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Daniele
Rizzo
ottobre 14, 2015
Al Festival Verdi, la prima volta di Lenz è Verdi Re Lear,
l’impossibile omaggio al cigno di Busseto.
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È una (discutibile) convenzione ormai canonicamente accettata quella che
segna nell’età risorgimentale della seconda metà del XIX secolo l’avvio
della Storia d’Italia con le ideologie di patria e nazione, i movimenti di
popoli e di idee, le circolazioni di merci e persone indiscusse protagoniste
dei discorsi di storici, intellettuali e politici.
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Al club dei padri si iscrive necessariamente Giuseppe Verdi, tra i
compositori più grandi di sempre, maestro di livello internazionale per
tecnica ed eleganza esecutiva, nonché incarnazione – non a caso al pari di
Alessandro Manzoni – dello Spirito di una nazione, la cui identità culturale
e sociale si palesò da subito tanto problematica, quanto con quella
innaturale ovvietà che, come tutte le imposizioni dall’alto, fu figlia di
necessità politiche volte incoerentemente e/o paternalisticamente al bene
comune, essendo in realtà espressione del blocco storico ormai dominante
(la borghesia).
Con un drammatico ribaltamento di priorità (in primis l’Italia, poi gli
italiani), l’Unità fu, soprattutto a livello popolare, vissuta quale dominio da
parte di chi pensava che, «fatta l’Italia, fare gli italiani» fosse una sorta di
mission laica (Mazzini), economica (Cavour) o religiosa (Manzoni), così
edificando il primato storico dell’essenza sull’esistenza, del dover essere
sull’essere autenticamente.
Disvelando – attraverso l’arte – il complesso rapporto tra normalità e
diversità, tra cultura e potere, tra norma e rivoluzione, quella antinomia si
destruttura sul solco delle analisi di Lenz delle origini della nostra cultura,
il cui conformismo (reale e drammaturgico) ha ridotto al soliloquio un
intero mondo di shakespearean fools ritenuto non funzionale ai
meccanismi e ai dispositivi di produzione e omologazione. Sfuggendo a
ogni tentazione di caduta estremistica e compensandosi in un fantastico
equilibrio tra ricerca estetica ed analitica esistenziale, quello raggiunto da
Francesco Pititto e Maria Federica Maestri è un compiuto formalismo.
Audace nello spingersi oltre, cosciente nel fissare la propria direzione
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drammaturgica e sempre mirabile nel restituire capolavori della cultura
nazionalpopolare in vesti rinnovate e perfettamente aderenti, lo abbiamo
ammirato da I Promessi Sposi all’Adelchi, fino a Il Furioso (da Ludovico
Ariosto), esemplari diversamente modulati di una poetica in grado di
sfoggiare vertici assoluti in termini di esperienza e qualità attorale,
registica e scenica.
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Da tali premesse archeologiche (culturali e teatrali), ma con un inedito
privilegio accordato alla resa estetica, prende corpo Verdi Re Lear –
L’Opera che non c’è, ambizioso progetto volto alla realizzazione di ciò
che rimase incompiuto, dunque non esistente e impossibile da porre
definitivamente di fronte agli occhi: l’opera di Giuseppe Verdi «mai
musicata e di cui esiste solo il libretto di Antonio Somma contenente le
correzioni dello stesso compositore».
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La dimensione itinerante – che, per esempio, ne I Promessi Sposi
costituiva la declinazione immersiva attraverso cui dare corpo alla
responsabilità del pubblico – viene spezzata senza essere interrotta, resa
anch’essa incompiuta perché affidata alla centralità della prospettiva di
visione e confinata al momento di cambio di sala tra il primo e il secondo
atto, la cui successione diacronica puramente casuale (a sorteggio)
scardina aprioristicamente ogni aspettativa e intreccio narrativo.
Due allestimenti nell’allestimento, dunque, che, grandiosi nell’intenzione e
titanici nella realizzazione, hanno visto la splendida collaborazione del
Conservatorio di Musica A. Boito di Parma con la consulenza musicale di
Carla Delfrate, quella al canto di Donatella Saccardi, e la partecipazione di
eccellenti cantanti lirici.
Ad accogliere i due gruppi di spettatori sono cast e scenografie diverse. I
primi – pur nella diversità tra gli atti – sono abitanti erranti di un mondo cui
sono con-segnati per inscenare «la materialità dei corpi che, dialogando
con l’immaterialità dell’immagine, genera un’immagine-sogno», realistici
brandelli del rapporto asintotico tra libertà e dovere, tra ragione e follia,
tra naufragio dell’ego e deriva dei sentimenti, ovvero di quella tragedia
dell’eccesso e dell’eccedenza che fu il King Lear del Bardo. Le seconde,
entrambe poste oltre «velari trasparenti» su cui – a seconda della sala – si
vedranno agire corpi e volti in proiezione, colpiscono per la diversità e
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l’efficacia dell’impatto visivo, ma, forse e ancor di più vista la commistione
di sensibilità in scena, per la comune capacità di concorrere alla
costruzione di una tipica veste operistica povera, condividendo tale merito
con la densità sonora delle rivisitazioni verdiane di Scanner, strabilianti per
come riescono letteralmente a vestire i volti e le interpretazioni di
differenti tonalità caratteriali e drammatiche.
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Una rappresentazione, allora, «impassibile e si divide, si sdoppia, senza
rompersi, senza agire, né patire» (Gilles Deleuze, Logica del senso), che,
nonostante una diversa impressione di omogeneità, dalle strepitose
geometrie e coralità della Sala Est all’intensità plastica a tratti calante
della Sala Majakovskij, si pone in sublime coerenza con il progetto di Lenz
Fondazione, testimoniando in pieno la forza, l’urgenza e la potenzialità
dell’arte quale strumento espressivo e contesto non coercitivo in cui
lasciare che ognuno possa realmente affermare «diventa ciò che sei».
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Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Verdi:
Lenz Teatro
via Pasubio 3/e, Parma Italy
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Verdi Re Lear
da Re Lear di Somma-Verdi prima versione con le varianti e King
Lear di William Shakespeare
ricerca, drammaturgia e imagoturgia, regia Francesco Pititto
music + live electronics Robin Rimbaud aka Scanner
installazioni e costumi Maria Federica Maestri
consulenza musicale M° Carla Delfrate
consulente al canto Prof. Donatella Saccardi
con Rocco Caccavari, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Carlo Destro,
Paolo Pediri
performer Valentina Barbarini – Cordelia/Delia, Barbara Voghera –
Fool/Mica, Giuseppe Barigazzi – Lear in immagine
cantanti Haruka Takahashi – Regan/Regana soprano, Ekaterina
Chekmareva – Goneril/Gonerilla mezzosoprano
Gaetano Vinciguerra – doppio Lear baritono, Lorenzo Bonomi –
doppio Lear/Edgar/Edgardo baritono
Andrea Pellegrini – doppio Lear basso, Adriano Gramigni – Gloucester
basso
voce over Rocco Caccavari
cura Elena Sorbi
organizzazione Ilaria Stocchi
comunicazione Violetta Fulchiati
ufficio stampa Michele Pascarella
direzione tecnica Alice Scartapacchio
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assistente alla regia Valeria Borelli
équipe tecnica Gianluca Bergamini, Gianluca Losi, Stefano Glielmi,
Marco Cavellini
produzione Lenz Fondazione
in collaborazione con il Conservatorio di Musica A. Boito di Parma
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