314
Amadeus
ANNO XXVIII - GENNAIO 2016
Il mensile della grande musica
ANNO XXVIII - NUMERO 1 (314) GENNAIO 2016 EURO 11,00 MENSILE POSTE ITALIANE SPED. IN A. P - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, LO/ MI
Musica&Giubileo / Quartetto Italiano / Shakespeare / Michieletto / Grubinger / Bauermeister-Stockhausen
Musica e Giubileo
CD1 ESCLUSIVO
Cantare con giubilo
Cappella musicale
del Duomo di Milano
CD2 download
Trio Kanon
In tre per Beethoven
Amadeus
Anniversari
William Shakespeare
Registi d'oggi
Damiano Michieletto
Storia&Storie
Il Quartetto Italiano
Cappella musicale
del Duomo di Milano
60001
9 771120
454004
numero 314 gennaio 2016
€ 11,00
2 Amadeus
Amadeus 3
AGORÀ
Wolfgang Amadeus Mozart
Le Serenate
Accademia Litta
Carlo De Martini, concertazione
Cofanetto 6 cd + booklet con guida all'ascolto
a soli 25 euro
Una raccolta speciale da collezione
con tutte le Serenate del grande compositore austriaco.
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gli amanti della grande musica.
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o chiamando il numero 02 4816353
Una porta aperta
A
bbiamo già avuto più volte il privilegio di ospitare la firma di Sua Eminenza Gianfranco Ravasi
sulle pagine di Amadeus: “Pietre, spade, vomeri” è il titolo di un suo prezioso contributo
per uno Speciale Amadeus dedicato a Gerusalemme, «sposa contesa materialmente e
spiritualmente». Era il dicembre del 2005, esattamente dieci anni fa. Un bel tratto di tempo, se
misurato col metro dei comuni mortali, ma poco più di un batter di ciglio se il metro è quello delle
Sacre Scritture. Un batter di ciglio che oggi ci mostra contese (o guerre) non solo per Gerusalemme, ma
per tutto il Medio Oriente e buona parte dell’Africa. A distanza dunque di “soli” dieci anni e solo per un
evento fuori dalla portata del nostro normale lavoro di cronisti della musica ritorna l’illustre firma (la
trovate a pag. 20). E quale evento è più importante di un Giubileo per il mondo cristiano? L’Anno Santo
della Misericordia, proclamato da Papa Francesco, è stato inaugurato il 29 novembre lontano da Roma,
nel cuore dell’Africa, dove regna la guerra e la misericordia sembra un sentimento assente. Il Papa con un
semplice gesto –­­ la Porta Santa aperta a Bangui – e con semplici parole «Vinca l’amore e non le armi», ha
voluto ricordare a un mondo distratto che il terreno fertile per la misericordia si trova là dove più si soffre.
Una copertina e un disco dedicati al Giubileo
proclamato da Papa Francesco. Contro
il pericoloso silenzio di un mondo senza musica
Ma, come disse Heinrich Heine, «dove finiscono le parole inizia la musica», e poiché di musica ci
occupiamo, per celebrare l’anno del Giubileo abbiamo ripercorso la storia della Cappella Musicale
del Duomo di Milano con l’aiuto di monsignor Claudio Burgio, direttore della prestigiosa istituzione.
Il risultato è il cd che avete tra le mani: una registrazione che, a volo d’uccello, ci presenta alcuni dei
protagonisti della compagine vocale che, dal 1400 ai giorni nostri, è stata la colonna sonora della vita
religiosa della cattedrale. Ascoltando queste composizioni abbiamo avuto l’ennesima conferma di come
il linguaggio musicale sia per tutti, credenti o meno, la via più diretta per tradurre le parole in preghiera
e tensione spirituale. Ma, come ci ricorda lo stesso Cardinal Ravasi, più che la mancanza delle parole è
la mancanza di musica che spaventa gli uomini. In conclusione del suo scritto cita Cassiodoro, scrittore
cristiano del VI secolo, che ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà
senza musica». Altri prima e dopo di lui hanno ritenuto che l’assenza della musica potesse essere
considerata una punizione: Ulisse per esempio quando, tornato a Itaca fa strage dei Proci, risparmia
soltanto Femio, il musico; più tardi Cicerone affermerà che «una vita senza musica è come un corpo
senz’anima», mentre Nietzsche giudica «un errore un mondo senza musica». Potremmo continuare
all’infinito. Anche Amadeus vuol dare il suo piccolo contributo per impedire il pericoloso silenzio
di un mondo senza musica e per far suo il messaggio di pace del Papa affidandosi alle voci dei cantori
(in maggioranza voci bianche) della Cappella del Duomo di Milano.
Gaetano Santangelo
Amadeus 5
CONCERTI/
ABBONAMENTI
DALL’1 DICEMBRE 2015
OPERA E DANZA /
ABBONAMENTI
DALL’11 NOVEMBRE 2015
MICHELE MARIOTTI Beethoven
ATTILA Giuseppe Verdi
NIKOLAJ ZNAIDER Brahms, Schumann
VANGELO opera contemporanea Pippo Delbono
MICHELE MARIOTTI Mahler
CARMEN Georges Bizet
JONATHAN STOCKHAMMER Brahms, Haydn, Nielsen
IL BARBIERE DI SIVIGLIA Gioachino Rossini
NIKOLAJ ZNAIDER Rihm, Berg, Schubert
LE NOZZE DI FIGARO Wolfgang Amadeus Mozart
Al Manzoni
LUCI MIE TRADITRICI Salvatore Sciarrino
DMITRI LISS Dvořák, R. Strauss, Čajkovskij
TITANIC Maury Yeston
MARIO VENZAGO Beethoven, Bruckner
CONVERSAZIONI CON CHOMSKY 2.0 Emanuele Casale
JURAJ VALČUHA Brahms
RIGOLETTO Giuseppe Verdi
MICHELE MARIOTTI Beethoven, Mahler
WERTHER Jules Massenet
JURAJ VALČUHA Webern, Janáček, Taneev
EL AMOR BRUJO el fuego y la palabra La Fura dels Baus
ALEXANDER LONQUICH Mozart, Prokof’ev
CARMEN K (KIMERA) Artemis Danza
AZIZ SHOKHAKIMOV Poulenc, Prokof’ev, Chačaturjan
EMPTY MOVES (PARTS I, II & III) Ballet Preljocaj
Festival
KISS & CRY Michèle Anne De Mey & Jaco Van Dormael
BOLOGNA MODERN Festival per le musiche contemporanee
ORCHESTRA, CORO E TECNICI DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
INFO
FABIO BIONDI Mozart
051-529958
I CONCERTI TORNANO AL TCBO GRAZIE A
T C B O. I T
MICHELE MARIOTTI Beethoven, Mahler
Grandangolo
Uno xilofono di ghiaccio. E violini, viole, violoncelli, contrabbassi, un banjo, un mandolino, chitarra, batteria
e varie percussioni tra cui una sorta di gigantesco flauto di pan. Sono gli strumenti interamente costruiti a mano
dall'artista "glaciale" Tim Linhart, fondatore di Ice Music nel suo laboratorio di Luleå, città marittima
nella Lapponia svedese. Sono delicatissimi, crearli richiede pazienza estrema e la giusta temperatura perchè
il ghiaccio possa essere scolpito senza rompersi. Anche la Ice Orchestra deve maneggiarli con estrema cura:
i violini vengono suonati mentre sono appesi al soffitto e un guscio di plastica protegge le parti più sottile
dal calore del respiro dei musicisti (continua a pag.8).
Foto di Graeme Richardson-Ice Music
A Luleå, d'inverno è sempre buio e la temperatura scende sino - 16°. Nell' ex cantiere navale
di Gültzauudden, che oggi è un parco attraversato da sentieri di ghiaccio, due grandi igloo
trasformati in una sala da concerto per 200 persone ospitano ogni anno da metà gennaio
a metà marzo i concerti di Ice Music. Atmosfera magica, illuminata con i colori dell'aurora
boreale, ventilazione, temperatura costante di - 5°per preservare gli strumenti, musicisti
e pubblico in giacca a vento, guanti e cappello, programmi che vanno dalla classica
alla contemporanea, dal jazz al folk. Info: icemusic.se
T H E R O YA L B A L L E T
SOMMARIO
5
Agorà di Gaetano Santangelo
6Grandangolo
15 Il lettore
16Quattro/quarti di Michele dall’Ongaro, Giovanni Gavazzeni, Giordano Montecchi, Giorgio Pestelli
20
IL DISCO
“Cantate cum jubiloˮ
32
di Gianfranco Ravasi
Cappella Musicale del Duomo di Milano
di Andrea Milanesi
IL DOWNLOAD
Trio Kanon di Claudia Abbiati
35 IN SCENA
Anteprima
La critica
54
Quartetto Italiano: Borciani, Pegreffi, Rossi e Forzanti, poi Farulli
e Asciolla. Tra fatture e ricomposizioni il racconto di 30 anni
di straordinaria musica d'insieme, alla ricerca della perfezione
AMORE E MAESTRIA SU UNA MUSICA INCANTEVOLE
RHAPSODY
OSIPOVA | STEVEN MCRAE
MUSICA SERGEY RACHMANINOFF
CON NATALIA
THE TWO PIGEONS
CUTHBERTSON | VADIM MUNTAGIROV | LAURA MORERA
MUSICA ANDRÉ MESSAGER | ARRANGIAMENTI JOHN LANCHBERY
COREOGRAFIA FREDERICK ASHTON | DIRETTORE D’ORCHESTRA BARRY WORDSWORTH
CON LAUREN
IN DIRETTA AL CINEMA IL 26 GENNAIO - ORE 20:15
www.rohalcinema.it
12A è il grado di censura previsto dal British Board of Film Classification per tutti gli spettacoli: tutti i minori di 12 anni devono essere accompagnati da un adulto
Vadim Muntagirov as The Young Man and Lauren Cuthbertson as The Young Girl in The Two Pigeons (©2015 ROH. Photographed by Bill Cooper)
53 Appunti
54 Storia&Storie: Quartetto Italiano
di Gregorio Moppi
58
Anniversari: William Shakespeare di Massimo Rolando Zegna
63
Damiano Michieletto di Valerio Cappelli
68
Martin Grubinger di Luigi di Fronzo
72
Bauermeister & Stockhausen
75
Tendenze: Cambio vita di Edoardo Tomaselli
80
Antica di Massimo Rolando Zegna
81
Musicaoggi di Paolo Petazzi
82
All’opera di Emilio Sala
83
Danza di Valentina Bonelli
di Federico Capitoni
58
William Shakespeare: a quattro secoli dalla scomparsa,
i rapporti del grande drammaturgo inglese con la musica,
elemento indissolubile nella rappresentazione delle sue opere
SOMMARIO
84
Jazz di Franco Fayenz
86 Fuoritema di Riccardo Santangelo
I nostri Club pluripremiati vi offrono un mondo di
sport & benessere che dura una vita.
87 Fondazione Amadeus
88
Education di Carlo Delfrati e Pietro Dossena
90
Note di viaggio di Luigi di Fronzo
92
Note d’arte di Flaminio Gualdoni
94
Mecenati di Edoardo Tomaselli
96
A tavola con Falstaff di Ambrogio Maestri
99
LIBRI
99
Lo scaffale di Paola Molfino
102 Hi Tech di Andrea Milanesi
106 News in studio di Giuseppe Scuri
109 DISCHI
Nessuno vi offre sport &
benessere come noi
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ridurre lo stress, perdere peso o semplicemente
sentirvi al meglio, scegliete il Club che vi permette di
raggiungere i risultati.
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sentirete la differenza in 90 giorni *
63
Damiano Michieletto: amato contestato, desiderato, invidiato,
è il regista del momento. Lui rifiuta etichette, cerca lo stupore,
raccontando storie eterne con la lingua del nostro tempo
CD 1
CANTATE CUM JUBILO
La Musica del Giubileo
nel Duomo di Milano dal Canto
ambrosiano ai giorni nostri
119 Imperdibili di Gianluigi Mattietti
CAPPELLA MUSICALE
DEL DUOMO DI MILANO
don Claudio Burgio, direttore
120 CALENDARIO
guida all’ascolto
di Emanuele Carlo Vianelli
130 La conversazione di Alessandro Cannavò
CD 2 in download
LUDWIG VAN BEETHOVEN
Trii per pianoforte e archi op. 70 n. 1 “I fantasmi”
e op. 97 “L'arciduca”
Trio Kanon
codice TK314LB16
Amadeus
Periodico di cultura musicale edito da Bel Vivere S.r.l.
Anno XXVIII numero 1 (314) gennaio 2016
Direttore responsabile Gaetano Santangelo
In copertina, Cappella del Duomo di Milano (Foto di Bruno Pulici)
amadeusonline.net
T: 02 45 28 677
aspria.com
* Iscrivetevi questo mese e utilizzate la nostra garanzia di soddisfazione
valida 90 giorni.
IL LETTORE
SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE.
REFLEX
Restare “giovani”
R
Le avventure degli archeologi divorati dalla febbre della ricerca: dalla città Z in Amazzonia all’El Dorado dei conquistadores, dal furto della
“Natività” di Caravaggio all’arte trafugata dai nazisti. E inoltre: Re Davide, fantasma biblico; i regali sotto l’albero dei bisnonni; la Spagna
dei califfi, D’Annunzio, Maria Antonietta.
FOCUS STORIA. OGNI MESE LO SPETTACOLO DEL PASSATO.
Disponibile anche in versione digitale su:
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isulta difficile nel nostro Paese
stabilire a che età un concertista
cessa di essere un giovane interprete.
Forse sarà perché, a quanto si dice,
non ci sono più le mezze stagioni e
ne consegue che anche le stagioni
della nostra età hanno perso punti di
riferimento certi. In campo musicale
sorge spontanea la domanda: quando
un giovane interprete finisce di essere
giovane per essere solo un interprete?
Dove collochiamo quelli che sono
usciti vincitori da competizioni
internazionali da molti anni e quelli
che hanno già intrapreso la carriera
concertistica dimostrando di avere tutti
i numeri per emergere dalla palude
che diversamente potrebbe diventare
una trappola da cui è difficile uscire?
Non sono, a tutti gli effetti, interpreti
e basta? Il trentenne o quarantenne
che ha appena concluso una tournée
internazionale è sì un giovane
interprete, ma è ancor più un artista
che sta facendo carriera. Il fatto che in
Italia sia ancora sconosciuto, o quasi,
non può giustificare che lo si consideri
ancora giovane nonostante sfiori i
40? Non è per caso un alibi volto a
giustificare la nostra ignoranza?
In un paese come l’Italia dove c’è scarsa
cultura musicale il giovane interprete
farà sempre più fatica a imporsi. E
anche l’età per entrare tra gli artisti
dove all’aggettivo giovane si sostituisce
l’aggettivo grande o prestigioso si sposta
in avanti. Continuerà a essere un giovane
interprete in attesa che il terreno che si
trova davanti si liberi dai mostri sacri
che occupano ancora la scena e, come
è giusto, non hanno nessuna intenzione
di farsi rottamare. Tra le cause che
determinano questo stato di cose ve n’è
una di fondamentale importanza: in
Italia manca uno dei fattori trainanti per
la carriera di un musicista: un’industria
discografica degna di tal nome. Le cause
sono molteplici, ma la più importante
è certo quella che deriva dalla scarsa
educazione musicale, che rende un
deserto il mercato della musica nel Paese
che alla musica ha dato i natali. Poi
forse c’è un’altra inconfessata ragione: i
“giovani”, si possono anche pagare poco.
Penuria di pubblico:
questione di numeri
o di cultura?
Caro Direttore,
su Amadeus di ottobre Oreste Bossini stigmatizzava, giustamente, i vuoti
in Scala per il concerto in agosto della Boston Symphony Orchestra diretta
da Andris Nelsons (Sesta di Mahler),
due nomi di alto profilo artistico,
nell’ambito del contributo scaligero a
Expo. Tre mesi dopo, in occasione di
una replica domenicale del Wozzeck,
chi scrive è stato testimone di una situazione analoga. Mortificante per un
Teatro che ambisce a essere il migliore del mondo. L’articolo conteneva
altre considerazioni, la più importante
delle quali era forse questa: «Si ha la
sensazione di avvertire uno scollamento della Scala dalla vita della città». E poco più avanti chiedeva se non
«sia necessario anche per la Scala
stringere una nuova alleanza con il
pubblico del territorio». In realtà, questo pubblico non esiste; o meglio, c’è
ma è fatto in prevalenza di sponsor,
stranieri, frequentatori per diritti acquisiti di varia natura, addetti ai lavori, che
appaiono interessati in prevalenza
alla Scala come sede non di cultura da
vivere ma di evento da consumare, al
quale non si può mancare. Può interessare a questo pubblico una grande
Orchestra internazionale o un’opera
come quella di Berg ritenuta “difficile”
perché estranea al repertorio italiano,
di cui nessuno contesta il valore ma
nel quale non si risolve la cultura musicale e ritenuto poco impegnativo
all’ascolto? Tutto questo andrebbe
bene se si parlasse di un Teatro privato e non di un Teatro che riceve sostanziosi contributi pubblici per il suo
consistente budget (120 milioni nel
2015). Ma in discussione non è tanto,
o non solo, la programmazione bensì
il marketing: dovrebbe essere compito suo scovare titolo per titolo, progetto per progetto, i diversi “pubblici”, che
pure esistono, liberandosi finalmente
del dogma che la Scala si “vende da
sola”, come una qualsiasi griffe o ristorante di lusso.
In chiusura, Bossini definisce “scriteriati” gli otto milioni di euro spesi da
Expo per lo «spettacolo del Cirque du
Soleil». In verità gli spettacoli, belli,
sono stati più di centoventi in quattro
mesi per oltre 400.000 spettatori.
Scriteriato, casomai, è stato farsi carico del progetto Feeding Music (a che
costo?), fuori target in quel contesto
internazional-popolare come la scarsa
affluenza di pubblico ha evidenziato,
e affidarne i 18 concerti solo a due
Ensemble locali. Ettore Napoli
Riassumendo, la domanda che sta
dietro all’Agorà di Oreste Bossini
(Amadeus n. 311) e alla lettera di
Ettore Napoli (qui riprodotta) è: come
è possibile che una proposta come
l’esibizione della Boston Symphony
Orchestra diretta da Andris Nelsons
ai Proms di Londra richiami 6.000
spettatori e a Milano, lo stesso programma, la Sinfonia n. 6 di Mahler,
non riesca a metterne insieme, in uno
dei teatri più prestigiosi del mondo
e con una manifestazione come
Expo2015 in corso, i 2.000 spettatori circa, sufficienti a riempire Palchi,
platea e gallerie? E quanti spettatori
dovrebbe richiamare un’opera come
Wozzeck, composta da Alban Berg
nel 1922 e prossima ai cento anni di
vita? Anche se non è mia abitudine
fare scommesse, posso azzardare
un’ipotesi: a Vienna, a Londra o a
Parigi registrerebbe il tutto esaurito,
come da noi La bohème o La traviata.
Pur non concordando tra loro sulle
motivazioni che determinano la latitanza del pubblico in occasioni praticamente imperdibili, i numeri sono
numeri e almeno su questi Bossini e
Napoli sono d’accordo. Il problema
si presenta in tutta la sua gravità se
consideriamo che quanto lamentano
i nostri collaboratori si potrebbe tranquillamente estendere alla maggior
parte delle sale da concerto italiane: programmi ripetitivi per volontà
della platea e calo inarrestabile di
spettatori. Vorrei porre a Napoli e
a Bossini una domanda: non è che
per caso si tratta semplicemente di
un fatto puramente culturale? Siamo
o non siamo, nonostante i proclami
governativi, il fanalino di coda per
investimenti in cultura, siamo o no al
penultimo posto tra i 27 paesi europei nella classifica degli investimenti
per l’istruzione? Vorremmo che qualcuno ci rispondesse con argomenti
seri dimostrando che questa è solo
un modo per praticare lo sport nazionale più diffuso: parlare male del
Governo. A noi non basta più che
continuino a raccontarci che è stato
aumentato il Fus di x milioni di euro,
aumento che non copre neppure la
perdita di valore della moneta europea di questi anni. Se abbiamo il più
imponente patrimonio culturale del
mondo è nostro dovere proteggerlo
e valorizzarlo: vorremmo che una volta per tutte il ministero della cultura
fosse collocato al primo posto per importanza e investimenti. Forse poco
per volta si riempirebbero i vuoti che
lamentano Bossini e Napoli.
Gaetano
Santangelo
Lettere al Direttore
[email protected]
facebook.com/Amadeus.Rivista
twitter.com/AmadeusOnlineIT
Amadeus 15
[email protected]
I
Jeu de cartes
Cronaca minima
C’è musica su Marte
Repert(or)i
CHE
FARE?
UNA POLTRONA
PER RAVELLO
PERDERE
LA PACE
VELATA
SINFONIA
Michele dall'Ongaro
Giovanni Gavazzeni
Giordano Montecchi
Giorgio Pestelli
l Grande Pianista ed io ci guardiamo perplessi.
Il suo concerto cade proprio il giorno dopo la
strage di Parigi e condividiamo l’esigenza di dire
qualcosa al pubblico. Dopo averci pensato un po’
ripieghiamo, non senza frustrazione, sul tradizionale
“minuto di silenzio”. La sensazione è che la musica,
la “nostra” musica, possa fare ben poco. È vero: dove
si soffre spunta inevitabilmente un canto nato per
consolare, incoraggiare, spronare le vittime. Peccato
che, specularmente, se ne oda un altro che sostiene,
rincuora e fomenta i carnefici. Coloro che intonavano la
Nona di Beethoven a Terezín adoravano quella partitura
quanto chi applaudiva prima di spedire gli interpreti
nei campi di sterminio. Un bel giorno non si eseguì
più perché erano scomparsi tutti. Questa volta c’è una
novità poiché l’attuale “nemico” odia gran parte della
musica che abitualmente ascoltiamo, i generi e i contesti
a noi più familiari (come ad esempio un locale come il
Bataclan). Quindi la musica in sé (ad eccezione delle
forme “raccomandate” o “encomiabili”) è o dovrebbe
essere antagonista. È sufficiente per restituire alla
musica un significato “politico” senza distinzione di
generi e schieramenti? Non ho una risposta ma penso
alle contraddizioni che dibattiti di tal genere, quasi
esclusivamente in Italia, hanno sollevato confondendo
progressismo (esistente in politica) e progresso
(inesistente in arte). A causa di queste contraddizioni
si è arrivati a bollare come reazionario un socialista,
militante per i diritti civili degli omosessuali come
Benjamin Britten ed esaltare il progressismo di Anton
Webern, geniale totem della Neue Musik quanto fervente
e perfino patetico ammiratore (non ricambiato) del Terzo
Reich. Che l’equazione facesse acqua alfine si è capito,
come pure che due straordinari protagonisti del pensiero
musicale del Novecento potevano sopravvivere a tutti i
fraintendimenti possibili. Compresi i peggiori.
16 Amadeus
4/4
4/4
I
l vento delle dimissioni (che soffia così di rado
sulla Penisola), dopo aver spazzato i vertici
MiTo, fra Milano e Torino, è soffiato come
tramontana sulla meravigliosa Costiera Amalfitana.
Il Presidente di Ravello Festival, designato da pochi
mesi, il sociologo molisano Domenico De Masi, già
occupante la suddetta carica per due mandati nell’evo
bassoliniano, si è dimesso, insieme a una trojka di
consiglieri. Lettere, verbali, nomine mancate, conti
in sofferenza, risorse mancate, vengono addotti come
impedimenti alla realizzazione del grandioso progetto:
«fare di Ravello una Salisburgo del Sud-Europa,
destagionalizzando il turismo».
Ambizione che partiva con qualche diversità rispetto
al modello austriaco. Alla fondazione e al direttorio
del Festival di Salisburgo, invece del sociologo di
Rotello (CB) e dei suoi collaboratori, attesero artisti
e intellettuali che si chiamavano Richard Strauss,
Max Rheinhardt, Hugo von Hofmannsthal, Alfred
Roller, Franz Schalk, Stefan Zweig. E soprattutto
era residente nel periodo festivaliero l’Orchestra
Filarmonica di Vienna, già allora una delle migliori
del mondo. Tutti i maggiori direttori d’orchestra
della storia moderna, da Toscanini a Bruno Walter,
da Furtwängler a Karajan, da Solti a Muti, ebbero a
disposizione per i concerti e le opere in cartellone
questa formazione unica. Senza questo strumento, il
sogno di un Salisburgo mediterranea diventa utopia,
abbaglio, velleità, a seconda dei punti di vista.
Non è la prima volta che il salto del banco viene
determinato più dal risiko delle poltrone che
dall’opposizione a illuminati quanto vasti programmi
socio-culturali. Per ora ci sono i conti dei fornitori
da pagare e una nuova short list di “governanti”
da nominare. Storia italiota esemplare: il naufragio
prima del varo.
S
tavo giusto preparando un testo sul kamancheh
e/o rebab, cioè il violino di quella parte di mondo
che si estende dal Nord Africa fino alle regioni
transcaucasiche e oltre, fino ai confini della Cina e
dell’India, quando sono esplose le notizie del massacro
di Parigi. Per chi nutre una profonda ammirazione per la
storia, l’antica civilizzazione e, naturalmente, la musica
di quei popoli in prevalenza di fede islamica, siano arabi,
iraniani o caucasici, questi fatti tragici si caricano di
una ulteriore simbolica crudeltà. In quanto testimoniano
l’inesorabile, straziante mutazione di una nobile, antica
affinità e il seppellimento di una plurisecolare e feconda
osmosi di tratti culturali. Non mi riferisco tanto agli
splendori musicali e al multiculturalismo di al-Andalus,
sotto il dominio degli Omayyadi, o alla corte di Alfonso
x el Sabio, momenti forse fin troppo mitizzati dalla
vulgata storica, sempre alla ricerca di “epoche d’oro”
(e come non comprenderlo!) in cui popoli e culture
diverse andavano d’amore e d’accordo, magari cantando
e suonando insieme. Per non dire, poi, dell’enorme
contributo che la musica araba ha dato al formarsi della
lirica trobadorica e, di lì, a un’infinità di altri caratteri
musicali e poetici assimilati dalle lingue romanze.
No, non è a questo che penso. Mi limito a questo
meraviglioso strumento ad arco, già descritto fra IXXsecolo da al-Farabi e dal quale, per rivoli e metamorfosi
innumerevoli, si è diramata la gloriosa discendenza
degli strumenti ad arco del Vecchio Continente. Certo,
il kamancheh è mille leghe lontano dalla forza e dallo
spessore di uno Stradivari, eppure consente sottigliezze e
colori che nessun violino può emulare: una diversità che
è una grande benedizione. Curt Sachs diceva con ragione
che a ogni progresso corrisponde una perdita. È proprio
per questo che siamo soliti rimpiangere il buon tempo
antico. Ma che progresso significhi perdere per sempre la
pace, no, è un prezzo troppo alto.
L
e Sonate per pianoforte solo di Johannes Brahms
fanno parte di quelle musiche ancora manoscritte
che Brahms ventenne suonò in casa di Robert e
Clara Schumann nel settembre 1853 a Düsseldorf; snodo
storico epocale, incontro leggendario fra la giovane
aquila e il grande maestro già assediato dalla malattia
nervosa, eppure lucidissimo nell’intuizione critica: un
piatto già servito per programmi “a tema”, accostamenti
e confronti. Eppure solo la Terza di queste Sonate,
l’op.5, è entrata nel normale repertorio di concerti e
registrazioni, la Seconda vi appare di rado, la Prima,
l’op.1 in do maggiore, talmente di rado che si può dire
mai; per assistere al suo effetto in sala, nella cornice
di un pubblico concerto, sono andato a Genova dove
il giovane pianista moscovita Lukas Geniušas l’ha
inserita nella serata inaugurale della GOG. Intanto,
è uno splendido pezzo da concerto e non si capisce
la sua latitanza nei programmi; poi, a parte la sua
torrenziale inventiva e altri meriti particolari, la Sonata
op. 1 testimonia nel modo più chiaro la definizione
data da Schumann di “velate sinfonie” di quelle
composizioni pianistiche: il suono dei corni poco
prima della ripresa del primo movimento quasi si tocca
con mano, nel finale un tema ricorda il Mendelssohn
della “Sinfonia Scozzese”, senza naturalmente che
la scrittura pianistica sappia di trascrizione. Dopo
l’esordio, con lo scoperto omaggio al Beethoven dell’op.
106, è poi curioso quanto sia presente Liszt, autore
da cui Brahms si sarebbe allontanato sempre più;
non il Liszt aggressivo di ottave e accordi, ma quello
pallido e decadente di tanti passi ornamentali, come
improvvisando, della Sonata in si minore: conclusa
pochi mesi prima e ascoltata da Brahms nella sua sosta
a Weimar nel giugno dello stesso 1853: altro aspetto
seducente di questa straordinaria “opera prima” che
dovrebbe figurare più spesso in repertorio.
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Il disco “Cantate cum jubilo”
Liberare
IL CANTO
Suoni, Bibbia, Giubileo e storia: tra fede,
liturgia e musica una riflessione d'autore
sul potere dell'ineffabile
di Gianfranco Ravasi*
*Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
E
ra proprio un suono musicale a
scandire l’avvio del giubileo ebraico
dopo «sette settimane d’anni», come
prescrive il cap. 25 del libro biblico del
Levitico. Anzi, l’evento prendeva nome
proprio dall’yobel, il corno d’ariete, il cui
timbro cupo e potente lacerava l’aria e
segnava l’inaugurazione di un anno di deror,
cioè di liberazione, l’anno giubilare appunto:
i clan ritornavano in possesso dei beni
perduti o alienati durante il cinquantennio
precedente, la terra era liberata dal lavoro
agrario e lasciata “riposare”, si praticava la
remissione dei debiti e la liberazione degli
schiavi. Anche Cristo ricorre al lessico del
giubileo per delineare la sua missione, nel
discorso programmatico che tiene nella
sinagoga del suo villaggio Nazaret.
Ricorrendo a una citazione del profeta Isaia,
egli dichiara di essere stato «mandato a
portare ai poveri il lieto annunzio, a
proclamare ai prigionieri la liberazione e ai
ciechi la vista, a rimettere in libertà gli
20 Amadeus
oppressi e a proclamare l’anno di grazia
del Signore» (Luca 4,18-19). Il cuore del
giubileo ebraico e cristiano è, quindi,
costituito dalla misericordia. Noi ora ci
fermeremo, però, sul nesso tra musica e
giubileo che, come si diceva, ha nel suo
stesso nascere un evento sonoro, legato a
uno strumento musicale primitivo ma
suggestivo, il corno animale. A margine,
ricordiamo che il IV Inno omerico assegna
la nascita della musica al guscio vuoto di
tartaruga sul quale il dio Ermes tende le
corde creando un’armonia. Le strade che si
aprono ora davanti a noi per una trattazione
sono varie e molto estese e ramificate.
Vogliamo solo evocarne alcune.
Dedichiamo innanzitutto solo una breve
annotazione al nesso specifico tra musica e
anni santi nella storia della Chiesa. Il
materiale è imponente, come è testimoniato
da un saggio che Siegfried Gmeinwieser,
professore all’Università tedesca di
Amadeus 21
modo, il cosiddetto concentus, una melodia
che si espande liberamente, anche con
intervalli ampi. La sua caratteristica
“tecnica” è spesso definita come
“semisillabica”: infatti, se l’accentus
tradizionale nella musica liturgica ha una
sola nota per ogni sillaba, nel concentus,
invece, ogni sillaba può essere accompagnata
da più note, dilatandosi e ramificandosi.
Regensburg ha consacrato alla musica
liturgica dei giubilei del Seicento e del
Settecento, in occasione di un Congresso
Internazionale svoltosi a Roma nel giugno
1999 sotto il titolo “I Giubilei nella storia
della Chiesa”, alle soglie del grande anno
santo del 2000, celebrato da San Giovanni
Paolo II (Libreria Editrice Vaticana 2001,
pagg. 546-561). Nella maggior parte dei
casi si tratta di autori minori e persino
altrimenti ignoti. Tanto per esemplificare,
conosciamo un componimento intitolato
La Chiesa trionfante «da cantarsi
nel Palazzo Apostolico per la notte del
22 Amadeus
santissimo Natale, nell’ingresso dell’anno
di Giubileo» del 1699, regnante papa
Innocenzo XII Pignatelli.
In quello stesso anno santo si erano
moltiplicati gli Oratori: un certo Mario
Bianchelli ne aveva composto uno in onore
di San Francesco di Paola, Pietro Paolo
Bencini aveva elaborato a quattro voci
L’innocenza protetta, mentre Severo De
Luca aveva musicato il Martirio di
Sant’Erasmo; Francesco Mancini, invece,
aveva proposto L’amore divino trionfante
nella morte di Cristo, mentre Carlo Cesarini
si era dedicato al Trionfo della divina
provvidenza ne’ successi di Santa Geneviefa,
un “oratorio di un pastore arcade”, e di
Francesco Grassi era l’oratorio Trionfo del
giusto e così via. Tutto questo fervore
musicale accompagnava il giubileo del 1700
che nell’ultimo mese aveva visto l’ascesa al
soglio di Pietro di un nuovo papa, Clemente
XI Albani. Per fare, invece, solo un esempio
più vicino a noi, per il giubileo del 2000 il
trentino Carlo Galante compose una Missa
Solemnis Resurrectionis.
Lasciamo, quindi, ai musicologi questa
specifica investigazione dagli esiti artistici
non particolarmente esaltanti, anche se in
occasione degli anni santi si assisteva spesso
al recupero e all’esecuzione di un repertorio
più nobile precedente, un po’ come avviene
ora nella raccolta presente nel cd allegato alla
rivista, significativamente intitolato Cantate
cum jubilo. Ebbene, vorremmo fermarci ora
proprio su questo termine, jubilus,
appartenente al lessico liturgico cristiano e
ammiccante per assonanza all’yobel, il corno
giubilare. Si tratta di un modulo musicale per
certi aspetti virtuosistico: si pensi, per
esempio, al lungo vocalizzo che si intesse nel
gregoriano sull’alleluia pasquale, in
particolare sulla a finale. Si configura, in tal
La qualità interiore di questo genere
musicale la descriveva suggestivamente
Sant’ Agostino in un brano, presente nel suo
commento al Salmo 32 (33): «Che cosa
significa cantare nel giubilo? Comprendere
e non sapere spiegare a parole ciò che si
canta col cuore. Coloro infatti che cantano
sia durante la mietitura, sia durante la
vendemmia, sia durante qualche lavoro
intenso, prima avvertono il piacere,
suscitato dalle parole dei canti, ma, in
seguito, quando l’emozione cresce, sentono
che non possono più esprimerla a parole e
allora si sfogano nella sola modulazione
delle note. Questo canto lo chiamano
“giubilo”. Il giubilo è la melodia con la
quale il cuore effonde quanto non gli riesce
di esprimere a parole. E verso chi è più
giusto elevare questo canto di giubilo, se
non verso l’ineffabile Dio? Infatti è
ineffabile colui che tu non puoi esprimere.
E se non lo puoi esprimere, e d’altra parte
non puoi tacerlo, che cosa ti rimane se non
giubilare? Allora il cuore si aprirà alla
gioia, senza servirsi di parole, e la
grandezza straordinaria della gioia non
conoscerà i limiti delle sillabe».
Dopo aver presentato questa libera
connessione lessicale tra musica e giubileo,
vorremmo allargare il nostro orizzonte e
delineare in modo molto sommario il nesso
della fede e della liturgia con la musica.
Per sviluppare pienamente un simile tema
sarebbe, infatti, necessario ritrascrivere
buona parte della stessa storia della musica
(si pensi solo ai Salmi o alle Messe). È
emblematico il fatto che Bach ponesse in
capo alle sue composizioni la sigla J.J., cioè
Jesu Juva, «Gesù, aiuta!», e le suggellasse
con l’altra sigla S.D.G., quel Soli Deo
Gloria che esprimeva la sua convinzione
che la gloria toccasse solo a Dio. La sua era
una simbiosi sostanziale tra fede e musica,
tra lode e canto, tra mistica e tecnica
compositiva. È per questo che lo scrittore
agnostico pessimista franco-rumeno Emil
M. Cioran, nella sua opera Lacrime e santi
non esitava a scrivere: «Quando voi
ascoltate Bach, vedete nascere Dio… Dopo
un Oratorio, una Cantata o una Passione
Dio “deve” esistere… E pensare che tanti
teologi e filosofi hanno sprecato notti e
giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio,
dimenticando la sola!».
Ci accontenteremo, dunque, di tracciare
solo un profilo simbolico della presenza
della musica in quel “grande codice”
della nostra cultura occidentale che è
costituito dalle Sacre Scritture
dell’Antico e del Nuovo Testamento.
All’interno della Bibbia c’è, infatti, una
sorta di filo musicale che accompagna
tutta la storia dell’essere e dell’umanità.
Si tratta, però, di un approccio
squisitamente teologico. La musica ha
lo scopo di farci ritrovare un’armonia
segreta e religiosa sottesa a tutta la realtà,
anche a quella che può apparire
“dissonante” o “assurda” (cioè “sorda”).
La stessa creazione è affidata non a una
teomachia, cioè a una lotta intradivina,
come accade nella varie cosmologie
dell’antico Vicino Oriente, bensì a un
evento sonoro: «In principio... Dio disse:
Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1,1.3).
«In principio era la Parola... Tutto è
stato fatto per mezzo di essa e senza di
essa niente è stato fatto di ciò che esiste»
(Giovanni 1,1.3). In un passo splendido
dei discorsi finali di Dio che suggellano
il libro di Giobbe il Creatore è raffigurato
nell’atto di collocare la pietra di
fondazione del cosmo, mentre «le stelle
del mattino cantavano in coro e tutti i
figli di Dio (cioè gli angeli) gridavano la
loro gioia» (Giobbe 38,6-7).
È per questo che lo stesso creato è concepito
quasi fosse una musica cristallizzata, che
ininterrottamente è disponibile all’ascolto
Amadeus 23
umano: «I cieli narrano la gloria di Dio, il
firmamento proclama l’opera delle sue
mani..., senza discorsi e senza parole, senza
che si oda alcun suono. Eppure la loro voce
si espande per tutta la terra, sino ai confini
del mondo la loro parola» (Salmo 19,2-5).
Commentava S. Giovanni Crisostomo (IV
secolo): «Questo apparente silenzio dei cieli
è una voce più risuonante di una tromba:
questa voce canta non ai nostri orecchi ma ai
nostri occhi la grandezza di chi ci ha creati».
È suggestiva questa idea di una “musica
silenziosa” per la quale è necessario aprire
una particolare sintonia o canale di ascolto.
La musica, poi, per la Bibbia intride anche
tutta la storia umana, esaltandola e
rivelandone le tracce divine. La sua è,
dunque, una funzione teofanica, svela cioè
la presenza di salvezza o di giudizio di Dio
all’interno delle vicende umane. Ci si
imbatte, allora, in una lunga serie di canti
di guerra il cui scopo è quello di mostrare
l’azione del Dio liberatore: si pensi, per
esempio, all’inno di Mosè durante la
traversata del Mar Rosso (Esodo 15) o al
cantico finale del libro di Giuditta (capitolo
15) entrambi accompagnati dall’evocazione
di strumenti musicali. Ci sono, poi, i canti
funebri, come quel capolavoro letterario che
è l’elegia di Davide per la morte di Saul e
Gionata, «lamento da insegnare ai figli di
Giuda» (2 Samuele 1,17-27). Naturalmente
anche l’amore genera musica, danza e canto;
molti sono, perciò, i cantici nuziali: «Tu sei
per loro», dice il Signore al profeta
Ezechiele, «come una canzone d’amore:
bella è la voce, e piacevole è
l’accompagnamento musicale» (33,32).
La donna del Cantico dei cantici è ritratta,
nel mezzo di una danza vorticosa, segnata
dal ritmo: «Voltati, voltati, Sulammita,
voltati, voltati perché ti possiamo ammirare!
Che cosa ammirate nella Sulammita durante
la danza dei due tempi?» (7,1-2).
Anche il lavoro ha le sue canzoni. Stupenda è
quella del vignaiolo proposta da Isaia (5,1-7):
«Canterò per il mio amato la mia canzone
d’amore per la sua vigna...». Ezechiele,
invece, propone persino un Canto dei cuochi
24 Amadeus
(24,3-12). Tutta la quotidianità è attraversata
dalla musica che riesce a trasfigurare anche
gli atti e i gesti più semplici. Si incontra
anche una malinconica canzone della
vecchia prostituta: «Prendi la cetra, gira per
la città, prostituta dimenticata; suona con
abilità, moltiplica i tuoi canti, perché
qualcuno si ricordi di te!» (Isaia 23,15-16).
Fondamentale, però, è l’intreccio tra musica
e liturgia. Basti solo scorrere i titoli antichi
preposti ai Salmi con l’evocazione delle
melodie su cui intonarli e sovente con la
citazione degli strumenti destinati ad
accompagnarli. Il Salmo 150 elenca con
minuzia l’organico dell’orchestra del tempio
di Sion: corno, arpa, cetra, timpano, corde,
flauti, cembali, cui si aggiungono le danze e
la neshamah che può alludere ai “fiati” ma
che, più probabilmente, significa “tutto ciò
La musica, poi,
per la Bibbia intride
anche tutta la storia
umana divine
che respira”, immaginando così una sorta di
canto cosmico dei viventi che si associa a
quello intonato nel tempio. L’appello del
Salmista è, comunque, preciso anche
nell’indicare la qualità estetica del canto
liturgico: «Cantate inni con arte!» (Salmo
47,8). Il cristianesimo raccoglie questo
invito: si pensi solo allo sterminato
“paratesto” musicale che si è intessuto nei
secoli in Occidente attorno ai Salmi e agli
altri cantici biblici come il Magnificat o il
Benedictus. Ma già San Paolo ammoniva i
Colossesi così: «La parola di Cristo dimori
tra voi abbondantemente; ammaestratevi e
ammonitevi con ogni sapienza, cantando a
Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e
cantici spirituali...» (3,16-17). Esortazione
reiterata agli Efesini: «Siate ricolmi dello
Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi,
inni, cantici spirituali, cantando e
salmeggiando al Signore con tutto il vostro
cuore» (5,18-20). La stessa meta ultima
della storia, simbolicamente raffigurata
nella nuova Gerusalemme, sarà segnata
dalla musica. Significativa al riguardo è la
trama del Libro dell’Apocalisse che è una
vera e propria palingenesi musicale per soli,
coro e orchestra: basta soltanto evocare il
grandioso concerto delle sette trombe che
squillano nei capitoli 7-8 e 11,14-19 oppure
i cori che costellano quasi ogni pagina
dell’opera rendendola simile a una partitura
musicale. È per questo che il tacere del
canto è visto come un emblema di giudizio.
Quando sulla Babilonia imperiale passerà la
tempesta della condanna divina, «il suono
degli arpisti e dei musicisti, dei flautisti e
dei suonatori di tromba non si udrà più in
te... Il canto dello sposo e della sposa non
si udrà più in te» (Apocalisse 18,22). Ma
già nell’Antico Testamento l’oppressione
non poteva che essere affidata al silenzio,
come dice lo stupendo e tragico Salmo 137:
«Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo e
piangevamo, ricordandoci di Sion. Sui
salici, in mezzo a quella terra, appendemmo
le nostre cetre. Sì, là ci chiesero parole di
canto i nostri deportatori, canzoni allegre i
nostri oppressori: Cantateci i canti di Sion!
Come cantare i canti del Signore in terra
straniera?».Cassiodoro, scrittore cristiano
del VI secolo, ammoniva: «Se continueremo
a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà
senza musica». Anche per la Bibbia il
silenzio o il rumore sono segno di
maledizione. È per questo che il filo della
musica accompagna l’intera esistenza
illuminandola. La fede, perciò, dovrebbe
essere armonia e canto, come si ripete
ininterrottamente nel Salterio: «Cantate al
Signore un canto nuovo, suonate con arte e
con ovazioni... Bello è lodare il Signore e
inneggiare al tuo nome, Altissimo, sull’arpa
a dieci corde, sulla lira e con canti
accompagnati da cetra... Quanto è bello
inneggiare al nostro Dio, quanto è
affascinante innalzargli la lode!»
(Salmi 33,3; 92,2.4; 147,1; 149,3). 
Il Duomo di Milano nei suggestivi scatti
del fotografo Bruno Pulici, che ha ritratto anche
i cantori della Cappella Musicale della Cattedrale
milanese nelle immagini delle pagine seguenti
Il disco Cappella del Duomo di Milano
Lasciate che
i FANCIULLI
Un repertorio sacro che affonda le sue radici nel '400 ma
che travalica le barriere temporali. Un'istituzione musicale antica
che ancora oggi forma giovani voci ed educa lo spirito
di Andrea Milanesi
A
nno del Signore 1387: in data 16
ottobre, per volontà del Duca
di Milano Gian Galeazzo Visconti
viene istituita la Veneranda Fabbrica
del Duomo di Milano, con lo scopo
di portare avanti i lavori di progettazione,
costruzione e conservazione della nuova
Cattedrale e per garantire l’utilizzo del
marmo di Candoglia per l’edificazione
dell’intero monumento. Da oltre seicento
anni la Fabbrica è dunque lo storico ente
impegnato nella tutela, nella valorizzazione
e nel restauro architettonico e artistico di
quello che è il simbolo della città di Milano
nel mondo e che ne rappresenta la più
profonda e manifesta identità, sociale e
culturale, oltre che religiosa.
Sotto il Duomo, le sue guglie e la sua
“Madonnina” i milanesi... vivono la vita,
corrono, lavorano, s’incontrano, discutono
e soprattutto pregano, secondo la
tradizione di un rito e di un canto che
oltre 1.600 anni fa nel vescovo Ambrogio
26 Amadeus
hanno trovato origine e fonte d’ispirazione.
Frutti maturi di una devozione in cui
la dimensione estetica ha stretto un
inscindibile legame con quella spirituale,
come già emergeva dall’autorevole e
toccante testimonianza di Sant’Agostino,
riportata nelle Confessioni (Libro IX, 6) e
risalente ai giorni seguenti al suo
battesimo ad opera dello stesso Ambrogio:
«Quanto ho pianto di profonda
commozione al sentire risuonare nella Tua
chiesa il sereno modulare dei Tuoi inni e
cantici. Quegli accenti fluivano nelle mie
orecchie e distillavano la verità nel mio
animo, infuocandolo di devozione, mentre
le mie lacrime scorrevano. E io ne
avvertivo un gran benessere».
Ed è proprio su questa spinta ideale che la
Cappella musicale del Duomo di Milano,
fiore all’occhiello dell’attività della
Veneranda Fabbrica, si è fatta appunto
portavoce di un culto millenario per
aprirci le porte di fronte a un repertorio
sacro che travalica qualsiasi barriera
temporale, come ci ha racconta don
Claudio Burgio, maestro della Cappella e
protagonista del disco in cui sono state
appunto raccolte le “Musiche del Giubileo
nel Duomo di Milano”.
A quali principi costitutivi si ispira
la Cappella musicale del Duomo di
Milano?
«Bisogna intendersi, innanzitutto, sul
termine “cappella musicale”. Non si tratta
semplicemente di un coro, di un complesso
vocale nato per manifestazioni artistiche e
culturali. Gli elementi costitutivi che ne
determinano l’identità sono l’antichità, la
continuità di attività e di tradizione, il
patrimonio musicale proprio,
l’arricchimento di tale patrimonio con le
musiche nuove dei suoi maestri,
l’organizzazione stabile e la connessione
con una cattedrale, basilica o santuario. Tali
sono appunto i principi costitutivi della
Amadeus 27
Cappella musicale del Duomo di Milano,
come attestato dai documenti e dall’ingente
mole di musiche custoditi negli archivi della
Veneranda Fabbrica del Duomo. Un
patrimonio che affonda le sue radici nel
Quattrocento milanese ed europeo
attraverso le opere dei maestri, degli
organisti e di quanti hanno affidato al
Duomo le loro musiche; un patrimonio che
parla da sé e testimonia lo sviluppo dell’arte
musicale sacra in un centro cruciale di
esperienze cosmopolite qual è Milano».
Cosa rende la Cappella del Duomo una
realtà unica nel suo genere?
«Innanzitutto la presenza fin dalle origini
della schola puerorum, composta da
bambini maschi tra i 9 e i 14 anni ai quali
vengono affidate le voci di soprano e di
contralto. È un caso unico in Italia, se si
esclude la Cappella Musicale Pontificia,
detta “Sistina”, che opera in territorio
vaticano. Già Franchino Gaffurio, alla fine
del XV secolo, riorganizzò l’organico della
Cappella formando una vera e propria
schola che si occupasse della formazione
integrale dei pueri; non solo quella
musicale, ma anche quella umanistica.
Negli anni ’60 del Novecento, l’allora
Maestro di cappella, monsignor Luciano
Migliavacca, fece rinascere la scuola
dei fanciulli cantori intesa come luogo
di educazione scolastica, di formazione
alla personalità e all’arte musicale.
La Veneranda Fabbrica si adoperò, sotto
la spinta dell’allora cardinal Montini,
per la costruzione dell’attuale sede di
viale Gorizia a Milano. Io stesso sono
stato formato da bambino in questa scuola,
sotto la guida di mons. Migliavacca,
che mi educò e tanta parte ebbe nella mia
scelta di diventare sacerdote, musicista
ed educatore».
Quali sono le tappe principali di questa
prestigiosa istituzione?
«Già Ambrogio, quando divenne vescovo
nel 374, trovò un organismo che si
occupava del canto nella cattedrale,
formato da fanciulli cantori e da voci
adulte. Trovò anche un repertorio di cui
possediamo con certezza almeno una
28 Amadeus
gemma: la Laus magna angelorum da cui
derivò il Gloria della Messa. Egli stesso
impreziosì poi il patrimonio musicale con i
suoi Inni e la Cappella del Duomo è
depositaria di questa antichissima
tradizione; ancora oggi i cantori della
Cappella eseguono in ogni celebrazione
liturgica brani del repertorio ambrosiano.
L’archivio musicale della Veneranda
Fabbrica ci aiuta a ricostruire le tappe della
storia della musica liturgica in Cattedrale.
Il 1402 è l’anno ufficiale di fondazione
della Cappella musicale e il Duomo di
Milano conosce i primi esempi di polifonia
sacra: dal musichus Matteo da Perugia – il
primo cantor – a Franchino Gaffurio che,
tra i suoi compiti, oltre a quelli del “lègere”
e del “dòcere”, ricopriva quello del
“dictare”, ovvero il compito di comporre
«È un caso unico
in Italia, se si
esclude la Cappella
Musicale Pontificia,
detta Sistina»
musica per il Duomo. Imponente l’opera di
questo maestro, oggi raccolta nei tre
Codici gaffuriani conservati in Archivio.
Gaffurio seppe fondere insieme la
tradizione fiamminga e quella italiana,
dando avvio alla grande polifonia del
Cinquecento incarnata da Palestrina e da
tutta la scuola romana; già nelle sue
composizioni traspare quel criterio più
tardi adottato dal Concilio di Trento,
secondo cui la musica deve essere a
servizio della Parola e, dunque, non deve
precludere l’intelligibilità del testo sacro».
Attraverso la storia della Cappella
del Duomo di Milano è possibile
in qualche modo seguire anche quella
della musica liturgica?
«Nella seconda metà del Cinquecento San
Carlo Borromeo diede disposizioni per il
modo di comporre ed eseguire musiche nel
culto. Fece escludere dal canto di chiesa
musiche profane, leziosità di voce, artifici
d’esecuzione non consoni ai testi sacri; i
cantori, poi, dovevano appartenere al clero
e indossare vesti clericali. Quanto agli
strumenti, l’unico accettato era l’organo.
Tali e altre simili direttive furono attuate
nel Duomo di Milano e ad esse la Cappella
musicale si mantenne fedele nel tempo. Sul
finire del XVI secolo, in Duomo si assiste
al trapasso dalle forme della pura polifonia,
intrisa dalle fioriture eccessive dei
contrappunti e delle imitazioni, a quelle
nuove dello stile “concertato” con il
sostegno strumentale del solo organo.
Anche nel Seicento, il Duomo rifiuta la
suggestione degli strumenti, in
controtendenza con l’affermazione della
musica strumentale in Europa. In questa
tappa del percorso storico della Cappella
musicale, si assiste all’esplosione della
policoralità: un’esigenza che dura un secolo
e mezzo e che riflette il gusto per la
magniloquenza sonora (in parte doverosa
per i limiti dell’acustica in Duomo).
Diventa d’obbligo per i maestri consegnare
alla Fabbrica le opere scritte per il Duomo».
Quali sorprese ci riserva ancora la storia
moderna della Cappella del Duomo?
«Il Settecento sacro milanese è a torto
considerato un secolo di decadenza. Faccio
solo un esempio: il faentino Giuseppe Sarti.
Allievo di padre Martini e affermato
operista (nel 1779 al Teatro alla Scala andò
in scena la sua opera Le gelosie villane),
trovò presso la Cappella un ufficio che gli
permettesse di “fuggire le distrazioni del
mondo” e, nei suoi cinque anni come
Magister, scrisse per il Duomo musiche ben
lontane dagli allettamenti del gusto teatrale,
cercando di essere coerente con l’austerità
del rito e sfruttando a sua volta i temi del
canto ambrosiano. Altra tappa non meno
significativa è quella dell’Ottocento
musicale. A questo periodo appartengono
composizioni dotate di sensibilità liturgica e
opere che, pur legate al gusto vocalistico e ai
modi operistici del secolo, sono comunque
adatte all’elevazione spirituale propria del
culto. Con Giuseppe Gallignani ha inizio
l’alba di una risurrezione della musica sacra
che proprio a Milano vide i prodromi di
quella che fu detta “riforma ceciliana”; la
Cappella contribuì efficacemente alla
riuscita del movimento di riforma che ebbe
in Perosi, più tardi, il suo indiscusso
paladino. Nel Novecento musicale sacro si
impone un nome su tutti: Luciano
Migliavacca. Per tutta la Chiesa italiana ha
rappresentato un modello di musicista che
ha saputo unire l’abilità compositiva con
le nuove indicazioni emerse dal Concilio
Vaticano II; ha composto anche canti per
le assemblee liturgiche che hanno avuto
molta fortuna nelle parrocchie italiane.
Come si intuisce, dunque, la Cappella
musicale del Duomo ha attraversato tutte
le vicende della musica di chiesa, sapendo
conservare, però, una sua coerenza al rito
propriamente ambrosiano».
Lei è erede diretto di una tradizione
che attraversa i secoli; cosa vede
quando si volta indietro?
«Come attuale direttore della Cappella
musicale sento alta la responsabilità di un
compito che non parte da me e non finisce
con me. Sono nell’alveo di una tradizione
che mi precede e della quale riconosco
tutto il valore storico, culturale, ma
soprattutto spirituale ed ecclesiale. Vedere
come, nonostante l’evolvere nei secoli di
gusti e stili musicali diversi, la musica in
Duomo abbia mantenuto intatti certi suoi
requisiti è per me stimolo a non cedere a
molte tendenze “innovative” che in più di
una occasione mi sono state prospettate,
come quella di eliminare i pueri e
introdurre le voci femminili. Non vedo
perché, in nome di una presunta
modernizzazione della Cappella, dovrei
rinunciare alla vocalità unica dei pueri.
Certo, è una grande fatica quella di formare
quotidianamente la vocalità dei ragazzi
d’oggi. La registrazione del disco allegato
ad Amadeus, per esempio, è caduta nel
momento dell’anno più complicato: a
ottobre iniziano a cantare i ragazzi più
piccoli, mentre le voci dei più esperti
cominciano a entrare in fase di muta. Non è
Amadeus 29
Il disco Roberto Plano
facile ottenere prestazioni musicali sempre
all’altezza; con le voci femminili, in effetti,
sarebbe tutto molto più semplice. Eppure,
sento di essere depositario di una grande
tradizione, non proprietario».
E se guarda avanti?
«Cerco di consegnare ai nuovi pueri e alla
Chiesa ciò che mi è stato donato attraverso
la musica sotto le volte di questo stesso
Duomo: il gusto per l’arte, per la bellezza
che educa alla vita e alla fede. Chissà che
un giorno avvenga per uno dei miei pueri
quello che è avvenuto per me. Sarebbe
bello passare il testimone nella direzione
della Cappella a qualcuno che, come me,
ci è nato e cresciuto. Musicalmente
parlando, spero si mantenga vivo lo storico
patrimonio musicale del Duomo come
segno di una tradizione che non è solo
memoria del passato, ma vive in dialogo
con la modernità. Pensando al futuro,
semplicemente un ornamento dell’azione
liturgica, la musica è sacra perché è un
ponte sull’eternità. Non deve rispondere a
esigenze utilitaristiche di consumo e non
deve necessariamente produrre godimento
dei sensi fine a se stesso. Nella sua
espressione più profonda, la musica è
manifestazione del divino e ha, dunque,
da sempre un carattere teologico. Anche
una mentalità laica e secolarizzata non
può prescindere da un’apertura
all’Assoluto e la musica è veicolo
privilegiato per non spegnere nell’uomo
questo desiderio naturale di trascendenza.
La musica liturgica, in questo senso, apre
il credente al Mistero che celebra, ma può
essere kairos, momento favorevole anche
per il non credente, come attesta la
conversione di S. Agostino avvenuta
grazie al canto degli inni di Ambrogio. Le
musiche incise nel cd allegato ad Amadeus
«La musica che i "pueri" della Cappella
cantano è strumento di vera
prevenzione sociale, oltre che
occasione di crescita nello spirito»
occorrerà incrementare l’educazione
musicale nelle nuove generazioni, a
cominciare dal mondo della scuola che da
troppo tempo, in Italia, non si occupa più
della musica “colta”. Anche la Chiesa
dovrebbe tornare a fare Musica con la “M”
maiuscola nelle sue parrocchie e, per
questo, è necessario che tornino i musicisti
e i veri artisti. Questa è la speranza che
coltivo, guardando avanti, per il bene dei
giovani e della Chiesa stessa».
Che cosa è per lei la “musica sacra”?
«È un’esperienza “estetica” che come
ogni linguaggio sonoro stimola la mia
percezione uditiva e la mia sfera emotiva
e intellettiva; ma è soprattutto
un’esperienza “estatica”, un metalinguaggio che mi mette in contatto con
l’Assoluto. Lungi dall’essere
30 Amadeus
ci appartengono, perché arrivano a tutti
noi (credenti e non) da un canto lontano
scritto nella storia della nostra comune
cultura cristiana. Ci vuole coraggio oggi a
pubblicare musica sacra; credo sia,
innanzitutto, una grande sfida culturale
perché, come ci ricorda Goethe, “ciò che
hai ereditato dai padri, riconquistalo se
vuoi possederlo davvero”».
Come compositore e direttore, verso
quali orizzonti spinge la sua attività
creativa e interpretativa?
«Come direttore della Cappella musicale
del Duomo di Milano non posso,
innanzitutto, non misurarmi con la musica
scritta dai miei predecessori. Pur dovendo
eseguire musica appartenente a secoli
diversissimi della lunga storia di questa
isitituzione, non mi sento ostaggio di scelte
interpretative rigidamente obbligate; non è
scritto da nessuna parte che io debba
ricercare e ricreare un modus interpretativo
stabilito una volta per tutte. È sempre la
Liturgia viva della Chiesa a ispirarmi il
movimento e il colore di un canto, pur
cercando di salvaguardare una certa
pertinenza estetica legata alla vocalità del
tempo in cui un brano è stato composto.
Come compositore, attingo a piene mani
dalla tradizione musicale dei miei
predecessori, pur con le necessarie
esigenze di pluralità stilistica imposte
dall’odierna liturgia».
Oltre che maestro di Cappella, lei è
anche cappellano al carcere minorile
Beccaria di Milano: come fa a unire due
mondi così apparentemente lontani?
«In realtà la musica è esperienza educativa
per eccellenza. Sono convinto che molti dei
ragazzi che incontro nelle celle del carcere
minorile non siano solo stati deprivati di
affetto e di cura da un mondo adulto
sempre più assente, ma siano stati condotti
in “cattività” da una cultura materiale
assordante. La musica, sempre che non sia
prodotto di consumo, può curare e aiutare
un ragazzo autore di reato a ritrovare
un’anima. È per questo che vivo il mio
ministero musicale in Duomo anche in
chiave socio-pedagogica. La musica che
i pueri della Cappella cantano è strumento
di vera prevenzione sociale, oltre che
occasione di crescita nello spirito. Tra un
figlio al Beccaria e un fanciullo cantore
in Duomo non c’è poi così differenza:
sono sempre figli nostri». 
In queste pagine, i cantori della Cappella Musicale
del Duomo di Milano, protagonisti del nostro cd
di questo mese, sono fotografati nella cattedrale
milanese con il loro direttore, don Claudio Burgio
Il download Trio Kanon
Il numero
PERFETTO
Dedizione, complicità, sensibilità (e studio).
Ecco gli ingredienti distintivi di un giovane gruppo cresciuto
alla grande scuola cameristica italiana
di Claudia Abbiati
S
ulla scia di altri grandi trii con
pianoforte italiani come il Trio di
Trieste e il Trio di Parma, suo erede
spirituale, vi presentiamo nel nostro cd
download un giovane e promettente
ensemble, attivo dal 2012: il Trio Kanon,
formato dalla violinista di origini
giapponesi Lena Yokohama, dal
violoncellista Alessandro Copia e dal
pianista Diego Maccagnola.
Come vi siete conosciuti e come sono nati
il vostro trio e il nome Kanon?
A.C. «Si può dire che il nostro trio sia nato
in piscina. Ho conosciuto Diego nel 2006
all’Accademia di Santa Cecilia di Roma,
nella classe di Rocco Filippini. Abbiamo
suonato insieme l’op. 70 n. 2 di Beethoven
all’esame finale, ma poi non ci siamo più visti
fino al 2012, al concerto di fine anno
dell’Accademia Stauffer di Cremona. Lì ho
conosciuto Lena, che vive in Italia dal 2006
ed è un’allieva di Salvatore Accardo, e ho
scoperto che suonava da alcuni anni in duo
32 Amadeus
cd 2 in download
TRIO KANON
Trii per pianoforte e archi
op. 70 n. 1 “I fantasmi”
e op. 97 “L’Arciduca”
Musiche di Ludwig van Beethoven
accedere al sito www.amadeusonline.net
e inserire il codice
TK314LB16
con Diego. Sarebbe stata una semplice
rimpatriata se pochi giorni dopo, proprio in
piscina, non mi fosse balenata l’idea di
costituire un trio. Li chiamai subito e scoprii
che anche loro avevano il medesimo
desiderio. Quella è stata l’ultima volta in cui
ho avuto tempo di andare in piscina...».
L.Y. «Il nome è una mia proposta, perché
Diego e Alessandro cercavano una bella
parola giapponese facile da ricordare.
“Kanon” è l’unione di due ideogrammi:
“Ka”, che significa fiore, e “On”, suono,
musica. Combinando le due lettere si legge
“Kanon”, cioè Musica Fiorente.
Ovviamente c’è, ed è molto importante per
noi, l’assonanza con il canone musicale».
Avete alle spalle studi prestigiosi
all’Accademia di Duino con il Trio di
Parma, una delle realtà più solide della
musica da camera italiana.
D.M. «L’Accademia di Duino è
un posto speciale che ci ha aiutato moltissimo
a crescere offrendoci la possibilità di fare
numerosi concerti. E ogni incontro col Trio
di Parma ci lascia il desiderio di approfondire
lo studio con mente aperta e spirito critico,
senza paura di confrontarci e discutere: loro
stessi, talvolta, ci offrono prospettive diverse,
ma tutte incredibilmente rivelatrici».
A.C. «Sono stati più che maestri, sono stati
guide e mentori. Abbiamo imparato ad
affrontare il repertorio grazie ad alcuni
consigli che solo un trio come il loro sa dare,
facendo i passi giusti al momento giusto».
L.Y. «Alberto Miodini, Ivan Rabaglia
ed Enrico Bronzi sono fantastici musicisti
e persone squisite. Siamo veramente
felici di studiare con loro».
Quali sono secondo voi gli ingredienti
per la perfetta alchimia di un trio
con pianoforte?
L.Y. «Archi e pianoforte sono tipologie di
strumenti completamente differenti, quindi
occorre venirsi incontro».
D.M. «Violino e violoncello devono fondersi
bene tra loro ma anche il pianista (ingrato
compito!) deve sforzarsi di produrre un
legato, un’articolazione e un fraseggio
compatibile con gli archi. Fortunatamente
i grandi compositori ci danno una mano:
questo repertorio è davvero stupendo».
A.C. «Servono inoltre dedizione,
complicità e sensibilità. Un po’ gli stessi
ingredienti che richiede l’amicizia: il resto
viene con lo studio».
Due Trii di Beethoven: perché?
L.Y. «Quest’anno abbiamo studiato
l’Arciduca. La grandezza di questo brano
dal respiro così nobile e sinfonico ci ha
conquistati. Dovendo poi completare il
disco, abbiamo pensato a un lavoro del
Beethoven “eroico”: l’op. 70 n. 1, scritto tra
la Quinta sinfonia e la Pastorale».
A.C. «Sono diversi. L’op.70 n.1 è percorsa
da forti contrasti, una ricerca angosciosa
dell’epilogo felice in un incubo oscuro che
sembra non avere fine. L’ultimo movimento
sembra scrollarsi di dosso la pesantezza del
secondo. All’Arciduca ho sempre guardato
con riverenza: è un trio della piena
maturità, in cui si alternano momenti di
grande lirismo ad altri più rustici».
D.M. «La differenza tra op. 97 e op. 70
è abissale e abbiamo cercato di metterla
in risalto nell’esecuzione. I movimenti
lenti dei due trii sono incredibili: il Largo
degli “Spettri” è rivoluzionario per il tipo
di scrittura, il trattamento “dinamico”
delle armonie e per la tensione ottenuta
per sottrazione di elementi. L’Andante
dell’op. 97 è invece un maestoso Tema
con variazioni, in cui Beethoven rivela
la sua maestria tecnica e un’incredibile
invenzione melodica».
Quali altri compositori avete in repertorio
e quali vi piacerebbe approfondire?
D.M. «Abbiamo studiato alcuni Trii di
Haydn e di Mozart, i primi due Trii
di Brahms, l’op. 100 di Schubert, l’op. 66
di Mendelssohn, il Trio di Ravel e il Trio
n. 2 di Šostakovič, più alcuni lavori
contemporanei. Mancano all’appello
Schumann e Dvořák, ma colmeremo
presto queste lacune».
A.C. «Dovremmo anche completare
l’esplorazione del mondo di Schubert
studiando l’op. 99, un capolavoro».
Quali sono i vostri progetti futuri?
A.C. «A gennaio sarò papà. Ora si tratta
del progetto più coinvolgente per me, un
meraviglioso modo di iniziare il 2016 e
un’esperienza che darà nuova linfa al mio
modo di suonare: il trio avrà un fan in più!
Parlando di musica, stiamo lavorando a
un’incisione di brani contemporanei che
sarà edita dall’Accademia Perosi di Biella».
L.Y.«Il 17 gennaio saremo a Milano per
un concerto alla Società Umanitaria.
Poi ci aspettano concorsi internazionali,
in cui speriamo di ottenere buoni risultati.
Le competizioni per noi sono una preziosa
occasione di studio e un modo per
approfondire il repertorio che amiamo». 
Il Trio Kanon: la violinista Lena Yokohama,
violoncellista Alessandro Copia e il pianista
Diego Maccagnola
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Anteprima 35-42 La critica 45-51
gli appuntamenti del mese da non perdere
le recensioni degli spettacoli scelti dai nostri critici
David Greilsammer
Amadeus
Quartetto Italiano
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PERSONE
L
DAVID
GREILSAMMER
Booklet
in italiano
e in inglese
Israeliano, è pianista e direttore
d'orchestra. Il suo credo
è costruire ponti perché
la musica non ha confini.
Dal 2013 è direttore artistico
e musicale della Geneva
Camerata. Il 15 e il 17
gennaio è a Milano con
laVerdi per un programma
tutto Beethoven
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per la prima volta in digitale
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7 cd per rivivere gli esordi dell’ensemble
che ha cambiato la storia dell’interpretazione
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i del debutto
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Quartetto Italiano
DVD in omaggio con l'acquisto del cofanetto*
a musica come strumento per abbattere muri e costruire ponti. Abbattere i muri
innalzati tra periodi storici, aree
geografiche e generi musicali.
Costruire ponti che avvicinino,
superino barriere, consuetudini
e pregiudizi e conquistino nuovo pubblico. Potrebbe essere
un’efficace sintesi del suo approccio alla musica, una sorta
di “Greilsammer pensiero”. Perché è così che David Greilsammer, pianista e direttore d’orchestra di origine israeliana, vive e
trasmette la sua passione, si fa
promotore di progetti innovativi. Artista eclettico, brillante, un
percorso di studi iniziato a Gerusalemme e terminato alla Juilliard School di New York, dove
nel 2004 debutta come solista
al Lincoln Center. Dal 2013 è direttore artistico e musicale della
Geneva Camerata. Sarà sul podio e al pianoforte con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, il 15 e il 17 gennaio,
interprete di un programma interamente dedicato a Beethoven
(Ouverture Egmont, Concerto n.
3, Sinfonia n. 8). Suona Scarlat-
ti e Cage insieme, poi presenta una “maratona” con 50 artisti
ospiti, interpreti di differenti stili
e provenienti da tutto il mondo.
La musica non ha confini?
«Non ne ha: dovrebbe sempre
essere libera, aperta, dinamica e
creare un dialogo tra persone e
differenti culture! Penso che noi
musicisti classici siamo troppo
concentrati sul nostro mondo e
sulla nostra musica, dovremmo
invece provare interesse per altri stili, altri generi e altre parti
del mondo. Sento estremamente importante che si creino ponti
che ci avvicinino gli uni agli altri».
Dal 2013 dirige l’ensemble Geneva Camerata.
«È un’orchestra unica e insolita,
composta da 30 giovani musicisti incredibili, dei solisti virtuosi,
ma anche dei meravigliosi esseri umani. Capaci di suonare
musica classica ai più alti livelli
ma anche jazz, blues, rock, balcanica o klezmer. E, ancora, capaci di suonare musica barocca
su strumenti storici, ma anche
musica elettronica o i più difficili pezzi dell’avanguardia contemporanea. È un enorme pia-
cere lavorare con loro e sono
davvero orgoglioso dei risultati raggiunti in soli due anni».
Il suo segreto per conquistare
nuovo pubblico?
«Una delle cose più importanti è il repertorio, e la scelta del
programma. Dobbiamo essere
capaci di presentare al pubblico programmi originali, affascinanti e insoliti che ispirino e sorprendano. Il pubblico giovane è
stanco di sentire sempre gli stessi compositori celebri e si aspetta che il mondo classico sia più
connesso con il mondo attuale».
Tradizione e innovazione: un
mix irresistibile?
«Si tratta di un importante mix.
La tradizione è importante: abbiamo bisogno di rispettare e
capire il passato, naturalmente; abbiamo bisogno di imparare dalle vecchie tradizioni e
studiarle con attenzione. Ma
dobbiamo anche essere capaci di guardare al futuro e lasciarci il passato alle spalle».
Luisa Sclocchis
(Al link amadeusonline.net interviste/2015/un-gesto-naturale
la versione estesa dell'intervista)
Per ordinare più copie del cofanetto potete scrivere o telefonare utilizzando i seguenti riferimenti:
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Bonifico bancario c/o Banca Credem intestato a Bel Vivere S.r.l.
IBAN: IT 46Q03032016150100000003489 - Specificare nella causale l'indirizzo per la spedizione
(L’acquisto verrà inviato al ricevimento del pagamento)
 Addebitare sulla mia carta di credito
 Visa
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Informativa DLGS 30 giugno 2003, n. 196
Compilando questo buono, Lei ci fornisce i dati necessari per poterLe inviare l'oggetto acquistato. L’email è facoltativo, ma ci permetterà di contattarLa
rapidamente per eventuali comunicazioni inerenti
l’acquisto. I dati saranno trattati mediante elaborazione con criteri prefissati. Lei potrà ricevere altre proposte commerciali da Bel Vivere Srl. A Lei spetteranno
i diritti di cui all’art. 7) DLGS 196/2003. Titolare del
trattamento è Bel Vivere Srl. e lei potrà rivolgersi per
qualsiasi domanda scrivendo alla Società titolare,
via Lanzone, 31 - 20123 Milano.
N.scadenza ......................................... ccv ................................
data....................................................................... firma ......................................................................................
A fine novembre è stato pubblicato il bando internazionale della terza
edizione di Biennale College-Musica, un progetto che intende promuovere
e sostenere la produzione di 4 opere a micro-budget di teatro musicale
(nella foto, Biennale 2014: Magen Zeit Opera). Le opere saranno presentate
al 60° Festival Internazionale di Musica Contemporanea 2016 e on-line
su Quarto Palcoscenico, lo spazio virtuale sul sito della Biennale dedicato
allo spettacolo dal vivo. ll bando si chiude il 12 gennaio ed è aperto a team
di compositori, librettisti, registi e scenografi che non abbiano superato i
35 anni. La selezione dei progetti è gestita da Ivan Fedele, direttore del
settore Musica, e comunicata a fine gennaio. I 4 gruppi selezionati saranno
accompagnati nella realizzazione dei loro progetti attraverso fasi formative e
di produzione in 4 tappe: a febbraio si svolgerà una settimana di workshop
sul rapporto tra testo e musica. Entro metà aprile consegna di metà partitura,
progetto scenico e libretto. I primi di giugno una settimana di lavoro con
l’equipe di tutor di Biennale College. Infine, nei giorni che precedono il
debutto, si terranno le prove sceniche e musicali. Info: labiennale.org
Amadeus 37
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PETRUZZELLI 2016
MARIOTTI: IO E ATTILA
M
U
ercoledì 27 gennaio si inaugura a Bari
la Stagione operistica con la messinscena di uno dei più grandi capolavori di
Mozart: Le nozze di Figaro, per la regia di
Chiara Muti e la direzione di Matthew Aucoin. A guidare il cast Alessandro Luongo
(Figaro), Edwin Crossley-Mercer (Il Conte di
Almaviva), Eleonora Buratto (La Contessa di
Almaviva), Maria Mudryak (Susanna) e Paola
Gardina (Cherubino). Il Presidente Gianrico
Carofiglio ha parlato di una «programmazione alta e popolare allo stesso tempo»
costruita con lo scopo di infoltire il pubblico
di abbonati. A febbraio sarà la volta di Nabucco per la regia di Joseph Franconi Lee
e la direzione di Rolando Böer. Doppio appuntamento, poi, con Puccini: a maggio Tosca, produzione firmata da Renato Palumbo
e Giovanni Agostinucci; a novembre Turandot, direzione di Giampaolo Bisanti e regia
di Roberto De Simone. Dopo Lo schiaccianoci di Čajkovskij si chiuderà con La vedova
allegra di Franz Lehár, Michael Tomaschek
sul podio e Federico Tiezzi al tavolo di regia.
Info: fondazionepetruzzelli.it
AMADEUS E IL “QUARTETTO”
CIVICA SCUOLA DI MILANO
Doppio appuntamento con il ciclo di incontri “Saper
ascoltare” organizzato dalla Società del Quartetto di
Milano con Amadeus e il Piccolo Teatro. Il progetto
coglie i momenti più stimolanti della stagione in corso
per organizzare nel chiostro del teatro di via Rovello
appuntamenti con storici della musica e critici scelti tra i
collaboratori della nostra rivista. Il 14 gennaio, in preparazione all’ascolto del Quartetto di Cremona, “Mozart,
il percorso dei 23 Quartetti”, a cura di Cesare Fertonani. Il 28 il tema è “Il quartetto tra Romanticismo e
Novecento”, in vista dei concerti del Quartetto Haas (2
febbraio) e del Quartetto Apollon Musagète, a cura di
Giovanni Gavazzeni. Info: quartettomilano.it
Il 12 dicembre è stata inaugurata la XII edizione degli Incontri Musicali con l’Orchestra Barocca della
Civica Scuola di Musica Claudio Abbado, rassegna
che promuove i giovani studenti iscritti ai corsi di alta
formazione. Il 24 gennaio secondo appuntamento con
Il pianto di Arianna (dir. Elisa Citterio); si prosegue il
27 febbraio con Il liuto galante (dir. Paul Beier); il 2
aprile Nello stile italiano (dir. Lorenzo Ghielmi); il 30
aprile Divertimenti mozartiani (dir. Gianni De Rosa);
si chiude il 28 maggio con Per il compleanno della Regina (dir. Antonio Frigé). Da non perdere il concerto del
seminario curato da Claudia Caffagni a Villa Simonetta
il 7 maggio. Info: fondazionemilano.eu
FERRARA: SI INAUGURA CON TRISTANO E ISOTTA
n’idea di guida basata sul
rispetto. Non sull’autorità ma
sull’autorevolezza. Sulla forza della
propria idea e della propria visione.
Sulla ricerca di un’identità fatta di un
preciso suono e di un caratteristico
timbro. Queste le fondamenta su cui
poggia la direzione d’orchestra firmata
Michele Mariotti. Alla guida della sua
orchestra inaugurerà la stagione
d’opera 2016 del Teatro Comunale di
Bologna con l’Attila di Giuseppe Verdi,
in scena dal 23 al 31 gennaio per la
regia di Daniele Abbado. «Dirigere è
un sogno che coltivavo fin da bimbo,
quando costruivo le bacchette con
bastoncini di legno e tappi di sughero
e respiravo l’aria del teatro assistendo
alle prove»; così il giovane direttore di
origine pesarese racconta la passione
che l’ha condotto verso l'attuale
carriera internazionale, tra Metropolitan
Opera di New York, Covent Garden
di Londra e Opéra di Parigi. Gli studi
con Manlio Benzi nel Conservatorio
della sua città, poi con Donato Renzetti
all’Accademia Musicale Pescarese e, nel
2005, il debutto nel mondo dell’opera
con Il barbiere di Siviglia di Rossini. Nel
2007 apre la stagione del Comunale di
Bologna con il Simon Boccanegra ed è
nominato direttore principale; nel 2014
diventa direttore musicale.
Quanto conta una figura stabile nella
crescita di un’orchestra?
«Conta tanto se capace di impostare
TRIONFO BAROCCO ALLA SCALA
L
Sopra, il Teatro Petruzzelli di Bari; qui, Tristan und Isolde con la regia di Monique Wagemakers
38 Amadeus
un lavoro e una presenza costanti,
un cammino insieme e una crescita
biunivoca».
Qual è la sua lettura dell'Attila?
«Si tratta di un’opera fatta di profondità
di linguaggio e scavi introspettivi,
in cui Attila appare come simbolo di
valori positivi, di rigore, rispetto del
nemico e fedeltà. Un’opera di ardita
sperimentazione incentrata sui rapporti
umani e sulla natura». l.scl.
a stagione lirica del Teatro Comunale di Ferrara si inaugura a gennaio
con Tristan und Isolde. Il capolavoro di
Wagner, rappresentato a Ferrara un’unica
sera nel 1974, vedrà alla direzione Marcus
Bosch, direttore musicale dello Staatstheater Nürnberg e della Staatsphilharmonie
Nürnberg dal 2011, uno dei più valenti interpreti del Romanticismo tedesco. A guidare
il cast nel ruolo dei protagonisti ci saranno
Vincent Wolfsteiner e Claudia Iten, tra i
più apprezzati rappresentanti dalla vocalità wagneriana. L’allestimento, firmato da
Monique Wagemakers, mette in scena
le passioni dei personaggi in un’ambientazione astratta che punta sul carattere simbolico dei suoi elementi e
sulla forza poetica del dramma musicale.
Info: teatrocomunaleferrara.it
C
Michele Mariotti; qui, Il trionfo del tempo e del disinganno, regia Jürgen Flimm
on Il trionfo del tempo e del disinganno di Georg Friedrich
Händel il Teatro alla Scala riporta in scena il Barocco e
inaugura un nuovo progetto dedicato alle esecuzioni storicamente
informate. Dopo il grande successo del ciclo dedicato a
Monteverdi, ogni anno si produrrà un titolo del repertorio
preclassico o classico con strumenti antichi e sotto la bacchetta
di uno specialista, nell’intento di creare anche al Piermarini una
nuova tradizione esecutiva barocca. Il progetto è stato condiviso
da numerosi strumentisti dell’Orchestra del teatro, dal 28 gennaio
impegnati con il primo degli oratori che Händel compose in Italia
(nel 1707). Una partitura in cui si manifestano preoccupazioni legate
alla forma, tipiche degli anni di formazione. A variare la stereotipa
successione di arie e recitativi intervengono così due duetti, una
sorta di aria doppia e un quartetto. L’allestimento della Scala è
quello già messo in scena da Jürgen Flimm ed Erich Wonder
per l’Opera di Zurigo e portato poi, con grande successo, anche
all’Opera di Berlino. Solisti vocali saranno il soprano Martina
Jankova, il mezzosoprano Lucia Cirillo, il contralto Sara Mingardo,
e il tenore Leonardo Cortellazzi. Info: teatroallascala.org
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SERENA MALFI: CENERENTOLA PER EMMA DANTE
A
dell’Opera di Roma diretta da Alejo Pérez
per la regia di Emma Dante.
La sua Cenerentola?
«Molto sensibile ma altrettanto forte:
combatte per conquistare la pace familiare
e per la propria felicità e riesce a ristabilire
tutti gli equilibri».
Una Cenerentola indimenticabile?
«Ho ascoltato tantissimo Teresa Berganza
ma anche Lucia Valentini Terrani».
Certamente un ruolo che sente
particolarmente suo...
«È uno dei personaggi che canto sin
dall’inizio della mia carriera e più di
frequente, le sono affezionata. Interpreto
spesso opere giocose di Mozart o Rossini;
diciamo che mi manca forse l’emozione
di ruoli più drammatici. D’altronde chi non
vorrebbe morire in scena?».
Il suo sogno?
«Quello che sto vivendo è già il mio
sogno, vorrei poter continuare a sognare».
l.scl.
spetto solare, sguardo vivace e
vitalità travolgente, insieme a una
leggera cadenza che non tradisce le
sue origini partenopee. Non risulta
difficile immaginare come il giovane
mezzosoprano Serena Malfi abbia
rapidamente conquistato le scene dei
templi sacri dell’opera. La provenienza da
altri generi – pop, funk e jazz – poi l’amore
per il canto lirico, assoluto e totalizzante.
Così, dopo gli studi al Conservatorio di
Avellino e all’Accademia di Santa Cecilia
di Roma, inizia la sua rapida ascesa. Il
debutto nel 2009 con l’opera La grotta
di Trofonio di Antonio Salieri, in una
produzione dell’Opernhaus di Zurigo,
poi le tante esperienze internazionali tra
Concertgebouw di Amsterdam, Teatro
Real di Madrid, Opéra National de Paris,
Wiener Staatsoper e Metropolitan Opera
House di New York. Sarà Angelina ne La
cenerentola di Gioachino Rossini, in scena
dal 22 gennaio al 19 febbraio al Teatro
AL REGIO DI TORINO PARTE IL PROGETTO JANÁČEK
C
on la messinscena di una delle più
commoventi fiabe del Novecento,
La piccola volpe astuta, al Teatro Regio
di Torino ha inizio il “Progetto Janáčekˮ
che prevede l’allestimento, a partire dalla
stagione 2016, dei grandi capolavori del
compositore moravo letti e interpretati
da Robert Carsen, artista acclamato e
impegnato da sempre nell’infondere nuova
linfa alla regia d’opera. La fiaba messa in
musica da Janáček, completata nel 1924
prendendo spunto da un fumetto a puntate
pubblicato nella rivista Lidové noviny, narra
le avventure di Bystrouška, una volpe che,
grazie alla sua astuzia, riuscirà a cavarsela
in diverse situazioni. Al direttore inglese,
Jan Latham-Koenig (uno dei massimi
esperti dell’opera di Janáček), il compito
Serena Malfi, in gennaio Cenerentola all’Opera di Roma; sotto, Goyescas di Granados, dal 23 all'Opera di Firenze
La piccola volpe astuta di Janáček, regia di Robert Carsen; sotto la vocalist e compositrice Agata Zubel
L'OPERA DI FIRENZE SI FA IN TRE
LA NUOVA MUSICA A BERLINO È ULTRASCHALL
R
icco di appuntamenti il calendario di gennaio all’Opera di
Firenze con tre nuovi allestimenti. Il 22 debutta una nuova
produzione di due drammi esistenziali femminili: La voix humaine
di Poulenc e Suor Angelica di Puccini. La direzione è affidata a XŬ
Zhōng, la regia è di Andrea De Rosa. Il 23 balletto e opera si
incrociano: El amor brujo (coreografia di Imperio e musiche di
Falla) e Goyescas, la più celebre opera di Granados. Molto
interessante inoltre la scelta di proporre il 27, Giorno della
Memoria, Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide) di
Viktor Ullmann. Scritta nel 1943 a Terezín l’opera non andò mai in
scena perché a prove iniziate intervenne la censura, preoccupata
di una satira contro Hitler. Quasi tutti i protagonisti vennero
deportati ad Auschwitz. Il direttore è Roberto Misto, la regia è
di Pier Paolo Pacini. Info: operadifirenze.it
NOTE AL MUSEO
A dicembre si è aperta la Rassegna di concerti al Museo dell'Opera del Duomo di
Firenze (Sala del Paradiso), con la direzione artistica di Francesco Ermini Polacci. Tre
sono i concerti in programma nei primi mesi del 2016. Il 21 gennaio Marianna Pizzolato
presenta un affascinante viaggio nella vocalità, con particolare attenzione al belcanto
sette-ottocentesco: pagine da camera e arie d’opera, come “Lascia ch’io pianga” dal
Rinaldo di Händel o “J’ai perdu mon Eurydice” dall’Orphée et Eurydice di Gluck. L’accompagna il pianista americano Mark Markham, suo abituale partner in recital. Il 25
febbraio un duo di giovani interpreti italiani, Francesco Dillon ed Emanuele Torquati,
propone un excursus attraverso il repertorio romantico. Le celeberrime Kinderszenen di
Schumann, verranno presentate in un’accattivante quanto rara trascrizione del violoncellista Friedrich Grützmacher. Si chiude in bellezza il 17 marzo con Il Rossignolo,
gruppo specializzato nell’esecuzione su strumenti d’epoca, e il mezzosoprano Laura
Polverelli. Il programma sarà tutto dedicato ad Händel. Info: operaduomo.firenze.it
40 Amadeus
C
hi ama la musica contemporanea non può
mancare l’appuntamento con Ultraschall
a Berlino, dal 20 al 24 gennaio. La rassegna
indaga come sempre i molteplici sviluppi
della nuova musica, ma cercandone le
radici anche nel passato recente, come
dimostra la presenza di lavori di Dutilleux,
Berio, Friedrich Cerha, Galina Ustwolskaja.
Ci sono i big, come Rihm (Geste zu Vedova)
e Haas (Unheimat per archi). Ci sono i due
compositori residenti col programma DAAD,
l’irlandese Karen Power e Francesco Filidei.
L’altro italiano in programma è il veneziano
Roberto Rusconi, presente con De Arte
Respirandi eseguito dal Minguet Quartet.
Un tratto provocatorio e iconoclasta si coglie
in numerosi lavori, come Popular Contexts 8
dell’australiano Matthew Shlomowitz, Die lllusion
zu erzeugen per percussioni e elettronica
di Hannes Seidl, The Cartography of Time
di dirigere l’Orchestra e il Coro del Teatro
Regio. Il delicato allestimento di Carsen,
in prima italiana, è una coproduzione tra
l’Opéra National du Rhin e l’Opéra de Lille.
In un’ambientazione onirica, dominata
da grandi colline dai colori invernali, i
numerosi personaggi dell’opera, per lo
più animali in forme umane, animano un
bosco fantastico e interagiscono con gli
uomini, in un dialogo a volte drammatico,
a volte affettuoso. Il cast impegnato
nelle cinque recite dell’opera, dal 19 al
26 gennaio, annovera artisti formati nel
solco della tradizione mitteleuropea,
con grande esperienza dei capolavori di
Janáček. Tra gli altri: Lucie Silkenová, la
volpe Bystrouška; Michaela Kapustová nei
panni del volpacchiotto Zlatohřbítek. La
regia di Robert Carsen è ripresa da Stefano
Pintor, scene e costumi Gideon Davey,
coreografie Philippe Giraudeau, luci di
Robert Carsen e Peter Van Praet.
Info: teatroregio.torino.it
per Gong ed elettronica di David Brynjar
Franzson. Sonorità ricercate e arcaiche
dominano nel concerto di Katharina Bäuml
e Margit Kern. Molto atteso, inoltre, nel
concerto dello Zafraan Ensemble, è il nuovo
pezzo, Dex, di Johannes Boris Borowski.
Ci saranno diversi concerti di solisti che
suonano con il supporto di apparecchiature
elettroniche. Agata Zubel sarà presente sia
come compositrice che come vocalist nei
suoi lavori Shades of Ice e Not I, per voce
e ensemble. La violinista Barbara Lüneburg
interagirà con elettronica e video; il pianista
Christoph Grund si cimenterà con due lavori
per pianoforte e elettronica. Il festival si aprirà
e chiuderà con due concerti della Deutsches
Symphonie-Orchester: il primo diretto da Kristjan
Järvi; il secondo, diretto da Simone Young.
Info: ultraschallberlin.de
Gianluigi Mattietti
Amadeus 41
INSCENA
T H E R O YA L O P E R A
anteprima
...nel mondo
GENNAIO
AMSTERDAM
De Nationale Opera
17-31 Mozart, Die Zauberflöte;
dir. A. Marcon, reg. R. Jones
GINEVRA
Grand Théâtre
3-8 Händel, Ariodante;
dir. G. Madaras, reg. J. Rose
PARIGI
Palais Garnier
19-31 Strauss, Capriccio;
dir. I. Metzmacher, reg. R. Carsen
Opéra Bastille
20-29 Massenet, Werther;
dir. A. Lombard, reg. B. Jacquot
28, 31 Verdi, Il trovatore;
dir. D. Callegari, reg. A. Ollé
ZURIGO
Opernhaus
1-9 Rossini, Il viaggio a Reims;
dir. D. Rustioni, reg. C. Marthaler
17-30 Donizetti, Don Pasquale;
dir. E. Mazzola, reg. G. Asagaroff
24-31 Rihm, Die
Hamletmaschine; dir. G. Feltz,
reg. S. Baumgarten
ANNO NUOVO, OPERE NUOVE
A
nno nuovo, opere nuove. Stilles Meer (mare
silenzioso) di Toshio Hosokawa, che debutta
alla Staatsoper di Amburgo, si ricollega all’incidente nucleare di Fukushima. Il testo di Hirata Oriza,
trasformato in libretto da Hannah Dübgen, si basa
sull’antico Nô Sumidagawa, lo stesso al quale si
ispirò Britten per Curlew River. La protagonista è
una donna che ha perso il marito e il figlio nel disastro nucleare, e che va spesso in riva al mare dove
le lanterne ricordano le anime dei morti. Rivede
per un attimo lo spirito del bambino, che alla fine si
dissolve tra le sue braccia. Hosokawa ha fatto sua
la dimensione antirealistica e “contemplativa” del
teatro di Hirata (che sarà anche regista dell’opera),
e ha creato una partitura piena di implicazioni simboliche. Sul podio ci sarà Kent Nagano. Nel cast
Susanne Elmark, Mihoko Fujimura e il controtenore Bejun Mehta (dal 24 gennaio al 13 febbraio).
Dal disastro provocato da un maremoto all’esplorazione di un’altra parte del nostro pianeta: “geologica” è anche la nuova opera di Miroslav Srnka,
South Pole (commissionata dalla Staatsoper di
Monaco) che racconta l’avventurosa scoperta del
Polo Sud. Il quarantenne compositore ceco, allievo
di Fedele e Manoury, attivo anche come musicologo, curatore delle edizioni critiche di molti lavori
di Dvořák, Janáček e Martinů, già celebre per le
opere da camera Wall (Berlino 2005) e Make No
Noise (Monaco 2011), ha scritto l’opera su un libretto di Tom Holloway. Si racconta la celebre, tragica
sfida tra l’esploratore inglese Robert Falcon Scott
e il norvegese Roald Amundsen, che nel 1911 furono i primi ad arrivare al Polo Sud. Srnka ne ha fatto
così una specie di opera doppia, che racconta due
vicende parallele, identificate musicalmente anche
da alcune citazioni: il tema di Scott è la romanza del
fiore da Carmen, il tema di Amundsen è la canzone
di Solveig dal Peer Gynt. Regia di Hans Neuenfels. Sul podio Kirill Petrenko, in palcoscenico star
della lirica come Thomas Hampson (Amundsen) e
Rolando Villazón (Scott), Tara Erraught e Mojca Erdmann (dal 31 gennaio all'11 febbraio). g.matt.
SALISBURGO: MOZART WOCHE 2016
Sopra, a Monaco di Baviera si prova
South Pole, la nuova opera
di Miroslav Srnka; qui Renaud
Capucon che a Salisburgo il 27 gennaio,
in occasione del 260° anniversario
della nascitadi Mozart, suonerà
il concerto per violino
L'arbre des songes di Dutilleux per la
Settimana mozartiana
Dal 22 al 31 gennaio la Fondazione Mozarteum di Salisburgo
invita tutti alla Mozart Woche 2016. I principali concerti per
solisti e musica da camera ruotano intorno a tre giganti: Mozart, Mendelssohn e Dutilleux. Al pianoforte si avvicenderanno Sir András Schiff, Mitsuko Uchida, Radu Lupu, Katia e
Marielle Labèque, Fazil Say e Alexander Melnikov. Fra le formazioni di musica da camera si esibiranno l’Hagen Quartett, il
Quatuor Ebène, Les Vents Franҫais e il violoncellista Nicolas
Altstaedt. La principale serata concertistica sarà incentrata su
Acis and Galatea, capolavoro di Hӓndels scritto nel 1718 per
la residenza di campagna del conte di Carnarvon e ripreso nel
1788 da Mozart in una forma nuova e più moderna. La serata
prevede l’esecuzione anche della rielaborazione orchestrale
del 1828 di Mendelssohn. Info: mozarteum.at
TALVOLTA AMARE QUALCUNO
SIGNIFICA LASCIARLO ANDARE
VIOLETTA VALÉRY VENERA GIMADIEVA
ALFREDO GERMONT SAIMIR PIRGU | GIORGIO GERMONT LUCA
SALSI
LA
TRAVIATA
MUSICA GIUSEPPE
VERDI | REGIA RICHARD EYRE | DIRETTORE D’ORCHESTRA YVES ABEL
IN DIRETTA AL CINEMA IL 4 FEBBRAIO - ORE 19,45
www.rohalcinema.it
42 Amadeus
12A è il grado di censura previsto dal British Board of Film Classification per tutti gli spettacoli: tutti i minori di 12 anni devono essere accompagnati da un adulto
Image by AKA (©ROH, 2015)
MADRID
Teatro Real
16-30 Mozart, Die Zauberflöte;
dir. I. Bolton, reg. S. Andrade &
B. Kosky
INSCENA
lacritica
MILANO
Teatro alla Scala
Verdi Giovanna d'Arco
Splendida Netrebko nel
Verdi autentico di Chailly
Q
uel che più ha impressionato, nella Giovanna d'Arco che ha aperto la stagione
della Scala, è stata la direzione di Riccardo
Chailly. Niente di più istruttivo per constatare come la recezione verdiana abbia subito
una svolta: le opere degli "anni di galera",
considerate da un lunga tradizione critica
rozze, volgari e "brutte", possono apparire
oggi prodotti raffinati, senza perdita alcuna
di vigore e di forza. L'operazione di Chailly
è quasi banale: parte da una lettura attenta
della partitura, e da una resa fedele di tutto
ciò che c'è scritto. Cosa ignorata da una tradizione esecutiva che ha portato, sin dall'Ottocento, a gravi fraintendimenti del dettato
verdiano. Pullulano nella Giovanna d'Arco
le indicazioni espressive: con raccapriccio,
cantabile, con dolore, con passione, con
energia, canto liscio, slanciate, mezzavoce,
rapita in estasi, legate e sottovoce, con gra-
zia, con voce quasi spenta, con disperazione,
ecc., indicazioni che vanno ad aggiungersi
alle minute prescrizione di dinamica e di fraseggio. Chailly le rispetta tutte, vi aggiunge
la sua innata sensibilità e gusto musicale,
e ci presenta una partitura irriconoscibile,
piena di particolari squisiti, meno invadente
del solito nelle parti più bellicose e robuste,
resa vitale attraverso la continua varietà del
suono e una straordinaria elasticità di fraseggio: magistrale la resa di piccoli rubati che
fanno respirare la musica, senza rompere la
quadratura ritmica del discorso. Dunque per
eseguire bene Verdi ci vogliono bacchette
abituate a ben altro: Bach e Brahms, Beethoven e Mahler, Mozart e Bruckner. La stessa
cura, la stessa attenzione, lo stesso amore del
particolare necessario per queste partiture,
applicate a Verdi, soprattutto a quello delle
prime opere, ne cambiano il volto. Bastava
sentire l'Orchestra della Scala apparire e sparire sotto le voci, pulsare con naturalezza negli
accompagnamenti, sottratti a qualsisi rigidezza meccanica, sfumare di continuo il suono in
tutta la gamma, dal pianissimo al fortissimo,
mettere in luce particolari scritti ma mai uditi.
Un lavoro di cesello, insomma, che ci fa riconoscere oggi, in Chailly, un depositario del
Verdi più autentico. Naturalmente i cantanti
si sono mossi in sintonia col direttore. Splendida Anna Netrebko: la voce è incisiva, ha un
timbro penetrante ma morbido, le colorature
sono agili e precise, investite da una forza che
dà energia ad ogni nota, anche a quelle del registro basso. Francesco Meli, ad ogni prova, si
conferma il cantante che è: un piacere ascoltarlo per la chiarezza della dizione, la luminosità del timbro e dello stile. Devid Cecconi
ha sostituito degnamente Àlvarez ammalato.
Splendida la prova dell'orchestra e del coro,
molto impegnato nell'opera e istruito come
sempre in modo magistrale da Bruno Casoni.
La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier fa
di tutto per confondere le carte e impedire
agli spettatori di capire dove si sta svolgendo
l'azione. Solo quando appare la Cattedrale
di Reims ci si raccapezza, anche se l'opera
continua a svolgersi in una camera da letto (?!)
dove passa di tutto , fuochi e fiamme, soldati e
popolo, nuvole e cielo azzurro, lance e armature di plastica, guazzabuglio figurativo che fa
pensare piuttosto a una prova di scena, in cui
molto sia ancora da organizzare e mettere in
ordine per dargli un senso immediatamente
afferrabile, come dovrebbe succedere sempre in teatro. Paolo Gallarati
Qui, Anna Netrebko e Francesco Meli, protagonisti della Giovanna d'Arco che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly
Amadeus 45
INSCENA
INSCENA
lacritica
PARIGI
Opéra Bastille
Schönberg Moses und Aron
Il trionfo di Castellucci
inaugura il "regno" di Lissner
T
utta Parigi era all’Opéra-Bastille per la prima di Moses und
Aron di Arnold Schönberg, produzione voluta da Stéphane
Lissner come primo emblema di un “regno” iniziato l’anno scorso
con una stagione fatta dal suo predecessore. Non si sapeva che
Schönberg potesse attirare il fior fiore degli amanti della lirica…
Moses und Aron, entrato in versione francese nel repertorio
dell’Opéra nel 1973, è stato proposto in versione originale,
con la regia attesissima di Romeo Castellucci. È stato il trionfo
previsto, preparato da una campagna di comunicazione che
aveva creato l’attesa irrazionale di un’esplosione creativa del
regista italiano, per la sua quarta produzione lirica. Castellucci
ha proposto un lavoro dominato dalla questione del Verbo,
della parola: parola difficile per Mosè e facile per Aronne,
Verbo di Dio, trasmesso a Mosè attraverso un registratore
vecchio stile con nastri che cadono su di lui, o che avvolgono
la divinità pagana onorata dal popolo ebraico lasciato da solo
per 40 giorni contati (un calcolatore proiettato lo ricorda), parole
che sfilano a grande velocità, o che si indovinano sul suolo
al ritorno di Mosè quando lo spazio, prima bianco e puro, si
macchia di liquido nero (petrolio? O forse inchiostro): il mondo
puro lasciato da Mosè è diventato 40 giorni dopo macchiato
e sporco. Castellucci compone immagini stupende come la
nebbia iniziale fatta di sfumature di bianco, l’apparizione del
vitello d’oro, rappresentatoda un enorme toro bianco vivo
sul quale si versa anche un po’ di liquido nero, o la piscina
probatica nella quale ciascuno si tuffa. Ne risulta uno spettacolo
tutt’altro che scandaloso, rituale senza asprezza, lento, dove
vengono come distanziate tutte le scene che marcano la
perdita di valori del popolo: l’orgia sparisce, evocata da corpi
nudi appena visibili. Rimane un corpo di donna nuda vicino al
toro suggerendo un sacrificio terribilmente pagano.La musica
è coerente con questa cerimonia sacrale: non è incisiva la
direzione pur precisa e chiara di Philippe Jordan, ma manca
forse di dinamica e di tensione; la prestazione del coro (che è il
personaggio principale dell’opera) preparato da mesi da José
Luis Basso è a dir poco prodigiosa, e i solisti notevoli: Thomas
Johannes Mayer con il suo timbro velato, la sua energia, la sua
impeccabile dizione è un Mosè impressionante di presenza
e di grandezza. Di fronte, Aronne (John Graham-Hall) non è
brillante come dovrebbe essere l’oratore Aronne, simbolo del
politico opportunista, la voce si stanca, l’acuto non è sicuro.
Molto bene gli altri, in particolare Christopher Purves, Catherine
Wyn-Rogers, e Nicky Spence. Una bellissima serata che segna,
speriamolo, una carriera nuova per l’opera di Schönberg: a 85
anni compiuti, sarebbe ora…
Guy Cherqui
Qui, Moses und Aron nell'allestimento proposto all'Opéra Bastille da Romeo Castellucci
lacritica
BERGAMO
Teatro Donizetti
Donizetti Anna Bolena
Studiosi e interpreti:
l'unione fa la forza
I
l Teatro Donizetti affollato in ogni ordine
di posti, festosissimo, per Anna Bolena
proposta da Lirica Bergamo 2015 affidata
alla guida di Francesco Micheli. Prima esecuzione integrale in teatro sull’edizione critica di Paolo Fabbri. Da quando la Bolena
fu riscoperta nel 1957 alla Scala (indimenticabile, con tagli misurati alla vocalità degli
artisti e all’evidenza di sintesi) tentativi di
riapertura erano stati fatti; mai però con la
fedeltà assoluta anche a tutti i recitativi, che
non solo spiegano i personaggi, ma sono
straordinariamente accompagnati. Risultato
importante: la fiducia nel testo come è uscito configurato dalla collaborazione letteraria
del poeta Felice Romani e dalla costruzione
musicale e drammaturgica di Donizetti: vittoria della Fondazione Donizetti e dei suoi
studiosi. Ci voleva un direttore come Corrado Rovaris, appassionato e scrupoloso,
per infondere negli artisti, cantanti, Coro
e Orchestra necessità e naturalezza: nelle
campiture d’ambiente i personaggi inquieti
approdano ad arie e pezzi d’assieme, non
più isolabili. Ha addestrato la compagnia a
Sopra, Carmela Remigio, Anna Bolena a Bergamo;
sotto, una scena di La jura di Gavino Gabriel
questo palpito incessante, alla trasparenza
consapevole della parola, alla flessibilità
belcantistica morbida di ornamentazione
che i cantanti giovani hanno ereditato da
decenni di belcanto-renaissance. Decisiva
poi la tonalità originale ripristinata al tenore:
amoroso, leggero, aperto a virtuosismi di grazia e slanci acuti “di testa” com’era Rubini, il
primo Percy, con l’interprete Maxim Mironov.
Carmela Remigio si inventa Anna Bolena con
incantevole sincerità e continuità di tenuta,
regina di fronte ai tranelli del potere e donna
vulnerabile, trascinante negli scatti d’impeto,
nella tenerezza sofferta. Sofia Soloviy intreccia con limpida dolcezza turbamento e rimorso alla sensualità ambiziosa di Giovanna; Alex
Esposito, il Re, infuria con autorità dal torbido
sussurro al declamato infuocato; con Manuela Custer, sensibile Smeton, Gabriele Sagona
e Alessandro Viola. Recitano intensi, ma alla
regia di Alessandro Talevi manca la Storia.
Perché Enrico VIII non è un nevrotico pericoloso, immeschinito in costume da rapper, il
Paggio non può cantare su una passerella da
acqua alta, col Coro Damigelle accovacciato,
in neri “tutù” da orfanelle, che si sbraccia ad
ali di cigno. Durante la Sinfonia non può agitarsi sul girevole la regina che partorisce (ma
non l’erede maschio), rovello a cui Donizetti
non presta attenzione, come sono gratuiti
l’attesa di Giovanna, già in posizione per le
bramosie sessuali del Re, o il roteare della
culla itinerante nel delirio. Non scandalizza,
perché il pubblico ormai è quasi agevolato
dalla moda di spettacoli sinistri, in uno spazio scenico che si trasforma (scene e costumi Madeleine Boyd). Importato questo dalla
Welsh National Opera-Cardiff a costi solidali.
Franca Cella
CAGLIARI: LA JURA
Il progetto che ruotava intorno a La Jura, in cartellone
alla Fondazione Teatro Lirico di Cagliari dopo più di
cinquant’anni dall’ultima rappresentazione (la prima
fu nel 1928), ha visto contestualmente alla messa in
scena la ricostruzione filologica della partitura curata
da Susanna Pasticci e una serie di iniziative culturali
dedicate. Legata al pensiero etnologico del suo creatore
Gavino Gabriel (apprezzabile più come intellettuale
che come compositore e librettista) , La Jura si presenta
come un’opera di stampo tardo-verista: ambientata nella Sardegna ottocentesca con un focus sulla tradizione
regionale, come lo stesso titolo evidenzia, risulta musicalmente un ibrido nel quale l’introduzione degli elementi musicali folklorici si limita a una giustapposizione che non altera l’impianto neoclassico, mentre risulta
interessante l’intervento non mediato del coro gallurese
“a tàsgia”. Buona la regia di Christian Taraborrelli e
il cast vocale e strumentale, diretto da Sandro Sanna.
Francesca Mulas
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BOLOGNA
Teatro Comunale
Strauss Elektra
Le agghiaccianti peripezie
di un dramma familiare
I
VENEZIA
Teatro La Fenice
Mozart Idomeneo
Ironia e affetti
per un insidioso libretto
I
l libretto di Idomeneo, scritto dall’abate
Varesco nel 1781, è forse il più prolisso
tra quelli musicati da Mozart che cercò
inutilmente un rimedio. Così la prolissità,
proprio come temeva Mozart, resta il più
insidioso nemico dell’effetto drammatico
di una storia che, ponendo sullo sfondo
di un amore contrastato la guerra tra i
popoli e i tormenti dell’uomo di potere,
avrebbe in realtà motivi di interesse
ancora attuali a dispetto del contesto
apologetico-celebrativo monacense per
cui fu scritta. Ma, per dirla con le parole
stesse del salisburghese, è in realtà il
“potere della musica” che riscatta gli
inconvenienti librettistci e fa di Idomeneo
una delle partiture più lussureggianti e
accuratamente orchestrate, insieme a
Die Entführung, di tutto il teatro di Mozart.
Jeffrey Tate, nel nuovo allestimento che
Inaugurazione con Idomeno alla Fenice di Venezia:
regia, Alessandro Talevi, direttore Jeffrey Tate
MILANO MUSICA
La dedica a Bruno Maderna del Festival Milano Musica di quest’anno poneva l’accento sulla presenza sempre
attuale, oggi, del compositore veneziano (se ne è parlato nella rubrica Musicaoggi dello scorso agosto) senza
dedicargli una estesa monografia. Due capolavori molto diversi e di grande rilievo, il Concerto per violino e
Aura erano nel concerto inaugurale insieme a Berg e Webern; altre pagine significative si intrecciavano a un
programma di grande varietà e ricchezza. Di eccezionale rilievo la rappresentazione di Giordano Bruno, la
prima opera di Francesco Filidei, giunta a Milano qualche settimana dopo Porto, Strasburgo e Reggio Emilia
(da dove ne ha riferito Gianluigi Mattietti); altre proposte spaziavano da un omaggio pianistico a Boulez per
i suoi 90 anni a Berio, Donatoni, Lachenmann, Birtwistle, Sciarrino, a presenze più giovani come quella di
Aureliano Cattaneo (affidato al mdi Ensemble) o quelle legate alla consueta collaborazione con la Fondazione
Spinola Banna per l’Arte: Fabio Nieder aveva scelto l’ungherese Máté Balogh (1990) e Caterina Di Cecca
(1984) e ha diretto egli stesso l’Ensemble Mosaik nelle loro novità assolute e in due suoi pezzi bellissimi
nel loro carattere onirico-visionario, entrambi legati al progetto teatrale sul pittore triestino Vito Thümmel
che lo accompagna dal 2001. Memorabili, fra gli altri, i due concerti per quartetto con il Quartetto Arditti
e con il Quatuor Diotima, che aveva al centro Clamour di Gervasoni (su cui si veda Musicaoggi a pag.81).
Paolo Petazzi
48 Amadeus
ha inaugurato la stagione del Teatro
La Fenice di Venezia, ha pienamente
reso lo splendore della scrittura ben
assecondato dall’orchestra e dal Coro (che
ha rivelato qualche difficoltà solo quando
dalla massa sono dovuti uscire i solisti
dell’Intermezzo del primo atto). Come era
dovuto al ruolo di Idomeneo nato per un
grande e coltissimo tenore, Anton Raaf,
l’allestimento della Fenice si è avvalso
di un interprete giusto per virtuosismo
e accento, il giovane tenore americano
Brenden Gunnell. Buona la dolce Ilia di
Ekaterina Sedovnikova e quindi Idamante
di Monica Bacelli, Elettra di Michaela
Kaune, Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani
nell’impegnativa parte che fu scritta per il
tenore Domenico Panzacchi. La regia di
Alessandro Talevi cerca di trarre il meglio
dal libretto e asseconda con gusto la
musica ora esteriorizzandone gli affetti, ora
evidenziandone l’ironia. Molto essenziali le
scene di Justin Arienti, mentre i costumi di
Manuel Pedretti sono un curioso pastiche
di elementi simbolici velatamente allusivi e
non sempre trasparenti come ad esempio
i dreadlocks intrecciati sulla testa di tutti gli
eroi della tribù cretese.
Pubblico numeroso e caldo successo.
Paolo Cattelan
l Teatro Comunale, che aveva dato l’Elektra di Strauss in italiano
nel lontano 1969, ha importato dalla Monnaie (Bruxelles) e dal
Liceu (Barcellona) un suggestivo allestimento di Guy Joosten,
scene e costumi di Patrick Kinmonth. Visto dal di dentro, il palazzo
degli Atridi è un edificio grandioso e scalcinato, dall’aspetto
infausto. Agli infelici abitanti accudisce uno stuolo femminile di
vigilanti in uniforme, un po’ poliziotte e un po’ infermiere, petulanti
e prepotenti: così appaiono nella prima scena, che il regista ha
collocato in uno spogliatoio, infrangendo l’unità di spazio dell’atto
unico. Il resto dell’azione si svolge in un ampio, disadorno androne,
collegato alla magione regale da un’angusta scaletta. Di lì calano
Crisotemide, Clitennestra, più tardi Egisto; di lì l’uxoricida impunita
risale ignara verso la morte, sbottando in un terrificante sghignazzo
all’indirizzo di Elektra. È l’agghiacciante peripezia del dramma,
un culmine d’ironia tragica: Clitennestra e le sue donne deridono
l’ignara eroina, ma in realtà ridono senza saperlo della propria
rovina incombente; la notizia della morte di Oreste, il temuto
vendicatore di Agamennone, è infatti un’atroce menzogna che cela
la devastante verità, l’arrivo imminente del giustiziere in incognito,
Elektra al Comunale di Bologna, uno spettacolo firmato da Guy Josten
e diretto da Lothar Zagrosek: in basso, la protagonista Elena Nebera
da Elektra spasmodicamente atteso. S’intuisce che vi debbano
essere sale fastose, di là dai battenti di un monumentale portone
ligneo, che ha tutta l’aria d’essere rimasto chiuso da quando
Agamennone era partito per la guerra. Ma nel polveroso ripostiglio
di attrezzi dismessi che noi vediamo, la luce del crepuscolo
non penetra mai: rannicchiata sotto un baldacchino, Elettra
selvaggiamente ulula il proprio dolore per il genitore trucidato. Solo
le torce delle attendenti arrecano di quando in quando un bagliore,
un barlume, nel persistente grigiore dell’aria. Oreste di là dal muro
consuma l’eccidio riparatore. Al colmo del suo valzer tripudiante
Elettra si accascia. A questo punto il portone si solleva: come per
prodigio, sotto le arcate e le balconate di un’aula maestosa in stile
guglielmino, la salma dell’eroina appare riversa sulle ginocchia
del fratello, quasi una michelangiolesca Pietà. Ai loro piedi stanno
le vittime dell’ecatombe. La reinterpretazione del fulminante mito
narrato da Hofmannsthal e sonorizzato da Strauss è libera ma
non impertinente, ed è sorretta dall’espressionistica gestualità
che il regista ha saputo ottenere da un cast di gagliardi cantantiattori: istericamente esagitata l’Elettra di Elena Nebera, affranta
e angosciata la Crisotemide di Anna Gabler, esulceratamente
altezzosa la Clitennestra di Natascha Petrinsky. Coerenti le parti
maschili, lo smargiasso Egisto di Jan Vacik e l’ombroso Oreste di
Thomas Hall. In una partitura notoriamente impervia, l’orchestra
del Comunale ha brillato per smalto e precisione, sotto la guida
sicura e netta di un professionista del Novecento storico, Lothar
Zagrosek, che a Bologna è ormai di casa. Successo per tutti.
Giuseppina La Face Bianconi
Amadeus 49
INSCENA
INSCENA
lacritica
lacritica
ROMA
FERRARA
Teatro dell’Opera
Henze The Bassarids
Teatro "Claudio Abbado"
Difficile proporre l'inconsueto
tra cultura classica e modernità
Un omaggio
che sa di amore
e gratitudine
Ferrara Musica
V
a certamente salutata con piacere estremo la scelta del Teatro
dell’Opera, troppo spesso (e talvolta a ragione) accusato di
redigere cartelloni scontati e vetusti, di aprire la nuova stagione
lirica con The Bassarids di Hans Werner Henze. Un’opera non
soltanto “contemporanea” (cioè del ’900 – bisogna fare pace per
il momento con questa associazione, a quanto pare) ma anche
difficile. Cosa che però giova all’ottimismo del teatro fino a un
certo punto: cominciare con l’inconsueto va bene, ma non bisogna
perdere il contatto con la realtà dello spettatore medio. L’opera
di Henze è molto complessa dal punto di vista musicale (l’autore
scrive una grossa sinfonia di due ore, multistratificata, sulla quale
si appoggia la dimensione canora, apparentemente sconnessa da
quella strumentale) e soprattutto da quello drammaturgico. Non
basta infatti conoscere il mito (e sarebbe già tanto; la storia è tratta
dalle Baccanti di Euripide) per comprendere la trama poiché il
libretto di W.H. Auden e Chester Kallman è scritto per suggestioni
e quindi davvero difficile da capire, tanto più che il ritmo
drammatico è piuttosto serrato – Henze procura una notevole
continuità musicale – e non ci sono molti momenti per riflettere su
certe frasi o scene. Non aiuta poi la regia di Mario Martone, che in
scena fa accadere moltissime cose. Nonostante la buona prova di
tutto il cast (spicca Ladislav Elgr, nei panni di Dioniso, coniugano
benissimo l’attore con il cantante), The Bassarids“soffre” così
dell’epoca in cui è stata scritta (a metà degli anni ’60, con un
linguaggio ai massimi della complessità) e di una proposta lirica
che non tiene conto della difficoltà – soprattutto da parte dello
spettatore – di vedere l’attualità della cultura classica.
Federico Capitoni
È
Sopra, The Bassarids di Henze all'Opera di Roma: un momento dello
spettacolo ideato da Mario Martone; sotto, una scena di Notorius a Göteborg
GÖTEBERG: NOTORIUS
Il cinema sembra essere diventato una fonte di ispirazione per molti operisti. A Göteborg è stata accolta con grande successo la nuova opera di Hans Gefors, Notorius,
basata sulla sceneggiatura del film di Hitchcock. Protagonista una straordinaria
Nina Stemme che ha affrontato senza sforzo il difficile ruolo vocale, mostrando le
emozioni, il terrore, la disperazione della protagonista, come in una prova cinematografica. La sontuosa scrittura orchestrale di Gefors richiamava Mahler e Ravel,
con citazioni da Gluck e punteggiature brasiliane, per ricreare l’ambientazione di
Rio. Era una musica di impatto immediato, ricca di invenzioni, di scatti improvvisi, di momenti lirici e sensuali, ma anche di effetti come fischi, soffi, glissati,
usati per sottolineare i momenti di suspense. La regia di Keith Warner giocava
sulla metafora del cinema, con pochi oggetti in scena e un sofisticato gioco di video
che evocava gli originali ambienti hitchcockiani. Ma introduceva anche immagini cruente e surreali, e figure diaboliche, assenti nel film, insieme alla figura dello
stesso Hitchcock, presente in ogni scena, come un cameo moltiplicato all’infinito.
Gianluigi Mattietti
50 Amadeus
con un concerto dedicato a Claudio
Abbado, nel teatro a lui intitolato, che
è stata inaugurata la stagione 2015-2016
di Ferrara Musica. A rendergli omaggio
Martha Argerich e la Lucerne Festival
Orchestra che, sotto la guida del direttore
lettone Andris Nelsons, ha eseguito il
Terzo concerto per pianoforte e orchestra
di Sergej Prokof’ev e, nella seconda
parte, la Quinta sinfonia di Gustav Mahler.
Tutto, dall’impaginazione del programma
alla scelta degli interpreti, parlava del
grande direttore milanese: l’orchestra da
lui rifondata e portata all’odierna maturità
tecnica ed espressiva; l’amica-pianista
di una vita con cui l’intesa musicale
riusciva naturale connotando di una
freschezza assoluta molte interpretazioni
(fra cui – e probabilmente soprattutto
– proprio il Terzo di Prokof’ev nella loro
incisione discografica d’esordio con
la Deutsche Grammophon); gli autori
in programma (l’amatissimo Mahler in
particolare); un teatro e una città che ad
Abbado devono certamente molto e il
cui amore per lui egli ha ricambiato. Se
ne è parlato a concerto finito, in privato,
con la pianista argentina: la nostalgia
acuta per l’uomo e il musicista; il gesto
preciso ed elegante col quale sapeva
trarre dall’orchestra, come lo scultore
dal marmo, tutto il rilievo e la plastica
evidenza della musica che interpretava,
sempre e infallibilmente cogliendone
l’immanente necessità. Martha Argerich
non eseguiva questo Concerto da
nove anni. Eppure all’appuntamento
con l’ardua partitura di Prokof’ev, la
Argerich si è presentata ancora, come
sempre, in forma smagliante. Sicché tutta
l’altissima qualità della scrittura pianistica
Sopra, Martha Argerich con Andris Nesons e la Lucerne Festival Orchestra in concerto a Ferrara;
sotto, Riccardo Chailly con il violinista Julian Rachlin nel concerto inaugurale della Filarmonica della Scala
si è disvelata: nel vigore energico così
come nell’intimità cameristica che
pure vi è presente. E l’orchestra era lì a
intessere un dialogo serrato e sempre
convincente col pianoforte. Bis della
Argerich (Scarlatti, Sonata K141) e pioggia
di fiori per lei dal loggione. Meno riuscita
la seconda parte del concerto. Andris
Nelsons è un direttore certamente molto
dotato; ma l’adesione pure sincera e
appassionata alla musica di Mahler
(molto bene nell’Adagietto), la tecnica e il
gesto – invero scomposto e inutilmente
dispendioso – non l’aiutano a rendere
l’esecuzione all’altezza del predecessore.
A fargli difetto è quel quid di musicalità
in più ma necessaria a meglio focalizzare
la poetica mahleriana e a conferire una
maggiore tensione unitaria alla partitura,
trasmettendo al pubblico il sentimento di
urgente necessità che la pervade tutta.
Caldissimo successo e lunghi applausi
per tutti gli interpreti.
Andrea Schenardi
MILANO: FILARMONICA SCALA
Apre la stagione della Filarmonica della Scala un
programma originale nella concezione e negli accostamenti, diretto da Riccardo Chailly con limpida
maestria e naturalezza espressiva. Introduzione e
Passacaglia Lauda Sion Salvatorem di Maderna non
è tanto uno squarcio sulla musica progressiva che si
poteva scrivere nell’Italia del 1942 quanto uno sbocciare di idee e giovanile freschezza risolto in tessiture già avvincenti. Del Concerto per violino di Stravinskij Julian Rachlin esalta poi l’ossuta e acida
vena parodistica con bravura assoluta (da assaporare
anche nella Terza Sonata di Ysaÿe offerta come bis),
mentre in chiusura l’interpretazione della Sinfonia n.
3 di Rachmaninov lavora lungo il filo di una lucida
intensità l’ampio respiro e l’arco narrativo ma anche
le pieghe di una partitura forse dalla presa non immediata ma che, nella direzione di Chailly, si rivela interessantissima, oltre che nella solidità della struttura
formale, nella valorizzazione delle incrinature, degli
offuscamenti e dei trasognamenti digressivi.
Cesare Fertonani
Amadeus 51
APPUNTI
prosa cinema arti
Piccola selezione
di occasioni culturali
e mete artistiche
in giro per l'Italia
LA GRANDE MUSICA SINFONICA SU CLASSICA HD
DOMENICA ORE 21.10
BERGAMO
Giovanni Battista Moroni è considerato il più
grande ritrattista lombardo di sempre e viene
omaggiato con percorsi espositivi nelle tre sedi
dell’Accademia Carrara, del Museo Adriano
Bernareggi e di Palazzo Moroni in onore del
ritorno in città del Sarto: una sorprendente tela del
Cinquecento italiano proveniente dalla National
Gallery di Londra. Intorno al Sarto verranno
esposti altri capolavori di Moroni, in particolar
modo ritratti ed esempi di arte sacra. Fino al 28
febbraio. Info: iosonoilsarto.it
BOLOGNA
La mostra Brueghel. Capolavori dell’arte
fiamminga ripercorre una storia di più di 150
anni portando a Palazzo Albergati i capolavori
di un’intera dinastia di eccezionale talento
attiva tra il XVI e il XVII secolo. Una famiglia
che ha portato la rivoluzione realista nella
pittura europea, indagando tutti gli aspetti della
vita umana senza escludere quelli più crudi e
realistici, e che ha influenzato, con lo sguardo
degli stessi inventori, i grandi temi della storia
dell’arte occidentale. Fino al 28 febbraio.
Info: palazzoalbergati.com
MILANO
La multietnica via Padova è sede del ciclo di
incontri intitolato Con profondo rispetto,
organizzato dall’Associazione Culturale Villa
Pallavicini per scoprire quali valori possano unire
tutte le religioni del mondo. Il primo incontro,
sui "vodu" e la stregoneria in Africa, si è tenuto
a dicembre, ma da gennaio ad aprile si terranno
altre sette serate su tutti i principali culti, dalle
tre religioni monoteiste a quelle di tradizione
orientale, fino all’ateismo e alle “streghe milanesi”.
Fino al 14 aprile. Info: villapallavicini.org
ROMA
James Tissot è un pittore la cui arte è ancora
un enigma, sospesa com’è tra le influenze
impressioniste e le istanze preraffaelite. Per la
prima volta le sue opere possono essere ammirate
in Italia al Chiostro del Bramante: in mostra 80
dipinti che rappresentano l’ambiente parigino e la
realtà londinese, con una vena ora sentimentale ora
mistica e un talento di colorista che si esprime al
meglio nella sua attenzione alla moda dell’epoca.
Fino al 21 febbraio. Info: chiostrodelbramante.it
VENEZIA
Una partnership tra la Fondazione Musei Civici
e la Biennale d’Arte propone una collettiva
dedicata a quattro maestri dell’arte italiana
contemporanea: Marco Gastini, Paolo Icaro,
Eliseo Mattiacci e Giuseppe Spagnulo. Amici
e legati da profonde affinità artistiche nonostante
evidenti differenze stilistiche, i quattro artisti
propongono a Ca’ Pesaro un intenso confronto
dialettico, intitolato …ma un’estensione,
che fonde arte e vita. Fino al 28 febbraio.
Info: capesaro.visitmuve.it
VICENZA
Perché un architetto del Nord Italia venne preso
a modello per l’architettura del Nuovo Mondo?
Cerca di rispondere a questa domanda Thomas
Jefferson e Palladio. Come costruire un
mondo nuovo, la prima esposizione in Europa
sul grande palladianista americano, estensore
della Dichiarazione di Indipendenza e terzo
Presidente degli Usa. Il Palladio Museum ospita
le sue collezioni d’arte e i progetti di architettura,
un percorso tra disegni, sculture, libri preziosi,
modelli, video e multimedia. Fino al 28 marzo.
Info: palladiomuseum.org
Amadeus 53
Storia & Storie
ADDIO
agli archi
Borciani, Pegreffi, Rossi e Forzanti,
poi Farulli e Asciolla...
Tra fratture e ricomposizioni
il racconto di 30 anni di
straordinaria musica d'insieme,
alla ricerca della perfezione
di Gregorio Moppi
L
a storia del Quartetto Italiano comincia con un addio e con
due addii finisce. Tre decenni tondi tondi di vita artistica
comune. Quasi quattro, se la storia si racconta proprio dal
principio e fino all’ultimo secondo. Tutto comincia all’Accademia
Chigiana di Siena, estate 1942. Quattro archi ventenni, allievi della
classe di musica da camera di Arturo Bonucci ma ognuno già in
carriera per conto proprio, si mettono insieme per studiare il
Quartetto di Debussy. Sono Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi, violini
destinati a sposarsi, Franco Rossi violoncello e la viola Lionello
Forzanti, il più anziano della compagnia, alle soglie dei trenta. Già
l’assemblaggio del pezzo si trasforma in evento per chi quell’anno
frequenta i corsi di perfezionamento nel palazzo del conte Guido
Chigi Saracini. Intorno ai quattro si radunano a ogni prova un bel
po’ di studenti, del resto allora capitava raramente di poter sentire
quartetti in Italia. I quattro giovani, per di più, discutono parecchio
su ogni battuta, cosicché l’ascolto si tramuta in lezione di stile, di
estetica e di pratica interpretativa. Fatto Debussy al saggio finale,
il gruppo si scioglie. C’è la guerra.
I veneziani Forzanti e Rossi hanno da lavorare in orchestra,
alla Fenice. L’emiliano Borciani (allievo d’un allievo di Joseph
Joachim, l’amico di Brahms) se ne va nei boschi, partigiano.
Pegreffi e i suoi familiari vogliono mettersi al sicuro lontano da
54 Amadeus
Amadeus 55
daASCOLTARE
Tutte le registrazioni realizzate per Decca, Philips e Deutsche Grammophon in un box da 37
cd in edizione limitata a prezzo speciale. Così
Decca celebra i settant’anni dalla fondazione
del Quartetto Italiano, nome entrato nella storia
dell’interpretazione del ventesimo secolo. Nel
cofanetto, che contiene anche 10 album completi disponibili per la prima volta in cd, le integrali di Mozart, Beethoven, Brahms (compreso
il Quintetto con Maurizio Pollini al pianoforte),
Schumann e Webern. Spiccano poi lo Schubert estremo per cui il Quartetto Italiano andava
celebre nel mondo e le incisioni di Debussy e
Ravel che nel 1965 segnarono l’inizio della proficua collaborazione discografica con Philips.
Genova, la loro città. Ma appena terminato
il conflitto le vite dei quattro si riannodano
subito nella Reggio di Borciani grazie al
supporto dell’Organizzazione Giovanile
Italiana dell’amico Giuseppe Dossetti che
avrebbe voluto il violinista, quasi laureato
in legge, questore della città. Viene fondato
così il Nuovo Quartetto Italiano (poiché un
Quartetto Italiano già era esistito, con Remy
Principe come leader; ma l’aggettivo
“nuovo” cade presto), e dopo prove di
cinque ore al giorno per due mesi e mezzo
il debutto avviene agli Amici della Musica
di Carpi il 13 novembre 1945. Rapido il loro
nome si diffonde per la penisola, e nel ’46
varca le Alpi verso Lugano e Zurigo.
Parte Forzanti, arriva Farulli
Ma ecco il primo addio. A fine di quell’anno
Forzanti si lascia rapire dalle sirene di una
possibile carriera direttoriale in America,
che in effetti poi intraprende con una certa
fortuna. Al suo posto entra Piero Farulli,
classe 1920, fiorentino risoluto, modi spicci,
che da militare in Sicilia aveva assistito allo
sbarco degli Alleati legato dai superiori
a un palo in mezzo a un uliveto.
56 Amadeus
Il Quartetto Italiano, nella formazione che
durerà tre decenni, comincia a studiare il 1°
gennaio 1947. Dapprima la mole di lavoro
appare massacrante, anche perché nel
primo decennio il Quartetto persegue
l’obiettivo di suonare a memoria. Farulli,
per esempio, deve barcamenarsi ogni
giorno tra le cinque ore di prove
nell’orchestra del Maggio fiorentino e le
quattro-cinque con il quartetto. Frequenti
ma fruttuose le litigate durante la
preparazione dei programmi cui Borciani
e Pegreffi si avvicinano con intelligenza
musicale rigorosa, limpida, di stampo
toscaniniano, mentre Farulli e Rossi
tendono a un approccio più istintivo,
sanguigno. «Forse i conflitti servivano a
esporre e far scoppiare temi e problemi che
però poi, quando finalmente suonavamo in
faccia al pubblico, venivano annientati,
travolti da questa forza che faceva di noi
una cosa unica», spiegò una volta Farulli.
Ed Elisa Pegreffi: «Molte volte su due
battute restavamo a discutere per delle ore.
Qualche volta ci sembrava di perdere del
tempo, ma poi ritrovavamo questa tensione
intellettuale nelle nostre esecuzioni: forse
era proprio questo il segreto di certe
profondità interpretative».
Non è necessario rammentare qui la
passione e i meriti storici del Quartetto nella
diffusione del repertorio cameristico (non
solo in una terra come l’Italia, fino ad allora
alquanto indifferente a quel repertorio), né
necessita soffermarsi troppo sull’apostolato
compiuto verso la produzione novecentesca
con le esecuzioni di Ravel, Bartók,
Prokof’ev, Martinů, Ghedini, Bucchi,
Bussotti, dell’op. 108 di Šostakovič, delle
integrali di Stravinskij e Webern.
Darius Milhaud, ascoltando nel 1952
la registrazione del suo Quartetto n. 12,
la saluta come «ammirabile, perfetta».
Uno spettatore d’eccezione
Nel 1949 fra il pubblico della Filarmonica
Romana che assiste al loro debutto nell’op.
130 di Beethoven si trova Otto Klemperer
che alcuni giorni dopo, dirigendo al Carlo
Felice di Genova, prega l’orchestra (dove
suona il padre della Pegreffi) di fare sforzati
esattamente uguali a quelli del Quartetto
Italiano. I concerti del 1951 al Festival di
Salisburgo e a New York segnano la
definitiva consacrazione internazionale del
complesso che ha già cominciato a
incidere per Decca, nel 1953 passerà alla
Columbia e dal ’65 alla Philips (tutte le
registrazioni, inediti compresi, sono ora
pubblicate in un memorabile cofanetto di
37 cd, vedi box a lato, n.d.r.).
L’incontro con Furtwängler
A guidarne le letture fino a quel momento
erano state la concezione del far musica
come missione, la scultorea campitura
formale, la nobiltà del cantabile,
l’incalzante tensione ritmica sostenuta dal
virtuosismo dei singoli e dalla salda
omogeneità dell’insieme cui fornivano
modello ideale l’arte di Toscanini
(incrociato una sola volta in America per
pochi minuti) e di Antonio Guarnieri,
sempre considerato bacchetta
impareggiabile da Rossi. Tuttavia l’incontro
con Wilhelm Furtwängler a Salisburgo
porta i quattro a riconsiderare da altre
prospettive il loro modo di suonare. Invitati
a casa del leggendario direttore d’orchestra,
leggono il Quintetto di Brahms con lui al
porta una rinnovata consapevolezza
estetica: fedeltà al testo congiunta allo scavo
delle emozioni.
E questo senza imbracciare strumenti dal
nome altisonante. Né Stradivari, Guarneri o
Amati, ma un Vuillaume della seconda
metà del’Ottocento, Borciani, Pegreffi un
De Comble, fiammingo, datato 1756, Farulli
una viola moderna fabbricata a Firenze da
Sderci, Rossi il Capicchioni dono del conte
Chigi Saracini. Il 1977 è l’anno in cui la
Nasa sceglie la loro registrazione della
Cavatina dal Quartetto beethoveniano op. 130
per inviarla nel cosmo fra le testimonianze
della civiltà umana nel caso esistessero gli
alieni; un giallo, però, intorno a questo
episodio: il sito ufficiale dell’ente spaziale
statunitense attribuisce l’esecuzione al
Quartetto di Budapest. Ma è pure la data del
secondo addio, preludio alla dissoluzione
del Quartetto. Il 14 dicembre, all’indomani
di un recital al Centro Culturale Olivetti,
Farulli comincia a sentirsi male. A Torino
viene ricoverato per ischemia coronarica.
Cancellati tutti gli impegni fino a nuovo
ordine. La convalescenza è lunga:
«Abbiamo vissuto una crisi dopo l'incontro
con Furtwängler, perché avevamo scoperto
che la musica si faceva in un altro modo»
piano e discutono insieme dei Quartetti di
Beethoven. Furtwängler insegna loro la
libertà nella battuta. «Egli era guidato
dall’idea-base che solo concedendosi più
spazio e più tempo l’interprete può
raggiungere la profondità dell’opera,
dandole il respiro necessario», ricordava
Pegreffi. «La sua grande libertà, il suo
immenso respiro, l’intuizione tragica ci
riempivano di ammirazione e ci hanno
aperto il mondo. Noi abbiamo vissuto una
crisi di quasi un anno dopo aver incontrato
Furtwängler, perché avevamo scoperto che
la musica si faceva in un altro modo. La
sua idea della musica è stata una
folgorazione come se sotto di noi si fosse
spalancato l’infinito». La crisi salutare
i cardiologi prevedono che il violista
(fondatore, nel ’74, della Scuola di Musica
di Fiesole) potrà riprendere a dare concerti
non prima del settembre successivo. Gli
altri membri scalpitano e a marzo del 1978
stabiliscono di trovargli un sostituto, Dino
Asciolla. Farulli li diffida e prende carta e
penna per dire ai compagni: «Stupisce
constatare che a soli due mesi dal mio
incidente vi siate potuti dimenticare di
quello che abbiamo sempre comunemente
inteso per ben 30 anni come serietà
professionale e artistica... per tacere poi
dell’aspetto umano e morale del vostro
comportamento che non mi convince e che
tutto sembra, men che amichevole».
Volano gli stracci. Si scambiano carte
bollate. Luciano Berio scrive a Borciani,
Pegreffi e Rossi di aver provato una stretta
forte al cuore «quando ho saputo che avete
sostituito Farulli, ancora in ospedale, senza
neanche prevenirlo, in una maniera così
estranea al vostro modo di far musica».
Prosegue: «Vi domanderete cosa c’entro io
dal momento che, sul piano personale,
conosco a malapena sia voi che Farulli.
Il fatto è che siete anche una cosa pubblica,
un bene nazionale, qualcosa di cui essere
fieri, qualcosa, infine, che anche Farulli ha
contribuito a costruire». La frattura si
dimostra comunque insanabile.
Fine e riconciliazione
Il terzo e ultimo addio si consuma nel
pomeriggio del 23 febbraio 1980, vicino
Ginevra. Asciolla non riesce a reggere lo
studio serrato, gli impegni fitti, i lunghi giri
per il mondo. Di punto in bianco, a poche
ore da una registrazione video per la Radio
Télévision Suisse Romande, sbatte la porta
in faccia ai colleghi e non si fa più trovare.
È la fine del Quartetto Italiano. A niente
portano i tentativi di ricomporlo, nella
formazione storica, condotti da Maurizio
Pollini e Duilio Courir. Ottengono, sì, il
riavvicinamento di Farulli a Borciani e
Pegreffi, ma non a Rossi che rifiuta di
riunirsi agli altri quando il sindaco di
Bologna Renato Zangheri, a seguito della
strage del 2 agosto, propone loro un
concerto commemorativo per le vittime.
Poi nell’85 Borciani viene a mancare.
E bisognerà attendere il settembre 2004
perché una stretta di mano sancisca
pubblicamente, alla Pergola di Firenze, città
in cui entrambi abitano, l’avvenuta
riconciliazione anche tra Rossi e Farulli. 
In apertura, 1966, Teatro di Vevey in Svizzera:
il Quartetto Italiano registra i Quartetti "Haydn"
di Wolfgang Amadeus Mozart; in alto, da sinistra
il gruppo nella sua formazione più longeva: Franco
Rossi violoncello, Pietro Farulli viola, Paolo Borciani
ed Elisa Pegreffi primo e secondo violino
Amadeus 57
William Shakespeare (1564 -1616)
I suoni
DEL BARDO
Il grande drammaturgo inglese e la musica del suo tempo.
Prescritta con cura nelle sue opere teatrali, era, accanto
alla parola, elemento indissolubile della rappresentazione
di Massimo Rolando Zegna
P
oche notizie sulla vita e l’istruzione,
solo due ritratti attendibili (la statua
del monumento funebre a Stratford
e l’incisione sulla stampa delle opere
teatrali del 1623), la misteriosa dedica dei
Sonetti, e poi la grande difficoltà a datare
con approssimazione accettabile i lavori:
queste, e altre ancora, sono zone d’ombra
che hanno fatto avanzare dubbi
sull’identità, sull’aspetto, sulla sessualità,
sul credo religioso, persino sulla paternità
delle opere di quello che è stato uno dei
più importanti artisti di tutti i tempi:
William Shakespeare. Il drammaturgo più
celebre e più rappresentato di sempre. Una
figura universalmente ammirata a cui, nel
corso del tempo, tutte le arti del futuro
hanno attinto in una misura paragonabile a
nussun altro caso. Un ciclope assoluto di
cui quest’anno ricorrono i quattro secoli
dalla scomparsa.
Terzo di otto figli, fu battezzato il 26
aprile 1564 a Stratford-upon-Avon, nel
58 Amadeus
cuore delle Midlands Occidentali, in
Inghilterra: da soli sei anni, al trono
d’Inghilterra era salita Elisabetta I. Da
qualche tempo il padre John, un agiato
commerciante di pellami, aveva avviato in
città una fortunata carriera politica. Forse
frequentò la King’s New School e fu
apprendista nell’azienda del genitore. Si
sposò nel 1582. Di William si perdono le
tracce tra il 1585 e il 1592: anno in cui era
già decisamente affermato nel mondo
teatrale londinese come attore e
drammaturgo. Nel 1594, contribuì a
costituire una compagnia (The Lord
Chamberlain’s Men) che si esibiva in due
teatri: The Theatre e The Curtain. Nel
1599, anche con il suo finanziamento, il
gruppo fece costruite un nuovo teatro, The
Globe: dove videro la luce alcuni dei suoi
più importanti capolavori (Giulio Cesare,
Amleto, Otello, Re Lear). Dopo la morte di
Elisabetta I (1603), gl’incassi raggiunsero
cifre record e la compagnia fu adottata dal
nuovo re Giacomo I, con il nome The
King’s Men. Shakespeare vi agiva come
drammaturgo, amministratore e attore.
Attorno al 1611, tornò nella sua citta
natale, e dal 1613, l’anno in cui per un
accidente arse The Globe, non creò più
nulla. Morì il 23 aprile 1616. Fu sepolto
nel coro della chiesa parrocchiale di
Stratford. Di lui ci restano 37 testi teatrali,
154 sonetti e una serie di altri poemi:
lavori per lo più ideati nell’arco di circa
25 anni, dal 1588 e il 1613.
I testi teatrali shakespeariani che noi oggi
leggiamo con tutta probabilità non furono
mai uditi in questa forma da nessun
spettatore del tempo: in quanto risultato di
interventi successivi. La loro cronologia è
inoltre ipotetica: a parte i casi dell’Enrico
V, del Giulio Cesare e della Dodicesima
notte che possono essere datati con una
certa attendibilità rispettivamente al 1599,
i primi due, e al 1602, il terzo. La tortuosa
Amadeus 59
storia della trasmissione delle opere
teatrali di Shakespeare può essere così
sintetizzata. Diciotto titoli furono
pubblicati prima del 1616, in piccole
edizioni in-quarto non autorizzate: alcune
relativamente ben curate, altre più o meno
scadenti. Nel 1623, a Londra, fu invece
stampato postumo da Isaac Jaggard ed
Edward Blount il primo in-folio (Mr.
William Shakespeare, Comedies, Histories
& Tragedies), a cura di due amici attori del
poeta: John Heminges e Henry Condell. Il
volume raccoglieva 36 lavori, tra cui – in
versione spesso divergente – i 18 già editi
in-quarto. Dall’elenco mancavano Pericle
e I due nobili congiunti. In seguito, furono
pubblicati altri in-folio, ma quello del
1623 rimane oggi il più importante punto
di riferimento. Discorso simile per i
Sonetti. Ideati tra il 1591 e il 1604, furono
stampati senza il consenso dell’autore da
Thomas Thorpe, nel 1609.
In epoca elisabettiana la musica aveva una
larga diffusione tra l’aristocrazia come tra
le classi povere: faceva parte della vita
quotidiana di re, nobili, cortigiani,
contadini, artigiani, fabbri. Accanto ai
musicisti di corte e ad altri gruppi
ufficiali, vi erano anche esecutori più
modesti che venivano chiamati a
intrattenere gli invitati ai matrimoni,
oppure che suonavano e cantavano ballate
o catches in taverne e bordelli. La musica
aveva inoltre, e qui è ciò che più ci
interessa, un ruolo decisivo nel corso delle
rappresentazioni teatrali: il più importante
fenomeno culturale dell’Inghilterra del
tempo. Una forma di spettacolo
accessibile quasi a qualsiasi fascia sociale.
Le ragioni che portarono alla struttura
architettonica dell’edificio teatrale
elisabettiano (la Playhouse) furono di
carattere pratico. La prime compagnie di
attori itineranti utilizzavano come luoghi i
cortili delle locande. Questi, di norma,
erano di forma rettangolare e circoscritti
dalle varie stanze disposte su tre ordini di
ballatoi. Si prediligevano le locande
dislocate in coincidenza d’incroci di
60 Amadeus
strade di maggior percorrenza o,
comunque, di vie che conducevano
direttamente al centro di Londra. Gli attori
giungevano in mattinata con i carrozzoni e
gli essenziali oggetti e costumi di scena, si
accordavano sui proventi con il
proprietario della locanda, montavano il
palco (Stage) in un punto del cortile
visibile al maggior numero di spettatori.
Questi si dislocavano in piedi nel cortile
(Yard, Ground, Pit) o sui ballatoi. Si
andava in scena attorno alle 14.00 con una
rappresentazione di durata non superiore
alle due ore. Entro sera tutto era smontato.
Furono soprattutto le avversità del tempo
a spingere verso l’ideazione di luoghi
stabili dove fare spettacolo.
Il primo edificio teatrale inglese (The
Theatre) fu eretto nel 1576 nel sobborgo
londinese di Shoreditch: a parte poche
La struttura
esterna delle
Playhouse giunse
con The Globe
a una fattezza
quasi circolare
murature (in sostanza le fondamenta) era
interamente in legno. Lo stesso anno, nei
pressi, fu eretto un altro teatro: The Curtain.
Seguirono The Rose (1587), The Swan
(1595), The Globe e The Fortune (1599), The
Red Bull (1605), The Hope (1613). Molti
erano dislocati nella zona a sud del Tamigi,
nel quartiere di Southwark, nel Bankside di
Londra: inizialmente coperta da una folta
vegetazione, in seguito caratterizzata dalla
presenza di arene per combattimenti di orsi,
cani e scimmie, di botteghe di orafi, di strade
maleodoranti in cui si scaricava qualsiasi tipo
di liquido, e dalla presenza di etnie esotiche
giunte dalle Americhe. Al tempo, Londra era
abitata da circa 250.000 persone.
Amadeus 61
Damiano Michieletto
Inizialmente poligonale (esagonale o
ottagonale), la struttura esterna delle
Playhouse giunse con The Globe a una
fattezza quasi circolare. L’interno si
rifaceva all’originaria conformazione-tipo
del cortile della locanda: con almeno tre
ordini di ballatoi coperti (Galleries) in cui
ci si poteva sedere al costo di due penny.
Differente era il lato in cui si trovava il
palco: una piattaforma di legno
sopraelevata aggettante ben oltre il centro
del terreno, attorno alla quale si
ammassavano gli spettatori in piedi che
pagavano solo un penny e che erano
esposti alle intemperie. Dal palco
s’innalzavano due colonne che reggevano
una tettoia. Questa riparava la parte più
arretrata del palco e un balcone (Upper
stage), dove erano dislocati i musici: una
piccola orchestra, per lo più costituita da
trombe, oboi, corni, campane, liuti,
chitarre e archi. In sostanza, la Playhouse
elisabettiana era un pozzo, una vera e
propria arena destinata al “combattimento
teatrale” in cui si potevano accalcare fino a
3000 spettatori che mangiavano,
bevevano, commentavano ad alta voce,
che respiravano assieme la stessa aria,
interagendo tra loro e con gli stessi attori.
Shakespeare amava la musica, aveva
compiuto studi in materia, conosceva gli
autori inglesi suoi contemporanei, sembra
che fosse in grado di suonare il liuto,
seppur a livello basico, e, soprattutto,
considerava la musica come un elemento
indissolubile e organico della
rappresentazione teatrale: non una
componente decorativa d’intrattenimento o
di diversivo, bensì un effetto
minuziosamente calcolato a fini poetici e
drammatici, un potente strumento retorico.
E in tal senso, si servì di essa con grande
abilità: rumori, effetti sonori, brani vocali
e strumentali nuovi (quasi certa sembra
essere la ripetuta collaborazione con
Thomas Morley) oppure già in voga (colti
o popolari). Questi ultimi, immediatamente
riconoscibili, potevano innescare tra gli
spettatori una fitta serie di associazioni e
62 Amadeus
implicazioni che oggi è impossibile
ricostruire.
Nelle opere teatrali di Shakespeare la
musica interveniva a più livelli. Si poteva
presentare come visione filosofica ed etica,
come sollecitazione psicologica, come
soundtrack dell’azione, come indicatore
dei nodi cruciali drammaturgici, come
caratterizzazione del personaggio, e altro
ancora. Perdere tutto ciò nel corso delle
rappresentazioni d’oggi significa
rinunciare a una componente essenziale
dello spettacolo elisabettiano: vuol dire
ridurlo, impoverirlo.
Shakespeare
amava la musica,
aveva fatto
studi in materia,
conosceva
gli autori inglesi,
sembra fosse
in grado di
suonare il liuto
Per Shakespeare la musica, in primis, era
quella delle sonorità della lingua inglese
recitata dagli attori. Diversi, poi, erano i
casi in cui i personaggi dissertavano di
musica. Celebre, ad esempio, è nel quinto
atto del Mercante di Venezia il dialogo tra
Lorenzo e Gessica che sonda la relazione
tra sensibilità musicale e condotta morale,
l’idea di derivazione pitagorica della
musica come proiezione sonoramente
udibile dell’ordine celeste, e poi ancora
l’influenza che la musica può avere
sull’animo umano.
Altrove, attraverso numerose e meticolose
indicazioni prescritte dall’autore, la
musica interveniva come elemento
“scenico”: nei banchetti, nelle processioni,
nelle serenate, nei duelli, nella vita di
corte, nelle battaglie. Accompagnava
l’entrata o l’uscita dei personaggi e,
oltrepassando questi confini pratici,
giungeva a creare l’atmosfera giusta
evitando spiegazioni verbali, a sottolineare
i momenti cruciali della vicenda, ad
amplificare il carattere dei personaggi,
potenziando lo svolgimento drammatico.
C’era poi l’aspetto più evidente, la musica
come precisa parte cantata su versi dati
assegnata a un attore: come nel caso della
celebre «Canzone del salice» nell’Otello.
In tutta la produzione di Shakespeare
s’incontrano circa un centinaio di
esemplari: non pochi. Più che allietare lo
spettatore, questi inserti musicali avevano
la funzione di aiutare il personaggio a
rendere manifesti i suoi stati d’animo,
contribuendo a caratterizzarlo e a svelarne
la psicologia. Non è neanche escluso che,
condividendo in un certo senso alcune
modalità poi ricorrenti nel teatro d’opera,
che queste canzoni, talvolta concepite su
misura sulle capacità di alcuni attori
professionisti di particolare successo,
volessero anche essere un’utile
gratificazione alle file di fans create
dall’affermazione dei teatri stabili e
giunte per applaudire il loro beniamino.
Shakespeare fu soprannominato il
“Bardo”: ed è quanto meno curioso che
questo termine sia apparso per la prima
volta in un atto ufficiale nel 1449 per
indicare un musicista itinerante.
A me gli OCCHI
Amato, contestato, desiderato, invidiato è il regista
del momento. Lui rifiuta etichette, cerca lo stupore. Vuole
raccontare storie eterne con la lingua del nostro tempo
di Valerio Cappelli
D
In apertura, il presunto ritratto di William Shakespeare
di più recente attribuzione: è il "Cobbe Portrait",
sconosciuto sino al 2006, nel 2009 è stato
identificato come raffigurazione del poeta inglese
eseguita in vita; nella pagina precedente, l'interno
dello Shakespeare's Globe Theatre di Londra oggi
i Damiano Michieletto ci siamo già occupati su Amadeus solo pochi anni fa, quando era un
regista emergente alla vigilia del successo al Festival di Salisburgo, nella Bohème in cui
Anna Netrebko, nella Parigi di oggi, cammina, si muove ed è vestita come Amy
Winehouse. Nel frattempo Michieletto è diventato un caso. È determinato, crede nella sua idea di
teatro, che parte sempre dalla storia, e non è (come dicono i suoi denigratori) a caccia di trovate.
Ma alle storie cerca di dare nuova linfa con una sensibilità del nostro tempo. Le provocazioni nella
lirica sono tutt’altra cosa. Michieletto è impegnato in tutto il mondo fino al 2020. In Italia è molto
applaudito e qualche volta fischiato; è più amato all’estero per la maggiore disponibilità e apertura
del pubblico. Eppure è a Londra che pochi mesi fa ha vissuto un brutto infortunio professionale, alla
prima del Guglielmo Tell rossiniano per la scena fortemente realistica di uno stupro.
Al Festival di Salisburgo nel 2012 interruppe il digiuno di registi italiani che durava da tredici anni
(il Don Giovanni allestito da Luca Ronconi), ed è stato invitato per tre volte di seguito. Oggi
raccontiamo questo regista di 40 anni nato a
Scorzé, in provincia di Treviso, da una
prospettiva nuova.
Alla Royal Opera House Michieletto con
Cavalleria Rusticana e Pagliacci diretti da
Antonio Pappano, è appena tornato sul luogo
del “delitto”, dopo la serata tesissima del Tell:
allora fischi e imprecazioni erano durati fino
a tutto l’intervallo. Ora invece il suo ritorno
col dittico italiano è stato un successo
rotondo, senza “se” e senza “ma”. Ci si
chiede se una serata come quella abbia
condizionato l’approccio a un nuovo
spettacolo, quando si torni in un città così
importante, dopo un episodio così netto.
Damiano, si può mantenere la coerenza
delle proprie idee e andare incontro alle
aspettative del pubblico?
«Non posso far finta che è stato diverso
tornare a fare opera a Londra, rispetto al mio
debutto assoluto al Covent Garden nel
maggio scorso con Rossini. Ho grande
rispetto del pubblico e dunque tengo conto
dell’importanza di creare un racconto
scenico in grado di comunicare con lui, non
di andargli contro. Nel Guglielmo Tell gli
spettatori hanno avvertito alcuni passaggi in
maniera negativa e su questo ho fatto una
riflessione, e cioè che il pubblico inglese
apprezza l’aspetto narrativo e concreto di
una messinscena. In Cavalleria e Pagliacci
ho privilegiato questo taglio, evitando
l’accento su un tipo di rappresentazione della
violenza, che poteva essere rifiutato».
Si è modificato il progetto iniziale?
«L’idea è rimasta, anche perché i progetti si
presentano con un anno di anticipo. Sono in
una fase in cui cerco di evitare di avere
un’etichetta addosso. L’idea qui era di
prendere queste due storie e creare tra esse
un link narrativo. Abbiamo due vicende con
pochi personaggi, un triangolo d’amore, la
morte. Poi sono entrambe ambientate nel Sud
Italia e in un periodo religioso (la Pasqua e
l’Assunzione: nel mio caso ho fatto della
Pasqua il trait d’union). Nel mio spettacolo i
personaggi di Pagliacci sono presenti in
Cavalleria: infatti quando comincia c’è della
gente che sta per recarsi in chiesa, e gli
attacchini mettono per strada manifesti di
64 Amadeus
Pagliacci, come a dire che di lì a poco ci
sarebbe stato quello spettacolo. Volevo
creare un ponte. Un’operazione analoga
l’avevo fatta col Trittico di Puccini che in
aprile arriva all’Opera di Roma. Poi
Cavalleria l’ho ambientata nel panificio di
Mamma Lucia e al suo esterno, mentre
Pagliacci nella sala parrocchiale adibita a
teatrino. C’è una forte impronta realistica».
Esiste il rischio, con due titoli del genere,
di trappole dovute a incrostazioni e a
letture oleografiche?
«È un pericolo dell’opera lirica in generale.
Ti confronti col passato di opere che
rispondono al gusto e a esigenze che non ci
sono più. Bisogna concentrarsi su libretto e
storie. E far emergere qualità umane con
un’estetica che parli la lingua del nostro
tempo. I due atti unici sono ambientati nel
mondo contemporaneo. Per esempio, Alfio il
carrettiere è un arricchito del paese. Lola lo
disarmante. Il teatro si deve avvicinare alla
vita. D’altra parte cosa si dice nel prologo dei
Pagliacci? Noi siamo di carne e ossa come
voi, non pensiate che siamo dei personaggi,
non è finzione. Uno come Canio devi
prenderlo e metterlo in galera».
Da dove viene il suo istinto teatrale?
«La mia famiglia è stata il mio primo
palcoscenico. Mio padre, operaio e poi
sindaco di Scorzé, ha tredici fratelli e sono
tutti vivi. Mamma è una casalinga con la
quinta elementare. Non a livello intellettuale
o di formazione culturale, ma a livello del
gioco (che resta la parte centrale del teatro
come ci insegnano gli inglesi e i francesi per
i quali recitare si dice giocare), lei è stata il
mio punto di riferimento. Faceva giocare
molto me e i miei tre fratelli. All’epoca non
si ricorreva agli psicologi, oggi mi avrebbero
classificato come iperattivo. Come regista ho
mantenuto un modo di essere diretto volto a
«Oggi mi avrebbero classificato come
iperattivo. Come regista, ho mantenuto
un modo di essere diretto»
sposa solo perché ha i soldi, come sottolinea
Verga nella sua novella che ispirò Mascagni,
il quale invece non esalta questo elemento.
È un esuberante arricchito del Sud che può
commerciare con i cinesi, è l’idolo del paese
e quando vi torna distribuisce doni: pellicce,
borse, finti Rolex…».
Ma come si può evitare, o appianare la
violenza in questo dittico?
«In Cavalleria è più una violenza
psicologica, non si vede, anche l’omicidio di
Turiddu non è visibile, richiama la struttura
del dramma greco quando il protagonista
esce e il messaggero annuncia: hanno
ammazzato compare Turiddu. In Pagliacci la
violenza è più brutale, Canio è brutale nella
sua gelosia, il finale deve essere brutale.
Ammazza una donna e ferisce un uomo in
due secondi. Sarebbe scorretto vedere in
modo romantico questa storia.
Se apri il giornale e leggi di donne sfigurate
dall’acido per gelosia o di fidanzatini che
fanno fuori i genitori, è di un’attualità
non aver paura di mostrare i propri limiti».
Gioco e ilarità... Per qualche tempo lei è
passato come uno specialista di Rossini.
«È vero. Specialista è un termine in cui non
mi ritrovo, diciamo che la carica ironica e
comica di Rossini è vicina alla mia creatività.
Sento empatia con il mondo di Rossini, mi
riconosco nelle sue atmosfere, la razionalità
di costruzione della musica e il divertimento
potente nei personaggi, il brio».
Ha messo in scena molto Rossini, e in
febbraio alla Staatsoper di Vienna
debutterà con Otello.
«Ho fatto Sigismondo, La scala di seta,
L’Italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia,
La donna del lago, La gazza ladra.
E ora Otello».
Per il quale Rossini scrisse a mo’ di
epitaffio: «Di una cosa credo potervi
assicurare, che di mio rimarrà di certo il
secondo atto del Guglielmo Tell, il terzo
dell’Otello e tutto Il barbiere di Siviglia».
«Beh, il riferimento all’Otello dimostra che
66 Amadeus
a colonna sonora.
«Se prendiamo il pezzo incriminato del
Guglielmo Tell londinese, la musica è una
colonna sonora punto e basta. È musica
scritta per la scena, per raccontare la storia
attraverso il balletto, è musica di
accompagnamento. Prendo questa
osservazione col sorriso, mi fa quasi
tenerezza, non mi riferisco a nessuna
persona in particolare e non è mia intenzione
polemizzare, però la sento come una
insicurezza, come paura al confronto, come
si può pretendere di stabilire una volta per
tutte cos’è “sta roba”? L’opera combina
musica e teatro, e la musica è scritta per
il palcoscenico».
Qualcuno dice che lei ama stupire.
«Bisogna intendersi su questa parola.
Lo stupore fa parte dell’andare a teatro, di
chiedersi cosa ci sarà dietro il sipario, la
voglia di incanto e di meraviglia che ti porta
a una dimensione di coinvolgimento.
Poi c’è lo stupore fine a se stesso, lo stupore
come ammiccamento, effetto».
Lo stupore è il perno delle fiabe: è vero
che nel suo Flauto magico alla Fenice,
l’elemento esoterico e misterioso non era
così presente?
«Forse sì, non era la cosa più emozionale, mi
sembra l’aspetto didascalico di quest’opera.
Ma quando Tamino e Pamina nel finale si
liberano delle prove, sulla lavagna che
occupa la scena (l’allestimento è ambientato
in una scuola) appare una scritta in latino
sulla Porta alchemica di Roma, non come
citazione letteraria. Da quel tipo di
tradizione misteriosa su mondi enigmatici
appare un palindromo, puoi leggere quella
scritta da sinistra a destra e viceversa: “Se ti
siedi non vai”, oppure, “Se non ti siedi, vai”.
E prende corpo l’idea di affrontare l’ignoto».
Perché la lirica nella sua vita professionale
ha preso il sopravvento sulla prosa?
«Ho cancellato alcuni progetti musicali per il
2017: erano troppi, non sarei stato in grado di
dare la qualità e l’energia di cui ci sarebbe
stato bisogno. Il teatro musicale si è
autoalimentato con delle proposte. Penso
di ridimensionare i miei impegni, vorrei
riequilibrare i due campi. Al Piccolo Teatro
in aprile farò la regia dell’Opera da tre soldi
di Brecht (60 anni dopo la “prima” italiana
con la regia di Giorgio Strehler n.d.r.) con
venti attori in scena; ci sarà un doppio livello
narrativo, e ci sarà uno scarto nella
narrazione e nella recitazione quando
mettiamo (questo uno degli spunti) sotto
processo Mackie Messer».
Tornando alla musica, le è mai capitato di
utilizzare la stessa idea per due spettacoli?
Sorride: «Ci sono registi che hanno copiato
pari pari i loro spettacoli in più occasioni.
Quanto a me, è capitato per certi dettagli,
può succedere che un’idea pensata per un
allestimento non sia poi stata usata e
compaia in un altro».
Un compositore che non metterà in scena?
«Quelli più lontani da me sono quelli che più
hanno forza attrattiva. C’è il detto: frequenta
il tuo nemico. Penso a Wagner, che non ho
ancora avvicinato ma accadrà: è teutonico,
parla una lingua che non è la mia, è
immaginario e mitologico e dunque non ho
riferimenti. Però mi affascina, dà la
possibilità di essere visionari».
C’è qualcosa che ha compreso di nuovo del
suo mestiere lavorando in un tempo breve,
per due volte, in una capitale del teatro
come Londra?
«In Italia la figura principale di uno
spettacolo è il regista; a Londra durante le
prove di Cavalleria e Pagliacci, ho notato
che sui programmi di sala il nome del regista
è scritto piccolo, e gli attori passano dal
teatro al cinema e alla televisione senza
problemi. Non bisogna diventare eclettici per
forza, ma il fatto di estendere la tua
creatività in ambiti diversi porta a uno
sguardo diverso, ti arricchisce». 
In queste pagine, Damiano Michieletto ritratto
dietro le quinte (anche in prova con Carmen
Giannattasio) e due spettacoli emblematici andati
in scena alla Royal Opera House di Londra con
la direzione di Antonio Pappano: Guillaume Tell
di Rossini e il dittico Pagliacci-Cavalleria Rusticana
Corsi di Alto Perfezionamento
Artistico e Musicale
violino
scadenza domande
15 febbraio/15 luglio
siamo cattivi giudici di noi stessi, se
pensiamo che l’ultima volta alla Scala, prima
del 2014, risaliva al 1870. Non è la cosa
rossiniana che è rimasta nei nostri cuori,
benché fosse con Semiramide la sua opera
seria più rappresentata».
Due contemporanei come Stendhal e
Byron bocciarono il libretto. Jago è
ridimensionato e il fazzoletto si è
convertito in un dolce biglietto. Come
disse Alfred de Musset, diventa la triste
storia di una fanciulla calunniata che
muore innocente.
«Rossini non è Verdi, non fa esplodere la
conflittualità con potenza drammatica. Io lo
trasformo in un dramma intimo. La mia idea
è di creare una famiglia, dove Emilia è la
sorella di Desdemona, Jago è il cugino.
E c’è la lotta per la dinastia, il potere di una
famiglia in crisi e il problema di allearsi con
uno straniero di un altro mondo e di un’altra
religione. È insieme una lotta di potere e
sessuale (perché il potere economico
richiama sempre il potere sessuale), dove
tutti i personaggi non sono mai quel che
sembrano. Emilia, che in genere è molto
compassionevole, in realtà muore dalla
gelosia per la sorella. Emilia è falsa come
Jago e come Rodrigo, che non vuole sposare
Desdemona ma vi è costretto dal padre.
È la Dinasty di una ricca famiglia dove
l’anello più debole è quello che salta».
Come ricorda il suo primo spettacolo?
«Era un’ Histoire du Soldat di Stravinskij
per bambini, all’Auditorium di Corso San
Gottardo a Milano. Avevo 24 anni, e lo
stesso desiderio di perfezione di quando
faccio spettacoli alla Scala, mi preoccupavo
che tutto fosse curato. Mi dicevo: non è uno
spettacolo per bambini».
Sente l’ansia della prima?
«No, nel novanta per cento dei casi vivo un
debutto con gioia. Mi piace l’ingresso degli
spettatori in sala. È un po’ come quando si
prepara una festa a casa e arrivano gli
invitati. Certo speri che il cibo sia sufficiente
e buono, però hai la consapevolezza di aver
preparato tutto dando il meglio».
Riccardo Muti, senza farne i nomi, ha
criticato i registi che riducono la musica
viola
Ana Chumachenco
Marco Rizzi
Roberto Ranfaldi
Pavel Berman
Rudens Turku
Anna Serova
musica da camera
flauto
clarinetto
violoncello
Robert Cohen
pianoforte
Konstantin Bogino
Ramin Bahrami
composizione
liuteria - restauro
Fine Arts Quartet
Yumiko Urabe
Anna Serova
Davide Formisano
Enrico M. Baroni
Azio Corghi
Carlos Arcieri
anno accademico 2016
Palazzo Gromo Losa - Corso del Piazzo 24 - 13900 Biella
tel. +39 015 29040 - fax +39 015 3528282 - [email protected]
www.accademiaperosi.org
Ministero per i Beni
e le Attività Culturali
Dipartimento dello Spettacolo
Direzione PromozioneAttività
Culturali, Istruzione e Spettacolo
Settore Spettacolo e Cultura
Martin Grubinger
Adrenalina
PURA
Energia, forza, ritmo assoluto e insieme disciplina,
tenacia, studio rigoroso sono i segreti del giovane percussionista
austriaco, formidabile folletto planetario
di Luigi Di Fronzo
S
i getta con furia e violenza selvaggia
fra gli accenti tribali di Okho di
Xenakis, fa rimbalzare schegge
taglienti con il suo ensemble “Percussive
Planet” in versione Big band nel Mood for
interaction di Rod Lincoln (come si può
vedere anche in un dvd pubblicato da
Deutsche Grammophon). Poi porta per la
prima volta al Teatro alla Scala le canzoni
di Sting e i melodiosi Songs di Frank
Sinatra, punteggiando al vibrafono la voce
baritonale del divo americano Thomas
Hampson. Imprevedibile, estroso, molto a
suo agio sulla scena – si tratti di far
evaporare suoni liquidi sui brani di
Corigliano o di scatenarsi al ritmo
infernale fra le rielaborazioni da Cole
Porter – Martin Grubinger è a detta di tutti
il percussionista del momento.
Difficile per chiunque fare il tutto esaurito
con Rihm e Xenakis. Eppure lui ci riesce.
Quasi 33 anni, austriaco di Salisburgo
68 Amadeus
(«impossibile prescindere dal genio di
Mozart che si respira ovunque, in città»)
Martin il folletto non ha timori reverenziali,
né illegittimi complessi di inferiorità su uno
strumento un poco anomalo nell’arcipelago
classico. Lo ammette, con una punta di
candida ingenuità. «In realtà da bambino
avevo incominciato con il pianoforte, poi
sono passato alla batteria. Qualcuno mi ha
scoraggiato, dicendo che non avrei mai
trovato tanto pubblico. Invece sta capitando
il contrario, perchè nelle mie performances
mi muovo con una certa libertà fra
trascrizioni e avanguardia». Trovare il
repertorio può essere complicato. «Certo,
non siamo fortunati come i pianisti, che
hanno soltanto l’imbarazzo della scelta.
Eppure la recente riscoperta delle
percussioni può legittimarsi grazie ai tanti
contemporanei che hanno iniziato a
scrivere per noi: Peter Eötvös, James
MacMillan, Heinz Karl Gruber, Kaija
Saariaho. Nomi che si possono mescolare a
classici, Varèse, Xenakis e Béla Bartók».
Un ripiego? «Direi proprio di no, anche se
la Sonata per due pianoforti, celesta e
percussioni di Bartók venne scritta nel 1938
e questo dà idea del nostro mondo recente.
Questa è una bella opportunità per noi,
sviluppiamo progetti che mescolano il
linguaggio colto alla salsa, al tango, al
rock, alla fusion, al funk fino alla musica
tribale africana e alle percussioni taiko:
senza rinunciare all’impegno, alla qualità e
al contrappunto ritmico, come in Caribbean
Showdown il programma che ho portato
all’ultimo Festival Beethoven di Bonn».
Qualche anno fa Martin ha incluso persino
una spericolata rilettura del canto
gregoriano, su percussioni, testimoniata dal
cd Drums ’n ’Chant (Deutsche
Grammophon). «Sì, c’è gente che non l’ha
potuta ascoltare, ma per me è stata
un’esperienza piacevole, anche perchè
totalmente nuova. Mi sono documentato, ho
Amadeus 69
Bruckner di Linz, in Austria e al Mozarteum
di Salisburgo è stato importante. Poi si sono
mescolati i vari concorsi, sin da quando
avevo 15, 16 anni. Alcuni li ho vinti (World
Marimbaphone Competition di Osaja in
Giappone, Ebu Competition in Norvegia)
altri li ho persi, il tutto mescolato alle prime
maratone. Un grande successo è stato
quando a Vienna ho suonato per più di
quattro ore con un’orchestra: nell’insieme
ho suonato circa 600 mila note a memoria,
pentagramma in più o in meno».
«Avrei voluto
fare il contadino...
Prima o poi faccio
il grande salto»
studiato la notazione, tradotto i testi latini e
trascritto i vari melismi dei monaci
medievali. E alla fine affrontare questo
repertorio è stato affascinante». Dal
gregoriano al pop/rock è un bel salto di
prospettiva: cosa cambia davvero per un
virtuoso di percussioni? «Non molto quanto
all’impegno, alla serietà d’approccio. A me
semplicemente piace vagare da un genere
all’altro: lo trovo un elemento di vitalità,
non un cliché. La differenza è che se faccio
70 Amadeus
avanguardia devo conoscere, e alla
perfezione, le tecniche dei singoli strumenti,
che sono centinaia. Nel rock invece riesco a
infondere il medesimo spirito, la stessa
energia, anche se il set strumentale è più
povero». Artista versatile, che si muove con
eleganza – nerovestito come un cerimoniere
orientale – nel gran stuolo di marimbe,
rullanti, piatti sospesi, conghe
sudamericane, gong e batterie, per Martin la
scelta non è stata casuale. «Mio padre era
docente di batteria all’Università di
Salisburgo e io ho sempre avuto intorno un
sacco di strumenti. Quando avevo 3 anni e
mezzo mi ha messo alla prova,
insegnandomi i rudimenti. Suonavo anche il
contrabbasso e il flauto dolce, anche se mi
divertiva di più la batteria e ho sentito da
subito che l’attrazione era troppo forte».
Però fra il nascere in una famiglia e
diventare un mostro di bravura ce ne corre.
«È vero, eppure le regole del gioco non
cambiano. Ci vuole talento e
consapevolezza della gioia che provi nel
praticare uno strumento. Io ho avuto
entrambe le cose, fin da bambino. Poi dopo
i 15 anni ho abbandonato il liceo per
concentrami sui miei strumenti: è stato un
peccato, ma in fondo quando ti eserciti
dalle otto alle nove ore tutti i santi giorni i
risultati non vengono mai per caso».
Buona comunque la sua preparazione
scolastica. «Studiare al Conservatorio
Bella impresa, far tutto a memoria.
«Appunto. Ho sempre detestato il leggìo,
anche a Milano alla Scala nell’ottobre
scorso mi sono esibito senza spartito. Il
leggìo crea una frattura con i colleghi
strumentisti del mio gruppo e ancor di più
con il pubblico. Meglio farne a meno, in
questo modo riesco a sentirmi più vicino
agli altri esecutori». Ricordare tutto però è
complicato. «Come imparare a parlare una
lingua nuova, dopo col tempo ci si abitua:
anche se non c’è una linea melodica e il
suono del basso viene elaborato in una
sorta di subconscio».
Nell’esecuzione c’è anche bisogno di una
certa forza fisica. «Beh, certo, a volte la
parte della batteria impone pulsazioni
continue di circa 155/160 battiti al minuto.
La fatica si fa sentire. Già di fatto può dirsi
una maratona, c’è bisogno di fiato e di un
ottimo apparato muscolare». Un’esplosione
di atletismo? «Sì, ma anche se il maratoneta
magari corre una sola volta e poi si
permette dei giorni di riposo, noi no, la sera
dopo possiamo avere un altro concerto».
Importante dunque fare sport. «Aiuta, certo,
oltretutto mi è sempre piaciuto praticarlo.
Corsa, ciclismo, nuoto, sci di fondo. Vivo
nel Salzkammergut, vicino al Mondsee e
Fuschlsee, e di conseguenza ne faccio
parecchio. Soprattutto calcio, sono anche
un grande tifoso. Ho pure un abbonamento
allo stadio, tifo da sempre per la squadra
del Bayern di Monaco». Esiste una sorta di
ritmo assoluto per l’orecchio, come per
l’altezza del suono? «Se esiste non ne sono
consapevole. A volte mi capita persino di
prendere ritmi molto strani, quasi
imprevedibili, rispetto alla volontà del
compositore. Di assoluto mi manca la
percezione del tempo, e tanto meno quella
dell’orecchio, ma di certo – assoluto per
assoluto – devo dire che quello che mi
manca non è di certo l’amore per questi
strumenti». Non ci fosse la musica nella sua
vita, a cosa si affezionerebbe? «Avrei voluto
fare il contadino e non escludo di farlo in
futuro. Sono nato in una fattoria, mi piace la
vita nei campi e la vicinanza con la natura:
soprattutto svegliarmi alla mattina e
guardare il cielo, i prati, le mucche al
pascolo. Prima o poi faccio il grande salto.
Anche perchè le grandi città mi stressano».
La cosa che ha imparato di più, per arrivare
ai risultati? «La disciplina. Quella che mi ha
insegnato mio padre. A casa mia si
ascoltava musica tutto il tempo. Ti lavavi i
denti ascoltando Bruckner e facevi
colazione con la musica del grande Mozart.
Ma di certo senza disciplina non sarei
andato lontano».
Il momento più bello di un concerto?
«Quando sto per entrare in sala dietro
le quinte, e cerco la giusta ispirazione,
l’energia interiore. So che sta per scatenarsi
l’adrenalina, ma non è ancora successo.
È solo questione di minuti». 
Il percussionista austriaco Martin Grubinger,
33 anni ha portato in concerto al Teatro alla Scala
(nella foto) il suo ensemble Percussive Planet
con il cantante Thomas Hampson
Amadeus 71
Bauermeister & Stockhausen
Scene da un
MATRIMONIO
Lei artista visiva, regina dell'avanguardia anni '60, lui genio
della nuova musica del '900. L'incontro a Darmstad, 5 anni
insieme, 2 figli. Storia di un'affinità che dura nel tempo
di Federico Capitoni
S
cordatevi pure una storia d’amore tradizionale, del resto di
tradizionale Mary Bauermeister e Karlheinz Stockhausen
avevano ben poco. L’una, artista visiva, regina
dell’avanguardia europea negli anni ’60 del secolo scorso, e l’altro,
tra i maggiori rappresentanti della “nuova musica” del ’900, sono
stati sposati per cinque anni dal 1967 al 1972. Ma mica come una
coppia normale. No, piuttosto come due spiriti intonati che si sono
incontrati sulla stessa frequenza: «Mi sono chiesta», dice Mary
Bauermeister, «se essere una coppia abbia aiutato o meno la
nostra arte. Tuttavia questo aspetto non è stato la parte essenziale
della nostra relazione. Eravamo semplicemente su frequenze
molto simili, avevamo un’incredibile affinità di anime. I momenti
più importanti tra noi non furono gli incontri fisici. Vivevamo
separati e comunicavamo attraverso le lettere, nelle quali
ci dicevamo pensieri, sensazioni e idee». Coppia sui generis,
dunque, che però ha avuto il modo di fare due figli (e non
“spiritualmente”), Julika e Simon, nonché di collaborare insieme
72 Amadeus
professionalmente. A testimonianza del loro sodalizio artistico un
concerto recente che il Festival Romaeuropa ha dedicato ai due:
l’esecuzione di Stimmung di Stockhausen, pezzo vocale che
coniuga serialismo e minimalismo, e la prima esecuzione di Aus
den Skizzenbücher 1960, della stessa Bauermeister, un brano che
mescola – rielaborate – canzoni tradizionali anche italiane.
Come nacque Stimmung, dal compositore dedicato proprio alla
moglie che, da parte sua, collaborò nella realizzazione del design
della partitura, ce lo racconta lei in persona: «Avevo appena
cantato una canzone a nostro figlio per farlo addormentare.
Appena uscita dalla stanza il bambino cominciò come a mugolare
una melodia imprecisata – sembrava uno jodel – e Stockhausen
ne rimase così colpito che la usò come ispirazione per creare la
sua musica fondamentalmente basata sugli armonici. Insomma,
l’ispiratore di Stimmung fu Simon». I due si conobbero ai corsi di
Darmstadt nel 1961 e iniziarono una collaborazione professionale
che si estenderà alla relazione amorosa solo successivamente:
Amadeus 73
Pierre
Tendenze
Boulez
«Eravamo l’uno dentro l’altra professionalmente, ci
influenzavamo a vicenda. La prima cosa che abbiamo fatto
insieme fu ad Amsterdam, allo Stedlijk Museum, dove
Stockhausen era stato invitato per una performance di musica
elettronica accompagnata a uno show visuale creato da me. Oggi
vedere cose così è normale, ma a quel tempo no. Si pensava alla
musica come una cosa da fruire eventualmente a occhi chiusi e
all’arte figurativa come qualcosa da capire per forza. Ma già alla
fine degli anni ’60 era iniziata la cultura multimediale, grazie
all’happening per esempio, e i musicisti cominciarono a pensare
le loro opere in termini visuali, incontrando gli artisti visivi.
Così nacquero lavori in cui artisti di ogni tipo insieme a
musicisti, filosofi e poeti concorrevano alla creazione.
Il mio studio era un crocevia di questo genere di collaborazioni
perché l’interscambio era il mio interesse principale. Ed era uno
studio “chiuso”, nel senso che si accedeva per invito, poiché lo
anni, pare essere oggi la regola dell’arte contemporanea:
installazioni e opere multimediali in cui musica, video, verbo e
gesto si integrano al punto che presi separatamente non hanno
alcuna efficacia. E se quindi questa è la norma e non più la
sperimentazione, oggi un’avanguardia di quel genere – dalla
portata cioè così rivoluzionaria – sarebbe possibile? «Solo se»,
risponde, «si rinunciasse alla tentazione dell’economia e del
denaro. L’arte ne è diventata dipendente. Bisognerebbe che gli
artisti pensassero all’arte come funzione sociale, per il futuro,
e non economica, per il presente. Ma è un processo dialettico:
l’arte può uscire dal capitalismo solo se ci è dentro. La cultura in
povertà non può esistere». Così, secondo l’artista tedesca, ora che
l’arte è pienamente nel capitalismo, è il momento che – per
progredire, per dire qualcosa che nessuno dice – si torni alla
gratuità. Quando poi anche questo nuovo indirizzo si intrappolerà
nel circuito produttivo, si renderà necessario ripartire con lo
stesso procedimento.
«Eravamo l'uno dentro l'altra
professionalmente, abituati
a influenzarci a vicenda»
Certamente, però, anche oggi c’è un’avanguardia; ma Mary non è
aggiornata: «Non ne ho idea. Sono ormai fuori dalle tendenze
odierne. Spero solo che sopravviveremo alle macchine e che
l’arte continui a essere espressione dell’uomo. Bisogna restare in
equilibrio tra la tecnologia e la sensibilità umana. Non si deve
perdere il contatto con il metafisico». E, per quanto la riguarda,
oramai l’aspetto estetico non è più contemplato nel suo orizzonte:
«Tutto ciò di artistico che facevo alla mia epoca non era chiamato
“arte”. Oggi il mio lavoro non è più estetico, è politico. Nel senso
che le mie opere parlano di problemi reali, come la fame nel
mondo. Non si tratta di risolvere i problemi attraverso l’arte,
ovviamente, ma di far emergere le questioni. Un documentario sui
problemi del mondo non serve a risolverli ma a far sapere, con
chiarezza, alla gente che tali problemi esistono. McLuhan diceva
che l’arte è un sistema di allerta. In questo senso l’artista ha una
grande funzione».
Ma, in tutto ciò, che fine fa la bellezza? «La bellezza è tornata di
moda. Ai miei tempi non era più presa in considerazione, insieme
alle idee di bene e verità. La bruttezza è importante per l’artista e
per l’uomo, così come il rumore in musica, ma della bellezza
abbiamo bisogno, la ricerchiamo sempre. La chiave è trovare la
bellezza nella bruttezza e non escludere l’una o l’altra. Il pericolo
è il fondamentalismo che si esprime nel separare le due cose.
Si tratta sempre di trovare l’armonia». 
scopo era che gli artisti imparassero l’uno dall’altro, e
soprattutto sapessero in che direzione stesse andando l’arte
contemporanea, attraverso un processo continuo di interazione.
In più, certamente, Stockhausen apprese molto dalle arti
figurative, soprattutto per l’approccio grafico alla scrittura della
partitura. E dal canto mio imparai dalla musica. Così io diventai
un po’ più strutturata e lui un po’ più anarchico».
Mary Bauermeister è stata tra i principali animatori, a partire
dalla fine degli anni ’50, di movimenti culturali collettivi, che
miravano alla desacralizzazione e alla destrutturazione dell’arte,
abbattendo canoni e dogmi. E ne ha fatto parte nella fase
primigenia, quella più pura, prima che anche questa libertà
“demolitrice” diventasse essa stessa un nuovo canone. «Sebbene
mi assegnino al movimento Fluxus», racconta, «in realtà io ho
lavorato nel periodo appena precedente a Fluxus, quello
postdadaista. Si può dire quindi che sono tra quelli che hanno
dato il via al movimento. Fu la fase più estrema della
sperimentazione: durante le performance musicali, con John
Cage e David Tudor, si cucinava sul pianoforte. Non c’era la
paura del giudizio e si era liberi perché fuori da un principio
economico; non c’erano soldi, si veniva su invito, nessun biglietto.
Eravamo tutti giovani e affamati, ma affascinati dalle creazioni
e dagli esperimenti dei colleghi. Dopo, a partire dall’avanguardia
di Nono e gli altri, si sarebbe stati meno liberi».
Il sincretismo tra le arti che caratterizzò come una novità quegli
74 Amadeus
Cambio
VITA
Era un imprenditore,
ma a 40 anni
Paolo Zanarella
è diventato
il "pianista fuori posto"
e porta la sua musica
per le strade italiane.
Un libro racconta
la sua storia
di Edoardo Tomaselli
Nelle foto, Mary Bauermeister, oggi 81 anni, artista visiva e moglie
del compositore Karlheinz Stockhausen dal 1967 al 1972
Amadeus 75
U
na storia che è molte storie riunite
assieme. In primo luogo la vicenda
umana e artistica del protagonista
– raccontata in un libro appena pubblicato –
quindi lo specchio di una scelta radicale e il
percorso di una travolgente passione per
l’universo delle note: ma allo stesso tempo
uno spunto di riflessione sulla musica, e gli
spazi in cui risuona. Paolo Zanarella avrebbe
potuto essere molte cose. Padovano, entrato
a dieci anni in seminario, avrebbe potuto
seguire una delle tante strade disegnate dal
sentire religioso. Oppure avrebbe potuto
trasformarsi in un imprenditore nel settore
della carta. O altro ancora. Ha aspettato di
compiere quarant’anni per trovare la sua
strada, e trasformarsi nel “pianista fuori
posto”. Paolo Zanarella non possiede alcun
titolo accademico: non ha fatto regolari studi
di conservatorio, non ha vinto premi o
concorsi internazionali. È, e rimane, un
completo autodidatta: «Mi sono avvicinato
76 Amadeus
alla musica attraverso mio fratello, che
aveva iniziato a studiare da bambino.
Insistevo perché insegnasse a me ciò che
veniva insegnato a lui, e il pianoforte – per
quanto io abbia studiato altri strumenti – è
stata da subito la mia principale fonte di
attrazione. Una volta entrato in seminario
mi sarebbe piaciuto approfondire gli studi di
armonia e strumento, ma non ci fu mai modo
di farlo, e quando undici anni dopo mi resi
conto che non era il cammino religioso a
chiamarmi, mi ritrovai spaesato. Avevo da
poco passato i vent’anni, e con i miei fratelli
ci mettemmo in società, decidendo quasi dal
nulla di buttarci nella produzione di...
sacchetti di carta». Poco tempo dopo Paolo
si sposa, inizia un lavoro stabile, e dal
matrimonio nascono tre figli. Nel soggiorno
della casa padovana, uno Steinway a coda si
impone con la sua elegante silhouette.
«Anche negli anni di lavoro non ho mai
smesso di studiare, ogni giorno. Non ho mai
abbandonato la musica: avevo preso lezioni
da vari maestri, e scritto partiture per
musical...». Nonostante gli impegni, con il
passare del tempo Paolo Zanarella sente
emergere il desiderio che il mondo dei suoni
sia al centro della sua vita.
E decide di lasciare di nuovo tutto, senza
nessuna certezza, per dedicarsi alla sua
unica, vera e profonda passione. Nel 2008,
dopo «uno studio matto e disperatissimo»,
come scrive nel suo libro La musica di un
sogno. Storia del pianista fuori posto
(Cairo Editore), «mi sentivo finalmente
pronto per un concerto». Inizia la ricerca
di un teatro, tutto viene organizzato in
autonomia, e la serata si rivela
inaspettatamente un successo. Paolo decide
di gettarsi a capofitto nell’attività
concertistica: qualche data funziona, ma
più va avanti, più crescono i flop. In uno
dei concerti più importanti, preparati con
dispendio di tempo, soldi e energie, si
presentano settanta persone in una sala che
ne ospita cinquecento. E proprio nel
momento di maggior difficoltà emerge una
riflessione quasi ovvia: se nessuno ha
voglia di entrare in un teatro per ascoltare
un perfetto sconosciuto, fuori del teatro,
quella stessa sera le persone riempiono
ovunque le strade. «Bene, allora in strada,
dalla gente, ci vado io con il pianoforte.
Questa l’intuizione grazie alla quale ho
cominciato a suonare fuori posto...».
La domanda alla fine è semplice: qual è il
luogo della musica? Quale lo spazio per un
pianista? Davvero la sala da concerto è
l’unica alternativa possibile? O forse la
strada stessa dimostra che può esserci un
modo diverso di comunicare? Non è forse
una delle etimologie della parola comunicare
– communis, mettere in comune, scambiare
emozioni e sentimenti – a suggerire la
possibilità di fare le cose in maniera diversa?
Il debutto del “pianista fuori posto” avviene
il 14 agosto del 2009: grazie alle sue
conoscenze di meccanica, Paolo brevetta un
modo artigianale ma efficace di caricare e
scaricare un pianoforte mezza coda sul suo
furgone, in orizzontale e senza smontare le
gambe: utilizza gli stessi crick in dotazione
sulle macchine, comandati da un piccolo
motorino a 12volt, e nell’officina di un
amico costruisce un’intelaiatura su cui
appoggiare e sollevare lo strumento. Per
il trasporto del mezza coda compra un
furgone usato adibito al trasporto dei
farmaci, già coibentato per mantenere la
temperatura stabile. Quella sera d’agosto
suona all’imbrunire davanti alla seicentesca
Villa Contarini, a Piazzola sul Brenta.
«Quella del “pianista” fuori posto è una
provocazione: si immagina che il luogo del
pianoforte sia una sala da concerti, con un
pubblico seduto ad ascoltare. E invece no:
il vero posto del pianoforte è la strada. È lì
che la musica può finalmente parlare alle
persone...». Da allora il pianista fuori posto
non si è più fermato, viaggiando su e giù per
tutta l’Italia. Ha inciso una serie di dischi con
sue musiche, e lo si trova nei posti più
impensati e negli orari più disparati. «Suono
anche d’inverno, con il freddo: ormai sono
abituato. Le dita si scaldano, e sono capace
di suonare per un giorno intero... Eseguo
la mia musica, certo, ma soprattutto
improvviso a seconda delle situazioni e delle
persone che ho davanti. Mi hanno chiesto
come definire ciò che suono, e io mi definisco
un jazzista di classica: classico perché amo
la musica di Bach e del pianismo
tardoromantico, e assieme jazzista perché
nel jazz è la chiave dell’improvvisazione».
Nel 2014 Paolo Zanarella ha realizzato un
sogno: suonare sospeso per aria tra i canali
di Venezia. «Stava arrivando il Carnevale,
e proposi al comune di Venezia la mia
idea: avevo progettato una struttura di
metallo su cui appoggiare me stesso e il
mio pianoforte. La struttura sarebbe stata
legata a una gru appoggiata su una barca,
e mi permetteva di suonare a 15 metri
d’altezza... E il comune ovviamente disse
di no. Ma sono andato comunque avanti
con il mio progetto, ho sostenuto tutte le
spese e ho coronato il mio sogno. E alla
fine la cosa è piaciuta, e forse quest’anno
sarà lo stesso comune di Venezia a
invitarmi per il Carnevale. Adesso, dopo
aver girato in lungo e in largo l’Italia –
non solo le piazze più belle, ma anche
luoghi che non sono né belli né brutti, che
sono semplicemente strani, inusuali, poco
conosciuti o frequentati – comincio a
pensare ad esperienze da fare all’estero:
penso ai fiumi. Mi piacerebbe suonare
sospeso sulla Senna o sul Tamigi... Tutti
progetti che prima o poi, in qualche modo,
troverò il modo di realizzare».
Rimane il fatto che lavorare come un
pianista fuori posto, presenta una serie
di problemi burocratici non facilmente
risolvibili: esibirsi per strada richiede
appositi permessi, e i comuni italiani non
sempre sono attrezzati o disponibili. Città
come Milano si sono mosse, valorizzando
la musica in strada con un’apposita
piattaforma web alla quale iscriversi dopo
il vaglio di una commissione artistica,
ma molto resta ancora da fare.
E per il futuro, cosa si aspetta Zanarella?
«Sul contachilometri del mio furgone
compaiono sessantamila chilometri di
strada percorsi ogni anno, e io intendo
andare avanti su questo cammino. La
gente ha bisogno della musica in strada,
e io – a quarant’anni – ho capito che si
può fare ciò che ci piace. La musica mi
ha aiutato a entrare in me stesso, e io con
il pianoforte vorrei ricambiare il dono,
offrendo a chi mi ascolta la stessa
possibilità. Sono contento della vita
vissuta fino ad ora: anche degli anni di
seminario. E se dovessi tornare indietro,
rifarei tutto come è stato fatto...».
Luoghi insoliti, città d'arte, natura, periferie: in
apertura, il pianista fuori posto Paolo Zanarella
in concerto "sospeso" al Carnevale di Venezia
Amadeus 77
Creativi in comunicazione
Il ritratto completo e suggestivo di un italiano che ci fa grandi nel mondo
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L’Uomo,l’Artista,
l’Artista,ilil Mito,
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ANTICA
MUSICAOGGI
L’angelo d’avorio
Materia sonora
S
oltanto pochi mesi fa, sul numero
di luglio 2015, Amadeus aveva
raccontato dell’impresa letteraria
di Federico Maria Sardelli, il direttore
d’orchestra, flautista, musicologo,
vignettista e di recente anche romanziere
ben noto ai nostri lettori, in quanto
protagonista con il suo ensemble Modo
Antiquo di diverse produzioni discografiche
nel corso degli anni allegate alla rivista.
L’affare Vivaldi s’intitola il romanzo
di Sardelli, pubblicato da Sellerio, che
narra la storia dell’oblio e della riscoperta
novecentesca del più importante corpus
di musiche vivaldiane: annotate su una
serie di manoscritti, per lo più autografi,
poi confluiti nella Biblioteca Nazionale
di Torino. Una vicenda rocambolesca
che Sardelli ha riportato in un libro in cui
ogni riferimento a fatti e persone è più
che del tutto voluto, in quanto fondato su
documenti e risvolti realmente accaduti.
Da non molto, invece, è stato presentato
un nuovo volume di narrativa dedicato
al “Prete rosso”: lo ha pubblicato Skira,
s’intitola Vivaldi e l’angelo di avorio,
e lo firma lo storico della musica Mario
Marcarini. Il libro nasce come emanazione
dell’omonimo progetto discografico
concepito e intrapreso nel 2011 da Simone
Toni con l’Ensemble Silete Venti! per
Deutsche Harmonia Mundi. Nei cd sono
eseguiti tutti i Concerti per oboe e orchestra
di Vivaldi, con l’ausilio di tre oboi in
avorio ricostruiti da Olivier Cottet sul
modello di quelli che Vivaldi stesso avrebbe
commissionato a Giovanni Maria Anciuti:
un personaggio fino a poco tempo fa quasi
misterioso, ma realmente esistito.
Gli scritti di Marcarini che hanno
accompagnato i tre dischi costituiscono
adesso l’architettura portante di una spy
story (così l’ha definita in un’intervista lo
stesso autore, che è anche Label manager
di Sony Classical Italia), arricchita dalle
80 Amadeus
Un recente volume
di narrativa firmato
da Mario Marcarini
pone l'attenzione
su un costruttore
di strumenti a fiato
della prima metà
del '700
Un'illustrazione di Barnaba Fornasetti
surreali illustrazioni di Barnaba Fornasetti
e ispirata soprattutto dall’amore schietto
che lo scrittore prova per la città, la storia
e la musica di Venezia. Una vicenda che
prende le mosse dall’improvvisa fuga di
Vivaldi dalla laguna (siamo attorno ai
giorni compresi tra il 12 e 14 maggio 1740)
in direzione Vienna. La capitale asburgica
dove il “Prete rosso” avrebbe trovato solo
disinteresse, povertà e morte.
Quelle fin qui citate non sono certo le prime
opere di narrativa che ruotano attorno
alla figura Vivaldi e alla Venezia del suo
tempo –­ uno per tutti, si pensi a Stabat
mater, il romanzo di Tiziano Scarpa
uscito per Einaudi e vincitore del Premio
Strega nel 2009 – ma segnano un punto
importante, almeno qui da noi in Italia:
ovvero la “riappropiazione” da parte di chi
conosce musica, da parte dei professionisti
della musica, della facoltà di raccontare la
musica. Non è certo una possibilità unica e
univoca, ma è importante che ci sia, come
indispensabile alternativa.
In sostanza, oltre che del talento degli
autori, e seppur in maniera diversa, le opere
letterarie di Sardelli e Marcarini fanno
della ricerca storica la sostanza prima,
ispiratrice della narrazione. Del volume
di Marcarini, al di là dell’evocazione di
una Venezia barocca raffigurata come
misteriosa, seducente e spietata, colpisce
come importante quel porre all’attenzione
del pubblico proprio la figura di Anciuti, di
recente fatta affiorare in maniera decisiva
dagli studi di Cinzia Meroni e Francesco
Carreras. Ovvero quella di uno dei più
noti e apprezzati costruttori di strumenti
musicali a fiato della prima metà del ‘700
(soprattutto flauti dolci e oboi, uno di
questi ultimi, appunto in avorio, lo si può
ammirare al Civico Museo del Castello
Sforzesco di Milano), nato a Forni di Sopra
(Udine) nel 1674 e scomparso a Milano nel
1744, attivo tra la città lombarda e Venezia.
di Massimo
Rolando Zegna
[email protected]
Rivelare il silenzio
attraverso il suono.
Nuove riflessioni
su poetica e percorso
di ricerca di Stefano
Gervasoni
U
n libro di Philippe Albéra e
un concerto di Milano Musica
offrono occasioni molto attraenti
per riflettere sulla musica di Stefano
Gervasoni (Bergamo 1962), di cui il
Quatuor Diotima ha presentato a Milano
la versione definitiva del terzo Quartetto,
Clamour (2014) quasi negli stessi
giorni della pubblicazione del volume
monografico che l’insigne musicologo
ginevrino gli ha dedicato (Le parti pris
des sons, Editions Contrechamps). Poco
meno di 500 pagine non sono troppe per
delineare la poetica e il percorso delle
opere di un compositore che ha vissuto
e vive con rara profondità e intensità di
riflessione e con spirito di ricerca sempre
apertissimo i problemi delle generazioni
seguite all’ansia di radicale rinnovamento
del secondo dopoguerra, lontane da
certezze dogmatiche anche quando non
condividono gli aspetti equivoci della
così detta “fine della modernità”.
In una conversazione pubblicata da
Ricciarda Belgiojoso (in Note d’autore)
Gervasoni sottolineava il bisogno di non
perdere il rapporto creativo con la «materia
suono», che, «nasconde abissi da esplorare,
e non solo in termini di timbro, ma anche
di forme da costruire, di possibilità
di mettersi in rapporto con la percezione
musicale in una maniera diversa». Nella
attenzione a diversi aspetti della “materia
suono” la complessità variegata della
Il compositore Stefano Gervasoni
ricerca di Gervasoni non è facilmente
classificabile, né riconducibile a una
etichetta. Non rifiuta l’attenzione al passato
storico, è aperta a mondi e dimensioni
differenti (per esempio nel vasto ciclo vocale
Com que voz , del 2007-8, sono accostate
trascrizioni di fados di Amália Rodrigues e
liriche di Camões musicate da Gervasoni nel
proprio stile); ma non rinuncia alla tensione
utopica della ricerca: è significativo che
tra i suoi punti di riferimento ideali, non
propriamente “maestri”, e molto differenti
da lui, ci siano Luigi Nono (in particolare
l’ultima fase), Lachenmann, Holliger
e Ligeti, senza dimenticare Kurtág.
Le aperture del percorso di ricerca di
Gervasoni si riflettono, fra l’altro, in scelte
testuali originali, dalle poesie francesi
di Ungaretti e Rilke al ciclo Dir-In Dir
su Angelus Silesius.
Tra gli esiti più recenti e più affascinanti
c’’è il terzo Quartetto. Clamour coinvolge
l’ascoltatore in un percorso imprevedibile,
che si segue trattenendo il respiro,
come accade con le 6 Bagatellen op.
9 di Webern, ma in un arco di tempo
che supera i venti minuti. Sospesi in
una dimensione temporale nuova si
succedono frammenti estremamente
diversi nell’indagine sul suono del
quartetto d’archi, nel carattere e in ogni
altro aspetto, e tuttavia pensati in modo
da costruire una forma di ampio respiro.
Si comprende ciò che scrive Gervasoni
a proposito di Clamour: «Scoprire e
rivelare il silenzio nella materia sonora
senza negarla, anzi esaltandola, rivelare
il silenzio attraverso il suono». Nella
discontinuità spinta all’estremo il percorso
di questo quartetto schiude illuminazioni
e spazi visionari, esalta la tensione
al frammento e lo scavo nell’interiorità,
aspetti essenziali della poetica
di Gervasoni, con intensità rara.
di Paolo
Petazzi
[email protected]
Amadeus 81
ALL’OPERA
DANZA
Oltre i confini
Fenomenologia della ballerina
L
a damnation de Faust,
Dreigroschenoper, West Side Story
et similia sono delle opere? Che si
ritrovino sempre più spesso nei cartelloni
dei maggiori teatri lirici del pianeta è un
fatto – un fatto che si spiega anche con la
frustrata e frustrante sete di novità cui non
possono sottrarsi, nonostante tutto, i loro
direttori artistici. Però esso nasconde un
problema di carattere più ampio: quali sono
infatti i “confini” dell’opera?
È chiaro che nel variegato e metamorfico
campo della drammaturgia musicale
l’opera riconfigura continuamente il suo
spazio culturale. Noi tendiamo a separare
generi come l’operetta o il musical
dall’opera stricto sensu. Ma ci sono generi
operistici la cui differenza estetica è stata
storicamente ancora maggiore: la tragédie
lyrique francese e l’opera seria italiana, per
esempio, oppure il dramma wagneriano e il
melodramma verdiano. Un’opera cessa di
essere tale se eseguita in forma di concerto?
Un oratorio, tipo Il trionfo del tempo e del
disinganno di Händel, diventa un’opera se
rappresentato (come si fa spesso) in forma
scenica? Museificazione, restrizione del
repertorio, sclerotizzazione del gusto – tutti
elementi solidali che hanno rischiato
(e rischiano tuttora) di trasformare l’opera
in una “sottocultura d’élite”.
Eppure essa è anche (lo abbiamo più
volte sottolineato) un neutro plurale dai
confini instabili e frastagliati. Esplorarli e
rinegoziarli non dovrebbe essere soltanto
uno dei principali compiti dei direttori
artistici o degli operatori del settore, ma
un’esigenza interna al fenomeno stesso.
Ascoltare e guardare una semiopera di
Purcell o una comédie-ballet di Lully o
un melologo di Benda o un coreodramma
ottocentesco o perfino un film muto con
l’accompagnamento orchestrale dal vivo
non solo arricchisce la nostra idea di teatro
82 Amadeus
Operette
e musical, oratori
e comédie-ballet,
melologhi e film...
Il teatro musicale
tradizionale
e le sue frontiere
(da abbattere)
Mei Lanfang, celebre attore dell’Opera di Pechino
nel ruolo femminile della “dan” (1920 ca.)
musicale, ma anche ci fa capire meglio
l’opera vera e propria.
Quanto ai film muti con le partiture
originali eseguite live e sincronizzate alla
pellicola, si tratta di una riscoperta degli
ultimi vent’anni che ha avuto enormi
implicazioni “operistiche”. Personalmente
ho trovato persino ovvio assistere nel
2006 alla proiezione dell’ultima versione
restaurata di Cabiria al Teatro Regio
di Torino, con una grande enfasi posta
sul recupero del commento musicale,
compilato da Manlio Mazza (un
allievo di Ildebrando Pizzetti al quale
l’Itala Film chiese invano una partitura
composta ex novo) a partire da brani
preesistenti di Gluck, Spontini, Rossini,
Mendelssohn, ecc. Tutto questo vale per
i fenomeni paraoperistici del passato.
Ma il teatro musicale contemporaneo è
in gran parte postoperistico (oltre che
postdrammatico) e tende a collocarsi oltre
le soglie dell’opera tradizionalmente intesa.
Anch’esso gioca un ruolo importante
nella ridefinizione e nel ripensamento dei
confini di quest’ultima. Fanno perciò bene
i teatri a commissionare “opere” nuove
ai compositori contemporanei. Però temo
che non riusciranno a soddisfare la loro
sete di novità con tali commissioni: sono
infatti davvero pochi i titoli del secondo
Novecento a essere ripresi con una certa
regolarità e la stragrande maggioranza delle
nuove produzioni – ahimè – nasce morta
(nel senso che non sopravvive alle prime
rappresentazioni).
Infine, sarebbe bello che i teatri occidentali
aprissero regolarmente le loro porte alle
forme di teatro musicale provenienti da
altre tradizioni. All’Opera di Pechino,
per esempio, che dalle tournées di Mei
Lanfang al film Farwell my concubine sta
prendendo sempre più piede in Occidente e
che chiamiamo, guarda caso, “opera”…
di Emilio
Sala
[email protected]
D
a demi-mondaine ad angelicata, da
aristocratica a pop: in duecento anni
di storia del balletto l’immagine
della ballerina è sempre cambiata, senza mai
mischiarsi alla realtà della condizione
femminile. Le stampe dell’epoca romantica
restituiscono quadretti di graziosa intimità
nel foyer de la danse dell’Opéra di Parigi, tra
voluttuose coryphées di nascita plebea e
azzimati gentiluomini nobili per origine.
Maria Taglioni è detta “divina” per l’aura
scenica di creatura disincarnata, ma per le
ballerine, sempre in viaggio tra le corti
europee scortate da generosi ammiratori,
il balletto è mezzo di emancipazione
economica, se non sociale. Anche
nell’Impero russo sono le fanciulle di umile
condizione a scegliere lo studio della danza
per garantirsi un’istruzione gratuita e una
professione alle dipendenze dei reali; tra le
più belle e ambiziose Matil’da Kšesinskaja
conquista il cuore, e i favori, dell’ultimo zar
e di ben due granduchi.
Travolta la nobiltà, in Unione Sovietica la
ballerina si ammanta curiosamente di tratti
aristocratici. Come Galina Ulanova conduce
vita ritirata se non misteriosa, è una
stakanovista del balletto, e persino
oltrecortina rappresenta il regime, anche
quando è una ribelle come Maija Plisetskaja,
o una transfuga come Natalia Makarova. In
Occidente lo status della ballerina è intanto
profondamente mutato, illuminato dalla
grazia regale delle grandi dame del balletto:
Margot Fonteyn, Yvette Chauviré, Carla
Fracci. Un soffio di quell’allure è rimasto
nelle dive di oggi, tanto più se russe.
Svetlana Zakharova e Diana Vishneva si
atteggiano ancora a “prime ballerine
assolute”: evitano gli incontri vis-à-vis, e
qualora concessi li affrontano con sguardo
distante ed eloquente distacco. Salvo poi
rivelarsi donne reali e di concrete ambizioni:
la primadonna del Bol’šoj, divenuta anche
madre, è stata deputata della Duma nel
Polina Semionova, stella dell'American Ballet Theatre
Abbandonati riserbo
e allure irraggiungibile,
oggi le étoiles sono
atletiche, performanti
e "social"
partito di Putin; l’étoile del Mariinskij ha
ideato e dirige un festival di danza a sé
intitolato. Più avvenenti delle supermodelle,
entrambe cedono a riviste patinate o linee di
moda, né disdegnano il ruolo di testimonial
per i marchi del lusso.
Ma anche il mercato di massa non tarderà
ad accorgersi delle ballerine, belle, atletiche,
performanti, con biografie di riscatto che
piacciono oggi, come la russa Polina
Semionova (Cinderella al Teatro alla Scala
il 12, 14, 15 gennaio), o l’afroamericana
Misty Copeland, stelle dell’American
Ballet Theatre. L’ultima generazione sa
esattamente come sollecitare un pubblico
che non si vuole ormai élitario, ma più vasto
e popolare possibile. Come dimostra la
Prima ballerina del Berlin Staatsballett Iana
Salenko, è fondamentale saper usare i social
networks: followers e likes si conquistano
postando foto e selfies di ostentato
narcisismo, dove il culto del corpo e della
prestazione ha tratti feticistici (in Italia la si
vedrà a Roma all'Auditorium della
Conciliazione il 23 e 24 gennaio al Gala Les
Étoiles, per la rassegna “Tersicore” a cura di
Daniele Cipriani). Nel baratro del consumo
però finisce tutto, anche la vita privata, come
sa la fuoriclasse russa Natalia Osipova,
sotto i riflettori per la sua appassionata storia
d’amore con il ballerino Sergei Polunin,
bello, dannato, e come tutti tatuato. Ai più
giovani piacerà che le ballerine si avviino a
diventare star mediatiche nonché modelli da
emulare; altri forse rimpiangeranno lo stile
austero di Anna Pavlova, che nel più totale
riserbo visse una carriera leggendaria,
lasciando per il suo culto postumo una
piccola urna con il solo nome inciso.
di Valentina
Bonelli
[email protected]
Amadeus 83
Solo Mehldau
SUGGESTIONE RAVEL
Un pianista e un pianoforte: la favola bella di un maestro della tastiera.
Ora in cd dieci anni di suoi concerti "live", Brahms compreso
Attilio Zanchi, contrabbassista e compositore emerito, vanta numerosi dischi a suo nome. Ma questo è il
più bello, compresa la copertina che mostra la mano
del protagonista che tocca le corde dello strumento
emergendo da un fondale scuro. Propone dodici brani – nove firmati da Zanchi: gli altri sono l’Ave Maria
di Giuseppe Verdi, Romanza di Francis Poulenc e
Labios de Flores di Mauro Grossi – testimonianza di
una cultura musicale che si proietta in ogni direzione.
Credo che fra molti anni si potranno tessere le lodi di
questi pezzi con le stesse parole usate dal sottoscritto che le scrive qui, tanto sono eleganti e raffinati al
punto da dare la sensazione di poter trascendere il
tempo: a cominciare dal brano iniziale che dà il titolo
al disco, Ravel’s Waltz. Zanchi, che elabora personalmente le note di copertina brano per brano, tutte da
leggere con molta attenzione, spiega ad esempio che
Maurice Ravel è uno dei suoi compositori classici
preferiti e tuttavia, per lui come per altri, il suo lavoro
di rielaborazione è partito da qualche suggestione
(nel valzer si percepiscono alcune note prese dalla
Pavane pour une infante défunte) ma lo sviluppo
della musica segue poi una propria via.
Ravel’s Waltz
Attilio Zanchi
Abeat Rec. AbJz 144, distr. Ird
ECHI DI SARDEGNA
A
nche Amadeus ha avuto occasione,
segnalando la ristampa di un vecchio
cd, di citare la favola bella del pianista Brad Mehldau, scoperto a Perugia nell’estate 1997 quando aveva 27 anni, e lanciato
con notevole clamore a livello internazionale.
Ma ora che Mehldau, riconosciuto ovunque
come uno dei maestri attuali del pianoforte,
coglie di sorpresa gli estimatori pubblicando
per la sua etichetta abituale, la Warner, un
box di quattro cd (o di otto lp di contenuto
identico in edizione limitata) al piano solo
incisi dal vivo negli ultimi dieci anni, tutto acquista un peso specifico assai diverso.
Torniamo all’inizio degli anni ’90, quindi a
qualche anno prima del 1997. Mehldau arriva per la prima volta in tour in Europa come
pianista del quartetto del sassofonista Joshua
Redman, suo coetaneo e figlio di Dewey che
suona lo stesso strumento. Dewey Redman
84 Amadeus
quasi non conosce il figlio, vissuto fino allora
in California con la madre, ma subito lo protegge, lo promuove facendolo suonare con il
proprio gruppo (anche a Milano in un club
che non c’è più, il Tangram) e poi lasciandolo
libero non appena capisce che può volare da
solo. In Italia, agli intenditori non sfuggono le
doti di tecnica, tocco e fraseggio di Mehldau
che sono il chiaro frutto di studi severi anche
classici. Ma Brad e Joshua non vanno d’accordo per nulla. Il pianista è costretto a lasciare il quartetto e la sua scoperta è rinviata
al 1997 quando approda in Umbria con Larry
Grenadier contrabbasso e Jorge Rossy batteria, il suo trio. Per ritrovare Brad e Joshua
insieme in duo, quasi costretti dalla celebrità
conseguita da entrambi, gli italiani dovranno
attendere il festival di Vicenza del 2010. Nel
frattempo gli esperti, consapevoli che per i
pianisti di jazz i concerti in solo equivalgono
a esami di laurea, cercano di cogliere Mehldau sul fatto. L’impresa si presenta ardua. Ma
nell’autunno 1997 l’Umbria è scossa da un terremoto che danneggia fra l’altro l’incantevole
Palazzo dei Priori nel centro di Perugia. Ci
vuole quasi un anno per rimetterlo in sicurezza. La riapertura deve essere celebrata da un
evento importante come un concerto in solo
di Mehldau, che ha luogo infatti nel quadro
di Umbria Jazz 1998 con esito trionfale.Piace
pensare che da qui nasca il progetto stupendo del box Brad Mehldau 10 Years Solo Live,
realizzato dal 2005 al 2014 in diciassette sale
da concerto e teatri europei, con 34 brani di
vari autori compreso Johannes Brahms, uno
più bello dell’altro. Osserva Luca Conti che
questa musica è suonata benissimo, con una
discrezione lontana dai turgori che talvolta
hanno rischiato di azzoppare la carriera del
pianista in trio. Come volevasi dimostrare.
La notorietà di Gavino Murgia, nuorese, ha valicato
da tempo i confini della sua Sardegna e dell’Italia.
Si è affacciato alla ribalta della musica come sassofonista, ma sarebbe meglio definirlo, più genericamente, produttore di suoni organizzati. In questo cd
in trio con Michel Godard tuba, serpentone, basso
elettrico e con Patrice Heral batteria e percussioni,
accanto al suo nome figura una lista impressionante
di strumenti che qui trascrivo lasciandone da parte
alcuni: sax soprano, sax alto, sax tenore, sax baritono, launeddas, sulittos, thunder tube, tumbarinu.
Inoltre, siccome canta in vari gruppi vocali sardi (tenores), Murgia è definito “bassu guttural”, in quanto
sa cavare dalla gola e dai polmoni un suono cupo
e profondo di rara efficacia e suggestione. I cultori
del jazz lo hanno particolarmente apprezzato in numerose occasioni: ad esempio come sassofonista
del quartetto Giornale di Bordo con Antonello Salis,
Paolo Angeli, Hamid Drake; e come protagonista
eclettico di una rilettura, jazzy ma non troppo, della
musica di Claudio Monteverdi condotta da Michel
Godard. Qui la rievocazione della crudele mattanza, cioè dell’uccisione dei tonni con metodi che per
fortuna stanno scomparendo, è un pretesto per fare
buona musica intrisa di echi popolari sardi.
L’ultima mattanza
Gavino Murgia Trio
1402-2, distr. Quinton
DISCOTECAIDEALE
JAZZ
The Young Oscar Peterson
2cd Jazz Tribune 76
distr. Bmg
Chiunque si metta alla ricerca di
questo bellissimo doppio cd storico
farà fatica a trovarlo, ma vale la pena.
Ci sono tutte le registrazioni
significative realizzate da Oscar
Peterson a Montréal, la sua città
natale, dal 1945 quando aveva
vent’anni fino al 1949, in occasione di
un secondo incontro casuale con
l’impresario Norman Granz che non
era rimasto soddisfatto di una prima
audizione. Ma questa volta Granz
capì che quel pianista giovane e
corpulento valeva tanto oro quanto
pesava, e se lo portò via. Il fatto,
quasi romanzesco, è abbastanza
noto. Granz era in un taxi diretto
all’aeroporto di Montréal per rientrare
a New York mentre la radio di bordo
trasmetteva il concerto di un pianista
in un club cittadino. Il taxista gli disse
il nome del musicista e Granz, pur
sapendo di perdere l’aereo, gli ordinò
di virare verso il club. Cominciò così
la favolosa carriera di Peterson,
interrotta dalla morte a Toronto nel
2007. Aveva iniziato a studiare il
pianoforte classico a sei anni
rivelando una disposizione
eccezionale. Fa impressione
ricordare che per parecchio tempo
non fu apprezzato come meritava:
molti cultori del jazz restarono
persuasi che in lui la tecnica
prevalesse sull’espressione.
di Franco
Fayenz
[email protected]
Amadeus 85
FUORITEMA
Con "Amore e furto" il cantautore romano
dichiara la sua passione per Dylan
S
e non fosse che si cadrebbe nell’ovvio,
e magari anche nel ridicolo, si potrebbe
dire che l’assassino torna sempre sul
luogo del delitto. Lo sanno tutti dall’inizio
del romanzo, ed è diventata consuetudine
di un certo tipo di “gialli” e con il tempo
anche un credo popolare. Per cui la sorpresa
di sentire Francesco De Gregori cantare
Bob Dylan per noi ha lo stesso effetto della
scoperta che l’assassino è il maggiordomo.
Fin dall’inizio della sua carriera il nome
del cantautore romano è stato accostato a
quello del songwriter statunitense e, in effetti,
similitudini e richiami ci sono sempre stati
(come quelli legati a Leonard Cohen). Ora,
però, De Gregori viene completamente allo
scoperto, incidendo un intero album di brani
presi dal canzoniere dylaniano. L’omaggio
parte dal titolo, che si rifà all’album Love and
Theft, appunto Amore e furto, e include 11
perle semi rare tradotte seguendo sia le regole
metriche dei versi che quelle del senso delle
canzoni e la cifra sonora (a volte adattata per
l’occasione). Lo stesso De Gregori spiega
che il suo lavoro è stato solo quello della
traduzione e il compito del traduttore è
essere il più fedele all’originale, quindi ha
scelto di portare in italiano i brani che meglio
si prestavano a questo lavoro. Così questo
disco risulta, oltre che una dichiarazione
d’amore verso Dylan, un atto di dedizione
verso la ricerca della parola “giusta”.
5
DISCOTECAIDEALE
De Gregori “traduttore”
Anche la scelta dei brani ci fa capire
quanta attenzione è stata riservata al
progetto: niente pietre miliari come Mr.
Tambourine Man, Like a Rolling Stone
oppure Blowin’ in the Wind, ma pezzi
“minori” come Political World, Not Dark
Yet e Dignity. Che si accompagnano a
canzoni più conosciute quali Desolation
Row, I shall be released, Subterranean
Homesick Blues e If you see her, say hello.
Lo stesso De Gregori afferma: «Diciamo
che ho cantato le canzoni di Dylan che mi
sono capitate addosso».
Il risultato è un disco molto curato dove
la poetica dylaniana (sia quella letteraria
che musicale) trova modo d’essere
valorizzata e portata alla comprensione
di chi ha sempre avuto preconcetti verso
il songwriter statunitense.
Pare che sia stato uno degli album
più costosi nella storia del rock. E in
effetti per portarlo a compimento
vennero utililizzati ben sei studi di
registrazione, tutti nel Regno Unito, e
migliaia di sovraincisioni e interventi
vocali e strumentali. Fino all’uscita di
A Night at the Opera la produzione
dei Queen si era mossa su un
percorso poco definito, tra
progressive, hard rock e musica pop
di intrattenimento. Fu proprio la
volontà del duo Freddy Mercury –
Brian May (asse portante del gruppo)
che si impegnò alla realizzazione di
questo album, vero punto di svolta
della loro carriera. Lo stesso Mercury
racconta così: «C’erano molte cose
che volevamo fare sugli altri album,
ma non c’era spazio. Adesso ne
abbiamo la possibilità, vogliamo
spaziare in tutti i generi e continuare
il lavoro sui cori e le sovraincisioni
fino a realizzare un’opera d’arte
costruita in studio». Grande
ambizione, che in parte si è
realizzata. Si ascolti anche solo il
brano Bohemian Rhapsody, costruita
su tre diverse fasi musicali, in cui gli
interventi rock, pop e operistici si
susseguono, in un vero capolavoro di
originarietà. A far parte della tracklist
dell’album troviamo anche pezzi
come Sweet Lady, Love of my life,
The prophet’s song e una versione
riveduta di God save the Queen.
SERGIO ARTURO "FINGERPICKING" COLONEGO
Secondo lavoro del chitarrista italiano, che omaggia già nel titolo il celebre musicista Marcel Dadì e il metodo d’accordatura Dadgad, di ispirazione celtica ma
anche mediterranea, che permette sonorità più “aperte” rispetto alle accordature classiche. Una serie di brani eseguiti con tecnica fingerpicking che catturano
l’ascoltatore per la purezza del suono e la maestria del tocco sullo strumento.
Dadigadì
Sergio Arturo Colonego
Produzione propria, Hyperlink
86 Amadeus
www.fondazioneamadeus.org
Un Magazzino per la Musica
A Night at the Opera
Queen
Emi / Parlophone, 1975
Amore e furto
Francesco De Gregori
Caravan, distr. Sony Music, 88875126882
PER
MILLE
destina il tuo
cinquepermille
al c.f. 06057580968
di Riccardo
Santangelo
[email protected]
TW: @RickySixtySix
FB: riccardo.santangelo.71
Libri, dischi, spartiti, un bar, un laboratorio di liuteria.
A Milano un nuovo "spazio aperto" si sta affermando
come luogo d'incontro per musicisti e appassionati
N
asce a Milano il Magazzino
della Musica, per brevità
MaMu, e si propone in questo
breve lasso di tempo, come una
delle realtà culturali più dinamiche e
attive di Milano: incontri, conferenze,
presentazioni di novità editoriali e
discografiche, libri, dischi, riviste,
spartiti, un bar-caffetteria e anche
un laboratorio di liuteria, tutto
supportato da grande competenza e
passione. Si trova in via Soave 3 ed,
escluso il lunedì, è aperto dalle 11 alle
21, da martedì a venerdì, e dalle 10 alle
21, sabato e domenica.
MaMu si propone come luogo ideale
per presentare nuovi cd e nuovi libri,
come se foste nel salotto di casa
insieme ad amici comodamente seduti
e rilassati. Gli onori di casa li fa Nicola
Kitharatzis, che per annni ha lavorato
nell’editoria musicale con Ricordi,
Carisch, musicista con la passione
per la diffusione della musica in ogni
suo manifestarsi: ascoltare, eseguire,
proiettare, suonare ma soprattutto
insegnare, al punto da inventarsi un
corso di solfeggio aperto a tutti la
domenica mattina. Del resto come
molti ricordano egli è stato leader
di un’orchestra di dilettanti, che ha
coltivato e diretto per alcuni anni.
Il successo è innegabile dato che
nel vasto open space (ci si arriva con
tutti i mezzi pubblici: metro, tram e
filobus) sono già passati nomi illustri
come quelli di Roberto Prosseda e
Alessandra Ammara, Enrico Dindo,
Cesare Fertonani, Maurizio Baglini,
Tatiana Larionova, Francesca Dego
e Chiara Leonardi, i Cameristi della
Scala, Ian Bostridge.
E fin qui abbiamo parlato solo di
musica, però MaMu nelle intenzioni e
nei fatti si propone anche come luogo
di incontri culturali aperti a ogni tipo di
proposta: non solo musica ma anche
letteratura e arte hanno trovato una
nuova dimora. In zona Porta Romana,
vicino alla periferia, ma non lontana dal
centro MaMu è il luogo ideale per ogni
tipo di incontro culturale. g.s.
EDUCATION
di Pietro
Dossena
MasterCLASSConCorsiMasterCLASSConCorsi
Dando il La
NAPOLI
Il Maggio del pianoforte
concorso per pianisti fino
ai 35 anni
scadenza 30 aprile
maggiodellamusica.it
Prima selezione da video
recital in autunno
per i sei pianisti selezionati
vincitore decretato
dal pubblico
NOVARA
Premio Internazionale
Giuseppe Martucci
concorso per pianisti
dai 18 ai 29 anni
scadenza 10 aprile
amicimusicacocito.it
Prima selezione dei finalisti
vincitore decretato
dal pubblico brani
d’obbligo di Martucci
ROMA
Conservatorio S. Cecilia
Corso di armonica
a bocca cromatica
docente Gianluca Littera
da aprile a luglio
gianlucalittera.it
Per esecutori e compositori
interessati a scoprire o
approfondire l’armonica
cromatica.
La network music di LOLA
F
A Milano è nata un'associazione che si propone di educare
i più piccoli all'ascolto di suoni e culture diverse
V
iolini, djembé, chitarre elettriche,
flauti: i bambini che popolano
le nostre scuole sono simili
a strumenti musicali, che dovrebbero
imparare a “suonare” insieme trascendendo
le differenze etniche e sociali. Per
“accordarli” non c’è niente di meglio
che introdurli alla musica fin dalla
scuola dell’infanzia, come si propone
l’associazione milanese “Diamo il La”
mediante un ambizioso progetto a lungo
termine, sostenuto, tra gli altri, da Riccardo
Chailly e Daniele Gatti. La presidente, la
giornalista Giuseppina Manin spiega che il
punto di partenza è l’educazione all’ascolto,
tanto di suoni quanto di culture diverse.
«In un mondo in cui predomina il senso
della vista, ci proponiamo di educare
all’attenzione sonora, all’ascolto reciproco,
alla musica di qualità. A Berlino, Daniel
Barenboim ha fondato un asilo privato
88 Amadeus
che si rivolge a bambini con inclinazioni
musicali. Il nostro intento non è formare
futuri musicisti, ma buoni ascoltatori.
Siamo interessati a coinvolgere tutti i
bambini, vogliamo favorire tra di loro
rapporti paritari e intensi, inserendo la
musica nel percorso didattico quotidiano».
Quale metodo educativo prediligete?
«Dopo un’accurata ricerca abbiamo scelto
quello di Reggio Children, una realtà
pedagogica all’avanguardia conosciuta e
studiata in tutto il mondo.
Ci avvaliamo di formatori specializzati,
una pedagogista e un atelierista, che
lavorano con gli insegnanti prima ancora
che con i bambini».
I primi progetti realizzati?
«Uno sulla vita delle api: un percorso di
esplorazione multisensoriale che non ha
trascurato l’importanza della componente
sonora. L’ascolto del celebre Volo del
calabrone è stato proposto solo al termine
delle attività. Un altro progetto riguardava
invece il riconoscimento uditivo della
città: una passeggiata è stata rivissuta dai
bambini attivando connessioni tra i luoghi
visti e i suoni ascoltati, riproposti
in registrazione».
Quante sono le scuole coinvolte?
«Abbiamo iniziato con due asili pilota
proposti dal Comune di Milano, per poi
allargare a un totale di quattro scuole
dell’infanzia. L’obiettivo è coinvolgerne
sempre di più nel corso dei prossimi anni,
contando sul sostegno delle istituzioni e sui
contributi economici tramite fundraising.
Per ora la presenza degli esperti di Reggio
Children è necessaria, ma sarebbe bello
trasmettere le loro conoscenze a nuovi
formatori specializzati, attivi nella realtà
milanese» Info: diamoilla.it
requentando Youtube capita di
imbattersi in brani suonati in tempo
reale da musicisti lontani nello spazio. Ma
nel contesto colto ancora scarseggiano
esperimenti del genere. Un esempio
notevole è il recente concerto che ha
coinvolto i Conservatori di Milano e
Copenhagen. Ne parliamo con Giovanni
Cospito, coordinatore del Dipartimento
di Musica con nuove tecnologie al
Conservatorio di Milano.
Quale tecnologia avete utilizzato?
«Il sistema LOLA (da “LOw LAtency”),
realizzato dal Conservatorio di Trieste
in collaborazione con il Consortium
GARR. Si tratta di un software dotato di
una piattaforma ottimizzata che limita al
massimo i tempi di latenza dello streaming
audio e video, permettendo così l’interazione
tra musicisti in posizioni remote».
Non si parla di normali programmi per
videoconferenze, vero?
«No, questo sistema richiede una banda
larghissima ed è stato studiato specificamente
per la musica. Molte università e conservatori
l’hanno già adottato».
Quali sono le applicazioni principali?
«In primo luogo quella didattica,
esemplificata con una lezione di musica
da camera in cui pianista e cantante, a
Milano, erano guidati da un’insegnante a
Copenhagen. L’idea stessa di concerto si
può aprire a nuove possibilità: nel nostro
concerto abbiamo ascoltato un Quartetto
d’archi con due esecutori a Milano e due a
Copenhagen. Quando il suono è prodotto in
spazi diversi, diventa fondamentale ricreare
uno spazio virtuale di ascolto che sappia
integrarli efficacemente».
I musicisti si sono adattati facilmente?
«Si ravvisano differenze generazionali: i
più giovani sembrano adattarsi prima. Sono
ora necessari studi specifici sulle raffinate
modalità di interazione audiovisiva tra i
musicisti, per poter sfruttare al meglio le
potenzialità della network music».
Il sistema LOLA
in azione durante
un concerto al
Conservatorio di Milano
IL PUNTO
[email protected]
di Carlo Delfrati
Il maestro
di Sara
Conservatorio di *, classe di direzione
d’orchestra. Gli allievi si alternano a
dirigere il piccolo coro. «Maestro, può
guidarmi lei il braccio?» chiede l’allieva
Sara, «ne avrei proprio necessità».
«Non è cosa che io possa e debba
fare!» risponde il Maestro accigliato.
«Non sarebbe corretto verso i tuoi
compagni, che s’industriano con i
propri mezzi». «Ma io …» Il Maestro
si irrita ancora di più: «Ognuno deve
sbrigarsela da sé!».L’aneddoto è vero. È
anche finito in un romanzo. Per dire che
non sempre i docenti dei nostri istituti
educativi sono all’altezza del compito.
Molti eccellono, molti si barcamenano
come possono, molti sarebbe meglio
che facessero altro. Come avviene in
tutte le professioni. Nella scuola guai
però a prendere provvedimenti: se
non proprio ricorrendo alla ghigliottina
del licenziamento, almeno rivedendo
le funzioni dell’incapace, o magari
premiando i capaci. È quello di cui s’è
tanto parlato nei mesi primaverili, e di
cui si parlava quindici anni fa, quando
una proposta del genere fu avanzata
dal Ministro Berlinguer. Nel nostro
paese chi tocca le poltrone, anche
quelle usurpate, muore. Berlinguer
fu costretto a dimettersi. Al nuovo
auguriamo lunga vita politica.
Ma le barricate alzate dagli interessati
contro l’idea di essere giudicati sono
già alte. Chi potrebbe farlo? E come?
E con quale affidabilità? Si protesta.
Dimenticano che esiste tutta una
disciplina, la docimologia, che spiega
per esempio che anche un bambino di
dieci anni ha qualcosa di credibile da
dire sui meriti del suo maestro.
Anche un bimbo di dieci anni
capirebbe che al Maestro di Sara
sarebbe meglio consigliare un’altra
professione. Ma sappiamo qual
è la verità dolorosa del nostro
sistema scuola: si alzano barricate
per difendere i diritti dei docenti,
ma nessun sindacato esiste per
proteggere i diritti degli studenti.
Dimenticavo: Sara è una ragazza
cieca dalla nascita.
Amadeus 89
NOTE DI VIAGGIO
Cartagena
Ogni cosa è diversa
Atmosfere coloniali e letterarie nell'antica città colombiana,
rinata con la cultura e la musica
di Luigi di Fronzo
L
iberi di rispolverare le pagine
gloriose di García Márquez
dall’Amore al tempo del colera
all’immortale Cent’anni di solitudine per
respirarne l’atmosfera sulle orme del
grande scrittore sudamericano. Ma
Cartagena de Indias, in Colombia –
patrimonio dell’Unesco dal 2012 - con il
suo centro storico immerso in un’atmosfera
magica ha un fascino antico che travalica
qualsiasi suggestione letteraria. Una città
che trasuda storie antiche di schiavitù,
realismi onirici da America Latina, crude
vicende di conquistadores e scoppiettanti
danze caraibiche, capace negli anni a
conservare lo spirito d’epoca. Fondata nel
1533 da Pedro de Heredia per valorizzare
un vecchio insediamento di nativi (quindi
totalmente distrutta da un incendio che
polverizzò in poche ore le vecchie case di
legno), Cartagena è rimasta un crogiolo di
vicoli segnati da casupole colorate in
tegole, pietre e mattoni, ingentilite dai
balconi di legno. Un concentrato di
bellezze nel centro storico Las Murallas,
fortamente voluto dai cittadini dopo che il
pirata sir Francis Drake riuscì a
conquistarla grazie a un lungo assedio,
risparmiandone la distruzione in cambio di
10 milioni di pesos. Destino
bellicosamente replicato tre secoli dopo,
nel 1815, quando la città fu riconquistata
dagli spagnoli per via di un pesante
assedio di quattro mesi in cui morirono più
di sei mila persone, bollata per questo
come “Heroica” dal patriota venezuaelano
Simón Bolívar.
E tuttoggi la sua oasi struggente – in un
paese finalmente pacificato, che si sta
aprendo al mondo – è ricamata fra palazzi
90 Amadeus
Un’atmosfera contagiosa
«È
un Festival cresciuto tantissimo in
questi 10 anni: basti pensare che
nel 2016 vi partecipano 4 orchestre, i 3
gruppi di Jordi Savall più molte formazioni
cameristiche e diversi solisti, per un totale
di circa 350 artisti da Sudamerica, Europa,
Nord America e Africa». A sintetizzare
le linee portanti della manifestazione
colombiana (37 concerti, un’affluenza
di pubblico stimata intorno a 25/30 mila
persone) è l’italiano Antonio Miscenà
direttore generale di Festival International
de Música “Cartagena 2016”: editore,
discografico, già patron di Egea Record e
ideatore di Suono Italia.
Differenze nell’organizzare un festival
sudamericano, rispetto all’Europa?
«Da quando ho assunto l’incarico quattro
anni fa, ho capito quanto è diverso
realizzare un grande evento con capitali
privati. Alle nostre spalle infatti c’è la
Fondazione Salvi, che sta contribuendo
L'affiche del Festival Cartagena 2016, creata
dall'artista colombiana Olga de Amaral; a sinistra
concerti nei luoghi storici della città coloniale
fortemente alla crescita della cultura
musicale del paese e sostiene il Festival
all’80 per cento».
Sono diversi i parametri organizzativi e
gestionali?
«Indubbiamente, dai più elementari. Come
la tecnologia audio e i video di qualità,
ancora costosissimi in tutto il Sudamerica.
Tuttavia l’entusiasmo che si respira
sul Festival è strardinario, ti contagia
profondamente».
Ci sono progetti legati all’educazione?
«La rassegna ospita ogni anno 500 giovani
musicisti che provengono da ogni parte
della Colombia: ci sono masterclasses,
seminari e stages con i differenti artisti.
In questo modo pensiamo ai musicisti di
domani».
È cambiata la Colombia in questi ultimi
anni?
«Sì, in modo molto evidente. Il dinamismo
si percepisce ovunque, anche in città come
Medellín che un tempo erano un crocevia
di organizzazioni criminose». l.d.f.
CARTAGENA 2016
aristocratici, antichi monasteri, piazze
tardo barocche: magari certo dopo una
sosta in un patio ombroso, per soffocare
la calura. Quasi a ogni angolo lo sguardo
si posa su chiese coloniali mirabilmente
conservate: ben visibili dopo l’ingresso in
città attraverso la Puerta del Reloj, nella
cui piazza interna sorgeva l’antico mercato
degli schiavi giunti dalle foreste del
Benin e della Guinea, per essere venduti
ai latifondisti di canna da zucchero.
Posto di bellezze struggenti e sensuali,
ma anche di sangue. Nel locale Palacio
de la Inquisición se ne vedono tracce fra
gli inquietanti strumenti di tortura ben
conservati, per condannare gli eretici nelle
famigerate autodafé. Per fortuna oggi
Cartagena, multiculturale, libertaria è
rinata attraverso la cultura. Non solo con
la musica di un festival in ascesa ma tra
le righe di Márquez, che annotava: «Ogni
cosa è diversa. C’è questa solitudine senza
tristezza, questo oceano incessante, questa
immensa sensazione di essere arrivato».
Il Cartagena Festival Internacional de Música festeggia i suoi primi 10 anni, dall’8 al 16
gennaio. La doppia inaugurazione è con il
Concerto Italiano di Rinaldo Alessandrini (a
sui si affiancano il Coro Filarmónico Juvenil e
l’Orquesta Filarmoónica de Bogotà, su Vivaldi e Zipoli) e poi con l’Hespèrion XXI più la
Capella Reial de Catalunya di Jordi Savall, in
un patchwork arabo-andaluso, ebraico e cristiano. La varietà di forme musicali e generi è
assicurata da innesti significativi: il Cuarteto
Cárdenas, il pianista Mauricio Vallina, il Colectivo Colombia fra marimbe e basso elettrico,
l’arpista classico Emmanuel Ceysson con la residente Orpheus Chamber Orchestra e il violinista/direttore Maxim Vengerov. Quest’ultimo
suona con la Orquesta Sinfónica Juvenil di
Medellín, ex-città simbolo di un potente cartello di trafficanti dove di recente sono state
costruite biblioteche, centri culturali e sale da
concerto, giusto per farla uscire dal baratro.
Info sul sito web.cartagenamusicfestival.com.
l.d.f.
Amadeus 91
NOTE D’ARTE
Nuovi orizzonti
In Francia due mostre, indagano gli affascinanti
e duraturi rapporti tra la musica e l'arte figurativa di Marc Chagall
sempre tesa verso nuove dimensioni espressive
in collaborazione con UTET Grandi Opere - FMR
N
el 1967, il Lincoln Centre for the
Performing Arts di New York
presenta al Metropolitan Opera
House due eventi eccezionali, strettamente
collegati tra loro. Il primo è la messinscena
del Flauto magico mozartiano diretto da
Josef Krips, con l’indimenticabile Regina
della Notte di Lucia Popp e con le scene
e i costumi di Marc Chagall; il secondo
è l’inaugurazione dei due grandi murali,
circa nove metri per undici ciascuno, che il
92 Amadeus
grande pittore russo-francese intitola Les
sources de la musique e Le triomphe de
la musique: quest’ultimo è una sorta di
conflagrazione visionaria in cui figurano
violini e clarini, mandolini e sassofoni,
violoncelli, figure danzanti e angeli
musicanti, cioè la musica alta e bassa, la
classica, la popolare, il jazz. I titoli di queste
opere sono stati ripresi ora nel doppio
omaggio francese, a Parigi e a Roubaix:
due esposizioni dedicate a Chagall e ai suoi
rapporti nonoccasionali con la musica (vedi
box). Per la scena l’artista prende a operare
nel 1920 con i decori per il Teatro ebraico
di Mosca. Essa tornerà concretamente nella
sua vita molti anni dopo. Nel 1942, ecco la
collaborazione con Léonide Massine per
Aleko, su musica del Trio in la minore di
Čajkovskij, che il Ballet Theatre of New
York fa debuttare a Città del Messico:
Zamphira è la leggendaria Alicia Markova.
Il mondo è dunque quello dei Ballets
Russes di Djagilev che hanno segnato le
grandi stagioni parigine sino al 1929: in
qualche modo per Chagall è d’altronde un
destino già scritto da quando in Russia,
giovanissimo, tra i suoi insegnanti di pittura
aveva figurato Léon Bakst. Tre anni dopo a
New York è infatti la volta di L’oiseau de feu
di Stravinskij, e nel 1958-1959 di Daphnis
et Chloé a Parigi. Nella tarda maturità
la musica continua a coinvolgerlo, anche
se in modo diverso. Nel 1963, il ministro
francese della cultura, André Malraux,
gli commissiona le imponenti decorazioni
dell’Opéra Garnier, ma già in precedenza
aveva realizzato interventi permanenti nel
1949 al Winter Gate Theatre a Londra e
nel 1959 alla Schauspiel di Francoforte.
La musica diventa uno dei suoi riferimenti
primari negli anni della vecchiaia, ma essa
lavora in Chagall e nella sua pittura sin
dagli inizi. Le sue radici ebraiche lo portano
a una dimestichezza sentita con il canto,
con il violino, con la danza. È il mondo
popolare chassidico, nutrito di molteplici
umori mitteleuropei, del klezmer che fa
da colonna sonora alle fasi dell’esistenza,
la quale è impensabile senza l’universo di
suoni che l’accompagna intensificandola
Marc Chagall: a sinistra, L'Arc en ciel, 1967; qui, David à la mandoline, 1914
IL TRIONFO DELLA MUSICA
Marc Chagall. Le triomphe de la musique. Les sources de la musique è un’iniziativa articolata in due
mostre contemporanee e organiche che si tengono sino al 31 gennaio alla Philharmonie de Paris e a
La Piscine di Roubaix. Esse si integreranno in seguito, in marzo, al Musée National Marc Chagall di
Nizza.Artista straordinariamente prolifico e longevo (nasce a Vitebsk nel 1887 e muore a Saint-Paulde-Vence, nel sud della Francia, nel 1985), egli ha sempre vissuto la musica come momento fondante
della propria cultura tutta. Del resto, il mondo ebraico chassidico in cui nasce vive la musica come
presenza costante dell’esistenza, con uno spettro d’attenzioni e di pratiche che va dal profondo della
cultura popolare alle vette della musica colta. Di questo mondo non solo Chagall si fa cantore, ma ne
fa il nutrimento iconografico e stilistico del suo repertorio favolistico e visionario, che rappresenta una
delle voci insieme più atipiche e più alte dell’arte del ventesimo secolo.
emotivamente. Nel suo porsi a fianco delle
avanguardie storiche Chagall intende
i nuovi orizzonti di libertà espressiva
possibili proprio come salvaguardia ed
espansione in senso poetico, fantasticante,
del suo fondo culturale originario. D’altro
canto la liberazione del disegno e del colore
da vincoli rigidi di rappresentazione
richiede un altro ordine formativo
possibile: e qui entra in gioco il sentimento
più profondo della musica, il lavorare
sui colori per timbri e toni, per armonie
e dissonanze, in un flusso visivo che è,
primariamente, affettivo, ma su fondamenti
distillati e precisi. La musica si traduce
anche, occasionalmente, in iconografia,
in un repertorio che va dal tradizionale
shofar ebraico al violino dei saltimbanchi,
dal mandolino al violoncello dei viandanti,
figure che affiorano dall’universo di
memoria della sua vita nella cittadina natale
di Vitebsk per proiettarsi nei cieli delle sue
visioni cosmiche. È qui, negli anni parigini
della sua straordinaria maturità, che egli
può dire che dipingendo «io stesso divento
un suono», perché il proprio pensarsi
artista è, in radice, musica. Se le stagioni
francesi che vanno dal 1923, quando egli
vi si stabilisce dopo le delusioni della
rivoluzione sovietica sino a prenderne la
cittadinanza nel 1937, al 1940, il tempo
dell’invasione nazista, non lo vedono
direttamente impegnato in rapporto con
il mondo musicale, dall’esilio negli Stati
Uniti in poi anche questo sarà un modo,
per lui, di tenere vivi i legami culturali
e biografici che lo riportano, attraverso
amici come Stravinskij e Massine, tanto
alla sua terra natale quanto al suo mondo
artistico d’adozione.
di Flaminio
Gualdoni
[email protected]
Amadeus 93
MECENATI
Lasciare un segno
L’
idea di dare vita alla Fondazione
Benetton Studi Ricerche risale
al 1987: dopo anni di lavoro in
campo industriale, da parte dei quattro
fratelli Benetton – con Luciano in testa –
c’era il desiderio di lasciare un segno alla
collettività di Treviso. E fu davvero un gesto
di mecenatismo in senso ampio: venne
data un’indicazione di massima sul campo
di attività, lasciando però totale libertà
a un eterogeneo gruppo di studiosi. Sono
passati quasi trent’anni da allora, ed è stata
un’esperienza unica come quella del suo
fondatore...», spiega l’attuale presidente
della Fondazione, Marco Tamaro. Il
principale ambito di ricerca riguarda,
fin dalle origini, lo studio sul governo
e il disegno del paesaggio, rivolgendo
una particolare attenzione alle tematiche
ambientali di più comune interesse. A fianco
di un’attività di ricerca internazionale, la
Fondazione affianca poi un’intensa attività
editoriale, mentre il contributo di Gaetano
Cozzi (un grande storico del diritto veneto
scomparso nel 2001) ha allargato il campo
di ricerca alla storia e alla civiltà del gioco:
trovando riscontro nella rivista Ludica,
riconosciuta a livello internazionale.
E tra queste diverse attività, anche il
mondo dei suoni possiede il suo spazio:
in gennaio, in collaborazione con
almamusica433, inizia la terza edizione
di Musica Antica in Casa Cozzi, con la
direzione artistica di Stefano Trevisi.
Un ciclo di concerti, corsi di alto
perfezionamento e laboratori di musica
medievale dedicati al grande Siglo de Oro,
organizzati proprio mentre Treviso ospiterà
la mostra El Greco in Italia. Metamorfosi
di un genio: quattro diversi appuntamenti
– si inizia il 22 di questo mese con Paola
Erdas e l’ensemble vocale Kalicantus –
in programma fino ad aprile, con grandi
gruppi e solisti del repertorio antico. Il 20
febbraio suonerà il liutista Xavier Daz-
94 Amadeus
I progetti per la collettività della Fondazione
Benetton Studi Ricerche di Treviso.
Ricerca, editoria e musica antica
Latorre, il 19 marzo l’Anonima Frottolisti
e il 9 aprile l’ensemble Odhecaton, mentre
durante il mese di giugno avrà luogo il
festival Giugno Antico.
«La volontà di aprirsi alla musica
rispecchia il desiderio dello stesso
Cozzi, che fu nel nucleo originario della
Fondazione», continua Tamaro. «Quando
morì, decise di lasciarci la sua casa di
campagna nel paese di Zero Branco, perché
il luogo potesse ospitare iniziative legate
all’universo dei suoni. E una pianista di
talento era anche la moglie di Cozzi, Luisa
Zille... Nel 2003 abbiamo ristrutturato
tutto il complesso, su uno spazio di otto
ettari, e la musica ha finalmente avuto il
suo spazio.» A fianco dei concerti ospitati
nell’auditorium della Fondazione – oltre
che nella chiesa di San Francesco di Treviso
– Casa Cozzi sarà il luogo dedicato a
laboratori di clavicembalo, liuto, direzione
di coro e canto barocco-rinascimentale:
la masterclass di quest’anno vedrà
la partecipazione di Claudia Caffagni,
che coinvolgerà gli allievi nello studio della
Messa Se la façe ay pale di Guillaume
Dufay, in vista di un’incisione discografica
e di una serie di concerti. «Tutte queste
iniziative sono frutto di un progetto i cui
costi sono stati condivisi da più attori, fin
dalla prima edizione», conclude Tamaro.
«Ma in questi anni siamo stati capaci di
attirare molta curiosità, dimostrando
di aver colpito nel segno. Per il futuro?
Puntiamo a fare sempre di più, attraverso
progetti il più possibile condivisi».
di Edoardo Tomaselli
[email protected]
Concerto di Capodanno
Mariss Jansons, direttore
Wiener Philharmoniker
2 CD Sony Classical 88875174772
Disponibile dall’8 Gennaio 2016
1 DVD Sony Classical 888751747890
1 Blu-ray Sony Classical 888751747999
3 LP Sony Classical 888751747517
DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE
Cattedrali
Antonella Ruggiero
My Christmas
Plácido Domingo
L’album di musica sacra,
dal barocco ai giorni nostri
Il nuovo album di Natale con le canzoni più
amate dal grande tenore, incise con ospiti
speciali e grandi orchestre. Con la
partecipazione di The Piano Guys, Jackie
Evancho, Helene Fischer, Vincent Niclo e altri
1 CD Sony Classical 88875169512
DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE
1 CD Sony Classical 88875117432
DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE
Vivaldi e L’Angelo di Avorio vol. 3
Ensemble Silete Venti!
Simone Toni, oboe e direttore
Vivaldi: The New Four Seasons
Nigel Kennedy, violino e direttore
The Orchestra of Life
The Young Vivaldi
Federico Maria Sardelli, direttore
Ensemble Modo Antiquo
L’ultimo volume dell’integrale dei concerti
per oboe di Vivaldi
1 CD Sony Classical 88875076722
DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE
Tre prime registrazioni mondiali
1 CD Deutsche Harmonia Mundi 88875081942
DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE
1 CD Sony Classical 88875127852
DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE
A TAVOLA
con Falstaff
Grande baritono e
gran cuoco, ha cantato
il Falstaff di Verdi più
di 250 volte nel mondo.
Si esibisce volentieri
anche ai fornelli sul suo
sito: ambrogiomaestri.com
Le ricette di Ambrogio Maestri
Pumpkin pie
Ingredienti
 750 gr. di zucca, sbucciata, senza semi e tagliata a tocchetti  farina bianca, da spolverare
 140 gr. di zucchero semolato  ½ cucchiaino di sale  ½ cucchiaino di noce moscata grattugiata
fresca  1 cucchiaino di cannella  2 uova sbattute  25 gr. di burro sciolto  175 ml di latte
 1 cucchiaio di zucchero a velo
ingredienti per la pasta frolla:  225 gr. di farina bianca  100 gr. di burro a cubetti
New York
New York!
A
gennaio New York è gelida.
Il vento tagliente dal mare,
che corre sul fiume Hudson, si
incanala attraverso le Avenues e le Streets
di Manhattan, rendendo la vita all’aperto
molto faticosa. Ma se si è fortunati si
possono vivere alcune giornate così nitide,
con una luce invernale talmente tersa e
abbagliante, da rimanere a bocca aperta per
la bellezza della città, quasi da dimenticare
i denti che battono! Il calore, invece,
lo si può trovare nella musica al Lincoln
Center, sede del celebre Metropolitan
Opera House, uno dei teatri d’opera più
grandi del mondo, che nel 1910 ha visto
anche la prima esecuzione assoluta de
La fanciulla del West di Giacomo Puccini
diretta da Arturo Toscanini. Sono stato
ospite di questo teatro molte volte, e dal 21
gennaio salirò di nuovo su quel palco per
cantare il ruolo di Alfio nella Cavalleria
rusticana di Pietro Mascagni, con la regia
di David McVicar e la direzione di Fabio
Luisi, Principal Conductor del Met. Avendo
ormai sperimento quasi tutti i periodi
dell’anno nella “Grande mela”, ho potuto
assaporare parte delle abitudini e delle
usanze culinarie degli americani.
Vi propongo, quindi, in loro omaggio, una
festosa ricetta nord-americana: la Pumpkin
pie o “Torta di zucca”, che ha una grande
tradizione e che viene consumata durante
il famoso Thanksgiving Day, il “Giorno
del Ringraziamento”.
96 Amadeus
Da bere: American Coffee
Preparazione della pasta frolla
Setaccia la farina in una grande scodella, aggiungi il burro e impasta con la punta delle dita finché
l’impasto non assomigli a pane sbriciolato. Aggiungi il sale, quindi 2 o 3 cucchiai di acqua e mescola
fino a ottenere un amalgama compatto. Impasta brevemente su una superficie spolverata di farina.
Avvolgi nella pellicola trasparente e fai raffreddare mentre prepari il ripieno.
Preparazione della torta
Riponi la zucca in una grossa pentola, ricoprila di acqua e porta a ebollizione. Copri con un coperchio
e cuoci a fuoco lento per 15 minuti o finché diventa tenera. Scola la zucca e lascia raffreddare.
Riscalda il forno ventilato a 180°. Stendi la pasta su una superficie leggermente cosparsa di farina
e usala per coprire una tortiera dal fondo rimovibile di 22 cm. Fai riposare per 15 minuti. Ricopri la
pasta con carta da forno e fagioli secchi (perché non si gonfi troppo) e inforna per 15 minuti. Rimuovi
la carta e i fagioli e cuoci per altri 10 minuti finché la base non appare leggermente dorata e solida.
Rimuovi dal forno e lascia raffreddare un po’. Aumenta la temperatura a 220°.
Passa la zucca al setaccio e versala in una grande ciotola. In un’altra ciotola mescola zucchero, sale,
noce moscata e metà della cannella. Aggiungi le uova sbattute, il burro sciolto e il latte, quindi versa
sul purè di zucca e mescola il tutto. Versa il tutto sulla pasta frolla e cuoci per 10 minuti, quindi riduci
la temperatura a 180°. Continua a cuocere per 35 - 40 minuti finché il ripieno non è compatto.
LIBRI
DIREZIONE FUTURO.
UN DUPLICE
ANNIVERSARIO:
GIUSEPPE VERDI
E RICHARD WAGNER
FILOSOFIA ED ESTETICA
DELLA MUSICA
Alberto Cima
Casa Musicale Eco, 2014, pagg. 413,
€ 29,00
a cura di Ilaria Bonomi, Franca
Cella, Luciano Martini
L
Istituto Lombardo di Scienze e Lettere,
2014, pagg. 192, s.i.p.
L’
w w w. d o c s e r v i z i . i t
Istituto Lombardo di Scienze
e Lettere ha pubblicato gli atti
del Convegno da lui organizzato a
Milano nel gennaio 2013: in apertura
del bicentenario della nascita di Verdi
e di Wagner. Sei le relazioni che in
verità hanno riguardato più il primo
del secondo. Il compositore tedesco,
infatti, è presente solo in riferimento
alla prima milanese di Lohengrin
(1873) e come protagonista di quel
“movimento germanico italiano” che
tanto spaventava Verdi e i suoi molti
sostenitori. Firmati rispettivamente da
Emilio Sala e Antonio Rostagno sono
i saggi più significativi; in particolare
il secondo, che inserisce correttamente
il “wagnerismo” del tempo lungo
quella che qualcuno ha chiamato la
“via prussiana” dell’opinione pubblica
e culturale contemporanea. Lo scritto
di Sala ricostruisce con dovizia
analitica e precisione il contesto
generale nel quale andava in scena alla
Scala Lohengrin con esito opposto a
quello trionfale della prima italiana
a Bologna (1871); l’unico appunto è
un abuso nel primo paragrafo di un
lessico intellettualistico (“ontologica”,
“omologica”, “deontologizzare”,
“strutturalismo immanente”
eccetera.). Gli altri quattro saggi sono
a firma di Stefano Baia Curioni e
Laura Forti, Fabrizio Della Seta,
Ilaria Bonomi, Franca Cella).
Ettore Napoli
«L’AMERÒ, SARÒ INCOSTANTE».
MOZART E LA VOCE
DEL VIOLINO
Cesare Fertonani
Archinto, 2015, pagg. 250, € 16,00
I
musicologi e i critici adusi al violino sono pochi. Ricordiamo con
struggimento lo scomparso Leonardo Pinzauti (s’era diplomato col
Concerto gregoriano di Respighi; si dilettava di liuteria). Citiamo
con ammirazione Cesare Fertonani, il cui ultimo libro, dopo studi
illuminanti su Vivaldi “a programma” e no, fa cantare già in copertina
Mozart e la voce del violino. Il saggio colma un vuoto italiano, del che
non ci sarebbe da stupire, ma pure un vuoto punto e basta, tanto da
auspicare una traduzione almeno in inglese. Scientifico e affabile, iper
documentato e capace di tesi affascinanti, Fertonani svolge tre ampi
capitoli comunicanti: rapporto di Mozart col violino e il padre Leopold,
violinista e autore d’un Trattato fondamentale (i lavori composti fra
il 1775 e il 1779); Concerti, Serenate, Sinfonie concertanti, Arie e
Divertimenti; indagine analitica di cui al secondo capitolo. Il libro
indaga i rapporti con Leopold prima che il taglio del cordone ombelicale
e il trasferimento di Wolfgang in una Vienna “pianistica” pensionino il
violino. Aspetti sociologici e psicologici s’intrecciano a modi teatrali
(opera seria e buffa), narrativi e popolari di Concerti, ognuno con la sua
individualità e dai tratti decisamente rivelatori.
Alberto Cantù
a filosofia è la disciplina
che si pone domande e cerca
di dare risposte sul senso del
mondo e dell’esistenza umana e,
in particolare, tenta di studiare e
definire quali siano i limiti della
conoscenza. La filosofia della
musica è una sezione dell’estetica
generale e si occupa dello studio
filosofico dell’arte musicale.
L’estetica è un settore che si
dedica alla cognizione del bello
naturale artistico. Nella cultura
contemporanea queste elencate
e altre ancora sono discipline
spesso considerate autonome e
indipendenti. Questo volume di
Alberto Cima parte dal presupposto
che la filosofia e l’estetica della
musica possano costituire un
unicum che deve essere affrontato
unitariamente al fine di avere una
visione più ampia completa e
approfondita dell’argomento.
La lettura segue lo sviluppo
storico, filosofico ed estetico nei
secoli, mettendo in luce due aspetti
apparentemente contraddittori:
“la musica come mondo” e “la
musica come interiorità”, eppure
così affini fra loro. Il saggio indaga
la “materia” dell’universo musicale,
il suo “tempo” e il suo “spazio”,
dall’antica Grecia a oggi, con il
dichiarato obiettivo di far capire
quanto la musica sia importante per
comprendere una civiltà, una cultura
e la trasformazione storica.
Massimo Rolando Zegna
Amadeus 99
[email protected]
tel. 045/8230796
Giorgio Gatti si racconta
a cura di Emanuele Dolci
Zecchini, 2015, pagg. 112, € 17,00
Lo scaffale
L
TRUE STORIES
a carriera del baritono Giorgio
Gatti attraverso gli incontri
più importanti della sua vita: dalla
famiglia che lo ha sempre sostenuto
ai colleghi che ha conosciuto nei vari
teatri d’Italia e d’Europa, attraverso
ricordi, aneddoti ed emozioni.
CARTEGGIO VERDI-BOITO
MY LIFE
Istituto nazionale di Studi verdiani, 2014,
pagg. LXXXV-547, € 48,90
Castelvecchi, 2014, pagg. 320, € 22,00
a cura di Marcello Conati
I
l Carteggio Verdi-Boito, che
vide la luce della stampa nel
1978 avviando l’edizione nazionale
dell’epistolario verdiano, questa
luce l’ha rivista nel 2014: allora era
cura di Mario Medici e Marcello
Conati, oggi è «nuova cura» di
Conati (Medici, nato nel 1913,
fondatore e a lungo direttore
dell’istituto, è scomparso nel
1990) per l’esemplare redazione
di Giuseppe Martini. È attraverso
409 numeri che si snoda il rapporto
epistolare dei due maestri, divisi
da qualcosa come 29 anni,
da origini sociali e culturali
diversissime, da un tasso di
musicalità effettivamente
imparagonabile. Da tutto ciò,
nondimeno, sorsero quei capolavori
di drammaturgia musicale che
sono Otello e Falstaff. Quanto
mai istruttivo il carteggio fra
l’anziano Verdi e il maturo Boito,
pazientemente annotato e fornito
di lunghe appendici. Ma il maturo
Giuseppe e il giovane Arrigo, dove
stanno? Nel Preambolo di 59 pagine
tratto da un Arrigo Boito a più mani
pubblicato nel 1994, dove Conati
stesso rivà ai precedenti biografici
e quindi anche “estetici” (parola
invisa a Verdi, ma pazienza) del
rapporto fra i due, dal famigerato
“lupanare”, alla pace e all’opera
fatta mirabilmente. In lista d’attesa
i carteggi con Maria Waldmann e
Angelo Mariani.
Piero Mioli
100 Amadeus
Isadora Duncan
C
hi è stata veramente Isadora
Duncan? Vitalistica figlia del
“sogno americano” e affamata di
futuro, femminista ante litteram
nutrita di agnosticismo con Bob
Ingersoll, avventurosa viaggiatrice,
spontanea paladina della libertà
al canto poetico di Walt Whitman,
dannunziana «dominante Iddia
della Natura», incarnazione
femminile della nietzschiana
ammaliazione dionisiaca. Questo
e altro viene fuori dalle pagine
dell’autobiografia di Isadora
Duncan, riproposta da Castelvecchi
in una nuova edizione italiana.
Ma, come che sia, di una cosa si
è certi: agli inizi del Novecento,
quando il pubblico dei teatri non
aveva conosciuto se non il balletto
tardoromantico, la danza libera
di Isadora Duncan ebbe audacia
rivoluzionaria. Sfornito di strumenti
linguisticamente elaborati o tanto
meno rielaborati, sprovvisto di una
cultura regolare, in quel momento
storico il suo movimento naturale
risultò espressivo quanto mai, e con
quei modi nuovi, in breve, divenne
rappresentativo di un modernismo
d’avant-garde senza manifesti,
intenzionalmente non elitario,
e animato, negli atti estetici, da
ragioni etiche. Sia pur conteso
tra detrattori ed estimatori, il suo
successo incise nel progresso della
danza d’arte. My life di Isadora
Duncan è un libro per tutti.
Ida Zicari
B
CHITARRA ROMANTICA.
LUIGI (RINALDO) LEGNANI
E IL VIRTUOSISMO
STRUMENTALE
NELL’OTTOCENTO
CARLO GESUALDO.
L’UOMO, IL SUO TEMPO,
LA MUSICA
Longo, 2015, pagg. 205, € 20,00
N
Orsola Tarantino Fraternali
Terebinto Edizioni, 2015, pagg. 207,
€ 15,00
Sergio Monaldini
U
na lunga biografia, lunga
essendo stata la vita del
chitarrista nato a Ravenna nel 1790
e ivi scomparso nel 1877. Ma è una
biografia, questa, che i documenti
li legge e li adopera, senza alcuna
illazione e con parecchio acume.
Legnani fu battezzato Rinaldo come
il padrino ma fu sempre chiamato
Luigi come il fratellino maggiore:
così pare proprio, ma la sicurezza
assoluta del nome non c’è. E la
chitarra romantica? Detto il Paganini
della chitarra, fu colui, Legnani,
che con il barese Giuliani promosse
lo strumento a corde pizzicate dal
vecchio tipo “battente” al nuovo
tipo “francese”, cioè dal Settecento
classico all’Ottocento romantico (e
un cenno forse lo meritava la barocca
“chitariglia spagnola” di Pellegrini,
Corbetta e Granata). Più che
musicista: era esecutore, compositore
e anche tenore (inizialmente secondo,
poi applaudito in scena come primo).
Suonava anche un pezzo con un
solo dito della sinistra, tanto era
virtuoso il “citarista” festeggiato
in tutt’Europa, ma nel 1847 dovette
interrompere un concerto. Cos’era
successo? Certo non stava bene
di salute, forse non aveva saputo
aggiornare il repertorio e cominciava
a sentirsi un sopravvissuto (come
Rossini, no?). Sicché smise, tornò
a Ravenna, suonò il violino in
orchestra e visse da buon borghese
in casa del nobile genero.
Piero Mioli
Uscire dal ghetto?
Eros Roselli
Armando Editore, 2015, pagg. 183,
€ 14,00
L
a riforma dei Conservatori di
musica, avviata con la legge
508/1999, induce l’autore a riflettere
sulla vocazione tecnico-professionale
degli istituti e sull’irriducibile
peculiarità del loro impianto
normativo.
el 2009, assieme a Kathy Toma,
Orsola Tarantino Fraternali
pubblicò un prezioso volume
dedicato a uno dei compositori più
importanti del ’5/’600 – Gesualdo
da Venosa. Fasti dimenticati di
un principe del Rinascimento –
cercando di compiere quello che fino
a quel momento poco si era tentato
di fare, ovvero, per quanto possibile,
di mettere in contatto Gesualdo
con lo sfarzo del mondo in cui
visse, restituendo, anche attraverso
un ricco apparato iconografico,
lo splendore di quell’habitat e dei
protagonisti che lo percorsero a
fianco dell’artista. Una sorta di
catalogo di una mostra immaginaria,
di una mostra che non c’era, ma
che fu capace di offrire ai lettori
una visione altra e più ricca del
musicista. A distanza di sei anni
l’autrice è tornata a scrivere su quello
che a questo punto sembrerebbe il
suo compositore prediletto: un uomo
angosciato ed estremo, ma grandioso
e temerario allo stesso tempo,
la cui musica risuona sublime,
ma altrettanto contorta, tormentata,
sofferta. Grazie anche a uno scritto
di Dinko Fabris, il nuovo volume
contribuisce a far nuova luce sul
grande madrigalista, offrendo
gli spunti per approfondire momenti
e aspetti della sua vita che attendono
ancora di essere esplorati e compresi
fino in fondo.
Massimo Rolando Zegna
ased on a true story” recitano spesso i titoli di testa dei film americani.
Una storia vera, come quella trasformata in romanzo dallo scrittore
francese Adrien Bosc in Prendere il volo, opera prima premiata in patria
con il Gran Prix du Roman dell’Académie de France e finalista al Goncourt. E la
storia è questa: nella notte tra il 27 e il 28 ottobre un aereo “Constellation”, fiore
all’occhiello della flotta Air France, dopo essere decollato dall’aeroporto di Orly
destinazione New York scompare durante la prevista tappa di rifornimento nelle
isole Azzorre. Nessuno degli 11 membri dell’equipaggio e dei 37 passeggeri
sopravvive allo schianto sul Monte Redondo, inaspettatamente avvolto dalla
nebbia. Bosc ne racconta le vite, ne schizza in pochi precisi e poetici segni
i ritratti, le storie. Tra loro alcuni personaggi famosi, su tutti Marcel Cerdan, il
grande pugile in viaggio per strappare il titolo mondiale a Jack La Motta. Cerdan,
sposato con figli, è l’amante e l’amore folle di un altro mito dei francesi, Edith
Piaf che lo sta aspettando negli Usa. Invano. Oltre a lui viaggia sul Constellation
un’altra celebrità dell’epoca, la violinista Ginette Neveu accompagnata dal
fratello, Jean, pianista. Virtuosa straordinaria, ex enfant prodige divenuta
musicista vera, bambina aveva risposto a George Enesco che le dava consigli
sulla Ciaccona di Bach: «Faccio quello che comprendo, non quello che mi
sfugge», a 16 anni aveva vinto il Wieniawski, superando David Ojstrach (!) che
si piazzava secondo. Ginette ha 30 anni quando il Constellation precipita nelle
Azzorre. Pochi giorni prima aveva suonato alla Salle Pleyel: Händel, Bach,
Szymanowski, il Pezzo in forma di Habanera e Tzigane di Ravel in un «lungo
vestito rosa chiuso in vita da una cintura che esalta le spalle da gladiatore».
E proprio un vestito consentirà l’impresa straziante di riconoscere il suo
corpo. Ginette Neveu possedeva due violini preziosissimi, uno Stradivari e un
Guadagnini che teneva accanto a sè sull’aereo. Ma le squadre di soccorso e gli
investigatori ritroveranno solo un archetto, degli strumenti nessuna traccia, solo
il riccio del Guadagnini riappare fortunosamente molti anni dopo... Questi fatti
Prendere il volo li narra, li descrive non cancellando mai il mistero. Caso, volontà:
la scrittura di Bosc ci ha ricordato a tratti quel piccolo capolavoro che è il Ravel
di Jean Echenoz. “Fatti realmente accaduti”, si dice. Potrebbe sembrare noioso,
scontato, certo, ma è come si sa raccontarli a fare uno scrittore.
IL GIGANTE E LA BAMBINA
L
a foto di copertina del libro – Le
serenate del Ciclone – li ritrae
mano nella mano, lui gigante in
costume di scena che legge un libro, lei
piccola che sorride all’obbiettivo tra il
divertito e l’orogoglioso. Lui, il Ciclone
del titolo, è Mario Petri (1922 - 1985) lei
la figlia, Romana, che da grande diventerà scrittrice, traduttrice, editrice. Lui è
un basso-baritono di gran valore, che
Ghiringhelli e Mitropoulos fanno debuttare alla Scala nel 1948 e Karajan pochi
anni dopo vuole per il suo Don Giovanni (Thomas Mann gli dedicherà una
copia del Doktor Faustus scrivendo: «A
Mario Petri, il miglior Don Giovanni»).
Canterà con Maria Callas (Medea a Firenze), Giuseppe Di Stefano, Carlo Bergonzi, Giulietta Simionato (con cui avrà
anche una relazione, scandalosa per
l’epoca), Elisabeth Schwarzkopf, Ma-
rylin Horne, Boris Christoff... Una carriera fatta di alti e bassi che Petri vive
con foga e coraggio, dedicandosi nei
primi anni ’60 anche ai film di avventura
che fanno la fortuna di Cinecittà e ai fotoromanzi. Poi il ritorno al teatro d’opera fino all’ultimo amaro successo di un
Macbeth diretto al Maggio fiorentino
da Riccardo Muti, nel 1975, che segna
il suo addio alle scene... Scritte in una
lingua che profuma delle radici familiari
umbre e di un’Italia che non c’è più, le
quasi 600 pagine di questo romanzo
doloroso e sincero, narrano la storia
di un padre e di uomo “epico”, colosso fortissimo e sensibilissimo insieme,
eroe romantico e temerario, pronto a
vendicare ingiustizie e soprusi, egoista
eppure generoso, tenero e collerico.
Quanta fatica sia costato alla figlia scriverle possiamo solo immaginarlo.
PRENDERE IL VOLO
Adrien Bosc
Guanda, 2015,
pagg. 171, € 14,50
LE SERENATE
DEL CICLONE
Romana Petri
Neri Pozza, 2015,
pagg. 592, € 18,00
di Paola Molfino
[email protected]
Amadeus 101
HITECH
Totem sonori
mondosmart
Nell'era della tecnologia digitale e della riproduzione
del suono wi-fi, i diffusori ad elevata qualità audio tornano
a ricoprire un ruolo da protagonisti
B&W DIAMOND 804 D3
Diffusore a 3 vie con due woofer
da 16,5 cm, mid-range da 13 cm (con
struttura priva di sospensione) e tweeter
in diamante da 25 mm, membrane
Continuum, cabinet con struttura in
compensato di alto spessore rinforzata
con una struttura in alluminio e acciaio.
€ 4.500 cad.
(bowers-wilkins.it / audiogamma.it)
ACTION-PHONE
SUBACQUEO
MARTIN LOGAN NEOLITH
Diffusori elettrostatici con pannello
curvilineo affiancato a una gamma
bassa attiva, trasduttori da 55x120 cm,
speaker frontali midrange da 12”
e woofer frontale da 15”, subwoofer
reflex posteriore da 15”, diverse finiture
in sette differenti colorazioni.
da € 94.000 la coppia
(martinlogan.com / audionatali.com)
C
on un diffusore innovativo
e sofisticato, statuario nelle
dimensioni ed elegante nelle linee
di design, Bang & Olufsen celebra i suoi
primi 90 anni di storia; con una soluzione
all’avanguardia che intende rispondere
con caratteristiche audio Hi End alle
continue sfide lanciate dalla tecnologia
digitale. BeoLab 90 è un modello unico
e irripetibile, a partire dal concept a
360 gradi, reso possibile da una solida
struttura compatta in alluminio rivestita
da una cover in tessuto nero, con un
altezza di 125 cm e una profondità di 74
cm, per un peso complessivo di 137 kg.
102 Amadeus
Un “monumento sonoro” che garantisce
prestazioni acustiche di alto livello
assicurate da una “bocca di fuoco” di ben 18
altoparlanti (7 tweeter da 3 cm, 7 midrange
da 8,6 cm, 3 woofer da 21,6 cm e un
subwoofer da 26 cm), 14 moduli di potenza
e quattro amplificatori aggiuntivi Classe D,
per una potenza totale di uscita di 8.200 watt.
L’esclusivo Beam Widht Control garantisce
inoltre il pieno controllo sull’ampiezza
del raggio audio andando a ricreare diverse
situazioni d’ascolto, grazie al sistema
di driver orientabili in varie direzioni per
canalizzare la diffusione sonora
(€ 35.000 cad., bang-olufsen.com).
Con Hitcase PRO è possibile trasformare
iPhone 5/5s o 6/6s in action cam vere e
proprie, per riprese outdoor o sott’acqua;
si tratta infatti di una custodia 100% impermeabile (fino a 10 metri per 30 min) e resistente agli urti (cadute da 2 m), che non
limita in alcun modo l’accesso allo schermo
touch screen e a tutti i pulsanti del device
originale. Compatibile con tutti gli accessori di fissaggio GoPro, è inoltre in grado
di ampliare il campo di visione della telecamera con un obiettivo grandangolo con
zoom da 3x ed effettuare video panoramici grazie alla lente wide incorporata
($ 100, hitcase.com).
UNA MEMORIA MULTIUSO
FOCAL SOPRA N. 2
Diffusore da pavimento con struttura
realizzata in iniezioni di poliuretano
per l’inclinamento delle casse, effetto
di convergenza acustica “Focus Time”,
tweeter in berillio, circuito
magnetico NIC, disponibile con finiture
in bianco, nero, rosso, arancione e noce.
€ 12.000 la coppia
(focal.com / tecnofuturo.it)
In linea con l’originale accessorio iBridge,
memoria flash portatile per apparecchi
Apple, Leef ha presentato il nuovo hub
iAccess, un dispositivo caratterizzato da
una forma ergonomica a “J” che permette
di trasferire foto, filmati o brani audio da
schede microSD a iPhone o iPad per un
editing veloce, ma anche di visualizzare
immagini o aggiungere maggiore memoria al proprio device iOS dotato di connettore Lighting, oltre a facilitare la condivisione veloce di documenti, fotografie e
video senza dover utilizzare un collegamento dati mobile o Wi-Fi ma unicamente
l’app Leef (€ 50, it.leefco.com).
Amadeus 103
www.amadeusonline.net
PROVATOPERVOI
Evoluzione continua
DIGITALE SÌ, MA DI QUALITÀ
Di musica, forse, non se n’è mai ascoltata così tanta come in questi ultimi anni, da quando cioè la tecnologia digitale ha permesso
di disporre di centinaia di file mp3 anche sul più economico degli
smartphone; il vero problema è semmai quello della qualità di
formati e supporti che lasciano spesso a desiderare.
La risposta offerta da Shanling è destinata a chi non vuole scendere a compromessi e opta per l’audio ad alta risoluzione (pari o
superiore a quella dello stesso cd): si chiama M3 ed è un lettore
digitale portatile compatibile con i più diffusi formati HQ – da
FLAC, ALAC (Apple Lossless Audio Codec) a WAV 24Bit / 192kHz,
WMA, AIFF e DSD64 (SACD) – da archiviare su memoria interna
da 8Gb estendibile tramite MicroSD Card fino a 64 Gb (“minimo
sindacale”, visto il “peso” dei file). L’apparecchio è dotato di scocca in alluminio (disponibile nelle finiture Nero o Silver), display
a colori da 2,4”, manopola di controllo volume e joystick di navigazione (forse un po’ troppo “meccanica” per un dispositivo
così ricercato), risposta in frequenza 20Hz-20KHz (-0.5dB) e di
batteria al litio (3600mAH) ad elevata autonomia.
L’esperienza d’ascolto è davvero entusiasmante, ma non finisce
qui; l’utilizzo del lettore M3 in modalità DAC collegato a un computer via Usb, consente al dispositivo di sostituirsi alla scheda
audio normalmente presente sul Pc e operare come unità di riproduzione durante gli ascolti di file presenti sull’hard disk o lo
streaming dalla rete (€ 529; shanling.com / audioclub.it).
Amadeusonline è il versante digitale, continuamente aggiornato
della rivista Amadeus, ogni mese in edicola con cd inedito allegato e
un secondo cd in download. Uno strumento agile, via via più ricco
e completo, con cui esplorare tutte le sfumature della classica
Per DJ del Terzo millennio
Un’autentica esperienza di “mixing & scratching” a portata di
tutti gli aspiranti dee-jay è garantita dalla console DDJ-WeGo3 di
Pioneer, che si contraddistingue per un layout semplice e intuitivo,
in grado di guidare l’utente mediante le luci Pulse Control.
Compatibile con diversi software, consente di mixare milioni di
tracce da Spotify e iTunes e, tramite le jog-wheel, di combinare più
effetti contemporaneamente, senza necessitare di ulteriori monitor
di riferimento; pratica e leggera (1,8 Kg), è equipaggiata con una
scheda video ed è munita di porte integrate con ingressi/uscite per
collegamenti ad apparecchi audio ad alta qualità, mentre lo slot
multiuso per iPad e iPhone rende più facile e intuitivo l’accesso ai
display touch per la selezione dei brani (€ 299, pioneerdj.com).
di Andrea
Milanesi
[email protected]
104 Amadeus
un luogo dove ritrovarsi
e incontrare la musica
NEWS
in studio
Nozze anticonformiste
Mentre sta per completare la trilogia Mozart-Da Ponte, Teodor Currentzis
si presenta con un nuovo cd dedicato a Stravinskij e Čajkovskij
di Giuseppe Scuri
«Patricia per me è come se fosse un
familiare. Ho passato metà della mia vita
artistica con lei condividendo esperienze
musicali importantissime. L’energia
metafisica della sua interpretazione
è, io credo, unica. Il rapporto che si è
instaurato nel corso degli anni è qualcosa
di veramente raro, sia artisticamente che
umanamente».
Lei è spesso definito un artista
non-convenzionale e anti-conformista.
Secondo lei la classica soffre di un
certo conformismo?
«Io penso che la musica classica stia
morendo per il suo conformismo. Come
si suol dire, la vita si spegne nei musei.
La musica non è un mausoleo. È uno
spazio dove sviluppare se stessi attraverso
la comunicazione. Tutti i tipi di cliché
e di conformismo sono dannosi perché
sono inautentici tentativi di descrivere,
non di suonare e vivere la musica sino in
fondo. Io ho bisogno di sincerità».
Ci sono direttori o musicisti in generale
che hanno avuto una parte significativa
nella sua formazione e che sente
prossimi alla sua sensibilità artistica?
«Ci sono diversi artisti che sento
particolarmente affini. In prima istanza il
mio riferimento assoluto è Gustav Mahler
come interprete, proprio perché leggendo
le sue partiture si scopre come egli abbia
creato un nuovo e più ricco spazio per
l’interpretazione, nel quale è possibile
trasferire molte più informazioni, al di
là del mero suono. Glenn Gould, Alfred
Cortot, Walter Gieseking sono altri
nomi di artisti che sento molto vicini
alla mia sensibilità; tutti musicisti che ci
hanno consentito di aprire le porte della
percezione, facendoci accedere a una
nuova dimensione».
Ci sono generi musicali e artisti al
di fuori dell’ambito colto che le piace
ascoltare e che sono stati importanti
nella sua vita?
«Non mi è mai piaciuto considerare la
musica dividendola e classificandola per
generi. Classica, rock e quant’altro: per me
la musica è una. Ci sono cose buone e cose
brutte in ogni settore. La musica è capacità
di portare la luce alla gente. E la gente,
tramite l’energia che la musica dona,
può iniziare un nuovo percorso verso
l’autoconsapevolezza. Ci sono diversi nomi
che sono stati e sono significativi nella mia
vita musicale che appartengono al rock o
al jazz; sono di una statura enorme, spesso
superiore ad artisti celebrati della musica
classica. Essi sono stati capaci di attingere
appieno all’energia profonda della musica
e per questo in loro c’è moltissimo da
conoscere e imparare: cantanti come Otis
Redding o Jim Morrison, oppure musicisti
come Oscar Peterson o Miles Davis.
Si tratta di esperienze trascendentali».
MAKINGOF
SCARLATTI SACRO E SCONOSCIUTO
T
eodor Currentzis è un artista
che non può lasciare indifferenti;
la sua originale personalità
umana e creativa ha suscitato grande
interesse sin dagli esordi. Fisico da
altista e look da dark rocker, anche
nell’immagine Currentzis si è sempre
mostrato alternativo rispetto al
mainstream “classico”. Greco di nascita
e russo d’elezione, è direttore dell’Opera
e del Balletto di Perm, l’ultima città
della Russia europea, 1.400 km est da
Mosca. Dal 2004 al 2010 è stato direttore
principale a Novosibirsk, dove ha avuto la
possibilità di selezionare e formare il suo
organico orchestrale ideale, MusicAeterna,
che ha portato con sé (incrementandone
gli elementi) nella nuova destinazione.
106 Amadeus
Currentzis, che in questi giorni sta
completando la trilogia delle opere
italiane di Mozart con la realizzazione
del Don Giovanni, dopo la recentissima
pubblicazione del Sacre du Printemps
(vedi a pag.116) torna sul suo terreno
d’elezione russo con un cd, sempre per
Sony, che raccoglie un altro, assai meno
frequentato, Stravinskij, quello de Les
Noces (con MusicAeterna Choir e i solisti
Nadine Koutcher, Natalya Buklaga,
Stanislav Leontieff, Vasiliy Korostelev).
Al suo fianco, una hit del repertorio
romantico come il Concerto per violino
e orchestra op. 35 di Čajkovskij, nel
quale accanto a MusicAeterna spicca la
presenza della violinista moldava Patricia
Kopatchinskaja (con lui nella foto).
Come mai questa strana accoppiata
Čajkovskij/Stravinskij? Un pezzo tra
i più celebri del repertorio accanto a
uno dei capolavori del primo ’900 meno
frequentati soprattutto su disco?
«Se vuoi creare una dimensione di
profonda comprensione nella musica,
il primo passo è ricaricare-rielaborare
la musica che pensi di conoscere. La
cosa più difficile nella vita è rendersi
consapevoli che spesso non conosciamo
ma pensiamo di conoscere. Se
cerchiamo di analizzare le informazioni
che possediamo per trasformarle in
conoscenze scopriamo che esse sono ben
più ricche di ciò che credevamo».
E le nozze artistiche con Patricia
Kopatchinskaja?
L’8 dicembre scorso, nell’Oratorio dell’Angelo Custode di Lucca, l’ensemble Odhecaton diretto da
Paolo Da Col ha completato la registrazione della sua ultima produzione che sarà pubblicata da
Arcana nella seconda metà del 2016: un viaggio alla scoperta della musica sacra di Alessandro
Scarlatti. Del compositore vissuto tra il 1660 e il 1725 si potranno ascoltare pagine interessanti ma
poco consciute: il Miserere a 9 voci in doppio coro del 1708 (ideato per la Cappella Pontificia e
solo esteriormente ispirato modello di Allegri, in quanto se ne allontana per arditezze armoniche,
complessità formale ed espressività), il Salve Regina a 4 voci del 1703, e il Salve Regina a 4 voci, 2
violini e basso continuo del 1697). Il programma s’incardina sulla prima registrazione assoluta della
Missa defunctorum a 4 voci e basso continuo (forse riferibile all’anno 1717): esempio di compresenza
tra matrici rinascimentali e sensibilità barocca. La scrittura contrappuntistica che pervade questo
brano non impedisce a Scarlatti di utilizzare scelte stilistiche di grande impatto espressivo e retorico.
Amadeus 107
DISCHI
SCHUBERT // BEETHOVEN
Secondo album Deutsche Grammophon per
il geniale pianista russo Grigory Sokolov.
Uno strepitoso doppio CD a prezzo speciale con le
registrazioni dal vivo realizzate nel 2013 alla
Philharmonie di Varsavia e al Festival di Salisburgo.
★ insufficiente
photo: Dario Acosta/DG | ad: www.filippovezzali.com
★★ sufficiente
★★★ discreto
★★★★ buono
★★★★★ ottimo
AA.VV.
The club album
A
2 CD 4795426
A
3 LP 4795693
DIGITALE
D
2C
EZ ZO
CD 1 SCHUBERT
Four Impromptus op. 90
Drei Klavierstücke D946
AA.VV.
Violin Sonatas and other chamber Works
PR
SP EC IA LE
Gidon Kremer e interpreti vari
Dg 15 cd (Universal) 1981-1995
C
CD 2 BEETHOVEN
Sonata op. 106 “Hammerklavier”
RAMEAU
Les tendres plaintes, Les tourbillons
Les cyclopes, La follette, Les sauvages
BRAHMS
Intermezzo op. 117 n. 2
TR
RE
E
A LT
JAN LISIECKI
JANINEJANSEN
JANSEN
JANINE
SCHUMANN
KARLBÖHM
BÖHM
KARL
BRAHMS
BRAHMS
Concertoper
perviolino
violino
Concerto
BARTOK
BARTOK
Concertoper
perviolino
violinon.n.11
Concerto
OrchestraNazionale
Nazionale
Orchestra
dell’Accademia
dell’Accademiadidi
S.S.Cecilia
Cecilia
London
LondonSymphony
Symphony
Orchestra
Orchestra
Antonio
AntonioPappano
Pappano
Concerto per pianoforte
Studio da concerto, op. 92
Allego e Introduzione da
concerto, op. 134
Sogno, op. 15 n. 7
Orchestra Nazionale
dell’Accademia di
S. Cecilia
Antonio Pappano
CD 4795327
4795327//DIGITALE
DIGITALE
CD
NO
OVVIITTÀÀ
N
CD
CD 4788412
4788412 //DIGITALE
DIGITALE
LIFEININMUSIC
MUSIC
A ALIFE
Musichedidi
Musiche
Beethoven,
Brahms,
Beethoven,
Brahms,
Bruckner,
Haydn,
Mozart,
Bruckner,
Haydn,
Mozart,
Schumann,
Schubert,
Schumann,
Schubert,
Tchaikovsky
e Wagner
Tchaikovsky
e Wagner
29
29CD
CD4824254
4824254
on Gidon Kremer (classe 1947) non esistono vie di mezzo. O lo si ama o
irrita l’artista «per nulla russo, per nulla ebreo, nato in Lettonia» e in cerca
di sopravvivenza dal regime totalitario che lo perseguitò anche dopo la partenza
da Riga. Allievo per forza (solo in un secondo tempo per amore) di David
Ojstrach, non so quante lauree a Concorsi internazionali, un repertorio e letture
fatti (anche) di provocazioni, Kremer offre qui tre lustri di Sonate fra cui le
integrali Beethoven, Schumann e Prokof’ev con la Argerich, Brahms con
Afanassiev, e Schubert con Maisenberg) e di musica da camera: mozartiana,
schubertiana, di Weber, Mahler, Schönberg e Schnittke. Il box sostanziosissimo
raccoglie letture della piena maturità di Kremer & Soci dopo il cofanetto
Brillant degli anni Sessanta-Settanta in Urss. Il suono si riconferma magro e
nervoso, ma dotato d’un elettricismo e d’una limpidezza senza confronti (in
Beethoven complice anche la Argerich) e la mano sinistra è praticamente
infallibile (basterebbe l’impossibile The last Rose di Ernst, bis abituale). C’è, nei
classici come nei romantici, una volontà di andare al cuore dei brani cassando
enfasi e retorica per cogliere essenza e caratteri dei brani. Ne è riprova l’avvio
sommesso, fatto di puro, distillatissimo canto delle Sonate di Brahms, lette come
al microscopio col mirabilmente “soffice” ma anche “scolpito”, avvolgente
Afanassiev. Note preziose di Carlo Bellora. Box imperdibile.
Alberto Cantù
I dischi migliori
del mese
scelti per voi
da Amadeus
Anne-Sophie Mutter, Lambert Orkis,
Mutter’s Virtuosi
Dg 1 cd (Universal) 2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
G
ià dalla foto di copertina
s’intuisce il piglio interpretativo
del disco: braccio destro in alto,
l’archetto del violino appare subito
come la bacchetta del direttore.
Altrettanto il gesto e l’espressione
tipicamente direttoriali. Il brano
d’esordio è significativo: il Presto”dal
Concerto in sol minore “Estate” dalle
Quattro Stagioni di Vivaldi: portato
via con energìa torrenziale, ai limiti
della velocità strumentale, Una vera
forza della natura, confermata
oltremodo dal Bach del Concerto per
due violini, dal Brahms della Danza
ungherese n. 1, e dal Benjamin
Jamaikan rumba, in grado altresì di
comunicare questa sua prerogativa a
chi con lei si accompagna. I Mutter's
Virtuosi infatti sembrano suonare in
perfetta empatia interpretativa,
eseguendo al di fuori dei consueti
canoni brani codificati dalla tradizione
conceristica. Vedasi anche il
Gershwin dei Tre preludi, il
Čajkovskij della Melodia, il Debussy
dei Golliwogg’s Cakewalk, come del
Claire de lune, o il Saint-Saëns
dell’Introduzione e rondò capriccioso,
o del Copland del Hoe-Down. Ma, a
dimostrazione che, accanto
all’irruenza musicale, la Mutter e i
suoi sanno esprimere anche
delicatezza e intimismo, si ascoltino il
Bach-Gounod dell’Ave Maria e
soprattutto lo Williams di Schindler’s
List: pura poesia sonora distillata con
polvere di stelle. Il tutto dal vivo: e il
pubblico, è ammaliato e sedotto.
Antonio Brena
ZO
E ZEZ
ZO
PR
PR
L ELE
I AIA
EC
SP
EC
SP
Amadeus 109
Universal Music
Music Group
Group -- Classics
Classics &
Universal
& Jazz
Jazz Italia
Italia
Classical
ClassicalCollections
Collections
www.universalmusic.it/classica
www.universalmusic.it/classica
DISCHI
A
AA.VV.
Le Chant de Leschiquier
Tasto Solo
Passacaille 1 cd (New Communication) 2014
Q
uando chiesero ad Haydn perché gli era occorso così tanto tempo per
comporre La Creazione, lui rispose perché l’opera avrebbe dovuto durare
nel tempo. Ecco, Guillermo Pérez è un tipo un po’ così: le cose gli piace farle
bene, concedendosi tutto il tempo necessario. Nei giorni dell’oggi e del passato
prossimo, vengono in mente nomi importanti da paragonargli per questo suo
modo di fare, chissà perché del mondo del cinema (Stanley Kubrik, Terrence
Malick). Termini di paragone forti, ma non fuori luogo. Da tempo Pérez è
attratto, si direbbe come pochi o nessun altro musicista, dalle questioni inerenti
le tastiere medievali che lo hanno spinto verso una ricerca polivalente su
musiche, sonorità, tecniche esecutive e interpretative. Ambito di notevole fascino
e interesse a cui ha deciso di votarsi assieme al gruppo da lui fondato: Tasto
Solo. Nel 2008 ha inciso il suo primo disco (Meyster ob allen Meystern),
splendido e recensito sul n. 241 (dicembre 2009) di Amadeus. A distanza di sei
anni, nell’estate del 2014, nella chiesa di Longchaumois, sperduta tra le
montagne del dipartimento del Giura, in Francia, è tornato a far vibrare i
microfoni, per la seconda parte di quello che ha annunciato come un trittico
discografico dedicato al repertorio per tastiera della metà del ‘400. Un luogo
silenzioso, appartato, ideale per il suono fragile ma dalle enormi suggestioni di
cinque strumenti di riflessione (un clavisimbalum a martelli, un plectrum
clavisimbalum, un organetto, due arpe e una viella) a cui si affianca la voce di
soprano di Barbara Zanichelli. Si ascolta una selezione operata tra i più
straordinari rondeaux e ballades di Binchois e Dufay, a cui si aggiungono pagine
di altri autori del tempo. Musica sublime, tanto più in questa interpretazione
raffinatissima, sospesa, di cristallo, estetizzante, a volte smaltata, eppure
all’occorrenza fiammeggiante nelle iper-virtuosistiche ornamentazioni che
evocano senza mezze misure la ricercatezza di un ideale tardo-gotico. Oggi
Pérez è un degno successore dell’estetica musicale di Pedro Memelsdorff di cui,
non a caso, è stato allievo alla Civica Scuola di Musica di Milano. Un disco
curatissimo che, se dio vuole, chiede anche all’ascoltatore attenzione e tempo.
Massimo Rolando Zegna
110 Amadeus
DISCHI
AA.VV.
Piano Concerto No 1,
Capriccio, ecc.
AA.VV.
Les Éléments. Tempệtes,
Orages & Fệtes Marines
Denis Matsuev, Mariinsky Orchestra,
Valery Gergiev
Mariinsky 1 sacd (Sound and Music)
2014-2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
U
n consiglio: da ascoltare a tappe.
Tutto insieme, questo esaltato ed
esaltante cd può risultare indigesto
tanto è incontenibile nell’energia
ribollente. Lo firmano Valery Gergiev a
capo della sua “corazzata” di San
Pietroburgo – la Mariinskij Orchestra
– e il pianista Denis Matsuev. Interpreti
russi di musica russa. E c’è solo da
imparare. Per esempio: noi europei
dell’Ovest, venuti su a pane e civiltà
sinfonico-concertistica austro-tedesca,
guardiamo sempre con un filo di
sospetto Rachmaninov, “colpevole”, ai
nostri occhi un po’ “snobbettini”, di
anacronismo. Ora lo sguardo sta un po’
cambiando (e un signor Chailly sta
portando l’integrale sinfonica di
Rachmaninov al Teatro alla Scala). Ma,
di fatto, sempre noi europei dell’Ovest
ci lambicchiamo il cervello per capire
come “purificare” con qualche
prospettiva modernista l’iperromanticismo del russo che, tra l’altro,
per pianoforte scrive come un dio a
detta di chi le mani le ha davvero
fatate. Poi ascolti Gergiev, Matsuev e la
“corazzata” nel Primo concerto, e vieni
travolto da colori vischiosi e densi,
melmosi e mielosi e tutto funziona a
meraviglia. Emozioni a mille, un
approccio “vergine”, e zero paura di
varcare la soglia della retorica (che
viene superata, ma ci sta con quella
straordinaria convinzione e
immedesimazione interpretativa).
Anche il Capriccio per piano e
orchestra di Stravinskij fa faville:
vernice timbrica immaginifica, tellurica
e fosca, che passa al contemporaneo
Rodion Ščedrin nel Concerto n. 2.
Nicoletta Sguben
BEETHOVEN
Symphony No. 3
BRAHMS
Ein deutsches Requiem
ČAJKOVSKIJ
La dama di picche
CASTELNUOVO-TEDESCO
Appunti op. 210
Le Concert des Nations, Jordi Savall
Alia Vox 2 sacd (Sonjade-Tàlea) 2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
Symphonieorchester des Bayerischen
Rundfunk, Mariss Jansons
Br Klassik 1 cd (Ducale) 2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
L’
Didik, Serjan, Volkova, Diadkova, Chor
& Orchester des Bayerischen Rudfunks,
Kinderchor des Bayerischen Staatsoper,
Mariss Jansons
Br Klassik 3 cd (Ducale) 2014
Artistico: HHHH Tecnico: HHHH
Enea Leone
Brilliant 2 cd (Ducale) 2015
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
P
Genia Kühmeier, Gerald Finley,
Netherlands Radio Choir, Royal
Concertgebouw Orchestra, Mariss
Jansons
Rco 1 cd (New Arts International) 2012
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
L
L’
rosegue sempre serrata e su
costanti livelli di altissima qualità
la produzione (nuove emissioni e
riproposte) di Alia Vox: la casa
discografica fondata da Jordi Savall.
Nel giro di pochi mesi abbiamo
ricevuto tre cofanetti di prim'ordine:
L’Orfeo di Claudio Monteverdi
registrato live dal maestro catalano nel
gennaio 2022 al Gran Teatre del Liceu
di Barcellona (a suo tempo era già
uscito il dvd dello spettacolo
pubblicato da Opus Arte); un disco
dedicato a Heinrich Ignaz Franz von
Biber che nel segno della polifonia
riunisce ristampe (la Battalia 1673) e
novità (il mottetto Plaudite Tympana
1682, la Sonata Sancti Polycarpi 1673
e la colossale Missa Salisburgensis
1682); e, per ultimo, un doppio sacd
registrato nel luglio 2015 in Francia,
all’Abbazia di Fontfroide, d’interesse
particolare. Il titolo è magnetico: Gli
elementi. Tempeste, burrasche e feste
marine. Ovvero, spiega Savall nel
booklet, l’arte di dipingere in musica:
quella capacità sviluppata dai
compositori del ’700 di utilizzare
le note per raffigurare, fino ad arrivare
a confrontarsi con l’inesprimibile,
come nel caso della composizione che
introduce il programma, Les Éléments,
in cui Jean-Fért Rebel evoca oltre ai
quattro elementi, anche il caos
primordiale. Gli altri “pittori” musicali
sono Matthew Locke, Marin Marais,
Georg Philipp Telemann, Antonio
Vivaldi e Jean-Philippe Rameau.
Ascolto gustosissimo, in cui Savall
gestisce magistralmente la creatività,
la perizia tecnica le mille possibilità
coloristiche ed espressive de
Le Concert des Nations in piena
aderenza la gusto barocco.
Massimo Rolando Zegna
idea è stata di Mariss Jansons:
contrapporre in un ciclo di
concerti le Sinfonie di Beethoven
e altrettanti lavori di compositori
contemporanei che dal corpus
sinfonico beethoveniano traessero
ispirazione, in una sfida ad armi
armoniche tra epoche e sensibilità
diverse. In questo cd, a fianco
dell’Eroica si ascolta così una pagina
di Rodion Ščedrin (1932), un
frammento orchestrale nato dalle
drammatiche parole del testamento
di Heiligenstadt, in cui Beethoven
scrisse della sua sordità e del
progressivo isolamento dal resto
dell’umanità. E in qualche modo la
stessa Eroica nascerà da quelle parole
(Beethoven iniziò a lavorarci a
ridosso della stesura del testamento)
assieme alla scelta del compositore
nell’affrontare con forza il suo
destino. Dove il frammento di Ščedrin
rivela il suo legame con l’Eroica
attraverso il medesimo organico della
sinfonia – un Maestoso con grave che
percorre i dodici minuti della
partitura, intrisa di una cupa
sensibilità romantica – la Sinfonia di
Beethoven incisa dal complesso
bavarese è davvero elettrizzante.
Un cd che presenta una magnifica
orchestra e un grande direttore, con
alle spalle una lunga collaborazione, e
un progetto Beethoven inziato ormai
quattro anni fa: due entità capaci di
restituire una partitura perfetta in ogni
suo minimo dettaglio, sostenuta da
una visione lucida e tesa, con una
folgorante sezione di fiati e ottoni.
Il tutto racchiuso in una registrazione
di grande qualità e proiezione sonora,
come poche volte si ha la fortuna
di ascoltare.
Edoardo Tomaselli
a collana di registrazioni dal vivo
del Concertgebouw con Mariss
Jansons s’arricchisce di questa
edizione del Requiem tedesco di
Brahms. Che a Jansons la musica del
secondo Ottocento sia congeniale lo si
apprezza anche qui, anzitutto nella
capacità di gestire un grande organico
con ampia varietà di volume sonoro e
di colori nonché con una sempre
vivida naturalezza nella concertazione;
concertazione che non manca di
rivelare via via aspetti di sicuro
interesse musicale nella cura per i
dettagli, il cesello cameristico dei
momenti più intimi e la resa
intensamente espressiva delle parti
vocali. A tale proposito, Genia
Kühmeier e Gerald Finley sono solisti
convincenti mentre davvero ottimo
è il coro diretto da Michael Gläser.
L’orchestra non smentisce la propria
fama in una prova che valorizza con
esiti di grande bellezza le tonalità
prevalentemente ambrate e scure, ma
comunque suffuse di luce, della
strumentazione di Brahms. Ciò detto,
l’interpretazione di Jansons piace in
particolare per la solidità del senso
architettonico, la solida nervatura in
rilievo delle trame contrappuntistiche
neobarocche ma anche la morbidezza
nella resa delle torniture melodiche,
lasciando però qualche perplessità
nella resa un po’ troppo repressa e
controllata dell’intensità struggente
del primo e dell’ultimo movimento,
dove il direttore sembra fidarsi in
misura eccessiva del potere seduttivo
della musica stessa, del coro e
dell’orchestra.
Cesare Fertonani
incontro fra Čajkovskij e la
novella gotico-fantastica di
Puškin, la Dama di picche, produsse,
nel 1890, il capolavoro operistico del
compositore russo. German (il baldo
ma non febbrile tenore Didyk), è il
disperato protagonista dell’opera,
ossessionato dal segreto delle tre carte,
con le quali una vecchia contessa è
diventata ricca (come vuole la prassi,
una gran veterana della scena, Larissa
Diadkova). Per impossessarsi del
“segreto” provocherà la morte per
spavento dell’anziana aristocratica,
segnando il suo precipizio nella folle
monomania del gioco. A questo
nichilistico fine German sacrifica tutto,
compreso l’amore di Lisa (la sempre
incisiva e un po’ vocalmente dura
Tatiana Serjan), fino all’annientamento
dei promessi sposi nel suicidio finale
(l’una si getta nella Neva; l’altro,
quando esce la Dama di picche invece
dell’atteso asso, si spara una
rivoltellata). Attorno a loro si muove
la fatua e brillante nobile società russa
che celebra i suoi riti: balli, canti,
gioco d’azzardo, la deliziosa pastorale
mozartiana del secondo atto. Orpelli e
lustrini, si mescolano a maschere e
spettri, mentre la forza del destino
conduce i protagonisti alla morte.
Elementi drammatici contrastanti che
brillano nella scrittura orchestrale,
rilevata con perizia dal maestro Mariss
Jansons, il cui vigore non è mai scevro
da una distinta eleganza, nel rispetto
del compositore e della sua fonte
letteraria. Edizione in forma di
concerto, dove direttore e compagini
artistiche si confermano ai vertici
continentali.
Giovanni Gavazzeni
«Q
uando, nella primavera del
1967, invitai Mario
Castelnuovo-Tedesco a scrivere una
serie di pezzi di media difficoltà
tecnica per essere destinati soprattutto
ai giovani esecutori, egli aderì con
entusiasmo a questa proposta che gli
consentiva di realizzare un’idea che
già maturava da tempo». Con queste
parole il compianto chitarrista e
musicologo Ruggero Chiesa
presentava la pubblicazione de Gli
Appunti. Preludi e studi per chitarra,
op. 210. Il progetto, l’ultimo lavoro
del compositore fiorentino, prevedeva
la realizzazione di quattro Quaderni
(“Gli Intervalli”, I ritmi”, “Le
figurazioni” e “Sei studi seriali”) ma
purtroppo rimase incompiuto per
l’improvvisa morte che nel 1968 colse
Castelnuovo-Tedesco. Furono infatti
dati alle stampe solo i primi due
Quaderni, mentre del terzo rimasero
due brani e del quarto solo un abbozzo
di poche battute. Enea Leone ci
presenta tutto quanto, con l’eccezione
delle note abbozzate del quarto
Quaderno (in effetti, non avrebbero
avuto alcun significato, essendo prive
di senso musicale compiuto).
La dedica del compositore «Ai giovani
chitarristi» non deve trarre in
inganno: solo il primo Quaderno è
agevolmente suonabile (il solo dove
Chiesa, d’accordo con l'autore, fece in
tempo a intervenire semplificando
i passaggi più ostici), mentre negli
altri vi sono molte situazioni di
problematica eseguibilità. Leone
mostra le sue doti migliori proprio in
questi punti, in particolare nelle Danze
dell’Ottocento e nelle Danze del
Novecento: esemplare è la lettura de
La macchina da cucire¸ e La filatrice.
Marco Riboni
Amadeus 111
DISCHI
A
BERLIOZ
Symphonie fantastique, Lélio
Gérard Depardieu, Chicago Symphony Chorus, Chicago Symphony Orchestra,
Riccardo Muti
Cso 1 cd (Ducale) 2010
D
ell’Episodio della vita di un artista, costituito dalla Sinfonia fantastica e
da Lelio, o il ritorno alla vita, si ascolta di solito soltanto la prima,
considerata a ragione un capolavoro a differenza del secondo, il melologo
che ne costituisce il seguito. Che quest’ultimo sia una composizione
problematica o addirittura per certi versi fallita, è indubbio; ma ciò non toglie
che l’opportunità di ascoltare – e se si è molto fortunati pure di vedere
rappresentato – anche il melologo consente di assistere all’intero racconto
musicale concepito da Berlioz, comprendendo tra l’altro meglio la stessa
Sinfonia fantastica. Al di là del fatto che le incisioni integrali dell’Episodio
della vita di un artista sono piuttosto rare, questa realizzata da Riccardo Muti
con l’Orchestra e il Coro di Chigago (che documenta l’esecuzionerappresentazione del dittico avvenuta nel 2010) spicca per la qualità
intepretativa assoluta. È raro ascoltare una Sinfonia fantastica di tale
trasparenza cristallina e al contempo di tale raffinatezza nelle intenzioni e
soluzioni espressive, al punto da annichilire qualsiasi possibile accusa di
volgarità nei confronti della musica di Berlioz. Ma non meno memorabile è il
tono visionario e trasognato, da fantasticheria romantica inquieta, febbrile,
esaltata che sostanzia l’interpretazione drammaturgica della partitura. Quanto
a Lelio, la voce recitante di Gérard Depardieu è un lusso straordinario in un
contesto di risorse esecutive sontuose e di sicura efficacia teatrale.
Cesare Fertonani
112 Amadeus
DISCHI
FAURÈ, STRAUSS
Sonata op.13, Sonata op18
FIELD
Complete Nocturnes Vol. 2
GEMINIANI
Sonatas op. 4 vol. 2
KURTÁG
Kafka Fragments
PÄRT
The Sound of Arvo Pärt
Itzhak Perlman, Emanuel Ax
Dg 1 cd (Universal) 2014
Artistico: HHHH Tecnico: HHHH
Stefan Irmer
Mdg 1 cd (Sound and Music) 2015
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
Carline Melzer, Nurit Stark
Bis 1 sacd (New Arts International) 2012
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
C
È
Liana Mosca, Antonio Mosca, Luca
Pianca, Giorgio Paronuzzi
Stradivarius 1 cd (Milano Dischi) 2012
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
Estonian National Symphony Orchestra,
Estonian Philharmnic Chamber Chor,
Paavo Järvi, Tõnu Kaliuste
Erato 1 cd (Warner) 1994, 2004
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHH
on una lussuosa presa sonora –
sin troppo per il giovane Gabriel
Fauré – e un risalto, dunque, più da
concerto che da camera, ecco
l’ultima registrazione (in ordine di
tempo) di Itzhak Perlman, oggi
settantenne che fa duo con Emanuel
Ax, classe 1949, partner di Isaac
Stern e Yo-Yo-Ma in storiche
esecuzioni. Le note allegate al
compact, garbate e precise, sono del
pianista. Suo è anche – capitò pure
con Bruno Canino in concerti
milanesi: una Sonata di Mozart – il
timone del comando interpretativo.
Perlman va a ridosso del collega.
L’articolazione del violinista risulta
netta ma un po’ rigida; il suono, sin
troppo sfogato e diretto, accusa
fissità. La cavata può difettare quanto
a intimità ad esempio in quella
Improvisation straussiana, Andante
cantabile, che molti violinisti, negli
anni Cinquanta, estrapolavano dalla
Sonata op. 18 come entr’acte da
recital. Nella pagina anno 1887 di
Strauss, è il pianoforte orchestrale di
Ax – il poema sinfonico Don Juan
sta sbocciando rigoglioso – a fare
una gran figura, emozionare e
coinvolgere. Con la Prima sonata di
Fauré e quella di Strauss, la
discografia di Perlman supera i
quattrocento titoli secondo una
voracità che include musica da film
(Schindler’s List), musica
tradizionale ebraica, folk, jazz e rag.
Quanto poi al repertorio grande e
piccolo, a pezzi famosi o rarissimi, i
dischi all’attivo dell’artista non sono
secondi a quelli di Menuhin,
Heifetz, Ojstrach e, come taluni
dimenticano, di Kogan.
Alberto Cantù
da qui che tutto (o quasi) è nato.
John Field (1782-1837), pianista
irlandese allievo di Muzio Clementi
che vedeva in lui un grande talento da
promuovere in lunghi tour europei, ha
composto un nucleo di Notturni per le
proprie esecuzioni con un continuo
lavoro di rielaborazione e modifica
che in alcuni casi li rendeva
profondamente diversi dalla prima
stesura (come avviene per esempio
nelle due versioni qui presenti del
Notturno 10A e 10B. Tutto questo
avviene almeno una generazione
prima di colui che ha dato piena
dignità al Notturno come forma
compositiva per pianoforte: Fryderyk
Chopin. In questo secondo volume di
Notturni si nota in realtà come Field
si distacchi parecchio dall’attenzione
alla melodia per concentrarsi
maggiormente sull’aspetto ritmico: un
approccio che, nel mostrare le
evidenti relazioni con le composizioni
del suo maestro Clementi, li fa
discostare non poco da quel che
questa forma sarebbe diventata una
volta plasmata dal suo illustre
successore. Di lui però risulta
pienamente precursore nell’attenzione
all’aspetto armonico, con esiti che per
l’epoca erano da considerarsi inusuali.
Stefan Irmer, pianista tedesco che già
in altri casi si era dedicato ad autori
pianistici raramente eseguiti (tra gli
altri Faurè, Thalberg e Massenet) oltre
che all’accompagnamento di cantanti,
li esegue con entusiasmo e
brillantezza. Qualche perplessità in
più la destano le tre composizioni
originali di Irmer intitolate Playingwith-Field, semplici e dimenticabili
arrangiamenti di altrettanti notturni
fieldiani in forma jazzata.
Claudia Abbiati
N
el 2012, in occasione dei due
secoli e mezzo dalla morte di
Francesco Geminiani, furono
realizzate alcune importanti iniziative
per celebrare un compositore a lungo
trascurato da musicologi e musicisti,
benché al suo tempo considerato non
inferiore a Händel e Corelli. Tra
queste la prima registrazione assoluta
di una parte delle dodici Sonate per
violino e basso continuo opera 4. A
distanza di tre anni, l’impresa si
conclude con la pubblicazione del
secondo volume, comprendente le
Sonate nn. 2, 4, 5, 8, 9 e 11, che rende
per la prima volta disponibile per
intero l’ascolto discografico di una
raccolta assolutamente significativa
del maestro lucchese che fu,
ricordiamolo, oltre che compositore di
riferimento anche dei più importanti
violinisti e teorici del ‘700. L’opera 4
presenta in più punti pagine di
originalità, bellezza e complessità
assolute, di ostica esecuzione e
difficile ascolto. In questa
registrazione, Liana Mosca violino,
Luca Pianca arciliuto, Antonio Mosca
violoncello e Giorgio Paronuzzi
clavicembalo (i primi vantano una
lunga militanza nel Giardino
Armonico, e qui non si direbbe, tanto
appare diverso il modo di approccio
alle musiche del '700) hanno sempre
ben presente che al risultato finale di
questa musica è fondamentale una
corretta invenzione ed esecuzione
degli abbellimenti improvvisati: non
puro decoro, o fonte di piacere ludico
(come diffusamente si pensa) ma
strumento d’importanza vitale per la
comunicare e muovere passioni se,
attenzione, risolto secondo modalità
ben precise.
Massimo Rolando Zegna
G
eniale capolavoro di una musica
contemporanea sotto ogni
profilo e però viva e palpitante
perché estranea alle secche di tanta
avanguardia diventata ben presto
accademia, i Kafka-Fragmente
(1985-87) di Kurtág continuano ad
ammaliare come un poliedro che
riflette luce in mille direzioni
diverse. Il ciclo appunto di
frammenti, articolato in quattro parti,
sfiora l’ora di durata. Il formato
complessivo della composizione è
dunque di ampio respiro ma a
costruirlo sono tasselli per lo più
brevissimi, aforismi musicali spesso
inferiori al minuto, con rare – ma per
questo significative – eccezioni,
mentre l’organico è ridotto al
soprano, che intona passi di testi di
Kafka, e al violino, lo strumento che
più di ogni altro si avvicina all’ideale
espressivo della vocalità umana.
Musica realizzata con mezzi minimi,
costituita per lo più da brevi
frammenti ma che non rinuncia in
nulla all’articolazione di un pensiero
compositivo complesso e raffinato;
quest’ultimo può apparire semplice
soltanto se si concepisce la
semplicità come arte della
quintessenza assoluta, di un segno
tanto concentrato quanto infallibile.
Di tutto ciò – e naturalmente di
molto altro ancora – rende conto
l’ammirevole interpretazione di
Carline Melzer e Nurit Stark,
condotta nel senso di un’intensità e
pregnanza esecutiva che se da un
lato si prodiga nel perseguire la
massima aderenza al dettato del testo
in tutte le sue molteplici e cangianti
sfumature espressive dall’altro è
improntata alla più efficace
essenzialità di resa.
Cesare Fertonani
È
difficile per un compositore
contemporaneo imporsi e avere
successo con il grande pubblico
internazionale. Lo era ai tempi di
Beethoven, figurarsi oggi dove il
genere di musica prevalente è legato a
un’insaziabile ricerca di merce di
consumo. Arvo Pärt, invece, ha saputo
conquistare da subito,in maniera
quasi trasversale, gli appassionati di
musica nei vari continenti. Forse
perchè la sua musica è stata in grado di
intercettare lo spirito del tempo o
comunque quel sound indefinibile che
accomuna le orecchie degli ascoltatori.
Non che le sue composizioni siano di
facile ascolto. Tuttavia il suo sound
(per stare al titolo dei tre cd qui
presentati) riesce a esprimere esigenze
profonde di pensiero e allo stesso
tempo serenità, attraverso uno stile che
sa legare e intrecciare modalità
barocche e gregoriane a tessuti
leggermente dissonanti e
trasparentemente materici. La sua
musica è quasi sempre velata ancorchè
incisiva, lasciata a un organico
strumentale mai ridondante anche se
corposo, quasi sempre affidato agli
archi e alle percussioni,
preferibilmente timpani. Oppure alla
semplice vocalità corale
armoniosamente distesa come certe
coreografie paesaggistiche della sua
Estonia. Tutto ciò lo verifichiamo in
questo cofanetto che per i suoi 80 anni
raggruppa diverse e qualificate sue
composizioni degli anni ’90 e inizi
2000. I primi due cd contengono lavori
destinati all’orchestra, mentre il terzo
composizioni per coro. Eccelsi
gl'interpreti tutti estoniani.
Antonio Brena
PROKOF’EV, RAVEL
Piano concerto n. 1, Two
pieces from Romeo and Juliet
transcribed for the piano,
Concerto for the left hand,
Pavane for piano
Andrei Gavrilov, London Symphony
Orchestra, Simon Rattle
Warner 1 cd (Warner) 1977
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
N
el settembre 2017, Simon Rattle
assumerà la direzione musicale
della London Symphony Orchestra
dopo quindici anni alla guida dei
Berliner; ed è forse in previsione di
quel ritorno nel Regno Unito che la
Warner ha rimasterizzato nel 2015
un’incisione del 1977 dell’allora
ventiduenne quasi sconosciuto
direttore con quella stessa Lso. Al suo
fianco un coetaneo: Andrei Gavrilov.
Il risultato di quel duo quasi
esordiente negli studi di registrazione
(quelli mitici di Abbey Road) è
quanto di meglio si possa raggiungere
per affiatamento, musicalità,
sicurezza esecutiva. Il travolgente
primo tempo del Concerto di
Prokof’ev scorre con brillantezza e
energia senza pari, seguito da un
Andante mai così dolce, aereo;
brillantezza virtuosistica,
specialmente del solista, che ritorna
nell’Allegro conclusivo. Ai due
numeri dal balletto Romeo e Giulietta
nella versione pianistica (nn. 2 e 9
della suite) segue il Concerto in re di
Ravel dalla scrittura orchestrale e
pianistica esaltata in ogni sfumatura
ritmica e timbrica da Rattle e
Gavrilov, co-autori di un’esecuzione
perfetta nei tratti jazzistici
dell’Allegro. Il completamento del cd
è affidato alla versione originale
pianistica della Pavane pour une
infante défunte dove Gavrilov
accoglie, finalmente, il sarcastico
invito di Ravel a non eseguirla come
se fosse una Pavane défunte pour
une infante.
Ettore Napoli
Amadeus 113
DISCHI
A
GIULIANI
Rarities and Masterpieces
Massimo Felici, Damiana Mizzi, Antonia Valente, Friederike Starkloff
Smc 1 cd (La Stanza della Musica) 2015
L
a produzione discografica della musica per chitarra assai spesso si
sbizzarisce in programmi che nella volontà o, meglio, nella velleità di una
originalità a tutti i costi finiscono purtroppo per scivolare in banalità e
pochezza culturale disarmanti. Eppure basterebbe semplicemente entrare in
quella inesauribile miniera d’oro che è la musica di Mauro Giuliani per essere
certi di non commettere scivolate di gusto. Tra l’altro, a più di trent’anni dalla
pubblicazione dell’imponente opera omnia (Tecla Editions, Londra, 1984, 39
volumi.) ancora molti sono i brani che attendono di essere registrati. È proprio
questo l’aspetto (come si evince chiaramente dal titolo) che ha guidato
Massimo Felici e L’Ensemble ’05 nella intelligente compilazione di questo
splendido cd. Tolti infatti i meravigliosi Sechs Lieder op. 89 per soprano e
chitarra – giustamente entrati in repertorio – e, in parte, gli incantevoli 2
Rondo op. 68 per fortepiano e chitarra (chissà perché spesso eseguiti
nell’ordine inverso), il resto dei brani sono veramente di raro ascolto, se non
addirittura in World Première Recording. Ecco così Der Abschied der
Troubadour per soprano, chitarra terzina, fortepiano e violino, al cui ascolto
nel 1818 i Viennesi andavano letteralmente in visibilio e, per chitarra sola, le
Sei Arie Nazionali Scozzesi nonché le spettacolari Gran Variazioni op. 114.
Eccellenti, impeccabili e perfettamente affiatati tutti gli interpreti, anche se una
particolare nota di merita spetta a Felici, chitarrista elegantissimo, di
pirotecnico virtuosismo e, soprattutto, di rara intelligenza. Da non perdere.
Marco Riboni
114 Amadeus
DISCHI
RIMSKI-KORSAKOV
Mozart and Salieri - The
Noblewoman Vera Sheloga
SCHUBERT
Quartettsatz D 703,
Quatuor D 887
SCHUBERT
Piano Sonata in C minor
D. 958, Impromptus D. 935
Fedin, Nesterenko, Miashkina,
Orchestra of the Ussr State Acamic
Bolshoi Theatre, Mark Ermler
Melodya 1 cd (Ducale) 1985, 1986
Artistico: HHHH Tecnico: HHHH
Quartetto Terpsychordes
Ambronay 1 cd (Ducale) 2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
Nikolai Lugansky
Ambroisie 1 cd (Self-Tàlea) 2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
D
S
U
na coppia insolita e rara nel
catalogo operistico di RimskiKorsakov torna dagli archivi sempre
doviziosi della Melodya
nell’interpretazione vivida dei
complessi del Bol'šoj diretti da Mark
Ermler: il prologo scritto in seguito, il
prequel dell’opera La fanciulla di
Pskov, che narra il passionale e
drammatico adulterio della nobildonna
Vera Sheloga (1898), sedotta in un
bosco da un boiardo di passo (Ivan il
Terribile) e salvata dalla sorella che si
assume la maternità al ritorno del
consorte. E la più nota leggenda che
vorrebbe Antonio Salieri, roso
dall’invidia, avvelenare un superficiale
e smagato Mozart, mentre ascolta la
sua ultima composizione, il Requiem.
Non è il film di Milos Forman (da
Amadeus di Schaffer), ma la “piccola
tragedia” di Puškin (1830), da cui
Rimskij-Korsakov trasse due scene
drammatiche su misura per l’istrionico
grande basso Saljapin, in questo cd
interpretato da una voce che ha fatto
epoca nell’Unione Sovietica degli anni
Sessanta e Settanta (del Novecento),
Evgenij Nesterenko. Un’opera da
camera tutta declamata e pervasa di
orpello mozartiano che il milionario
Savva Mamontov volle per il suo
teatro personale. Il magnate pagava
tutto: autore e divo, scenografocostumista (Michail Vrubel’,
immaginifico pittore e decoratore
dell’art nouveau russa) e maestro del
coro (Sergej Rachmaninov che
dirigeva i frammenti del Requiem
mozartiano fuori scena). Questi
plutocrati russi!
Giovanni Gavazzeni
opo aver registrato qualche anno
fa i Quartetti D 804 e D 810, il
Terpsychordes ritorna a Schubert con
questa incisione che accoppia il
Quartettsatz D 703 e l’ultimo, grande
Quartetto D 887. L’approccio
interpretativo del Terpsychordes
s’attaglia in modo magnifico alla
musica di Schubert per l’importanza
che esso presta alla valorizzazione
della componente intensamente
affettiva della scrittura, alla
curatissima raffinatezza nel
trattamento delle dinamiche e della
qualità timbrica, alla lettura mai
banalmente convenzionale del
fraseggio. L’interpretazione del
Quartetto Terpsychordes mostra del
resto l’intenzione di soddisfare
l’attenzione non comune alle
sottigliezze estreme in ogni aspetto dei
parametri compositivi che la musica
da camera di Schubert richiede. E
questo si realizza con esiti talora
sorprendenti, come quando dalla
tessitura emergono fremiti e brividi di
natura quasi materica, oppure quando
le sfumature delle dinamiche e dei
modi d’attacco del suono diventano
ombreggiature e increspature appena
percepibili ma proprio per ciò tanto
più rilevanti ai fini di
un’interpretazione così preziosa. La
quale, peraltro, non trascura affatto di
risolvere con altrettanta efficacia le
implicazioni esecutive poste dalla
dimensione monumentale della forma
e dalla gestualità a tratti parasinfonica
dell’insieme strumentale, tenendo
comunque come fermo orizzonte il
respiro lirico di questa musica, le sue
inquietudini profonde, il suo senso di
gioiosa o smarrita disperazione
sublimato in canto.
Cesare Fertonani
chubert in dialogo con Schubert.
Questa è l’impressione che si ha
ascoltando la produzione
discografica più recente di Nikolai
Lugansky, dedicata a due opere della
produzione “tarda” (per modo di
dire, vista la prematura morte a 31
anni) del compositore austriaco,
entrambe finalizzate nel 1828, il suo
ultimo anno di vita: l’ampia Sonata
in do minore D. 958 e la raccolta di
Improvvisi op. 142, pubblicati
postumi. Si tratta di due lavori tra i
più celebri di Franz Schubert, che
sono innervati di collegamenti sottili
o, in alcuni casi, molto evidenti: un
esempio su tutti, il ritmo
popolaresco, quasi di tarantella,
dell’Allegro a chiusura della Sonata
ripreso successivamente
nell’Improvviso n. 4. L’autrice delle
note incluse nel booklet, Gabrielle
Oliveira Guyon, fa notare come nel
1828 Schubert si sentisse più o meno
inconsciamente “liberato”
dall’ingombrante presenza di
Ludwig van Beethoven, scomparso
l’anno prima. Certo, l’eredità
beethoveniana non è cosa che ci si
possa lasciare alle spalle con facilità,
però è anche vero che la poetica
schubertiana è inconfondibile: solo
che in queste opere, come nelle altre
sonate della maturità, si manifesta in
modo più esplicito e inequivocabile.
Lugansky offre un’interpretazione
mai sopra le righe, sia nella scelta dei
metronomi tutt’altro che esasperata
sia in quella delle dinamiche: poco
pirotecnica ma di grande sostanza,
precisa negli attacchi e di
commovente pulizia, una scelta quasi
démodé in anni di virtuosismi
rampanti ma che alla lunga premia.
Claudia Abbiati
SOR
Complete Studies for Guitar
ŠOSTAKOVIČ
The Cello Concertos
ŠOSTAKOVIČ
Symphony n. 7
Enea Leone
Brilliant 3 cd (Ducale) 2014
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
Gautier Capuçon, Mariinsky Orchestra,
Valery Gergiev
Erato 1 cd (Warner) 2013, 2014
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
Russian National Orchestra, Paavo Järvi
Pentatone 1 cd (Ducale) 2015
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
G
li Studi opp. 6, 29, 31, 35, 44 e 60
di Fernando Sor rappresentano il
vertice assoluto della didattica
ottocentesca per chitarra. Tuttavia, a
fronte di cotanta qualità e quantità (è
un corpus di ben 136 brani) per
decenni e decenni i chitarristi ne
hanno suonati solo 20, quasi sempre
malvolentieri (erano pezzi d’obbligo
per gli esami in Conservatorio) e
oltretutto credendo che fossero i soli
studi composti dal grande catalano. Il
tutto nasceva da una storica – e
personale – antologia compilata da
Segovia e pubblicata nel 1945 con una
arbitraria numerazione da 1 a 20:
l’equivoco era creato e,
incredibilmente, tende a perdurare
ancora oggi. Rubricare con il semplice
nome di studi i 24 brani delle opp. 6 e
29 è addirittura riduttivo: la loro
ambientazione estetica è infatti ben
più vicina alla ribalta concertistica che
non alle aule scolastiche.
Indubbiamente, i rimanenti quattro
numeri d’opera (31, 35, 44 e 60)
presentano difficoltà più abbordabili,
difficoltà che sono inversamente
proporzionali al progredire del numero
di catalogazione. Tuttavia, la più
squisita eleganza non manca neanche
nelle pagine più semplici, nelle quali
la genialità di Sor si esprime al
massimo livello. Il bravo Enea Leone
(che si serve di strumenti originali)
coglie i suoi migliori risultati proprio
in queste ultime opere dove,
paradossalmente, la maggior
semplicità del materiale musicale
rischia per l’interprete di essere più
problematica della lettura dei brani più
importanti: Leone è infatti obbligato a
sfoggiare una grande espressione, una
spiccata sensibilità e, soprattutto, un
fraseggio molto elegante.
Marco Riboni
I
Concerti opp. 107 e 126 di
Šostakovič sono tra i massimi
capolavori del repertorio per
violoncello e orchestra e, come tali,
molto frequentati dagli interpreti.
Gautier Capuçon li suona qui con
l’Orchestra del Teatro Mariinskij
diretta da Valery Gergiev,
proseguendo così una collaborazione
che aveva già prodotto la registrazione
di musiche di Čajkovskij e Prokof’ev.
Capuçon possiede ogni talento per
essere un interprete più che
convincente di questa coppia di
concerti assai importanti per il
formato e l’impegno esecutivo –
virtuosistico oltre che propriamente
musicale – che richiedono. Se
Capuçon sfoggia un cantabile di
notevole fascino, si destreggia al
contempo con abilità tra tutti i
molteplici registri implicati dai due
concerti, dal fantastico all’ironico (e al
sardonico più graffiante e aggressivo),
dall’onirico al tragico in tutta la sua
plumbea cupezza, riuscendo ad
avvincere l’ascoltatore a un alto e
continuo livello di attenzione. La
tensione interpretativa non subisce
infatti cali né interruzioni lungo
l’ampio arco di durata di ciascun
concerto anche perché la qualità della
resa solistica trova una controparte
ideale in quella dell’orchestra diretta
da Gergiev. Si ascoltano dunque
esecuzioni concentrate e interessanti,
disegnate con aderenza alla scrittura
ma tutt’altro che prive di un’inventiva
ispirata che, almeno in alcuni
movimenti o per lo meno a tratti,
s’imprime nella memoria
dell’ascoltatore o comunque ne
sollecita in modo attivo la riflessione.
Cesare Fertonani
D
opo quella di Gergiev con
l’Orchestra del Teatro Mariinskij
ecco un’altra integrale in corso sempre
con un’orchestra russa, la Russian
National Orchestra, in attività da poco
più di un ventennio (1990). Dopo le
Sinfonie nn. 1, 5, 6, 8, 9 e 15 è ora il
turno della Settima sempre sotto la
direzione del cinquantatreenne Paavo
Järvi. Com’è noto, le circostanze
storiche della sua composizione
(1941-1942 durante il drammatico
assedio di Leningrado) e delle prime
esecuzioni in pieno conflitto mondiale
in Russia prima e a New York poi con
Toscanini (1942) ne hanno fatto un
oggetto di culto che, come spesso
accade, va al di là del valore
squisitamente musicale. Si spiegano
anche così le sue molte incisioni nelle
quali questa di Järvi meriterebbe di
occupare uno dei primi posti, non solo
per la resa del celeberrimo primo
tempo, quando per il lirismo
struggente dell’Adagio, dove la
scrittura ha spesso una valenza
squisitamente timbrica con archi e fiati
chiamati ora a disegnare suggestivi
passaggi cameristici ora a compattarsi
per dare vita a un magma sonoro
incalzante che esplode nell’Allegro
conclusivo. Ed è questa duttilità a fare
della Rno una compagine di alto
livello, avvalendosi qui dell’ottima
conduzione del direttore estone. Da
segnalare infine, come riportano le
note in tedesco e inglese, che per
l’incisione sono state impiegate le più
moderne tecnologie di registrazione
(vedi pentatonemusic.com); unica
pecca, marginale è il riferimento, nel
booklet, alle Memorie di Šostakovič
firmate da Solomon Volkov (1979)
ritenute da tempo poco attendibili.
Ettore Napoli
Amadeus 115
DISCHI
AA.VV.
Pollini. De main de maïtre
A
Maurizio Pollini e interpreti vari, Bruno Monsaingeon regia
Dg 1 dvd (Universal) 2014
E
chi non vorrebbe passare un’ora con Pollini! Non solo ascoltandolo
suonare (questo vivaddio è possibile da oltre mezzo secolo) ma, così: a tu
per tu sentirlo raccontare dei suoi inizi, della vittoria al Concorso Chopin di
Varsavia, del legame sodale con Abbado e Nono, degli anni di strenuo
impegno civile con la musica portata a quante più persone possibile. Pollini
non si concede facilmente con le parole, preferisce farlo seduto al pianoforte.
Capita che parli – lo fa volentieri con gli studenti – ma in genere si tiene alla
larga dall’aprire sé stesso. Con riservatezza e pudore. Valori non proprio
diffusi nell’odierno. In questo bel film di Bruno Monsaingeon, l’uomo si apre,
educatissimo e senza pose: com’è lui. Ciò che racconta non vale (forse) la
bellezza memorabile delle sue interpretazioni (i tellurici Concerti di Bartók; lo
Chopin giovanile affrontato col busto dritto come un fuso e tecnica
perfetta; il suo Beethoven sonatistico e concertistico sviscerato col pathos
della febbre dell’intelletto; i cluster di Stockhausen capaci di sacralità
sotto le sue mani protette dai guanti senza dita), ma alcune cose che il
concertista dice nella quiete del suo studio circondato da partiture e libri,
sono da annotare. I consigli di Benedetti Michelangeli che ancora mette in
pratica; la consapevolezza del peso alla tastiera svelata dal peso del dito
medio di Rubinstein posato sulla sua spalla; la rispondenza straordinaria
con Abbado e Boulez, tale per cui si andava in scena senza prova e, infine, il
criterio di scelta del repertorio: «suono solo ciò di cui, sono certo, non mi
stancherò mai».
Nicoletta Sguben
116 Amadeus
DISCHI
STRAVINSKY
Le Sacre du Printemps
YSAΫE
Sonatas
AUBER
Marco Spada ou la Fille du bandit
MusicAeterna, Theodor Currentzis
Sony 1cd (Sony) 2015
Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH
Alina Ibragimova
Hyperion 1cd (Sound and Music) 2015
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
A
C
Hallberg, Obraztsova, Smirnova,
Chudin, Tsvirko, Bolshoi Ballet, Bolshoi
Theatre Orchestra, Alexey Bogorad,
Pierre Lacotte creografia, Vincent
Bataillon regia video
BelAir 1 dvd (Ducale) 2014
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH
madeus aveva raccontato la
storia di Theodor Currentzis e
MusicAeterna nell’ottobre del 2014:
un direttore e una formazione che
hanno ottenuto di lavorare in un
modo davvero unico al mondo (vedi
anche a pag.106). Direttore e
orchestra risiedono infatti nel teatro
russo di Perm, dedicando tempo ed
energie solo alla musica: una sorta di
cenacolo del XXI secolo,
apparentemente libero nelle scelte
artistiche, che nelle registrazioni (per
Sony) dedica tutto il tempo ritenuto
necessario da Currentzis per
rispecchiare un ideale di perfezione.
E in questi anni Currentzis ha stupito
per le sue incisioni di opere
mozartiane (l’uscita del Don
Giovanni è prevista nel 2016)
spaziando in un repertorio ampio, che
da Purcell si spinge – come nel caso
di questo disco – al ’900 storico.
Stravinskij e il Sacre du Printemps è
l’ultimo cd pubblicato da
MusicaAeterna, e sorprende anche in
questo caso. Per chi si aspettava uno
Stravinskij selvaggio, rude, graffiante,
con dinamiche spinte all’eccesso, il
risultato è diametralmente opposto.
Nel recensire questo disco, il critico
del Guardian ha scritto di
«un’energia che non esplode mai», e
in qualche misura è vero: eppure,
questa lettura del Sacre (la versione
incisa è quella del 1947) offre
comunque una visione originale.
Nelle parole dello stesso Currentzis
– che firma il libretto – il tentativo è
quello di liberare il Sacre dalla
visione di un sinfonismo ad effetto
tutto occidentale, riportando invece la
partitura di Stravinskij il più possibile
vicina alle radici folk della tradizione
russa da cui proviene.
Edoardo Tomaselli
’è sempre Bach dietro tutto:
l’idea di comporre le Sei sonate
per violino solo, venne infatti a Ysaÿe
dopo aver ascoltato un’esecuzione
della Sonata in sol minore di Bach
interpretata da Joseph Szigeti. Fin dal
1884 il violinista belga aveva iniziato
la sua attività di compositore – attività
parallela a quella di insegnante al
conservatorio di Bruxelles – e nel
corso di una sola notte ideò il progetto
di scrivere le sei partiture. Nacquero
nel corso di un mese, nell’estate del
1923, e vennero pubblicate l’anno
seguente. Ognuna delle opere sarebbe
stata dedicata a grandi violinisti
dell’epoca: la Prima, in sol –
implicito omaggio a Bach – sarebbe
stata eseguita dallo stesso Szigeti. La
Seconda ebbe il suo interprete in
Jacques Tibaud (e anche in questo
caso c’è un richiamo a Bach nel
frammento tematico del primo
movimento della sonata, che richiama
il Preludio della Partita BWV 1006) e
la Terza Geoge Enescu, mentre la
Quarta venne dedicata a Fritz
Kreisler, e le ultime due ad altrettanti
virtuosi dell’epoca. Sei sonate che
rispecchiavano sei diversi stili e
approcci strumentali. Dopo aver
inciso due dischi per Hyperion
dedicati a Bach e Hartmann (19051963), entrambi incentrati sul
repertorio per solo violino, la giovane
violinista russa Alina Ibragimova
regala ora una splendida
interpretazione delle Sonate di Ysaÿe:
grande tecnica, un suono ricco,
espressività e l’ombra di Johann
Sebastian Bach che appare
trasfigurata lungo queste sei opere,
che nella loro genialità abbracciano
due secoli di trascendentale tecnica
violinistica.
Edoardo Tomaselli
N
el caleidoscopico mondo della
danza di oggi, ci sarebbe da
chiedersi perché proporre un’opera
come Marco Spada ou la Fille du
bandit, balletto narrativo musicato da
Auber e coreografato da Mazilier
all’Opéra di Parigi nel 1857, che di
certo è creazione né ambiziosa né
memorabile. Nel ricco repertorio
romantico occupa un ruolo di
comparsa, con la sua musica piacevole
ma dozzinalmente convenzionale, con
il suo linguaggio coreografico che
modula la danse d’école in relazione
alle tipologie di personaggi convocati
in scena su una diversificazione
giocosa ma manierata, piuttosto che
drammaticamente e intensamente
motivata. E, infatti, il tempo lo ha
abbandonato all’oblio, mentre la sorte
lo ha relegato in un silenzioso spazio
della storia della danza romantica
europea. Con Pierre Lacotte, però,
il balletto nel 1981 è tornato a vivere
nei teatri, in una ricostruzione
coreografica che ne ha recuperato
tutta la freschezza in stile francese e
che ha affidato il suo successo alle
grandi doti interpretative di Nureyev.
Registrato nel 2014 a Mosca, il Marco
Spada di Lacotte oggi ci restituisce
con sapienza e raffinatezza una danza
teatrale che, se da una parte resta
significativamente rappresentativa
di un genere in voga a metà '800,
dall’altra, con il corpo di ballo del
Bolshoi e i suoi cinque solisti ci offre
uno spettacolo ai massimi livelli di
danza classica, per purezza delle linee,
precisione e perizia tecnica dei pas,
bellezza della perfezione.
Ida Zicari
CASELLA, RESPIGHI
Concerto per violoncello,
Sinfonia n. 2, Antiche arie
e danze per liuto, Suite n. 2
DVORÁK
Rusalka
MOZART
La finta giardiniera
Enrico Dindo, Filarmonica della Scala,
Gianandrea Noseda, Pietro Tagliaferri
regia video
Sony 1 dvd (Sony) 2013
Artistico: HHHH Tecnico: HHHH
Fleming, Beczala, Zajick, Relyea,
Orchestra, Chorus & Ballet of The
Metropolitan Opera House, Yannick
Nézet-Séguin, Otto Schenk regia,
Barbara Willis Sweete regia video
Decca 1 dvd (Universal) 2014
Artistico: HHHHH Tecnico: HHHH
Morley, Scala, Allemano, Chappuis,
Henry, Le concert d’Astrée, Emmanuelle
Haïm, David Lescot regia, Jean-Pierre
Loisil regia video
Erato 2 dvd (Warner) 2014
Artistico: HHHH Tecnico: HHHH
I
I
n una passata rubrica su Amadeus
(Cronaca minima) avevamo
sottolineato come sia totalmente
fuorviante ascrivere la personalità di
Alfredo Casella alla sola poetica
neoclassica. A quel porto, Casella
giunse nel suo inquieto itinerario
artistico, salutare ritorno all’ordine e
manifestazione di ottimismo vitale,
ma non vi si fermò, come
testimoniano le dolorose opere
dell’ultimo periodo. Sotto la superficie
modernista del contemporaneo di
Stravinskij e Hindemith, c’è un lato
recondito della sua personalità che
sfocia negli incantatori movimenti
lenti, dove il canto viene decantato
quasi in sogno metafisico (esempio
preclaro il Concerto per violoncello,
strumento prediletto della sua famiglia
e del suo padrino, Alfredo Piatti).
Ancora più istruttivo sulla formazione
europea apertissima di Casella è
l’ascolto della sconosciuta Seconda
sinfonia, rivelatrice di atmosfere che
manifestano l’assimilazione di Gustav
Mahler, di cui Casella fu primo a
capirne in Francia e in Italia il valore
(e che Mahler, in segno di stima,
presentò all’editore Universal di
Vienna). Quei germi espressivi sono
uno degli aspetti più importanti della
sua multiforme personalità artistica,
presenti in tutte le virate stilistiche del
Casella musicista. Gianandrea Noseda
ha il non piccolo merito di aver
resuscitato la Sinfonia. Per una volta i
meriti del musicista sono venuti prima
di quelli del grande didatta, revisore e
organizzatore musicale, con il quale
l’Italia moderna ha un debito enorme.
Giovanni Gavazzeni
l gusto che trent’anni fa andava per
la maggiore in Austria e in
Germania, un po’ pesante, didascalico
e polveroso, sontuoso e pomposo, era
riassunto nelle scenografie che
Günther Schneider-Siemssen
realizzava per Karajan. Susan Graham
nel presentare la ripresa del
capolavoro operistico di Dvořák,
Rusalka, al Met, definisce lo
spettacolo realizzato dal compianto
scenografo trent’anni fa, vintage. Il
primo quadro nel suo favolistico kitsch
è quasi involontariamente grottesco:
prati più verdi del verde, fondali
palesemente irreali, uno spettro
arboreo in primo piano. A questo si
aggiunge la pedissequa regia di
Schenk. L’effetto scenografico cambia
completamente nell’ultimo quadro,
quando le luci smorte rendono la
finzione verosimile e fascinosa. Certo
sembra di vedere – abituati come
siamo a regie troppo intelligenti – più
un balletto che un’opera. Ma tant’è.
Per fortuna che gli incantesimi escono
dalla tavolozza di Dvořák attraverso la
direzione superba per cura dei
particolare e vigore drammatico di
Nézet-Seguin, vero punto trainante
dello spettacolo. Il giovane maestro
canadese può contare su un magnifico
quartetto vocale, dove tutti gli
interpreti sono “giusti” nelle rispettive
parti: la lirica silhouette Fleming
(Rusalka), l’ardimentoso Beczala (il
Principe), la sarcastica Zajiick (la
strega), il paternale Relyea (l’Ondino).
Finalmente un’edizione fuori dalla
Repubblica ceca degna di tanta
abbondanza musicale e vocale.
Giovanni Gavazzeni
C’
è poco da ridere. Su al Nord,
nella regione francese del Pasde-Calais, e precisamente all’opera
del suo capoluogo, Lille, parlano in
modo accettabile anche l’italiano. La
battuta non è casuale, essendo
corrente il riferimento al
popolarissimo (soprattutto in Francia)
film di Dany Boom, Bienvenue chez
les Ch’tis, (come vengono chiamati
gli abitanti di quelle contrade per il
loro dialetto piccardo), che mette alla
berlina la difficoltà del protagonista
di comprendere il buffo dialetto
Ch’tis. Comunque, chez les Ch’tis,
l’italiano operistico di Giuseppe
Petrosellini, librettista cui si
attribuisce il testo della Finta
giardiniera di Mozart è qui più che
accettabile. Merito non solo dei due
cantanti madrelingua, lo sperimentato
Carlo Alemanno (il Podestà
innamorato della finta giardiniera) ed
Enea Scala (il Contino Belfiore che
impalmerà la giardiniera, dopo aver
cercato di strangolarla nell’antefatto),
ma anche dei sempre più
indispensabili sottotitoli. Questi
soccorrono galantemente il gentil
sesso – meno forte nell’articolazione
della parola – consentendoci di
seguire, almeno a grandi linee, i
turbinosi nodi amorosi fra le tre
coppie di aspiranti e pretendenti
coniugi. Mozart diciottenne dimostra
di poter scrivere arie per tutta la
gamma dei sentimenti umani, anche
se la lunghezza dello spettacolo
rimane sempre il tallone d’Achille di
quest’opera: tre ore di recitativi e arie
sono poco digeribili, anche se i cantattori danno il massimo.
Giovanni Gavazzeni
Amadeus 117
DISCHI
imperdibili
ILVINILE
Gérard Grisey
Les Espaces Acoustiques
F
A
DVOŘÁK
Streichquintett G-dur op. 77 (urspr. op. 18)
Boston Symphony Chamber Players
Speaker Corner 1 lp (soundandmusic.com) 1971
N
el 1964, furono fondati i Boston Symphony Chamber Players,
come emanazione della Boston Symphony Orchestra: da due
anni eravamo nei confini della Direzione musicale di Erich Leinsdorf.
Il gruppo era formato dai primi e più importanti componenti della
formazione sinfonica madre: archi e fiati. Sin dall’inizio l'ensemble
si affermò presso critica e pubblico come una dei più importanti
formazioni cameristiche a livello internazionale, capace di spaziare
con mirabile flessibilità in un ambito particolarmente ampio, senza
mancare, all’occasione, di proporre collaborazioni a interpreti illustri:
come Leif Ove Andsnes, Emanuel Ax e André Previn. Oggi i Boston
Symphony Chamber Players tengono ogni anno una serie di quattro
concerti alla Jordan Hall del New England Conservatory di Boston,
si esibiscono regolarmente a Tanglewood, senza contare le numerose
apparizioni negli Stati Uniti, in Europa, Giappone e Sud America.
Numerose sono anche le registrazioni realizzate: i Quintetti per archi
di Brahms, i Quintetti per clarinetto e archi di Mozart e Brahms, altre
composizioni per archi e fiati di Mozart, musiche da camera di Ravel,
Debussy, Françaix e Dutilleux, e altro ancora. Nel giugno del 1971
i Chamber Players registrarono per Deutsche Grammophon, nella
Boston Symphony Hall, il Quintetto per archi in sol maggiore op. 77
di Antonín Dvořák: ingegnere del suono Günter Hermanns.
La formazione era costituita da Joseph Silverstein (primo violino),
Max Hobart (secondo violino), Burton Fine (viola), Jules Eskin
(violoncello) e Henry Portnoi (contrabbasso). Il disco è stato
di recente riproposto da Speakers Corner Record su sopporto di
vinile di alta qualità (180 grammi). Incisione assolutamente
memorabile, di grande impatto sull’ascoltatore, che soprattutto
nel primo movimento assume un respiro, verrebbe da dire,
“sinfonico”, senza per questo intaccare la precisione, la nitidezza,
lo scatto felino, le straordinarie aperture cantabili.
Massimo Rolando Zegna
118 Amadeus
DISCHI
STRAVINSKY
The Firebird
VERDI
La traviata
Hodgkinson, Antonijevic, Rimsay,
Harrington, National Ballet of Canada,
Kirov Orchestra, Valery Gergiev, James
Kudelka coreografia, Barbara Willis
Sweete regia video
EuroArts 1 dvd (Ducale) 2003
Artistico: HHH Tecnico: HHH
Damrau, Demuro, Tézier, Orchestre et
Choeur de l’Opéra National de Paris,
Francesco Ivan Ciampa, Benoît Jacquot
regia, Louise Narboni-Benoît Jacquot
regia video
Erato 1 dvd (Warner) 2014
Artistico: HHH Tecnico: HHHH
T
V
ra le brume di un’arida selva, si
aggira con occhi di ingenuo
stupore il Principe Ivan: la figura di
profilo, le ginocchia piegate, le dita
delle mani distese, i pollici distaccati.
Ma che ci fa il Fauno di Nijinskij sulla
scena dell’Uccello di fuoco? È così
che il coreografo James Kudelka dà la
sua caratterizzazione, poco
convincente, all’ingresso del
protagonista del balletto. E quando lo
stupore del Principe Ivan si fa
incantata meraviglia, ecco tra i rami
apparire l’Uccello di Fuoco: gioiosa, la
ballerina svolazza da una parte
all’altra, ma non sciorinando le
metafore ballettistiche di leggerezza
volatile e moto vibrante di ali.
L’uccello di fuoco di Kudelka svolazza
veramente utilizzando le tecniche di
ripresa e montaggio filmico, e lascia
uno strascico fiammeggiante dietro di
sé. Come se non bastasse, i personaggi
dei due guardiani, un generale e una
moglie di Katschei somigliano a
fuoriusciti dal teatro coreografico
di Mats Ek. Insomma, L’uccello di
fuoco di Kudelka con il National
Ballet canadese non entusiasma.
E se in grandi linee cerca di attenersi
al libretto di Fokine e alla musica
di Stravinskij, ne svuota in modo
discutibile gli ideali, senza però
sostituirli con una visione dell’opera
nuova, critica e attualizzata: realismo
impoetico e maniera contaminata
prendono qui il posto di quegli ideali
di unione delle arti e di autentica
espressività ballettistica e mimica che
avevano indicato il futuro al balletto.
Ida Zicari
ioletta chez soi. La traviata
all’Opéra, in quel popoloso
deserto che appellano Parigi (secondo
la formidabile sintesi di Piave),
immortala Diana Damrau come
interprete di rango della formidabile
parte. Le sue qualità tecniche erano
emerse anche nella burrascosa
inaugurazione scaligera del 2013,
dove complice la messa in scena di
Dmitri Tcherniakov, tutto scadde in un
inutile grottesco. Al contrario lo
spettacolo di Benoît Jacquot non
disturba l’azione musicale, e se non si
ricorda per alcuna idea ragguardevole,
ha il pregio nella ripresa televisiva di
fotografare molto bene la prova
superba della Damrau, la quale, dotata
di un fisico prosperoso non certo
consunto dalla tisi, alla fine riesce
accettabile anche sul versante scenico.
Si sa che per Violetta ci vorrebbero
non una ma tre voci diverse.
La signora Damrau ne possiede
magnificamente almeno due: la
coloratura sgranata e fraseggiata
del primo atto e la corda lirica,
illuminata da un chiaroscuro dinamico
variegato. E dove manca di “peso”
drammatico, supplisce adeguatamente
con grintosa articolazione e scansione
impellente delle intenzioni. Alla fine
della serata meritata ovazione trionfale
per la Damrau, successo condiviso
con il baritono di casa Tézier e con
il gradevole Alfredo di Francesco
Demuro, che indulge ad allargare
i tempi verso le cadenze; un peccato
(veniale) al quale cedeva senza
ambasce il direttore d’orchestra,
Francesco Ivan Ciampa.
Giovanni Gavazzeni
L’opera
V
ero manifesto della musica spettrale, e uno
dei capolavori assoluti della seconda metà
del XX secolo, Les Espaces Acoustiques
di Gérard Grisey, è un ciclo strumentale scritto
nell’arco di un decennio, dal 1976 al 1985. Un
ciclo di sei pezzi a organico crescente, da uno
strumento solo a un orchestra di 84 elementi, legati
tra loro da analoghe strutture formali, ostinati
ritmici, strutture periodiche ricorrenti. Per Grisey
è stato come un laboratorio, nel quale ha via via
affinato quei principi nati dallo studio dell’acustica
musicale (sui testi di Emile Leipp e Fritz Winckel),
quell’idea di “spettralismo” che consisteva nel
comporre usando le altezze degli armonici naturali,
anche non temperate, usando solo materiale
derivato dalle proprietà acustiche del suono, e
tenendo conto della relatività della percezione
uditiva. Il ciclo si apre con Prologue per viola
sola, basato sugli sviluppi ipnotici di una cellula
melodia reiterata. Nel secondo pezzo, Périodes
(per 7 strumenti), primo lavoro integralmente
spettrale non solo nella produzione di Grisey, ma
anche nella storia della musica, l’autore ricompone
lo spettro della fondamentale mi, e si basa sul
ciclo ternario della respirazione (inspirazioneespirazione-riposo), poi perfezionato in Partiels
(per 18 strumenti), dove crea veri e propri timbri
sintetici passando anche attraverso vari gradi
di inarmonicità degli spettri. In Modulations
(per 33 strumenti) e in Transitoires (per grande
orchestra), entrambi basati su sonogrammi ottenuti
dalla registrazione di suoni di ottoni, tutto appare
sublimato da un divenire sonoro costante, come
«una deriva insieme lenta e dinamica», con spettri
armonici dilatati a dismisura. Infine Epilogue,
che può essere suonato solo come prosecuzione
di Transitoires, include oltre all’orchestra
anche quattro corni solisti, e introduce un
principio di dialettica per ridare spazio al
tempo del linguaggio, individuale e discorsivo,
sovrapponendolo a quello onirico del cosmo.
ascoltato da
Gianluigi Mattietti
Ogni mese
un critico
racconta
un capolavoro
e le sue incisioni
più belle
Sylvain Cambreling
Stefan Asbury
Le registrazioni
I
sei pezzi degli Espaces Acoustiques possono
essere eseguiti separatamente, ma il graduale
sviluppo che li accomuna, e il fatto che ogni
pezzo amplifica il campo acustico del precedente,
incoraggerebbero esecuzioni integrali, difficili
però da realizzare. E qui corre in soccorso il
disco, perché permette l’ascolto continuativo,
anche se le due integrali esistenti sono frutto
di registrazioni fatte in momenti diversi e con
interpreti diversi: la prima è un doppio cd Accord
(206532) del 2001, con Prologue affidata al
dedicatario Gérard Caussé, Périodes e Partiel
all’Ensemble Court-Circuit diretto da PierreAndré Valade, gli altri tre pezzi alla bacchetta
di Sylvain Cambreling, con la Frankfurter
Museumorchester. L’altro cd, uscito per la
Kairos nel 2005 (0012422KAI) mette insieme
Garth Knox e l’olandese Asko Ensemble per
i primi tre pezzi, e la WDR Sinfonieorchester
diretta da Stefan Asbury per gli altri tre.
Sono esecuzioni accurate, ma diverse tra loro,
come mostra anche il timing complessivo: 87
minuti per l’edizione Accord, 97 per la Kairos.
L’esecuzione di Prologue è l’unica in cui i
rapporti cambiano: quella di Caussé è più distesa
nei tempi (17:27), ma con grande intensità
espressiva, un forte vibrato, un’energia costante;
quella di Knox è più succinta (15:28), asciutta,
e sviluppa tensione nella brusca alternanza tra
piani sonori molto differenziati. I due pezzi
eseguiti dall’ensemble Court-Circuit hanno
un andamento netto, aggressivo, con grande
compattezza di suono. L’esecuzione dell’Asko,
col suo passo lento, appare più morbida, quasi
sensuale, sembra assaporare il dipanarsi degli
spettri armonici, la loro luminosità. Nei tre
pezzi per grandi organici, Cambreling muove
davvero l’orchestra come una sostanza fluida,
in perenne movimento. Più lenta, ma anche più
nitida è la lettura di Asbury, che enfatizza gli
scarti timbrici e cerca colori saturi.
Amadeus 119
CALENDARIO
gennaio
Notizie sempre aggiornate su www.amadeusonline.net
In queste pagine pubblichiamo, compatibilmente con lo spazio disponibile,
esclu­sivamente i programmi che arrivano alla nostra redazione per posta, fax o e-mail all'indirizzo
[email protected] entro il giorno 20 di due mesi prima dell’uscita del numero;
ad esempio, il 20 gennaio si chiude la raccolta dei materiali per il numero di marzo
22, 24 Puccini, La bohème;
dir. G. Bisanti, reg. L. Muscato
Info: teatrosocialecomo.it
F
23 Šostakovič, Kreisler;
pf. R. Krimer, vl. S. Krylov
24 Schumann, Brahms;
cl. A. Carbonare, pf. A. Pappano
25 Schubert; t. I. Bostridge,
pf. J. Drake
30 Scarlatti, Bach, Beethoven;
pf. A. Hewitt
31 Haydn, Brahms; pf. A. Hewitt,
vlc. G. Scaglione
Info: amicimusica.fi.it
Ferrara
G
Cremona
 Teatro Ponchielli
18 Brahms, Dvořák; vlc. M. Maisky,
dir. M. Poschner
Info: teatroponchielli.it
Ferrara Musica
 Luoghi vari
31 Liszt; pf. G. Albanese
Info: ferraramusica.it
Firenze
L'Orchestra della Svizzera italiana, il 17 al Teatro Fraschini di Pavia con la direzione di Markus Poschner
B
Bari
 Teatro Petruzzelli
10 Prokof’ev, Beethoven,
Mendelssohn; vl. A. Steinbacher,
Orch. del Teatro Petruzzelli,
dir. G. Neuhold
27, 29, 31 Mozart, Le nozze di Figaro;
dir. M. Aucoin, reg. C. Muti
Info: fondazionepetruzzelli.it
Bologna
 Teatro Comunale
23, 24, 26, 27, 28, 30, 31 Verdi,
Attila; dir. M. Mariotti,
reg. D. Abbado
Info: tcbo.it
7 Čajkovskij, Lo schiaccianoci;
cor. Petipa
11 Dvořák, Brahms, Čajkovskij e a.;
pf. Katia e Marielle Labèque
25 Kodály, Strauss, Beethoven;
vl. C. Belcea, vlc. A. Lederlin,
pf. M. Lifits
28 Classica Orchestra Afrobeat
Info: auditoriumanzoni.it
Bolzano
 Auditorium
26, 27 Haydn, Bach, Beethoven;
dir. O. Dantone
 Teatro Comunale
15, 17 Berg, Lulu; dir. A. Negus,
reg. D. Pountney
Info: teatrocomunale.bolzano.it
Brescia
 Teatro Grande
25 Rossini, Cherubini, Verdi;
Filarmonica della Scala,
dir. R. Chailly
27 Messiaen; Ensemble
del Teatro Grande
Info: teatrogrande.it
C
Catania
 Teatro Massimo Bellini
17, 18, 19, 20, 21, 23, 24 Paisiello,
Fedra; dir. J. Correas, reg. A. Cigni
29, 30 Brahms, Sgambati;
vl. G. Hosszu-Legocky,
dir. F. Attardi
 Auditorium Manzoni
 Teatro Sangiorgi
4 Čajkovskij, Schubert; Filarmonica
del Teatro Comunale di Bologna,
dir. M. Mariotti
26 Orlando di George Frideric
Händel; dir. S. Fundarò,
reg. M.P. Viano
27 Spettacolo dei Pupi; reg. E. Gimbo
Info: teatromassimobellini.it
Associazione musicale etnea
 Teatro Odeon
20 G.L. Ferretti
Info: ame.ct.it
Cernobbio
 Chiesa di San Vincenzo
15 Bach, Rodrigo, Damase e a.;
arp. E. Volpato, marimba N. Vaiente
Info: soconcerti.it
Como
 Teatro Sociale
15 Taccani, Beethoven, Mendelssohn;
Orchestra I Pomeriggi Musicali
di Milano, dir. A. Lonquich
 Opera
10 Martucci, Beethoven, Skrjabin;
pf. M. Vasil’evič Pletnëv, Orchestra
del Maggio Musicale Fiorentino,
dir. J. Neschling
22, 24, 28 Poulenc, La voix
humaine; Puccini, Suor Angelica;
dir. X. Zhōng, reg. A. De Rosa
23, 26 Falla, El amor brujo;
Granados, Goyescas;
dir. G. García Calvo, reg. A. De Rosa
27 Ullmann, L’imperatore di
Atlantide ovvero Il rifiuto della morte;
dir. R. Misto, reg. P.P. Pacini
29 Dvořák, Gershwin, Bernstein;
pf. S. Bollani, Orchestra del Maggio
Musicale Fiorentino, dir. Z. Mehta
30 Prokof’ev, Mahler; v. Elio,
Orchestra del Maggio Musicale
Fiorentino, dir. Z. Mehta
Info: operadifirenze.it
Amici della Musica
 Teatro della Pergola
9 Mozart, Beethoven, Haydn;
pf. A. Schiff
10 Hahn, Debussy, Chopin e a.;
pf. A. Lucchesini, vl. M. Rizzi,
vlc. M. Brunello, v. M. Cassi
11 Schubert; pf. A. Lucchesini,
vl. L. Borrani, vlc. M. Brunello
16 Schumann, Corea, Debussy e a.;
pf. A. Lucchesini
17 Bartók, Beethoven;
Quartetto Foné
Genova
 Teatro Carlo Felice
2, 3 Puccini, La bohème;
dir. G. Acquaviva, reg. E. Scola
15, 16, 17 Gengis Khan,
cor. S. Sukbaatar
30, 31 Mozart, Don Giovanni;
dir. C. Poppen, reg. R. Cucchi
Info: carlofelicegenova.it
L
La Spezia
 Teatro Civico
26 Romitelli; chit. G. Impérial,
Eutopia Ensemble
Info: fondazionecarispezia.it
Lucca
 Teatro del Giglio
4, 5 Verdi, Simon Boccanegra;
dir. I. Lipanovic, reg. L.M. Mucci
Info: teatrodelgiglio.it
Lugano
 LAC
7 Mendelssohn, Weber;
vl. I. Gringolts, dir. M. Poschner
16 Rachmaninov, Chopin;
pf. D. Trifonov
22 Grieg, Mozart;
pf. D. Trifonov, dir. D. Dodds
27 Bach, Debussy, Chopin, Ravel;
pf. B. Rana
Info: luganolac.ch
verdi
il trovatore
Direttore
NELLE SALE UCI CINEMAS,
IN DIRETTA DALL’OPERA DI PARIGI:
11 FEBBRAIO 2016
Daniele Callegari
Regia
Àlex Ollé
Anna Netrebko
Ludovic Tézier
Marcelo Àlvarez
Ekaterina Semenchuk
120 Amadeus
© Dario Acosta
Fondation
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Oggi Mozart
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Macerata
 Teatro Lauro Rossi
22 Beethoven; pf. C. Principe,
L. Armellini, Orch. Filarmonica
Marchigiana, dir. F. Mondelci
31 Corelli, Falconieri, Scarlatti e a.;
fl. G. Antonini, cemb. O. Dantone
Info: appassionataonline.it
 Teatro alla Scala
2 Verdi, Giovanna dʼArco;
dir. R. Chailly, reg. M. Leiser e P. Caurier
3, 5, 7, 12, 14, 15 Prokof'ev,
Cinderella; cor. M. Bigonzetti
11 Schumann, Wolf;
s. D. Röschmann, pf. M. Martineau
13, 17, 20, 22, 24, 29 Verdi, Rigoletto;
dir. M. Franck, reg. G. Deflo
28, 30 Händel, Il trionfo del Tempo
e del Disinganno; dir. D. Fasolis,
reg. J. Flimm
Info: teatroallascala.org
laVerdi
 Auditorium Fondazione Cariplo
1 Beethoven; Orchestra laVerdi,
dir. Z. Xian
7, 8, 10 Stravinskij, Prokof'ev;
Orchestra laVerdi, dir. J. Bignamini
15, 17 Beethoven; Orchestra
laVerdi, pf. e dir. D. Greilsammer
22, 24 Prokof'ev; Orchestra
laVerdi, Coro G. Verdi, dir. G. Grazioli
28 Händel, Respighi, Massenet e a.;
arp. E. Piva, M. Pettoni
30, 31 Schumann, Respighi,
Čajkovskij; vl. L. Santaniello,
Orchestra laVerdi, dir. O. Caetani
Info: laverdi.org
MUOVIAMO LE STELLE
 Museo del Novecento
17 Castiglioni; s. L. Catrani,
pf. M.G. Bellocchio, Quartetto Xenia
Info: divertimentoensemble.it
Modena
 Teatro Comunale
10 Skrjabin, Chopin; pf. I. Kim
14, 15, 17 Mascagni, L’amico Fritz;
CHLOE MUN 1° Premio 2015
CONCORSO PIANISTICO INTERNAZIONALE
FERRUCCIO BUSONI
“Ho riscoperto in lei una naturalezza musicale
che credevo scomparsa.”
JÖRG DEMUS
Management:
[email protected]
dir. D. Renzetti, L. Nucci
Società del Quartetto
 Conservatorio
12 Bach, Grieg, Mozart; pf. M. Pletnev
19 Mozart; Quartetto di Cremona
Info: quartettomilano.it
Milano
Filarmonica della Scala
 Teatro alla Scala
17, 18 Pergolesi, Porpora, Stravinskij;
a. D. Galou, mzs. R. Invernizzi,
dir. O. Dantone
Info: filarmonica.it
Time Warp Travel - Via Pirandello 31/b
[email protected]
www.docservizi.it - Tel 045 493 73 78
Serate Musicali
 Conservatorio
11 Haydn, Mozart, Beethoven;
pf. A. Schiff
18 vl. D. Nordio, pf. H. Fazzari
22 Franck, Borodin, Rachmaninov;
vlc. A. Chausian. pf. E. Sudbin
25 pf. E. Virsaladze
Info: seratemusicali.it
Roberto Bolle, impegnato al Teatro
alla Scala con Cinderella dal 3
I Pomeriggi Musicali
 Teatro Dal Verme
14, 16 Mendelssohn, Taccani,
Beethoven; Orchestra I Pomeriggi
Musicali, pf. e dir. A. Lonquich
21, 23 Gorini, Dvořák; vl. P. Berman,
Orchestra I Pomeriggi Musicali,
dir. S. Alapont
28, 30 Mendelssohn, Castelnuovo
Tedesco e a.; chit. E. Segre,
Orchestra I Pomeriggi Musicali,
dir. G. Bellincampi
Info: ipomeriggi.it
San Fedele Musica
 Auditorium
18 Parmégiani; Videomapping
A. Quinn, reg. G. Cospito e D. Tanzi
Info: centrosanfedele.net
Bocconi Musica
 Università
14 D. Bonuccelli e V. Maistorovici
28 Ravel, Chopin, Liszt;
pf. A. Ullman
Info: unibocconi.it
Milano Classica
 Palazzina Liberty
10 Arriaga, Albéniz, Falla e a.;
fl. L. Narcisi, Orchestra da Camera
Milano Classica, dir. J. Escandell Vila
15 Beethoven; pf. V. Balzani
17 Singer, Maderna, Bach e a.;
SIMC Ensemble, dir. M. Parolini
24 Mozart; pf. M. Fedrigotti,
Orchestra da Camera Milano
Classica, vlc. e dir. M. Scandelli
31 Mendelssohn; Le Cameriste
Ambrosiane
Info: orchestramilanoclassica.it
20 T come Turandot
22 Batsheva Dance Company
23 ADM Ensemble
24 Šostakovič, Adès; Quartetto
Mirus, pf. M. Perrotta
Info: teatrocomunalemodena.it
N
Napoli
 Teatro San Carlo
2, 3 Čajkovskij, Lo schiaccianoci;
cor. M. Petipa
14 Poulenc, Bizet;
pf. Katia & Marielle Labèque,
dir. P. Fournillier
22, 23, 24, 26, 27, 28, 29, 30, 31 Lehár,
La vedova allegra;
dir. A. Eschwé, reg. F. Tiezzi
Info: teatrosancarlo.it
Liederìadi
Fondazione Pietà de’ Turchini
 Palazzina Liberty
 Chiesa di San Rocco a Chiaia
10 Rossini, Petite Messe Solennelle;
dir. M. Guadagnini
Info: festival-liederiadi.it
30 Coro della Pietà de' Turchini,
dir. D. Troìa
Info: turchini.it
Talenti al Tempio
 Tempio Valdese di Milano
30 Il Quartetto dell’Orchestra
dei Popoli
Info: musicaaltempio.it
P
Incontri Musicali
 Castello Sforzesco
24 dir. E. Citterio
Info: fondazionemilano.eu
Rondò 2016
 Teatro Litta
26 Ghisi; Divertimento Ensemble
Padova
Amici della musica
 Auditorium Pollini
12 Schiavo, Beethoven;
v. F. Dego, pf. F. Leonardi
22 Mozart, Beethoven, Schumann;
pf. E. Virsaladze
26 Bruckner, Brahms; Quartetto
Auryn, vla. M. Buchholz
Info: amicimusicapadova.org
Palermo
 Teatro Massimo
28, 31 Wagner, Götterdämmerung;
dir. S.A. Reck, reg. G. Vick
Prossima edizione:
61° Concorso Pianistico Internazionale
FERRUCCIO BUSONI
Bolzano – Bozen · 2016 – 2017
Preselezioni
03.08. – 09.08.2016
N U OVO
IO
R E P E RTO R
N U OV E
DATE
Finali
22.08. – 01.09.2017
Iscrizioni entro il
01.05.2016
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1° CONCORSO PIANISTICO
“LA PALMA D’ORO”
SAN BENEDETTO DEL TRONTO
20 - 22, Maggio 2016
PRESIDENTE DI GIURIA
Riccardo Risaliti
DIREZIONE ARTISTICA
Lorenzo Di Bella
SEZIONE A CATEGORIE | SEZIONE A 4 MANI
PREMIO PIANISTICO NAZIONALE “LA PALMA D’ORO”
3 Donizetti; s. M. Devia,
Orch. e Coro del Teatro Massimo,
dir. F. Lanzillotta
Info: teatromassimo.it
Parma
Altra Opera
 Teatro Regio
12, 15, 17, 19 Mozart, Le nozze di
Figaro; dir. M. Beltrami, M. Martone
29 Bach, Beethoven, Schubert;
pf. R. Buchbinder
Info: teatroregioparma.it
Pavia
 Teatro Fraschini
17 Dvořák, Brahms; vlc. M. Maisky,
Orchestra della Svizzera italiana,
dir. M. Poschner
29, 31 Puccini, La bohème;
dir. G. Bisanti, reg. L. Muscato
Info: teatrofraschini.it
Pisa
 Teatro Verdi
12 Ligeti, Mahler; Orchestra della
Toscana, dir. A. Fisch
21 Simoni, The Lyric Puppet Show;
reg. S. Mecenate
30, 31 Verdi, Aida; dir. M. Boemi,
reg. F. Zeffirelli
Info: teatrodipisa.pi.it
Pordenone
 Teatro Verdi
14 Shohat; dir. G. Shohat
20 Note di Jazz
Info: comunalegiuseppeverdi.it
R
Ravenna
 Teatro Alighieri
9, 10 Mascagni, L’amico Fritz;
dir. D. Renzetti, reg. L. Nucci
12 Gran Concerto d’Operetta
28 Orchestra Sinfonica G. Rossini,
dir. D. Agiman
Info: teatroalighieri.org
CONTATTI
Info artistiche: tel. +39 348 344 2958
Info organizzative: tel. +39 348 652 0772
Info & iscrizioni: [email protected]
www.palmaoro.it
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Reggio Emilia
31 Beatles; Orchestra del
Conservatorio di S. Cecilia,
dir. R. Serio
Info: teatroeliseo.com
 Teatro Municipale Valli
10 Schubert, Čajkovskij; Orchestra
d’Archi dell’Accademia Nazionale di
Santa Cecilia, dir. L. Piovano
23 Bach; pf. P. De Maria
29, 31 Mozart, Le nozze di Figaro;
dir. M. Beltrami, M. Martone
Info: iteatri.re.it
I Concerti della Cappella Paolina
 Palazzo del Quirinale
24 Caceres, Rossi, Lidarti;
Ensemble Salomone Rossi
Info: palazzo.quirinale.it
Roma
S
 Teatro dell'Opera
10 Xenakis, Prokof’ev, Beethoven;
pf. F.F Guy, dir. A. Pérez
22, 23, 24, 26, 27, 28, 29 Rossini,
La Cenerentola; dir. A. Pérez,
reg. E. Dante
31 Donatoni, Beethoven, Sibelius;
pf. S. Kim, dir. T. Ceccherini
Info: operaroma.it
 Auditorium Parco della Musica
6 Ciampi; CentOrchestra,
dir. G. Ciampi
13 Mozart, Grieg, Bach;
pf. M. Pletnev
16, 18, 19 Bernstein, Barber, Adams;
vl. G. Shaham, dir. A. Pappano
20 Rachmaninov, Schubert, Brahms;
pf. D. Trifonov
23, 25, 26 Schönberg, Fauré,
Debussy; dir. A. Pappano
27 Toscanini: Il coraggio della
musica; Filarmonica Arturo
Toscanini, dir. Y. Levi
30 Glazunov, Šostakovič,
Rachmaninov; vl. A. Tifu,
dir. Y. Temirkanov
31 Glazunov, Rachmaninov;
dir. Y. Temirkanov
Info: auditorium.com
IUC
 Aula Magna Università Sapienza
12 Berg, Ravel, Debussy e a.;
pf. O. Sciortino
16 Dvořák, Schumann, Webern;
vl. I. Gringolts, pf. P. Laul
23 Schumann, Liszt, Sciarrino e a.;
pf. E. Arciuli
15 Mozart, R. Strauss;
v. P. Servillo, Ensemble Berlin
Info: concertiiuc.it
Siena
Micat in Vertice
 Luoghi vari
16 Debussy, Berio, Boccadoro e a.;
The Pianos Trio
23 Bartók, Beethoven;
vl. T. Baviera, A. Franchin,
vla. S. Dambruoso, vlc. T. Tesini
29 Scarlatti, Bach, Beethoven e a.;
pf. A. Hewitt
Info: chigiana.it
Anna Tifu, in concerto all'Auditorium
Parco della Musica di Roma il 30,
dirige Yuri Temirkanov
T
Torino
Accademia Filarmonica Romana
 Luoghi vari
14 Castiglioni, Betta, Galante;
cl. S. Framarin, pf. A. Alberti
21 Vivaldi, Bach, Bonporti;
Ensemble l’Estravagante
28 The Jazz Connection Sextet
Info: filarmonicaromana.org
È Musica Eliseo
 Teatro Eliseo
6 Cipriani, Morricone, Rota;
Cecilia Wind Orchestra,
dir. N. Narduzzi
10 Rota, Piovani, Di Pofi e a.;
I Solisti del Conservatorio di S. Cecilia,
dir. A. Di Pofi
17 Rodrigo, Beethoven;
chit. A. De Vitis, Orchestra del
Conservatorio di S. Cecilia,
dir. C. Patané
24 Gershwin, Bernstein, Webber;
Orchestra del Conservatorio
di S. Cecilia, dir. T. Battista
 Teatro Regio
19, 20, 23, 24, 26 Janáček,
La piccola volpe astuta;
dir. J. Latham-Koenig, reg. R. Carsen
22 Janáček, Dvořák; vlc. M. Brunello,
dir. J. Latham-Koenig
Info: teatroregio.torino.it
Filarmonica
 Teatro Vittoria
10 Françaix, Gounod, Jacob e a.;
fl. G. Pretto
 Conservatorio
12 Françaix, Gounod, Jacob e a.;
fl. G. Pretto
Info: oft.it
Polincontri Classica
 Politecnico
11 Bach, Beethoven, Prokof’ev;
vl. C. Conrado, pf. A. Valentino
18 Orchestra della Brigata Alpina
Taurinense
Info: policlassica.polito.it
Treviso
TVCINEMACINEMATVTVCINEMACINEMATV
 Teatro Comunale
CAMPI SONORI IN COFANETTO CD
La storica collana dedicata agli autori italiani contemporanei
4 CD, 24 brani di 15 autori dal catalogo Curci, un
booklet con le biografie dei musicisti e la guida
all’ascolto. I Compositori presenti nel cofanetto sono:
Morricone, Manzoni, Solbiati, Bettinelli, Chailly,
Di Bari, Mannino, Oppo, Bo, Cardi, Piacentini,
Fellegara, Ravinale, Semini, Molino. I brani sono
anche acquistabili come spartiti con allegato il CD.
Il progetto continua, con un brano di Cifariello
Ciardi (Buleria a quattro) scaricabile su iTunes.
16 s. C. Forte, pf. M. Baglini
27, 29, 31 Rossini, L’italiana in Algeri;
dir. F. Ommassini, reg. G. Emiliani
Info: teatrispa.it
CINEMA
Doppio appuntamento nel mese di gennaio nelle sale UCI Cinemas. Si
parte il 24 con La bisbetica domata, live da Mosca (distribuzione Nexo
Digital). Molti pretendenti sognano di sposare la deliziosa e docile Bianca, incluso Lucenzio. Ma il padre di Bianca metterà i bastoni tra le ruote,
dovendo fare i conti anche con la sorella maggiore, l’irritabile bisbetica
Katherina. Musica di Dmitri Šostakovič, coreografia di Jean-Christophe
Maillot, con il corpo di ballo e le Étoiles del Teatro Bol’šoj. Si prosegue il
26 con Rapsodia e I due piccioni, (distribuzione QMI). La musica cupa,
conturbante e geniale di Rachmaninov è in grado di ispirare alcune fra le
coreografie più emozionanti di Frederick Ashton per un balletto acuto,
appassionato, sublime, che rappresenta l’apice del suo stile romantico. La
seconda metà dello spettacolo è costituita dal delicato, e apparentemente
comico, I due piccioni, un lavoro raramente rappresentato, una delizia per
i fan del balletto di tutto il mondo. Info: ucicinemas.it
Trieste
 Teatro Verdi
29, 30, 31 Bellini, Norma;
dir. F.M. Carminati, reg. F. Tiezzi
Info: teatroverdi-trieste.com
 Conservatorio
11 Widor, Giseking, Schulhoff;
fl. L. Trufelli, pf. I. Cognolato
12 Jam Sessions
18 Hatze, Berg, Rachmaninov;
s. A. Tomisic, pf. S. Masseroli
Mazurkiewicz
25 Brahms, Barison, Ravel;
vl. F. Falasca, pf. L. Cossi
Info: conts.it
Società dei Concerti
 Teatro Verdi
13 Mendelssohn; pf. R. Prosseda
20 Mozart, Scrjabin; pf. F. Colli
Info: societadeiconcerti.it
V
Venezia
 Teatro La Fenice
1 Concerto di Capodanno, dir. J. Conlon
8 Brahms, Čajkovskij;
Orchestra Filarmonica della Fenice,
dir. O. Meir Wellber
11 Schubert, Beethoven;
Quartetto Noûs
22, 24, 28, 30 Verdi, Stiffelio;
dir. D. Rustioni, reg. J. Weigand
29 Verdi, La traviata; dir. D. Rustioni,
reg. R. Carsen
Il Faust di Gounod per la regia di David McVicar su Classica HD il 12
Cristina Zavalloni, il 25
al Teatro Comunale di Vicenza
con I Fiati associati
TELEVISIONE
Classica HD (Sky 138) offre anche in gennaio un ricco calendario di appuntamenti: il 14 una serata dedicata a Diana Damrau, per molti “il miglior soprano
del mondo”. Un documentario tutto al femminile, girato dalla film-maker Beatrix Konrd. Il pipistrello di Strauss sarà trasmesso il 19, con la leggendaria direzione di Carlos Kleiber e un cast d’eccezione: Brigitte Fassbaender, Pamela
Coburn e Eberhard Wächter. Il 12 protagonista il mito di Faust (Gounod) con la
nuova produzione del Covent Garden di Londra firmata da David McVicar ed
Evelino Pidò. Protagonista Vittorio Grigolo. Il 27 omaggio per il Giorno della
Memoria: Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg e, a seguire, la
sublime interpretazione di Leonard Bernstein del Requiem di Mozart. Info:
classica.tv . Su Rai5 da non perdere il 1 alle 21,15 la trasmissione in differita
del Concerto di Capodanno dal Musikverein di Vienna: a dirigere i Wiener
quest'anno è Mariss Jansons (live su Rai2 alle 13,30) e il 7 (ore 21.15) la diretta
del concerto dell’Orchestra Rai con il direttore James Conlon. Info: rai5.rai.it
Verona
 Teatro Filarmonico
9, 10 Mozart, Schubert, Beethoven;
16, 17 Čajkovskij, Liszt;
dir. e reg. V. Bresciani
31 Rossini, La Cenerentola;
dir. S. Rolli, reg. P. Panizza
Info: arena.it
Vicenza
 Teatro Comunale
9 Beethoven; Hèsperos Piano Trio
18 Haydn, Veress, Schubert;
Orchestra del Teatro Olimpico,
vlc. e dir. N. Altstaedt
25 I Fiati associati, v. C. Zavalloni
30, 31 Čajkovskij, Lo schiaccianoci;
cor. Petipa
Info: tcvi.it
 Teatro Malibran
23, 26, 31 Hazon, Agenzia
matrimoniale; Wolf-Ferrari,
Il segreto di Susanna;
dir. E. Calesso, reg. B. Morassi
Info: teatrolafenice.it
Acquistabile in digital download su iTunes, Mondadori Shop, Nokia Music
Store, Halidon; in e-commerce (spedizione a casa) su Halidon, Ibs e Ebay
e presso i negozi: Fnac, Feltrinelli, Mondadori, Bottega Discantica (MI),
Bongiovanni (BO), Gabbia (PD), Allegretto (RM), Le Fenice (FI).
127Amadeus
www.proradiotv.com
“Il figlio maggiore
si trovava nei campi, e mentre tornava
udì la musica e le danze.”
Bel Vivere S.r.l.
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belviveremedia.com
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Hanno collaborato: Claudia Abbiati, Valentina Bonelli, Antonio
Brena, Alessandro Cannavò, Alberto Cantù, Federico Capitoni,
Valerio Cappelli, Paolo Cattelan, Franca Cella, Guy Cherqui, Michele
dall'Ongaro, Carlo Delfrati, Luigi Di Fronzo, Pietro Dossena, Franco
Fayenz, Cesare Fertonani, Paolo Gallarati, Giovanni Gavazzeni,
Flaminio Gualdoni, Giuseppina La Face Bianconi, Ambrogio Maestri, Gianluigi Mattietti, Piero Mioli, Giordano Montecchi, Gregorio
Moppi, Francesca Mulas, Ettore Napoli, Giorgio Pestelli, Paolo
Petazzi, Gianfranco Ravasi, Marco Riboni, Emilio Sala, Andrea
Schenardi, Luisa Sclocchis, Giuseppe Scuri, Nicoletta Sguben,
Edoardo Tomaselli, Ida Zicari
Fotografie: Wilfredo Amayal (90, 91); Hermann und Clärchen Baus
Staatsoper Berlin (39); Marco Brescia/Teatro alla Scala (48, 70); Felix
Broede (69); Conservatorio di Milano (89); Luigi Caputo (61); Rocco
Casaluci (39, 49); Marco Caselli Nirmal (51); Michele Crosera/Teatro
La Fenice (48); Barbara Dal Porto (76, 77); Decca (55, 56); Paolo
Didonè (75); Richard Egli (83); Filarmonica della Scala/Luca Piva
(51); IceMusic-GraemeRichardson (6, 7, 8, 9); Frederic Godard (41);
Mat Hennek (42); Yasuko Kageyama-Opera Roma (50); Luca Piva/
Filarmonica Scala (51); Bruno Pulici (20, 21, 23, 27, 30); Quartetto
Italiano/Decca (55); Roh/Clive Barda (63); Roh/Catherine Ashmore
(63); Rota (47); Sony Classical / Julien Mignot (35, 37); Francesco
Squeglia (40); Priamo Tolu (49); John Tramper (60, 61); Bernd Uhlig/
Opéra national de Paris (49)
Illustrazioni: Jolanda Codognato (96); Nadia Cumbo (89)
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PAROLA E MUSICA
LA CONVERSAZIONE
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Paolo Giordano
Da ragazzo una chitarra elettrica, oggi Pärt, Glass, Ligeti, Reich come
pure Barber e Britten. Uno scrittore racconta la "sua" musica
È
laureato in fisica teorica e i
calcoli matematici hanno certo
ispirato il suo romanzo più celebre,
La solitudine dei numeri primi. Eppure
Paolo Giordano ha sempre ignorato della
musica quell’aspetto, pur incontestabile,
di scienza esatta. «I numeri e le simmetrie
mi sono sempre piaciuti, ma per la
musica preferisco una chiave di lettura
emotiva». Torinese, 33 anni, Giordano è
cresciuto in un ambiente borghese (il padre
ginecologo, la madre insegnante) in cui
la musica in qualche modo aveva il suo
posticino. «Ma in modo non sistematico e
non certo con passione da parte mia per lo
studio», ammette. «Mia sorella suonava il
pianoforte; io, forse anche per divincolarmi
più velocemente dagli obblighi delle
esercitazioni, ho imbracciato la chitarra
dai 7 ai 16 anni. Ma oggi non saprei
letteralmente suonare niente!».
Il papà, invece, “invadeva” la casa con le
note della classica. Poi a un certo punto
mise le cuffie. «E quando io cominciai la
mia fase adolescenziale con la predilezione
per la musica “rumorosa”, dagli assoli
catatonici di chitarra elettrica al metal più
spinto, lui ogni tanto socchiudeva la porta
della mia camera da letto e chiedeva: “chi
è che si lamenta oggi?”». Dichiarata la
sua distanza dalla conoscenza musicale,
Giordano può esprimere il suo sconfinato
amore per la musica. «Ho cominciato a
godermela proprio quando ho deposto
l’idea di diventare un giorno musicista. E
ho scoperto negli autori della musica colta
contemporanea un mezzo di elevazione di
sensibilità, di ispirazione per il mio lavoro
di scrittore. Ascolto Arvo Pärt, Philip
130 Amadeus
Glass, Gyorgy Ligeti, Steve Reich: tutto
un mondo che peraltro ha influenzato la
musica elettronica».
Rarefazione, ossessione, spiritualità:
sono gli elementi che Giordano coglie
nei compositori che lo accompagnano
nella scrittura. Come quando si immerse
nella trama del suo secondo romanzo Il
corpo umano, storia di rapporti tra soldati
e soldatesse italiani ventenni catapultati
nello scenario infernale e allo stesso tempo
metafisico dell’Afghanistan.
«In quel periodo ascoltavo in maniera
paranoica l’Adagio di Barber, che peraltro
è anche nella colonna sonora di un film
come Platoon; o anche il War Requiem
di Britten. Oltre naturalmente a un po’
di metal. Per me scrivere è sempre un
impegno, talvolta una sofferenza. In certe
giornate in cui resti anche ore davanti
a un foglio vuoto, la musica è un buon
distrattore e aiuta l’immaginazione attiva».
La solitudine dei numeri primi lo proiettò,
poco più che ventenne, a un successo
internazionale (due milioni di copie
vendute nel mondo). Si è sentito Giordano
simile a certi geni precoci della musica
come Mozart o Schubert?
«Mi ritengo totalmente fuori dall’idea
del giovane genio, come lo erano
effettivamente Mozart o Carl Friedrich
Gauss a cui si deve la matematica
dell’era moderna. Il fatto è che l’exploit
di un ventenne risulta fuori dagli
standard di una società che frena in
molti campi, tra cui l’arte, l’espressione
e il riconoscimento dei giovani talenti.
Detto questo, c’è qualcosa di irripetibile
che si produce nei tuoi vent’anni: ed è la
spregiudicatezza di quell’età, la mancanza
di sovrastrutture che andando avanti
nel tempo inevitabilmente acquisisci.
Da quella vitalità libera possono nascere
i capolavori. Ecco, la musica è un mezzo
potente che mi fa tornare a quella
dimensione. Ai miei vent’anni...».
di Alessandro
Cannavò
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