo in scena al San Luca nel 1759. Dal 1760 al 1762 scrisse i suoi capolavori "veneziani", in cui l'osservazione della società e dei caratteri si tinge di arguzia e di ironia senza mai scadere nella farsa, la scelta dell'italiano o del dialetto connota socialmente i personaggi e il linguaggio acquista una concretezza inedita nel panorama letterario e teatrale del tempo. Vita reale (mondo) e rappresentazione scenica (teatro) si fondono alla perfezione nell'ambiente veneziano, sia esso quello della borghesia mercantile di I rusteghi, La casa nova, Sior Todero Brontòlon, la Trilogia della villeggiatura (Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura), o quello popolare di Le baruffe chiozzotte. Invitato a dirigere la Comédie Italienne a Parigi, Goldoni si congedò dalla sua città con un commosso addio metaforico, Una delle ultime sere di Carnovale (1762). Gli ultimi anni Rimase a Parigi trent'anni. L'esperienza francese segnò il periodo meno felice della produzione di Goldoni, lontano dal suo mondo e dal suo teatro, dai quali aveva sempre attinto le proprie forme espressive. A Parigi, per andare incontro alle esigenze del pubblico, scrisse soprattutto scenari, dai quali, in alcuni casi, trasse commedie inviate poi a Venezia. Tra queste, la sola da ricordare è Il ventaglio, rappresentata con successo al San Luca nel 1765. L'ultima grande soddisfazione per Goldoni, che ormai aveva abbandonato l'idea di far ritorno in Italia, fu Le bourru bienfaisant (Il burbero benefico, 1771), scritta e rappresentata in francese, nella quale però il ben riuscito carattere del "rustego" parigino è assolutamente slegato dall'ambiente che lo circonda. Sempre in francese, Goldoni ha lasciato la sua autobiografia teatrale, i Mémoires (1787), ultimo conforto prima della morte, avvenuta in miseria, dopo che l'Assemblea legislativa aveva soppresso pochi mesi prima anche la sua modesta pensione di corte. Le fonti dello spettacolo Carlo Goldoni Il servitore di due padroni La vedova scaltra Il bugiardo La locandiera L’anello magico Carlo Gozzi L’augellin belvedere Francesco Andreini Tirata del Capitan Spaventa Flaminio Scala - Luigi Riccoboni e anonimi Vari lazzi da canovacci e scenari Nota allo spettacolo Questo spettacolo prende a pretesto i lazzi e le battute della più famosa maschera italiana per offrire una panoramica dei più significativi caratteri della commedia dell'arte italiana che hanno fanno innamorare il pubblico di tutto il mondo. A far da cornice ad un canovaccio ritrovato negli antichi bauli della famiglia Lelio, si alterneranno i più famosi e divertenti pezzi di teatro che i grandi autori ci hanno lasciato sulla commedia dell'arte. Brani tratti, tra gli altri, da Goldoni, Marivaux, Gozzi, Scala, Andreini e canovacci inediti, legati tra loro con sapienza, daranno vita ad uno spettacolo celebrativo sulla commedia dell'arte, sugli autori, gli attori e le formidabile trovate sceniche che questo importante periodo ci ha lasciato in eredità. La famiglia Lelio Sin dalla seconda metà del Seicento in Italia, e, lungo tutto il secolo dei lumi a Parigi, opero una famiglia di attori veneziani, i Riccoboni, che in comunanza con l’intellettualita francese, tento una prima riforma del teatro d’arte. I Riccoboni portarono tra l’altro a un grado di eccellenza il tipo Lelio, ossia la maschera Lelio, carattere dell’amante riamato, del corteggiatore corrisposto, del Don Giovanni senza inferno. Prima Luigi, poi Antonio (Riccoboni-padre e Riccoboni-figlio, meglio: Lelio-padre e Lelio-figlio) diedero vita a un personaggio talmente vivo e coinvolgente, da spingere alla scrittura drammaturgica Marivaux. Le loro dispute teoriche (vale a dire le divergenza tra Lelio-padre e Lelio-figlio sull’arte della recitazione) suscitarono d’altra parte il famoso Paradosso sull’attore dell’enciclopedista Denis Diderot, ritenuto la radice delle teorie brechtiane dell’estraneazione, oltre che un gioiello affascinante di lettura. Così il carattere Lelio, di recita in recita, acquisto tale rilevanza, da sovrapporsi e sostituirsi al nome degli interpreti e a quello della famiglia. Le generazioni successive dei Riccoboni e di tutte le ramificazioni infinite, assumendolo a identita, lo conserveranno come nome di culto, a indicare l’aristocrazia del teatro d’arte. Lo studioso Xavier de Courville, che cura la voce Riccoboni nell’enciclopedia dello spettacolo della Siae, individua il capostipite della famiglia d’arte in Antonio, che, divenuto attore per caso, dirige la compagnia del Duca di Modena, e, che per ben quarant’anni, fa con grande maestria la maschera di Pantalone. Siamo nella seconda meta del Seicento e ancora di Lelio non si parla. Il primo e piu grande Lelio dei Riccoboni (anche altri, come l’Andreini l’avevano interpretato e reso popolare) fu il figlio di Antonio, Luigi Andrea, nato a Modena nel 1676 e che morira a Parigi nel 1753. Luigi approda in Francia nel 1715, quando, morto Luigi XIV, è possibile il ritorno degli attori italiani a Parigi. La Troupe des italièns recita all’Hotel de Bourgogne. Luigi aveva fatto l’apprendistato nella compagnia del padre e giovanissimo aveva maturato un rifiuto di certa sciatteria della commedia dell’arte, oscillante tra la farsa grossolana e la tragicommedia spagnola. Gia in Italia si era rivolto ai testi d’autore (Maffei, Moliere, Ariosto). Adesso in Francia, dove porta a livelli di alta dignita scenica il tipo Lelio, scrivono per lui una miriade di autori francesi poi cancellati dall’oblio. Ma tra di essi c’e anche un genio assoluto, Pierre Carnet de Chamblain de Marivaux. Nelle varie surprises del’amour il personaggio centrale e Lelio. Nel 1726 Luigi ha cinquant’anni ed e stanco della pratica di palcoscenico. Da allora alla morte si dedica alla sua passione parallela, gli studi sul teatro. La sua posizione teorica e vastissima e considerata dagli esperti di altissimo livello. L’Histoire du theatre italien (Paris, 1728) e tuttora una fonte irrinunciabile per gli studi sulla commedia dell’arte. Nell’Arte rappresentativa (London, 1728) si occupa della formazione dell’attore e fissa nella sincerita i principi della recitazione: l’attore deve dimenticare se stesso e il pubblico e vivere il personaggio. Nella Reformation du theatre (Paris, 1743) delinea quella che poco piu tardi sara la riforma goldoniana, il rigore dei testi scritti contro la recitazione all’improvviso, un teatro in versi senza maschere. Nel gia citato anno dell’abbandono (1726) gli subentra come capocomico il figlio Antoine Francois Valentin, che era nato a Mantova nel 1707 e che morira a Parigi nel 1772. E questi Lelio-fils, che verra ricordato soprattutto per il lavoro teorico. Nell’ Art du theatre, riprende e ridisegna i principi del padre sulla recitazione. D’accordo sulla sincerita, ma nel totale dominio dei mezzi tecnici. Denis Diderot era assiduo agli spettacoli del italiens e nelle Oeuvres completes cita le discussioni sulla tecnica teatrale con Madame Riccoboni, Marie Jeanne de la Boras, moglie di Lelio-figlio. Il Paradoxe sur le comedien (Paris, 1770) nasce da questa frequentazione e dalle dispute tra Lelio-padre e Lelio-figlio. In che consiste il paradosso? “E l’estrema sensibilita che fa gli attori mediocri; e la sensibilita mediocre che fa l’infinita schiera di cattivi attori; è l’assoluta mancanza di sensibilita che prepara gli attori sublimi”. Il secolo dei lumi si chiude con ben altro tipo di attori e di teatro. Verosimilmente dispersi dalle furie della Rivoluzione francese, della troupe des italiens e dei Lelio per decenni non si trova traccia. C’e un vuoto che si estende quasi alla prima meta dell’800. Ed ecco, intorno al 1840, un Giuseppe Lelio, maestro di Cappella alla Corte di Napoli. Da questo momento, per sette generazioni sino a Federico, Francesco e Rita, la storia dei Lelio riacquista un suo profilo preciso. La Francia, l’Hotel de Bourgogne e le opere di Lelio-padre e Lelio-figlio sono memoria storica, orgoglio di famiglia, sentimenti incisi in un ideale stemma di discendenza. E il caso d’accennare al fascino che esercitavano gli “artisti” sui borghesi. Per secoli la Chiesa e lo Stato, in combutta tra loro, emisero bolle, bandi, editti e anatemi contro i comici, considerati sorta di stregoni e contro le compagnie teatrali viste come sette. Gli attori non potevano essere seppelliti in terra consacrata, non c’e chi non lo sappia. Il Taviani (“Fascinazione e Teatro”, edizioni Bulzoni) riporta, fior da fiore, alcune di queste invettive. Quel che veniva considerato insopportabile dal potere del tempo era soprattutto la presenza in scena delle donne, intente a rappresentare i sentimenti umani, sino all’amore e alla lasciava. Il Cocchiera, nel suo studio sulle Vastasate (Palermo, 1926) ricordava come molti rampolli di buona famiglia si consumavano dietro le attrici dei casotti al Piano della Marina. Tornando ai Lelio, i matrimoni e le conseguenti ramificazioni dilatano a dismisura le discendenze di questi ultimi centocinquant’anni. Per necessita di fatto abbiamo perciò seguito più direttamente la linea che porta a Rita, Federico e Francesco. Il Giuseppe Lelio Musicista dei Borboni sposa una Franzoni primattrice e capocomica della omonima compagnia, che dal nord scese a Napoli per recitare alla Corte. Dalla loro unione nasce Domenico, detto anche il Franzonello. Con lui il teatro torna ad essere l’attività primaria dei Lelio. Domenico sposa un’attrice tedesca, Carlotta Richard. Con lei forma compagnia. Muore a Scicli, dov’è sepolto, nell’ultimo scorcio dell’800. Carlotta muore a Palazzo Adriano, in provincia di Palermo, durante una tournee ed e sepolta in quel cimitero. Da Domenico Lelio e Carlotta Richard nascono molti figli, tra cui Francesco, che formera una sua compagnia. Allora il repertorio era vastissimo. Una compagnia di giro sostava per mesi su una piazza ed era in grado di cambiare spettacolo ogni sera. I generi erano i più diversi: si passava dal dramma alla commedia, al vaudeville, alla parodia del melodramma, alla farsa. Francesco sposo Giovanna Rizzotto, figlia di Giuseppe Rizzotto (Palermo, 1828 – 1895) attore, scenografo e noto autore del dramma I mafiosi de la Vicaria , opera teatrale che per la prima volta nella letteratura mondiale utilizza la parola “mafia”. L’unione di Francesco con Giovanna da vita a quattro figli: Ulrico, Ida, Ugo e Giulio. Ugo Lelio, attore di inconfutabili doti artistiche, dopo aver recitato per anni nella compagnia siciliana di Angelo Musco e Rosina Anselmi ed essersi nel contempo sposato con Giuditta Morosi (anch’essa attrice) forma una compagnia con la quale girerà tutta l’Italia. I figli di Ugo sono Giovanna e Salvatore che, dopo le prime esperienze al fianco del padre come attore e come scritturato in varie compagnie, decide di formare una sua compagnia, della quale curerà la direzione artistica per circa un ventennio. In compagnia arrivano due fratelli, Lea e Gastone Libassi, che sposeranno rispettivamente Salvatore e Giovanna. Dall’unione tra Salvatore e Lea nascono poi quattro figli dei quali Ottorino e il secondogenito. Essi iniziano la loro attività teatrale proprio nella compagnia del padre, che si stabili definitivamente in Veneto agli inizi degli anni settanta. Attori dalla nascita vedono la compagnia di famiglia “Gruppo 10” sciogliersi a meta degli anni ottanta, proprio nel pieno del suo successo. Dopo alcuni anni, e varie esperienze nei teatri veneti ed italiani, Rita decide di fondare coi figli Federico e Francesco l’associazione Gruppo Panta Rei, che, partendo dalle importanti radici teatrali della famiglia, intende dar vita ad un nuovo modo di concepire il teatro per le famiglie d’arte. Essa affronta testi inediti e moderni con un approccio significativo alle scuole e al pubblico giovane. Per approfondire La commedia dell'arte – Vito Pandolfi, 1956 Memoires – Carlo Goldoni