314 Amadeus ANNO XXVIII - GENNAIO 2016 Il mensile della grande musica ANNO XXVIII - NUMERO 1 (314) GENNAIO 2016 EURO 11,00 MENSILE POSTE ITALIANE SPED. IN A. P - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, LO/ MI Musica&Giubileo / Quartetto Italiano / Shakespeare / Michieletto / Grubinger / Bauermeister-Stockhausen Musica e Giubileo CD1 ESCLUSIVO Cantare con giubilo Cappella musicale del Duomo di Milano CD2 download Trio Kanon In tre per Beethoven Amadeus Anniversari William Shakespeare Registi d'oggi Damiano Michieletto Storia&Storie Il Quartetto Italiano Cappella musicale del Duomo di Milano 60001 9 771120 454004 numero 314 gennaio 2016 € 11,00 2 Amadeus Amadeus 3 AGORÀ Wolfgang Amadeus Mozart Le Serenate Accademia Litta Carlo De Martini, concertazione Cofanetto 6 cd + booklet con guida all'ascolto a soli 25 euro Una raccolta speciale da collezione con tutte le Serenate del grande compositore austriaco. Una registrazione che conquisterà gli amanti della grande musica. 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E quale evento è più importante di un Giubileo per il mondo cristiano? L’Anno Santo della Misericordia, proclamato da Papa Francesco, è stato inaugurato il 29 novembre lontano da Roma, nel cuore dell’Africa, dove regna la guerra e la misericordia sembra un sentimento assente. Il Papa con un semplice gesto –­­ la Porta Santa aperta a Bangui – e con semplici parole «Vinca l’amore e non le armi», ha voluto ricordare a un mondo distratto che il terreno fertile per la misericordia si trova là dove più si soffre. Una copertina e un disco dedicati al Giubileo proclamato da Papa Francesco. Contro il pericoloso silenzio di un mondo senza musica Ma, come disse Heinrich Heine, «dove finiscono le parole inizia la musica», e poiché di musica ci occupiamo, per celebrare l’anno del Giubileo abbiamo ripercorso la storia della Cappella Musicale del Duomo di Milano con l’aiuto di monsignor Claudio Burgio, direttore della prestigiosa istituzione. Il risultato è il cd che avete tra le mani: una registrazione che, a volo d’uccello, ci presenta alcuni dei protagonisti della compagine vocale che, dal 1400 ai giorni nostri, è stata la colonna sonora della vita religiosa della cattedrale. Ascoltando queste composizioni abbiamo avuto l’ennesima conferma di come il linguaggio musicale sia per tutti, credenti o meno, la via più diretta per tradurre le parole in preghiera e tensione spirituale. Ma, come ci ricorda lo stesso Cardinal Ravasi, più che la mancanza delle parole è la mancanza di musica che spaventa gli uomini. In conclusione del suo scritto cita Cassiodoro, scrittore cristiano del VI secolo, che ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza musica». Altri prima e dopo di lui hanno ritenuto che l’assenza della musica potesse essere considerata una punizione: Ulisse per esempio quando, tornato a Itaca fa strage dei Proci, risparmia soltanto Femio, il musico; più tardi Cicerone affermerà che «una vita senza musica è come un corpo senz’anima», mentre Nietzsche giudica «un errore un mondo senza musica». Potremmo continuare all’infinito. Anche Amadeus vuol dare il suo piccolo contributo per impedire il pericoloso silenzio di un mondo senza musica e per far suo il messaggio di pace del Papa affidandosi alle voci dei cantori (in maggioranza voci bianche) della Cappella del Duomo di Milano. Gaetano Santangelo Amadeus 5 CONCERTI/ ABBONAMENTI DALL’1 DICEMBRE 2015 OPERA E DANZA / ABBONAMENTI DALL’11 NOVEMBRE 2015 MICHELE MARIOTTI Beethoven ATTILA Giuseppe Verdi NIKOLAJ ZNAIDER Brahms, Schumann VANGELO opera contemporanea Pippo Delbono MICHELE MARIOTTI Mahler CARMEN Georges Bizet JONATHAN STOCKHAMMER Brahms, Haydn, Nielsen IL BARBIERE DI SIVIGLIA Gioachino Rossini NIKOLAJ ZNAIDER Rihm, Berg, Schubert LE NOZZE DI FIGARO Wolfgang Amadeus Mozart Al Manzoni LUCI MIE TRADITRICI Salvatore Sciarrino DMITRI LISS Dvořák, R. Strauss, Čajkovskij TITANIC Maury Yeston MARIO VENZAGO Beethoven, Bruckner CONVERSAZIONI CON CHOMSKY 2.0 Emanuele Casale JURAJ VALČUHA Brahms RIGOLETTO Giuseppe Verdi MICHELE MARIOTTI Beethoven, Mahler WERTHER Jules Massenet JURAJ VALČUHA Webern, Janáček, Taneev EL AMOR BRUJO el fuego y la palabra La Fura dels Baus ALEXANDER LONQUICH Mozart, Prokof’ev CARMEN K (KIMERA) Artemis Danza AZIZ SHOKHAKIMOV Poulenc, Prokof’ev, Chačaturjan EMPTY MOVES (PARTS I, II & III) Ballet Preljocaj Festival KISS & CRY Michèle Anne De Mey & Jaco Van Dormael BOLOGNA MODERN Festival per le musiche contemporanee ORCHESTRA, CORO E TECNICI DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA INFO FABIO BIONDI Mozart 051-529958 I CONCERTI TORNANO AL TCBO GRAZIE A T C B O. I T MICHELE MARIOTTI Beethoven, Mahler Grandangolo Uno xilofono di ghiaccio. E violini, viole, violoncelli, contrabbassi, un banjo, un mandolino, chitarra, batteria e varie percussioni tra cui una sorta di gigantesco flauto di pan. Sono gli strumenti interamente costruiti a mano dall'artista "glaciale" Tim Linhart, fondatore di Ice Music nel suo laboratorio di Luleå, città marittima nella Lapponia svedese. Sono delicatissimi, crearli richiede pazienza estrema e la giusta temperatura perchè il ghiaccio possa essere scolpito senza rompersi. Anche la Ice Orchestra deve maneggiarli con estrema cura: i violini vengono suonati mentre sono appesi al soffitto e un guscio di plastica protegge le parti più sottile dal calore del respiro dei musicisti (continua a pag.8). Foto di Graeme Richardson-Ice Music A Luleå, d'inverno è sempre buio e la temperatura scende sino - 16°. Nell' ex cantiere navale di Gültzauudden, che oggi è un parco attraversato da sentieri di ghiaccio, due grandi igloo trasformati in una sala da concerto per 200 persone ospitano ogni anno da metà gennaio a metà marzo i concerti di Ice Music. Atmosfera magica, illuminata con i colori dell'aurora boreale, ventilazione, temperatura costante di - 5°per preservare gli strumenti, musicisti e pubblico in giacca a vento, guanti e cappello, programmi che vanno dalla classica alla contemporanea, dal jazz al folk. Info: icemusic.se T H E R O YA L B A L L E T SOMMARIO 5 Agorà di Gaetano Santangelo 6Grandangolo 15 Il lettore 16Quattro/quarti di Michele dall’Ongaro, Giovanni Gavazzeni, Giordano Montecchi, Giorgio Pestelli 20 IL DISCO “Cantate cum jubiloˮ 32 di Gianfranco Ravasi Cappella Musicale del Duomo di Milano di Andrea Milanesi IL DOWNLOAD Trio Kanon di Claudia Abbiati 35 IN SCENA Anteprima La critica 54 Quartetto Italiano: Borciani, Pegreffi, Rossi e Forzanti, poi Farulli e Asciolla. Tra fatture e ricomposizioni il racconto di 30 anni di straordinaria musica d'insieme, alla ricerca della perfezione AMORE E MAESTRIA SU UNA MUSICA INCANTEVOLE RHAPSODY OSIPOVA | STEVEN MCRAE MUSICA SERGEY RACHMANINOFF CON NATALIA THE TWO PIGEONS CUTHBERTSON | VADIM MUNTAGIROV | LAURA MORERA MUSICA ANDRÉ MESSAGER | ARRANGIAMENTI JOHN LANCHBERY COREOGRAFIA FREDERICK ASHTON | DIRETTORE D’ORCHESTRA BARRY WORDSWORTH CON LAUREN IN DIRETTA AL CINEMA IL 26 GENNAIO - ORE 20:15 www.rohalcinema.it 12A è il grado di censura previsto dal British Board of Film Classification per tutti gli spettacoli: tutti i minori di 12 anni devono essere accompagnati da un adulto Vadim Muntagirov as The Young Man and Lauren Cuthbertson as The Young Girl in The Two Pigeons (©2015 ROH. Photographed by Bill Cooper) 53 Appunti 54 Storia&Storie: Quartetto Italiano di Gregorio Moppi 58 Anniversari: William Shakespeare di Massimo Rolando Zegna 63 Damiano Michieletto di Valerio Cappelli 68 Martin Grubinger di Luigi di Fronzo 72 Bauermeister & Stockhausen 75 Tendenze: Cambio vita di Edoardo Tomaselli 80 Antica di Massimo Rolando Zegna 81 Musicaoggi di Paolo Petazzi 82 All’opera di Emilio Sala 83 Danza di Valentina Bonelli di Federico Capitoni 58 William Shakespeare: a quattro secoli dalla scomparsa, i rapporti del grande drammaturgo inglese con la musica, elemento indissolubile nella rappresentazione delle sue opere SOMMARIO 84 Jazz di Franco Fayenz 86 Fuoritema di Riccardo Santangelo I nostri Club pluripremiati vi offrono un mondo di sport & benessere che dura una vita. 87 Fondazione Amadeus 88 Education di Carlo Delfrati e Pietro Dossena 90 Note di viaggio di Luigi di Fronzo 92 Note d’arte di Flaminio Gualdoni 94 Mecenati di Edoardo Tomaselli 96 A tavola con Falstaff di Ambrogio Maestri 99 LIBRI 99 Lo scaffale di Paola Molfino 102 Hi Tech di Andrea Milanesi 106 News in studio di Giuseppe Scuri 109 DISCHI Nessuno vi offre sport & benessere come noi Se il vostro obiettivo per l’anno nuovo è quello di ridurre lo stress, perdere peso o semplicemente sentirvi al meglio, scegliete il Club che vi permette di raggiungere i risultati. Iscrivetevi oggi e vi garantiamo che sentirete la differenza in 90 giorni * 63 Damiano Michieletto: amato contestato, desiderato, invidiato, è il regista del momento. Lui rifiuta etichette, cerca lo stupore, raccontando storie eterne con la lingua del nostro tempo CD 1 CANTATE CUM JUBILO La Musica del Giubileo nel Duomo di Milano dal Canto ambrosiano ai giorni nostri 119 Imperdibili di Gianluigi Mattietti CAPPELLA MUSICALE DEL DUOMO DI MILANO don Claudio Burgio, direttore 120 CALENDARIO guida all’ascolto di Emanuele Carlo Vianelli 130 La conversazione di Alessandro Cannavò CD 2 in download LUDWIG VAN BEETHOVEN Trii per pianoforte e archi op. 70 n. 1 “I fantasmi” e op. 97 “L'arciduca” Trio Kanon codice TK314LB16 Amadeus Periodico di cultura musicale edito da Bel Vivere S.r.l. Anno XXVIII numero 1 (314) gennaio 2016 Direttore responsabile Gaetano Santangelo In copertina, Cappella del Duomo di Milano (Foto di Bruno Pulici) amadeusonline.net T: 02 45 28 677 aspria.com * Iscrivetevi questo mese e utilizzate la nostra garanzia di soddisfazione valida 90 giorni. IL LETTORE SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE. REFLEX Restare “giovani” R Le avventure degli archeologi divorati dalla febbre della ricerca: dalla città Z in Amazzonia all’El Dorado dei conquistadores, dal furto della “Natività” di Caravaggio all’arte trafugata dai nazisti. E inoltre: Re Davide, fantasma biblico; i regali sotto l’albero dei bisnonni; la Spagna dei califfi, D’Annunzio, Maria Antonietta. FOCUS STORIA. OGNI MESE LO SPETTACOLO DEL PASSATO. Disponibile anche in versione digitale su: Abbonati su: www.abbonamenti.it/storia isulta difficile nel nostro Paese stabilire a che età un concertista cessa di essere un giovane interprete. Forse sarà perché, a quanto si dice, non ci sono più le mezze stagioni e ne consegue che anche le stagioni della nostra età hanno perso punti di riferimento certi. In campo musicale sorge spontanea la domanda: quando un giovane interprete finisce di essere giovane per essere solo un interprete? Dove collochiamo quelli che sono usciti vincitori da competizioni internazionali da molti anni e quelli che hanno già intrapreso la carriera concertistica dimostrando di avere tutti i numeri per emergere dalla palude che diversamente potrebbe diventare una trappola da cui è difficile uscire? Non sono, a tutti gli effetti, interpreti e basta? Il trentenne o quarantenne che ha appena concluso una tournée internazionale è sì un giovane interprete, ma è ancor più un artista che sta facendo carriera. Il fatto che in Italia sia ancora sconosciuto, o quasi, non può giustificare che lo si consideri ancora giovane nonostante sfiori i 40? Non è per caso un alibi volto a giustificare la nostra ignoranza? In un paese come l’Italia dove c’è scarsa cultura musicale il giovane interprete farà sempre più fatica a imporsi. E anche l’età per entrare tra gli artisti dove all’aggettivo giovane si sostituisce l’aggettivo grande o prestigioso si sposta in avanti. Continuerà a essere un giovane interprete in attesa che il terreno che si trova davanti si liberi dai mostri sacri che occupano ancora la scena e, come è giusto, non hanno nessuna intenzione di farsi rottamare. Tra le cause che determinano questo stato di cose ve n’è una di fondamentale importanza: in Italia manca uno dei fattori trainanti per la carriera di un musicista: un’industria discografica degna di tal nome. Le cause sono molteplici, ma la più importante è certo quella che deriva dalla scarsa educazione musicale, che rende un deserto il mercato della musica nel Paese che alla musica ha dato i natali. Poi forse c’è un’altra inconfessata ragione: i “giovani”, si possono anche pagare poco. Penuria di pubblico: questione di numeri o di cultura? Caro Direttore, su Amadeus di ottobre Oreste Bossini stigmatizzava, giustamente, i vuoti in Scala per il concerto in agosto della Boston Symphony Orchestra diretta da Andris Nelsons (Sesta di Mahler), due nomi di alto profilo artistico, nell’ambito del contributo scaligero a Expo. Tre mesi dopo, in occasione di una replica domenicale del Wozzeck, chi scrive è stato testimone di una situazione analoga. Mortificante per un Teatro che ambisce a essere il migliore del mondo. L’articolo conteneva altre considerazioni, la più importante delle quali era forse questa: «Si ha la sensazione di avvertire uno scollamento della Scala dalla vita della città». E poco più avanti chiedeva se non «sia necessario anche per la Scala stringere una nuova alleanza con il pubblico del territorio». In realtà, questo pubblico non esiste; o meglio, c’è ma è fatto in prevalenza di sponsor, stranieri, frequentatori per diritti acquisiti di varia natura, addetti ai lavori, che appaiono interessati in prevalenza alla Scala come sede non di cultura da vivere ma di evento da consumare, al quale non si può mancare. Può interessare a questo pubblico una grande Orchestra internazionale o un’opera come quella di Berg ritenuta “difficile” perché estranea al repertorio italiano, di cui nessuno contesta il valore ma nel quale non si risolve la cultura musicale e ritenuto poco impegnativo all’ascolto? Tutto questo andrebbe bene se si parlasse di un Teatro privato e non di un Teatro che riceve sostanziosi contributi pubblici per il suo consistente budget (120 milioni nel 2015). Ma in discussione non è tanto, o non solo, la programmazione bensì il marketing: dovrebbe essere compito suo scovare titolo per titolo, progetto per progetto, i diversi “pubblici”, che pure esistono, liberandosi finalmente del dogma che la Scala si “vende da sola”, come una qualsiasi griffe o ristorante di lusso. In chiusura, Bossini definisce “scriteriati” gli otto milioni di euro spesi da Expo per lo «spettacolo del Cirque du Soleil». In verità gli spettacoli, belli, sono stati più di centoventi in quattro mesi per oltre 400.000 spettatori. Scriteriato, casomai, è stato farsi carico del progetto Feeding Music (a che costo?), fuori target in quel contesto internazional-popolare come la scarsa affluenza di pubblico ha evidenziato, e affidarne i 18 concerti solo a due Ensemble locali. Ettore Napoli Riassumendo, la domanda che sta dietro all’Agorà di Oreste Bossini (Amadeus n. 311) e alla lettera di Ettore Napoli (qui riprodotta) è: come è possibile che una proposta come l’esibizione della Boston Symphony Orchestra diretta da Andris Nelsons ai Proms di Londra richiami 6.000 spettatori e a Milano, lo stesso programma, la Sinfonia n. 6 di Mahler, non riesca a metterne insieme, in uno dei teatri più prestigiosi del mondo e con una manifestazione come Expo2015 in corso, i 2.000 spettatori circa, sufficienti a riempire Palchi, platea e gallerie? E quanti spettatori dovrebbe richiamare un’opera come Wozzeck, composta da Alban Berg nel 1922 e prossima ai cento anni di vita? Anche se non è mia abitudine fare scommesse, posso azzardare un’ipotesi: a Vienna, a Londra o a Parigi registrerebbe il tutto esaurito, come da noi La bohème o La traviata. Pur non concordando tra loro sulle motivazioni che determinano la latitanza del pubblico in occasioni praticamente imperdibili, i numeri sono numeri e almeno su questi Bossini e Napoli sono d’accordo. Il problema si presenta in tutta la sua gravità se consideriamo che quanto lamentano i nostri collaboratori si potrebbe tranquillamente estendere alla maggior parte delle sale da concerto italiane: programmi ripetitivi per volontà della platea e calo inarrestabile di spettatori. Vorrei porre a Napoli e a Bossini una domanda: non è che per caso si tratta semplicemente di un fatto puramente culturale? Siamo o non siamo, nonostante i proclami governativi, il fanalino di coda per investimenti in cultura, siamo o no al penultimo posto tra i 27 paesi europei nella classifica degli investimenti per l’istruzione? Vorremmo che qualcuno ci rispondesse con argomenti seri dimostrando che questa è solo un modo per praticare lo sport nazionale più diffuso: parlare male del Governo. A noi non basta più che continuino a raccontarci che è stato aumentato il Fus di x milioni di euro, aumento che non copre neppure la perdita di valore della moneta europea di questi anni. Se abbiamo il più imponente patrimonio culturale del mondo è nostro dovere proteggerlo e valorizzarlo: vorremmo che una volta per tutte il ministero della cultura fosse collocato al primo posto per importanza e investimenti. Forse poco per volta si riempirebbero i vuoti che lamentano Bossini e Napoli. Gaetano Santangelo Lettere al Direttore [email protected] facebook.com/Amadeus.Rivista twitter.com/AmadeusOnlineIT Amadeus 15 [email protected] I Jeu de cartes Cronaca minima C’è musica su Marte Repert(or)i CHE FARE? UNA POLTRONA PER RAVELLO PERDERE LA PACE VELATA SINFONIA Michele dall'Ongaro Giovanni Gavazzeni Giordano Montecchi Giorgio Pestelli l Grande Pianista ed io ci guardiamo perplessi. Il suo concerto cade proprio il giorno dopo la strage di Parigi e condividiamo l’esigenza di dire qualcosa al pubblico. Dopo averci pensato un po’ ripieghiamo, non senza frustrazione, sul tradizionale “minuto di silenzio”. La sensazione è che la musica, la “nostra” musica, possa fare ben poco. È vero: dove si soffre spunta inevitabilmente un canto nato per consolare, incoraggiare, spronare le vittime. Peccato che, specularmente, se ne oda un altro che sostiene, rincuora e fomenta i carnefici. Coloro che intonavano la Nona di Beethoven a Terezín adoravano quella partitura quanto chi applaudiva prima di spedire gli interpreti nei campi di sterminio. Un bel giorno non si eseguì più perché erano scomparsi tutti. Questa volta c’è una novità poiché l’attuale “nemico” odia gran parte della musica che abitualmente ascoltiamo, i generi e i contesti a noi più familiari (come ad esempio un locale come il Bataclan). Quindi la musica in sé (ad eccezione delle forme “raccomandate” o “encomiabili”) è o dovrebbe essere antagonista. È sufficiente per restituire alla musica un significato “politico” senza distinzione di generi e schieramenti? Non ho una risposta ma penso alle contraddizioni che dibattiti di tal genere, quasi esclusivamente in Italia, hanno sollevato confondendo progressismo (esistente in politica) e progresso (inesistente in arte). A causa di queste contraddizioni si è arrivati a bollare come reazionario un socialista, militante per i diritti civili degli omosessuali come Benjamin Britten ed esaltare il progressismo di Anton Webern, geniale totem della Neue Musik quanto fervente e perfino patetico ammiratore (non ricambiato) del Terzo Reich. Che l’equazione facesse acqua alfine si è capito, come pure che due straordinari protagonisti del pensiero musicale del Novecento potevano sopravvivere a tutti i fraintendimenti possibili. Compresi i peggiori. 16 Amadeus 4/4 4/4 I l vento delle dimissioni (che soffia così di rado sulla Penisola), dopo aver spazzato i vertici MiTo, fra Milano e Torino, è soffiato come tramontana sulla meravigliosa Costiera Amalfitana. Il Presidente di Ravello Festival, designato da pochi mesi, il sociologo molisano Domenico De Masi, già occupante la suddetta carica per due mandati nell’evo bassoliniano, si è dimesso, insieme a una trojka di consiglieri. Lettere, verbali, nomine mancate, conti in sofferenza, risorse mancate, vengono addotti come impedimenti alla realizzazione del grandioso progetto: «fare di Ravello una Salisburgo del Sud-Europa, destagionalizzando il turismo». Ambizione che partiva con qualche diversità rispetto al modello austriaco. Alla fondazione e al direttorio del Festival di Salisburgo, invece del sociologo di Rotello (CB) e dei suoi collaboratori, attesero artisti e intellettuali che si chiamavano Richard Strauss, Max Rheinhardt, Hugo von Hofmannsthal, Alfred Roller, Franz Schalk, Stefan Zweig. E soprattutto era residente nel periodo festivaliero l’Orchestra Filarmonica di Vienna, già allora una delle migliori del mondo. Tutti i maggiori direttori d’orchestra della storia moderna, da Toscanini a Bruno Walter, da Furtwängler a Karajan, da Solti a Muti, ebbero a disposizione per i concerti e le opere in cartellone questa formazione unica. Senza questo strumento, il sogno di un Salisburgo mediterranea diventa utopia, abbaglio, velleità, a seconda dei punti di vista. Non è la prima volta che il salto del banco viene determinato più dal risiko delle poltrone che dall’opposizione a illuminati quanto vasti programmi socio-culturali. Per ora ci sono i conti dei fornitori da pagare e una nuova short list di “governanti” da nominare. Storia italiota esemplare: il naufragio prima del varo. S tavo giusto preparando un testo sul kamancheh e/o rebab, cioè il violino di quella parte di mondo che si estende dal Nord Africa fino alle regioni transcaucasiche e oltre, fino ai confini della Cina e dell’India, quando sono esplose le notizie del massacro di Parigi. Per chi nutre una profonda ammirazione per la storia, l’antica civilizzazione e, naturalmente, la musica di quei popoli in prevalenza di fede islamica, siano arabi, iraniani o caucasici, questi fatti tragici si caricano di una ulteriore simbolica crudeltà. In quanto testimoniano l’inesorabile, straziante mutazione di una nobile, antica affinità e il seppellimento di una plurisecolare e feconda osmosi di tratti culturali. Non mi riferisco tanto agli splendori musicali e al multiculturalismo di al-Andalus, sotto il dominio degli Omayyadi, o alla corte di Alfonso x el Sabio, momenti forse fin troppo mitizzati dalla vulgata storica, sempre alla ricerca di “epoche d’oro” (e come non comprenderlo!) in cui popoli e culture diverse andavano d’amore e d’accordo, magari cantando e suonando insieme. Per non dire, poi, dell’enorme contributo che la musica araba ha dato al formarsi della lirica trobadorica e, di lì, a un’infinità di altri caratteri musicali e poetici assimilati dalle lingue romanze. No, non è a questo che penso. Mi limito a questo meraviglioso strumento ad arco, già descritto fra IXXsecolo da al-Farabi e dal quale, per rivoli e metamorfosi innumerevoli, si è diramata la gloriosa discendenza degli strumenti ad arco del Vecchio Continente. Certo, il kamancheh è mille leghe lontano dalla forza e dallo spessore di uno Stradivari, eppure consente sottigliezze e colori che nessun violino può emulare: una diversità che è una grande benedizione. Curt Sachs diceva con ragione che a ogni progresso corrisponde una perdita. È proprio per questo che siamo soliti rimpiangere il buon tempo antico. Ma che progresso significhi perdere per sempre la pace, no, è un prezzo troppo alto. L e Sonate per pianoforte solo di Johannes Brahms fanno parte di quelle musiche ancora manoscritte che Brahms ventenne suonò in casa di Robert e Clara Schumann nel settembre 1853 a Düsseldorf; snodo storico epocale, incontro leggendario fra la giovane aquila e il grande maestro già assediato dalla malattia nervosa, eppure lucidissimo nell’intuizione critica: un piatto già servito per programmi “a tema”, accostamenti e confronti. Eppure solo la Terza di queste Sonate, l’op.5, è entrata nel normale repertorio di concerti e registrazioni, la Seconda vi appare di rado, la Prima, l’op.1 in do maggiore, talmente di rado che si può dire mai; per assistere al suo effetto in sala, nella cornice di un pubblico concerto, sono andato a Genova dove il giovane pianista moscovita Lukas Geniušas l’ha inserita nella serata inaugurale della GOG. Intanto, è uno splendido pezzo da concerto e non si capisce la sua latitanza nei programmi; poi, a parte la sua torrenziale inventiva e altri meriti particolari, la Sonata op. 1 testimonia nel modo più chiaro la definizione data da Schumann di “velate sinfonie” di quelle composizioni pianistiche: il suono dei corni poco prima della ripresa del primo movimento quasi si tocca con mano, nel finale un tema ricorda il Mendelssohn della “Sinfonia Scozzese”, senza naturalmente che la scrittura pianistica sappia di trascrizione. Dopo l’esordio, con lo scoperto omaggio al Beethoven dell’op. 106, è poi curioso quanto sia presente Liszt, autore da cui Brahms si sarebbe allontanato sempre più; non il Liszt aggressivo di ottave e accordi, ma quello pallido e decadente di tanti passi ornamentali, come improvvisando, della Sonata in si minore: conclusa pochi mesi prima e ascoltata da Brahms nella sua sosta a Weimar nel giugno dello stesso 1853: altro aspetto seducente di questa straordinaria “opera prima” che dovrebbe figurare più spesso in repertorio. Amadeus 17 12 numeri a soli 99 euro ogni anno 12 numeri e 24 cd (12 cd inediti + 12 cd in download) non perdere questa offerta! 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N.scadenza ......................................... ccv ................................ data....................................................................... firma ...................................................................................... Il disco “Cantate cum jubilo” Liberare IL CANTO Suoni, Bibbia, Giubileo e storia: tra fede, liturgia e musica una riflessione d'autore sul potere dell'ineffabile di Gianfranco Ravasi* *Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura E ra proprio un suono musicale a scandire l’avvio del giubileo ebraico dopo «sette settimane d’anni», come prescrive il cap. 25 del libro biblico del Levitico. Anzi, l’evento prendeva nome proprio dall’yobel, il corno d’ariete, il cui timbro cupo e potente lacerava l’aria e segnava l’inaugurazione di un anno di deror, cioè di liberazione, l’anno giubilare appunto: i clan ritornavano in possesso dei beni perduti o alienati durante il cinquantennio precedente, la terra era liberata dal lavoro agrario e lasciata “riposare”, si praticava la remissione dei debiti e la liberazione degli schiavi. Anche Cristo ricorre al lessico del giubileo per delineare la sua missione, nel discorso programmatico che tiene nella sinagoga del suo villaggio Nazaret. Ricorrendo a una citazione del profeta Isaia, egli dichiara di essere stato «mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli 20 Amadeus oppressi e a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Luca 4,18-19). Il cuore del giubileo ebraico e cristiano è, quindi, costituito dalla misericordia. Noi ora ci fermeremo, però, sul nesso tra musica e giubileo che, come si diceva, ha nel suo stesso nascere un evento sonoro, legato a uno strumento musicale primitivo ma suggestivo, il corno animale. A margine, ricordiamo che il IV Inno omerico assegna la nascita della musica al guscio vuoto di tartaruga sul quale il dio Ermes tende le corde creando un’armonia. Le strade che si aprono ora davanti a noi per una trattazione sono varie e molto estese e ramificate. Vogliamo solo evocarne alcune. Dedichiamo innanzitutto solo una breve annotazione al nesso specifico tra musica e anni santi nella storia della Chiesa. Il materiale è imponente, come è testimoniato da un saggio che Siegfried Gmeinwieser, professore all’Università tedesca di Amadeus 21 modo, il cosiddetto concentus, una melodia che si espande liberamente, anche con intervalli ampi. La sua caratteristica “tecnica” è spesso definita come “semisillabica”: infatti, se l’accentus tradizionale nella musica liturgica ha una sola nota per ogni sillaba, nel concentus, invece, ogni sillaba può essere accompagnata da più note, dilatandosi e ramificandosi. Regensburg ha consacrato alla musica liturgica dei giubilei del Seicento e del Settecento, in occasione di un Congresso Internazionale svoltosi a Roma nel giugno 1999 sotto il titolo “I Giubilei nella storia della Chiesa”, alle soglie del grande anno santo del 2000, celebrato da San Giovanni Paolo II (Libreria Editrice Vaticana 2001, pagg. 546-561). Nella maggior parte dei casi si tratta di autori minori e persino altrimenti ignoti. Tanto per esemplificare, conosciamo un componimento intitolato La Chiesa trionfante «da cantarsi nel Palazzo Apostolico per la notte del 22 Amadeus santissimo Natale, nell’ingresso dell’anno di Giubileo» del 1699, regnante papa Innocenzo XII Pignatelli. In quello stesso anno santo si erano moltiplicati gli Oratori: un certo Mario Bianchelli ne aveva composto uno in onore di San Francesco di Paola, Pietro Paolo Bencini aveva elaborato a quattro voci L’innocenza protetta, mentre Severo De Luca aveva musicato il Martirio di Sant’Erasmo; Francesco Mancini, invece, aveva proposto L’amore divino trionfante nella morte di Cristo, mentre Carlo Cesarini si era dedicato al Trionfo della divina provvidenza ne’ successi di Santa Geneviefa, un “oratorio di un pastore arcade”, e di Francesco Grassi era l’oratorio Trionfo del giusto e così via. Tutto questo fervore musicale accompagnava il giubileo del 1700 che nell’ultimo mese aveva visto l’ascesa al soglio di Pietro di un nuovo papa, Clemente XI Albani. Per fare, invece, solo un esempio più vicino a noi, per il giubileo del 2000 il trentino Carlo Galante compose una Missa Solemnis Resurrectionis. Lasciamo, quindi, ai musicologi questa specifica investigazione dagli esiti artistici non particolarmente esaltanti, anche se in occasione degli anni santi si assisteva spesso al recupero e all’esecuzione di un repertorio più nobile precedente, un po’ come avviene ora nella raccolta presente nel cd allegato alla rivista, significativamente intitolato Cantate cum jubilo. Ebbene, vorremmo fermarci ora proprio su questo termine, jubilus, appartenente al lessico liturgico cristiano e ammiccante per assonanza all’yobel, il corno giubilare. Si tratta di un modulo musicale per certi aspetti virtuosistico: si pensi, per esempio, al lungo vocalizzo che si intesse nel gregoriano sull’alleluia pasquale, in particolare sulla a finale. Si configura, in tal La qualità interiore di questo genere musicale la descriveva suggestivamente Sant’ Agostino in un brano, presente nel suo commento al Salmo 32 (33): «Che cosa significa cantare nel giubilo? Comprendere e non sapere spiegare a parole ciò che si canta col cuore. Coloro infatti che cantano sia durante la mietitura, sia durante la vendemmia, sia durante qualche lavoro intenso, prima avvertono il piacere, suscitato dalle parole dei canti, ma, in seguito, quando l’emozione cresce, sentono che non possono più esprimerla a parole e allora si sfogano nella sola modulazione delle note. Questo canto lo chiamano “giubilo”. Il giubilo è la melodia con la quale il cuore effonde quanto non gli riesce di esprimere a parole. E verso chi è più giusto elevare questo canto di giubilo, se non verso l’ineffabile Dio? Infatti è ineffabile colui che tu non puoi esprimere. E se non lo puoi esprimere, e d’altra parte non puoi tacerlo, che cosa ti rimane se non giubilare? Allora il cuore si aprirà alla gioia, senza servirsi di parole, e la grandezza straordinaria della gioia non conoscerà i limiti delle sillabe». Dopo aver presentato questa libera connessione lessicale tra musica e giubileo, vorremmo allargare il nostro orizzonte e delineare in modo molto sommario il nesso della fede e della liturgia con la musica. Per sviluppare pienamente un simile tema sarebbe, infatti, necessario ritrascrivere buona parte della stessa storia della musica (si pensi solo ai Salmi o alle Messe). È emblematico il fatto che Bach ponesse in capo alle sue composizioni la sigla J.J., cioè Jesu Juva, «Gesù, aiuta!», e le suggellasse con l’altra sigla S.D.G., quel Soli Deo Gloria che esprimeva la sua convinzione che la gloria toccasse solo a Dio. La sua era una simbiosi sostanziale tra fede e musica, tra lode e canto, tra mistica e tecnica compositiva. È per questo che lo scrittore agnostico pessimista franco-rumeno Emil M. Cioran, nella sua opera Lacrime e santi non esitava a scrivere: «Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio… Dopo un Oratorio, una Cantata o una Passione Dio “deve” esistere… E pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!». Ci accontenteremo, dunque, di tracciare solo un profilo simbolico della presenza della musica in quel “grande codice” della nostra cultura occidentale che è costituito dalle Sacre Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento. All’interno della Bibbia c’è, infatti, una sorta di filo musicale che accompagna tutta la storia dell’essere e dell’umanità. Si tratta, però, di un approccio squisitamente teologico. La musica ha lo scopo di farci ritrovare un’armonia segreta e religiosa sottesa a tutta la realtà, anche a quella che può apparire “dissonante” o “assurda” (cioè “sorda”). La stessa creazione è affidata non a una teomachia, cioè a una lotta intradivina, come accade nella varie cosmologie dell’antico Vicino Oriente, bensì a un evento sonoro: «In principio... Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1,1.3). «In principio era la Parola... Tutto è stato fatto per mezzo di essa e senza di essa niente è stato fatto di ciò che esiste» (Giovanni 1,1.3). In un passo splendido dei discorsi finali di Dio che suggellano il libro di Giobbe il Creatore è raffigurato nell’atto di collocare la pietra di fondazione del cosmo, mentre «le stelle del mattino cantavano in coro e tutti i figli di Dio (cioè gli angeli) gridavano la loro gioia» (Giobbe 38,6-7). È per questo che lo stesso creato è concepito quasi fosse una musica cristallizzata, che ininterrottamente è disponibile all’ascolto Amadeus 23 umano: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento proclama l’opera delle sue mani..., senza discorsi e senza parole, senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce si espande per tutta la terra, sino ai confini del mondo la loro parola» (Salmo 19,2-5). Commentava S. Giovanni Crisostomo (IV secolo): «Questo apparente silenzio dei cieli è una voce più risuonante di una tromba: questa voce canta non ai nostri orecchi ma ai nostri occhi la grandezza di chi ci ha creati». È suggestiva questa idea di una “musica silenziosa” per la quale è necessario aprire una particolare sintonia o canale di ascolto. La musica, poi, per la Bibbia intride anche tutta la storia umana, esaltandola e rivelandone le tracce divine. La sua è, dunque, una funzione teofanica, svela cioè la presenza di salvezza o di giudizio di Dio all’interno delle vicende umane. Ci si imbatte, allora, in una lunga serie di canti di guerra il cui scopo è quello di mostrare l’azione del Dio liberatore: si pensi, per esempio, all’inno di Mosè durante la traversata del Mar Rosso (Esodo 15) o al cantico finale del libro di Giuditta (capitolo 15) entrambi accompagnati dall’evocazione di strumenti musicali. Ci sono, poi, i canti funebri, come quel capolavoro letterario che è l’elegia di Davide per la morte di Saul e Gionata, «lamento da insegnare ai figli di Giuda» (2 Samuele 1,17-27). Naturalmente anche l’amore genera musica, danza e canto; molti sono, perciò, i cantici nuziali: «Tu sei per loro», dice il Signore al profeta Ezechiele, «come una canzone d’amore: bella è la voce, e piacevole è l’accompagnamento musicale» (33,32). La donna del Cantico dei cantici è ritratta, nel mezzo di una danza vorticosa, segnata dal ritmo: «Voltati, voltati, Sulammita, voltati, voltati perché ti possiamo ammirare! Che cosa ammirate nella Sulammita durante la danza dei due tempi?» (7,1-2). Anche il lavoro ha le sue canzoni. Stupenda è quella del vignaiolo proposta da Isaia (5,1-7): «Canterò per il mio amato la mia canzone d’amore per la sua vigna...». Ezechiele, invece, propone persino un Canto dei cuochi 24 Amadeus (24,3-12). Tutta la quotidianità è attraversata dalla musica che riesce a trasfigurare anche gli atti e i gesti più semplici. Si incontra anche una malinconica canzone della vecchia prostituta: «Prendi la cetra, gira per la città, prostituta dimenticata; suona con abilità, moltiplica i tuoi canti, perché qualcuno si ricordi di te!» (Isaia 23,15-16). Fondamentale, però, è l’intreccio tra musica e liturgia. Basti solo scorrere i titoli antichi preposti ai Salmi con l’evocazione delle melodie su cui intonarli e sovente con la citazione degli strumenti destinati ad accompagnarli. Il Salmo 150 elenca con minuzia l’organico dell’orchestra del tempio di Sion: corno, arpa, cetra, timpano, corde, flauti, cembali, cui si aggiungono le danze e la neshamah che può alludere ai “fiati” ma che, più probabilmente, significa “tutto ciò La musica, poi, per la Bibbia intride anche tutta la storia umana divine che respira”, immaginando così una sorta di canto cosmico dei viventi che si associa a quello intonato nel tempio. L’appello del Salmista è, comunque, preciso anche nell’indicare la qualità estetica del canto liturgico: «Cantate inni con arte!» (Salmo 47,8). Il cristianesimo raccoglie questo invito: si pensi solo allo sterminato “paratesto” musicale che si è intessuto nei secoli in Occidente attorno ai Salmi e agli altri cantici biblici come il Magnificat o il Benedictus. Ma già San Paolo ammoniva i Colossesi così: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali...» (3,16-17). Esortazione reiterata agli Efesini: «Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e salmeggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (5,18-20). La stessa meta ultima della storia, simbolicamente raffigurata nella nuova Gerusalemme, sarà segnata dalla musica. Significativa al riguardo è la trama del Libro dell’Apocalisse che è una vera e propria palingenesi musicale per soli, coro e orchestra: basta soltanto evocare il grandioso concerto delle sette trombe che squillano nei capitoli 7-8 e 11,14-19 oppure i cori che costellano quasi ogni pagina dell’opera rendendola simile a una partitura musicale. È per questo che il tacere del canto è visto come un emblema di giudizio. Quando sulla Babilonia imperiale passerà la tempesta della condanna divina, «il suono degli arpisti e dei musicisti, dei flautisti e dei suonatori di tromba non si udrà più in te... Il canto dello sposo e della sposa non si udrà più in te» (Apocalisse 18,22). Ma già nell’Antico Testamento l’oppressione non poteva che essere affidata al silenzio, come dice lo stupendo e tragico Salmo 137: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo, ricordandoci di Sion. Sui salici, in mezzo a quella terra, appendemmo le nostre cetre. Sì, là ci chiesero parole di canto i nostri deportatori, canzoni allegre i nostri oppressori: Cantateci i canti di Sion! Come cantare i canti del Signore in terra straniera?».Cassiodoro, scrittore cristiano del VI secolo, ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza musica». Anche per la Bibbia il silenzio o il rumore sono segno di maledizione. È per questo che il filo della musica accompagna l’intera esistenza illuminandola. La fede, perciò, dovrebbe essere armonia e canto, come si ripete ininterrottamente nel Salterio: «Cantate al Signore un canto nuovo, suonate con arte e con ovazioni... Bello è lodare il Signore e inneggiare al tuo nome, Altissimo, sull’arpa a dieci corde, sulla lira e con canti accompagnati da cetra... Quanto è bello inneggiare al nostro Dio, quanto è affascinante innalzargli la lode!» (Salmi 33,3; 92,2.4; 147,1; 149,3). Il Duomo di Milano nei suggestivi scatti del fotografo Bruno Pulici, che ha ritratto anche i cantori della Cappella Musicale della Cattedrale milanese nelle immagini delle pagine seguenti Il disco Cappella del Duomo di Milano Lasciate che i FANCIULLI Un repertorio sacro che affonda le sue radici nel '400 ma che travalica le barriere temporali. Un'istituzione musicale antica che ancora oggi forma giovani voci ed educa lo spirito di Andrea Milanesi A nno del Signore 1387: in data 16 ottobre, per volontà del Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti viene istituita la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, con lo scopo di portare avanti i lavori di progettazione, costruzione e conservazione della nuova Cattedrale e per garantire l’utilizzo del marmo di Candoglia per l’edificazione dell’intero monumento. Da oltre seicento anni la Fabbrica è dunque lo storico ente impegnato nella tutela, nella valorizzazione e nel restauro architettonico e artistico di quello che è il simbolo della città di Milano nel mondo e che ne rappresenta la più profonda e manifesta identità, sociale e culturale, oltre che religiosa. Sotto il Duomo, le sue guglie e la sua “Madonnina” i milanesi... vivono la vita, corrono, lavorano, s’incontrano, discutono e soprattutto pregano, secondo la tradizione di un rito e di un canto che oltre 1.600 anni fa nel vescovo Ambrogio 26 Amadeus hanno trovato origine e fonte d’ispirazione. Frutti maturi di una devozione in cui la dimensione estetica ha stretto un inscindibile legame con quella spirituale, come già emergeva dall’autorevole e toccante testimonianza di Sant’Agostino, riportata nelle Confessioni (Libro IX, 6) e risalente ai giorni seguenti al suo battesimo ad opera dello stesso Ambrogio: «Quanto ho pianto di profonda commozione al sentire risuonare nella Tua chiesa il sereno modulare dei Tuoi inni e cantici. Quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano la verità nel mio animo, infuocandolo di devozione, mentre le mie lacrime scorrevano. E io ne avvertivo un gran benessere». Ed è proprio su questa spinta ideale che la Cappella musicale del Duomo di Milano, fiore all’occhiello dell’attività della Veneranda Fabbrica, si è fatta appunto portavoce di un culto millenario per aprirci le porte di fronte a un repertorio sacro che travalica qualsiasi barriera temporale, come ci ha racconta don Claudio Burgio, maestro della Cappella e protagonista del disco in cui sono state appunto raccolte le “Musiche del Giubileo nel Duomo di Milano”. A quali principi costitutivi si ispira la Cappella musicale del Duomo di Milano? «Bisogna intendersi, innanzitutto, sul termine “cappella musicale”. Non si tratta semplicemente di un coro, di un complesso vocale nato per manifestazioni artistiche e culturali. Gli elementi costitutivi che ne determinano l’identità sono l’antichità, la continuità di attività e di tradizione, il patrimonio musicale proprio, l’arricchimento di tale patrimonio con le musiche nuove dei suoi maestri, l’organizzazione stabile e la connessione con una cattedrale, basilica o santuario. Tali sono appunto i principi costitutivi della Amadeus 27 Cappella musicale del Duomo di Milano, come attestato dai documenti e dall’ingente mole di musiche custoditi negli archivi della Veneranda Fabbrica del Duomo. Un patrimonio che affonda le sue radici nel Quattrocento milanese ed europeo attraverso le opere dei maestri, degli organisti e di quanti hanno affidato al Duomo le loro musiche; un patrimonio che parla da sé e testimonia lo sviluppo dell’arte musicale sacra in un centro cruciale di esperienze cosmopolite qual è Milano». Cosa rende la Cappella del Duomo una realtà unica nel suo genere? «Innanzitutto la presenza fin dalle origini della schola puerorum, composta da bambini maschi tra i 9 e i 14 anni ai quali vengono affidate le voci di soprano e di contralto. È un caso unico in Italia, se si esclude la Cappella Musicale Pontificia, detta “Sistina”, che opera in territorio vaticano. Già Franchino Gaffurio, alla fine del XV secolo, riorganizzò l’organico della Cappella formando una vera e propria schola che si occupasse della formazione integrale dei pueri; non solo quella musicale, ma anche quella umanistica. Negli anni ’60 del Novecento, l’allora Maestro di cappella, monsignor Luciano Migliavacca, fece rinascere la scuola dei fanciulli cantori intesa come luogo di educazione scolastica, di formazione alla personalità e all’arte musicale. La Veneranda Fabbrica si adoperò, sotto la spinta dell’allora cardinal Montini, per la costruzione dell’attuale sede di viale Gorizia a Milano. Io stesso sono stato formato da bambino in questa scuola, sotto la guida di mons. Migliavacca, che mi educò e tanta parte ebbe nella mia scelta di diventare sacerdote, musicista ed educatore». Quali sono le tappe principali di questa prestigiosa istituzione? «Già Ambrogio, quando divenne vescovo nel 374, trovò un organismo che si occupava del canto nella cattedrale, formato da fanciulli cantori e da voci adulte. Trovò anche un repertorio di cui possediamo con certezza almeno una 28 Amadeus gemma: la Laus magna angelorum da cui derivò il Gloria della Messa. Egli stesso impreziosì poi il patrimonio musicale con i suoi Inni e la Cappella del Duomo è depositaria di questa antichissima tradizione; ancora oggi i cantori della Cappella eseguono in ogni celebrazione liturgica brani del repertorio ambrosiano. L’archivio musicale della Veneranda Fabbrica ci aiuta a ricostruire le tappe della storia della musica liturgica in Cattedrale. Il 1402 è l’anno ufficiale di fondazione della Cappella musicale e il Duomo di Milano conosce i primi esempi di polifonia sacra: dal musichus Matteo da Perugia – il primo cantor – a Franchino Gaffurio che, tra i suoi compiti, oltre a quelli del “lègere” e del “dòcere”, ricopriva quello del “dictare”, ovvero il compito di comporre «È un caso unico in Italia, se si esclude la Cappella Musicale Pontificia, detta Sistina» musica per il Duomo. Imponente l’opera di questo maestro, oggi raccolta nei tre Codici gaffuriani conservati in Archivio. Gaffurio seppe fondere insieme la tradizione fiamminga e quella italiana, dando avvio alla grande polifonia del Cinquecento incarnata da Palestrina e da tutta la scuola romana; già nelle sue composizioni traspare quel criterio più tardi adottato dal Concilio di Trento, secondo cui la musica deve essere a servizio della Parola e, dunque, non deve precludere l’intelligibilità del testo sacro». Attraverso la storia della Cappella del Duomo di Milano è possibile in qualche modo seguire anche quella della musica liturgica? «Nella seconda metà del Cinquecento San Carlo Borromeo diede disposizioni per il modo di comporre ed eseguire musiche nel culto. Fece escludere dal canto di chiesa musiche profane, leziosità di voce, artifici d’esecuzione non consoni ai testi sacri; i cantori, poi, dovevano appartenere al clero e indossare vesti clericali. Quanto agli strumenti, l’unico accettato era l’organo. Tali e altre simili direttive furono attuate nel Duomo di Milano e ad esse la Cappella musicale si mantenne fedele nel tempo. Sul finire del XVI secolo, in Duomo si assiste al trapasso dalle forme della pura polifonia, intrisa dalle fioriture eccessive dei contrappunti e delle imitazioni, a quelle nuove dello stile “concertato” con il sostegno strumentale del solo organo. Anche nel Seicento, il Duomo rifiuta la suggestione degli strumenti, in controtendenza con l’affermazione della musica strumentale in Europa. In questa tappa del percorso storico della Cappella musicale, si assiste all’esplosione della policoralità: un’esigenza che dura un secolo e mezzo e che riflette il gusto per la magniloquenza sonora (in parte doverosa per i limiti dell’acustica in Duomo). Diventa d’obbligo per i maestri consegnare alla Fabbrica le opere scritte per il Duomo». Quali sorprese ci riserva ancora la storia moderna della Cappella del Duomo? «Il Settecento sacro milanese è a torto considerato un secolo di decadenza. Faccio solo un esempio: il faentino Giuseppe Sarti. Allievo di padre Martini e affermato operista (nel 1779 al Teatro alla Scala andò in scena la sua opera Le gelosie villane), trovò presso la Cappella un ufficio che gli permettesse di “fuggire le distrazioni del mondo” e, nei suoi cinque anni come Magister, scrisse per il Duomo musiche ben lontane dagli allettamenti del gusto teatrale, cercando di essere coerente con l’austerità del rito e sfruttando a sua volta i temi del canto ambrosiano. Altra tappa non meno significativa è quella dell’Ottocento musicale. A questo periodo appartengono composizioni dotate di sensibilità liturgica e opere che, pur legate al gusto vocalistico e ai modi operistici del secolo, sono comunque adatte all’elevazione spirituale propria del culto. Con Giuseppe Gallignani ha inizio l’alba di una risurrezione della musica sacra che proprio a Milano vide i prodromi di quella che fu detta “riforma ceciliana”; la Cappella contribuì efficacemente alla riuscita del movimento di riforma che ebbe in Perosi, più tardi, il suo indiscusso paladino. Nel Novecento musicale sacro si impone un nome su tutti: Luciano Migliavacca. Per tutta la Chiesa italiana ha rappresentato un modello di musicista che ha saputo unire l’abilità compositiva con le nuove indicazioni emerse dal Concilio Vaticano II; ha composto anche canti per le assemblee liturgiche che hanno avuto molta fortuna nelle parrocchie italiane. Come si intuisce, dunque, la Cappella musicale del Duomo ha attraversato tutte le vicende della musica di chiesa, sapendo conservare, però, una sua coerenza al rito propriamente ambrosiano». Lei è erede diretto di una tradizione che attraversa i secoli; cosa vede quando si volta indietro? «Come attuale direttore della Cappella musicale sento alta la responsabilità di un compito che non parte da me e non finisce con me. Sono nell’alveo di una tradizione che mi precede e della quale riconosco tutto il valore storico, culturale, ma soprattutto spirituale ed ecclesiale. Vedere come, nonostante l’evolvere nei secoli di gusti e stili musicali diversi, la musica in Duomo abbia mantenuto intatti certi suoi requisiti è per me stimolo a non cedere a molte tendenze “innovative” che in più di una occasione mi sono state prospettate, come quella di eliminare i pueri e introdurre le voci femminili. Non vedo perché, in nome di una presunta modernizzazione della Cappella, dovrei rinunciare alla vocalità unica dei pueri. Certo, è una grande fatica quella di formare quotidianamente la vocalità dei ragazzi d’oggi. La registrazione del disco allegato ad Amadeus, per esempio, è caduta nel momento dell’anno più complicato: a ottobre iniziano a cantare i ragazzi più piccoli, mentre le voci dei più esperti cominciano a entrare in fase di muta. Non è Amadeus 29 Il disco Roberto Plano facile ottenere prestazioni musicali sempre all’altezza; con le voci femminili, in effetti, sarebbe tutto molto più semplice. Eppure, sento di essere depositario di una grande tradizione, non proprietario». E se guarda avanti? «Cerco di consegnare ai nuovi pueri e alla Chiesa ciò che mi è stato donato attraverso la musica sotto le volte di questo stesso Duomo: il gusto per l’arte, per la bellezza che educa alla vita e alla fede. Chissà che un giorno avvenga per uno dei miei pueri quello che è avvenuto per me. Sarebbe bello passare il testimone nella direzione della Cappella a qualcuno che, come me, ci è nato e cresciuto. Musicalmente parlando, spero si mantenga vivo lo storico patrimonio musicale del Duomo come segno di una tradizione che non è solo memoria del passato, ma vive in dialogo con la modernità. Pensando al futuro, semplicemente un ornamento dell’azione liturgica, la musica è sacra perché è un ponte sull’eternità. Non deve rispondere a esigenze utilitaristiche di consumo e non deve necessariamente produrre godimento dei sensi fine a se stesso. Nella sua espressione più profonda, la musica è manifestazione del divino e ha, dunque, da sempre un carattere teologico. Anche una mentalità laica e secolarizzata non può prescindere da un’apertura all’Assoluto e la musica è veicolo privilegiato per non spegnere nell’uomo questo desiderio naturale di trascendenza. La musica liturgica, in questo senso, apre il credente al Mistero che celebra, ma può essere kairos, momento favorevole anche per il non credente, come attesta la conversione di S. Agostino avvenuta grazie al canto degli inni di Ambrogio. Le musiche incise nel cd allegato ad Amadeus «La musica che i "pueri" della Cappella cantano è strumento di vera prevenzione sociale, oltre che occasione di crescita nello spirito» occorrerà incrementare l’educazione musicale nelle nuove generazioni, a cominciare dal mondo della scuola che da troppo tempo, in Italia, non si occupa più della musica “colta”. Anche la Chiesa dovrebbe tornare a fare Musica con la “M” maiuscola nelle sue parrocchie e, per questo, è necessario che tornino i musicisti e i veri artisti. Questa è la speranza che coltivo, guardando avanti, per il bene dei giovani e della Chiesa stessa». Che cosa è per lei la “musica sacra”? «È un’esperienza “estetica” che come ogni linguaggio sonoro stimola la mia percezione uditiva e la mia sfera emotiva e intellettiva; ma è soprattutto un’esperienza “estatica”, un metalinguaggio che mi mette in contatto con l’Assoluto. Lungi dall’essere 30 Amadeus ci appartengono, perché arrivano a tutti noi (credenti e non) da un canto lontano scritto nella storia della nostra comune cultura cristiana. Ci vuole coraggio oggi a pubblicare musica sacra; credo sia, innanzitutto, una grande sfida culturale perché, come ci ricorda Goethe, “ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero”». Come compositore e direttore, verso quali orizzonti spinge la sua attività creativa e interpretativa? «Come direttore della Cappella musicale del Duomo di Milano non posso, innanzitutto, non misurarmi con la musica scritta dai miei predecessori. Pur dovendo eseguire musica appartenente a secoli diversissimi della lunga storia di questa isitituzione, non mi sento ostaggio di scelte interpretative rigidamente obbligate; non è scritto da nessuna parte che io debba ricercare e ricreare un modus interpretativo stabilito una volta per tutte. È sempre la Liturgia viva della Chiesa a ispirarmi il movimento e il colore di un canto, pur cercando di salvaguardare una certa pertinenza estetica legata alla vocalità del tempo in cui un brano è stato composto. Come compositore, attingo a piene mani dalla tradizione musicale dei miei predecessori, pur con le necessarie esigenze di pluralità stilistica imposte dall’odierna liturgia». Oltre che maestro di Cappella, lei è anche cappellano al carcere minorile Beccaria di Milano: come fa a unire due mondi così apparentemente lontani? «In realtà la musica è esperienza educativa per eccellenza. Sono convinto che molti dei ragazzi che incontro nelle celle del carcere minorile non siano solo stati deprivati di affetto e di cura da un mondo adulto sempre più assente, ma siano stati condotti in “cattività” da una cultura materiale assordante. La musica, sempre che non sia prodotto di consumo, può curare e aiutare un ragazzo autore di reato a ritrovare un’anima. È per questo che vivo il mio ministero musicale in Duomo anche in chiave socio-pedagogica. La musica che i pueri della Cappella cantano è strumento di vera prevenzione sociale, oltre che occasione di crescita nello spirito. Tra un figlio al Beccaria e un fanciullo cantore in Duomo non c’è poi così differenza: sono sempre figli nostri». In queste pagine, i cantori della Cappella Musicale del Duomo di Milano, protagonisti del nostro cd di questo mese, sono fotografati nella cattedrale milanese con il loro direttore, don Claudio Burgio Il download Trio Kanon Il numero PERFETTO Dedizione, complicità, sensibilità (e studio). Ecco gli ingredienti distintivi di un giovane gruppo cresciuto alla grande scuola cameristica italiana di Claudia Abbiati S ulla scia di altri grandi trii con pianoforte italiani come il Trio di Trieste e il Trio di Parma, suo erede spirituale, vi presentiamo nel nostro cd download un giovane e promettente ensemble, attivo dal 2012: il Trio Kanon, formato dalla violinista di origini giapponesi Lena Yokohama, dal violoncellista Alessandro Copia e dal pianista Diego Maccagnola. Come vi siete conosciuti e come sono nati il vostro trio e il nome Kanon? A.C. «Si può dire che il nostro trio sia nato in piscina. Ho conosciuto Diego nel 2006 all’Accademia di Santa Cecilia di Roma, nella classe di Rocco Filippini. Abbiamo suonato insieme l’op. 70 n. 2 di Beethoven all’esame finale, ma poi non ci siamo più visti fino al 2012, al concerto di fine anno dell’Accademia Stauffer di Cremona. Lì ho conosciuto Lena, che vive in Italia dal 2006 ed è un’allieva di Salvatore Accardo, e ho scoperto che suonava da alcuni anni in duo 32 Amadeus cd 2 in download TRIO KANON Trii per pianoforte e archi op. 70 n. 1 “I fantasmi” e op. 97 “L’Arciduca” Musiche di Ludwig van Beethoven accedere al sito www.amadeusonline.net e inserire il codice TK314LB16 con Diego. Sarebbe stata una semplice rimpatriata se pochi giorni dopo, proprio in piscina, non mi fosse balenata l’idea di costituire un trio. Li chiamai subito e scoprii che anche loro avevano il medesimo desiderio. Quella è stata l’ultima volta in cui ho avuto tempo di andare in piscina...». L.Y. «Il nome è una mia proposta, perché Diego e Alessandro cercavano una bella parola giapponese facile da ricordare. “Kanon” è l’unione di due ideogrammi: “Ka”, che significa fiore, e “On”, suono, musica. Combinando le due lettere si legge “Kanon”, cioè Musica Fiorente. Ovviamente c’è, ed è molto importante per noi, l’assonanza con il canone musicale». Avete alle spalle studi prestigiosi all’Accademia di Duino con il Trio di Parma, una delle realtà più solide della musica da camera italiana. D.M. «L’Accademia di Duino è un posto speciale che ci ha aiutato moltissimo a crescere offrendoci la possibilità di fare numerosi concerti. E ogni incontro col Trio di Parma ci lascia il desiderio di approfondire lo studio con mente aperta e spirito critico, senza paura di confrontarci e discutere: loro stessi, talvolta, ci offrono prospettive diverse, ma tutte incredibilmente rivelatrici». A.C. «Sono stati più che maestri, sono stati guide e mentori. Abbiamo imparato ad affrontare il repertorio grazie ad alcuni consigli che solo un trio come il loro sa dare, facendo i passi giusti al momento giusto». L.Y. «Alberto Miodini, Ivan Rabaglia ed Enrico Bronzi sono fantastici musicisti e persone squisite. Siamo veramente felici di studiare con loro». Quali sono secondo voi gli ingredienti per la perfetta alchimia di un trio con pianoforte? L.Y. «Archi e pianoforte sono tipologie di strumenti completamente differenti, quindi occorre venirsi incontro». D.M. «Violino e violoncello devono fondersi bene tra loro ma anche il pianista (ingrato compito!) deve sforzarsi di produrre un legato, un’articolazione e un fraseggio compatibile con gli archi. Fortunatamente i grandi compositori ci danno una mano: questo repertorio è davvero stupendo». A.C. «Servono inoltre dedizione, complicità e sensibilità. Un po’ gli stessi ingredienti che richiede l’amicizia: il resto viene con lo studio». Due Trii di Beethoven: perché? L.Y. «Quest’anno abbiamo studiato l’Arciduca. La grandezza di questo brano dal respiro così nobile e sinfonico ci ha conquistati. Dovendo poi completare il disco, abbiamo pensato a un lavoro del Beethoven “eroico”: l’op. 70 n. 1, scritto tra la Quinta sinfonia e la Pastorale». A.C. «Sono diversi. L’op.70 n.1 è percorsa da forti contrasti, una ricerca angosciosa dell’epilogo felice in un incubo oscuro che sembra non avere fine. L’ultimo movimento sembra scrollarsi di dosso la pesantezza del secondo. All’Arciduca ho sempre guardato con riverenza: è un trio della piena maturità, in cui si alternano momenti di grande lirismo ad altri più rustici». D.M. «La differenza tra op. 97 e op. 70 è abissale e abbiamo cercato di metterla in risalto nell’esecuzione. I movimenti lenti dei due trii sono incredibili: il Largo degli “Spettri” è rivoluzionario per il tipo di scrittura, il trattamento “dinamico” delle armonie e per la tensione ottenuta per sottrazione di elementi. L’Andante dell’op. 97 è invece un maestoso Tema con variazioni, in cui Beethoven rivela la sua maestria tecnica e un’incredibile invenzione melodica». Quali altri compositori avete in repertorio e quali vi piacerebbe approfondire? D.M. «Abbiamo studiato alcuni Trii di Haydn e di Mozart, i primi due Trii di Brahms, l’op. 100 di Schubert, l’op. 66 di Mendelssohn, il Trio di Ravel e il Trio n. 2 di Šostakovič, più alcuni lavori contemporanei. Mancano all’appello Schumann e Dvořák, ma colmeremo presto queste lacune». A.C. «Dovremmo anche completare l’esplorazione del mondo di Schubert studiando l’op. 99, un capolavoro». Quali sono i vostri progetti futuri? A.C. «A gennaio sarò papà. Ora si tratta del progetto più coinvolgente per me, un meraviglioso modo di iniziare il 2016 e un’esperienza che darà nuova linfa al mio modo di suonare: il trio avrà un fan in più! Parlando di musica, stiamo lavorando a un’incisione di brani contemporanei che sarà edita dall’Accademia Perosi di Biella». L.Y.«Il 17 gennaio saremo a Milano per un concerto alla Società Umanitaria. Poi ci aspettano concorsi internazionali, in cui speriamo di ottenere buoni risultati. Le competizioni per noi sono una preziosa occasione di studio e un modo per approfondire il repertorio che amiamo». Il Trio Kanon: la violinista Lena Yokohama, violoncellista Alessandro Copia e il pianista Diego Maccagnola INSCENA Anteprima 35-42 La critica 45-51 gli appuntamenti del mese da non perdere le recensioni degli spettacoli scelti dai nostri critici David Greilsammer Amadeus Quartetto Italiano INSCENA anteprima PERSONE L DAVID GREILSAMMER Booklet in italiano e in inglese Israeliano, è pianista e direttore d'orchestra. Il suo credo è costruire ponti perché la musica non ha confini. Dal 2013 è direttore artistico e musicale della Geneva Camerata. Il 15 e il 17 gennaio è a Milano con laVerdi per un programma tutto Beethoven tto u b e d l e d i n n per la prima volta in digitale Gli a 7 cd per rivivere gli esordi dell’ensemble che ha cambiato la storia dell’interpretazione a soli 35 euro Buono d’ordine *fino ad esaurimento scorte i del debutto Gli ann Vi prego di volermi spedire i 7 cd indicati nella pagina a fianco per un importo di € 35,00+ € 3,00 per le spese di spedizione ✁ Quartetto Italiano DVD in omaggio con l'acquisto del cofanetto* a musica come strumento per abbattere muri e costruire ponti. Abbattere i muri innalzati tra periodi storici, aree geografiche e generi musicali. Costruire ponti che avvicinino, superino barriere, consuetudini e pregiudizi e conquistino nuovo pubblico. Potrebbe essere un’efficace sintesi del suo approccio alla musica, una sorta di “Greilsammer pensiero”. Perché è così che David Greilsammer, pianista e direttore d’orchestra di origine israeliana, vive e trasmette la sua passione, si fa promotore di progetti innovativi. Artista eclettico, brillante, un percorso di studi iniziato a Gerusalemme e terminato alla Juilliard School di New York, dove nel 2004 debutta come solista al Lincoln Center. Dal 2013 è direttore artistico e musicale della Geneva Camerata. Sarà sul podio e al pianoforte con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, il 15 e il 17 gennaio, interprete di un programma interamente dedicato a Beethoven (Ouverture Egmont, Concerto n. 3, Sinfonia n. 8). Suona Scarlat- ti e Cage insieme, poi presenta una “maratona” con 50 artisti ospiti, interpreti di differenti stili e provenienti da tutto il mondo. La musica non ha confini? «Non ne ha: dovrebbe sempre essere libera, aperta, dinamica e creare un dialogo tra persone e differenti culture! Penso che noi musicisti classici siamo troppo concentrati sul nostro mondo e sulla nostra musica, dovremmo invece provare interesse per altri stili, altri generi e altre parti del mondo. Sento estremamente importante che si creino ponti che ci avvicinino gli uni agli altri». Dal 2013 dirige l’ensemble Geneva Camerata. «È un’orchestra unica e insolita, composta da 30 giovani musicisti incredibili, dei solisti virtuosi, ma anche dei meravigliosi esseri umani. Capaci di suonare musica classica ai più alti livelli ma anche jazz, blues, rock, balcanica o klezmer. E, ancora, capaci di suonare musica barocca su strumenti storici, ma anche musica elettronica o i più difficili pezzi dell’avanguardia contemporanea. È un enorme pia- cere lavorare con loro e sono davvero orgoglioso dei risultati raggiunti in soli due anni». Il suo segreto per conquistare nuovo pubblico? «Una delle cose più importanti è il repertorio, e la scelta del programma. Dobbiamo essere capaci di presentare al pubblico programmi originali, affascinanti e insoliti che ispirino e sorprendano. Il pubblico giovane è stanco di sentire sempre gli stessi compositori celebri e si aspetta che il mondo classico sia più connesso con il mondo attuale». Tradizione e innovazione: un mix irresistibile? «Si tratta di un importante mix. La tradizione è importante: abbiamo bisogno di rispettare e capire il passato, naturalmente; abbiamo bisogno di imparare dalle vecchie tradizioni e studiarle con attenzione. Ma dobbiamo anche essere capaci di guardare al futuro e lasciarci il passato alle spalle». Luisa Sclocchis (Al link amadeusonline.net interviste/2015/un-gesto-naturale la versione estesa dell'intervista) Per ordinare più copie del cofanetto potete scrivere o telefonare utilizzando i seguenti riferimenti: Bel Vivere S.r.l. - via Lanzone n. 31, 20123 Milano, e- mail: [email protected], telefono: 024816353 BIENNALE COLLEGE IN 4 TAPPE Il presente tagliando va spedito a Bel Vivere S.r.l. - via Lanzone, 31 - 20123 Milano tel. 02 48 16 353 - fax 02 48 18 968 - [email protected] nome ........................................................................... cognome ..................................................................... indirizzo. . ...................................................................... cap ............... città ................................................................ prov. ........................ tel .......................... cell. .......................... e-mail . . .................................................. Allego assegno non trasferibile intestato a Bel Vivere S.r.l. Bonifico bancario c/o Banca Credem intestato a Bel Vivere S.r.l. IBAN: IT 46Q03032016150100000003489 - Specificare nella causale l'indirizzo per la spedizione (L’acquisto verrà inviato al ricevimento del pagamento) Addebitare sulla mia carta di credito Visa Mastercard Informativa DLGS 30 giugno 2003, n. 196 Compilando questo buono, Lei ci fornisce i dati necessari per poterLe inviare l'oggetto acquistato. L’email è facoltativo, ma ci permetterà di contattarLa rapidamente per eventuali comunicazioni inerenti l’acquisto. I dati saranno trattati mediante elaborazione con criteri prefissati. Lei potrà ricevere altre proposte commerciali da Bel Vivere Srl. A Lei spetteranno i diritti di cui all’art. 7) DLGS 196/2003. Titolare del trattamento è Bel Vivere Srl. e lei potrà rivolgersi per qualsiasi domanda scrivendo alla Società titolare, via Lanzone, 31 - 20123 Milano. N.scadenza ......................................... ccv ................................ data....................................................................... firma ...................................................................................... A fine novembre è stato pubblicato il bando internazionale della terza edizione di Biennale College-Musica, un progetto che intende promuovere e sostenere la produzione di 4 opere a micro-budget di teatro musicale (nella foto, Biennale 2014: Magen Zeit Opera). Le opere saranno presentate al 60° Festival Internazionale di Musica Contemporanea 2016 e on-line su Quarto Palcoscenico, lo spazio virtuale sul sito della Biennale dedicato allo spettacolo dal vivo. ll bando si chiude il 12 gennaio ed è aperto a team di compositori, librettisti, registi e scenografi che non abbiano superato i 35 anni. La selezione dei progetti è gestita da Ivan Fedele, direttore del settore Musica, e comunicata a fine gennaio. I 4 gruppi selezionati saranno accompagnati nella realizzazione dei loro progetti attraverso fasi formative e di produzione in 4 tappe: a febbraio si svolgerà una settimana di workshop sul rapporto tra testo e musica. Entro metà aprile consegna di metà partitura, progetto scenico e libretto. I primi di giugno una settimana di lavoro con l’equipe di tutor di Biennale College. Infine, nei giorni che precedono il debutto, si terranno le prove sceniche e musicali. Info: labiennale.org Amadeus 37 INSCENA INSCENA anteprima anteprima PETRUZZELLI 2016 MARIOTTI: IO E ATTILA M U ercoledì 27 gennaio si inaugura a Bari la Stagione operistica con la messinscena di uno dei più grandi capolavori di Mozart: Le nozze di Figaro, per la regia di Chiara Muti e la direzione di Matthew Aucoin. A guidare il cast Alessandro Luongo (Figaro), Edwin Crossley-Mercer (Il Conte di Almaviva), Eleonora Buratto (La Contessa di Almaviva), Maria Mudryak (Susanna) e Paola Gardina (Cherubino). Il Presidente Gianrico Carofiglio ha parlato di una «programmazione alta e popolare allo stesso tempo» costruita con lo scopo di infoltire il pubblico di abbonati. A febbraio sarà la volta di Nabucco per la regia di Joseph Franconi Lee e la direzione di Rolando Böer. Doppio appuntamento, poi, con Puccini: a maggio Tosca, produzione firmata da Renato Palumbo e Giovanni Agostinucci; a novembre Turandot, direzione di Giampaolo Bisanti e regia di Roberto De Simone. Dopo Lo schiaccianoci di Čajkovskij si chiuderà con La vedova allegra di Franz Lehár, Michael Tomaschek sul podio e Federico Tiezzi al tavolo di regia. Info: fondazionepetruzzelli.it AMADEUS E IL “QUARTETTO” CIVICA SCUOLA DI MILANO Doppio appuntamento con il ciclo di incontri “Saper ascoltare” organizzato dalla Società del Quartetto di Milano con Amadeus e il Piccolo Teatro. Il progetto coglie i momenti più stimolanti della stagione in corso per organizzare nel chiostro del teatro di via Rovello appuntamenti con storici della musica e critici scelti tra i collaboratori della nostra rivista. Il 14 gennaio, in preparazione all’ascolto del Quartetto di Cremona, “Mozart, il percorso dei 23 Quartetti”, a cura di Cesare Fertonani. Il 28 il tema è “Il quartetto tra Romanticismo e Novecento”, in vista dei concerti del Quartetto Haas (2 febbraio) e del Quartetto Apollon Musagète, a cura di Giovanni Gavazzeni. Info: quartettomilano.it Il 12 dicembre è stata inaugurata la XII edizione degli Incontri Musicali con l’Orchestra Barocca della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado, rassegna che promuove i giovani studenti iscritti ai corsi di alta formazione. Il 24 gennaio secondo appuntamento con Il pianto di Arianna (dir. Elisa Citterio); si prosegue il 27 febbraio con Il liuto galante (dir. Paul Beier); il 2 aprile Nello stile italiano (dir. Lorenzo Ghielmi); il 30 aprile Divertimenti mozartiani (dir. Gianni De Rosa); si chiude il 28 maggio con Per il compleanno della Regina (dir. Antonio Frigé). Da non perdere il concerto del seminario curato da Claudia Caffagni a Villa Simonetta il 7 maggio. Info: fondazionemilano.eu FERRARA: SI INAUGURA CON TRISTANO E ISOTTA n’idea di guida basata sul rispetto. Non sull’autorità ma sull’autorevolezza. Sulla forza della propria idea e della propria visione. Sulla ricerca di un’identità fatta di un preciso suono e di un caratteristico timbro. Queste le fondamenta su cui poggia la direzione d’orchestra firmata Michele Mariotti. Alla guida della sua orchestra inaugurerà la stagione d’opera 2016 del Teatro Comunale di Bologna con l’Attila di Giuseppe Verdi, in scena dal 23 al 31 gennaio per la regia di Daniele Abbado. «Dirigere è un sogno che coltivavo fin da bimbo, quando costruivo le bacchette con bastoncini di legno e tappi di sughero e respiravo l’aria del teatro assistendo alle prove»; così il giovane direttore di origine pesarese racconta la passione che l’ha condotto verso l'attuale carriera internazionale, tra Metropolitan Opera di New York, Covent Garden di Londra e Opéra di Parigi. Gli studi con Manlio Benzi nel Conservatorio della sua città, poi con Donato Renzetti all’Accademia Musicale Pescarese e, nel 2005, il debutto nel mondo dell’opera con Il barbiere di Siviglia di Rossini. Nel 2007 apre la stagione del Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra ed è nominato direttore principale; nel 2014 diventa direttore musicale. Quanto conta una figura stabile nella crescita di un’orchestra? «Conta tanto se capace di impostare TRIONFO BAROCCO ALLA SCALA L Sopra, il Teatro Petruzzelli di Bari; qui, Tristan und Isolde con la regia di Monique Wagemakers 38 Amadeus un lavoro e una presenza costanti, un cammino insieme e una crescita biunivoca». Qual è la sua lettura dell'Attila? «Si tratta di un’opera fatta di profondità di linguaggio e scavi introspettivi, in cui Attila appare come simbolo di valori positivi, di rigore, rispetto del nemico e fedeltà. Un’opera di ardita sperimentazione incentrata sui rapporti umani e sulla natura». l.scl. a stagione lirica del Teatro Comunale di Ferrara si inaugura a gennaio con Tristan und Isolde. Il capolavoro di Wagner, rappresentato a Ferrara un’unica sera nel 1974, vedrà alla direzione Marcus Bosch, direttore musicale dello Staatstheater Nürnberg e della Staatsphilharmonie Nürnberg dal 2011, uno dei più valenti interpreti del Romanticismo tedesco. A guidare il cast nel ruolo dei protagonisti ci saranno Vincent Wolfsteiner e Claudia Iten, tra i più apprezzati rappresentanti dalla vocalità wagneriana. L’allestimento, firmato da Monique Wagemakers, mette in scena le passioni dei personaggi in un’ambientazione astratta che punta sul carattere simbolico dei suoi elementi e sulla forza poetica del dramma musicale. Info: teatrocomunaleferrara.it C Michele Mariotti; qui, Il trionfo del tempo e del disinganno, regia Jürgen Flimm on Il trionfo del tempo e del disinganno di Georg Friedrich Händel il Teatro alla Scala riporta in scena il Barocco e inaugura un nuovo progetto dedicato alle esecuzioni storicamente informate. Dopo il grande successo del ciclo dedicato a Monteverdi, ogni anno si produrrà un titolo del repertorio preclassico o classico con strumenti antichi e sotto la bacchetta di uno specialista, nell’intento di creare anche al Piermarini una nuova tradizione esecutiva barocca. Il progetto è stato condiviso da numerosi strumentisti dell’Orchestra del teatro, dal 28 gennaio impegnati con il primo degli oratori che Händel compose in Italia (nel 1707). Una partitura in cui si manifestano preoccupazioni legate alla forma, tipiche degli anni di formazione. A variare la stereotipa successione di arie e recitativi intervengono così due duetti, una sorta di aria doppia e un quartetto. L’allestimento della Scala è quello già messo in scena da Jürgen Flimm ed Erich Wonder per l’Opera di Zurigo e portato poi, con grande successo, anche all’Opera di Berlino. Solisti vocali saranno il soprano Martina Jankova, il mezzosoprano Lucia Cirillo, il contralto Sara Mingardo, e il tenore Leonardo Cortellazzi. Info: teatroallascala.org Amadeus 39 INSCENA INSCENA anteprima anteprima SERENA MALFI: CENERENTOLA PER EMMA DANTE A dell’Opera di Roma diretta da Alejo Pérez per la regia di Emma Dante. La sua Cenerentola? «Molto sensibile ma altrettanto forte: combatte per conquistare la pace familiare e per la propria felicità e riesce a ristabilire tutti gli equilibri». Una Cenerentola indimenticabile? «Ho ascoltato tantissimo Teresa Berganza ma anche Lucia Valentini Terrani». Certamente un ruolo che sente particolarmente suo... «È uno dei personaggi che canto sin dall’inizio della mia carriera e più di frequente, le sono affezionata. Interpreto spesso opere giocose di Mozart o Rossini; diciamo che mi manca forse l’emozione di ruoli più drammatici. D’altronde chi non vorrebbe morire in scena?». Il suo sogno? «Quello che sto vivendo è già il mio sogno, vorrei poter continuare a sognare». l.scl. spetto solare, sguardo vivace e vitalità travolgente, insieme a una leggera cadenza che non tradisce le sue origini partenopee. Non risulta difficile immaginare come il giovane mezzosoprano Serena Malfi abbia rapidamente conquistato le scene dei templi sacri dell’opera. La provenienza da altri generi – pop, funk e jazz – poi l’amore per il canto lirico, assoluto e totalizzante. Così, dopo gli studi al Conservatorio di Avellino e all’Accademia di Santa Cecilia di Roma, inizia la sua rapida ascesa. Il debutto nel 2009 con l’opera La grotta di Trofonio di Antonio Salieri, in una produzione dell’Opernhaus di Zurigo, poi le tante esperienze internazionali tra Concertgebouw di Amsterdam, Teatro Real di Madrid, Opéra National de Paris, Wiener Staatsoper e Metropolitan Opera House di New York. Sarà Angelina ne La cenerentola di Gioachino Rossini, in scena dal 22 gennaio al 19 febbraio al Teatro AL REGIO DI TORINO PARTE IL PROGETTO JANÁČEK C on la messinscena di una delle più commoventi fiabe del Novecento, La piccola volpe astuta, al Teatro Regio di Torino ha inizio il “Progetto Janáčekˮ che prevede l’allestimento, a partire dalla stagione 2016, dei grandi capolavori del compositore moravo letti e interpretati da Robert Carsen, artista acclamato e impegnato da sempre nell’infondere nuova linfa alla regia d’opera. La fiaba messa in musica da Janáček, completata nel 1924 prendendo spunto da un fumetto a puntate pubblicato nella rivista Lidové noviny, narra le avventure di Bystrouška, una volpe che, grazie alla sua astuzia, riuscirà a cavarsela in diverse situazioni. Al direttore inglese, Jan Latham-Koenig (uno dei massimi esperti dell’opera di Janáček), il compito Serena Malfi, in gennaio Cenerentola all’Opera di Roma; sotto, Goyescas di Granados, dal 23 all'Opera di Firenze La piccola volpe astuta di Janáček, regia di Robert Carsen; sotto la vocalist e compositrice Agata Zubel L'OPERA DI FIRENZE SI FA IN TRE LA NUOVA MUSICA A BERLINO È ULTRASCHALL R icco di appuntamenti il calendario di gennaio all’Opera di Firenze con tre nuovi allestimenti. Il 22 debutta una nuova produzione di due drammi esistenziali femminili: La voix humaine di Poulenc e Suor Angelica di Puccini. La direzione è affidata a XŬ Zhōng, la regia è di Andrea De Rosa. Il 23 balletto e opera si incrociano: El amor brujo (coreografia di Imperio e musiche di Falla) e Goyescas, la più celebre opera di Granados. Molto interessante inoltre la scelta di proporre il 27, Giorno della Memoria, Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide) di Viktor Ullmann. Scritta nel 1943 a Terezín l’opera non andò mai in scena perché a prove iniziate intervenne la censura, preoccupata di una satira contro Hitler. Quasi tutti i protagonisti vennero deportati ad Auschwitz. Il direttore è Roberto Misto, la regia è di Pier Paolo Pacini. Info: operadifirenze.it NOTE AL MUSEO A dicembre si è aperta la Rassegna di concerti al Museo dell'Opera del Duomo di Firenze (Sala del Paradiso), con la direzione artistica di Francesco Ermini Polacci. Tre sono i concerti in programma nei primi mesi del 2016. Il 21 gennaio Marianna Pizzolato presenta un affascinante viaggio nella vocalità, con particolare attenzione al belcanto sette-ottocentesco: pagine da camera e arie d’opera, come “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Händel o “J’ai perdu mon Eurydice” dall’Orphée et Eurydice di Gluck. L’accompagna il pianista americano Mark Markham, suo abituale partner in recital. Il 25 febbraio un duo di giovani interpreti italiani, Francesco Dillon ed Emanuele Torquati, propone un excursus attraverso il repertorio romantico. Le celeberrime Kinderszenen di Schumann, verranno presentate in un’accattivante quanto rara trascrizione del violoncellista Friedrich Grützmacher. Si chiude in bellezza il 17 marzo con Il Rossignolo, gruppo specializzato nell’esecuzione su strumenti d’epoca, e il mezzosoprano Laura Polverelli. Il programma sarà tutto dedicato ad Händel. Info: operaduomo.firenze.it 40 Amadeus C hi ama la musica contemporanea non può mancare l’appuntamento con Ultraschall a Berlino, dal 20 al 24 gennaio. La rassegna indaga come sempre i molteplici sviluppi della nuova musica, ma cercandone le radici anche nel passato recente, come dimostra la presenza di lavori di Dutilleux, Berio, Friedrich Cerha, Galina Ustwolskaja. Ci sono i big, come Rihm (Geste zu Vedova) e Haas (Unheimat per archi). Ci sono i due compositori residenti col programma DAAD, l’irlandese Karen Power e Francesco Filidei. L’altro italiano in programma è il veneziano Roberto Rusconi, presente con De Arte Respirandi eseguito dal Minguet Quartet. Un tratto provocatorio e iconoclasta si coglie in numerosi lavori, come Popular Contexts 8 dell’australiano Matthew Shlomowitz, Die lllusion zu erzeugen per percussioni e elettronica di Hannes Seidl, The Cartography of Time di dirigere l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio. Il delicato allestimento di Carsen, in prima italiana, è una coproduzione tra l’Opéra National du Rhin e l’Opéra de Lille. In un’ambientazione onirica, dominata da grandi colline dai colori invernali, i numerosi personaggi dell’opera, per lo più animali in forme umane, animano un bosco fantastico e interagiscono con gli uomini, in un dialogo a volte drammatico, a volte affettuoso. Il cast impegnato nelle cinque recite dell’opera, dal 19 al 26 gennaio, annovera artisti formati nel solco della tradizione mitteleuropea, con grande esperienza dei capolavori di Janáček. Tra gli altri: Lucie Silkenová, la volpe Bystrouška; Michaela Kapustová nei panni del volpacchiotto Zlatohřbítek. La regia di Robert Carsen è ripresa da Stefano Pintor, scene e costumi Gideon Davey, coreografie Philippe Giraudeau, luci di Robert Carsen e Peter Van Praet. Info: teatroregio.torino.it per Gong ed elettronica di David Brynjar Franzson. Sonorità ricercate e arcaiche dominano nel concerto di Katharina Bäuml e Margit Kern. Molto atteso, inoltre, nel concerto dello Zafraan Ensemble, è il nuovo pezzo, Dex, di Johannes Boris Borowski. Ci saranno diversi concerti di solisti che suonano con il supporto di apparecchiature elettroniche. Agata Zubel sarà presente sia come compositrice che come vocalist nei suoi lavori Shades of Ice e Not I, per voce e ensemble. La violinista Barbara Lüneburg interagirà con elettronica e video; il pianista Christoph Grund si cimenterà con due lavori per pianoforte e elettronica. Il festival si aprirà e chiuderà con due concerti della Deutsches Symphonie-Orchester: il primo diretto da Kristjan Järvi; il secondo, diretto da Simone Young. Info: ultraschallberlin.de Gianluigi Mattietti Amadeus 41 INSCENA T H E R O YA L O P E R A anteprima ...nel mondo GENNAIO AMSTERDAM De Nationale Opera 17-31 Mozart, Die Zauberflöte; dir. A. Marcon, reg. R. Jones GINEVRA Grand Théâtre 3-8 Händel, Ariodante; dir. G. Madaras, reg. J. Rose PARIGI Palais Garnier 19-31 Strauss, Capriccio; dir. I. Metzmacher, reg. R. Carsen Opéra Bastille 20-29 Massenet, Werther; dir. A. Lombard, reg. B. Jacquot 28, 31 Verdi, Il trovatore; dir. D. Callegari, reg. A. Ollé ZURIGO Opernhaus 1-9 Rossini, Il viaggio a Reims; dir. D. Rustioni, reg. C. Marthaler 17-30 Donizetti, Don Pasquale; dir. E. Mazzola, reg. G. Asagaroff 24-31 Rihm, Die Hamletmaschine; dir. G. Feltz, reg. S. Baumgarten ANNO NUOVO, OPERE NUOVE A nno nuovo, opere nuove. Stilles Meer (mare silenzioso) di Toshio Hosokawa, che debutta alla Staatsoper di Amburgo, si ricollega all’incidente nucleare di Fukushima. Il testo di Hirata Oriza, trasformato in libretto da Hannah Dübgen, si basa sull’antico Nô Sumidagawa, lo stesso al quale si ispirò Britten per Curlew River. La protagonista è una donna che ha perso il marito e il figlio nel disastro nucleare, e che va spesso in riva al mare dove le lanterne ricordano le anime dei morti. Rivede per un attimo lo spirito del bambino, che alla fine si dissolve tra le sue braccia. Hosokawa ha fatto sua la dimensione antirealistica e “contemplativa” del teatro di Hirata (che sarà anche regista dell’opera), e ha creato una partitura piena di implicazioni simboliche. Sul podio ci sarà Kent Nagano. Nel cast Susanne Elmark, Mihoko Fujimura e il controtenore Bejun Mehta (dal 24 gennaio al 13 febbraio). Dal disastro provocato da un maremoto all’esplorazione di un’altra parte del nostro pianeta: “geologica” è anche la nuova opera di Miroslav Srnka, South Pole (commissionata dalla Staatsoper di Monaco) che racconta l’avventurosa scoperta del Polo Sud. Il quarantenne compositore ceco, allievo di Fedele e Manoury, attivo anche come musicologo, curatore delle edizioni critiche di molti lavori di Dvořák, Janáček e Martinů, già celebre per le opere da camera Wall (Berlino 2005) e Make No Noise (Monaco 2011), ha scritto l’opera su un libretto di Tom Holloway. Si racconta la celebre, tragica sfida tra l’esploratore inglese Robert Falcon Scott e il norvegese Roald Amundsen, che nel 1911 furono i primi ad arrivare al Polo Sud. Srnka ne ha fatto così una specie di opera doppia, che racconta due vicende parallele, identificate musicalmente anche da alcune citazioni: il tema di Scott è la romanza del fiore da Carmen, il tema di Amundsen è la canzone di Solveig dal Peer Gynt. Regia di Hans Neuenfels. Sul podio Kirill Petrenko, in palcoscenico star della lirica come Thomas Hampson (Amundsen) e Rolando Villazón (Scott), Tara Erraught e Mojca Erdmann (dal 31 gennaio all'11 febbraio). g.matt. SALISBURGO: MOZART WOCHE 2016 Sopra, a Monaco di Baviera si prova South Pole, la nuova opera di Miroslav Srnka; qui Renaud Capucon che a Salisburgo il 27 gennaio, in occasione del 260° anniversario della nascitadi Mozart, suonerà il concerto per violino L'arbre des songes di Dutilleux per la Settimana mozartiana Dal 22 al 31 gennaio la Fondazione Mozarteum di Salisburgo invita tutti alla Mozart Woche 2016. I principali concerti per solisti e musica da camera ruotano intorno a tre giganti: Mozart, Mendelssohn e Dutilleux. Al pianoforte si avvicenderanno Sir András Schiff, Mitsuko Uchida, Radu Lupu, Katia e Marielle Labèque, Fazil Say e Alexander Melnikov. Fra le formazioni di musica da camera si esibiranno l’Hagen Quartett, il Quatuor Ebène, Les Vents Franҫais e il violoncellista Nicolas Altstaedt. La principale serata concertistica sarà incentrata su Acis and Galatea, capolavoro di Hӓndels scritto nel 1718 per la residenza di campagna del conte di Carnarvon e ripreso nel 1788 da Mozart in una forma nuova e più moderna. La serata prevede l’esecuzione anche della rielaborazione orchestrale del 1828 di Mendelssohn. Info: mozarteum.at TALVOLTA AMARE QUALCUNO SIGNIFICA LASCIARLO ANDARE VIOLETTA VALÉRY VENERA GIMADIEVA ALFREDO GERMONT SAIMIR PIRGU | GIORGIO GERMONT LUCA SALSI LA TRAVIATA MUSICA GIUSEPPE VERDI | REGIA RICHARD EYRE | DIRETTORE D’ORCHESTRA YVES ABEL IN DIRETTA AL CINEMA IL 4 FEBBRAIO - ORE 19,45 www.rohalcinema.it 42 Amadeus 12A è il grado di censura previsto dal British Board of Film Classification per tutti gli spettacoli: tutti i minori di 12 anni devono essere accompagnati da un adulto Image by AKA (©ROH, 2015) MADRID Teatro Real 16-30 Mozart, Die Zauberflöte; dir. I. Bolton, reg. S. Andrade & B. Kosky INSCENA lacritica MILANO Teatro alla Scala Verdi Giovanna d'Arco Splendida Netrebko nel Verdi autentico di Chailly Q uel che più ha impressionato, nella Giovanna d'Arco che ha aperto la stagione della Scala, è stata la direzione di Riccardo Chailly. Niente di più istruttivo per constatare come la recezione verdiana abbia subito una svolta: le opere degli "anni di galera", considerate da un lunga tradizione critica rozze, volgari e "brutte", possono apparire oggi prodotti raffinati, senza perdita alcuna di vigore e di forza. L'operazione di Chailly è quasi banale: parte da una lettura attenta della partitura, e da una resa fedele di tutto ciò che c'è scritto. Cosa ignorata da una tradizione esecutiva che ha portato, sin dall'Ottocento, a gravi fraintendimenti del dettato verdiano. Pullulano nella Giovanna d'Arco le indicazioni espressive: con raccapriccio, cantabile, con dolore, con passione, con energia, canto liscio, slanciate, mezzavoce, rapita in estasi, legate e sottovoce, con gra- zia, con voce quasi spenta, con disperazione, ecc., indicazioni che vanno ad aggiungersi alle minute prescrizione di dinamica e di fraseggio. Chailly le rispetta tutte, vi aggiunge la sua innata sensibilità e gusto musicale, e ci presenta una partitura irriconoscibile, piena di particolari squisiti, meno invadente del solito nelle parti più bellicose e robuste, resa vitale attraverso la continua varietà del suono e una straordinaria elasticità di fraseggio: magistrale la resa di piccoli rubati che fanno respirare la musica, senza rompere la quadratura ritmica del discorso. Dunque per eseguire bene Verdi ci vogliono bacchette abituate a ben altro: Bach e Brahms, Beethoven e Mahler, Mozart e Bruckner. La stessa cura, la stessa attenzione, lo stesso amore del particolare necessario per queste partiture, applicate a Verdi, soprattutto a quello delle prime opere, ne cambiano il volto. Bastava sentire l'Orchestra della Scala apparire e sparire sotto le voci, pulsare con naturalezza negli accompagnamenti, sottratti a qualsisi rigidezza meccanica, sfumare di continuo il suono in tutta la gamma, dal pianissimo al fortissimo, mettere in luce particolari scritti ma mai uditi. Un lavoro di cesello, insomma, che ci fa riconoscere oggi, in Chailly, un depositario del Verdi più autentico. Naturalmente i cantanti si sono mossi in sintonia col direttore. Splendida Anna Netrebko: la voce è incisiva, ha un timbro penetrante ma morbido, le colorature sono agili e precise, investite da una forza che dà energia ad ogni nota, anche a quelle del registro basso. Francesco Meli, ad ogni prova, si conferma il cantante che è: un piacere ascoltarlo per la chiarezza della dizione, la luminosità del timbro e dello stile. Devid Cecconi ha sostituito degnamente Àlvarez ammalato. Splendida la prova dell'orchestra e del coro, molto impegnato nell'opera e istruito come sempre in modo magistrale da Bruno Casoni. La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier fa di tutto per confondere le carte e impedire agli spettatori di capire dove si sta svolgendo l'azione. Solo quando appare la Cattedrale di Reims ci si raccapezza, anche se l'opera continua a svolgersi in una camera da letto (?!) dove passa di tutto , fuochi e fiamme, soldati e popolo, nuvole e cielo azzurro, lance e armature di plastica, guazzabuglio figurativo che fa pensare piuttosto a una prova di scena, in cui molto sia ancora da organizzare e mettere in ordine per dargli un senso immediatamente afferrabile, come dovrebbe succedere sempre in teatro. Paolo Gallarati Qui, Anna Netrebko e Francesco Meli, protagonisti della Giovanna d'Arco che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly Amadeus 45 INSCENA INSCENA lacritica PARIGI Opéra Bastille Schönberg Moses und Aron Il trionfo di Castellucci inaugura il "regno" di Lissner T utta Parigi era all’Opéra-Bastille per la prima di Moses und Aron di Arnold Schönberg, produzione voluta da Stéphane Lissner come primo emblema di un “regno” iniziato l’anno scorso con una stagione fatta dal suo predecessore. Non si sapeva che Schönberg potesse attirare il fior fiore degli amanti della lirica… Moses und Aron, entrato in versione francese nel repertorio dell’Opéra nel 1973, è stato proposto in versione originale, con la regia attesissima di Romeo Castellucci. È stato il trionfo previsto, preparato da una campagna di comunicazione che aveva creato l’attesa irrazionale di un’esplosione creativa del regista italiano, per la sua quarta produzione lirica. Castellucci ha proposto un lavoro dominato dalla questione del Verbo, della parola: parola difficile per Mosè e facile per Aronne, Verbo di Dio, trasmesso a Mosè attraverso un registratore vecchio stile con nastri che cadono su di lui, o che avvolgono la divinità pagana onorata dal popolo ebraico lasciato da solo per 40 giorni contati (un calcolatore proiettato lo ricorda), parole che sfilano a grande velocità, o che si indovinano sul suolo al ritorno di Mosè quando lo spazio, prima bianco e puro, si macchia di liquido nero (petrolio? O forse inchiostro): il mondo puro lasciato da Mosè è diventato 40 giorni dopo macchiato e sporco. Castellucci compone immagini stupende come la nebbia iniziale fatta di sfumature di bianco, l’apparizione del vitello d’oro, rappresentatoda un enorme toro bianco vivo sul quale si versa anche un po’ di liquido nero, o la piscina probatica nella quale ciascuno si tuffa. Ne risulta uno spettacolo tutt’altro che scandaloso, rituale senza asprezza, lento, dove vengono come distanziate tutte le scene che marcano la perdita di valori del popolo: l’orgia sparisce, evocata da corpi nudi appena visibili. Rimane un corpo di donna nuda vicino al toro suggerendo un sacrificio terribilmente pagano.La musica è coerente con questa cerimonia sacrale: non è incisiva la direzione pur precisa e chiara di Philippe Jordan, ma manca forse di dinamica e di tensione; la prestazione del coro (che è il personaggio principale dell’opera) preparato da mesi da José Luis Basso è a dir poco prodigiosa, e i solisti notevoli: Thomas Johannes Mayer con il suo timbro velato, la sua energia, la sua impeccabile dizione è un Mosè impressionante di presenza e di grandezza. Di fronte, Aronne (John Graham-Hall) non è brillante come dovrebbe essere l’oratore Aronne, simbolo del politico opportunista, la voce si stanca, l’acuto non è sicuro. Molto bene gli altri, in particolare Christopher Purves, Catherine Wyn-Rogers, e Nicky Spence. Una bellissima serata che segna, speriamolo, una carriera nuova per l’opera di Schönberg: a 85 anni compiuti, sarebbe ora… Guy Cherqui Qui, Moses und Aron nell'allestimento proposto all'Opéra Bastille da Romeo Castellucci lacritica BERGAMO Teatro Donizetti Donizetti Anna Bolena Studiosi e interpreti: l'unione fa la forza I l Teatro Donizetti affollato in ogni ordine di posti, festosissimo, per Anna Bolena proposta da Lirica Bergamo 2015 affidata alla guida di Francesco Micheli. Prima esecuzione integrale in teatro sull’edizione critica di Paolo Fabbri. Da quando la Bolena fu riscoperta nel 1957 alla Scala (indimenticabile, con tagli misurati alla vocalità degli artisti e all’evidenza di sintesi) tentativi di riapertura erano stati fatti; mai però con la fedeltà assoluta anche a tutti i recitativi, che non solo spiegano i personaggi, ma sono straordinariamente accompagnati. Risultato importante: la fiducia nel testo come è uscito configurato dalla collaborazione letteraria del poeta Felice Romani e dalla costruzione musicale e drammaturgica di Donizetti: vittoria della Fondazione Donizetti e dei suoi studiosi. Ci voleva un direttore come Corrado Rovaris, appassionato e scrupoloso, per infondere negli artisti, cantanti, Coro e Orchestra necessità e naturalezza: nelle campiture d’ambiente i personaggi inquieti approdano ad arie e pezzi d’assieme, non più isolabili. Ha addestrato la compagnia a Sopra, Carmela Remigio, Anna Bolena a Bergamo; sotto, una scena di La jura di Gavino Gabriel questo palpito incessante, alla trasparenza consapevole della parola, alla flessibilità belcantistica morbida di ornamentazione che i cantanti giovani hanno ereditato da decenni di belcanto-renaissance. Decisiva poi la tonalità originale ripristinata al tenore: amoroso, leggero, aperto a virtuosismi di grazia e slanci acuti “di testa” com’era Rubini, il primo Percy, con l’interprete Maxim Mironov. Carmela Remigio si inventa Anna Bolena con incantevole sincerità e continuità di tenuta, regina di fronte ai tranelli del potere e donna vulnerabile, trascinante negli scatti d’impeto, nella tenerezza sofferta. Sofia Soloviy intreccia con limpida dolcezza turbamento e rimorso alla sensualità ambiziosa di Giovanna; Alex Esposito, il Re, infuria con autorità dal torbido sussurro al declamato infuocato; con Manuela Custer, sensibile Smeton, Gabriele Sagona e Alessandro Viola. Recitano intensi, ma alla regia di Alessandro Talevi manca la Storia. Perché Enrico VIII non è un nevrotico pericoloso, immeschinito in costume da rapper, il Paggio non può cantare su una passerella da acqua alta, col Coro Damigelle accovacciato, in neri “tutù” da orfanelle, che si sbraccia ad ali di cigno. Durante la Sinfonia non può agitarsi sul girevole la regina che partorisce (ma non l’erede maschio), rovello a cui Donizetti non presta attenzione, come sono gratuiti l’attesa di Giovanna, già in posizione per le bramosie sessuali del Re, o il roteare della culla itinerante nel delirio. Non scandalizza, perché il pubblico ormai è quasi agevolato dalla moda di spettacoli sinistri, in uno spazio scenico che si trasforma (scene e costumi Madeleine Boyd). Importato questo dalla Welsh National Opera-Cardiff a costi solidali. Franca Cella CAGLIARI: LA JURA Il progetto che ruotava intorno a La Jura, in cartellone alla Fondazione Teatro Lirico di Cagliari dopo più di cinquant’anni dall’ultima rappresentazione (la prima fu nel 1928), ha visto contestualmente alla messa in scena la ricostruzione filologica della partitura curata da Susanna Pasticci e una serie di iniziative culturali dedicate. Legata al pensiero etnologico del suo creatore Gavino Gabriel (apprezzabile più come intellettuale che come compositore e librettista) , La Jura si presenta come un’opera di stampo tardo-verista: ambientata nella Sardegna ottocentesca con un focus sulla tradizione regionale, come lo stesso titolo evidenzia, risulta musicalmente un ibrido nel quale l’introduzione degli elementi musicali folklorici si limita a una giustapposizione che non altera l’impianto neoclassico, mentre risulta interessante l’intervento non mediato del coro gallurese “a tàsgia”. Buona la regia di Christian Taraborrelli e il cast vocale e strumentale, diretto da Sandro Sanna. Francesca Mulas 46 Amadeus Amadeus 47 INSCENA INSCENA lacritica lacritica BOLOGNA Teatro Comunale Strauss Elektra Le agghiaccianti peripezie di un dramma familiare I VENEZIA Teatro La Fenice Mozart Idomeneo Ironia e affetti per un insidioso libretto I l libretto di Idomeneo, scritto dall’abate Varesco nel 1781, è forse il più prolisso tra quelli musicati da Mozart che cercò inutilmente un rimedio. Così la prolissità, proprio come temeva Mozart, resta il più insidioso nemico dell’effetto drammatico di una storia che, ponendo sullo sfondo di un amore contrastato la guerra tra i popoli e i tormenti dell’uomo di potere, avrebbe in realtà motivi di interesse ancora attuali a dispetto del contesto apologetico-celebrativo monacense per cui fu scritta. Ma, per dirla con le parole stesse del salisburghese, è in realtà il “potere della musica” che riscatta gli inconvenienti librettistci e fa di Idomeneo una delle partiture più lussureggianti e accuratamente orchestrate, insieme a Die Entführung, di tutto il teatro di Mozart. Jeffrey Tate, nel nuovo allestimento che Inaugurazione con Idomeno alla Fenice di Venezia: regia, Alessandro Talevi, direttore Jeffrey Tate MILANO MUSICA La dedica a Bruno Maderna del Festival Milano Musica di quest’anno poneva l’accento sulla presenza sempre attuale, oggi, del compositore veneziano (se ne è parlato nella rubrica Musicaoggi dello scorso agosto) senza dedicargli una estesa monografia. Due capolavori molto diversi e di grande rilievo, il Concerto per violino e Aura erano nel concerto inaugurale insieme a Berg e Webern; altre pagine significative si intrecciavano a un programma di grande varietà e ricchezza. Di eccezionale rilievo la rappresentazione di Giordano Bruno, la prima opera di Francesco Filidei, giunta a Milano qualche settimana dopo Porto, Strasburgo e Reggio Emilia (da dove ne ha riferito Gianluigi Mattietti); altre proposte spaziavano da un omaggio pianistico a Boulez per i suoi 90 anni a Berio, Donatoni, Lachenmann, Birtwistle, Sciarrino, a presenze più giovani come quella di Aureliano Cattaneo (affidato al mdi Ensemble) o quelle legate alla consueta collaborazione con la Fondazione Spinola Banna per l’Arte: Fabio Nieder aveva scelto l’ungherese Máté Balogh (1990) e Caterina Di Cecca (1984) e ha diretto egli stesso l’Ensemble Mosaik nelle loro novità assolute e in due suoi pezzi bellissimi nel loro carattere onirico-visionario, entrambi legati al progetto teatrale sul pittore triestino Vito Thümmel che lo accompagna dal 2001. Memorabili, fra gli altri, i due concerti per quartetto con il Quartetto Arditti e con il Quatuor Diotima, che aveva al centro Clamour di Gervasoni (su cui si veda Musicaoggi a pag.81). Paolo Petazzi 48 Amadeus ha inaugurato la stagione del Teatro La Fenice di Venezia, ha pienamente reso lo splendore della scrittura ben assecondato dall’orchestra e dal Coro (che ha rivelato qualche difficoltà solo quando dalla massa sono dovuti uscire i solisti dell’Intermezzo del primo atto). Come era dovuto al ruolo di Idomeneo nato per un grande e coltissimo tenore, Anton Raaf, l’allestimento della Fenice si è avvalso di un interprete giusto per virtuosismo e accento, il giovane tenore americano Brenden Gunnell. Buona la dolce Ilia di Ekaterina Sedovnikova e quindi Idamante di Monica Bacelli, Elettra di Michaela Kaune, Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani nell’impegnativa parte che fu scritta per il tenore Domenico Panzacchi. La regia di Alessandro Talevi cerca di trarre il meglio dal libretto e asseconda con gusto la musica ora esteriorizzandone gli affetti, ora evidenziandone l’ironia. Molto essenziali le scene di Justin Arienti, mentre i costumi di Manuel Pedretti sono un curioso pastiche di elementi simbolici velatamente allusivi e non sempre trasparenti come ad esempio i dreadlocks intrecciati sulla testa di tutti gli eroi della tribù cretese. Pubblico numeroso e caldo successo. Paolo Cattelan l Teatro Comunale, che aveva dato l’Elektra di Strauss in italiano nel lontano 1969, ha importato dalla Monnaie (Bruxelles) e dal Liceu (Barcellona) un suggestivo allestimento di Guy Joosten, scene e costumi di Patrick Kinmonth. Visto dal di dentro, il palazzo degli Atridi è un edificio grandioso e scalcinato, dall’aspetto infausto. Agli infelici abitanti accudisce uno stuolo femminile di vigilanti in uniforme, un po’ poliziotte e un po’ infermiere, petulanti e prepotenti: così appaiono nella prima scena, che il regista ha collocato in uno spogliatoio, infrangendo l’unità di spazio dell’atto unico. Il resto dell’azione si svolge in un ampio, disadorno androne, collegato alla magione regale da un’angusta scaletta. Di lì calano Crisotemide, Clitennestra, più tardi Egisto; di lì l’uxoricida impunita risale ignara verso la morte, sbottando in un terrificante sghignazzo all’indirizzo di Elektra. È l’agghiacciante peripezia del dramma, un culmine d’ironia tragica: Clitennestra e le sue donne deridono l’ignara eroina, ma in realtà ridono senza saperlo della propria rovina incombente; la notizia della morte di Oreste, il temuto vendicatore di Agamennone, è infatti un’atroce menzogna che cela la devastante verità, l’arrivo imminente del giustiziere in incognito, Elektra al Comunale di Bologna, uno spettacolo firmato da Guy Josten e diretto da Lothar Zagrosek: in basso, la protagonista Elena Nebera da Elektra spasmodicamente atteso. S’intuisce che vi debbano essere sale fastose, di là dai battenti di un monumentale portone ligneo, che ha tutta l’aria d’essere rimasto chiuso da quando Agamennone era partito per la guerra. Ma nel polveroso ripostiglio di attrezzi dismessi che noi vediamo, la luce del crepuscolo non penetra mai: rannicchiata sotto un baldacchino, Elettra selvaggiamente ulula il proprio dolore per il genitore trucidato. Solo le torce delle attendenti arrecano di quando in quando un bagliore, un barlume, nel persistente grigiore dell’aria. Oreste di là dal muro consuma l’eccidio riparatore. Al colmo del suo valzer tripudiante Elettra si accascia. A questo punto il portone si solleva: come per prodigio, sotto le arcate e le balconate di un’aula maestosa in stile guglielmino, la salma dell’eroina appare riversa sulle ginocchia del fratello, quasi una michelangiolesca Pietà. Ai loro piedi stanno le vittime dell’ecatombe. La reinterpretazione del fulminante mito narrato da Hofmannsthal e sonorizzato da Strauss è libera ma non impertinente, ed è sorretta dall’espressionistica gestualità che il regista ha saputo ottenere da un cast di gagliardi cantantiattori: istericamente esagitata l’Elettra di Elena Nebera, affranta e angosciata la Crisotemide di Anna Gabler, esulceratamente altezzosa la Clitennestra di Natascha Petrinsky. Coerenti le parti maschili, lo smargiasso Egisto di Jan Vacik e l’ombroso Oreste di Thomas Hall. In una partitura notoriamente impervia, l’orchestra del Comunale ha brillato per smalto e precisione, sotto la guida sicura e netta di un professionista del Novecento storico, Lothar Zagrosek, che a Bologna è ormai di casa. Successo per tutti. Giuseppina La Face Bianconi Amadeus 49 INSCENA INSCENA lacritica lacritica ROMA FERRARA Teatro dell’Opera Henze The Bassarids Teatro "Claudio Abbado" Difficile proporre l'inconsueto tra cultura classica e modernità Un omaggio che sa di amore e gratitudine Ferrara Musica V a certamente salutata con piacere estremo la scelta del Teatro dell’Opera, troppo spesso (e talvolta a ragione) accusato di redigere cartelloni scontati e vetusti, di aprire la nuova stagione lirica con The Bassarids di Hans Werner Henze. Un’opera non soltanto “contemporanea” (cioè del ’900 – bisogna fare pace per il momento con questa associazione, a quanto pare) ma anche difficile. Cosa che però giova all’ottimismo del teatro fino a un certo punto: cominciare con l’inconsueto va bene, ma non bisogna perdere il contatto con la realtà dello spettatore medio. L’opera di Henze è molto complessa dal punto di vista musicale (l’autore scrive una grossa sinfonia di due ore, multistratificata, sulla quale si appoggia la dimensione canora, apparentemente sconnessa da quella strumentale) e soprattutto da quello drammaturgico. Non basta infatti conoscere il mito (e sarebbe già tanto; la storia è tratta dalle Baccanti di Euripide) per comprendere la trama poiché il libretto di W.H. Auden e Chester Kallman è scritto per suggestioni e quindi davvero difficile da capire, tanto più che il ritmo drammatico è piuttosto serrato – Henze procura una notevole continuità musicale – e non ci sono molti momenti per riflettere su certe frasi o scene. Non aiuta poi la regia di Mario Martone, che in scena fa accadere moltissime cose. Nonostante la buona prova di tutto il cast (spicca Ladislav Elgr, nei panni di Dioniso, coniugano benissimo l’attore con il cantante), The Bassarids“soffre” così dell’epoca in cui è stata scritta (a metà degli anni ’60, con un linguaggio ai massimi della complessità) e di una proposta lirica che non tiene conto della difficoltà – soprattutto da parte dello spettatore – di vedere l’attualità della cultura classica. Federico Capitoni È Sopra, The Bassarids di Henze all'Opera di Roma: un momento dello spettacolo ideato da Mario Martone; sotto, una scena di Notorius a Göteborg GÖTEBERG: NOTORIUS Il cinema sembra essere diventato una fonte di ispirazione per molti operisti. A Göteborg è stata accolta con grande successo la nuova opera di Hans Gefors, Notorius, basata sulla sceneggiatura del film di Hitchcock. Protagonista una straordinaria Nina Stemme che ha affrontato senza sforzo il difficile ruolo vocale, mostrando le emozioni, il terrore, la disperazione della protagonista, come in una prova cinematografica. La sontuosa scrittura orchestrale di Gefors richiamava Mahler e Ravel, con citazioni da Gluck e punteggiature brasiliane, per ricreare l’ambientazione di Rio. Era una musica di impatto immediato, ricca di invenzioni, di scatti improvvisi, di momenti lirici e sensuali, ma anche di effetti come fischi, soffi, glissati, usati per sottolineare i momenti di suspense. La regia di Keith Warner giocava sulla metafora del cinema, con pochi oggetti in scena e un sofisticato gioco di video che evocava gli originali ambienti hitchcockiani. Ma introduceva anche immagini cruente e surreali, e figure diaboliche, assenti nel film, insieme alla figura dello stesso Hitchcock, presente in ogni scena, come un cameo moltiplicato all’infinito. Gianluigi Mattietti 50 Amadeus con un concerto dedicato a Claudio Abbado, nel teatro a lui intitolato, che è stata inaugurata la stagione 2015-2016 di Ferrara Musica. A rendergli omaggio Martha Argerich e la Lucerne Festival Orchestra che, sotto la guida del direttore lettone Andris Nelsons, ha eseguito il Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Sergej Prokof’ev e, nella seconda parte, la Quinta sinfonia di Gustav Mahler. Tutto, dall’impaginazione del programma alla scelta degli interpreti, parlava del grande direttore milanese: l’orchestra da lui rifondata e portata all’odierna maturità tecnica ed espressiva; l’amica-pianista di una vita con cui l’intesa musicale riusciva naturale connotando di una freschezza assoluta molte interpretazioni (fra cui – e probabilmente soprattutto – proprio il Terzo di Prokof’ev nella loro incisione discografica d’esordio con la Deutsche Grammophon); gli autori in programma (l’amatissimo Mahler in particolare); un teatro e una città che ad Abbado devono certamente molto e il cui amore per lui egli ha ricambiato. Se ne è parlato a concerto finito, in privato, con la pianista argentina: la nostalgia acuta per l’uomo e il musicista; il gesto preciso ed elegante col quale sapeva trarre dall’orchestra, come lo scultore dal marmo, tutto il rilievo e la plastica evidenza della musica che interpretava, sempre e infallibilmente cogliendone l’immanente necessità. Martha Argerich non eseguiva questo Concerto da nove anni. Eppure all’appuntamento con l’ardua partitura di Prokof’ev, la Argerich si è presentata ancora, come sempre, in forma smagliante. Sicché tutta l’altissima qualità della scrittura pianistica Sopra, Martha Argerich con Andris Nesons e la Lucerne Festival Orchestra in concerto a Ferrara; sotto, Riccardo Chailly con il violinista Julian Rachlin nel concerto inaugurale della Filarmonica della Scala si è disvelata: nel vigore energico così come nell’intimità cameristica che pure vi è presente. E l’orchestra era lì a intessere un dialogo serrato e sempre convincente col pianoforte. Bis della Argerich (Scarlatti, Sonata K141) e pioggia di fiori per lei dal loggione. Meno riuscita la seconda parte del concerto. Andris Nelsons è un direttore certamente molto dotato; ma l’adesione pure sincera e appassionata alla musica di Mahler (molto bene nell’Adagietto), la tecnica e il gesto – invero scomposto e inutilmente dispendioso – non l’aiutano a rendere l’esecuzione all’altezza del predecessore. A fargli difetto è quel quid di musicalità in più ma necessaria a meglio focalizzare la poetica mahleriana e a conferire una maggiore tensione unitaria alla partitura, trasmettendo al pubblico il sentimento di urgente necessità che la pervade tutta. Caldissimo successo e lunghi applausi per tutti gli interpreti. Andrea Schenardi MILANO: FILARMONICA SCALA Apre la stagione della Filarmonica della Scala un programma originale nella concezione e negli accostamenti, diretto da Riccardo Chailly con limpida maestria e naturalezza espressiva. Introduzione e Passacaglia Lauda Sion Salvatorem di Maderna non è tanto uno squarcio sulla musica progressiva che si poteva scrivere nell’Italia del 1942 quanto uno sbocciare di idee e giovanile freschezza risolto in tessiture già avvincenti. Del Concerto per violino di Stravinskij Julian Rachlin esalta poi l’ossuta e acida vena parodistica con bravura assoluta (da assaporare anche nella Terza Sonata di Ysaÿe offerta come bis), mentre in chiusura l’interpretazione della Sinfonia n. 3 di Rachmaninov lavora lungo il filo di una lucida intensità l’ampio respiro e l’arco narrativo ma anche le pieghe di una partitura forse dalla presa non immediata ma che, nella direzione di Chailly, si rivela interessantissima, oltre che nella solidità della struttura formale, nella valorizzazione delle incrinature, degli offuscamenti e dei trasognamenti digressivi. Cesare Fertonani Amadeus 51 APPUNTI prosa cinema arti Piccola selezione di occasioni culturali e mete artistiche in giro per l'Italia LA GRANDE MUSICA SINFONICA SU CLASSICA HD DOMENICA ORE 21.10 BERGAMO Giovanni Battista Moroni è considerato il più grande ritrattista lombardo di sempre e viene omaggiato con percorsi espositivi nelle tre sedi dell’Accademia Carrara, del Museo Adriano Bernareggi e di Palazzo Moroni in onore del ritorno in città del Sarto: una sorprendente tela del Cinquecento italiano proveniente dalla National Gallery di Londra. Intorno al Sarto verranno esposti altri capolavori di Moroni, in particolar modo ritratti ed esempi di arte sacra. Fino al 28 febbraio. Info: iosonoilsarto.it BOLOGNA La mostra Brueghel. Capolavori dell’arte fiamminga ripercorre una storia di più di 150 anni portando a Palazzo Albergati i capolavori di un’intera dinastia di eccezionale talento attiva tra il XVI e il XVII secolo. Una famiglia che ha portato la rivoluzione realista nella pittura europea, indagando tutti gli aspetti della vita umana senza escludere quelli più crudi e realistici, e che ha influenzato, con lo sguardo degli stessi inventori, i grandi temi della storia dell’arte occidentale. Fino al 28 febbraio. Info: palazzoalbergati.com MILANO La multietnica via Padova è sede del ciclo di incontri intitolato Con profondo rispetto, organizzato dall’Associazione Culturale Villa Pallavicini per scoprire quali valori possano unire tutte le religioni del mondo. Il primo incontro, sui "vodu" e la stregoneria in Africa, si è tenuto a dicembre, ma da gennaio ad aprile si terranno altre sette serate su tutti i principali culti, dalle tre religioni monoteiste a quelle di tradizione orientale, fino all’ateismo e alle “streghe milanesi”. Fino al 14 aprile. Info: villapallavicini.org ROMA James Tissot è un pittore la cui arte è ancora un enigma, sospesa com’è tra le influenze impressioniste e le istanze preraffaelite. Per la prima volta le sue opere possono essere ammirate in Italia al Chiostro del Bramante: in mostra 80 dipinti che rappresentano l’ambiente parigino e la realtà londinese, con una vena ora sentimentale ora mistica e un talento di colorista che si esprime al meglio nella sua attenzione alla moda dell’epoca. Fino al 21 febbraio. Info: chiostrodelbramante.it VENEZIA Una partnership tra la Fondazione Musei Civici e la Biennale d’Arte propone una collettiva dedicata a quattro maestri dell’arte italiana contemporanea: Marco Gastini, Paolo Icaro, Eliseo Mattiacci e Giuseppe Spagnulo. Amici e legati da profonde affinità artistiche nonostante evidenti differenze stilistiche, i quattro artisti propongono a Ca’ Pesaro un intenso confronto dialettico, intitolato …ma un’estensione, che fonde arte e vita. Fino al 28 febbraio. Info: capesaro.visitmuve.it VICENZA Perché un architetto del Nord Italia venne preso a modello per l’architettura del Nuovo Mondo? Cerca di rispondere a questa domanda Thomas Jefferson e Palladio. Come costruire un mondo nuovo, la prima esposizione in Europa sul grande palladianista americano, estensore della Dichiarazione di Indipendenza e terzo Presidente degli Usa. Il Palladio Museum ospita le sue collezioni d’arte e i progetti di architettura, un percorso tra disegni, sculture, libri preziosi, modelli, video e multimedia. Fino al 28 marzo. Info: palladiomuseum.org Amadeus 53 Storia & Storie ADDIO agli archi Borciani, Pegreffi, Rossi e Forzanti, poi Farulli e Asciolla... Tra fratture e ricomposizioni il racconto di 30 anni di straordinaria musica d'insieme, alla ricerca della perfezione di Gregorio Moppi L a storia del Quartetto Italiano comincia con un addio e con due addii finisce. Tre decenni tondi tondi di vita artistica comune. Quasi quattro, se la storia si racconta proprio dal principio e fino all’ultimo secondo. Tutto comincia all’Accademia Chigiana di Siena, estate 1942. Quattro archi ventenni, allievi della classe di musica da camera di Arturo Bonucci ma ognuno già in carriera per conto proprio, si mettono insieme per studiare il Quartetto di Debussy. Sono Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi, violini destinati a sposarsi, Franco Rossi violoncello e la viola Lionello Forzanti, il più anziano della compagnia, alle soglie dei trenta. Già l’assemblaggio del pezzo si trasforma in evento per chi quell’anno frequenta i corsi di perfezionamento nel palazzo del conte Guido Chigi Saracini. Intorno ai quattro si radunano a ogni prova un bel po’ di studenti, del resto allora capitava raramente di poter sentire quartetti in Italia. I quattro giovani, per di più, discutono parecchio su ogni battuta, cosicché l’ascolto si tramuta in lezione di stile, di estetica e di pratica interpretativa. Fatto Debussy al saggio finale, il gruppo si scioglie. C’è la guerra. I veneziani Forzanti e Rossi hanno da lavorare in orchestra, alla Fenice. L’emiliano Borciani (allievo d’un allievo di Joseph Joachim, l’amico di Brahms) se ne va nei boschi, partigiano. Pegreffi e i suoi familiari vogliono mettersi al sicuro lontano da 54 Amadeus Amadeus 55 daASCOLTARE Tutte le registrazioni realizzate per Decca, Philips e Deutsche Grammophon in un box da 37 cd in edizione limitata a prezzo speciale. Così Decca celebra i settant’anni dalla fondazione del Quartetto Italiano, nome entrato nella storia dell’interpretazione del ventesimo secolo. Nel cofanetto, che contiene anche 10 album completi disponibili per la prima volta in cd, le integrali di Mozart, Beethoven, Brahms (compreso il Quintetto con Maurizio Pollini al pianoforte), Schumann e Webern. Spiccano poi lo Schubert estremo per cui il Quartetto Italiano andava celebre nel mondo e le incisioni di Debussy e Ravel che nel 1965 segnarono l’inizio della proficua collaborazione discografica con Philips. Genova, la loro città. Ma appena terminato il conflitto le vite dei quattro si riannodano subito nella Reggio di Borciani grazie al supporto dell’Organizzazione Giovanile Italiana dell’amico Giuseppe Dossetti che avrebbe voluto il violinista, quasi laureato in legge, questore della città. Viene fondato così il Nuovo Quartetto Italiano (poiché un Quartetto Italiano già era esistito, con Remy Principe come leader; ma l’aggettivo “nuovo” cade presto), e dopo prove di cinque ore al giorno per due mesi e mezzo il debutto avviene agli Amici della Musica di Carpi il 13 novembre 1945. Rapido il loro nome si diffonde per la penisola, e nel ’46 varca le Alpi verso Lugano e Zurigo. Parte Forzanti, arriva Farulli Ma ecco il primo addio. A fine di quell’anno Forzanti si lascia rapire dalle sirene di una possibile carriera direttoriale in America, che in effetti poi intraprende con una certa fortuna. Al suo posto entra Piero Farulli, classe 1920, fiorentino risoluto, modi spicci, che da militare in Sicilia aveva assistito allo sbarco degli Alleati legato dai superiori a un palo in mezzo a un uliveto. 56 Amadeus Il Quartetto Italiano, nella formazione che durerà tre decenni, comincia a studiare il 1° gennaio 1947. Dapprima la mole di lavoro appare massacrante, anche perché nel primo decennio il Quartetto persegue l’obiettivo di suonare a memoria. Farulli, per esempio, deve barcamenarsi ogni giorno tra le cinque ore di prove nell’orchestra del Maggio fiorentino e le quattro-cinque con il quartetto. Frequenti ma fruttuose le litigate durante la preparazione dei programmi cui Borciani e Pegreffi si avvicinano con intelligenza musicale rigorosa, limpida, di stampo toscaniniano, mentre Farulli e Rossi tendono a un approccio più istintivo, sanguigno. «Forse i conflitti servivano a esporre e far scoppiare temi e problemi che però poi, quando finalmente suonavamo in faccia al pubblico, venivano annientati, travolti da questa forza che faceva di noi una cosa unica», spiegò una volta Farulli. Ed Elisa Pegreffi: «Molte volte su due battute restavamo a discutere per delle ore. Qualche volta ci sembrava di perdere del tempo, ma poi ritrovavamo questa tensione intellettuale nelle nostre esecuzioni: forse era proprio questo il segreto di certe profondità interpretative». Non è necessario rammentare qui la passione e i meriti storici del Quartetto nella diffusione del repertorio cameristico (non solo in una terra come l’Italia, fino ad allora alquanto indifferente a quel repertorio), né necessita soffermarsi troppo sull’apostolato compiuto verso la produzione novecentesca con le esecuzioni di Ravel, Bartók, Prokof’ev, Martinů, Ghedini, Bucchi, Bussotti, dell’op. 108 di Šostakovič, delle integrali di Stravinskij e Webern. Darius Milhaud, ascoltando nel 1952 la registrazione del suo Quartetto n. 12, la saluta come «ammirabile, perfetta». Uno spettatore d’eccezione Nel 1949 fra il pubblico della Filarmonica Romana che assiste al loro debutto nell’op. 130 di Beethoven si trova Otto Klemperer che alcuni giorni dopo, dirigendo al Carlo Felice di Genova, prega l’orchestra (dove suona il padre della Pegreffi) di fare sforzati esattamente uguali a quelli del Quartetto Italiano. I concerti del 1951 al Festival di Salisburgo e a New York segnano la definitiva consacrazione internazionale del complesso che ha già cominciato a incidere per Decca, nel 1953 passerà alla Columbia e dal ’65 alla Philips (tutte le registrazioni, inediti compresi, sono ora pubblicate in un memorabile cofanetto di 37 cd, vedi box a lato, n.d.r.). L’incontro con Furtwängler A guidarne le letture fino a quel momento erano state la concezione del far musica come missione, la scultorea campitura formale, la nobiltà del cantabile, l’incalzante tensione ritmica sostenuta dal virtuosismo dei singoli e dalla salda omogeneità dell’insieme cui fornivano modello ideale l’arte di Toscanini (incrociato una sola volta in America per pochi minuti) e di Antonio Guarnieri, sempre considerato bacchetta impareggiabile da Rossi. Tuttavia l’incontro con Wilhelm Furtwängler a Salisburgo porta i quattro a riconsiderare da altre prospettive il loro modo di suonare. Invitati a casa del leggendario direttore d’orchestra, leggono il Quintetto di Brahms con lui al porta una rinnovata consapevolezza estetica: fedeltà al testo congiunta allo scavo delle emozioni. E questo senza imbracciare strumenti dal nome altisonante. Né Stradivari, Guarneri o Amati, ma un Vuillaume della seconda metà del’Ottocento, Borciani, Pegreffi un De Comble, fiammingo, datato 1756, Farulli una viola moderna fabbricata a Firenze da Sderci, Rossi il Capicchioni dono del conte Chigi Saracini. Il 1977 è l’anno in cui la Nasa sceglie la loro registrazione della Cavatina dal Quartetto beethoveniano op. 130 per inviarla nel cosmo fra le testimonianze della civiltà umana nel caso esistessero gli alieni; un giallo, però, intorno a questo episodio: il sito ufficiale dell’ente spaziale statunitense attribuisce l’esecuzione al Quartetto di Budapest. Ma è pure la data del secondo addio, preludio alla dissoluzione del Quartetto. Il 14 dicembre, all’indomani di un recital al Centro Culturale Olivetti, Farulli comincia a sentirsi male. A Torino viene ricoverato per ischemia coronarica. Cancellati tutti gli impegni fino a nuovo ordine. La convalescenza è lunga: «Abbiamo vissuto una crisi dopo l'incontro con Furtwängler, perché avevamo scoperto che la musica si faceva in un altro modo» piano e discutono insieme dei Quartetti di Beethoven. Furtwängler insegna loro la libertà nella battuta. «Egli era guidato dall’idea-base che solo concedendosi più spazio e più tempo l’interprete può raggiungere la profondità dell’opera, dandole il respiro necessario», ricordava Pegreffi. «La sua grande libertà, il suo immenso respiro, l’intuizione tragica ci riempivano di ammirazione e ci hanno aperto il mondo. Noi abbiamo vissuto una crisi di quasi un anno dopo aver incontrato Furtwängler, perché avevamo scoperto che la musica si faceva in un altro modo. La sua idea della musica è stata una folgorazione come se sotto di noi si fosse spalancato l’infinito». La crisi salutare i cardiologi prevedono che il violista (fondatore, nel ’74, della Scuola di Musica di Fiesole) potrà riprendere a dare concerti non prima del settembre successivo. Gli altri membri scalpitano e a marzo del 1978 stabiliscono di trovargli un sostituto, Dino Asciolla. Farulli li diffida e prende carta e penna per dire ai compagni: «Stupisce constatare che a soli due mesi dal mio incidente vi siate potuti dimenticare di quello che abbiamo sempre comunemente inteso per ben 30 anni come serietà professionale e artistica... per tacere poi dell’aspetto umano e morale del vostro comportamento che non mi convince e che tutto sembra, men che amichevole». Volano gli stracci. Si scambiano carte bollate. Luciano Berio scrive a Borciani, Pegreffi e Rossi di aver provato una stretta forte al cuore «quando ho saputo che avete sostituito Farulli, ancora in ospedale, senza neanche prevenirlo, in una maniera così estranea al vostro modo di far musica». Prosegue: «Vi domanderete cosa c’entro io dal momento che, sul piano personale, conosco a malapena sia voi che Farulli. Il fatto è che siete anche una cosa pubblica, un bene nazionale, qualcosa di cui essere fieri, qualcosa, infine, che anche Farulli ha contribuito a costruire». La frattura si dimostra comunque insanabile. Fine e riconciliazione Il terzo e ultimo addio si consuma nel pomeriggio del 23 febbraio 1980, vicino Ginevra. Asciolla non riesce a reggere lo studio serrato, gli impegni fitti, i lunghi giri per il mondo. Di punto in bianco, a poche ore da una registrazione video per la Radio Télévision Suisse Romande, sbatte la porta in faccia ai colleghi e non si fa più trovare. È la fine del Quartetto Italiano. A niente portano i tentativi di ricomporlo, nella formazione storica, condotti da Maurizio Pollini e Duilio Courir. Ottengono, sì, il riavvicinamento di Farulli a Borciani e Pegreffi, ma non a Rossi che rifiuta di riunirsi agli altri quando il sindaco di Bologna Renato Zangheri, a seguito della strage del 2 agosto, propone loro un concerto commemorativo per le vittime. Poi nell’85 Borciani viene a mancare. E bisognerà attendere il settembre 2004 perché una stretta di mano sancisca pubblicamente, alla Pergola di Firenze, città in cui entrambi abitano, l’avvenuta riconciliazione anche tra Rossi e Farulli. In apertura, 1966, Teatro di Vevey in Svizzera: il Quartetto Italiano registra i Quartetti "Haydn" di Wolfgang Amadeus Mozart; in alto, da sinistra il gruppo nella sua formazione più longeva: Franco Rossi violoncello, Pietro Farulli viola, Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi primo e secondo violino Amadeus 57 William Shakespeare (1564 -1616) I suoni DEL BARDO Il grande drammaturgo inglese e la musica del suo tempo. Prescritta con cura nelle sue opere teatrali, era, accanto alla parola, elemento indissolubile della rappresentazione di Massimo Rolando Zegna P oche notizie sulla vita e l’istruzione, solo due ritratti attendibili (la statua del monumento funebre a Stratford e l’incisione sulla stampa delle opere teatrali del 1623), la misteriosa dedica dei Sonetti, e poi la grande difficoltà a datare con approssimazione accettabile i lavori: queste, e altre ancora, sono zone d’ombra che hanno fatto avanzare dubbi sull’identità, sull’aspetto, sulla sessualità, sul credo religioso, persino sulla paternità delle opere di quello che è stato uno dei più importanti artisti di tutti i tempi: William Shakespeare. Il drammaturgo più celebre e più rappresentato di sempre. Una figura universalmente ammirata a cui, nel corso del tempo, tutte le arti del futuro hanno attinto in una misura paragonabile a nussun altro caso. Un ciclope assoluto di cui quest’anno ricorrono i quattro secoli dalla scomparsa. Terzo di otto figli, fu battezzato il 26 aprile 1564 a Stratford-upon-Avon, nel 58 Amadeus cuore delle Midlands Occidentali, in Inghilterra: da soli sei anni, al trono d’Inghilterra era salita Elisabetta I. Da qualche tempo il padre John, un agiato commerciante di pellami, aveva avviato in città una fortunata carriera politica. Forse frequentò la King’s New School e fu apprendista nell’azienda del genitore. Si sposò nel 1582. Di William si perdono le tracce tra il 1585 e il 1592: anno in cui era già decisamente affermato nel mondo teatrale londinese come attore e drammaturgo. Nel 1594, contribuì a costituire una compagnia (The Lord Chamberlain’s Men) che si esibiva in due teatri: The Theatre e The Curtain. Nel 1599, anche con il suo finanziamento, il gruppo fece costruite un nuovo teatro, The Globe: dove videro la luce alcuni dei suoi più importanti capolavori (Giulio Cesare, Amleto, Otello, Re Lear). Dopo la morte di Elisabetta I (1603), gl’incassi raggiunsero cifre record e la compagnia fu adottata dal nuovo re Giacomo I, con il nome The King’s Men. Shakespeare vi agiva come drammaturgo, amministratore e attore. Attorno al 1611, tornò nella sua citta natale, e dal 1613, l’anno in cui per un accidente arse The Globe, non creò più nulla. Morì il 23 aprile 1616. Fu sepolto nel coro della chiesa parrocchiale di Stratford. Di lui ci restano 37 testi teatrali, 154 sonetti e una serie di altri poemi: lavori per lo più ideati nell’arco di circa 25 anni, dal 1588 e il 1613. I testi teatrali shakespeariani che noi oggi leggiamo con tutta probabilità non furono mai uditi in questa forma da nessun spettatore del tempo: in quanto risultato di interventi successivi. La loro cronologia è inoltre ipotetica: a parte i casi dell’Enrico V, del Giulio Cesare e della Dodicesima notte che possono essere datati con una certa attendibilità rispettivamente al 1599, i primi due, e al 1602, il terzo. La tortuosa Amadeus 59 storia della trasmissione delle opere teatrali di Shakespeare può essere così sintetizzata. Diciotto titoli furono pubblicati prima del 1616, in piccole edizioni in-quarto non autorizzate: alcune relativamente ben curate, altre più o meno scadenti. Nel 1623, a Londra, fu invece stampato postumo da Isaac Jaggard ed Edward Blount il primo in-folio (Mr. William Shakespeare, Comedies, Histories & Tragedies), a cura di due amici attori del poeta: John Heminges e Henry Condell. Il volume raccoglieva 36 lavori, tra cui – in versione spesso divergente – i 18 già editi in-quarto. Dall’elenco mancavano Pericle e I due nobili congiunti. In seguito, furono pubblicati altri in-folio, ma quello del 1623 rimane oggi il più importante punto di riferimento. Discorso simile per i Sonetti. Ideati tra il 1591 e il 1604, furono stampati senza il consenso dell’autore da Thomas Thorpe, nel 1609. In epoca elisabettiana la musica aveva una larga diffusione tra l’aristocrazia come tra le classi povere: faceva parte della vita quotidiana di re, nobili, cortigiani, contadini, artigiani, fabbri. Accanto ai musicisti di corte e ad altri gruppi ufficiali, vi erano anche esecutori più modesti che venivano chiamati a intrattenere gli invitati ai matrimoni, oppure che suonavano e cantavano ballate o catches in taverne e bordelli. La musica aveva inoltre, e qui è ciò che più ci interessa, un ruolo decisivo nel corso delle rappresentazioni teatrali: il più importante fenomeno culturale dell’Inghilterra del tempo. Una forma di spettacolo accessibile quasi a qualsiasi fascia sociale. Le ragioni che portarono alla struttura architettonica dell’edificio teatrale elisabettiano (la Playhouse) furono di carattere pratico. La prime compagnie di attori itineranti utilizzavano come luoghi i cortili delle locande. Questi, di norma, erano di forma rettangolare e circoscritti dalle varie stanze disposte su tre ordini di ballatoi. Si prediligevano le locande dislocate in coincidenza d’incroci di 60 Amadeus strade di maggior percorrenza o, comunque, di vie che conducevano direttamente al centro di Londra. Gli attori giungevano in mattinata con i carrozzoni e gli essenziali oggetti e costumi di scena, si accordavano sui proventi con il proprietario della locanda, montavano il palco (Stage) in un punto del cortile visibile al maggior numero di spettatori. Questi si dislocavano in piedi nel cortile (Yard, Ground, Pit) o sui ballatoi. Si andava in scena attorno alle 14.00 con una rappresentazione di durata non superiore alle due ore. Entro sera tutto era smontato. Furono soprattutto le avversità del tempo a spingere verso l’ideazione di luoghi stabili dove fare spettacolo. Il primo edificio teatrale inglese (The Theatre) fu eretto nel 1576 nel sobborgo londinese di Shoreditch: a parte poche La struttura esterna delle Playhouse giunse con The Globe a una fattezza quasi circolare murature (in sostanza le fondamenta) era interamente in legno. Lo stesso anno, nei pressi, fu eretto un altro teatro: The Curtain. Seguirono The Rose (1587), The Swan (1595), The Globe e The Fortune (1599), The Red Bull (1605), The Hope (1613). Molti erano dislocati nella zona a sud del Tamigi, nel quartiere di Southwark, nel Bankside di Londra: inizialmente coperta da una folta vegetazione, in seguito caratterizzata dalla presenza di arene per combattimenti di orsi, cani e scimmie, di botteghe di orafi, di strade maleodoranti in cui si scaricava qualsiasi tipo di liquido, e dalla presenza di etnie esotiche giunte dalle Americhe. Al tempo, Londra era abitata da circa 250.000 persone. Amadeus 61 Damiano Michieletto Inizialmente poligonale (esagonale o ottagonale), la struttura esterna delle Playhouse giunse con The Globe a una fattezza quasi circolare. L’interno si rifaceva all’originaria conformazione-tipo del cortile della locanda: con almeno tre ordini di ballatoi coperti (Galleries) in cui ci si poteva sedere al costo di due penny. Differente era il lato in cui si trovava il palco: una piattaforma di legno sopraelevata aggettante ben oltre il centro del terreno, attorno alla quale si ammassavano gli spettatori in piedi che pagavano solo un penny e che erano esposti alle intemperie. Dal palco s’innalzavano due colonne che reggevano una tettoia. Questa riparava la parte più arretrata del palco e un balcone (Upper stage), dove erano dislocati i musici: una piccola orchestra, per lo più costituita da trombe, oboi, corni, campane, liuti, chitarre e archi. In sostanza, la Playhouse elisabettiana era un pozzo, una vera e propria arena destinata al “combattimento teatrale” in cui si potevano accalcare fino a 3000 spettatori che mangiavano, bevevano, commentavano ad alta voce, che respiravano assieme la stessa aria, interagendo tra loro e con gli stessi attori. Shakespeare amava la musica, aveva compiuto studi in materia, conosceva gli autori inglesi suoi contemporanei, sembra che fosse in grado di suonare il liuto, seppur a livello basico, e, soprattutto, considerava la musica come un elemento indissolubile e organico della rappresentazione teatrale: non una componente decorativa d’intrattenimento o di diversivo, bensì un effetto minuziosamente calcolato a fini poetici e drammatici, un potente strumento retorico. E in tal senso, si servì di essa con grande abilità: rumori, effetti sonori, brani vocali e strumentali nuovi (quasi certa sembra essere la ripetuta collaborazione con Thomas Morley) oppure già in voga (colti o popolari). Questi ultimi, immediatamente riconoscibili, potevano innescare tra gli spettatori una fitta serie di associazioni e 62 Amadeus implicazioni che oggi è impossibile ricostruire. Nelle opere teatrali di Shakespeare la musica interveniva a più livelli. Si poteva presentare come visione filosofica ed etica, come sollecitazione psicologica, come soundtrack dell’azione, come indicatore dei nodi cruciali drammaturgici, come caratterizzazione del personaggio, e altro ancora. Perdere tutto ciò nel corso delle rappresentazioni d’oggi significa rinunciare a una componente essenziale dello spettacolo elisabettiano: vuol dire ridurlo, impoverirlo. Shakespeare amava la musica, aveva fatto studi in materia, conosceva gli autori inglesi, sembra fosse in grado di suonare il liuto Per Shakespeare la musica, in primis, era quella delle sonorità della lingua inglese recitata dagli attori. Diversi, poi, erano i casi in cui i personaggi dissertavano di musica. Celebre, ad esempio, è nel quinto atto del Mercante di Venezia il dialogo tra Lorenzo e Gessica che sonda la relazione tra sensibilità musicale e condotta morale, l’idea di derivazione pitagorica della musica come proiezione sonoramente udibile dell’ordine celeste, e poi ancora l’influenza che la musica può avere sull’animo umano. Altrove, attraverso numerose e meticolose indicazioni prescritte dall’autore, la musica interveniva come elemento “scenico”: nei banchetti, nelle processioni, nelle serenate, nei duelli, nella vita di corte, nelle battaglie. Accompagnava l’entrata o l’uscita dei personaggi e, oltrepassando questi confini pratici, giungeva a creare l’atmosfera giusta evitando spiegazioni verbali, a sottolineare i momenti cruciali della vicenda, ad amplificare il carattere dei personaggi, potenziando lo svolgimento drammatico. C’era poi l’aspetto più evidente, la musica come precisa parte cantata su versi dati assegnata a un attore: come nel caso della celebre «Canzone del salice» nell’Otello. In tutta la produzione di Shakespeare s’incontrano circa un centinaio di esemplari: non pochi. Più che allietare lo spettatore, questi inserti musicali avevano la funzione di aiutare il personaggio a rendere manifesti i suoi stati d’animo, contribuendo a caratterizzarlo e a svelarne la psicologia. Non è neanche escluso che, condividendo in un certo senso alcune modalità poi ricorrenti nel teatro d’opera, che queste canzoni, talvolta concepite su misura sulle capacità di alcuni attori professionisti di particolare successo, volessero anche essere un’utile gratificazione alle file di fans create dall’affermazione dei teatri stabili e giunte per applaudire il loro beniamino. Shakespeare fu soprannominato il “Bardo”: ed è quanto meno curioso che questo termine sia apparso per la prima volta in un atto ufficiale nel 1449 per indicare un musicista itinerante. A me gli OCCHI Amato, contestato, desiderato, invidiato è il regista del momento. Lui rifiuta etichette, cerca lo stupore. Vuole raccontare storie eterne con la lingua del nostro tempo di Valerio Cappelli D In apertura, il presunto ritratto di William Shakespeare di più recente attribuzione: è il "Cobbe Portrait", sconosciuto sino al 2006, nel 2009 è stato identificato come raffigurazione del poeta inglese eseguita in vita; nella pagina precedente, l'interno dello Shakespeare's Globe Theatre di Londra oggi i Damiano Michieletto ci siamo già occupati su Amadeus solo pochi anni fa, quando era un regista emergente alla vigilia del successo al Festival di Salisburgo, nella Bohème in cui Anna Netrebko, nella Parigi di oggi, cammina, si muove ed è vestita come Amy Winehouse. Nel frattempo Michieletto è diventato un caso. È determinato, crede nella sua idea di teatro, che parte sempre dalla storia, e non è (come dicono i suoi denigratori) a caccia di trovate. Ma alle storie cerca di dare nuova linfa con una sensibilità del nostro tempo. Le provocazioni nella lirica sono tutt’altra cosa. Michieletto è impegnato in tutto il mondo fino al 2020. In Italia è molto applaudito e qualche volta fischiato; è più amato all’estero per la maggiore disponibilità e apertura del pubblico. Eppure è a Londra che pochi mesi fa ha vissuto un brutto infortunio professionale, alla prima del Guglielmo Tell rossiniano per la scena fortemente realistica di uno stupro. Al Festival di Salisburgo nel 2012 interruppe il digiuno di registi italiani che durava da tredici anni (il Don Giovanni allestito da Luca Ronconi), ed è stato invitato per tre volte di seguito. Oggi raccontiamo questo regista di 40 anni nato a Scorzé, in provincia di Treviso, da una prospettiva nuova. Alla Royal Opera House Michieletto con Cavalleria Rusticana e Pagliacci diretti da Antonio Pappano, è appena tornato sul luogo del “delitto”, dopo la serata tesissima del Tell: allora fischi e imprecazioni erano durati fino a tutto l’intervallo. Ora invece il suo ritorno col dittico italiano è stato un successo rotondo, senza “se” e senza “ma”. Ci si chiede se una serata come quella abbia condizionato l’approccio a un nuovo spettacolo, quando si torni in un città così importante, dopo un episodio così netto. Damiano, si può mantenere la coerenza delle proprie idee e andare incontro alle aspettative del pubblico? «Non posso far finta che è stato diverso tornare a fare opera a Londra, rispetto al mio debutto assoluto al Covent Garden nel maggio scorso con Rossini. Ho grande rispetto del pubblico e dunque tengo conto dell’importanza di creare un racconto scenico in grado di comunicare con lui, non di andargli contro. Nel Guglielmo Tell gli spettatori hanno avvertito alcuni passaggi in maniera negativa e su questo ho fatto una riflessione, e cioè che il pubblico inglese apprezza l’aspetto narrativo e concreto di una messinscena. In Cavalleria e Pagliacci ho privilegiato questo taglio, evitando l’accento su un tipo di rappresentazione della violenza, che poteva essere rifiutato». Si è modificato il progetto iniziale? «L’idea è rimasta, anche perché i progetti si presentano con un anno di anticipo. Sono in una fase in cui cerco di evitare di avere un’etichetta addosso. L’idea qui era di prendere queste due storie e creare tra esse un link narrativo. Abbiamo due vicende con pochi personaggi, un triangolo d’amore, la morte. Poi sono entrambe ambientate nel Sud Italia e in un periodo religioso (la Pasqua e l’Assunzione: nel mio caso ho fatto della Pasqua il trait d’union). Nel mio spettacolo i personaggi di Pagliacci sono presenti in Cavalleria: infatti quando comincia c’è della gente che sta per recarsi in chiesa, e gli attacchini mettono per strada manifesti di 64 Amadeus Pagliacci, come a dire che di lì a poco ci sarebbe stato quello spettacolo. Volevo creare un ponte. Un’operazione analoga l’avevo fatta col Trittico di Puccini che in aprile arriva all’Opera di Roma. Poi Cavalleria l’ho ambientata nel panificio di Mamma Lucia e al suo esterno, mentre Pagliacci nella sala parrocchiale adibita a teatrino. C’è una forte impronta realistica». Esiste il rischio, con due titoli del genere, di trappole dovute a incrostazioni e a letture oleografiche? «È un pericolo dell’opera lirica in generale. Ti confronti col passato di opere che rispondono al gusto e a esigenze che non ci sono più. Bisogna concentrarsi su libretto e storie. E far emergere qualità umane con un’estetica che parli la lingua del nostro tempo. I due atti unici sono ambientati nel mondo contemporaneo. Per esempio, Alfio il carrettiere è un arricchito del paese. Lola lo disarmante. Il teatro si deve avvicinare alla vita. D’altra parte cosa si dice nel prologo dei Pagliacci? Noi siamo di carne e ossa come voi, non pensiate che siamo dei personaggi, non è finzione. Uno come Canio devi prenderlo e metterlo in galera». Da dove viene il suo istinto teatrale? «La mia famiglia è stata il mio primo palcoscenico. Mio padre, operaio e poi sindaco di Scorzé, ha tredici fratelli e sono tutti vivi. Mamma è una casalinga con la quinta elementare. Non a livello intellettuale o di formazione culturale, ma a livello del gioco (che resta la parte centrale del teatro come ci insegnano gli inglesi e i francesi per i quali recitare si dice giocare), lei è stata il mio punto di riferimento. Faceva giocare molto me e i miei tre fratelli. All’epoca non si ricorreva agli psicologi, oggi mi avrebbero classificato come iperattivo. Come regista ho mantenuto un modo di essere diretto volto a «Oggi mi avrebbero classificato come iperattivo. Come regista, ho mantenuto un modo di essere diretto» sposa solo perché ha i soldi, come sottolinea Verga nella sua novella che ispirò Mascagni, il quale invece non esalta questo elemento. È un esuberante arricchito del Sud che può commerciare con i cinesi, è l’idolo del paese e quando vi torna distribuisce doni: pellicce, borse, finti Rolex…». Ma come si può evitare, o appianare la violenza in questo dittico? «In Cavalleria è più una violenza psicologica, non si vede, anche l’omicidio di Turiddu non è visibile, richiama la struttura del dramma greco quando il protagonista esce e il messaggero annuncia: hanno ammazzato compare Turiddu. In Pagliacci la violenza è più brutale, Canio è brutale nella sua gelosia, il finale deve essere brutale. Ammazza una donna e ferisce un uomo in due secondi. Sarebbe scorretto vedere in modo romantico questa storia. Se apri il giornale e leggi di donne sfigurate dall’acido per gelosia o di fidanzatini che fanno fuori i genitori, è di un’attualità non aver paura di mostrare i propri limiti». Gioco e ilarità... Per qualche tempo lei è passato come uno specialista di Rossini. «È vero. Specialista è un termine in cui non mi ritrovo, diciamo che la carica ironica e comica di Rossini è vicina alla mia creatività. Sento empatia con il mondo di Rossini, mi riconosco nelle sue atmosfere, la razionalità di costruzione della musica e il divertimento potente nei personaggi, il brio». Ha messo in scena molto Rossini, e in febbraio alla Staatsoper di Vienna debutterà con Otello. «Ho fatto Sigismondo, La scala di seta, L’Italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia, La donna del lago, La gazza ladra. E ora Otello». Per il quale Rossini scrisse a mo’ di epitaffio: «Di una cosa credo potervi assicurare, che di mio rimarrà di certo il secondo atto del Guglielmo Tell, il terzo dell’Otello e tutto Il barbiere di Siviglia». «Beh, il riferimento all’Otello dimostra che 66 Amadeus a colonna sonora. «Se prendiamo il pezzo incriminato del Guglielmo Tell londinese, la musica è una colonna sonora punto e basta. È musica scritta per la scena, per raccontare la storia attraverso il balletto, è musica di accompagnamento. Prendo questa osservazione col sorriso, mi fa quasi tenerezza, non mi riferisco a nessuna persona in particolare e non è mia intenzione polemizzare, però la sento come una insicurezza, come paura al confronto, come si può pretendere di stabilire una volta per tutte cos’è “sta roba”? L’opera combina musica e teatro, e la musica è scritta per il palcoscenico». Qualcuno dice che lei ama stupire. «Bisogna intendersi su questa parola. Lo stupore fa parte dell’andare a teatro, di chiedersi cosa ci sarà dietro il sipario, la voglia di incanto e di meraviglia che ti porta a una dimensione di coinvolgimento. Poi c’è lo stupore fine a se stesso, lo stupore come ammiccamento, effetto». Lo stupore è il perno delle fiabe: è vero che nel suo Flauto magico alla Fenice, l’elemento esoterico e misterioso non era così presente? «Forse sì, non era la cosa più emozionale, mi sembra l’aspetto didascalico di quest’opera. Ma quando Tamino e Pamina nel finale si liberano delle prove, sulla lavagna che occupa la scena (l’allestimento è ambientato in una scuola) appare una scritta in latino sulla Porta alchemica di Roma, non come citazione letteraria. Da quel tipo di tradizione misteriosa su mondi enigmatici appare un palindromo, puoi leggere quella scritta da sinistra a destra e viceversa: “Se ti siedi non vai”, oppure, “Se non ti siedi, vai”. E prende corpo l’idea di affrontare l’ignoto». Perché la lirica nella sua vita professionale ha preso il sopravvento sulla prosa? «Ho cancellato alcuni progetti musicali per il 2017: erano troppi, non sarei stato in grado di dare la qualità e l’energia di cui ci sarebbe stato bisogno. Il teatro musicale si è autoalimentato con delle proposte. Penso di ridimensionare i miei impegni, vorrei riequilibrare i due campi. Al Piccolo Teatro in aprile farò la regia dell’Opera da tre soldi di Brecht (60 anni dopo la “prima” italiana con la regia di Giorgio Strehler n.d.r.) con venti attori in scena; ci sarà un doppio livello narrativo, e ci sarà uno scarto nella narrazione e nella recitazione quando mettiamo (questo uno degli spunti) sotto processo Mackie Messer». Tornando alla musica, le è mai capitato di utilizzare la stessa idea per due spettacoli? Sorride: «Ci sono registi che hanno copiato pari pari i loro spettacoli in più occasioni. Quanto a me, è capitato per certi dettagli, può succedere che un’idea pensata per un allestimento non sia poi stata usata e compaia in un altro». Un compositore che non metterà in scena? «Quelli più lontani da me sono quelli che più hanno forza attrattiva. C’è il detto: frequenta il tuo nemico. Penso a Wagner, che non ho ancora avvicinato ma accadrà: è teutonico, parla una lingua che non è la mia, è immaginario e mitologico e dunque non ho riferimenti. Però mi affascina, dà la possibilità di essere visionari». C’è qualcosa che ha compreso di nuovo del suo mestiere lavorando in un tempo breve, per due volte, in una capitale del teatro come Londra? «In Italia la figura principale di uno spettacolo è il regista; a Londra durante le prove di Cavalleria e Pagliacci, ho notato che sui programmi di sala il nome del regista è scritto piccolo, e gli attori passano dal teatro al cinema e alla televisione senza problemi. Non bisogna diventare eclettici per forza, ma il fatto di estendere la tua creatività in ambiti diversi porta a uno sguardo diverso, ti arricchisce». In queste pagine, Damiano Michieletto ritratto dietro le quinte (anche in prova con Carmen Giannattasio) e due spettacoli emblematici andati in scena alla Royal Opera House di Londra con la direzione di Antonio Pappano: Guillaume Tell di Rossini e il dittico Pagliacci-Cavalleria Rusticana Corsi di Alto Perfezionamento Artistico e Musicale violino scadenza domande 15 febbraio/15 luglio siamo cattivi giudici di noi stessi, se pensiamo che l’ultima volta alla Scala, prima del 2014, risaliva al 1870. Non è la cosa rossiniana che è rimasta nei nostri cuori, benché fosse con Semiramide la sua opera seria più rappresentata». Due contemporanei come Stendhal e Byron bocciarono il libretto. Jago è ridimensionato e il fazzoletto si è convertito in un dolce biglietto. Come disse Alfred de Musset, diventa la triste storia di una fanciulla calunniata che muore innocente. «Rossini non è Verdi, non fa esplodere la conflittualità con potenza drammatica. Io lo trasformo in un dramma intimo. La mia idea è di creare una famiglia, dove Emilia è la sorella di Desdemona, Jago è il cugino. E c’è la lotta per la dinastia, il potere di una famiglia in crisi e il problema di allearsi con uno straniero di un altro mondo e di un’altra religione. È insieme una lotta di potere e sessuale (perché il potere economico richiama sempre il potere sessuale), dove tutti i personaggi non sono mai quel che sembrano. Emilia, che in genere è molto compassionevole, in realtà muore dalla gelosia per la sorella. Emilia è falsa come Jago e come Rodrigo, che non vuole sposare Desdemona ma vi è costretto dal padre. È la Dinasty di una ricca famiglia dove l’anello più debole è quello che salta». Come ricorda il suo primo spettacolo? «Era un’ Histoire du Soldat di Stravinskij per bambini, all’Auditorium di Corso San Gottardo a Milano. Avevo 24 anni, e lo stesso desiderio di perfezione di quando faccio spettacoli alla Scala, mi preoccupavo che tutto fosse curato. Mi dicevo: non è uno spettacolo per bambini». Sente l’ansia della prima? «No, nel novanta per cento dei casi vivo un debutto con gioia. Mi piace l’ingresso degli spettatori in sala. È un po’ come quando si prepara una festa a casa e arrivano gli invitati. Certo speri che il cibo sia sufficiente e buono, però hai la consapevolezza di aver preparato tutto dando il meglio». Riccardo Muti, senza farne i nomi, ha criticato i registi che riducono la musica viola Ana Chumachenco Marco Rizzi Roberto Ranfaldi Pavel Berman Rudens Turku Anna Serova musica da camera flauto clarinetto violoncello Robert Cohen pianoforte Konstantin Bogino Ramin Bahrami composizione liuteria - restauro Fine Arts Quartet Yumiko Urabe Anna Serova Davide Formisano Enrico M. Baroni Azio Corghi Carlos Arcieri anno accademico 2016 Palazzo Gromo Losa - Corso del Piazzo 24 - 13900 Biella tel. +39 015 29040 - fax +39 015 3528282 - [email protected] www.accademiaperosi.org Ministero per i Beni e le Attività Culturali Dipartimento dello Spettacolo Direzione PromozioneAttività Culturali, Istruzione e Spettacolo Settore Spettacolo e Cultura Martin Grubinger Adrenalina PURA Energia, forza, ritmo assoluto e insieme disciplina, tenacia, studio rigoroso sono i segreti del giovane percussionista austriaco, formidabile folletto planetario di Luigi Di Fronzo S i getta con furia e violenza selvaggia fra gli accenti tribali di Okho di Xenakis, fa rimbalzare schegge taglienti con il suo ensemble “Percussive Planet” in versione Big band nel Mood for interaction di Rod Lincoln (come si può vedere anche in un dvd pubblicato da Deutsche Grammophon). Poi porta per la prima volta al Teatro alla Scala le canzoni di Sting e i melodiosi Songs di Frank Sinatra, punteggiando al vibrafono la voce baritonale del divo americano Thomas Hampson. Imprevedibile, estroso, molto a suo agio sulla scena – si tratti di far evaporare suoni liquidi sui brani di Corigliano o di scatenarsi al ritmo infernale fra le rielaborazioni da Cole Porter – Martin Grubinger è a detta di tutti il percussionista del momento. Difficile per chiunque fare il tutto esaurito con Rihm e Xenakis. Eppure lui ci riesce. Quasi 33 anni, austriaco di Salisburgo 68 Amadeus («impossibile prescindere dal genio di Mozart che si respira ovunque, in città») Martin il folletto non ha timori reverenziali, né illegittimi complessi di inferiorità su uno strumento un poco anomalo nell’arcipelago classico. Lo ammette, con una punta di candida ingenuità. «In realtà da bambino avevo incominciato con il pianoforte, poi sono passato alla batteria. Qualcuno mi ha scoraggiato, dicendo che non avrei mai trovato tanto pubblico. Invece sta capitando il contrario, perchè nelle mie performances mi muovo con una certa libertà fra trascrizioni e avanguardia». Trovare il repertorio può essere complicato. «Certo, non siamo fortunati come i pianisti, che hanno soltanto l’imbarazzo della scelta. Eppure la recente riscoperta delle percussioni può legittimarsi grazie ai tanti contemporanei che hanno iniziato a scrivere per noi: Peter Eötvös, James MacMillan, Heinz Karl Gruber, Kaija Saariaho. Nomi che si possono mescolare a classici, Varèse, Xenakis e Béla Bartók». Un ripiego? «Direi proprio di no, anche se la Sonata per due pianoforti, celesta e percussioni di Bartók venne scritta nel 1938 e questo dà idea del nostro mondo recente. Questa è una bella opportunità per noi, sviluppiamo progetti che mescolano il linguaggio colto alla salsa, al tango, al rock, alla fusion, al funk fino alla musica tribale africana e alle percussioni taiko: senza rinunciare all’impegno, alla qualità e al contrappunto ritmico, come in Caribbean Showdown il programma che ho portato all’ultimo Festival Beethoven di Bonn». Qualche anno fa Martin ha incluso persino una spericolata rilettura del canto gregoriano, su percussioni, testimoniata dal cd Drums ’n ’Chant (Deutsche Grammophon). «Sì, c’è gente che non l’ha potuta ascoltare, ma per me è stata un’esperienza piacevole, anche perchè totalmente nuova. Mi sono documentato, ho Amadeus 69 Bruckner di Linz, in Austria e al Mozarteum di Salisburgo è stato importante. Poi si sono mescolati i vari concorsi, sin da quando avevo 15, 16 anni. Alcuni li ho vinti (World Marimbaphone Competition di Osaja in Giappone, Ebu Competition in Norvegia) altri li ho persi, il tutto mescolato alle prime maratone. Un grande successo è stato quando a Vienna ho suonato per più di quattro ore con un’orchestra: nell’insieme ho suonato circa 600 mila note a memoria, pentagramma in più o in meno». «Avrei voluto fare il contadino... Prima o poi faccio il grande salto» studiato la notazione, tradotto i testi latini e trascritto i vari melismi dei monaci medievali. E alla fine affrontare questo repertorio è stato affascinante». Dal gregoriano al pop/rock è un bel salto di prospettiva: cosa cambia davvero per un virtuoso di percussioni? «Non molto quanto all’impegno, alla serietà d’approccio. A me semplicemente piace vagare da un genere all’altro: lo trovo un elemento di vitalità, non un cliché. La differenza è che se faccio 70 Amadeus avanguardia devo conoscere, e alla perfezione, le tecniche dei singoli strumenti, che sono centinaia. Nel rock invece riesco a infondere il medesimo spirito, la stessa energia, anche se il set strumentale è più povero». Artista versatile, che si muove con eleganza – nerovestito come un cerimoniere orientale – nel gran stuolo di marimbe, rullanti, piatti sospesi, conghe sudamericane, gong e batterie, per Martin la scelta non è stata casuale. «Mio padre era docente di batteria all’Università di Salisburgo e io ho sempre avuto intorno un sacco di strumenti. Quando avevo 3 anni e mezzo mi ha messo alla prova, insegnandomi i rudimenti. Suonavo anche il contrabbasso e il flauto dolce, anche se mi divertiva di più la batteria e ho sentito da subito che l’attrazione era troppo forte». Però fra il nascere in una famiglia e diventare un mostro di bravura ce ne corre. «È vero, eppure le regole del gioco non cambiano. Ci vuole talento e consapevolezza della gioia che provi nel praticare uno strumento. Io ho avuto entrambe le cose, fin da bambino. Poi dopo i 15 anni ho abbandonato il liceo per concentrami sui miei strumenti: è stato un peccato, ma in fondo quando ti eserciti dalle otto alle nove ore tutti i santi giorni i risultati non vengono mai per caso». Buona comunque la sua preparazione scolastica. «Studiare al Conservatorio Bella impresa, far tutto a memoria. «Appunto. Ho sempre detestato il leggìo, anche a Milano alla Scala nell’ottobre scorso mi sono esibito senza spartito. Il leggìo crea una frattura con i colleghi strumentisti del mio gruppo e ancor di più con il pubblico. Meglio farne a meno, in questo modo riesco a sentirmi più vicino agli altri esecutori». Ricordare tutto però è complicato. «Come imparare a parlare una lingua nuova, dopo col tempo ci si abitua: anche se non c’è una linea melodica e il suono del basso viene elaborato in una sorta di subconscio». Nell’esecuzione c’è anche bisogno di una certa forza fisica. «Beh, certo, a volte la parte della batteria impone pulsazioni continue di circa 155/160 battiti al minuto. La fatica si fa sentire. Già di fatto può dirsi una maratona, c’è bisogno di fiato e di un ottimo apparato muscolare». Un’esplosione di atletismo? «Sì, ma anche se il maratoneta magari corre una sola volta e poi si permette dei giorni di riposo, noi no, la sera dopo possiamo avere un altro concerto». Importante dunque fare sport. «Aiuta, certo, oltretutto mi è sempre piaciuto praticarlo. Corsa, ciclismo, nuoto, sci di fondo. Vivo nel Salzkammergut, vicino al Mondsee e Fuschlsee, e di conseguenza ne faccio parecchio. Soprattutto calcio, sono anche un grande tifoso. Ho pure un abbonamento allo stadio, tifo da sempre per la squadra del Bayern di Monaco». Esiste una sorta di ritmo assoluto per l’orecchio, come per l’altezza del suono? «Se esiste non ne sono consapevole. A volte mi capita persino di prendere ritmi molto strani, quasi imprevedibili, rispetto alla volontà del compositore. Di assoluto mi manca la percezione del tempo, e tanto meno quella dell’orecchio, ma di certo – assoluto per assoluto – devo dire che quello che mi manca non è di certo l’amore per questi strumenti». Non ci fosse la musica nella sua vita, a cosa si affezionerebbe? «Avrei voluto fare il contadino e non escludo di farlo in futuro. Sono nato in una fattoria, mi piace la vita nei campi e la vicinanza con la natura: soprattutto svegliarmi alla mattina e guardare il cielo, i prati, le mucche al pascolo. Prima o poi faccio il grande salto. Anche perchè le grandi città mi stressano». La cosa che ha imparato di più, per arrivare ai risultati? «La disciplina. Quella che mi ha insegnato mio padre. A casa mia si ascoltava musica tutto il tempo. Ti lavavi i denti ascoltando Bruckner e facevi colazione con la musica del grande Mozart. Ma di certo senza disciplina non sarei andato lontano». Il momento più bello di un concerto? «Quando sto per entrare in sala dietro le quinte, e cerco la giusta ispirazione, l’energia interiore. So che sta per scatenarsi l’adrenalina, ma non è ancora successo. È solo questione di minuti». Il percussionista austriaco Martin Grubinger, 33 anni ha portato in concerto al Teatro alla Scala (nella foto) il suo ensemble Percussive Planet con il cantante Thomas Hampson Amadeus 71 Bauermeister & Stockhausen Scene da un MATRIMONIO Lei artista visiva, regina dell'avanguardia anni '60, lui genio della nuova musica del '900. L'incontro a Darmstad, 5 anni insieme, 2 figli. Storia di un'affinità che dura nel tempo di Federico Capitoni S cordatevi pure una storia d’amore tradizionale, del resto di tradizionale Mary Bauermeister e Karlheinz Stockhausen avevano ben poco. L’una, artista visiva, regina dell’avanguardia europea negli anni ’60 del secolo scorso, e l’altro, tra i maggiori rappresentanti della “nuova musica” del ’900, sono stati sposati per cinque anni dal 1967 al 1972. Ma mica come una coppia normale. No, piuttosto come due spiriti intonati che si sono incontrati sulla stessa frequenza: «Mi sono chiesta», dice Mary Bauermeister, «se essere una coppia abbia aiutato o meno la nostra arte. Tuttavia questo aspetto non è stato la parte essenziale della nostra relazione. Eravamo semplicemente su frequenze molto simili, avevamo un’incredibile affinità di anime. I momenti più importanti tra noi non furono gli incontri fisici. Vivevamo separati e comunicavamo attraverso le lettere, nelle quali ci dicevamo pensieri, sensazioni e idee». Coppia sui generis, dunque, che però ha avuto il modo di fare due figli (e non “spiritualmente”), Julika e Simon, nonché di collaborare insieme 72 Amadeus professionalmente. A testimonianza del loro sodalizio artistico un concerto recente che il Festival Romaeuropa ha dedicato ai due: l’esecuzione di Stimmung di Stockhausen, pezzo vocale che coniuga serialismo e minimalismo, e la prima esecuzione di Aus den Skizzenbücher 1960, della stessa Bauermeister, un brano che mescola – rielaborate – canzoni tradizionali anche italiane. Come nacque Stimmung, dal compositore dedicato proprio alla moglie che, da parte sua, collaborò nella realizzazione del design della partitura, ce lo racconta lei in persona: «Avevo appena cantato una canzone a nostro figlio per farlo addormentare. Appena uscita dalla stanza il bambino cominciò come a mugolare una melodia imprecisata – sembrava uno jodel – e Stockhausen ne rimase così colpito che la usò come ispirazione per creare la sua musica fondamentalmente basata sugli armonici. Insomma, l’ispiratore di Stimmung fu Simon». I due si conobbero ai corsi di Darmstadt nel 1961 e iniziarono una collaborazione professionale che si estenderà alla relazione amorosa solo successivamente: Amadeus 73 Pierre Tendenze Boulez «Eravamo l’uno dentro l’altra professionalmente, ci influenzavamo a vicenda. La prima cosa che abbiamo fatto insieme fu ad Amsterdam, allo Stedlijk Museum, dove Stockhausen era stato invitato per una performance di musica elettronica accompagnata a uno show visuale creato da me. Oggi vedere cose così è normale, ma a quel tempo no. Si pensava alla musica come una cosa da fruire eventualmente a occhi chiusi e all’arte figurativa come qualcosa da capire per forza. Ma già alla fine degli anni ’60 era iniziata la cultura multimediale, grazie all’happening per esempio, e i musicisti cominciarono a pensare le loro opere in termini visuali, incontrando gli artisti visivi. Così nacquero lavori in cui artisti di ogni tipo insieme a musicisti, filosofi e poeti concorrevano alla creazione. Il mio studio era un crocevia di questo genere di collaborazioni perché l’interscambio era il mio interesse principale. Ed era uno studio “chiuso”, nel senso che si accedeva per invito, poiché lo anni, pare essere oggi la regola dell’arte contemporanea: installazioni e opere multimediali in cui musica, video, verbo e gesto si integrano al punto che presi separatamente non hanno alcuna efficacia. E se quindi questa è la norma e non più la sperimentazione, oggi un’avanguardia di quel genere – dalla portata cioè così rivoluzionaria – sarebbe possibile? «Solo se», risponde, «si rinunciasse alla tentazione dell’economia e del denaro. L’arte ne è diventata dipendente. Bisognerebbe che gli artisti pensassero all’arte come funzione sociale, per il futuro, e non economica, per il presente. Ma è un processo dialettico: l’arte può uscire dal capitalismo solo se ci è dentro. La cultura in povertà non può esistere». Così, secondo l’artista tedesca, ora che l’arte è pienamente nel capitalismo, è il momento che – per progredire, per dire qualcosa che nessuno dice – si torni alla gratuità. Quando poi anche questo nuovo indirizzo si intrappolerà nel circuito produttivo, si renderà necessario ripartire con lo stesso procedimento. «Eravamo l'uno dentro l'altra professionalmente, abituati a influenzarci a vicenda» Certamente, però, anche oggi c’è un’avanguardia; ma Mary non è aggiornata: «Non ne ho idea. Sono ormai fuori dalle tendenze odierne. Spero solo che sopravviveremo alle macchine e che l’arte continui a essere espressione dell’uomo. Bisogna restare in equilibrio tra la tecnologia e la sensibilità umana. Non si deve perdere il contatto con il metafisico». E, per quanto la riguarda, oramai l’aspetto estetico non è più contemplato nel suo orizzonte: «Tutto ciò di artistico che facevo alla mia epoca non era chiamato “arte”. Oggi il mio lavoro non è più estetico, è politico. Nel senso che le mie opere parlano di problemi reali, come la fame nel mondo. Non si tratta di risolvere i problemi attraverso l’arte, ovviamente, ma di far emergere le questioni. Un documentario sui problemi del mondo non serve a risolverli ma a far sapere, con chiarezza, alla gente che tali problemi esistono. McLuhan diceva che l’arte è un sistema di allerta. In questo senso l’artista ha una grande funzione». Ma, in tutto ciò, che fine fa la bellezza? «La bellezza è tornata di moda. Ai miei tempi non era più presa in considerazione, insieme alle idee di bene e verità. La bruttezza è importante per l’artista e per l’uomo, così come il rumore in musica, ma della bellezza abbiamo bisogno, la ricerchiamo sempre. La chiave è trovare la bellezza nella bruttezza e non escludere l’una o l’altra. Il pericolo è il fondamentalismo che si esprime nel separare le due cose. Si tratta sempre di trovare l’armonia». scopo era che gli artisti imparassero l’uno dall’altro, e soprattutto sapessero in che direzione stesse andando l’arte contemporanea, attraverso un processo continuo di interazione. In più, certamente, Stockhausen apprese molto dalle arti figurative, soprattutto per l’approccio grafico alla scrittura della partitura. E dal canto mio imparai dalla musica. Così io diventai un po’ più strutturata e lui un po’ più anarchico». Mary Bauermeister è stata tra i principali animatori, a partire dalla fine degli anni ’50, di movimenti culturali collettivi, che miravano alla desacralizzazione e alla destrutturazione dell’arte, abbattendo canoni e dogmi. E ne ha fatto parte nella fase primigenia, quella più pura, prima che anche questa libertà “demolitrice” diventasse essa stessa un nuovo canone. «Sebbene mi assegnino al movimento Fluxus», racconta, «in realtà io ho lavorato nel periodo appena precedente a Fluxus, quello postdadaista. Si può dire quindi che sono tra quelli che hanno dato il via al movimento. Fu la fase più estrema della sperimentazione: durante le performance musicali, con John Cage e David Tudor, si cucinava sul pianoforte. Non c’era la paura del giudizio e si era liberi perché fuori da un principio economico; non c’erano soldi, si veniva su invito, nessun biglietto. Eravamo tutti giovani e affamati, ma affascinati dalle creazioni e dagli esperimenti dei colleghi. Dopo, a partire dall’avanguardia di Nono e gli altri, si sarebbe stati meno liberi». Il sincretismo tra le arti che caratterizzò come una novità quegli 74 Amadeus Cambio VITA Era un imprenditore, ma a 40 anni Paolo Zanarella è diventato il "pianista fuori posto" e porta la sua musica per le strade italiane. Un libro racconta la sua storia di Edoardo Tomaselli Nelle foto, Mary Bauermeister, oggi 81 anni, artista visiva e moglie del compositore Karlheinz Stockhausen dal 1967 al 1972 Amadeus 75 U na storia che è molte storie riunite assieme. In primo luogo la vicenda umana e artistica del protagonista – raccontata in un libro appena pubblicato – quindi lo specchio di una scelta radicale e il percorso di una travolgente passione per l’universo delle note: ma allo stesso tempo uno spunto di riflessione sulla musica, e gli spazi in cui risuona. Paolo Zanarella avrebbe potuto essere molte cose. Padovano, entrato a dieci anni in seminario, avrebbe potuto seguire una delle tante strade disegnate dal sentire religioso. Oppure avrebbe potuto trasformarsi in un imprenditore nel settore della carta. O altro ancora. Ha aspettato di compiere quarant’anni per trovare la sua strada, e trasformarsi nel “pianista fuori posto”. Paolo Zanarella non possiede alcun titolo accademico: non ha fatto regolari studi di conservatorio, non ha vinto premi o concorsi internazionali. È, e rimane, un completo autodidatta: «Mi sono avvicinato 76 Amadeus alla musica attraverso mio fratello, che aveva iniziato a studiare da bambino. Insistevo perché insegnasse a me ciò che veniva insegnato a lui, e il pianoforte – per quanto io abbia studiato altri strumenti – è stata da subito la mia principale fonte di attrazione. Una volta entrato in seminario mi sarebbe piaciuto approfondire gli studi di armonia e strumento, ma non ci fu mai modo di farlo, e quando undici anni dopo mi resi conto che non era il cammino religioso a chiamarmi, mi ritrovai spaesato. Avevo da poco passato i vent’anni, e con i miei fratelli ci mettemmo in società, decidendo quasi dal nulla di buttarci nella produzione di... sacchetti di carta». Poco tempo dopo Paolo si sposa, inizia un lavoro stabile, e dal matrimonio nascono tre figli. Nel soggiorno della casa padovana, uno Steinway a coda si impone con la sua elegante silhouette. «Anche negli anni di lavoro non ho mai smesso di studiare, ogni giorno. Non ho mai abbandonato la musica: avevo preso lezioni da vari maestri, e scritto partiture per musical...». Nonostante gli impegni, con il passare del tempo Paolo Zanarella sente emergere il desiderio che il mondo dei suoni sia al centro della sua vita. E decide di lasciare di nuovo tutto, senza nessuna certezza, per dedicarsi alla sua unica, vera e profonda passione. Nel 2008, dopo «uno studio matto e disperatissimo», come scrive nel suo libro La musica di un sogno. Storia del pianista fuori posto (Cairo Editore), «mi sentivo finalmente pronto per un concerto». Inizia la ricerca di un teatro, tutto viene organizzato in autonomia, e la serata si rivela inaspettatamente un successo. Paolo decide di gettarsi a capofitto nell’attività concertistica: qualche data funziona, ma più va avanti, più crescono i flop. In uno dei concerti più importanti, preparati con dispendio di tempo, soldi e energie, si presentano settanta persone in una sala che ne ospita cinquecento. E proprio nel momento di maggior difficoltà emerge una riflessione quasi ovvia: se nessuno ha voglia di entrare in un teatro per ascoltare un perfetto sconosciuto, fuori del teatro, quella stessa sera le persone riempiono ovunque le strade. «Bene, allora in strada, dalla gente, ci vado io con il pianoforte. Questa l’intuizione grazie alla quale ho cominciato a suonare fuori posto...». La domanda alla fine è semplice: qual è il luogo della musica? Quale lo spazio per un pianista? Davvero la sala da concerto è l’unica alternativa possibile? O forse la strada stessa dimostra che può esserci un modo diverso di comunicare? Non è forse una delle etimologie della parola comunicare – communis, mettere in comune, scambiare emozioni e sentimenti – a suggerire la possibilità di fare le cose in maniera diversa? Il debutto del “pianista fuori posto” avviene il 14 agosto del 2009: grazie alle sue conoscenze di meccanica, Paolo brevetta un modo artigianale ma efficace di caricare e scaricare un pianoforte mezza coda sul suo furgone, in orizzontale e senza smontare le gambe: utilizza gli stessi crick in dotazione sulle macchine, comandati da un piccolo motorino a 12volt, e nell’officina di un amico costruisce un’intelaiatura su cui appoggiare e sollevare lo strumento. Per il trasporto del mezza coda compra un furgone usato adibito al trasporto dei farmaci, già coibentato per mantenere la temperatura stabile. Quella sera d’agosto suona all’imbrunire davanti alla seicentesca Villa Contarini, a Piazzola sul Brenta. «Quella del “pianista” fuori posto è una provocazione: si immagina che il luogo del pianoforte sia una sala da concerti, con un pubblico seduto ad ascoltare. E invece no: il vero posto del pianoforte è la strada. È lì che la musica può finalmente parlare alle persone...». Da allora il pianista fuori posto non si è più fermato, viaggiando su e giù per tutta l’Italia. Ha inciso una serie di dischi con sue musiche, e lo si trova nei posti più impensati e negli orari più disparati. «Suono anche d’inverno, con il freddo: ormai sono abituato. Le dita si scaldano, e sono capace di suonare per un giorno intero... Eseguo la mia musica, certo, ma soprattutto improvviso a seconda delle situazioni e delle persone che ho davanti. Mi hanno chiesto come definire ciò che suono, e io mi definisco un jazzista di classica: classico perché amo la musica di Bach e del pianismo tardoromantico, e assieme jazzista perché nel jazz è la chiave dell’improvvisazione». Nel 2014 Paolo Zanarella ha realizzato un sogno: suonare sospeso per aria tra i canali di Venezia. «Stava arrivando il Carnevale, e proposi al comune di Venezia la mia idea: avevo progettato una struttura di metallo su cui appoggiare me stesso e il mio pianoforte. La struttura sarebbe stata legata a una gru appoggiata su una barca, e mi permetteva di suonare a 15 metri d’altezza... E il comune ovviamente disse di no. Ma sono andato comunque avanti con il mio progetto, ho sostenuto tutte le spese e ho coronato il mio sogno. E alla fine la cosa è piaciuta, e forse quest’anno sarà lo stesso comune di Venezia a invitarmi per il Carnevale. Adesso, dopo aver girato in lungo e in largo l’Italia – non solo le piazze più belle, ma anche luoghi che non sono né belli né brutti, che sono semplicemente strani, inusuali, poco conosciuti o frequentati – comincio a pensare ad esperienze da fare all’estero: penso ai fiumi. Mi piacerebbe suonare sospeso sulla Senna o sul Tamigi... Tutti progetti che prima o poi, in qualche modo, troverò il modo di realizzare». Rimane il fatto che lavorare come un pianista fuori posto, presenta una serie di problemi burocratici non facilmente risolvibili: esibirsi per strada richiede appositi permessi, e i comuni italiani non sempre sono attrezzati o disponibili. Città come Milano si sono mosse, valorizzando la musica in strada con un’apposita piattaforma web alla quale iscriversi dopo il vaglio di una commissione artistica, ma molto resta ancora da fare. E per il futuro, cosa si aspetta Zanarella? «Sul contachilometri del mio furgone compaiono sessantamila chilometri di strada percorsi ogni anno, e io intendo andare avanti su questo cammino. La gente ha bisogno della musica in strada, e io – a quarant’anni – ho capito che si può fare ciò che ci piace. La musica mi ha aiutato a entrare in me stesso, e io con il pianoforte vorrei ricambiare il dono, offrendo a chi mi ascolta la stessa possibilità. Sono contento della vita vissuta fino ad ora: anche degli anni di seminario. E se dovessi tornare indietro, rifarei tutto come è stato fatto...». Luoghi insoliti, città d'arte, natura, periferie: in apertura, il pianista fuori posto Paolo Zanarella in concerto "sospeso" al Carnevale di Venezia Amadeus 77 Creativi in comunicazione Il ritratto completo e suggestivo di un italiano che ci fa grandi nel mondo VERDI. LA POTENZA DELLA GRANDE MUSICA Verdi. L’Uomo, l’Artista, il Mito A Giuseppe Verdi, il compositore di opere liriche più rappresentato nel mondo, UTET Grandi Opere ha dedicato un progetto di eccezionale prestigio: Verdi. L’Uomo, l’Artista, il Mito, volume di pregio a tiratura limitata. Il volume è arricchito da spettacolari immagini tra cui storici figurini del Nabucco. L’opera è accompagnata da un disco in vinile a 78 giri di incisioni rare, tra cui una memorabile interpretazione del Rigoletto di Enrico Caruso. Contiene •• Contiene le trame trame di di 28 28 opere opere le 127 pagine pagine •• 127 60 immagini immagini •• 60 Formato cm cm 17 17 xx 23 23 •• Formato RICHIEDI SUBITO INFORMAZIONI SENZA OBBLIGO D’ACQUISTO SUL VOLUME DI PREGIO VERDI. L’UOMO, L’ARTISTA, IL MITO: RICEVERAI IN OMAGGIO* IL VOLUME VIVA VERDI. Le trame delle opere Omaggio non non condizionato condizionato ad ad alcun alcun acquisto. acquisto. ** Omaggio Consegna dell’omaggio dell’omaggio ee informazioni informazioni sul sul volume volume di di pregio pregio Verdi. Verdi.L’Uomo, L’Uomo,l’Artista, l’Artista,ilil Mito, Mito, Consegna comprese lele condizioni condizioni per per un un eventuale eventuale acquisto, acquisto, aa cura cura dei dei consulenti consulenti editoriali editoriali della della Casa Casa editrice, editrice, comprese previo appuntamento appuntamento telefonico. telefonico. previo PER RICHIEDERE INFORMAZIONI E RICEVERE L’OMAGGIO* collegati a: http://verdi.utetgrandiopere.it ANTICA MUSICAOGGI L’angelo d’avorio Materia sonora S oltanto pochi mesi fa, sul numero di luglio 2015, Amadeus aveva raccontato dell’impresa letteraria di Federico Maria Sardelli, il direttore d’orchestra, flautista, musicologo, vignettista e di recente anche romanziere ben noto ai nostri lettori, in quanto protagonista con il suo ensemble Modo Antiquo di diverse produzioni discografiche nel corso degli anni allegate alla rivista. L’affare Vivaldi s’intitola il romanzo di Sardelli, pubblicato da Sellerio, che narra la storia dell’oblio e della riscoperta novecentesca del più importante corpus di musiche vivaldiane: annotate su una serie di manoscritti, per lo più autografi, poi confluiti nella Biblioteca Nazionale di Torino. Una vicenda rocambolesca che Sardelli ha riportato in un libro in cui ogni riferimento a fatti e persone è più che del tutto voluto, in quanto fondato su documenti e risvolti realmente accaduti. Da non molto, invece, è stato presentato un nuovo volume di narrativa dedicato al “Prete rosso”: lo ha pubblicato Skira, s’intitola Vivaldi e l’angelo di avorio, e lo firma lo storico della musica Mario Marcarini. Il libro nasce come emanazione dell’omonimo progetto discografico concepito e intrapreso nel 2011 da Simone Toni con l’Ensemble Silete Venti! per Deutsche Harmonia Mundi. Nei cd sono eseguiti tutti i Concerti per oboe e orchestra di Vivaldi, con l’ausilio di tre oboi in avorio ricostruiti da Olivier Cottet sul modello di quelli che Vivaldi stesso avrebbe commissionato a Giovanni Maria Anciuti: un personaggio fino a poco tempo fa quasi misterioso, ma realmente esistito. Gli scritti di Marcarini che hanno accompagnato i tre dischi costituiscono adesso l’architettura portante di una spy story (così l’ha definita in un’intervista lo stesso autore, che è anche Label manager di Sony Classical Italia), arricchita dalle 80 Amadeus Un recente volume di narrativa firmato da Mario Marcarini pone l'attenzione su un costruttore di strumenti a fiato della prima metà del '700 Un'illustrazione di Barnaba Fornasetti surreali illustrazioni di Barnaba Fornasetti e ispirata soprattutto dall’amore schietto che lo scrittore prova per la città, la storia e la musica di Venezia. Una vicenda che prende le mosse dall’improvvisa fuga di Vivaldi dalla laguna (siamo attorno ai giorni compresi tra il 12 e 14 maggio 1740) in direzione Vienna. La capitale asburgica dove il “Prete rosso” avrebbe trovato solo disinteresse, povertà e morte. Quelle fin qui citate non sono certo le prime opere di narrativa che ruotano attorno alla figura Vivaldi e alla Venezia del suo tempo –­ uno per tutti, si pensi a Stabat mater, il romanzo di Tiziano Scarpa uscito per Einaudi e vincitore del Premio Strega nel 2009 – ma segnano un punto importante, almeno qui da noi in Italia: ovvero la “riappropiazione” da parte di chi conosce musica, da parte dei professionisti della musica, della facoltà di raccontare la musica. Non è certo una possibilità unica e univoca, ma è importante che ci sia, come indispensabile alternativa. In sostanza, oltre che del talento degli autori, e seppur in maniera diversa, le opere letterarie di Sardelli e Marcarini fanno della ricerca storica la sostanza prima, ispiratrice della narrazione. Del volume di Marcarini, al di là dell’evocazione di una Venezia barocca raffigurata come misteriosa, seducente e spietata, colpisce come importante quel porre all’attenzione del pubblico proprio la figura di Anciuti, di recente fatta affiorare in maniera decisiva dagli studi di Cinzia Meroni e Francesco Carreras. Ovvero quella di uno dei più noti e apprezzati costruttori di strumenti musicali a fiato della prima metà del ‘700 (soprattutto flauti dolci e oboi, uno di questi ultimi, appunto in avorio, lo si può ammirare al Civico Museo del Castello Sforzesco di Milano), nato a Forni di Sopra (Udine) nel 1674 e scomparso a Milano nel 1744, attivo tra la città lombarda e Venezia. di Massimo Rolando Zegna [email protected] Rivelare il silenzio attraverso il suono. Nuove riflessioni su poetica e percorso di ricerca di Stefano Gervasoni U n libro di Philippe Albéra e un concerto di Milano Musica offrono occasioni molto attraenti per riflettere sulla musica di Stefano Gervasoni (Bergamo 1962), di cui il Quatuor Diotima ha presentato a Milano la versione definitiva del terzo Quartetto, Clamour (2014) quasi negli stessi giorni della pubblicazione del volume monografico che l’insigne musicologo ginevrino gli ha dedicato (Le parti pris des sons, Editions Contrechamps). Poco meno di 500 pagine non sono troppe per delineare la poetica e il percorso delle opere di un compositore che ha vissuto e vive con rara profondità e intensità di riflessione e con spirito di ricerca sempre apertissimo i problemi delle generazioni seguite all’ansia di radicale rinnovamento del secondo dopoguerra, lontane da certezze dogmatiche anche quando non condividono gli aspetti equivoci della così detta “fine della modernità”. In una conversazione pubblicata da Ricciarda Belgiojoso (in Note d’autore) Gervasoni sottolineava il bisogno di non perdere il rapporto creativo con la «materia suono», che, «nasconde abissi da esplorare, e non solo in termini di timbro, ma anche di forme da costruire, di possibilità di mettersi in rapporto con la percezione musicale in una maniera diversa». Nella attenzione a diversi aspetti della “materia suono” la complessità variegata della Il compositore Stefano Gervasoni ricerca di Gervasoni non è facilmente classificabile, né riconducibile a una etichetta. Non rifiuta l’attenzione al passato storico, è aperta a mondi e dimensioni differenti (per esempio nel vasto ciclo vocale Com que voz , del 2007-8, sono accostate trascrizioni di fados di Amália Rodrigues e liriche di Camões musicate da Gervasoni nel proprio stile); ma non rinuncia alla tensione utopica della ricerca: è significativo che tra i suoi punti di riferimento ideali, non propriamente “maestri”, e molto differenti da lui, ci siano Luigi Nono (in particolare l’ultima fase), Lachenmann, Holliger e Ligeti, senza dimenticare Kurtág. Le aperture del percorso di ricerca di Gervasoni si riflettono, fra l’altro, in scelte testuali originali, dalle poesie francesi di Ungaretti e Rilke al ciclo Dir-In Dir su Angelus Silesius. Tra gli esiti più recenti e più affascinanti c’’è il terzo Quartetto. Clamour coinvolge l’ascoltatore in un percorso imprevedibile, che si segue trattenendo il respiro, come accade con le 6 Bagatellen op. 9 di Webern, ma in un arco di tempo che supera i venti minuti. Sospesi in una dimensione temporale nuova si succedono frammenti estremamente diversi nell’indagine sul suono del quartetto d’archi, nel carattere e in ogni altro aspetto, e tuttavia pensati in modo da costruire una forma di ampio respiro. Si comprende ciò che scrive Gervasoni a proposito di Clamour: «Scoprire e rivelare il silenzio nella materia sonora senza negarla, anzi esaltandola, rivelare il silenzio attraverso il suono». Nella discontinuità spinta all’estremo il percorso di questo quartetto schiude illuminazioni e spazi visionari, esalta la tensione al frammento e lo scavo nell’interiorità, aspetti essenziali della poetica di Gervasoni, con intensità rara. di Paolo Petazzi [email protected] Amadeus 81 ALL’OPERA DANZA Oltre i confini Fenomenologia della ballerina L a damnation de Faust, Dreigroschenoper, West Side Story et similia sono delle opere? Che si ritrovino sempre più spesso nei cartelloni dei maggiori teatri lirici del pianeta è un fatto – un fatto che si spiega anche con la frustrata e frustrante sete di novità cui non possono sottrarsi, nonostante tutto, i loro direttori artistici. Però esso nasconde un problema di carattere più ampio: quali sono infatti i “confini” dell’opera? È chiaro che nel variegato e metamorfico campo della drammaturgia musicale l’opera riconfigura continuamente il suo spazio culturale. Noi tendiamo a separare generi come l’operetta o il musical dall’opera stricto sensu. Ma ci sono generi operistici la cui differenza estetica è stata storicamente ancora maggiore: la tragédie lyrique francese e l’opera seria italiana, per esempio, oppure il dramma wagneriano e il melodramma verdiano. Un’opera cessa di essere tale se eseguita in forma di concerto? Un oratorio, tipo Il trionfo del tempo e del disinganno di Händel, diventa un’opera se rappresentato (come si fa spesso) in forma scenica? Museificazione, restrizione del repertorio, sclerotizzazione del gusto – tutti elementi solidali che hanno rischiato (e rischiano tuttora) di trasformare l’opera in una “sottocultura d’élite”. Eppure essa è anche (lo abbiamo più volte sottolineato) un neutro plurale dai confini instabili e frastagliati. Esplorarli e rinegoziarli non dovrebbe essere soltanto uno dei principali compiti dei direttori artistici o degli operatori del settore, ma un’esigenza interna al fenomeno stesso. Ascoltare e guardare una semiopera di Purcell o una comédie-ballet di Lully o un melologo di Benda o un coreodramma ottocentesco o perfino un film muto con l’accompagnamento orchestrale dal vivo non solo arricchisce la nostra idea di teatro 82 Amadeus Operette e musical, oratori e comédie-ballet, melologhi e film... Il teatro musicale tradizionale e le sue frontiere (da abbattere) Mei Lanfang, celebre attore dell’Opera di Pechino nel ruolo femminile della “dan” (1920 ca.) musicale, ma anche ci fa capire meglio l’opera vera e propria. Quanto ai film muti con le partiture originali eseguite live e sincronizzate alla pellicola, si tratta di una riscoperta degli ultimi vent’anni che ha avuto enormi implicazioni “operistiche”. Personalmente ho trovato persino ovvio assistere nel 2006 alla proiezione dell’ultima versione restaurata di Cabiria al Teatro Regio di Torino, con una grande enfasi posta sul recupero del commento musicale, compilato da Manlio Mazza (un allievo di Ildebrando Pizzetti al quale l’Itala Film chiese invano una partitura composta ex novo) a partire da brani preesistenti di Gluck, Spontini, Rossini, Mendelssohn, ecc. Tutto questo vale per i fenomeni paraoperistici del passato. Ma il teatro musicale contemporaneo è in gran parte postoperistico (oltre che postdrammatico) e tende a collocarsi oltre le soglie dell’opera tradizionalmente intesa. Anch’esso gioca un ruolo importante nella ridefinizione e nel ripensamento dei confini di quest’ultima. Fanno perciò bene i teatri a commissionare “opere” nuove ai compositori contemporanei. Però temo che non riusciranno a soddisfare la loro sete di novità con tali commissioni: sono infatti davvero pochi i titoli del secondo Novecento a essere ripresi con una certa regolarità e la stragrande maggioranza delle nuove produzioni – ahimè – nasce morta (nel senso che non sopravvive alle prime rappresentazioni). Infine, sarebbe bello che i teatri occidentali aprissero regolarmente le loro porte alle forme di teatro musicale provenienti da altre tradizioni. All’Opera di Pechino, per esempio, che dalle tournées di Mei Lanfang al film Farwell my concubine sta prendendo sempre più piede in Occidente e che chiamiamo, guarda caso, “opera”… di Emilio Sala [email protected] D a demi-mondaine ad angelicata, da aristocratica a pop: in duecento anni di storia del balletto l’immagine della ballerina è sempre cambiata, senza mai mischiarsi alla realtà della condizione femminile. Le stampe dell’epoca romantica restituiscono quadretti di graziosa intimità nel foyer de la danse dell’Opéra di Parigi, tra voluttuose coryphées di nascita plebea e azzimati gentiluomini nobili per origine. Maria Taglioni è detta “divina” per l’aura scenica di creatura disincarnata, ma per le ballerine, sempre in viaggio tra le corti europee scortate da generosi ammiratori, il balletto è mezzo di emancipazione economica, se non sociale. Anche nell’Impero russo sono le fanciulle di umile condizione a scegliere lo studio della danza per garantirsi un’istruzione gratuita e una professione alle dipendenze dei reali; tra le più belle e ambiziose Matil’da Kšesinskaja conquista il cuore, e i favori, dell’ultimo zar e di ben due granduchi. Travolta la nobiltà, in Unione Sovietica la ballerina si ammanta curiosamente di tratti aristocratici. Come Galina Ulanova conduce vita ritirata se non misteriosa, è una stakanovista del balletto, e persino oltrecortina rappresenta il regime, anche quando è una ribelle come Maija Plisetskaja, o una transfuga come Natalia Makarova. In Occidente lo status della ballerina è intanto profondamente mutato, illuminato dalla grazia regale delle grandi dame del balletto: Margot Fonteyn, Yvette Chauviré, Carla Fracci. Un soffio di quell’allure è rimasto nelle dive di oggi, tanto più se russe. Svetlana Zakharova e Diana Vishneva si atteggiano ancora a “prime ballerine assolute”: evitano gli incontri vis-à-vis, e qualora concessi li affrontano con sguardo distante ed eloquente distacco. Salvo poi rivelarsi donne reali e di concrete ambizioni: la primadonna del Bol’šoj, divenuta anche madre, è stata deputata della Duma nel Polina Semionova, stella dell'American Ballet Theatre Abbandonati riserbo e allure irraggiungibile, oggi le étoiles sono atletiche, performanti e "social" partito di Putin; l’étoile del Mariinskij ha ideato e dirige un festival di danza a sé intitolato. Più avvenenti delle supermodelle, entrambe cedono a riviste patinate o linee di moda, né disdegnano il ruolo di testimonial per i marchi del lusso. Ma anche il mercato di massa non tarderà ad accorgersi delle ballerine, belle, atletiche, performanti, con biografie di riscatto che piacciono oggi, come la russa Polina Semionova (Cinderella al Teatro alla Scala il 12, 14, 15 gennaio), o l’afroamericana Misty Copeland, stelle dell’American Ballet Theatre. L’ultima generazione sa esattamente come sollecitare un pubblico che non si vuole ormai élitario, ma più vasto e popolare possibile. Come dimostra la Prima ballerina del Berlin Staatsballett Iana Salenko, è fondamentale saper usare i social networks: followers e likes si conquistano postando foto e selfies di ostentato narcisismo, dove il culto del corpo e della prestazione ha tratti feticistici (in Italia la si vedrà a Roma all'Auditorium della Conciliazione il 23 e 24 gennaio al Gala Les Étoiles, per la rassegna “Tersicore” a cura di Daniele Cipriani). Nel baratro del consumo però finisce tutto, anche la vita privata, come sa la fuoriclasse russa Natalia Osipova, sotto i riflettori per la sua appassionata storia d’amore con il ballerino Sergei Polunin, bello, dannato, e come tutti tatuato. Ai più giovani piacerà che le ballerine si avviino a diventare star mediatiche nonché modelli da emulare; altri forse rimpiangeranno lo stile austero di Anna Pavlova, che nel più totale riserbo visse una carriera leggendaria, lasciando per il suo culto postumo una piccola urna con il solo nome inciso. di Valentina Bonelli [email protected] Amadeus 83 Solo Mehldau SUGGESTIONE RAVEL Un pianista e un pianoforte: la favola bella di un maestro della tastiera. Ora in cd dieci anni di suoi concerti "live", Brahms compreso Attilio Zanchi, contrabbassista e compositore emerito, vanta numerosi dischi a suo nome. Ma questo è il più bello, compresa la copertina che mostra la mano del protagonista che tocca le corde dello strumento emergendo da un fondale scuro. Propone dodici brani – nove firmati da Zanchi: gli altri sono l’Ave Maria di Giuseppe Verdi, Romanza di Francis Poulenc e Labios de Flores di Mauro Grossi – testimonianza di una cultura musicale che si proietta in ogni direzione. Credo che fra molti anni si potranno tessere le lodi di questi pezzi con le stesse parole usate dal sottoscritto che le scrive qui, tanto sono eleganti e raffinati al punto da dare la sensazione di poter trascendere il tempo: a cominciare dal brano iniziale che dà il titolo al disco, Ravel’s Waltz. Zanchi, che elabora personalmente le note di copertina brano per brano, tutte da leggere con molta attenzione, spiega ad esempio che Maurice Ravel è uno dei suoi compositori classici preferiti e tuttavia, per lui come per altri, il suo lavoro di rielaborazione è partito da qualche suggestione (nel valzer si percepiscono alcune note prese dalla Pavane pour une infante défunte) ma lo sviluppo della musica segue poi una propria via. Ravel’s Waltz Attilio Zanchi Abeat Rec. AbJz 144, distr. Ird ECHI DI SARDEGNA A nche Amadeus ha avuto occasione, segnalando la ristampa di un vecchio cd, di citare la favola bella del pianista Brad Mehldau, scoperto a Perugia nell’estate 1997 quando aveva 27 anni, e lanciato con notevole clamore a livello internazionale. Ma ora che Mehldau, riconosciuto ovunque come uno dei maestri attuali del pianoforte, coglie di sorpresa gli estimatori pubblicando per la sua etichetta abituale, la Warner, un box di quattro cd (o di otto lp di contenuto identico in edizione limitata) al piano solo incisi dal vivo negli ultimi dieci anni, tutto acquista un peso specifico assai diverso. Torniamo all’inizio degli anni ’90, quindi a qualche anno prima del 1997. Mehldau arriva per la prima volta in tour in Europa come pianista del quartetto del sassofonista Joshua Redman, suo coetaneo e figlio di Dewey che suona lo stesso strumento. Dewey Redman 84 Amadeus quasi non conosce il figlio, vissuto fino allora in California con la madre, ma subito lo protegge, lo promuove facendolo suonare con il proprio gruppo (anche a Milano in un club che non c’è più, il Tangram) e poi lasciandolo libero non appena capisce che può volare da solo. In Italia, agli intenditori non sfuggono le doti di tecnica, tocco e fraseggio di Mehldau che sono il chiaro frutto di studi severi anche classici. Ma Brad e Joshua non vanno d’accordo per nulla. Il pianista è costretto a lasciare il quartetto e la sua scoperta è rinviata al 1997 quando approda in Umbria con Larry Grenadier contrabbasso e Jorge Rossy batteria, il suo trio. Per ritrovare Brad e Joshua insieme in duo, quasi costretti dalla celebrità conseguita da entrambi, gli italiani dovranno attendere il festival di Vicenza del 2010. Nel frattempo gli esperti, consapevoli che per i pianisti di jazz i concerti in solo equivalgono a esami di laurea, cercano di cogliere Mehldau sul fatto. L’impresa si presenta ardua. Ma nell’autunno 1997 l’Umbria è scossa da un terremoto che danneggia fra l’altro l’incantevole Palazzo dei Priori nel centro di Perugia. Ci vuole quasi un anno per rimetterlo in sicurezza. La riapertura deve essere celebrata da un evento importante come un concerto in solo di Mehldau, che ha luogo infatti nel quadro di Umbria Jazz 1998 con esito trionfale.Piace pensare che da qui nasca il progetto stupendo del box Brad Mehldau 10 Years Solo Live, realizzato dal 2005 al 2014 in diciassette sale da concerto e teatri europei, con 34 brani di vari autori compreso Johannes Brahms, uno più bello dell’altro. Osserva Luca Conti che questa musica è suonata benissimo, con una discrezione lontana dai turgori che talvolta hanno rischiato di azzoppare la carriera del pianista in trio. Come volevasi dimostrare. La notorietà di Gavino Murgia, nuorese, ha valicato da tempo i confini della sua Sardegna e dell’Italia. Si è affacciato alla ribalta della musica come sassofonista, ma sarebbe meglio definirlo, più genericamente, produttore di suoni organizzati. In questo cd in trio con Michel Godard tuba, serpentone, basso elettrico e con Patrice Heral batteria e percussioni, accanto al suo nome figura una lista impressionante di strumenti che qui trascrivo lasciandone da parte alcuni: sax soprano, sax alto, sax tenore, sax baritono, launeddas, sulittos, thunder tube, tumbarinu. Inoltre, siccome canta in vari gruppi vocali sardi (tenores), Murgia è definito “bassu guttural”, in quanto sa cavare dalla gola e dai polmoni un suono cupo e profondo di rara efficacia e suggestione. I cultori del jazz lo hanno particolarmente apprezzato in numerose occasioni: ad esempio come sassofonista del quartetto Giornale di Bordo con Antonello Salis, Paolo Angeli, Hamid Drake; e come protagonista eclettico di una rilettura, jazzy ma non troppo, della musica di Claudio Monteverdi condotta da Michel Godard. Qui la rievocazione della crudele mattanza, cioè dell’uccisione dei tonni con metodi che per fortuna stanno scomparendo, è un pretesto per fare buona musica intrisa di echi popolari sardi. L’ultima mattanza Gavino Murgia Trio 1402-2, distr. Quinton DISCOTECAIDEALE JAZZ The Young Oscar Peterson 2cd Jazz Tribune 76 distr. Bmg Chiunque si metta alla ricerca di questo bellissimo doppio cd storico farà fatica a trovarlo, ma vale la pena. Ci sono tutte le registrazioni significative realizzate da Oscar Peterson a Montréal, la sua città natale, dal 1945 quando aveva vent’anni fino al 1949, in occasione di un secondo incontro casuale con l’impresario Norman Granz che non era rimasto soddisfatto di una prima audizione. Ma questa volta Granz capì che quel pianista giovane e corpulento valeva tanto oro quanto pesava, e se lo portò via. Il fatto, quasi romanzesco, è abbastanza noto. Granz era in un taxi diretto all’aeroporto di Montréal per rientrare a New York mentre la radio di bordo trasmetteva il concerto di un pianista in un club cittadino. Il taxista gli disse il nome del musicista e Granz, pur sapendo di perdere l’aereo, gli ordinò di virare verso il club. Cominciò così la favolosa carriera di Peterson, interrotta dalla morte a Toronto nel 2007. Aveva iniziato a studiare il pianoforte classico a sei anni rivelando una disposizione eccezionale. Fa impressione ricordare che per parecchio tempo non fu apprezzato come meritava: molti cultori del jazz restarono persuasi che in lui la tecnica prevalesse sull’espressione. di Franco Fayenz [email protected] Amadeus 85 FUORITEMA Con "Amore e furto" il cantautore romano dichiara la sua passione per Dylan S e non fosse che si cadrebbe nell’ovvio, e magari anche nel ridicolo, si potrebbe dire che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Lo sanno tutti dall’inizio del romanzo, ed è diventata consuetudine di un certo tipo di “gialli” e con il tempo anche un credo popolare. Per cui la sorpresa di sentire Francesco De Gregori cantare Bob Dylan per noi ha lo stesso effetto della scoperta che l’assassino è il maggiordomo. Fin dall’inizio della sua carriera il nome del cantautore romano è stato accostato a quello del songwriter statunitense e, in effetti, similitudini e richiami ci sono sempre stati (come quelli legati a Leonard Cohen). Ora, però, De Gregori viene completamente allo scoperto, incidendo un intero album di brani presi dal canzoniere dylaniano. L’omaggio parte dal titolo, che si rifà all’album Love and Theft, appunto Amore e furto, e include 11 perle semi rare tradotte seguendo sia le regole metriche dei versi che quelle del senso delle canzoni e la cifra sonora (a volte adattata per l’occasione). Lo stesso De Gregori spiega che il suo lavoro è stato solo quello della traduzione e il compito del traduttore è essere il più fedele all’originale, quindi ha scelto di portare in italiano i brani che meglio si prestavano a questo lavoro. Così questo disco risulta, oltre che una dichiarazione d’amore verso Dylan, un atto di dedizione verso la ricerca della parola “giusta”. 5 DISCOTECAIDEALE De Gregori “traduttore” Anche la scelta dei brani ci fa capire quanta attenzione è stata riservata al progetto: niente pietre miliari come Mr. Tambourine Man, Like a Rolling Stone oppure Blowin’ in the Wind, ma pezzi “minori” come Political World, Not Dark Yet e Dignity. Che si accompagnano a canzoni più conosciute quali Desolation Row, I shall be released, Subterranean Homesick Blues e If you see her, say hello. Lo stesso De Gregori afferma: «Diciamo che ho cantato le canzoni di Dylan che mi sono capitate addosso». Il risultato è un disco molto curato dove la poetica dylaniana (sia quella letteraria che musicale) trova modo d’essere valorizzata e portata alla comprensione di chi ha sempre avuto preconcetti verso il songwriter statunitense. Pare che sia stato uno degli album più costosi nella storia del rock. E in effetti per portarlo a compimento vennero utililizzati ben sei studi di registrazione, tutti nel Regno Unito, e migliaia di sovraincisioni e interventi vocali e strumentali. Fino all’uscita di A Night at the Opera la produzione dei Queen si era mossa su un percorso poco definito, tra progressive, hard rock e musica pop di intrattenimento. Fu proprio la volontà del duo Freddy Mercury – Brian May (asse portante del gruppo) che si impegnò alla realizzazione di questo album, vero punto di svolta della loro carriera. Lo stesso Mercury racconta così: «C’erano molte cose che volevamo fare sugli altri album, ma non c’era spazio. Adesso ne abbiamo la possibilità, vogliamo spaziare in tutti i generi e continuare il lavoro sui cori e le sovraincisioni fino a realizzare un’opera d’arte costruita in studio». Grande ambizione, che in parte si è realizzata. Si ascolti anche solo il brano Bohemian Rhapsody, costruita su tre diverse fasi musicali, in cui gli interventi rock, pop e operistici si susseguono, in un vero capolavoro di originarietà. A far parte della tracklist dell’album troviamo anche pezzi come Sweet Lady, Love of my life, The prophet’s song e una versione riveduta di God save the Queen. SERGIO ARTURO "FINGERPICKING" COLONEGO Secondo lavoro del chitarrista italiano, che omaggia già nel titolo il celebre musicista Marcel Dadì e il metodo d’accordatura Dadgad, di ispirazione celtica ma anche mediterranea, che permette sonorità più “aperte” rispetto alle accordature classiche. Una serie di brani eseguiti con tecnica fingerpicking che catturano l’ascoltatore per la purezza del suono e la maestria del tocco sullo strumento. Dadigadì Sergio Arturo Colonego Produzione propria, Hyperlink 86 Amadeus www.fondazioneamadeus.org Un Magazzino per la Musica A Night at the Opera Queen Emi / Parlophone, 1975 Amore e furto Francesco De Gregori Caravan, distr. Sony Music, 88875126882 PER MILLE destina il tuo cinquepermille al c.f. 06057580968 di Riccardo Santangelo [email protected] TW: @RickySixtySix FB: riccardo.santangelo.71 Libri, dischi, spartiti, un bar, un laboratorio di liuteria. A Milano un nuovo "spazio aperto" si sta affermando come luogo d'incontro per musicisti e appassionati N asce a Milano il Magazzino della Musica, per brevità MaMu, e si propone in questo breve lasso di tempo, come una delle realtà culturali più dinamiche e attive di Milano: incontri, conferenze, presentazioni di novità editoriali e discografiche, libri, dischi, riviste, spartiti, un bar-caffetteria e anche un laboratorio di liuteria, tutto supportato da grande competenza e passione. Si trova in via Soave 3 ed, escluso il lunedì, è aperto dalle 11 alle 21, da martedì a venerdì, e dalle 10 alle 21, sabato e domenica. MaMu si propone come luogo ideale per presentare nuovi cd e nuovi libri, come se foste nel salotto di casa insieme ad amici comodamente seduti e rilassati. Gli onori di casa li fa Nicola Kitharatzis, che per annni ha lavorato nell’editoria musicale con Ricordi, Carisch, musicista con la passione per la diffusione della musica in ogni suo manifestarsi: ascoltare, eseguire, proiettare, suonare ma soprattutto insegnare, al punto da inventarsi un corso di solfeggio aperto a tutti la domenica mattina. Del resto come molti ricordano egli è stato leader di un’orchestra di dilettanti, che ha coltivato e diretto per alcuni anni. Il successo è innegabile dato che nel vasto open space (ci si arriva con tutti i mezzi pubblici: metro, tram e filobus) sono già passati nomi illustri come quelli di Roberto Prosseda e Alessandra Ammara, Enrico Dindo, Cesare Fertonani, Maurizio Baglini, Tatiana Larionova, Francesca Dego e Chiara Leonardi, i Cameristi della Scala, Ian Bostridge. E fin qui abbiamo parlato solo di musica, però MaMu nelle intenzioni e nei fatti si propone anche come luogo di incontri culturali aperti a ogni tipo di proposta: non solo musica ma anche letteratura e arte hanno trovato una nuova dimora. In zona Porta Romana, vicino alla periferia, ma non lontana dal centro MaMu è il luogo ideale per ogni tipo di incontro culturale. g.s. EDUCATION di Pietro Dossena MasterCLASSConCorsiMasterCLASSConCorsi Dando il La NAPOLI Il Maggio del pianoforte concorso per pianisti fino ai 35 anni scadenza 30 aprile maggiodellamusica.it Prima selezione da video recital in autunno per i sei pianisti selezionati vincitore decretato dal pubblico NOVARA Premio Internazionale Giuseppe Martucci concorso per pianisti dai 18 ai 29 anni scadenza 10 aprile amicimusicacocito.it Prima selezione dei finalisti vincitore decretato dal pubblico brani d’obbligo di Martucci ROMA Conservatorio S. Cecilia Corso di armonica a bocca cromatica docente Gianluca Littera da aprile a luglio gianlucalittera.it Per esecutori e compositori interessati a scoprire o approfondire l’armonica cromatica. La network music di LOLA F A Milano è nata un'associazione che si propone di educare i più piccoli all'ascolto di suoni e culture diverse V iolini, djembé, chitarre elettriche, flauti: i bambini che popolano le nostre scuole sono simili a strumenti musicali, che dovrebbero imparare a “suonare” insieme trascendendo le differenze etniche e sociali. Per “accordarli” non c’è niente di meglio che introdurli alla musica fin dalla scuola dell’infanzia, come si propone l’associazione milanese “Diamo il La” mediante un ambizioso progetto a lungo termine, sostenuto, tra gli altri, da Riccardo Chailly e Daniele Gatti. La presidente, la giornalista Giuseppina Manin spiega che il punto di partenza è l’educazione all’ascolto, tanto di suoni quanto di culture diverse. «In un mondo in cui predomina il senso della vista, ci proponiamo di educare all’attenzione sonora, all’ascolto reciproco, alla musica di qualità. A Berlino, Daniel Barenboim ha fondato un asilo privato 88 Amadeus che si rivolge a bambini con inclinazioni musicali. Il nostro intento non è formare futuri musicisti, ma buoni ascoltatori. Siamo interessati a coinvolgere tutti i bambini, vogliamo favorire tra di loro rapporti paritari e intensi, inserendo la musica nel percorso didattico quotidiano». Quale metodo educativo prediligete? «Dopo un’accurata ricerca abbiamo scelto quello di Reggio Children, una realtà pedagogica all’avanguardia conosciuta e studiata in tutto il mondo. Ci avvaliamo di formatori specializzati, una pedagogista e un atelierista, che lavorano con gli insegnanti prima ancora che con i bambini». I primi progetti realizzati? «Uno sulla vita delle api: un percorso di esplorazione multisensoriale che non ha trascurato l’importanza della componente sonora. L’ascolto del celebre Volo del calabrone è stato proposto solo al termine delle attività. Un altro progetto riguardava invece il riconoscimento uditivo della città: una passeggiata è stata rivissuta dai bambini attivando connessioni tra i luoghi visti e i suoni ascoltati, riproposti in registrazione». Quante sono le scuole coinvolte? «Abbiamo iniziato con due asili pilota proposti dal Comune di Milano, per poi allargare a un totale di quattro scuole dell’infanzia. L’obiettivo è coinvolgerne sempre di più nel corso dei prossimi anni, contando sul sostegno delle istituzioni e sui contributi economici tramite fundraising. Per ora la presenza degli esperti di Reggio Children è necessaria, ma sarebbe bello trasmettere le loro conoscenze a nuovi formatori specializzati, attivi nella realtà milanese» Info: diamoilla.it requentando Youtube capita di imbattersi in brani suonati in tempo reale da musicisti lontani nello spazio. Ma nel contesto colto ancora scarseggiano esperimenti del genere. Un esempio notevole è il recente concerto che ha coinvolto i Conservatori di Milano e Copenhagen. Ne parliamo con Giovanni Cospito, coordinatore del Dipartimento di Musica con nuove tecnologie al Conservatorio di Milano. Quale tecnologia avete utilizzato? «Il sistema LOLA (da “LOw LAtency”), realizzato dal Conservatorio di Trieste in collaborazione con il Consortium GARR. Si tratta di un software dotato di una piattaforma ottimizzata che limita al massimo i tempi di latenza dello streaming audio e video, permettendo così l’interazione tra musicisti in posizioni remote». Non si parla di normali programmi per videoconferenze, vero? «No, questo sistema richiede una banda larghissima ed è stato studiato specificamente per la musica. Molte università e conservatori l’hanno già adottato». Quali sono le applicazioni principali? «In primo luogo quella didattica, esemplificata con una lezione di musica da camera in cui pianista e cantante, a Milano, erano guidati da un’insegnante a Copenhagen. L’idea stessa di concerto si può aprire a nuove possibilità: nel nostro concerto abbiamo ascoltato un Quartetto d’archi con due esecutori a Milano e due a Copenhagen. Quando il suono è prodotto in spazi diversi, diventa fondamentale ricreare uno spazio virtuale di ascolto che sappia integrarli efficacemente». I musicisti si sono adattati facilmente? «Si ravvisano differenze generazionali: i più giovani sembrano adattarsi prima. Sono ora necessari studi specifici sulle raffinate modalità di interazione audiovisiva tra i musicisti, per poter sfruttare al meglio le potenzialità della network music». Il sistema LOLA in azione durante un concerto al Conservatorio di Milano IL PUNTO [email protected] di Carlo Delfrati Il maestro di Sara Conservatorio di *, classe di direzione d’orchestra. Gli allievi si alternano a dirigere il piccolo coro. «Maestro, può guidarmi lei il braccio?» chiede l’allieva Sara, «ne avrei proprio necessità». «Non è cosa che io possa e debba fare!» risponde il Maestro accigliato. «Non sarebbe corretto verso i tuoi compagni, che s’industriano con i propri mezzi». «Ma io …» Il Maestro si irrita ancora di più: «Ognuno deve sbrigarsela da sé!».L’aneddoto è vero. È anche finito in un romanzo. Per dire che non sempre i docenti dei nostri istituti educativi sono all’altezza del compito. Molti eccellono, molti si barcamenano come possono, molti sarebbe meglio che facessero altro. Come avviene in tutte le professioni. Nella scuola guai però a prendere provvedimenti: se non proprio ricorrendo alla ghigliottina del licenziamento, almeno rivedendo le funzioni dell’incapace, o magari premiando i capaci. È quello di cui s’è tanto parlato nei mesi primaverili, e di cui si parlava quindici anni fa, quando una proposta del genere fu avanzata dal Ministro Berlinguer. Nel nostro paese chi tocca le poltrone, anche quelle usurpate, muore. Berlinguer fu costretto a dimettersi. Al nuovo auguriamo lunga vita politica. Ma le barricate alzate dagli interessati contro l’idea di essere giudicati sono già alte. Chi potrebbe farlo? E come? E con quale affidabilità? Si protesta. Dimenticano che esiste tutta una disciplina, la docimologia, che spiega per esempio che anche un bambino di dieci anni ha qualcosa di credibile da dire sui meriti del suo maestro. Anche un bimbo di dieci anni capirebbe che al Maestro di Sara sarebbe meglio consigliare un’altra professione. Ma sappiamo qual è la verità dolorosa del nostro sistema scuola: si alzano barricate per difendere i diritti dei docenti, ma nessun sindacato esiste per proteggere i diritti degli studenti. Dimenticavo: Sara è una ragazza cieca dalla nascita. Amadeus 89 NOTE DI VIAGGIO Cartagena Ogni cosa è diversa Atmosfere coloniali e letterarie nell'antica città colombiana, rinata con la cultura e la musica di Luigi di Fronzo L iberi di rispolverare le pagine gloriose di García Márquez dall’Amore al tempo del colera all’immortale Cent’anni di solitudine per respirarne l’atmosfera sulle orme del grande scrittore sudamericano. Ma Cartagena de Indias, in Colombia – patrimonio dell’Unesco dal 2012 - con il suo centro storico immerso in un’atmosfera magica ha un fascino antico che travalica qualsiasi suggestione letteraria. Una città che trasuda storie antiche di schiavitù, realismi onirici da America Latina, crude vicende di conquistadores e scoppiettanti danze caraibiche, capace negli anni a conservare lo spirito d’epoca. Fondata nel 1533 da Pedro de Heredia per valorizzare un vecchio insediamento di nativi (quindi totalmente distrutta da un incendio che polverizzò in poche ore le vecchie case di legno), Cartagena è rimasta un crogiolo di vicoli segnati da casupole colorate in tegole, pietre e mattoni, ingentilite dai balconi di legno. Un concentrato di bellezze nel centro storico Las Murallas, fortamente voluto dai cittadini dopo che il pirata sir Francis Drake riuscì a conquistarla grazie a un lungo assedio, risparmiandone la distruzione in cambio di 10 milioni di pesos. Destino bellicosamente replicato tre secoli dopo, nel 1815, quando la città fu riconquistata dagli spagnoli per via di un pesante assedio di quattro mesi in cui morirono più di sei mila persone, bollata per questo come “Heroica” dal patriota venezuaelano Simón Bolívar. E tuttoggi la sua oasi struggente – in un paese finalmente pacificato, che si sta aprendo al mondo – è ricamata fra palazzi 90 Amadeus Un’atmosfera contagiosa «È un Festival cresciuto tantissimo in questi 10 anni: basti pensare che nel 2016 vi partecipano 4 orchestre, i 3 gruppi di Jordi Savall più molte formazioni cameristiche e diversi solisti, per un totale di circa 350 artisti da Sudamerica, Europa, Nord America e Africa». A sintetizzare le linee portanti della manifestazione colombiana (37 concerti, un’affluenza di pubblico stimata intorno a 25/30 mila persone) è l’italiano Antonio Miscenà direttore generale di Festival International de Música “Cartagena 2016”: editore, discografico, già patron di Egea Record e ideatore di Suono Italia. Differenze nell’organizzare un festival sudamericano, rispetto all’Europa? «Da quando ho assunto l’incarico quattro anni fa, ho capito quanto è diverso realizzare un grande evento con capitali privati. Alle nostre spalle infatti c’è la Fondazione Salvi, che sta contribuendo L'affiche del Festival Cartagena 2016, creata dall'artista colombiana Olga de Amaral; a sinistra concerti nei luoghi storici della città coloniale fortemente alla crescita della cultura musicale del paese e sostiene il Festival all’80 per cento». Sono diversi i parametri organizzativi e gestionali? «Indubbiamente, dai più elementari. Come la tecnologia audio e i video di qualità, ancora costosissimi in tutto il Sudamerica. Tuttavia l’entusiasmo che si respira sul Festival è strardinario, ti contagia profondamente». Ci sono progetti legati all’educazione? «La rassegna ospita ogni anno 500 giovani musicisti che provengono da ogni parte della Colombia: ci sono masterclasses, seminari e stages con i differenti artisti. In questo modo pensiamo ai musicisti di domani». È cambiata la Colombia in questi ultimi anni? «Sì, in modo molto evidente. Il dinamismo si percepisce ovunque, anche in città come Medellín che un tempo erano un crocevia di organizzazioni criminose». l.d.f. CARTAGENA 2016 aristocratici, antichi monasteri, piazze tardo barocche: magari certo dopo una sosta in un patio ombroso, per soffocare la calura. Quasi a ogni angolo lo sguardo si posa su chiese coloniali mirabilmente conservate: ben visibili dopo l’ingresso in città attraverso la Puerta del Reloj, nella cui piazza interna sorgeva l’antico mercato degli schiavi giunti dalle foreste del Benin e della Guinea, per essere venduti ai latifondisti di canna da zucchero. Posto di bellezze struggenti e sensuali, ma anche di sangue. Nel locale Palacio de la Inquisición se ne vedono tracce fra gli inquietanti strumenti di tortura ben conservati, per condannare gli eretici nelle famigerate autodafé. Per fortuna oggi Cartagena, multiculturale, libertaria è rinata attraverso la cultura. Non solo con la musica di un festival in ascesa ma tra le righe di Márquez, che annotava: «Ogni cosa è diversa. C’è questa solitudine senza tristezza, questo oceano incessante, questa immensa sensazione di essere arrivato». Il Cartagena Festival Internacional de Música festeggia i suoi primi 10 anni, dall’8 al 16 gennaio. La doppia inaugurazione è con il Concerto Italiano di Rinaldo Alessandrini (a sui si affiancano il Coro Filarmónico Juvenil e l’Orquesta Filarmoónica de Bogotà, su Vivaldi e Zipoli) e poi con l’Hespèrion XXI più la Capella Reial de Catalunya di Jordi Savall, in un patchwork arabo-andaluso, ebraico e cristiano. La varietà di forme musicali e generi è assicurata da innesti significativi: il Cuarteto Cárdenas, il pianista Mauricio Vallina, il Colectivo Colombia fra marimbe e basso elettrico, l’arpista classico Emmanuel Ceysson con la residente Orpheus Chamber Orchestra e il violinista/direttore Maxim Vengerov. Quest’ultimo suona con la Orquesta Sinfónica Juvenil di Medellín, ex-città simbolo di un potente cartello di trafficanti dove di recente sono state costruite biblioteche, centri culturali e sale da concerto, giusto per farla uscire dal baratro. Info sul sito web.cartagenamusicfestival.com. l.d.f. Amadeus 91 NOTE D’ARTE Nuovi orizzonti In Francia due mostre, indagano gli affascinanti e duraturi rapporti tra la musica e l'arte figurativa di Marc Chagall sempre tesa verso nuove dimensioni espressive in collaborazione con UTET Grandi Opere - FMR N el 1967, il Lincoln Centre for the Performing Arts di New York presenta al Metropolitan Opera House due eventi eccezionali, strettamente collegati tra loro. Il primo è la messinscena del Flauto magico mozartiano diretto da Josef Krips, con l’indimenticabile Regina della Notte di Lucia Popp e con le scene e i costumi di Marc Chagall; il secondo è l’inaugurazione dei due grandi murali, circa nove metri per undici ciascuno, che il 92 Amadeus grande pittore russo-francese intitola Les sources de la musique e Le triomphe de la musique: quest’ultimo è una sorta di conflagrazione visionaria in cui figurano violini e clarini, mandolini e sassofoni, violoncelli, figure danzanti e angeli musicanti, cioè la musica alta e bassa, la classica, la popolare, il jazz. I titoli di queste opere sono stati ripresi ora nel doppio omaggio francese, a Parigi e a Roubaix: due esposizioni dedicate a Chagall e ai suoi rapporti nonoccasionali con la musica (vedi box). Per la scena l’artista prende a operare nel 1920 con i decori per il Teatro ebraico di Mosca. Essa tornerà concretamente nella sua vita molti anni dopo. Nel 1942, ecco la collaborazione con Léonide Massine per Aleko, su musica del Trio in la minore di Čajkovskij, che il Ballet Theatre of New York fa debuttare a Città del Messico: Zamphira è la leggendaria Alicia Markova. Il mondo è dunque quello dei Ballets Russes di Djagilev che hanno segnato le grandi stagioni parigine sino al 1929: in qualche modo per Chagall è d’altronde un destino già scritto da quando in Russia, giovanissimo, tra i suoi insegnanti di pittura aveva figurato Léon Bakst. Tre anni dopo a New York è infatti la volta di L’oiseau de feu di Stravinskij, e nel 1958-1959 di Daphnis et Chloé a Parigi. Nella tarda maturità la musica continua a coinvolgerlo, anche se in modo diverso. Nel 1963, il ministro francese della cultura, André Malraux, gli commissiona le imponenti decorazioni dell’Opéra Garnier, ma già in precedenza aveva realizzato interventi permanenti nel 1949 al Winter Gate Theatre a Londra e nel 1959 alla Schauspiel di Francoforte. La musica diventa uno dei suoi riferimenti primari negli anni della vecchiaia, ma essa lavora in Chagall e nella sua pittura sin dagli inizi. Le sue radici ebraiche lo portano a una dimestichezza sentita con il canto, con il violino, con la danza. È il mondo popolare chassidico, nutrito di molteplici umori mitteleuropei, del klezmer che fa da colonna sonora alle fasi dell’esistenza, la quale è impensabile senza l’universo di suoni che l’accompagna intensificandola Marc Chagall: a sinistra, L'Arc en ciel, 1967; qui, David à la mandoline, 1914 IL TRIONFO DELLA MUSICA Marc Chagall. Le triomphe de la musique. Les sources de la musique è un’iniziativa articolata in due mostre contemporanee e organiche che si tengono sino al 31 gennaio alla Philharmonie de Paris e a La Piscine di Roubaix. Esse si integreranno in seguito, in marzo, al Musée National Marc Chagall di Nizza.Artista straordinariamente prolifico e longevo (nasce a Vitebsk nel 1887 e muore a Saint-Paulde-Vence, nel sud della Francia, nel 1985), egli ha sempre vissuto la musica come momento fondante della propria cultura tutta. Del resto, il mondo ebraico chassidico in cui nasce vive la musica come presenza costante dell’esistenza, con uno spettro d’attenzioni e di pratiche che va dal profondo della cultura popolare alle vette della musica colta. Di questo mondo non solo Chagall si fa cantore, ma ne fa il nutrimento iconografico e stilistico del suo repertorio favolistico e visionario, che rappresenta una delle voci insieme più atipiche e più alte dell’arte del ventesimo secolo. emotivamente. Nel suo porsi a fianco delle avanguardie storiche Chagall intende i nuovi orizzonti di libertà espressiva possibili proprio come salvaguardia ed espansione in senso poetico, fantasticante, del suo fondo culturale originario. D’altro canto la liberazione del disegno e del colore da vincoli rigidi di rappresentazione richiede un altro ordine formativo possibile: e qui entra in gioco il sentimento più profondo della musica, il lavorare sui colori per timbri e toni, per armonie e dissonanze, in un flusso visivo che è, primariamente, affettivo, ma su fondamenti distillati e precisi. La musica si traduce anche, occasionalmente, in iconografia, in un repertorio che va dal tradizionale shofar ebraico al violino dei saltimbanchi, dal mandolino al violoncello dei viandanti, figure che affiorano dall’universo di memoria della sua vita nella cittadina natale di Vitebsk per proiettarsi nei cieli delle sue visioni cosmiche. È qui, negli anni parigini della sua straordinaria maturità, che egli può dire che dipingendo «io stesso divento un suono», perché il proprio pensarsi artista è, in radice, musica. Se le stagioni francesi che vanno dal 1923, quando egli vi si stabilisce dopo le delusioni della rivoluzione sovietica sino a prenderne la cittadinanza nel 1937, al 1940, il tempo dell’invasione nazista, non lo vedono direttamente impegnato in rapporto con il mondo musicale, dall’esilio negli Stati Uniti in poi anche questo sarà un modo, per lui, di tenere vivi i legami culturali e biografici che lo riportano, attraverso amici come Stravinskij e Massine, tanto alla sua terra natale quanto al suo mondo artistico d’adozione. di Flaminio Gualdoni [email protected] Amadeus 93 MECENATI Lasciare un segno L’ idea di dare vita alla Fondazione Benetton Studi Ricerche risale al 1987: dopo anni di lavoro in campo industriale, da parte dei quattro fratelli Benetton – con Luciano in testa – c’era il desiderio di lasciare un segno alla collettività di Treviso. E fu davvero un gesto di mecenatismo in senso ampio: venne data un’indicazione di massima sul campo di attività, lasciando però totale libertà a un eterogeneo gruppo di studiosi. Sono passati quasi trent’anni da allora, ed è stata un’esperienza unica come quella del suo fondatore...», spiega l’attuale presidente della Fondazione, Marco Tamaro. Il principale ambito di ricerca riguarda, fin dalle origini, lo studio sul governo e il disegno del paesaggio, rivolgendo una particolare attenzione alle tematiche ambientali di più comune interesse. A fianco di un’attività di ricerca internazionale, la Fondazione affianca poi un’intensa attività editoriale, mentre il contributo di Gaetano Cozzi (un grande storico del diritto veneto scomparso nel 2001) ha allargato il campo di ricerca alla storia e alla civiltà del gioco: trovando riscontro nella rivista Ludica, riconosciuta a livello internazionale. E tra queste diverse attività, anche il mondo dei suoni possiede il suo spazio: in gennaio, in collaborazione con almamusica433, inizia la terza edizione di Musica Antica in Casa Cozzi, con la direzione artistica di Stefano Trevisi. Un ciclo di concerti, corsi di alto perfezionamento e laboratori di musica medievale dedicati al grande Siglo de Oro, organizzati proprio mentre Treviso ospiterà la mostra El Greco in Italia. Metamorfosi di un genio: quattro diversi appuntamenti – si inizia il 22 di questo mese con Paola Erdas e l’ensemble vocale Kalicantus – in programma fino ad aprile, con grandi gruppi e solisti del repertorio antico. Il 20 febbraio suonerà il liutista Xavier Daz- 94 Amadeus I progetti per la collettività della Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso. Ricerca, editoria e musica antica Latorre, il 19 marzo l’Anonima Frottolisti e il 9 aprile l’ensemble Odhecaton, mentre durante il mese di giugno avrà luogo il festival Giugno Antico. «La volontà di aprirsi alla musica rispecchia il desiderio dello stesso Cozzi, che fu nel nucleo originario della Fondazione», continua Tamaro. «Quando morì, decise di lasciarci la sua casa di campagna nel paese di Zero Branco, perché il luogo potesse ospitare iniziative legate all’universo dei suoni. E una pianista di talento era anche la moglie di Cozzi, Luisa Zille... Nel 2003 abbiamo ristrutturato tutto il complesso, su uno spazio di otto ettari, e la musica ha finalmente avuto il suo spazio.» A fianco dei concerti ospitati nell’auditorium della Fondazione – oltre che nella chiesa di San Francesco di Treviso – Casa Cozzi sarà il luogo dedicato a laboratori di clavicembalo, liuto, direzione di coro e canto barocco-rinascimentale: la masterclass di quest’anno vedrà la partecipazione di Claudia Caffagni, che coinvolgerà gli allievi nello studio della Messa Se la façe ay pale di Guillaume Dufay, in vista di un’incisione discografica e di una serie di concerti. «Tutte queste iniziative sono frutto di un progetto i cui costi sono stati condivisi da più attori, fin dalla prima edizione», conclude Tamaro. «Ma in questi anni siamo stati capaci di attirare molta curiosità, dimostrando di aver colpito nel segno. Per il futuro? Puntiamo a fare sempre di più, attraverso progetti il più possibile condivisi». di Edoardo Tomaselli [email protected] Concerto di Capodanno Mariss Jansons, direttore Wiener Philharmoniker 2 CD Sony Classical 88875174772 Disponibile dall’8 Gennaio 2016 1 DVD Sony Classical 888751747890 1 Blu-ray Sony Classical 888751747999 3 LP Sony Classical 888751747517 DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE Cattedrali Antonella Ruggiero My Christmas Plácido Domingo L’album di musica sacra, dal barocco ai giorni nostri Il nuovo album di Natale con le canzoni più amate dal grande tenore, incise con ospiti speciali e grandi orchestre. Con la partecipazione di The Piano Guys, Jackie Evancho, Helene Fischer, Vincent Niclo e altri 1 CD Sony Classical 88875169512 DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE 1 CD Sony Classical 88875117432 DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE Vivaldi e L’Angelo di Avorio vol. 3 Ensemble Silete Venti! Simone Toni, oboe e direttore Vivaldi: The New Four Seasons Nigel Kennedy, violino e direttore The Orchestra of Life The Young Vivaldi Federico Maria Sardelli, direttore Ensemble Modo Antiquo L’ultimo volume dell’integrale dei concerti per oboe di Vivaldi 1 CD Sony Classical 88875076722 DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE Tre prime registrazioni mondiali 1 CD Deutsche Harmonia Mundi 88875081942 DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE 1 CD Sony Classical 88875127852 DISPONIBILE ANCHE IN DIGITALE A TAVOLA con Falstaff Grande baritono e gran cuoco, ha cantato il Falstaff di Verdi più di 250 volte nel mondo. Si esibisce volentieri anche ai fornelli sul suo sito: ambrogiomaestri.com Le ricette di Ambrogio Maestri Pumpkin pie Ingredienti 750 gr. di zucca, sbucciata, senza semi e tagliata a tocchetti farina bianca, da spolverare 140 gr. di zucchero semolato ½ cucchiaino di sale ½ cucchiaino di noce moscata grattugiata fresca 1 cucchiaino di cannella 2 uova sbattute 25 gr. di burro sciolto 175 ml di latte 1 cucchiaio di zucchero a velo ingredienti per la pasta frolla: 225 gr. di farina bianca 100 gr. di burro a cubetti New York New York! A gennaio New York è gelida. Il vento tagliente dal mare, che corre sul fiume Hudson, si incanala attraverso le Avenues e le Streets di Manhattan, rendendo la vita all’aperto molto faticosa. Ma se si è fortunati si possono vivere alcune giornate così nitide, con una luce invernale talmente tersa e abbagliante, da rimanere a bocca aperta per la bellezza della città, quasi da dimenticare i denti che battono! Il calore, invece, lo si può trovare nella musica al Lincoln Center, sede del celebre Metropolitan Opera House, uno dei teatri d’opera più grandi del mondo, che nel 1910 ha visto anche la prima esecuzione assoluta de La fanciulla del West di Giacomo Puccini diretta da Arturo Toscanini. Sono stato ospite di questo teatro molte volte, e dal 21 gennaio salirò di nuovo su quel palco per cantare il ruolo di Alfio nella Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, con la regia di David McVicar e la direzione di Fabio Luisi, Principal Conductor del Met. Avendo ormai sperimento quasi tutti i periodi dell’anno nella “Grande mela”, ho potuto assaporare parte delle abitudini e delle usanze culinarie degli americani. Vi propongo, quindi, in loro omaggio, una festosa ricetta nord-americana: la Pumpkin pie o “Torta di zucca”, che ha una grande tradizione e che viene consumata durante il famoso Thanksgiving Day, il “Giorno del Ringraziamento”. 96 Amadeus Da bere: American Coffee Preparazione della pasta frolla Setaccia la farina in una grande scodella, aggiungi il burro e impasta con la punta delle dita finché l’impasto non assomigli a pane sbriciolato. Aggiungi il sale, quindi 2 o 3 cucchiai di acqua e mescola fino a ottenere un amalgama compatto. Impasta brevemente su una superficie spolverata di farina. Avvolgi nella pellicola trasparente e fai raffreddare mentre prepari il ripieno. Preparazione della torta Riponi la zucca in una grossa pentola, ricoprila di acqua e porta a ebollizione. Copri con un coperchio e cuoci a fuoco lento per 15 minuti o finché diventa tenera. Scola la zucca e lascia raffreddare. Riscalda il forno ventilato a 180°. Stendi la pasta su una superficie leggermente cosparsa di farina e usala per coprire una tortiera dal fondo rimovibile di 22 cm. Fai riposare per 15 minuti. Ricopri la pasta con carta da forno e fagioli secchi (perché non si gonfi troppo) e inforna per 15 minuti. Rimuovi la carta e i fagioli e cuoci per altri 10 minuti finché la base non appare leggermente dorata e solida. Rimuovi dal forno e lascia raffreddare un po’. Aumenta la temperatura a 220°. Passa la zucca al setaccio e versala in una grande ciotola. In un’altra ciotola mescola zucchero, sale, noce moscata e metà della cannella. Aggiungi le uova sbattute, il burro sciolto e il latte, quindi versa sul purè di zucca e mescola il tutto. Versa il tutto sulla pasta frolla e cuoci per 10 minuti, quindi riduci la temperatura a 180°. Continua a cuocere per 35 - 40 minuti finché il ripieno non è compatto. LIBRI DIREZIONE FUTURO. UN DUPLICE ANNIVERSARIO: GIUSEPPE VERDI E RICHARD WAGNER FILOSOFIA ED ESTETICA DELLA MUSICA Alberto Cima Casa Musicale Eco, 2014, pagg. 413, € 29,00 a cura di Ilaria Bonomi, Franca Cella, Luciano Martini L Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 2014, pagg. 192, s.i.p. L’ w w w. d o c s e r v i z i . i t Istituto Lombardo di Scienze e Lettere ha pubblicato gli atti del Convegno da lui organizzato a Milano nel gennaio 2013: in apertura del bicentenario della nascita di Verdi e di Wagner. Sei le relazioni che in verità hanno riguardato più il primo del secondo. Il compositore tedesco, infatti, è presente solo in riferimento alla prima milanese di Lohengrin (1873) e come protagonista di quel “movimento germanico italiano” che tanto spaventava Verdi e i suoi molti sostenitori. Firmati rispettivamente da Emilio Sala e Antonio Rostagno sono i saggi più significativi; in particolare il secondo, che inserisce correttamente il “wagnerismo” del tempo lungo quella che qualcuno ha chiamato la “via prussiana” dell’opinione pubblica e culturale contemporanea. Lo scritto di Sala ricostruisce con dovizia analitica e precisione il contesto generale nel quale andava in scena alla Scala Lohengrin con esito opposto a quello trionfale della prima italiana a Bologna (1871); l’unico appunto è un abuso nel primo paragrafo di un lessico intellettualistico (“ontologica”, “omologica”, “deontologizzare”, “strutturalismo immanente” eccetera.). Gli altri quattro saggi sono a firma di Stefano Baia Curioni e Laura Forti, Fabrizio Della Seta, Ilaria Bonomi, Franca Cella). Ettore Napoli «L’AMERÒ, SARÒ INCOSTANTE». MOZART E LA VOCE DEL VIOLINO Cesare Fertonani Archinto, 2015, pagg. 250, € 16,00 I musicologi e i critici adusi al violino sono pochi. Ricordiamo con struggimento lo scomparso Leonardo Pinzauti (s’era diplomato col Concerto gregoriano di Respighi; si dilettava di liuteria). Citiamo con ammirazione Cesare Fertonani, il cui ultimo libro, dopo studi illuminanti su Vivaldi “a programma” e no, fa cantare già in copertina Mozart e la voce del violino. Il saggio colma un vuoto italiano, del che non ci sarebbe da stupire, ma pure un vuoto punto e basta, tanto da auspicare una traduzione almeno in inglese. Scientifico e affabile, iper documentato e capace di tesi affascinanti, Fertonani svolge tre ampi capitoli comunicanti: rapporto di Mozart col violino e il padre Leopold, violinista e autore d’un Trattato fondamentale (i lavori composti fra il 1775 e il 1779); Concerti, Serenate, Sinfonie concertanti, Arie e Divertimenti; indagine analitica di cui al secondo capitolo. Il libro indaga i rapporti con Leopold prima che il taglio del cordone ombelicale e il trasferimento di Wolfgang in una Vienna “pianistica” pensionino il violino. Aspetti sociologici e psicologici s’intrecciano a modi teatrali (opera seria e buffa), narrativi e popolari di Concerti, ognuno con la sua individualità e dai tratti decisamente rivelatori. Alberto Cantù a filosofia è la disciplina che si pone domande e cerca di dare risposte sul senso del mondo e dell’esistenza umana e, in particolare, tenta di studiare e definire quali siano i limiti della conoscenza. La filosofia della musica è una sezione dell’estetica generale e si occupa dello studio filosofico dell’arte musicale. L’estetica è un settore che si dedica alla cognizione del bello naturale artistico. Nella cultura contemporanea queste elencate e altre ancora sono discipline spesso considerate autonome e indipendenti. Questo volume di Alberto Cima parte dal presupposto che la filosofia e l’estetica della musica possano costituire un unicum che deve essere affrontato unitariamente al fine di avere una visione più ampia completa e approfondita dell’argomento. La lettura segue lo sviluppo storico, filosofico ed estetico nei secoli, mettendo in luce due aspetti apparentemente contraddittori: “la musica come mondo” e “la musica come interiorità”, eppure così affini fra loro. Il saggio indaga la “materia” dell’universo musicale, il suo “tempo” e il suo “spazio”, dall’antica Grecia a oggi, con il dichiarato obiettivo di far capire quanto la musica sia importante per comprendere una civiltà, una cultura e la trasformazione storica. Massimo Rolando Zegna Amadeus 99 [email protected] tel. 045/8230796 Giorgio Gatti si racconta a cura di Emanuele Dolci Zecchini, 2015, pagg. 112, € 17,00 Lo scaffale L TRUE STORIES a carriera del baritono Giorgio Gatti attraverso gli incontri più importanti della sua vita: dalla famiglia che lo ha sempre sostenuto ai colleghi che ha conosciuto nei vari teatri d’Italia e d’Europa, attraverso ricordi, aneddoti ed emozioni. CARTEGGIO VERDI-BOITO MY LIFE Istituto nazionale di Studi verdiani, 2014, pagg. LXXXV-547, € 48,90 Castelvecchi, 2014, pagg. 320, € 22,00 a cura di Marcello Conati I l Carteggio Verdi-Boito, che vide la luce della stampa nel 1978 avviando l’edizione nazionale dell’epistolario verdiano, questa luce l’ha rivista nel 2014: allora era cura di Mario Medici e Marcello Conati, oggi è «nuova cura» di Conati (Medici, nato nel 1913, fondatore e a lungo direttore dell’istituto, è scomparso nel 1990) per l’esemplare redazione di Giuseppe Martini. È attraverso 409 numeri che si snoda il rapporto epistolare dei due maestri, divisi da qualcosa come 29 anni, da origini sociali e culturali diversissime, da un tasso di musicalità effettivamente imparagonabile. Da tutto ciò, nondimeno, sorsero quei capolavori di drammaturgia musicale che sono Otello e Falstaff. Quanto mai istruttivo il carteggio fra l’anziano Verdi e il maturo Boito, pazientemente annotato e fornito di lunghe appendici. Ma il maturo Giuseppe e il giovane Arrigo, dove stanno? Nel Preambolo di 59 pagine tratto da un Arrigo Boito a più mani pubblicato nel 1994, dove Conati stesso rivà ai precedenti biografici e quindi anche “estetici” (parola invisa a Verdi, ma pazienza) del rapporto fra i due, dal famigerato “lupanare”, alla pace e all’opera fatta mirabilmente. In lista d’attesa i carteggi con Maria Waldmann e Angelo Mariani. Piero Mioli 100 Amadeus Isadora Duncan C hi è stata veramente Isadora Duncan? Vitalistica figlia del “sogno americano” e affamata di futuro, femminista ante litteram nutrita di agnosticismo con Bob Ingersoll, avventurosa viaggiatrice, spontanea paladina della libertà al canto poetico di Walt Whitman, dannunziana «dominante Iddia della Natura», incarnazione femminile della nietzschiana ammaliazione dionisiaca. Questo e altro viene fuori dalle pagine dell’autobiografia di Isadora Duncan, riproposta da Castelvecchi in una nuova edizione italiana. Ma, come che sia, di una cosa si è certi: agli inizi del Novecento, quando il pubblico dei teatri non aveva conosciuto se non il balletto tardoromantico, la danza libera di Isadora Duncan ebbe audacia rivoluzionaria. Sfornito di strumenti linguisticamente elaborati o tanto meno rielaborati, sprovvisto di una cultura regolare, in quel momento storico il suo movimento naturale risultò espressivo quanto mai, e con quei modi nuovi, in breve, divenne rappresentativo di un modernismo d’avant-garde senza manifesti, intenzionalmente non elitario, e animato, negli atti estetici, da ragioni etiche. Sia pur conteso tra detrattori ed estimatori, il suo successo incise nel progresso della danza d’arte. My life di Isadora Duncan è un libro per tutti. Ida Zicari B CHITARRA ROMANTICA. LUIGI (RINALDO) LEGNANI E IL VIRTUOSISMO STRUMENTALE NELL’OTTOCENTO CARLO GESUALDO. L’UOMO, IL SUO TEMPO, LA MUSICA Longo, 2015, pagg. 205, € 20,00 N Orsola Tarantino Fraternali Terebinto Edizioni, 2015, pagg. 207, € 15,00 Sergio Monaldini U na lunga biografia, lunga essendo stata la vita del chitarrista nato a Ravenna nel 1790 e ivi scomparso nel 1877. Ma è una biografia, questa, che i documenti li legge e li adopera, senza alcuna illazione e con parecchio acume. Legnani fu battezzato Rinaldo come il padrino ma fu sempre chiamato Luigi come il fratellino maggiore: così pare proprio, ma la sicurezza assoluta del nome non c’è. E la chitarra romantica? Detto il Paganini della chitarra, fu colui, Legnani, che con il barese Giuliani promosse lo strumento a corde pizzicate dal vecchio tipo “battente” al nuovo tipo “francese”, cioè dal Settecento classico all’Ottocento romantico (e un cenno forse lo meritava la barocca “chitariglia spagnola” di Pellegrini, Corbetta e Granata). Più che musicista: era esecutore, compositore e anche tenore (inizialmente secondo, poi applaudito in scena come primo). Suonava anche un pezzo con un solo dito della sinistra, tanto era virtuoso il “citarista” festeggiato in tutt’Europa, ma nel 1847 dovette interrompere un concerto. Cos’era successo? Certo non stava bene di salute, forse non aveva saputo aggiornare il repertorio e cominciava a sentirsi un sopravvissuto (come Rossini, no?). Sicché smise, tornò a Ravenna, suonò il violino in orchestra e visse da buon borghese in casa del nobile genero. Piero Mioli Uscire dal ghetto? Eros Roselli Armando Editore, 2015, pagg. 183, € 14,00 L a riforma dei Conservatori di musica, avviata con la legge 508/1999, induce l’autore a riflettere sulla vocazione tecnico-professionale degli istituti e sull’irriducibile peculiarità del loro impianto normativo. el 2009, assieme a Kathy Toma, Orsola Tarantino Fraternali pubblicò un prezioso volume dedicato a uno dei compositori più importanti del ’5/’600 – Gesualdo da Venosa. Fasti dimenticati di un principe del Rinascimento – cercando di compiere quello che fino a quel momento poco si era tentato di fare, ovvero, per quanto possibile, di mettere in contatto Gesualdo con lo sfarzo del mondo in cui visse, restituendo, anche attraverso un ricco apparato iconografico, lo splendore di quell’habitat e dei protagonisti che lo percorsero a fianco dell’artista. Una sorta di catalogo di una mostra immaginaria, di una mostra che non c’era, ma che fu capace di offrire ai lettori una visione altra e più ricca del musicista. A distanza di sei anni l’autrice è tornata a scrivere su quello che a questo punto sembrerebbe il suo compositore prediletto: un uomo angosciato ed estremo, ma grandioso e temerario allo stesso tempo, la cui musica risuona sublime, ma altrettanto contorta, tormentata, sofferta. Grazie anche a uno scritto di Dinko Fabris, il nuovo volume contribuisce a far nuova luce sul grande madrigalista, offrendo gli spunti per approfondire momenti e aspetti della sua vita che attendono ancora di essere esplorati e compresi fino in fondo. Massimo Rolando Zegna ased on a true story” recitano spesso i titoli di testa dei film americani. Una storia vera, come quella trasformata in romanzo dallo scrittore francese Adrien Bosc in Prendere il volo, opera prima premiata in patria con il Gran Prix du Roman dell’Académie de France e finalista al Goncourt. E la storia è questa: nella notte tra il 27 e il 28 ottobre un aereo “Constellation”, fiore all’occhiello della flotta Air France, dopo essere decollato dall’aeroporto di Orly destinazione New York scompare durante la prevista tappa di rifornimento nelle isole Azzorre. Nessuno degli 11 membri dell’equipaggio e dei 37 passeggeri sopravvive allo schianto sul Monte Redondo, inaspettatamente avvolto dalla nebbia. Bosc ne racconta le vite, ne schizza in pochi precisi e poetici segni i ritratti, le storie. Tra loro alcuni personaggi famosi, su tutti Marcel Cerdan, il grande pugile in viaggio per strappare il titolo mondiale a Jack La Motta. Cerdan, sposato con figli, è l’amante e l’amore folle di un altro mito dei francesi, Edith Piaf che lo sta aspettando negli Usa. Invano. Oltre a lui viaggia sul Constellation un’altra celebrità dell’epoca, la violinista Ginette Neveu accompagnata dal fratello, Jean, pianista. Virtuosa straordinaria, ex enfant prodige divenuta musicista vera, bambina aveva risposto a George Enesco che le dava consigli sulla Ciaccona di Bach: «Faccio quello che comprendo, non quello che mi sfugge», a 16 anni aveva vinto il Wieniawski, superando David Ojstrach (!) che si piazzava secondo. Ginette ha 30 anni quando il Constellation precipita nelle Azzorre. Pochi giorni prima aveva suonato alla Salle Pleyel: Händel, Bach, Szymanowski, il Pezzo in forma di Habanera e Tzigane di Ravel in un «lungo vestito rosa chiuso in vita da una cintura che esalta le spalle da gladiatore». E proprio un vestito consentirà l’impresa straziante di riconoscere il suo corpo. Ginette Neveu possedeva due violini preziosissimi, uno Stradivari e un Guadagnini che teneva accanto a sè sull’aereo. Ma le squadre di soccorso e gli investigatori ritroveranno solo un archetto, degli strumenti nessuna traccia, solo il riccio del Guadagnini riappare fortunosamente molti anni dopo... Questi fatti Prendere il volo li narra, li descrive non cancellando mai il mistero. Caso, volontà: la scrittura di Bosc ci ha ricordato a tratti quel piccolo capolavoro che è il Ravel di Jean Echenoz. “Fatti realmente accaduti”, si dice. Potrebbe sembrare noioso, scontato, certo, ma è come si sa raccontarli a fare uno scrittore. IL GIGANTE E LA BAMBINA L a foto di copertina del libro – Le serenate del Ciclone – li ritrae mano nella mano, lui gigante in costume di scena che legge un libro, lei piccola che sorride all’obbiettivo tra il divertito e l’orogoglioso. Lui, il Ciclone del titolo, è Mario Petri (1922 - 1985) lei la figlia, Romana, che da grande diventerà scrittrice, traduttrice, editrice. Lui è un basso-baritono di gran valore, che Ghiringhelli e Mitropoulos fanno debuttare alla Scala nel 1948 e Karajan pochi anni dopo vuole per il suo Don Giovanni (Thomas Mann gli dedicherà una copia del Doktor Faustus scrivendo: «A Mario Petri, il miglior Don Giovanni»). Canterà con Maria Callas (Medea a Firenze), Giuseppe Di Stefano, Carlo Bergonzi, Giulietta Simionato (con cui avrà anche una relazione, scandalosa per l’epoca), Elisabeth Schwarzkopf, Ma- rylin Horne, Boris Christoff... Una carriera fatta di alti e bassi che Petri vive con foga e coraggio, dedicandosi nei primi anni ’60 anche ai film di avventura che fanno la fortuna di Cinecittà e ai fotoromanzi. Poi il ritorno al teatro d’opera fino all’ultimo amaro successo di un Macbeth diretto al Maggio fiorentino da Riccardo Muti, nel 1975, che segna il suo addio alle scene... Scritte in una lingua che profuma delle radici familiari umbre e di un’Italia che non c’è più, le quasi 600 pagine di questo romanzo doloroso e sincero, narrano la storia di un padre e di uomo “epico”, colosso fortissimo e sensibilissimo insieme, eroe romantico e temerario, pronto a vendicare ingiustizie e soprusi, egoista eppure generoso, tenero e collerico. Quanta fatica sia costato alla figlia scriverle possiamo solo immaginarlo. PRENDERE IL VOLO Adrien Bosc Guanda, 2015, pagg. 171, € 14,50 LE SERENATE DEL CICLONE Romana Petri Neri Pozza, 2015, pagg. 592, € 18,00 di Paola Molfino [email protected] Amadeus 101 HITECH Totem sonori mondosmart Nell'era della tecnologia digitale e della riproduzione del suono wi-fi, i diffusori ad elevata qualità audio tornano a ricoprire un ruolo da protagonisti B&W DIAMOND 804 D3 Diffusore a 3 vie con due woofer da 16,5 cm, mid-range da 13 cm (con struttura priva di sospensione) e tweeter in diamante da 25 mm, membrane Continuum, cabinet con struttura in compensato di alto spessore rinforzata con una struttura in alluminio e acciaio. € 4.500 cad. (bowers-wilkins.it / audiogamma.it) ACTION-PHONE SUBACQUEO MARTIN LOGAN NEOLITH Diffusori elettrostatici con pannello curvilineo affiancato a una gamma bassa attiva, trasduttori da 55x120 cm, speaker frontali midrange da 12” e woofer frontale da 15”, subwoofer reflex posteriore da 15”, diverse finiture in sette differenti colorazioni. da € 94.000 la coppia (martinlogan.com / audionatali.com) C on un diffusore innovativo e sofisticato, statuario nelle dimensioni ed elegante nelle linee di design, Bang & Olufsen celebra i suoi primi 90 anni di storia; con una soluzione all’avanguardia che intende rispondere con caratteristiche audio Hi End alle continue sfide lanciate dalla tecnologia digitale. BeoLab 90 è un modello unico e irripetibile, a partire dal concept a 360 gradi, reso possibile da una solida struttura compatta in alluminio rivestita da una cover in tessuto nero, con un altezza di 125 cm e una profondità di 74 cm, per un peso complessivo di 137 kg. 102 Amadeus Un “monumento sonoro” che garantisce prestazioni acustiche di alto livello assicurate da una “bocca di fuoco” di ben 18 altoparlanti (7 tweeter da 3 cm, 7 midrange da 8,6 cm, 3 woofer da 21,6 cm e un subwoofer da 26 cm), 14 moduli di potenza e quattro amplificatori aggiuntivi Classe D, per una potenza totale di uscita di 8.200 watt. L’esclusivo Beam Widht Control garantisce inoltre il pieno controllo sull’ampiezza del raggio audio andando a ricreare diverse situazioni d’ascolto, grazie al sistema di driver orientabili in varie direzioni per canalizzare la diffusione sonora (€ 35.000 cad., bang-olufsen.com). Con Hitcase PRO è possibile trasformare iPhone 5/5s o 6/6s in action cam vere e proprie, per riprese outdoor o sott’acqua; si tratta infatti di una custodia 100% impermeabile (fino a 10 metri per 30 min) e resistente agli urti (cadute da 2 m), che non limita in alcun modo l’accesso allo schermo touch screen e a tutti i pulsanti del device originale. Compatibile con tutti gli accessori di fissaggio GoPro, è inoltre in grado di ampliare il campo di visione della telecamera con un obiettivo grandangolo con zoom da 3x ed effettuare video panoramici grazie alla lente wide incorporata ($ 100, hitcase.com). UNA MEMORIA MULTIUSO FOCAL SOPRA N. 2 Diffusore da pavimento con struttura realizzata in iniezioni di poliuretano per l’inclinamento delle casse, effetto di convergenza acustica “Focus Time”, tweeter in berillio, circuito magnetico NIC, disponibile con finiture in bianco, nero, rosso, arancione e noce. € 12.000 la coppia (focal.com / tecnofuturo.it) In linea con l’originale accessorio iBridge, memoria flash portatile per apparecchi Apple, Leef ha presentato il nuovo hub iAccess, un dispositivo caratterizzato da una forma ergonomica a “J” che permette di trasferire foto, filmati o brani audio da schede microSD a iPhone o iPad per un editing veloce, ma anche di visualizzare immagini o aggiungere maggiore memoria al proprio device iOS dotato di connettore Lighting, oltre a facilitare la condivisione veloce di documenti, fotografie e video senza dover utilizzare un collegamento dati mobile o Wi-Fi ma unicamente l’app Leef (€ 50, it.leefco.com). Amadeus 103 www.amadeusonline.net PROVATOPERVOI Evoluzione continua DIGITALE SÌ, MA DI QUALITÀ Di musica, forse, non se n’è mai ascoltata così tanta come in questi ultimi anni, da quando cioè la tecnologia digitale ha permesso di disporre di centinaia di file mp3 anche sul più economico degli smartphone; il vero problema è semmai quello della qualità di formati e supporti che lasciano spesso a desiderare. La risposta offerta da Shanling è destinata a chi non vuole scendere a compromessi e opta per l’audio ad alta risoluzione (pari o superiore a quella dello stesso cd): si chiama M3 ed è un lettore digitale portatile compatibile con i più diffusi formati HQ – da FLAC, ALAC (Apple Lossless Audio Codec) a WAV 24Bit / 192kHz, WMA, AIFF e DSD64 (SACD) – da archiviare su memoria interna da 8Gb estendibile tramite MicroSD Card fino a 64 Gb (“minimo sindacale”, visto il “peso” dei file). L’apparecchio è dotato di scocca in alluminio (disponibile nelle finiture Nero o Silver), display a colori da 2,4”, manopola di controllo volume e joystick di navigazione (forse un po’ troppo “meccanica” per un dispositivo così ricercato), risposta in frequenza 20Hz-20KHz (-0.5dB) e di batteria al litio (3600mAH) ad elevata autonomia. L’esperienza d’ascolto è davvero entusiasmante, ma non finisce qui; l’utilizzo del lettore M3 in modalità DAC collegato a un computer via Usb, consente al dispositivo di sostituirsi alla scheda audio normalmente presente sul Pc e operare come unità di riproduzione durante gli ascolti di file presenti sull’hard disk o lo streaming dalla rete (€ 529; shanling.com / audioclub.it). Amadeusonline è il versante digitale, continuamente aggiornato della rivista Amadeus, ogni mese in edicola con cd inedito allegato e un secondo cd in download. Uno strumento agile, via via più ricco e completo, con cui esplorare tutte le sfumature della classica Per DJ del Terzo millennio Un’autentica esperienza di “mixing & scratching” a portata di tutti gli aspiranti dee-jay è garantita dalla console DDJ-WeGo3 di Pioneer, che si contraddistingue per un layout semplice e intuitivo, in grado di guidare l’utente mediante le luci Pulse Control. Compatibile con diversi software, consente di mixare milioni di tracce da Spotify e iTunes e, tramite le jog-wheel, di combinare più effetti contemporaneamente, senza necessitare di ulteriori monitor di riferimento; pratica e leggera (1,8 Kg), è equipaggiata con una scheda video ed è munita di porte integrate con ingressi/uscite per collegamenti ad apparecchi audio ad alta qualità, mentre lo slot multiuso per iPad e iPhone rende più facile e intuitivo l’accesso ai display touch per la selezione dei brani (€ 299, pioneerdj.com). di Andrea Milanesi [email protected] 104 Amadeus un luogo dove ritrovarsi e incontrare la musica NEWS in studio Nozze anticonformiste Mentre sta per completare la trilogia Mozart-Da Ponte, Teodor Currentzis si presenta con un nuovo cd dedicato a Stravinskij e Čajkovskij di Giuseppe Scuri «Patricia per me è come se fosse un familiare. Ho passato metà della mia vita artistica con lei condividendo esperienze musicali importantissime. L’energia metafisica della sua interpretazione è, io credo, unica. Il rapporto che si è instaurato nel corso degli anni è qualcosa di veramente raro, sia artisticamente che umanamente». Lei è spesso definito un artista non-convenzionale e anti-conformista. Secondo lei la classica soffre di un certo conformismo? «Io penso che la musica classica stia morendo per il suo conformismo. Come si suol dire, la vita si spegne nei musei. La musica non è un mausoleo. È uno spazio dove sviluppare se stessi attraverso la comunicazione. Tutti i tipi di cliché e di conformismo sono dannosi perché sono inautentici tentativi di descrivere, non di suonare e vivere la musica sino in fondo. Io ho bisogno di sincerità». Ci sono direttori o musicisti in generale che hanno avuto una parte significativa nella sua formazione e che sente prossimi alla sua sensibilità artistica? «Ci sono diversi artisti che sento particolarmente affini. In prima istanza il mio riferimento assoluto è Gustav Mahler come interprete, proprio perché leggendo le sue partiture si scopre come egli abbia creato un nuovo e più ricco spazio per l’interpretazione, nel quale è possibile trasferire molte più informazioni, al di là del mero suono. Glenn Gould, Alfred Cortot, Walter Gieseking sono altri nomi di artisti che sento molto vicini alla mia sensibilità; tutti musicisti che ci hanno consentito di aprire le porte della percezione, facendoci accedere a una nuova dimensione». Ci sono generi musicali e artisti al di fuori dell’ambito colto che le piace ascoltare e che sono stati importanti nella sua vita? «Non mi è mai piaciuto considerare la musica dividendola e classificandola per generi. Classica, rock e quant’altro: per me la musica è una. Ci sono cose buone e cose brutte in ogni settore. La musica è capacità di portare la luce alla gente. E la gente, tramite l’energia che la musica dona, può iniziare un nuovo percorso verso l’autoconsapevolezza. Ci sono diversi nomi che sono stati e sono significativi nella mia vita musicale che appartengono al rock o al jazz; sono di una statura enorme, spesso superiore ad artisti celebrati della musica classica. Essi sono stati capaci di attingere appieno all’energia profonda della musica e per questo in loro c’è moltissimo da conoscere e imparare: cantanti come Otis Redding o Jim Morrison, oppure musicisti come Oscar Peterson o Miles Davis. Si tratta di esperienze trascendentali». MAKINGOF SCARLATTI SACRO E SCONOSCIUTO T eodor Currentzis è un artista che non può lasciare indifferenti; la sua originale personalità umana e creativa ha suscitato grande interesse sin dagli esordi. Fisico da altista e look da dark rocker, anche nell’immagine Currentzis si è sempre mostrato alternativo rispetto al mainstream “classico”. Greco di nascita e russo d’elezione, è direttore dell’Opera e del Balletto di Perm, l’ultima città della Russia europea, 1.400 km est da Mosca. Dal 2004 al 2010 è stato direttore principale a Novosibirsk, dove ha avuto la possibilità di selezionare e formare il suo organico orchestrale ideale, MusicAeterna, che ha portato con sé (incrementandone gli elementi) nella nuova destinazione. 106 Amadeus Currentzis, che in questi giorni sta completando la trilogia delle opere italiane di Mozart con la realizzazione del Don Giovanni, dopo la recentissima pubblicazione del Sacre du Printemps (vedi a pag.116) torna sul suo terreno d’elezione russo con un cd, sempre per Sony, che raccoglie un altro, assai meno frequentato, Stravinskij, quello de Les Noces (con MusicAeterna Choir e i solisti Nadine Koutcher, Natalya Buklaga, Stanislav Leontieff, Vasiliy Korostelev). Al suo fianco, una hit del repertorio romantico come il Concerto per violino e orchestra op. 35 di Čajkovskij, nel quale accanto a MusicAeterna spicca la presenza della violinista moldava Patricia Kopatchinskaja (con lui nella foto). Come mai questa strana accoppiata Čajkovskij/Stravinskij? Un pezzo tra i più celebri del repertorio accanto a uno dei capolavori del primo ’900 meno frequentati soprattutto su disco? «Se vuoi creare una dimensione di profonda comprensione nella musica, il primo passo è ricaricare-rielaborare la musica che pensi di conoscere. La cosa più difficile nella vita è rendersi consapevoli che spesso non conosciamo ma pensiamo di conoscere. Se cerchiamo di analizzare le informazioni che possediamo per trasformarle in conoscenze scopriamo che esse sono ben più ricche di ciò che credevamo». E le nozze artistiche con Patricia Kopatchinskaja? L’8 dicembre scorso, nell’Oratorio dell’Angelo Custode di Lucca, l’ensemble Odhecaton diretto da Paolo Da Col ha completato la registrazione della sua ultima produzione che sarà pubblicata da Arcana nella seconda metà del 2016: un viaggio alla scoperta della musica sacra di Alessandro Scarlatti. Del compositore vissuto tra il 1660 e il 1725 si potranno ascoltare pagine interessanti ma poco consciute: il Miserere a 9 voci in doppio coro del 1708 (ideato per la Cappella Pontificia e solo esteriormente ispirato modello di Allegri, in quanto se ne allontana per arditezze armoniche, complessità formale ed espressività), il Salve Regina a 4 voci del 1703, e il Salve Regina a 4 voci, 2 violini e basso continuo del 1697). Il programma s’incardina sulla prima registrazione assoluta della Missa defunctorum a 4 voci e basso continuo (forse riferibile all’anno 1717): esempio di compresenza tra matrici rinascimentali e sensibilità barocca. La scrittura contrappuntistica che pervade questo brano non impedisce a Scarlatti di utilizzare scelte stilistiche di grande impatto espressivo e retorico. Amadeus 107 DISCHI SCHUBERT // BEETHOVEN Secondo album Deutsche Grammophon per il geniale pianista russo Grigory Sokolov. Uno strepitoso doppio CD a prezzo speciale con le registrazioni dal vivo realizzate nel 2013 alla Philharmonie di Varsavia e al Festival di Salisburgo. ★ insufficiente photo: Dario Acosta/DG | ad: www.filippovezzali.com ★★ sufficiente ★★★ discreto ★★★★ buono ★★★★★ ottimo AA.VV. The club album A 2 CD 4795426 A 3 LP 4795693 DIGITALE D 2C EZ ZO CD 1 SCHUBERT Four Impromptus op. 90 Drei Klavierstücke D946 AA.VV. Violin Sonatas and other chamber Works PR SP EC IA LE Gidon Kremer e interpreti vari Dg 15 cd (Universal) 1981-1995 C CD 2 BEETHOVEN Sonata op. 106 “Hammerklavier” RAMEAU Les tendres plaintes, Les tourbillons Les cyclopes, La follette, Les sauvages BRAHMS Intermezzo op. 117 n. 2 TR RE E A LT JAN LISIECKI JANINEJANSEN JANSEN JANINE SCHUMANN KARLBÖHM BÖHM KARL BRAHMS BRAHMS Concertoper perviolino violino Concerto BARTOK BARTOK Concertoper perviolino violinon.n.11 Concerto OrchestraNazionale Nazionale Orchestra dell’Accademia dell’Accademiadidi S.S.Cecilia Cecilia London LondonSymphony Symphony Orchestra Orchestra Antonio AntonioPappano Pappano Concerto per pianoforte Studio da concerto, op. 92 Allego e Introduzione da concerto, op. 134 Sogno, op. 15 n. 7 Orchestra Nazionale dell’Accademia di S. Cecilia Antonio Pappano CD 4795327 4795327//DIGITALE DIGITALE CD NO OVVIITTÀÀ N CD CD 4788412 4788412 //DIGITALE DIGITALE LIFEININMUSIC MUSIC A ALIFE Musichedidi Musiche Beethoven, Brahms, Beethoven, Brahms, Bruckner, Haydn, Mozart, Bruckner, Haydn, Mozart, Schumann, Schubert, Schumann, Schubert, Tchaikovsky e Wagner Tchaikovsky e Wagner 29 29CD CD4824254 4824254 on Gidon Kremer (classe 1947) non esistono vie di mezzo. O lo si ama o irrita l’artista «per nulla russo, per nulla ebreo, nato in Lettonia» e in cerca di sopravvivenza dal regime totalitario che lo perseguitò anche dopo la partenza da Riga. Allievo per forza (solo in un secondo tempo per amore) di David Ojstrach, non so quante lauree a Concorsi internazionali, un repertorio e letture fatti (anche) di provocazioni, Kremer offre qui tre lustri di Sonate fra cui le integrali Beethoven, Schumann e Prokof’ev con la Argerich, Brahms con Afanassiev, e Schubert con Maisenberg) e di musica da camera: mozartiana, schubertiana, di Weber, Mahler, Schönberg e Schnittke. Il box sostanziosissimo raccoglie letture della piena maturità di Kremer & Soci dopo il cofanetto Brillant degli anni Sessanta-Settanta in Urss. Il suono si riconferma magro e nervoso, ma dotato d’un elettricismo e d’una limpidezza senza confronti (in Beethoven complice anche la Argerich) e la mano sinistra è praticamente infallibile (basterebbe l’impossibile The last Rose di Ernst, bis abituale). C’è, nei classici come nei romantici, una volontà di andare al cuore dei brani cassando enfasi e retorica per cogliere essenza e caratteri dei brani. Ne è riprova l’avvio sommesso, fatto di puro, distillatissimo canto delle Sonate di Brahms, lette come al microscopio col mirabilmente “soffice” ma anche “scolpito”, avvolgente Afanassiev. Note preziose di Carlo Bellora. Box imperdibile. Alberto Cantù I dischi migliori del mese scelti per voi da Amadeus Anne-Sophie Mutter, Lambert Orkis, Mutter’s Virtuosi Dg 1 cd (Universal) 2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH G ià dalla foto di copertina s’intuisce il piglio interpretativo del disco: braccio destro in alto, l’archetto del violino appare subito come la bacchetta del direttore. Altrettanto il gesto e l’espressione tipicamente direttoriali. Il brano d’esordio è significativo: il Presto”dal Concerto in sol minore “Estate” dalle Quattro Stagioni di Vivaldi: portato via con energìa torrenziale, ai limiti della velocità strumentale, Una vera forza della natura, confermata oltremodo dal Bach del Concerto per due violini, dal Brahms della Danza ungherese n. 1, e dal Benjamin Jamaikan rumba, in grado altresì di comunicare questa sua prerogativa a chi con lei si accompagna. I Mutter's Virtuosi infatti sembrano suonare in perfetta empatia interpretativa, eseguendo al di fuori dei consueti canoni brani codificati dalla tradizione conceristica. Vedasi anche il Gershwin dei Tre preludi, il Čajkovskij della Melodia, il Debussy dei Golliwogg’s Cakewalk, come del Claire de lune, o il Saint-Saëns dell’Introduzione e rondò capriccioso, o del Copland del Hoe-Down. Ma, a dimostrazione che, accanto all’irruenza musicale, la Mutter e i suoi sanno esprimere anche delicatezza e intimismo, si ascoltino il Bach-Gounod dell’Ave Maria e soprattutto lo Williams di Schindler’s List: pura poesia sonora distillata con polvere di stelle. Il tutto dal vivo: e il pubblico, è ammaliato e sedotto. Antonio Brena ZO E ZEZ ZO PR PR L ELE I AIA EC SP EC SP Amadeus 109 Universal Music Music Group Group -- Classics Classics & Universal & Jazz Jazz Italia Italia Classical ClassicalCollections Collections www.universalmusic.it/classica www.universalmusic.it/classica DISCHI A AA.VV. Le Chant de Leschiquier Tasto Solo Passacaille 1 cd (New Communication) 2014 Q uando chiesero ad Haydn perché gli era occorso così tanto tempo per comporre La Creazione, lui rispose perché l’opera avrebbe dovuto durare nel tempo. Ecco, Guillermo Pérez è un tipo un po’ così: le cose gli piace farle bene, concedendosi tutto il tempo necessario. Nei giorni dell’oggi e del passato prossimo, vengono in mente nomi importanti da paragonargli per questo suo modo di fare, chissà perché del mondo del cinema (Stanley Kubrik, Terrence Malick). Termini di paragone forti, ma non fuori luogo. Da tempo Pérez è attratto, si direbbe come pochi o nessun altro musicista, dalle questioni inerenti le tastiere medievali che lo hanno spinto verso una ricerca polivalente su musiche, sonorità, tecniche esecutive e interpretative. Ambito di notevole fascino e interesse a cui ha deciso di votarsi assieme al gruppo da lui fondato: Tasto Solo. Nel 2008 ha inciso il suo primo disco (Meyster ob allen Meystern), splendido e recensito sul n. 241 (dicembre 2009) di Amadeus. A distanza di sei anni, nell’estate del 2014, nella chiesa di Longchaumois, sperduta tra le montagne del dipartimento del Giura, in Francia, è tornato a far vibrare i microfoni, per la seconda parte di quello che ha annunciato come un trittico discografico dedicato al repertorio per tastiera della metà del ‘400. Un luogo silenzioso, appartato, ideale per il suono fragile ma dalle enormi suggestioni di cinque strumenti di riflessione (un clavisimbalum a martelli, un plectrum clavisimbalum, un organetto, due arpe e una viella) a cui si affianca la voce di soprano di Barbara Zanichelli. Si ascolta una selezione operata tra i più straordinari rondeaux e ballades di Binchois e Dufay, a cui si aggiungono pagine di altri autori del tempo. Musica sublime, tanto più in questa interpretazione raffinatissima, sospesa, di cristallo, estetizzante, a volte smaltata, eppure all’occorrenza fiammeggiante nelle iper-virtuosistiche ornamentazioni che evocano senza mezze misure la ricercatezza di un ideale tardo-gotico. Oggi Pérez è un degno successore dell’estetica musicale di Pedro Memelsdorff di cui, non a caso, è stato allievo alla Civica Scuola di Musica di Milano. Un disco curatissimo che, se dio vuole, chiede anche all’ascoltatore attenzione e tempo. Massimo Rolando Zegna 110 Amadeus DISCHI AA.VV. Piano Concerto No 1, Capriccio, ecc. AA.VV. Les Éléments. Tempệtes, Orages & Fệtes Marines Denis Matsuev, Mariinsky Orchestra, Valery Gergiev Mariinsky 1 sacd (Sound and Music) 2014-2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH U n consiglio: da ascoltare a tappe. Tutto insieme, questo esaltato ed esaltante cd può risultare indigesto tanto è incontenibile nell’energia ribollente. Lo firmano Valery Gergiev a capo della sua “corazzata” di San Pietroburgo – la Mariinskij Orchestra – e il pianista Denis Matsuev. Interpreti russi di musica russa. E c’è solo da imparare. Per esempio: noi europei dell’Ovest, venuti su a pane e civiltà sinfonico-concertistica austro-tedesca, guardiamo sempre con un filo di sospetto Rachmaninov, “colpevole”, ai nostri occhi un po’ “snobbettini”, di anacronismo. Ora lo sguardo sta un po’ cambiando (e un signor Chailly sta portando l’integrale sinfonica di Rachmaninov al Teatro alla Scala). Ma, di fatto, sempre noi europei dell’Ovest ci lambicchiamo il cervello per capire come “purificare” con qualche prospettiva modernista l’iperromanticismo del russo che, tra l’altro, per pianoforte scrive come un dio a detta di chi le mani le ha davvero fatate. Poi ascolti Gergiev, Matsuev e la “corazzata” nel Primo concerto, e vieni travolto da colori vischiosi e densi, melmosi e mielosi e tutto funziona a meraviglia. Emozioni a mille, un approccio “vergine”, e zero paura di varcare la soglia della retorica (che viene superata, ma ci sta con quella straordinaria convinzione e immedesimazione interpretativa). Anche il Capriccio per piano e orchestra di Stravinskij fa faville: vernice timbrica immaginifica, tellurica e fosca, che passa al contemporaneo Rodion Ščedrin nel Concerto n. 2. Nicoletta Sguben BEETHOVEN Symphony No. 3 BRAHMS Ein deutsches Requiem ČAJKOVSKIJ La dama di picche CASTELNUOVO-TEDESCO Appunti op. 210 Le Concert des Nations, Jordi Savall Alia Vox 2 sacd (Sonjade-Tàlea) 2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunk, Mariss Jansons Br Klassik 1 cd (Ducale) 2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH L’ Didik, Serjan, Volkova, Diadkova, Chor & Orchester des Bayerischen Rudfunks, Kinderchor des Bayerischen Staatsoper, Mariss Jansons Br Klassik 3 cd (Ducale) 2014 Artistico: HHHH Tecnico: HHHH Enea Leone Brilliant 2 cd (Ducale) 2015 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH P Genia Kühmeier, Gerald Finley, Netherlands Radio Choir, Royal Concertgebouw Orchestra, Mariss Jansons Rco 1 cd (New Arts International) 2012 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH L L’ rosegue sempre serrata e su costanti livelli di altissima qualità la produzione (nuove emissioni e riproposte) di Alia Vox: la casa discografica fondata da Jordi Savall. Nel giro di pochi mesi abbiamo ricevuto tre cofanetti di prim'ordine: L’Orfeo di Claudio Monteverdi registrato live dal maestro catalano nel gennaio 2022 al Gran Teatre del Liceu di Barcellona (a suo tempo era già uscito il dvd dello spettacolo pubblicato da Opus Arte); un disco dedicato a Heinrich Ignaz Franz von Biber che nel segno della polifonia riunisce ristampe (la Battalia 1673) e novità (il mottetto Plaudite Tympana 1682, la Sonata Sancti Polycarpi 1673 e la colossale Missa Salisburgensis 1682); e, per ultimo, un doppio sacd registrato nel luglio 2015 in Francia, all’Abbazia di Fontfroide, d’interesse particolare. Il titolo è magnetico: Gli elementi. Tempeste, burrasche e feste marine. Ovvero, spiega Savall nel booklet, l’arte di dipingere in musica: quella capacità sviluppata dai compositori del ’700 di utilizzare le note per raffigurare, fino ad arrivare a confrontarsi con l’inesprimibile, come nel caso della composizione che introduce il programma, Les Éléments, in cui Jean-Fért Rebel evoca oltre ai quattro elementi, anche il caos primordiale. Gli altri “pittori” musicali sono Matthew Locke, Marin Marais, Georg Philipp Telemann, Antonio Vivaldi e Jean-Philippe Rameau. Ascolto gustosissimo, in cui Savall gestisce magistralmente la creatività, la perizia tecnica le mille possibilità coloristiche ed espressive de Le Concert des Nations in piena aderenza la gusto barocco. Massimo Rolando Zegna idea è stata di Mariss Jansons: contrapporre in un ciclo di concerti le Sinfonie di Beethoven e altrettanti lavori di compositori contemporanei che dal corpus sinfonico beethoveniano traessero ispirazione, in una sfida ad armi armoniche tra epoche e sensibilità diverse. In questo cd, a fianco dell’Eroica si ascolta così una pagina di Rodion Ščedrin (1932), un frammento orchestrale nato dalle drammatiche parole del testamento di Heiligenstadt, in cui Beethoven scrisse della sua sordità e del progressivo isolamento dal resto dell’umanità. E in qualche modo la stessa Eroica nascerà da quelle parole (Beethoven iniziò a lavorarci a ridosso della stesura del testamento) assieme alla scelta del compositore nell’affrontare con forza il suo destino. Dove il frammento di Ščedrin rivela il suo legame con l’Eroica attraverso il medesimo organico della sinfonia – un Maestoso con grave che percorre i dodici minuti della partitura, intrisa di una cupa sensibilità romantica – la Sinfonia di Beethoven incisa dal complesso bavarese è davvero elettrizzante. Un cd che presenta una magnifica orchestra e un grande direttore, con alle spalle una lunga collaborazione, e un progetto Beethoven inziato ormai quattro anni fa: due entità capaci di restituire una partitura perfetta in ogni suo minimo dettaglio, sostenuta da una visione lucida e tesa, con una folgorante sezione di fiati e ottoni. Il tutto racchiuso in una registrazione di grande qualità e proiezione sonora, come poche volte si ha la fortuna di ascoltare. Edoardo Tomaselli a collana di registrazioni dal vivo del Concertgebouw con Mariss Jansons s’arricchisce di questa edizione del Requiem tedesco di Brahms. Che a Jansons la musica del secondo Ottocento sia congeniale lo si apprezza anche qui, anzitutto nella capacità di gestire un grande organico con ampia varietà di volume sonoro e di colori nonché con una sempre vivida naturalezza nella concertazione; concertazione che non manca di rivelare via via aspetti di sicuro interesse musicale nella cura per i dettagli, il cesello cameristico dei momenti più intimi e la resa intensamente espressiva delle parti vocali. A tale proposito, Genia Kühmeier e Gerald Finley sono solisti convincenti mentre davvero ottimo è il coro diretto da Michael Gläser. L’orchestra non smentisce la propria fama in una prova che valorizza con esiti di grande bellezza le tonalità prevalentemente ambrate e scure, ma comunque suffuse di luce, della strumentazione di Brahms. Ciò detto, l’interpretazione di Jansons piace in particolare per la solidità del senso architettonico, la solida nervatura in rilievo delle trame contrappuntistiche neobarocche ma anche la morbidezza nella resa delle torniture melodiche, lasciando però qualche perplessità nella resa un po’ troppo repressa e controllata dell’intensità struggente del primo e dell’ultimo movimento, dove il direttore sembra fidarsi in misura eccessiva del potere seduttivo della musica stessa, del coro e dell’orchestra. Cesare Fertonani incontro fra Čajkovskij e la novella gotico-fantastica di Puškin, la Dama di picche, produsse, nel 1890, il capolavoro operistico del compositore russo. German (il baldo ma non febbrile tenore Didyk), è il disperato protagonista dell’opera, ossessionato dal segreto delle tre carte, con le quali una vecchia contessa è diventata ricca (come vuole la prassi, una gran veterana della scena, Larissa Diadkova). Per impossessarsi del “segreto” provocherà la morte per spavento dell’anziana aristocratica, segnando il suo precipizio nella folle monomania del gioco. A questo nichilistico fine German sacrifica tutto, compreso l’amore di Lisa (la sempre incisiva e un po’ vocalmente dura Tatiana Serjan), fino all’annientamento dei promessi sposi nel suicidio finale (l’una si getta nella Neva; l’altro, quando esce la Dama di picche invece dell’atteso asso, si spara una rivoltellata). Attorno a loro si muove la fatua e brillante nobile società russa che celebra i suoi riti: balli, canti, gioco d’azzardo, la deliziosa pastorale mozartiana del secondo atto. Orpelli e lustrini, si mescolano a maschere e spettri, mentre la forza del destino conduce i protagonisti alla morte. Elementi drammatici contrastanti che brillano nella scrittura orchestrale, rilevata con perizia dal maestro Mariss Jansons, il cui vigore non è mai scevro da una distinta eleganza, nel rispetto del compositore e della sua fonte letteraria. Edizione in forma di concerto, dove direttore e compagini artistiche si confermano ai vertici continentali. Giovanni Gavazzeni «Q uando, nella primavera del 1967, invitai Mario Castelnuovo-Tedesco a scrivere una serie di pezzi di media difficoltà tecnica per essere destinati soprattutto ai giovani esecutori, egli aderì con entusiasmo a questa proposta che gli consentiva di realizzare un’idea che già maturava da tempo». Con queste parole il compianto chitarrista e musicologo Ruggero Chiesa presentava la pubblicazione de Gli Appunti. Preludi e studi per chitarra, op. 210. Il progetto, l’ultimo lavoro del compositore fiorentino, prevedeva la realizzazione di quattro Quaderni (“Gli Intervalli”, I ritmi”, “Le figurazioni” e “Sei studi seriali”) ma purtroppo rimase incompiuto per l’improvvisa morte che nel 1968 colse Castelnuovo-Tedesco. Furono infatti dati alle stampe solo i primi due Quaderni, mentre del terzo rimasero due brani e del quarto solo un abbozzo di poche battute. Enea Leone ci presenta tutto quanto, con l’eccezione delle note abbozzate del quarto Quaderno (in effetti, non avrebbero avuto alcun significato, essendo prive di senso musicale compiuto). La dedica del compositore «Ai giovani chitarristi» non deve trarre in inganno: solo il primo Quaderno è agevolmente suonabile (il solo dove Chiesa, d’accordo con l'autore, fece in tempo a intervenire semplificando i passaggi più ostici), mentre negli altri vi sono molte situazioni di problematica eseguibilità. Leone mostra le sue doti migliori proprio in questi punti, in particolare nelle Danze dell’Ottocento e nelle Danze del Novecento: esemplare è la lettura de La macchina da cucire¸ e La filatrice. Marco Riboni Amadeus 111 DISCHI A BERLIOZ Symphonie fantastique, Lélio Gérard Depardieu, Chicago Symphony Chorus, Chicago Symphony Orchestra, Riccardo Muti Cso 1 cd (Ducale) 2010 D ell’Episodio della vita di un artista, costituito dalla Sinfonia fantastica e da Lelio, o il ritorno alla vita, si ascolta di solito soltanto la prima, considerata a ragione un capolavoro a differenza del secondo, il melologo che ne costituisce il seguito. Che quest’ultimo sia una composizione problematica o addirittura per certi versi fallita, è indubbio; ma ciò non toglie che l’opportunità di ascoltare – e se si è molto fortunati pure di vedere rappresentato – anche il melologo consente di assistere all’intero racconto musicale concepito da Berlioz, comprendendo tra l’altro meglio la stessa Sinfonia fantastica. Al di là del fatto che le incisioni integrali dell’Episodio della vita di un artista sono piuttosto rare, questa realizzata da Riccardo Muti con l’Orchestra e il Coro di Chigago (che documenta l’esecuzionerappresentazione del dittico avvenuta nel 2010) spicca per la qualità intepretativa assoluta. È raro ascoltare una Sinfonia fantastica di tale trasparenza cristallina e al contempo di tale raffinatezza nelle intenzioni e soluzioni espressive, al punto da annichilire qualsiasi possibile accusa di volgarità nei confronti della musica di Berlioz. Ma non meno memorabile è il tono visionario e trasognato, da fantasticheria romantica inquieta, febbrile, esaltata che sostanzia l’interpretazione drammaturgica della partitura. Quanto a Lelio, la voce recitante di Gérard Depardieu è un lusso straordinario in un contesto di risorse esecutive sontuose e di sicura efficacia teatrale. Cesare Fertonani 112 Amadeus DISCHI FAURÈ, STRAUSS Sonata op.13, Sonata op18 FIELD Complete Nocturnes Vol. 2 GEMINIANI Sonatas op. 4 vol. 2 KURTÁG Kafka Fragments PÄRT The Sound of Arvo Pärt Itzhak Perlman, Emanuel Ax Dg 1 cd (Universal) 2014 Artistico: HHHH Tecnico: HHHH Stefan Irmer Mdg 1 cd (Sound and Music) 2015 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH Carline Melzer, Nurit Stark Bis 1 sacd (New Arts International) 2012 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH C È Liana Mosca, Antonio Mosca, Luca Pianca, Giorgio Paronuzzi Stradivarius 1 cd (Milano Dischi) 2012 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH Estonian National Symphony Orchestra, Estonian Philharmnic Chamber Chor, Paavo Järvi, Tõnu Kaliuste Erato 1 cd (Warner) 1994, 2004 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHH on una lussuosa presa sonora – sin troppo per il giovane Gabriel Fauré – e un risalto, dunque, più da concerto che da camera, ecco l’ultima registrazione (in ordine di tempo) di Itzhak Perlman, oggi settantenne che fa duo con Emanuel Ax, classe 1949, partner di Isaac Stern e Yo-Yo-Ma in storiche esecuzioni. Le note allegate al compact, garbate e precise, sono del pianista. Suo è anche – capitò pure con Bruno Canino in concerti milanesi: una Sonata di Mozart – il timone del comando interpretativo. Perlman va a ridosso del collega. L’articolazione del violinista risulta netta ma un po’ rigida; il suono, sin troppo sfogato e diretto, accusa fissità. La cavata può difettare quanto a intimità ad esempio in quella Improvisation straussiana, Andante cantabile, che molti violinisti, negli anni Cinquanta, estrapolavano dalla Sonata op. 18 come entr’acte da recital. Nella pagina anno 1887 di Strauss, è il pianoforte orchestrale di Ax – il poema sinfonico Don Juan sta sbocciando rigoglioso – a fare una gran figura, emozionare e coinvolgere. Con la Prima sonata di Fauré e quella di Strauss, la discografia di Perlman supera i quattrocento titoli secondo una voracità che include musica da film (Schindler’s List), musica tradizionale ebraica, folk, jazz e rag. Quanto poi al repertorio grande e piccolo, a pezzi famosi o rarissimi, i dischi all’attivo dell’artista non sono secondi a quelli di Menuhin, Heifetz, Ojstrach e, come taluni dimenticano, di Kogan. Alberto Cantù da qui che tutto (o quasi) è nato. John Field (1782-1837), pianista irlandese allievo di Muzio Clementi che vedeva in lui un grande talento da promuovere in lunghi tour europei, ha composto un nucleo di Notturni per le proprie esecuzioni con un continuo lavoro di rielaborazione e modifica che in alcuni casi li rendeva profondamente diversi dalla prima stesura (come avviene per esempio nelle due versioni qui presenti del Notturno 10A e 10B. Tutto questo avviene almeno una generazione prima di colui che ha dato piena dignità al Notturno come forma compositiva per pianoforte: Fryderyk Chopin. In questo secondo volume di Notturni si nota in realtà come Field si distacchi parecchio dall’attenzione alla melodia per concentrarsi maggiormente sull’aspetto ritmico: un approccio che, nel mostrare le evidenti relazioni con le composizioni del suo maestro Clementi, li fa discostare non poco da quel che questa forma sarebbe diventata una volta plasmata dal suo illustre successore. Di lui però risulta pienamente precursore nell’attenzione all’aspetto armonico, con esiti che per l’epoca erano da considerarsi inusuali. Stefan Irmer, pianista tedesco che già in altri casi si era dedicato ad autori pianistici raramente eseguiti (tra gli altri Faurè, Thalberg e Massenet) oltre che all’accompagnamento di cantanti, li esegue con entusiasmo e brillantezza. Qualche perplessità in più la destano le tre composizioni originali di Irmer intitolate Playingwith-Field, semplici e dimenticabili arrangiamenti di altrettanti notturni fieldiani in forma jazzata. Claudia Abbiati N el 2012, in occasione dei due secoli e mezzo dalla morte di Francesco Geminiani, furono realizzate alcune importanti iniziative per celebrare un compositore a lungo trascurato da musicologi e musicisti, benché al suo tempo considerato non inferiore a Händel e Corelli. Tra queste la prima registrazione assoluta di una parte delle dodici Sonate per violino e basso continuo opera 4. A distanza di tre anni, l’impresa si conclude con la pubblicazione del secondo volume, comprendente le Sonate nn. 2, 4, 5, 8, 9 e 11, che rende per la prima volta disponibile per intero l’ascolto discografico di una raccolta assolutamente significativa del maestro lucchese che fu, ricordiamolo, oltre che compositore di riferimento anche dei più importanti violinisti e teorici del ‘700. L’opera 4 presenta in più punti pagine di originalità, bellezza e complessità assolute, di ostica esecuzione e difficile ascolto. In questa registrazione, Liana Mosca violino, Luca Pianca arciliuto, Antonio Mosca violoncello e Giorgio Paronuzzi clavicembalo (i primi vantano una lunga militanza nel Giardino Armonico, e qui non si direbbe, tanto appare diverso il modo di approccio alle musiche del '700) hanno sempre ben presente che al risultato finale di questa musica è fondamentale una corretta invenzione ed esecuzione degli abbellimenti improvvisati: non puro decoro, o fonte di piacere ludico (come diffusamente si pensa) ma strumento d’importanza vitale per la comunicare e muovere passioni se, attenzione, risolto secondo modalità ben precise. Massimo Rolando Zegna G eniale capolavoro di una musica contemporanea sotto ogni profilo e però viva e palpitante perché estranea alle secche di tanta avanguardia diventata ben presto accademia, i Kafka-Fragmente (1985-87) di Kurtág continuano ad ammaliare come un poliedro che riflette luce in mille direzioni diverse. Il ciclo appunto di frammenti, articolato in quattro parti, sfiora l’ora di durata. Il formato complessivo della composizione è dunque di ampio respiro ma a costruirlo sono tasselli per lo più brevissimi, aforismi musicali spesso inferiori al minuto, con rare – ma per questo significative – eccezioni, mentre l’organico è ridotto al soprano, che intona passi di testi di Kafka, e al violino, lo strumento che più di ogni altro si avvicina all’ideale espressivo della vocalità umana. Musica realizzata con mezzi minimi, costituita per lo più da brevi frammenti ma che non rinuncia in nulla all’articolazione di un pensiero compositivo complesso e raffinato; quest’ultimo può apparire semplice soltanto se si concepisce la semplicità come arte della quintessenza assoluta, di un segno tanto concentrato quanto infallibile. Di tutto ciò – e naturalmente di molto altro ancora – rende conto l’ammirevole interpretazione di Carline Melzer e Nurit Stark, condotta nel senso di un’intensità e pregnanza esecutiva che se da un lato si prodiga nel perseguire la massima aderenza al dettato del testo in tutte le sue molteplici e cangianti sfumature espressive dall’altro è improntata alla più efficace essenzialità di resa. Cesare Fertonani È difficile per un compositore contemporaneo imporsi e avere successo con il grande pubblico internazionale. Lo era ai tempi di Beethoven, figurarsi oggi dove il genere di musica prevalente è legato a un’insaziabile ricerca di merce di consumo. Arvo Pärt, invece, ha saputo conquistare da subito,in maniera quasi trasversale, gli appassionati di musica nei vari continenti. Forse perchè la sua musica è stata in grado di intercettare lo spirito del tempo o comunque quel sound indefinibile che accomuna le orecchie degli ascoltatori. Non che le sue composizioni siano di facile ascolto. Tuttavia il suo sound (per stare al titolo dei tre cd qui presentati) riesce a esprimere esigenze profonde di pensiero e allo stesso tempo serenità, attraverso uno stile che sa legare e intrecciare modalità barocche e gregoriane a tessuti leggermente dissonanti e trasparentemente materici. La sua musica è quasi sempre velata ancorchè incisiva, lasciata a un organico strumentale mai ridondante anche se corposo, quasi sempre affidato agli archi e alle percussioni, preferibilmente timpani. Oppure alla semplice vocalità corale armoniosamente distesa come certe coreografie paesaggistiche della sua Estonia. Tutto ciò lo verifichiamo in questo cofanetto che per i suoi 80 anni raggruppa diverse e qualificate sue composizioni degli anni ’90 e inizi 2000. I primi due cd contengono lavori destinati all’orchestra, mentre il terzo composizioni per coro. Eccelsi gl'interpreti tutti estoniani. Antonio Brena PROKOF’EV, RAVEL Piano concerto n. 1, Two pieces from Romeo and Juliet transcribed for the piano, Concerto for the left hand, Pavane for piano Andrei Gavrilov, London Symphony Orchestra, Simon Rattle Warner 1 cd (Warner) 1977 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH N el settembre 2017, Simon Rattle assumerà la direzione musicale della London Symphony Orchestra dopo quindici anni alla guida dei Berliner; ed è forse in previsione di quel ritorno nel Regno Unito che la Warner ha rimasterizzato nel 2015 un’incisione del 1977 dell’allora ventiduenne quasi sconosciuto direttore con quella stessa Lso. Al suo fianco un coetaneo: Andrei Gavrilov. Il risultato di quel duo quasi esordiente negli studi di registrazione (quelli mitici di Abbey Road) è quanto di meglio si possa raggiungere per affiatamento, musicalità, sicurezza esecutiva. Il travolgente primo tempo del Concerto di Prokof’ev scorre con brillantezza e energia senza pari, seguito da un Andante mai così dolce, aereo; brillantezza virtuosistica, specialmente del solista, che ritorna nell’Allegro conclusivo. Ai due numeri dal balletto Romeo e Giulietta nella versione pianistica (nn. 2 e 9 della suite) segue il Concerto in re di Ravel dalla scrittura orchestrale e pianistica esaltata in ogni sfumatura ritmica e timbrica da Rattle e Gavrilov, co-autori di un’esecuzione perfetta nei tratti jazzistici dell’Allegro. Il completamento del cd è affidato alla versione originale pianistica della Pavane pour une infante défunte dove Gavrilov accoglie, finalmente, il sarcastico invito di Ravel a non eseguirla come se fosse una Pavane défunte pour une infante. Ettore Napoli Amadeus 113 DISCHI A GIULIANI Rarities and Masterpieces Massimo Felici, Damiana Mizzi, Antonia Valente, Friederike Starkloff Smc 1 cd (La Stanza della Musica) 2015 L a produzione discografica della musica per chitarra assai spesso si sbizzarisce in programmi che nella volontà o, meglio, nella velleità di una originalità a tutti i costi finiscono purtroppo per scivolare in banalità e pochezza culturale disarmanti. Eppure basterebbe semplicemente entrare in quella inesauribile miniera d’oro che è la musica di Mauro Giuliani per essere certi di non commettere scivolate di gusto. Tra l’altro, a più di trent’anni dalla pubblicazione dell’imponente opera omnia (Tecla Editions, Londra, 1984, 39 volumi.) ancora molti sono i brani che attendono di essere registrati. È proprio questo l’aspetto (come si evince chiaramente dal titolo) che ha guidato Massimo Felici e L’Ensemble ’05 nella intelligente compilazione di questo splendido cd. Tolti infatti i meravigliosi Sechs Lieder op. 89 per soprano e chitarra – giustamente entrati in repertorio – e, in parte, gli incantevoli 2 Rondo op. 68 per fortepiano e chitarra (chissà perché spesso eseguiti nell’ordine inverso), il resto dei brani sono veramente di raro ascolto, se non addirittura in World Première Recording. Ecco così Der Abschied der Troubadour per soprano, chitarra terzina, fortepiano e violino, al cui ascolto nel 1818 i Viennesi andavano letteralmente in visibilio e, per chitarra sola, le Sei Arie Nazionali Scozzesi nonché le spettacolari Gran Variazioni op. 114. Eccellenti, impeccabili e perfettamente affiatati tutti gli interpreti, anche se una particolare nota di merita spetta a Felici, chitarrista elegantissimo, di pirotecnico virtuosismo e, soprattutto, di rara intelligenza. Da non perdere. Marco Riboni 114 Amadeus DISCHI RIMSKI-KORSAKOV Mozart and Salieri - The Noblewoman Vera Sheloga SCHUBERT Quartettsatz D 703, Quatuor D 887 SCHUBERT Piano Sonata in C minor D. 958, Impromptus D. 935 Fedin, Nesterenko, Miashkina, Orchestra of the Ussr State Acamic Bolshoi Theatre, Mark Ermler Melodya 1 cd (Ducale) 1985, 1986 Artistico: HHHH Tecnico: HHHH Quartetto Terpsychordes Ambronay 1 cd (Ducale) 2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH Nikolai Lugansky Ambroisie 1 cd (Self-Tàlea) 2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH D S U na coppia insolita e rara nel catalogo operistico di RimskiKorsakov torna dagli archivi sempre doviziosi della Melodya nell’interpretazione vivida dei complessi del Bol'šoj diretti da Mark Ermler: il prologo scritto in seguito, il prequel dell’opera La fanciulla di Pskov, che narra il passionale e drammatico adulterio della nobildonna Vera Sheloga (1898), sedotta in un bosco da un boiardo di passo (Ivan il Terribile) e salvata dalla sorella che si assume la maternità al ritorno del consorte. E la più nota leggenda che vorrebbe Antonio Salieri, roso dall’invidia, avvelenare un superficiale e smagato Mozart, mentre ascolta la sua ultima composizione, il Requiem. Non è il film di Milos Forman (da Amadeus di Schaffer), ma la “piccola tragedia” di Puškin (1830), da cui Rimskij-Korsakov trasse due scene drammatiche su misura per l’istrionico grande basso Saljapin, in questo cd interpretato da una voce che ha fatto epoca nell’Unione Sovietica degli anni Sessanta e Settanta (del Novecento), Evgenij Nesterenko. Un’opera da camera tutta declamata e pervasa di orpello mozartiano che il milionario Savva Mamontov volle per il suo teatro personale. Il magnate pagava tutto: autore e divo, scenografocostumista (Michail Vrubel’, immaginifico pittore e decoratore dell’art nouveau russa) e maestro del coro (Sergej Rachmaninov che dirigeva i frammenti del Requiem mozartiano fuori scena). Questi plutocrati russi! Giovanni Gavazzeni opo aver registrato qualche anno fa i Quartetti D 804 e D 810, il Terpsychordes ritorna a Schubert con questa incisione che accoppia il Quartettsatz D 703 e l’ultimo, grande Quartetto D 887. L’approccio interpretativo del Terpsychordes s’attaglia in modo magnifico alla musica di Schubert per l’importanza che esso presta alla valorizzazione della componente intensamente affettiva della scrittura, alla curatissima raffinatezza nel trattamento delle dinamiche e della qualità timbrica, alla lettura mai banalmente convenzionale del fraseggio. L’interpretazione del Quartetto Terpsychordes mostra del resto l’intenzione di soddisfare l’attenzione non comune alle sottigliezze estreme in ogni aspetto dei parametri compositivi che la musica da camera di Schubert richiede. E questo si realizza con esiti talora sorprendenti, come quando dalla tessitura emergono fremiti e brividi di natura quasi materica, oppure quando le sfumature delle dinamiche e dei modi d’attacco del suono diventano ombreggiature e increspature appena percepibili ma proprio per ciò tanto più rilevanti ai fini di un’interpretazione così preziosa. La quale, peraltro, non trascura affatto di risolvere con altrettanta efficacia le implicazioni esecutive poste dalla dimensione monumentale della forma e dalla gestualità a tratti parasinfonica dell’insieme strumentale, tenendo comunque come fermo orizzonte il respiro lirico di questa musica, le sue inquietudini profonde, il suo senso di gioiosa o smarrita disperazione sublimato in canto. Cesare Fertonani chubert in dialogo con Schubert. Questa è l’impressione che si ha ascoltando la produzione discografica più recente di Nikolai Lugansky, dedicata a due opere della produzione “tarda” (per modo di dire, vista la prematura morte a 31 anni) del compositore austriaco, entrambe finalizzate nel 1828, il suo ultimo anno di vita: l’ampia Sonata in do minore D. 958 e la raccolta di Improvvisi op. 142, pubblicati postumi. Si tratta di due lavori tra i più celebri di Franz Schubert, che sono innervati di collegamenti sottili o, in alcuni casi, molto evidenti: un esempio su tutti, il ritmo popolaresco, quasi di tarantella, dell’Allegro a chiusura della Sonata ripreso successivamente nell’Improvviso n. 4. L’autrice delle note incluse nel booklet, Gabrielle Oliveira Guyon, fa notare come nel 1828 Schubert si sentisse più o meno inconsciamente “liberato” dall’ingombrante presenza di Ludwig van Beethoven, scomparso l’anno prima. Certo, l’eredità beethoveniana non è cosa che ci si possa lasciare alle spalle con facilità, però è anche vero che la poetica schubertiana è inconfondibile: solo che in queste opere, come nelle altre sonate della maturità, si manifesta in modo più esplicito e inequivocabile. Lugansky offre un’interpretazione mai sopra le righe, sia nella scelta dei metronomi tutt’altro che esasperata sia in quella delle dinamiche: poco pirotecnica ma di grande sostanza, precisa negli attacchi e di commovente pulizia, una scelta quasi démodé in anni di virtuosismi rampanti ma che alla lunga premia. Claudia Abbiati SOR Complete Studies for Guitar ŠOSTAKOVIČ The Cello Concertos ŠOSTAKOVIČ Symphony n. 7 Enea Leone Brilliant 3 cd (Ducale) 2014 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH Gautier Capuçon, Mariinsky Orchestra, Valery Gergiev Erato 1 cd (Warner) 2013, 2014 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH Russian National Orchestra, Paavo Järvi Pentatone 1 cd (Ducale) 2015 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH G li Studi opp. 6, 29, 31, 35, 44 e 60 di Fernando Sor rappresentano il vertice assoluto della didattica ottocentesca per chitarra. Tuttavia, a fronte di cotanta qualità e quantità (è un corpus di ben 136 brani) per decenni e decenni i chitarristi ne hanno suonati solo 20, quasi sempre malvolentieri (erano pezzi d’obbligo per gli esami in Conservatorio) e oltretutto credendo che fossero i soli studi composti dal grande catalano. Il tutto nasceva da una storica – e personale – antologia compilata da Segovia e pubblicata nel 1945 con una arbitraria numerazione da 1 a 20: l’equivoco era creato e, incredibilmente, tende a perdurare ancora oggi. Rubricare con il semplice nome di studi i 24 brani delle opp. 6 e 29 è addirittura riduttivo: la loro ambientazione estetica è infatti ben più vicina alla ribalta concertistica che non alle aule scolastiche. Indubbiamente, i rimanenti quattro numeri d’opera (31, 35, 44 e 60) presentano difficoltà più abbordabili, difficoltà che sono inversamente proporzionali al progredire del numero di catalogazione. Tuttavia, la più squisita eleganza non manca neanche nelle pagine più semplici, nelle quali la genialità di Sor si esprime al massimo livello. Il bravo Enea Leone (che si serve di strumenti originali) coglie i suoi migliori risultati proprio in queste ultime opere dove, paradossalmente, la maggior semplicità del materiale musicale rischia per l’interprete di essere più problematica della lettura dei brani più importanti: Leone è infatti obbligato a sfoggiare una grande espressione, una spiccata sensibilità e, soprattutto, un fraseggio molto elegante. Marco Riboni I Concerti opp. 107 e 126 di Šostakovič sono tra i massimi capolavori del repertorio per violoncello e orchestra e, come tali, molto frequentati dagli interpreti. Gautier Capuçon li suona qui con l’Orchestra del Teatro Mariinskij diretta da Valery Gergiev, proseguendo così una collaborazione che aveva già prodotto la registrazione di musiche di Čajkovskij e Prokof’ev. Capuçon possiede ogni talento per essere un interprete più che convincente di questa coppia di concerti assai importanti per il formato e l’impegno esecutivo – virtuosistico oltre che propriamente musicale – che richiedono. Se Capuçon sfoggia un cantabile di notevole fascino, si destreggia al contempo con abilità tra tutti i molteplici registri implicati dai due concerti, dal fantastico all’ironico (e al sardonico più graffiante e aggressivo), dall’onirico al tragico in tutta la sua plumbea cupezza, riuscendo ad avvincere l’ascoltatore a un alto e continuo livello di attenzione. La tensione interpretativa non subisce infatti cali né interruzioni lungo l’ampio arco di durata di ciascun concerto anche perché la qualità della resa solistica trova una controparte ideale in quella dell’orchestra diretta da Gergiev. Si ascoltano dunque esecuzioni concentrate e interessanti, disegnate con aderenza alla scrittura ma tutt’altro che prive di un’inventiva ispirata che, almeno in alcuni movimenti o per lo meno a tratti, s’imprime nella memoria dell’ascoltatore o comunque ne sollecita in modo attivo la riflessione. Cesare Fertonani D opo quella di Gergiev con l’Orchestra del Teatro Mariinskij ecco un’altra integrale in corso sempre con un’orchestra russa, la Russian National Orchestra, in attività da poco più di un ventennio (1990). Dopo le Sinfonie nn. 1, 5, 6, 8, 9 e 15 è ora il turno della Settima sempre sotto la direzione del cinquantatreenne Paavo Järvi. Com’è noto, le circostanze storiche della sua composizione (1941-1942 durante il drammatico assedio di Leningrado) e delle prime esecuzioni in pieno conflitto mondiale in Russia prima e a New York poi con Toscanini (1942) ne hanno fatto un oggetto di culto che, come spesso accade, va al di là del valore squisitamente musicale. Si spiegano anche così le sue molte incisioni nelle quali questa di Järvi meriterebbe di occupare uno dei primi posti, non solo per la resa del celeberrimo primo tempo, quando per il lirismo struggente dell’Adagio, dove la scrittura ha spesso una valenza squisitamente timbrica con archi e fiati chiamati ora a disegnare suggestivi passaggi cameristici ora a compattarsi per dare vita a un magma sonoro incalzante che esplode nell’Allegro conclusivo. Ed è questa duttilità a fare della Rno una compagine di alto livello, avvalendosi qui dell’ottima conduzione del direttore estone. Da segnalare infine, come riportano le note in tedesco e inglese, che per l’incisione sono state impiegate le più moderne tecnologie di registrazione (vedi pentatonemusic.com); unica pecca, marginale è il riferimento, nel booklet, alle Memorie di Šostakovič firmate da Solomon Volkov (1979) ritenute da tempo poco attendibili. Ettore Napoli Amadeus 115 DISCHI AA.VV. Pollini. De main de maïtre A Maurizio Pollini e interpreti vari, Bruno Monsaingeon regia Dg 1 dvd (Universal) 2014 E chi non vorrebbe passare un’ora con Pollini! Non solo ascoltandolo suonare (questo vivaddio è possibile da oltre mezzo secolo) ma, così: a tu per tu sentirlo raccontare dei suoi inizi, della vittoria al Concorso Chopin di Varsavia, del legame sodale con Abbado e Nono, degli anni di strenuo impegno civile con la musica portata a quante più persone possibile. Pollini non si concede facilmente con le parole, preferisce farlo seduto al pianoforte. Capita che parli – lo fa volentieri con gli studenti – ma in genere si tiene alla larga dall’aprire sé stesso. Con riservatezza e pudore. Valori non proprio diffusi nell’odierno. In questo bel film di Bruno Monsaingeon, l’uomo si apre, educatissimo e senza pose: com’è lui. Ciò che racconta non vale (forse) la bellezza memorabile delle sue interpretazioni (i tellurici Concerti di Bartók; lo Chopin giovanile affrontato col busto dritto come un fuso e tecnica perfetta; il suo Beethoven sonatistico e concertistico sviscerato col pathos della febbre dell’intelletto; i cluster di Stockhausen capaci di sacralità sotto le sue mani protette dai guanti senza dita), ma alcune cose che il concertista dice nella quiete del suo studio circondato da partiture e libri, sono da annotare. I consigli di Benedetti Michelangeli che ancora mette in pratica; la consapevolezza del peso alla tastiera svelata dal peso del dito medio di Rubinstein posato sulla sua spalla; la rispondenza straordinaria con Abbado e Boulez, tale per cui si andava in scena senza prova e, infine, il criterio di scelta del repertorio: «suono solo ciò di cui, sono certo, non mi stancherò mai». Nicoletta Sguben 116 Amadeus DISCHI STRAVINSKY Le Sacre du Printemps YSAΫE Sonatas AUBER Marco Spada ou la Fille du bandit MusicAeterna, Theodor Currentzis Sony 1cd (Sony) 2015 Artistico: HHHH Tecnico: HHHHH Alina Ibragimova Hyperion 1cd (Sound and Music) 2015 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH A C Hallberg, Obraztsova, Smirnova, Chudin, Tsvirko, Bolshoi Ballet, Bolshoi Theatre Orchestra, Alexey Bogorad, Pierre Lacotte creografia, Vincent Bataillon regia video BelAir 1 dvd (Ducale) 2014 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHHH madeus aveva raccontato la storia di Theodor Currentzis e MusicAeterna nell’ottobre del 2014: un direttore e una formazione che hanno ottenuto di lavorare in un modo davvero unico al mondo (vedi anche a pag.106). Direttore e orchestra risiedono infatti nel teatro russo di Perm, dedicando tempo ed energie solo alla musica: una sorta di cenacolo del XXI secolo, apparentemente libero nelle scelte artistiche, che nelle registrazioni (per Sony) dedica tutto il tempo ritenuto necessario da Currentzis per rispecchiare un ideale di perfezione. E in questi anni Currentzis ha stupito per le sue incisioni di opere mozartiane (l’uscita del Don Giovanni è prevista nel 2016) spaziando in un repertorio ampio, che da Purcell si spinge – come nel caso di questo disco – al ’900 storico. Stravinskij e il Sacre du Printemps è l’ultimo cd pubblicato da MusicaAeterna, e sorprende anche in questo caso. Per chi si aspettava uno Stravinskij selvaggio, rude, graffiante, con dinamiche spinte all’eccesso, il risultato è diametralmente opposto. Nel recensire questo disco, il critico del Guardian ha scritto di «un’energia che non esplode mai», e in qualche misura è vero: eppure, questa lettura del Sacre (la versione incisa è quella del 1947) offre comunque una visione originale. Nelle parole dello stesso Currentzis – che firma il libretto – il tentativo è quello di liberare il Sacre dalla visione di un sinfonismo ad effetto tutto occidentale, riportando invece la partitura di Stravinskij il più possibile vicina alle radici folk della tradizione russa da cui proviene. Edoardo Tomaselli ’è sempre Bach dietro tutto: l’idea di comporre le Sei sonate per violino solo, venne infatti a Ysaÿe dopo aver ascoltato un’esecuzione della Sonata in sol minore di Bach interpretata da Joseph Szigeti. Fin dal 1884 il violinista belga aveva iniziato la sua attività di compositore – attività parallela a quella di insegnante al conservatorio di Bruxelles – e nel corso di una sola notte ideò il progetto di scrivere le sei partiture. Nacquero nel corso di un mese, nell’estate del 1923, e vennero pubblicate l’anno seguente. Ognuna delle opere sarebbe stata dedicata a grandi violinisti dell’epoca: la Prima, in sol – implicito omaggio a Bach – sarebbe stata eseguita dallo stesso Szigeti. La Seconda ebbe il suo interprete in Jacques Tibaud (e anche in questo caso c’è un richiamo a Bach nel frammento tematico del primo movimento della sonata, che richiama il Preludio della Partita BWV 1006) e la Terza Geoge Enescu, mentre la Quarta venne dedicata a Fritz Kreisler, e le ultime due ad altrettanti virtuosi dell’epoca. Sei sonate che rispecchiavano sei diversi stili e approcci strumentali. Dopo aver inciso due dischi per Hyperion dedicati a Bach e Hartmann (19051963), entrambi incentrati sul repertorio per solo violino, la giovane violinista russa Alina Ibragimova regala ora una splendida interpretazione delle Sonate di Ysaÿe: grande tecnica, un suono ricco, espressività e l’ombra di Johann Sebastian Bach che appare trasfigurata lungo queste sei opere, che nella loro genialità abbracciano due secoli di trascendentale tecnica violinistica. Edoardo Tomaselli N el caleidoscopico mondo della danza di oggi, ci sarebbe da chiedersi perché proporre un’opera come Marco Spada ou la Fille du bandit, balletto narrativo musicato da Auber e coreografato da Mazilier all’Opéra di Parigi nel 1857, che di certo è creazione né ambiziosa né memorabile. Nel ricco repertorio romantico occupa un ruolo di comparsa, con la sua musica piacevole ma dozzinalmente convenzionale, con il suo linguaggio coreografico che modula la danse d’école in relazione alle tipologie di personaggi convocati in scena su una diversificazione giocosa ma manierata, piuttosto che drammaticamente e intensamente motivata. E, infatti, il tempo lo ha abbandonato all’oblio, mentre la sorte lo ha relegato in un silenzioso spazio della storia della danza romantica europea. Con Pierre Lacotte, però, il balletto nel 1981 è tornato a vivere nei teatri, in una ricostruzione coreografica che ne ha recuperato tutta la freschezza in stile francese e che ha affidato il suo successo alle grandi doti interpretative di Nureyev. Registrato nel 2014 a Mosca, il Marco Spada di Lacotte oggi ci restituisce con sapienza e raffinatezza una danza teatrale che, se da una parte resta significativamente rappresentativa di un genere in voga a metà '800, dall’altra, con il corpo di ballo del Bolshoi e i suoi cinque solisti ci offre uno spettacolo ai massimi livelli di danza classica, per purezza delle linee, precisione e perizia tecnica dei pas, bellezza della perfezione. Ida Zicari CASELLA, RESPIGHI Concerto per violoncello, Sinfonia n. 2, Antiche arie e danze per liuto, Suite n. 2 DVORÁK Rusalka MOZART La finta giardiniera Enrico Dindo, Filarmonica della Scala, Gianandrea Noseda, Pietro Tagliaferri regia video Sony 1 dvd (Sony) 2013 Artistico: HHHH Tecnico: HHHH Fleming, Beczala, Zajick, Relyea, Orchestra, Chorus & Ballet of The Metropolitan Opera House, Yannick Nézet-Séguin, Otto Schenk regia, Barbara Willis Sweete regia video Decca 1 dvd (Universal) 2014 Artistico: HHHHH Tecnico: HHHH Morley, Scala, Allemano, Chappuis, Henry, Le concert d’Astrée, Emmanuelle Haïm, David Lescot regia, Jean-Pierre Loisil regia video Erato 2 dvd (Warner) 2014 Artistico: HHHH Tecnico: HHHH I I n una passata rubrica su Amadeus (Cronaca minima) avevamo sottolineato come sia totalmente fuorviante ascrivere la personalità di Alfredo Casella alla sola poetica neoclassica. A quel porto, Casella giunse nel suo inquieto itinerario artistico, salutare ritorno all’ordine e manifestazione di ottimismo vitale, ma non vi si fermò, come testimoniano le dolorose opere dell’ultimo periodo. Sotto la superficie modernista del contemporaneo di Stravinskij e Hindemith, c’è un lato recondito della sua personalità che sfocia negli incantatori movimenti lenti, dove il canto viene decantato quasi in sogno metafisico (esempio preclaro il Concerto per violoncello, strumento prediletto della sua famiglia e del suo padrino, Alfredo Piatti). Ancora più istruttivo sulla formazione europea apertissima di Casella è l’ascolto della sconosciuta Seconda sinfonia, rivelatrice di atmosfere che manifestano l’assimilazione di Gustav Mahler, di cui Casella fu primo a capirne in Francia e in Italia il valore (e che Mahler, in segno di stima, presentò all’editore Universal di Vienna). Quei germi espressivi sono uno degli aspetti più importanti della sua multiforme personalità artistica, presenti in tutte le virate stilistiche del Casella musicista. Gianandrea Noseda ha il non piccolo merito di aver resuscitato la Sinfonia. Per una volta i meriti del musicista sono venuti prima di quelli del grande didatta, revisore e organizzatore musicale, con il quale l’Italia moderna ha un debito enorme. Giovanni Gavazzeni l gusto che trent’anni fa andava per la maggiore in Austria e in Germania, un po’ pesante, didascalico e polveroso, sontuoso e pomposo, era riassunto nelle scenografie che Günther Schneider-Siemssen realizzava per Karajan. Susan Graham nel presentare la ripresa del capolavoro operistico di Dvořák, Rusalka, al Met, definisce lo spettacolo realizzato dal compianto scenografo trent’anni fa, vintage. Il primo quadro nel suo favolistico kitsch è quasi involontariamente grottesco: prati più verdi del verde, fondali palesemente irreali, uno spettro arboreo in primo piano. A questo si aggiunge la pedissequa regia di Schenk. L’effetto scenografico cambia completamente nell’ultimo quadro, quando le luci smorte rendono la finzione verosimile e fascinosa. Certo sembra di vedere – abituati come siamo a regie troppo intelligenti – più un balletto che un’opera. Ma tant’è. Per fortuna che gli incantesimi escono dalla tavolozza di Dvořák attraverso la direzione superba per cura dei particolare e vigore drammatico di Nézet-Seguin, vero punto trainante dello spettacolo. Il giovane maestro canadese può contare su un magnifico quartetto vocale, dove tutti gli interpreti sono “giusti” nelle rispettive parti: la lirica silhouette Fleming (Rusalka), l’ardimentoso Beczala (il Principe), la sarcastica Zajiick (la strega), il paternale Relyea (l’Ondino). Finalmente un’edizione fuori dalla Repubblica ceca degna di tanta abbondanza musicale e vocale. Giovanni Gavazzeni C’ è poco da ridere. Su al Nord, nella regione francese del Pasde-Calais, e precisamente all’opera del suo capoluogo, Lille, parlano in modo accettabile anche l’italiano. La battuta non è casuale, essendo corrente il riferimento al popolarissimo (soprattutto in Francia) film di Dany Boom, Bienvenue chez les Ch’tis, (come vengono chiamati gli abitanti di quelle contrade per il loro dialetto piccardo), che mette alla berlina la difficoltà del protagonista di comprendere il buffo dialetto Ch’tis. Comunque, chez les Ch’tis, l’italiano operistico di Giuseppe Petrosellini, librettista cui si attribuisce il testo della Finta giardiniera di Mozart è qui più che accettabile. Merito non solo dei due cantanti madrelingua, lo sperimentato Carlo Alemanno (il Podestà innamorato della finta giardiniera) ed Enea Scala (il Contino Belfiore che impalmerà la giardiniera, dopo aver cercato di strangolarla nell’antefatto), ma anche dei sempre più indispensabili sottotitoli. Questi soccorrono galantemente il gentil sesso – meno forte nell’articolazione della parola – consentendoci di seguire, almeno a grandi linee, i turbinosi nodi amorosi fra le tre coppie di aspiranti e pretendenti coniugi. Mozart diciottenne dimostra di poter scrivere arie per tutta la gamma dei sentimenti umani, anche se la lunghezza dello spettacolo rimane sempre il tallone d’Achille di quest’opera: tre ore di recitativi e arie sono poco digeribili, anche se i cantattori danno il massimo. Giovanni Gavazzeni Amadeus 117 DISCHI imperdibili ILVINILE Gérard Grisey Les Espaces Acoustiques F A DVOŘÁK Streichquintett G-dur op. 77 (urspr. op. 18) Boston Symphony Chamber Players Speaker Corner 1 lp (soundandmusic.com) 1971 N el 1964, furono fondati i Boston Symphony Chamber Players, come emanazione della Boston Symphony Orchestra: da due anni eravamo nei confini della Direzione musicale di Erich Leinsdorf. Il gruppo era formato dai primi e più importanti componenti della formazione sinfonica madre: archi e fiati. Sin dall’inizio l'ensemble si affermò presso critica e pubblico come una dei più importanti formazioni cameristiche a livello internazionale, capace di spaziare con mirabile flessibilità in un ambito particolarmente ampio, senza mancare, all’occasione, di proporre collaborazioni a interpreti illustri: come Leif Ove Andsnes, Emanuel Ax e André Previn. Oggi i Boston Symphony Chamber Players tengono ogni anno una serie di quattro concerti alla Jordan Hall del New England Conservatory di Boston, si esibiscono regolarmente a Tanglewood, senza contare le numerose apparizioni negli Stati Uniti, in Europa, Giappone e Sud America. Numerose sono anche le registrazioni realizzate: i Quintetti per archi di Brahms, i Quintetti per clarinetto e archi di Mozart e Brahms, altre composizioni per archi e fiati di Mozart, musiche da camera di Ravel, Debussy, Françaix e Dutilleux, e altro ancora. Nel giugno del 1971 i Chamber Players registrarono per Deutsche Grammophon, nella Boston Symphony Hall, il Quintetto per archi in sol maggiore op. 77 di Antonín Dvořák: ingegnere del suono Günter Hermanns. La formazione era costituita da Joseph Silverstein (primo violino), Max Hobart (secondo violino), Burton Fine (viola), Jules Eskin (violoncello) e Henry Portnoi (contrabbasso). Il disco è stato di recente riproposto da Speakers Corner Record su sopporto di vinile di alta qualità (180 grammi). Incisione assolutamente memorabile, di grande impatto sull’ascoltatore, che soprattutto nel primo movimento assume un respiro, verrebbe da dire, “sinfonico”, senza per questo intaccare la precisione, la nitidezza, lo scatto felino, le straordinarie aperture cantabili. Massimo Rolando Zegna 118 Amadeus DISCHI STRAVINSKY The Firebird VERDI La traviata Hodgkinson, Antonijevic, Rimsay, Harrington, National Ballet of Canada, Kirov Orchestra, Valery Gergiev, James Kudelka coreografia, Barbara Willis Sweete regia video EuroArts 1 dvd (Ducale) 2003 Artistico: HHH Tecnico: HHH Damrau, Demuro, Tézier, Orchestre et Choeur de l’Opéra National de Paris, Francesco Ivan Ciampa, Benoît Jacquot regia, Louise Narboni-Benoît Jacquot regia video Erato 1 dvd (Warner) 2014 Artistico: HHH Tecnico: HHHH T V ra le brume di un’arida selva, si aggira con occhi di ingenuo stupore il Principe Ivan: la figura di profilo, le ginocchia piegate, le dita delle mani distese, i pollici distaccati. Ma che ci fa il Fauno di Nijinskij sulla scena dell’Uccello di fuoco? È così che il coreografo James Kudelka dà la sua caratterizzazione, poco convincente, all’ingresso del protagonista del balletto. E quando lo stupore del Principe Ivan si fa incantata meraviglia, ecco tra i rami apparire l’Uccello di Fuoco: gioiosa, la ballerina svolazza da una parte all’altra, ma non sciorinando le metafore ballettistiche di leggerezza volatile e moto vibrante di ali. L’uccello di fuoco di Kudelka svolazza veramente utilizzando le tecniche di ripresa e montaggio filmico, e lascia uno strascico fiammeggiante dietro di sé. Come se non bastasse, i personaggi dei due guardiani, un generale e una moglie di Katschei somigliano a fuoriusciti dal teatro coreografico di Mats Ek. Insomma, L’uccello di fuoco di Kudelka con il National Ballet canadese non entusiasma. E se in grandi linee cerca di attenersi al libretto di Fokine e alla musica di Stravinskij, ne svuota in modo discutibile gli ideali, senza però sostituirli con una visione dell’opera nuova, critica e attualizzata: realismo impoetico e maniera contaminata prendono qui il posto di quegli ideali di unione delle arti e di autentica espressività ballettistica e mimica che avevano indicato il futuro al balletto. Ida Zicari ioletta chez soi. La traviata all’Opéra, in quel popoloso deserto che appellano Parigi (secondo la formidabile sintesi di Piave), immortala Diana Damrau come interprete di rango della formidabile parte. Le sue qualità tecniche erano emerse anche nella burrascosa inaugurazione scaligera del 2013, dove complice la messa in scena di Dmitri Tcherniakov, tutto scadde in un inutile grottesco. Al contrario lo spettacolo di Benoît Jacquot non disturba l’azione musicale, e se non si ricorda per alcuna idea ragguardevole, ha il pregio nella ripresa televisiva di fotografare molto bene la prova superba della Damrau, la quale, dotata di un fisico prosperoso non certo consunto dalla tisi, alla fine riesce accettabile anche sul versante scenico. Si sa che per Violetta ci vorrebbero non una ma tre voci diverse. La signora Damrau ne possiede magnificamente almeno due: la coloratura sgranata e fraseggiata del primo atto e la corda lirica, illuminata da un chiaroscuro dinamico variegato. E dove manca di “peso” drammatico, supplisce adeguatamente con grintosa articolazione e scansione impellente delle intenzioni. Alla fine della serata meritata ovazione trionfale per la Damrau, successo condiviso con il baritono di casa Tézier e con il gradevole Alfredo di Francesco Demuro, che indulge ad allargare i tempi verso le cadenze; un peccato (veniale) al quale cedeva senza ambasce il direttore d’orchestra, Francesco Ivan Ciampa. Giovanni Gavazzeni L’opera V ero manifesto della musica spettrale, e uno dei capolavori assoluti della seconda metà del XX secolo, Les Espaces Acoustiques di Gérard Grisey, è un ciclo strumentale scritto nell’arco di un decennio, dal 1976 al 1985. Un ciclo di sei pezzi a organico crescente, da uno strumento solo a un orchestra di 84 elementi, legati tra loro da analoghe strutture formali, ostinati ritmici, strutture periodiche ricorrenti. Per Grisey è stato come un laboratorio, nel quale ha via via affinato quei principi nati dallo studio dell’acustica musicale (sui testi di Emile Leipp e Fritz Winckel), quell’idea di “spettralismo” che consisteva nel comporre usando le altezze degli armonici naturali, anche non temperate, usando solo materiale derivato dalle proprietà acustiche del suono, e tenendo conto della relatività della percezione uditiva. Il ciclo si apre con Prologue per viola sola, basato sugli sviluppi ipnotici di una cellula melodia reiterata. Nel secondo pezzo, Périodes (per 7 strumenti), primo lavoro integralmente spettrale non solo nella produzione di Grisey, ma anche nella storia della musica, l’autore ricompone lo spettro della fondamentale mi, e si basa sul ciclo ternario della respirazione (inspirazioneespirazione-riposo), poi perfezionato in Partiels (per 18 strumenti), dove crea veri e propri timbri sintetici passando anche attraverso vari gradi di inarmonicità degli spettri. In Modulations (per 33 strumenti) e in Transitoires (per grande orchestra), entrambi basati su sonogrammi ottenuti dalla registrazione di suoni di ottoni, tutto appare sublimato da un divenire sonoro costante, come «una deriva insieme lenta e dinamica», con spettri armonici dilatati a dismisura. Infine Epilogue, che può essere suonato solo come prosecuzione di Transitoires, include oltre all’orchestra anche quattro corni solisti, e introduce un principio di dialettica per ridare spazio al tempo del linguaggio, individuale e discorsivo, sovrapponendolo a quello onirico del cosmo. ascoltato da Gianluigi Mattietti Ogni mese un critico racconta un capolavoro e le sue incisioni più belle Sylvain Cambreling Stefan Asbury Le registrazioni I sei pezzi degli Espaces Acoustiques possono essere eseguiti separatamente, ma il graduale sviluppo che li accomuna, e il fatto che ogni pezzo amplifica il campo acustico del precedente, incoraggerebbero esecuzioni integrali, difficili però da realizzare. E qui corre in soccorso il disco, perché permette l’ascolto continuativo, anche se le due integrali esistenti sono frutto di registrazioni fatte in momenti diversi e con interpreti diversi: la prima è un doppio cd Accord (206532) del 2001, con Prologue affidata al dedicatario Gérard Caussé, Périodes e Partiel all’Ensemble Court-Circuit diretto da PierreAndré Valade, gli altri tre pezzi alla bacchetta di Sylvain Cambreling, con la Frankfurter Museumorchester. L’altro cd, uscito per la Kairos nel 2005 (0012422KAI) mette insieme Garth Knox e l’olandese Asko Ensemble per i primi tre pezzi, e la WDR Sinfonieorchester diretta da Stefan Asbury per gli altri tre. Sono esecuzioni accurate, ma diverse tra loro, come mostra anche il timing complessivo: 87 minuti per l’edizione Accord, 97 per la Kairos. L’esecuzione di Prologue è l’unica in cui i rapporti cambiano: quella di Caussé è più distesa nei tempi (17:27), ma con grande intensità espressiva, un forte vibrato, un’energia costante; quella di Knox è più succinta (15:28), asciutta, e sviluppa tensione nella brusca alternanza tra piani sonori molto differenziati. I due pezzi eseguiti dall’ensemble Court-Circuit hanno un andamento netto, aggressivo, con grande compattezza di suono. L’esecuzione dell’Asko, col suo passo lento, appare più morbida, quasi sensuale, sembra assaporare il dipanarsi degli spettri armonici, la loro luminosità. Nei tre pezzi per grandi organici, Cambreling muove davvero l’orchestra come una sostanza fluida, in perenne movimento. Più lenta, ma anche più nitida è la lettura di Asbury, che enfatizza gli scarti timbrici e cerca colori saturi. Amadeus 119 CALENDARIO gennaio Notizie sempre aggiornate su www.amadeusonline.net In queste pagine pubblichiamo, compatibilmente con lo spazio disponibile, esclu­sivamente i programmi che arrivano alla nostra redazione per posta, fax o e-mail all'indirizzo [email protected] entro il giorno 20 di due mesi prima dell’uscita del numero; ad esempio, il 20 gennaio si chiude la raccolta dei materiali per il numero di marzo 22, 24 Puccini, La bohème; dir. G. Bisanti, reg. L. Muscato Info: teatrosocialecomo.it F 23 Šostakovič, Kreisler; pf. R. Krimer, vl. S. Krylov 24 Schumann, Brahms; cl. A. Carbonare, pf. A. Pappano 25 Schubert; t. I. Bostridge, pf. J. Drake 30 Scarlatti, Bach, Beethoven; pf. A. Hewitt 31 Haydn, Brahms; pf. A. Hewitt, vlc. G. Scaglione Info: amicimusica.fi.it Ferrara G Cremona Teatro Ponchielli 18 Brahms, Dvořák; vlc. M. Maisky, dir. M. Poschner Info: teatroponchielli.it Ferrara Musica Luoghi vari 31 Liszt; pf. G. Albanese Info: ferraramusica.it Firenze L'Orchestra della Svizzera italiana, il 17 al Teatro Fraschini di Pavia con la direzione di Markus Poschner B Bari Teatro Petruzzelli 10 Prokof’ev, Beethoven, Mendelssohn; vl. A. Steinbacher, Orch. del Teatro Petruzzelli, dir. G. Neuhold 27, 29, 31 Mozart, Le nozze di Figaro; dir. M. Aucoin, reg. C. Muti Info: fondazionepetruzzelli.it Bologna Teatro Comunale 23, 24, 26, 27, 28, 30, 31 Verdi, Attila; dir. M. Mariotti, reg. D. Abbado Info: tcbo.it 7 Čajkovskij, Lo schiaccianoci; cor. Petipa 11 Dvořák, Brahms, Čajkovskij e a.; pf. Katia e Marielle Labèque 25 Kodály, Strauss, Beethoven; vl. C. Belcea, vlc. A. Lederlin, pf. M. Lifits 28 Classica Orchestra Afrobeat Info: auditoriumanzoni.it Bolzano Auditorium 26, 27 Haydn, Bach, Beethoven; dir. O. Dantone Teatro Comunale 15, 17 Berg, Lulu; dir. A. Negus, reg. D. Pountney Info: teatrocomunale.bolzano.it Brescia Teatro Grande 25 Rossini, Cherubini, Verdi; Filarmonica della Scala, dir. R. Chailly 27 Messiaen; Ensemble del Teatro Grande Info: teatrogrande.it C Catania Teatro Massimo Bellini 17, 18, 19, 20, 21, 23, 24 Paisiello, Fedra; dir. J. Correas, reg. A. Cigni 29, 30 Brahms, Sgambati; vl. G. Hosszu-Legocky, dir. F. Attardi Auditorium Manzoni Teatro Sangiorgi 4 Čajkovskij, Schubert; Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna, dir. M. Mariotti 26 Orlando di George Frideric Händel; dir. S. Fundarò, reg. M.P. Viano 27 Spettacolo dei Pupi; reg. E. Gimbo Info: teatromassimobellini.it Associazione musicale etnea Teatro Odeon 20 G.L. Ferretti Info: ame.ct.it Cernobbio Chiesa di San Vincenzo 15 Bach, Rodrigo, Damase e a.; arp. E. Volpato, marimba N. Vaiente Info: soconcerti.it Como Teatro Sociale 15 Taccani, Beethoven, Mendelssohn; Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano, dir. A. Lonquich Opera 10 Martucci, Beethoven, Skrjabin; pf. M. Vasil’evič Pletnëv, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, dir. J. Neschling 22, 24, 28 Poulenc, La voix humaine; Puccini, Suor Angelica; dir. X. Zhōng, reg. A. De Rosa 23, 26 Falla, El amor brujo; Granados, Goyescas; dir. G. García Calvo, reg. A. De Rosa 27 Ullmann, L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte; dir. R. Misto, reg. P.P. Pacini 29 Dvořák, Gershwin, Bernstein; pf. S. Bollani, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, dir. Z. Mehta 30 Prokof’ev, Mahler; v. Elio, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, dir. Z. Mehta Info: operadifirenze.it Amici della Musica Teatro della Pergola 9 Mozart, Beethoven, Haydn; pf. A. Schiff 10 Hahn, Debussy, Chopin e a.; pf. A. Lucchesini, vl. M. Rizzi, vlc. M. Brunello, v. M. Cassi 11 Schubert; pf. A. Lucchesini, vl. L. Borrani, vlc. M. Brunello 16 Schumann, Corea, Debussy e a.; pf. A. Lucchesini 17 Bartók, Beethoven; Quartetto Foné Genova Teatro Carlo Felice 2, 3 Puccini, La bohème; dir. G. Acquaviva, reg. E. Scola 15, 16, 17 Gengis Khan, cor. S. Sukbaatar 30, 31 Mozart, Don Giovanni; dir. C. Poppen, reg. R. Cucchi Info: carlofelicegenova.it L La Spezia Teatro Civico 26 Romitelli; chit. G. Impérial, Eutopia Ensemble Info: fondazionecarispezia.it Lucca Teatro del Giglio 4, 5 Verdi, Simon Boccanegra; dir. I. Lipanovic, reg. L.M. Mucci Info: teatrodelgiglio.it Lugano LAC 7 Mendelssohn, Weber; vl. I. Gringolts, dir. M. Poschner 16 Rachmaninov, Chopin; pf. D. Trifonov 22 Grieg, Mozart; pf. D. Trifonov, dir. D. Dodds 27 Bach, Debussy, Chopin, Ravel; pf. B. Rana Info: luganolac.ch verdi il trovatore Direttore NELLE SALE UCI CINEMAS, IN DIRETTA DALL’OPERA DI PARIGI: 11 FEBBRAIO 2016 Daniele Callegari Regia Àlex Ollé Anna Netrebko Ludovic Tézier Marcelo Àlvarez Ekaterina Semenchuk 120 Amadeus © Dario Acosta Fondation www.risingalternative.com www.facebook.com/risingalternative Oggi Mozart viaggerebbe con noi. 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Martineau 13, 17, 20, 22, 24, 29 Verdi, Rigoletto; dir. M. Franck, reg. G. Deflo 28, 30 Händel, Il trionfo del Tempo e del Disinganno; dir. D. Fasolis, reg. J. Flimm Info: teatroallascala.org laVerdi Auditorium Fondazione Cariplo 1 Beethoven; Orchestra laVerdi, dir. Z. Xian 7, 8, 10 Stravinskij, Prokof'ev; Orchestra laVerdi, dir. J. Bignamini 15, 17 Beethoven; Orchestra laVerdi, pf. e dir. D. Greilsammer 22, 24 Prokof'ev; Orchestra laVerdi, Coro G. Verdi, dir. G. Grazioli 28 Händel, Respighi, Massenet e a.; arp. E. Piva, M. Pettoni 30, 31 Schumann, Respighi, Čajkovskij; vl. L. Santaniello, Orchestra laVerdi, dir. O. Caetani Info: laverdi.org MUOVIAMO LE STELLE Museo del Novecento 17 Castiglioni; s. L. Catrani, pf. M.G. Bellocchio, Quartetto Xenia Info: divertimentoensemble.it Modena Teatro Comunale 10 Skrjabin, Chopin; pf. I. Kim 14, 15, 17 Mascagni, L’amico Fritz; CHLOE MUN 1° Premio 2015 CONCORSO PIANISTICO INTERNAZIONALE FERRUCCIO BUSONI “Ho riscoperto in lei una naturalezza musicale che credevo scomparsa.” JÖRG DEMUS Management: [email protected] dir. D. Renzetti, L. Nucci Società del Quartetto Conservatorio 12 Bach, Grieg, Mozart; pf. M. Pletnev 19 Mozart; Quartetto di Cremona Info: quartettomilano.it Milano Filarmonica della Scala Teatro alla Scala 17, 18 Pergolesi, Porpora, Stravinskij; a. D. Galou, mzs. R. Invernizzi, dir. O. Dantone Info: filarmonica.it Time Warp Travel - Via Pirandello 31/b [email protected] www.docservizi.it - Tel 045 493 73 78 Serate Musicali Conservatorio 11 Haydn, Mozart, Beethoven; pf. A. Schiff 18 vl. D. Nordio, pf. H. Fazzari 22 Franck, Borodin, Rachmaninov; vlc. A. Chausian. pf. E. Sudbin 25 pf. E. Virsaladze Info: seratemusicali.it Roberto Bolle, impegnato al Teatro alla Scala con Cinderella dal 3 I Pomeriggi Musicali Teatro Dal Verme 14, 16 Mendelssohn, Taccani, Beethoven; Orchestra I Pomeriggi Musicali, pf. e dir. A. Lonquich 21, 23 Gorini, Dvořák; vl. P. Berman, Orchestra I Pomeriggi Musicali, dir. S. Alapont 28, 30 Mendelssohn, Castelnuovo Tedesco e a.; chit. E. Segre, Orchestra I Pomeriggi Musicali, dir. G. Bellincampi Info: ipomeriggi.it San Fedele Musica Auditorium 18 Parmégiani; Videomapping A. Quinn, reg. G. Cospito e D. Tanzi Info: centrosanfedele.net Bocconi Musica Università 14 D. Bonuccelli e V. Maistorovici 28 Ravel, Chopin, Liszt; pf. A. Ullman Info: unibocconi.it Milano Classica Palazzina Liberty 10 Arriaga, Albéniz, Falla e a.; fl. L. Narcisi, Orchestra da Camera Milano Classica, dir. J. Escandell Vila 15 Beethoven; pf. V. Balzani 17 Singer, Maderna, Bach e a.; SIMC Ensemble, dir. M. Parolini 24 Mozart; pf. M. Fedrigotti, Orchestra da Camera Milano Classica, vlc. e dir. M. Scandelli 31 Mendelssohn; Le Cameriste Ambrosiane Info: orchestramilanoclassica.it 20 T come Turandot 22 Batsheva Dance Company 23 ADM Ensemble 24 Šostakovič, Adès; Quartetto Mirus, pf. M. Perrotta Info: teatrocomunalemodena.it N Napoli Teatro San Carlo 2, 3 Čajkovskij, Lo schiaccianoci; cor. M. Petipa 14 Poulenc, Bizet; pf. Katia & Marielle Labèque, dir. P. Fournillier 22, 23, 24, 26, 27, 28, 29, 30, 31 Lehár, La vedova allegra; dir. A. Eschwé, reg. F. Tiezzi Info: teatrosancarlo.it Liederìadi Fondazione Pietà de’ Turchini Palazzina Liberty Chiesa di San Rocco a Chiaia 10 Rossini, Petite Messe Solennelle; dir. M. Guadagnini Info: festival-liederiadi.it 30 Coro della Pietà de' Turchini, dir. D. Troìa Info: turchini.it Talenti al Tempio Tempio Valdese di Milano 30 Il Quartetto dell’Orchestra dei Popoli Info: musicaaltempio.it P Incontri Musicali Castello Sforzesco 24 dir. E. Citterio Info: fondazionemilano.eu Rondò 2016 Teatro Litta 26 Ghisi; Divertimento Ensemble Padova Amici della musica Auditorium Pollini 12 Schiavo, Beethoven; v. F. Dego, pf. F. Leonardi 22 Mozart, Beethoven, Schumann; pf. E. Virsaladze 26 Bruckner, Brahms; Quartetto Auryn, vla. M. Buchholz Info: amicimusicapadova.org Palermo Teatro Massimo 28, 31 Wagner, Götterdämmerung; dir. S.A. Reck, reg. G. Vick Prossima edizione: 61° Concorso Pianistico Internazionale FERRUCCIO BUSONI Bolzano – Bozen · 2016 – 2017 Preselezioni 03.08. – 09.08.2016 N U OVO IO R E P E RTO R N U OV E DATE Finali 22.08. – 01.09.2017 Iscrizioni entro il 01.05.2016 A partner of www.concorsobusoni.it 1° CONCORSO PIANISTICO “LA PALMA D’ORO” SAN BENEDETTO DEL TRONTO 20 - 22, Maggio 2016 PRESIDENTE DI GIURIA Riccardo Risaliti DIREZIONE ARTISTICA Lorenzo Di Bella SEZIONE A CATEGORIE | SEZIONE A 4 MANI PREMIO PIANISTICO NAZIONALE “LA PALMA D’ORO” 3 Donizetti; s. M. Devia, Orch. e Coro del Teatro Massimo, dir. F. Lanzillotta Info: teatromassimo.it Parma Altra Opera Teatro Regio 12, 15, 17, 19 Mozart, Le nozze di Figaro; dir. M. Beltrami, M. Martone 29 Bach, Beethoven, Schubert; pf. R. Buchbinder Info: teatroregioparma.it Pavia Teatro Fraschini 17 Dvořák, Brahms; vlc. M. Maisky, Orchestra della Svizzera italiana, dir. M. Poschner 29, 31 Puccini, La bohème; dir. G. Bisanti, reg. L. Muscato Info: teatrofraschini.it Pisa Teatro Verdi 12 Ligeti, Mahler; Orchestra della Toscana, dir. A. Fisch 21 Simoni, The Lyric Puppet Show; reg. S. Mecenate 30, 31 Verdi, Aida; dir. M. Boemi, reg. F. Zeffirelli Info: teatrodipisa.pi.it Pordenone Teatro Verdi 14 Shohat; dir. G. Shohat 20 Note di Jazz Info: comunalegiuseppeverdi.it R Ravenna Teatro Alighieri 9, 10 Mascagni, L’amico Fritz; dir. D. Renzetti, reg. L. Nucci 12 Gran Concerto d’Operetta 28 Orchestra Sinfonica G. Rossini, dir. D. Agiman Info: teatroalighieri.org CONTATTI Info artistiche: tel. +39 348 344 2958 Info organizzative: tel. +39 348 652 0772 Info & iscrizioni: [email protected] www.palmaoro.it sponsored by Eiffel Reggio Emilia 31 Beatles; Orchestra del Conservatorio di S. Cecilia, dir. R. Serio Info: teatroeliseo.com Teatro Municipale Valli 10 Schubert, Čajkovskij; Orchestra d’Archi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dir. L. Piovano 23 Bach; pf. P. De Maria 29, 31 Mozart, Le nozze di Figaro; dir. M. Beltrami, M. Martone Info: iteatri.re.it I Concerti della Cappella Paolina Palazzo del Quirinale 24 Caceres, Rossi, Lidarti; Ensemble Salomone Rossi Info: palazzo.quirinale.it Roma S Teatro dell'Opera 10 Xenakis, Prokof’ev, Beethoven; pf. F.F Guy, dir. A. Pérez 22, 23, 24, 26, 27, 28, 29 Rossini, La Cenerentola; dir. A. Pérez, reg. E. Dante 31 Donatoni, Beethoven, Sibelius; pf. S. Kim, dir. T. Ceccherini Info: operaroma.it Auditorium Parco della Musica 6 Ciampi; CentOrchestra, dir. G. Ciampi 13 Mozart, Grieg, Bach; pf. M. Pletnev 16, 18, 19 Bernstein, Barber, Adams; vl. G. Shaham, dir. A. Pappano 20 Rachmaninov, Schubert, Brahms; pf. D. Trifonov 23, 25, 26 Schönberg, Fauré, Debussy; dir. A. Pappano 27 Toscanini: Il coraggio della musica; Filarmonica Arturo Toscanini, dir. Y. Levi 30 Glazunov, Šostakovič, Rachmaninov; vl. A. Tifu, dir. Y. Temirkanov 31 Glazunov, Rachmaninov; dir. Y. Temirkanov Info: auditorium.com IUC Aula Magna Università Sapienza 12 Berg, Ravel, Debussy e a.; pf. O. Sciortino 16 Dvořák, Schumann, Webern; vl. I. Gringolts, pf. P. Laul 23 Schumann, Liszt, Sciarrino e a.; pf. E. Arciuli 15 Mozart, R. Strauss; v. P. Servillo, Ensemble Berlin Info: concertiiuc.it Siena Micat in Vertice Luoghi vari 16 Debussy, Berio, Boccadoro e a.; The Pianos Trio 23 Bartók, Beethoven; vl. T. Baviera, A. Franchin, vla. S. Dambruoso, vlc. T. Tesini 29 Scarlatti, Bach, Beethoven e a.; pf. A. Hewitt Info: chigiana.it Anna Tifu, in concerto all'Auditorium Parco della Musica di Roma il 30, dirige Yuri Temirkanov T Torino Accademia Filarmonica Romana Luoghi vari 14 Castiglioni, Betta, Galante; cl. S. Framarin, pf. A. Alberti 21 Vivaldi, Bach, Bonporti; Ensemble l’Estravagante 28 The Jazz Connection Sextet Info: filarmonicaromana.org È Musica Eliseo Teatro Eliseo 6 Cipriani, Morricone, Rota; Cecilia Wind Orchestra, dir. N. Narduzzi 10 Rota, Piovani, Di Pofi e a.; I Solisti del Conservatorio di S. Cecilia, dir. A. Di Pofi 17 Rodrigo, Beethoven; chit. A. De Vitis, Orchestra del Conservatorio di S. Cecilia, dir. C. Patané 24 Gershwin, Bernstein, Webber; Orchestra del Conservatorio di S. Cecilia, dir. T. Battista Teatro Regio 19, 20, 23, 24, 26 Janáček, La piccola volpe astuta; dir. J. Latham-Koenig, reg. R. Carsen 22 Janáček, Dvořák; vlc. M. Brunello, dir. J. Latham-Koenig Info: teatroregio.torino.it Filarmonica Teatro Vittoria 10 Françaix, Gounod, Jacob e a.; fl. G. Pretto Conservatorio 12 Françaix, Gounod, Jacob e a.; fl. G. Pretto Info: oft.it Polincontri Classica Politecnico 11 Bach, Beethoven, Prokof’ev; vl. C. Conrado, pf. A. Valentino 18 Orchestra della Brigata Alpina Taurinense Info: policlassica.polito.it Treviso TVCINEMACINEMATVTVCINEMACINEMATV Teatro Comunale CAMPI SONORI IN COFANETTO CD La storica collana dedicata agli autori italiani contemporanei 4 CD, 24 brani di 15 autori dal catalogo Curci, un booklet con le biografie dei musicisti e la guida all’ascolto. I Compositori presenti nel cofanetto sono: Morricone, Manzoni, Solbiati, Bettinelli, Chailly, Di Bari, Mannino, Oppo, Bo, Cardi, Piacentini, Fellegara, Ravinale, Semini, Molino. I brani sono anche acquistabili come spartiti con allegato il CD. Il progetto continua, con un brano di Cifariello Ciardi (Buleria a quattro) scaricabile su iTunes. 16 s. C. Forte, pf. M. Baglini 27, 29, 31 Rossini, L’italiana in Algeri; dir. F. Ommassini, reg. G. Emiliani Info: teatrispa.it CINEMA Doppio appuntamento nel mese di gennaio nelle sale UCI Cinemas. Si parte il 24 con La bisbetica domata, live da Mosca (distribuzione Nexo Digital). Molti pretendenti sognano di sposare la deliziosa e docile Bianca, incluso Lucenzio. Ma il padre di Bianca metterà i bastoni tra le ruote, dovendo fare i conti anche con la sorella maggiore, l’irritabile bisbetica Katherina. Musica di Dmitri Šostakovič, coreografia di Jean-Christophe Maillot, con il corpo di ballo e le Étoiles del Teatro Bol’šoj. Si prosegue il 26 con Rapsodia e I due piccioni, (distribuzione QMI). La musica cupa, conturbante e geniale di Rachmaninov è in grado di ispirare alcune fra le coreografie più emozionanti di Frederick Ashton per un balletto acuto, appassionato, sublime, che rappresenta l’apice del suo stile romantico. La seconda metà dello spettacolo è costituita dal delicato, e apparentemente comico, I due piccioni, un lavoro raramente rappresentato, una delizia per i fan del balletto di tutto il mondo. Info: ucicinemas.it Trieste Teatro Verdi 29, 30, 31 Bellini, Norma; dir. F.M. Carminati, reg. F. Tiezzi Info: teatroverdi-trieste.com Conservatorio 11 Widor, Giseking, Schulhoff; fl. L. Trufelli, pf. I. Cognolato 12 Jam Sessions 18 Hatze, Berg, Rachmaninov; s. A. Tomisic, pf. S. Masseroli Mazurkiewicz 25 Brahms, Barison, Ravel; vl. F. Falasca, pf. L. Cossi Info: conts.it Società dei Concerti Teatro Verdi 13 Mendelssohn; pf. R. Prosseda 20 Mozart, Scrjabin; pf. F. Colli Info: societadeiconcerti.it V Venezia Teatro La Fenice 1 Concerto di Capodanno, dir. J. Conlon 8 Brahms, Čajkovskij; Orchestra Filarmonica della Fenice, dir. O. Meir Wellber 11 Schubert, Beethoven; Quartetto Noûs 22, 24, 28, 30 Verdi, Stiffelio; dir. D. Rustioni, reg. J. Weigand 29 Verdi, La traviata; dir. D. Rustioni, reg. R. Carsen Il Faust di Gounod per la regia di David McVicar su Classica HD il 12 Cristina Zavalloni, il 25 al Teatro Comunale di Vicenza con I Fiati associati TELEVISIONE Classica HD (Sky 138) offre anche in gennaio un ricco calendario di appuntamenti: il 14 una serata dedicata a Diana Damrau, per molti “il miglior soprano del mondo”. Un documentario tutto al femminile, girato dalla film-maker Beatrix Konrd. Il pipistrello di Strauss sarà trasmesso il 19, con la leggendaria direzione di Carlos Kleiber e un cast d’eccezione: Brigitte Fassbaender, Pamela Coburn e Eberhard Wächter. Il 12 protagonista il mito di Faust (Gounod) con la nuova produzione del Covent Garden di Londra firmata da David McVicar ed Evelino Pidò. Protagonista Vittorio Grigolo. Il 27 omaggio per il Giorno della Memoria: Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg e, a seguire, la sublime interpretazione di Leonard Bernstein del Requiem di Mozart. Info: classica.tv . Su Rai5 da non perdere il 1 alle 21,15 la trasmissione in differita del Concerto di Capodanno dal Musikverein di Vienna: a dirigere i Wiener quest'anno è Mariss Jansons (live su Rai2 alle 13,30) e il 7 (ore 21.15) la diretta del concerto dell’Orchestra Rai con il direttore James Conlon. Info: rai5.rai.it Verona Teatro Filarmonico 9, 10 Mozart, Schubert, Beethoven; 16, 17 Čajkovskij, Liszt; dir. e reg. V. Bresciani 31 Rossini, La Cenerentola; dir. S. Rolli, reg. P. Panizza Info: arena.it Vicenza Teatro Comunale 9 Beethoven; Hèsperos Piano Trio 18 Haydn, Veress, Schubert; Orchestra del Teatro Olimpico, vlc. e dir. N. Altstaedt 25 I Fiati associati, v. C. Zavalloni 30, 31 Čajkovskij, Lo schiaccianoci; cor. Petipa Info: tcvi.it Teatro Malibran 23, 26, 31 Hazon, Agenzia matrimoniale; Wolf-Ferrari, Il segreto di Susanna; dir. E. Calesso, reg. B. Morassi Info: teatrolafenice.it Acquistabile in digital download su iTunes, Mondadori Shop, Nokia Music Store, Halidon; in e-commerce (spedizione a casa) su Halidon, Ibs e Ebay e presso i negozi: Fnac, Feltrinelli, Mondadori, Bottega Discantica (MI), Bongiovanni (BO), Gabbia (PD), Allegretto (RM), Le Fenice (FI). 127Amadeus www.proradiotv.com “Il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava udì la musica e le danze.” Bel Vivere S.r.l. Redazione, Amministrazione e Ufficio Pubblicità Via Lanzone 31, 20123 Milano tel. 02 4816353, fax 02 4818968 e-mail: [email protected] P.IVA 08567100964-CCIAA Milano 2034091 Gaetano Santangelo Direttore responsabile [email protected] Paola Molfino Caporedattore [email protected] PUBBLICITÀ amadeusonline.net Collaborazione redazionale Massimo Rolando Zegna [email protected] IL DISCO E IL DOWNLOAD Andrea Milanesi Responsabile artistico [email protected] GRAFICA E IMPAGINAZIONE Dario Codognato - Ivana Tortella [email protected] redazione.amadeus@ belviveremedia.com Progetto grafico Maurizio Bignotti con la collaborazione di Elisabetta Mancini Hanno collaborato: Claudia Abbiati, Valentina Bonelli, Antonio Brena, Alessandro Cannavò, Alberto Cantù, Federico Capitoni, Valerio Cappelli, Paolo Cattelan, Franca Cella, Guy Cherqui, Michele dall'Ongaro, Carlo Delfrati, Luigi Di Fronzo, Pietro Dossena, Franco Fayenz, Cesare Fertonani, Paolo Gallarati, Giovanni Gavazzeni, Flaminio Gualdoni, Giuseppina La Face Bianconi, Ambrogio Maestri, Gianluigi Mattietti, Piero Mioli, Giordano Montecchi, Gregorio Moppi, Francesca Mulas, Ettore Napoli, Giorgio Pestelli, Paolo Petazzi, Gianfranco Ravasi, Marco Riboni, Emilio Sala, Andrea Schenardi, Luisa Sclocchis, Giuseppe Scuri, Nicoletta Sguben, Edoardo Tomaselli, Ida Zicari Fotografie: Wilfredo Amayal (90, 91); Hermann und Clärchen Baus Staatsoper Berlin (39); Marco Brescia/Teatro alla Scala (48, 70); Felix Broede (69); Conservatorio di Milano (89); Luigi Caputo (61); Rocco Casaluci (39, 49); Marco Caselli Nirmal (51); Michele Crosera/Teatro La Fenice (48); Barbara Dal Porto (76, 77); Decca (55, 56); Paolo Didonè (75); Richard Egli (83); Filarmonica della Scala/Luca Piva (51); IceMusic-GraemeRichardson (6, 7, 8, 9); Frederic Godard (41); Mat Hennek (42); Yasuko Kageyama-Opera Roma (50); Luca Piva/ Filarmonica Scala (51); Bruno Pulici (20, 21, 23, 27, 30); Quartetto Italiano/Decca (55); Roh/Clive Barda (63); Roh/Catherine Ashmore (63); Rota (47); Sony Classical / Julien Mignot (35, 37); Francesco Squeglia (40); Priamo Tolu (49); John Tramper (60, 61); Bernd Uhlig/ Opéra national de Paris (49) Illustrazioni: Jolanda Codognato (96); Nadia Cumbo (89) (Luca 15, 25) AMADEUSONLINE.NET Riccardo Santangelo [email protected] Bel Vivere S.r.l. Simona Riva [email protected] tel. 02 4816353 - 347 8175905 ABBONAMENTI (Italia ed Estero) www.amadeusonline.net/abbonamento [email protected] Oppure: (lu-ve 9.00/13.00-14.00/18.00) tel. 02 252007200 fax: 02 252007333 e-mail: [email protected] www.miabbono.com ARRETRATI Per richiedere gli arretrati telefonare al n. 02 4816353 (lu-ve 9.00/13.00-14.00/18.00) email: [email protected] facebook.com/ Amadeus.Rivista Potete effettuare acquisti collegandovi al sito www.shop.amadeusonline.net STAMPA twitter.com/ AmadeusOnlineIT TECNOSTAMPA S.R.L. Via Brecce, 60025 Loreto (AN) Distributore esclusivo per l'Italia SO.DI.P. Spa via Bettola, 18, 20092 Cinisello Balsamo (Milano) Periodico registrato al Tribunale di Milano 186/19-03-1990 Frequenza principale: FM 94.8 Radio Marconi è l’unica che ti garantisce ogni giorno 12 ore di musica classica di facile ascolto, pensata solo per rilassare e divertire. Un flusso di note che accompagna le ore del riposo. Un’isola sonora per fuggire dal rumore della città. 128 Amadeus www.radiomarconi.info PAROLA E MUSICA LA CONVERSAZIONE Nessuno vi offre sport & benessere come noi Paolo Giordano Da ragazzo una chitarra elettrica, oggi Pärt, Glass, Ligeti, Reich come pure Barber e Britten. Uno scrittore racconta la "sua" musica È laureato in fisica teorica e i calcoli matematici hanno certo ispirato il suo romanzo più celebre, La solitudine dei numeri primi. Eppure Paolo Giordano ha sempre ignorato della musica quell’aspetto, pur incontestabile, di scienza esatta. «I numeri e le simmetrie mi sono sempre piaciuti, ma per la musica preferisco una chiave di lettura emotiva». Torinese, 33 anni, Giordano è cresciuto in un ambiente borghese (il padre ginecologo, la madre insegnante) in cui la musica in qualche modo aveva il suo posticino. «Ma in modo non sistematico e non certo con passione da parte mia per lo studio», ammette. «Mia sorella suonava il pianoforte; io, forse anche per divincolarmi più velocemente dagli obblighi delle esercitazioni, ho imbracciato la chitarra dai 7 ai 16 anni. Ma oggi non saprei letteralmente suonare niente!». Il papà, invece, “invadeva” la casa con le note della classica. Poi a un certo punto mise le cuffie. «E quando io cominciai la mia fase adolescenziale con la predilezione per la musica “rumorosa”, dagli assoli catatonici di chitarra elettrica al metal più spinto, lui ogni tanto socchiudeva la porta della mia camera da letto e chiedeva: “chi è che si lamenta oggi?”». Dichiarata la sua distanza dalla conoscenza musicale, Giordano può esprimere il suo sconfinato amore per la musica. «Ho cominciato a godermela proprio quando ho deposto l’idea di diventare un giorno musicista. E ho scoperto negli autori della musica colta contemporanea un mezzo di elevazione di sensibilità, di ispirazione per il mio lavoro di scrittore. Ascolto Arvo Pärt, Philip 130 Amadeus Glass, Gyorgy Ligeti, Steve Reich: tutto un mondo che peraltro ha influenzato la musica elettronica». Rarefazione, ossessione, spiritualità: sono gli elementi che Giordano coglie nei compositori che lo accompagnano nella scrittura. Come quando si immerse nella trama del suo secondo romanzo Il corpo umano, storia di rapporti tra soldati e soldatesse italiani ventenni catapultati nello scenario infernale e allo stesso tempo metafisico dell’Afghanistan. «In quel periodo ascoltavo in maniera paranoica l’Adagio di Barber, che peraltro è anche nella colonna sonora di un film come Platoon; o anche il War Requiem di Britten. Oltre naturalmente a un po’ di metal. Per me scrivere è sempre un impegno, talvolta una sofferenza. In certe giornate in cui resti anche ore davanti a un foglio vuoto, la musica è un buon distrattore e aiuta l’immaginazione attiva». La solitudine dei numeri primi lo proiettò, poco più che ventenne, a un successo internazionale (due milioni di copie vendute nel mondo). Si è sentito Giordano simile a certi geni precoci della musica come Mozart o Schubert? «Mi ritengo totalmente fuori dall’idea del giovane genio, come lo erano effettivamente Mozart o Carl Friedrich Gauss a cui si deve la matematica dell’era moderna. Il fatto è che l’exploit di un ventenne risulta fuori dagli standard di una società che frena in molti campi, tra cui l’arte, l’espressione e il riconoscimento dei giovani talenti. Detto questo, c’è qualcosa di irripetibile che si produce nei tuoi vent’anni: ed è la spregiudicatezza di quell’età, la mancanza di sovrastrutture che andando avanti nel tempo inevitabilmente acquisisci. Da quella vitalità libera possono nascere i capolavori. Ecco, la musica è un mezzo potente che mi fa tornare a quella dimensione. Ai miei vent’anni...». di Alessandro Cannavò [email protected] I nostri Club pluripremiati vi offrono un mondo di sport & benessere che dura una vita. 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