Guida alla Romagna di Secondo Casadei

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Gianfranco Miro Gori
Guida alla Romagna
di Secondo Casadei
Maggio 2002
Edizione digitale: settembre 2014
ISBN digitale: 978-88-7472-241-9
Le fotografie sono state gentilmente concesse da Riccarda Casadei
Copertina di Enzo Grassi
© 2002 Panozzo Editore, Rimini - via Clodia, 25 - tel. e fax 0541/24580
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Da rimpiangere c’è poco, però…
Per fortuna siamo diversi. Anzi, in passato lo eravamo
molto di più: una volta c’era il “popolo”, ed ogni regione
italiana era contraddistinta e caratterizzata da modi di
vivere peculiari, che facevano leva soprattutto sul patrimonio umano di quella classe che potremmo chiamare – se
non fossimo pieni di imbarazzo politico – proletariato.
Oggi grazie al cielo (e al lavoro degli uomini) abbiamo
tutti un piede nel benessere, viviamo certamente meglio.
C’è poco da rimpiangere. I tempi della miseria e del lavoro duro, e manuale, li abbiamo lasciati provvidenzialmente alle spalle. Eppure, a volte – non dite di no – ci soffermiamo a ricordare e a rivivere con un certo struggimento
le espressioni più calde della vita popolare di un tempo.
Può bastare veder riapparire in televisione la mimica di
Totò, o entrare in un bar di periferia mentre un gruppetto
di avventori surriscaldati commenta in dialetto la tradizionale partitella a carte… È come se avvertissimo una
vampata di affetto e nostalgia, e fossimo avvolti improvvisamente da un calore rilassante: è un mondo che aveva
degli aspetti coinvolgenti. C’era una vita più spontanea e
sincera, che sgorgava come acqua limpida da quelle esistenze intrecciate fra loro molto di più di quanto capiti alle
persone oggi.
Era bello il “popolo di Romagna”, come quello napoletano o toscano (tanto per citare quelli più illustri).
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Attenzione, però, non tutto è finito. Anche se stiamo cambiando, trasformandoci rapidamente in qualcosa che nessuno sa bene come definire, rimane tra di noi la ricchezza
umana di quel mondo più schietto e più cordiale. Basta
saperlo vedere o andarlo a cercare. In fondo è proprio questo l’obiettivo della presente guida.
Vorrei, però, chiarire subito quel problema di fondo,
che un po’ ci angustia: se io dico o scrivo “popolo di
Romagna”, voi – siate sinceri – pensate subito al personaggio Mussolini, alla sua demagogia, alla sua retorica, ma
soprattutto alle sue origini romagnole. A voler essere onesti bisogna ammettere che anche lui è figlio di questa terra,
in tutti i sensi. Ne ha assimilato, però, lasciatemelo dire,
più i vizi che le virtù. La strada che lui ha tracciato e sulla
quale ha condotto, con la forza, il popolo italiano si è rivelata massimamente nefasta. In Romagna, il popolo aveva
intravisto un’altra via, un’altra soluzione, per risolvere i
propri problemi.
E nel corso dello scorso secolo, durante quel ’900 pieno
di vicende drammatiche, riuscì a trovare una propria via
d’uscita, superando le dure condizioni di vita alle quali era
sempre stato soggetto. Non ci fu bisogno di rivoluzioni; il
popolo romagnolo aveva dentro di sé quelle capacità necessarie ad approdare ad una vita migliore. Estroverso e cordiale, laborioso e coraggioso, si buttò a capofitto nella
mischia delle attività economiche; e, senza capitali, sfruttò
il vento favorevole: costruì dal nulla piccoli alberghi, chioschi e trattorie, cooperative e officine dalle dimensioni
ridotte, negozi e locali da ballo… Senza paura del mondo,
i romagnoli andarono incontro agli altri con il sorriso sulle
labbra. Fu un successo a tutti i livelli, e in pochi anni la
Romagna debellò la miseria. E c’è un personaggio, tra
quelli famosi in questa regione, che interpreta alla perfezione questo cammino verso l’emancipazione. Non si trat6
1927. Quartetto Casadei. Agli albori del turismo nella piccola località di Gatteo Mare. La musica popolare romagnola conquista uno
spazio nei luoghi della vacanza. Come aveva fatto a suo tempo Zaclèn
aprendo il “capannone” Brighi a Bellaria, Secondo Casadei porta la
sua musica, oltre che nei tradizionali luoghi dell’interno, le aie e i
cosiddetti cambaréun (alla lettera cameroni), anche sulla riviera.
ta né di Giovanni Pascoli, né di Federico Fellini, né di
altri illustri romagnoli, che di strada ne hanno fatta tanta
ma che non affondano le proprie origine nel proletariato,
povero e campagnolo, della Romagna d’un tempo.
Quest’uomo è Secondo Casadei, nato a Sant’Angelo di
Gatteo, figlio di un sarto di campagna, che di casa colonica in casa colonica, andava a cucire vestiti per le famiglie
contadine; un ragazzino con l’argento vivo addosso, che si
ribellò a modo suo a quella vita senza respiro e senza scuola; incominciò con tanto entusiasmo a suonare, con tanta
tenacia a frequentare lezioni di musica, ad allietare le serate nelle più sperdute balere; a soli 22 anni, nel 1928, riuscirà a costituire la sua prima orchestrina. Inizia, così, la
sua irresistibile ascesa, come compositore di famose canzoni, anche in dialetto, e come imprenditore musicale.
Costruisce per sé, e per tanti altri, una fortuna economica
e un lavoro gratificante. Ha interpretato, meglio di chiunque altro, la voglia di vivere e di ballare dei romagnoli.
Ma, soprattutto, ha scritto la colonna sonora di un’epopea
popolare, vittoriosa, che lo vedeva protagonista a fianco
degli altri romagnoli come lui, spalla a spalla. E insieme ce
l’hanno fatta.
A loro vorrei dedicare questa guida, scritta da Miro
Gori, un romagnolo d’oggi, un esperto della nostra storia;
tra l’altro favorito dalle sue origini; ci tiene, Miro, a ricordare che è nato a San Mauro Pascoli e che la sua casa aveva
due porte: una dava sulla piazza del paese e l’altra, nel
retro, sulla campagna del Rio Salto, mezzadri, poderi,
pioppi…
Buona lettura!
Giovannino Montanari
Montanari Tour - Rimini
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Il lungo viaggio di una “casetta”
A proposito di Romagna mia
È il 1954. E in Italia, qua e là, cominciano a manifestarsi i segnali del “boom economico” imminente. La televisione inizia a trasmettere programmi regolari: quei programmi che cambieranno, in pochi anni, lo stile di vita
degli italiani. Nelle strade imperversano ormai gli scooter.
Nelle case compaiono i primi elettrodomestici. Di lì a
poco la FIAT lancerà la 600; e lo Stato il piano di costruzione delle autostrade che trasformerà il paesaggio nazionale. Nell’Italia del nord una “rivoluzione” è prossima: il
passaggio, in breve tempo, dall’agricoltura all’industria.
Secondo Casadei, figlio del popolo e genuino cantore
della Romagna contadina e preindustriale, ha quarantotto anni. Interprete sommo, per tutti gli anni trenta, della
musica romagnola, non riscuote più il successo di una
volta. Adesso, forse, teme di non riuscire a dare risposte
musicali adeguate ai tempi che cambiano. Intravede,
forse, il “viale del tramonto” come recita il titolo di quel
famoso film che aveva inaugurato il decennio. Ma la
resurrezione è proprio là dove lui non s’aspetta.
È in un giorno, non precisato, di quel 1954 che
Secondo Casadei va a casa di suo cognato Emilio per fargli ascoltare un pezzo. E subito dopo un altro. Aveva l’abitudine di consultare gli amici, prima di decidere cosa
incidere o eseguire. Emilio, senza esitare, gli dice che preferisce il secondo. Lui gli dà ragione. Sceglie il brano che
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al cognato pareva più bello. Si trattava di Romagna mia.
Più di una volta, in seguito, Secondo Casadei ripeté
ai suoi orchestrali che era stato suo cognato a sostenere
che era migliore questa canzone. A lui piaceva di più
quell’altra.
Così, a detta del cognato di Casadei, marito di sua
sorella Angela o più affettuosamente Angelina, nacque
quella famosa e fortunata canzone. Canzone? una parola “modesta” che non ne restituisce appieno il valore
musicale e sociale.
Diversa. Più dettagliata, narrativa e suggestiva, la versione del nipote Raoul. Confermata dalla figlia Riccarda.
«Fu una canzone – racconta Raoul – che scrisse interamente lui, melodia e parole, senza collaboratori. Doveva
entrare in sala d’incisione per fare un disco. Ma invece
dei tradizionali dodici brani richiesti, ne aveva portato
un altro di scorta, che aveva lì da qualche anno e si chiamava Casetta mia; lo aveva dedicato alla sua casa di
Gatteo Mare. Un brano che teneva in panchina perché
non ci credeva molto. Guarda i casi della vita! Quella
volta va a ammalarsi un elemento dell’orchestra che
doveva sostenere l’assolo in un brano da incidere, e allora mio zio dovette tirar fuori Casetta mia. Il maestro
Dino Olivieri – quello di Tornerai – che era un dirigente
della casa discografica, La voce del padrone di Milano,
gli dice: ‘Casadei, perché Casetta mia? Lei è un romagnolo purosangue, la chiami Romagna mia’. Mio zio
rimase folgorato: cambiò lì per lì qualche parola, in sala
d’incisione, e nacque il pezzo».
Pezzo. Canzone. Inno. Potrà sembrare pomposo e
vagamente – neanche tanto – retorico: la retorica, si sa, è
una componente non secondaria del (presunto) carattere romagnolo. Eppure sono in molti, qui e altrove, a considerarlo tale.
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Nell’ottocento – secondo la testimonianza di un autorevole letterato, Alfredo Panzini, romagnolo d’elezione
se non di nascita – i romagnoli, quelli ch’erano capaci di
leggere (e non erano tanti), avevano un libro prediletto:
I miserabili di Victor Hugo. Che toccava i loro cuori. Li
riempiva di passione. Nel novecento, appena consumato, i romagnoli, quelli che cantano e ballano, cioè secondo un’idea diffusa tutti quanti, due inni: Bella ciao e
Romagna mia. Che toccano i loro cuori. Li colmano di
passione.
«Sento la nostalgia d’un passato / ove la mamma mia
ho lasciato. / Non ti potrò scordar casetta mia, / in questa notte stellata / la mia serenata io canto per te. //
Romagna mia, Romagna in fiore, / tu sei la stella, tu sei
l’amore. / Quando ti penso, vorrei tornare / dalla mia
bella al casolare. // Romagna, Romagna mia, / lontan da
te non si può star!»
Spiegarne il successo presso i romagnoli non è difficile. Anzitutto parla di loro. La mamma. La morosa.
Parole universali che qui si appesantiscono o si esaltano
– dipende dai punti di vista – di un sovrappiù di sentimento. Ma soprattutto parla al loro lato triste e introverso. Che è il perfetto corrispettivo di una “natura”
socievole e festaiola. E lo fa attraverso un particolare
sentimento che è citato nella prima strofa della canzone:
la nostalgia. Una parola di origine colta che però e d’uso
diffuso e comune (tant’è vero che lo stesso Casadei la
infila nella sua canzone più popolare; e nessuno batte
ciglio). Tutti ne conosciamo, a un dipresso, il senso. È
stata coniata, se ben ricordo, in epoca moderna per i soldati mercenari lontani dalla patria. Deriva dal greco.
Dall’unione delle parole nostos (ritorno) e algos (dolore).
Dunque: dolore per il ritorno: per il desiderio di ritornare. La Romagna, per chi non lo sapesse, è stata, fino a
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non troppi lustri fa, una regione di poveracci e di emigranti. Al sud e al nord. Nelle paludi malariche
dell’Italia centrale. Nelle miniere della ricca Europa settentrionale... E per un romagnolo, dato il suo attaccamento alle radici, emigrare è un’autentica tragedia.
«Vuole la sua terra, sente il sapore della sua terra, come
sente il sapore della piada – annota ancora Panzini, non
senza una quota di retorica – intrisa col suo grano,
abbrustolita sul testo». Come non ricordare quel grande
interprete della Romagna che fu Giovanni Pascoli. I suoi
versi che trasudano nostalgia per la “Romagna solatia,
dolce paese”.
«Sempre un villaggio, sempre una campagna / mi
ride il cuore (o piange), Severino: / il paese ove, andando, ci accompagna / l’azzurra vision di San Marino: //
sempre mi torna al cuore il mio paese / cui regnarono
Guidi e Malatesta, / cui tenne pure il Passator cortese, /
re della strada, re della foresta».
Più difficile, semmai, sarà interpretare il successo
universale di una canzone così “provinciale”. Leandro
Castellani, regista di cinema e di televisione, biografo di
Casadei propone questa spiegazione: «Le parole di
Secondo, sia quelle in lingua che quelle in dialetto, sono
sempre state di una disarmante semplicità. Eppure non
hanno nulla della banalità in cui affondano i parolieri
nello stesso periodo. Basti pensare alle canzoncine di
Armando Fragna, zeppe di Pompieri di Viggiù, di
pompe che vanno su e giù, di Cadetti di Guascogna che
dalla Spagna finiscono a Bologna, di onorevoli Bricolle,
deputati di Gioia del Colle, e simili. Le parole di Casadei
sono sostenute da un esile filo di poesia naïve, dalla
sconcertante e sorridente prevedibilità degli accostamenti. Seguono poche regole, pochi stilemi, dove cuore
rima con amore, così come campagnola con romagnola,
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dove si parla di turisti di spiagge, di incanti del mare, e
dove una certa malizia bonariamente erotica rende il
gioco delle allusioni scoperto e accettabile.
La Romagna e l’amore: i due termini coincidono. È
un accostamento elementare, ma anche forte, coraggioso, imprevedibile. Nessun paroliere di rispetto l’avrebbe
azzardato: Casadei sì. E sposa queste parole a un filo
melodico triste ma non depressivo, struggente ma anche
aperto alla speranza. I turisti stranieri della riviera romagnola la portano con sé nell’inverno delle loro patrie, gli
italiani del nord e del sud la canticchiano sulla via del
ritorno.
Romagna mia diventa un inno nazionale, senza elmi
di Scipio a incoronare crani vittoriosi, l’inno dell’italiano
che crede nel lavoro, nella propria terra, nell’amore».
Luciano Sampaoli, musicista riminese, approfondisce
l’aspetto più propriamente musicale. La prima parte,
quella dedicata alla «nostalgia – ci spiega – viene sviluppata nella tonalità del Re minore, per poi passare repentinamente in Re maggiore, quando il canto esplode nella
gioia di ‘Romagna mia, Romagna in fiore...’». Se provassimo a cantare da soli o in compagnia ci accorgeremmo
di scorrere spontaneamente dalla tristezza alla gioia.
Anche perché la musica classica, che ha influenzato il
nostro gusto, lungo i secoli «ha utilizzato la tonalità
minore per esprimere la tristezza e la tonalità maggiore
per esprimere l’allegria».
Romagna mia ha le carte in regola per diventare un
successo. Ma deve trovare un habitat adeguato. Un
trampolino di lancio. Dei mezzi di diffusione. «Pensavo
che fosse una canzoncina come tante altre, forse un po’
più cara perché ricorda la nostra terra e infatti, in un
primo tempo, piacque abbastanza, rimanendo però
conosciuta nella nostra regione e dintorni» racconta
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Secondo Casadei che, intanto, la sente canticchiare in
giro: da un facchino alla stazione di Forlì da un muratore sulle impalcature che ne fischia il ritornello... Invece
«mi ha fatto conoscere – continua Secondo – non solo in
Emilia e Romagna, ma in quasi tutta l’Italia e molto all’estero, grazie ai turisti che durante l’estate affollano le
nostre spiagge e agli emigrati che si portavano questo
disco oltre frontiera come ricordo».
Da un lato gli emigranti – lo si accennava poc’anzi.
Dall’altro i turisti. Romagna mia suona e risuona nelle
balere della riviera romagnola. E insinua, nella variegata
comunità dei vacanzieri che arrivano dall’Italia e dal
nord dell’Europa, lo stesso sentimento. Non per la
patria, alla quale si farà di certo ritorno. Ma per quel
luogo di vacanza dove s’è abbandonato il sole, il mare,
l’ospitalità romagnola e magari un felice, quanto fugace,
incontro amoroso. Sono i turisti i primi messaggeri di
Romagna mia. Sono loro che la portano in giro nel
mondo. Ne parlano. La ascoltano. La fanno ascoltare. E
intanto la nostalgia lavora
Ma non basta il “passaparola” per costruire un successo internazionale. Ci vuole altro. Il primo viatico, dice
Casadei, furono i dischi. Quindi il juke-box. «Era una
bella canzone – scrive il nipote Raoul – ma i mezzi di diffusione allora erano scarsi e si doveva accontentare di
suonarla lui [Secondo] e di farla eseguire a qualche
orchestra amica. Poi arrivò il juke-box, e gli fu di grande aiuto. Fu col juke-box infatti che Romagna mia prese
a girare e mettere radici...». Ma tutto questo ancora non
bastava per la consacrazione definitiva. Occorreva la
radio. Ma la radio – è ancora Raoul che parla – «continuava a snobbare questa musica, definita ‘campagnola’ e
non ci dava mai la soddisfazione di sentire un nostro
brano inserito nei normali programmi. C’era però un’e14
mittente estera Radio Capodistria, che mandava in onda
un programma di musica a richiesta, e riceveva lettere
anche dall’Italia.
È strano che sia stata una radio non italiana a lanciare la nostra musica popolare, ma fu così. Infatti
Capodistria, grazie alle lettere che riceveva per la trasmissione Musica per voi, iniziò a dare sempre più spazio
a brani come Romagna mia...»
Fu nel 1958, precisa Secondo, che Radio Capodistria
«a cui debbo tutta la mi gratitudine, lanciò Romagna mia
in Musica per voi, un programma di canzoni richieste dal
pubblico per messaggi augurali e fu trasmessa persino
tre volte al giorno».
La canzone comincia a girovagare nel mondo.
Castellani, già citato, rammenta d’averla incontrata
almeno due volte. «La prima diffusa da un impianto
ovattato, nella sala del grande albergo sull’isola
Elefantina, ad Assuan, la più famosa cateratta del Nilo.
La seconda in un circolo esclusivo all’ultimo piano di
uno degli sporadici grattacieli di El Paso, Texas. Due
occasioni sofisticate, da raffinata musica soft. E mi stupì
– confessa il regista-biografo – come quell’inebriante
motivo campagnolo fosse arrivato tanto lontano, sconfiggendo i più prevedibili ’O sole mio e Fenesta ’ca lucive». Probabilmente Castellani sarebbe rimasto ancor più
meravigliato non tanto se avesse ascoltato la versione
russa (non hanno sempre sostenuto Fellini e Guerra che
i russi sono dei romagnoli che vivono molto più a nord
e a est o viceversa?) quanto quella giapponese. Sicuro.
Perché Romagna mia è stata tradotta, tra l’altro, anche in
russo e giapponese. Come ci spiega il sito telematico
delle Edizioni musicali Casadei Sonora che gestiscono,
condotte con capacità imprenditoriale, intelligenza e
affetto dalla figlia Riccarda, dal genero Edoardo Valletta
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e dalle nipoti Lisa e Letizia, il patrimonio artistico di
Secondo Casadei: www.romagnamia.it è il sito. Che
elenca: incisa da molti prestigiosi cantanti tra i quali:
Claudio Villa, Narciso Parigi, Giorgio Consolini...
Interpretata, altresì, da: Francesco Guccini, Gigi
Proietti, Spagna, I nomadi, Jovanotti (versione rap),
Fiorello e Renzo Arbore nei loro popolari programmi (il
secondo non senza ironia, ma poco importa), Gloria
Gaynor... Cantata in privato da Pavarotti e dal Papa che
sostituirebbe Romagna con Polonia. Proposta in versioni musicali moderne (rock, funky ecc.) da un gran numero di gruppi. Venduta in oltre quattro milioni di copie e
“non passa giorno” che bande e orchestre non ne richiedano gli spartiti.
Un palmarès sontuoso riassunto per sommi capi. Un
successo mondiale. Un monumento alla musica. E alla
Romagna. Da parte di un musicista che coltivava un’aspirazione somma: far ballare la gente. Molti testimoni
ne ricordano lo slogan prediletto: «Stasera bisogna
darci!». Sottinteso: nelle gambe. Oppure nella musica.
Per renderla sempre più trascinante. Per staccare i
potenziali ballerini dal muro dove stanno appoggiati e,
appunto, trascinarli sulla pista. E Romagna mia – si noti
il paradosso – non è, pur essendo con tutta evidenza un
valzer (e dunque musica da ballo per eccellenza),
“buona da ballare”.
«Una sera a Castrocaro dissi a Casadei che non mi
piaceva Romagna mia: come canzone sì, però non si ballava. I suoi orchestrali mi sentirono e mi dissero: ‘Oggi
vai a mangiare tardi’. Infatti restammo, io e Casadei, a
parlare in una panchina sul palco sino alle due e un
quarto. E mi parlò non solo di Romagna mia, ma della
sua vita, di tutto». Questa testimonianza è riportata da
Castellani che però non cita la fonte limitandosi all’an16
notazione: «racconta un amico». A rigore come prova
non dovrebbe essere accolta. Ma è assai verosimile quanto al personaggio Casadei e, tutto sommato, vera quanto
a Romagna mia.
Secondo era un fulèt, un folletto (così l’avrebbe chiamato con affetto un’ipotetica nonna: a indicarne la
voglia di fare, l’attivismo sfrenato collegato, nella fattispecie, all’amore per la musica unito a un indubbio
talento), o un maledèt, un maledetto (come ama definirlo con altrettanto indubitabile affetto la sorella
Angelina): un termine che in Romagna, causa il noto
pudore regionale, l’incapacità (o la non volontà) di
manifestare i sentimenti e per converso l’attitudine a
atteggiarsi e parlare brusco, non reca un senso negativo,
anzi è un complimento che, in genere, si attribuisce a
qualcuno che non manca di carisma.
Era logico che un personaggio con caratteristiche siffatte (aveva dedicato una vita alla musica e al ballo), non
potesse pacificamente accettare che il suo pezzo, se non
più bello certo di gran lunga più famoso, si fosse imposto più per il significato delle parole che per la musica.
Sembra questo un esito paradossale, ma lo è fino a un
certo punto. Di fatti Secondo, come vedremo più avanti
con maggiori dettagli, sin dall’inizio prestò particolare
attenzione alle canzoni e ai testi. Fu lui a proporre,
quand’era ancora quasi una mascotte dell’orchestra di
Emilio Brighi, figlio del “mitico” Zaclèn, di inserire nel
repertorio dell’orchestra le canzoni di successo dell’inizio degli anni venti. Quelle che eseguiva, tra gli altri, un
giovane “artista” del teatro e del cinema, Vittorio De
Sica, che sarebbe poi diventato uno dei padri del neorealismo in coppia con Cesare Zavattini. L’Orchestra
Brighi, dunque, cominciò a proporre Io cerco la Titina,
Creola dalla bruna aureola, Adagio Biagio, Parlami d’a17
more Mariù... Non basta. Secondo, il maledetto, non
poteva contentarsi di roba d’altri. Prese così a scrivere
lui stesso. Canzoni sue che raccontavano di personaggi e
fatti di cronaca o parlavano d’amore e lo facevano, spesso, nella lingua romagnola. Non erano novità da poco –
come sottolineano i biografi di Casadei. Per esempio: il
“semplice” fatto di introdurre nella musica da ballo il
ritornello cantato e la canzone; per non dire dei testi in
dialetto romagnolo, inaugurati da Burdèla avèra
(Bambina avara, alla lettera, ma burdèla assai spesso –
come in questo caso – è sinonimo di ragazza).
Tutto ciò accadeva negli anni venti. All’inizio degli
anni cinquanta, dopo un periodo di scarsa fortuna di
valzer, polche e mazurche, Casadei rimonta lentamente
ma sicuramente la china. Uno degli elementi della sua
“rinascita” sono i testi. Vere e proprie canzoni che campeggiano nella tradizione nazionale. Testi che si basano
soprattutto sui significati delle parole e si staccano sempre più dal rito del ballo. Romagna mia appunto.
D’altra parte Casadei, da valente “comunicatore”, da
musicista sempre attento ai gusti e alle preferenze del
pubblico che decreta la validità o meno di un brano musicale e di una canzone, ha sempre conosciuto l’importanza
delle “storie”. L’avesse imparata ancora bambino, nella
sua Romagna d’inizio novecento, dai narratori orali che si
potevano trovare nelle piazza, nelle osterie e nelle stalle
(cantastorie dilettanti o di professione, semplici e improvvisati “raccontatori” d’occasione) oppure la conoscesse
da sempre (perché l’aveva dentro), poco importa. Sta di
fatto che disponeva di questo sapere. E lo mise in pratica.
Certo, nella storia e nella nostra storia in particolare,
un ruolo e uno spazio l’ha avuto – come sempre – il caso
(«il naso della regina Cleopatra» secondo una formula
cara agli storici). Domanda: se il soggetto di Romagna
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1928. La prima formazione “ufficiale” guidata da Secondo Casadei.
Da sinistra: Elmo Bonoli (Managa), Guido Rossi (Poiali che suonava
a orecchio), Secondo Casadei, Primo Lucchi (Balilòun), Giovanni
Fantini (Pizaréin), Olindo Brighi (Faraòun). Ogni orchestrale ha il
suo soprannome. In Romagna una specie di attestato doc. Proveniva
dalla famiglia o veniva attribuito nell’infanzia o guadagnato sul palcoscenico. Lo stesso Casadei, all’anagrafe, rispondeva al nome di
Aurelio. Secondo stava a significare che lo aveva preceduto una sorella morta prematuramente pochi giorni dopo la nascita.
I musicisti sono in posa. La fotografia è scattata in uno studio. Il
debutto dell’Orchestra Casadei avvenne a Gatteo Mare, all’inizio
dell’estate, alla Pensione Rubicone.
mia fosse rimasto “casetta”, se una regione, con determinate caratteristiche (per esempio: una forte “vocazione”
turistica, una ben precisa fisionomia nell’immaginario
della gente eccetera), non ne avesse occupato il posto, la
nostra canzone avrebbe percorso un lungo viaggio su una
strada lastricata di successo? La domanda è quasi retorica. La risposta è: con ogni probabilità no.
Romagna mia è nata dalla perfetta fusione tra un
uomo e la sua terra. Un musicista di genio, con lo sguardo proteso altrove ma allo stesso tempo con potenti
radici nella “piccola patria” estroversa e ospitale, ha
saputo esprimere i valori e gli umori provinciali della sua
regione elevandoli a una dimensione generale. Come
altre volte è accaduto, grazie alla poesia (la citata
Romagna di Giovanni Pascoli, per esempio), al cinema
(Amarcord di Federico Fellini, per esempio)...
Che poi si tratti della Romagna autentica o di trasfigurazioni o, detto in altri termini, di tradizioni inventate, questo è un altro discorso. Al quale cercherò di offrire alcune possibili risposte (non la risposta beninteso) in
seguito. Per il momento mi limito a indugiare su una
delle cosiddette componenti del carattere romagnolo. I
romagnoli (dovrei precisare: noi romagnoli) indulgono
alla retorica . Si prendono molto sul serio. Amano l’ironia se non ne sono l’oggetto. Allo scopo di sfatare questo “pregiudizio” – a maggior ragione tale nel nostro
campo che è quello del ballo, della musica, del divertimento: «sono solo canzonette» recita una canzone di
Bennato – concluderò il presente capitolo con una battuta, non rammento più di chi: «Comunque nel ricordare Romagna mia ho avuto un ‘rigurgito di piadina’ e mi
sono immerso nel piacevole incubo della riviera».
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La periferia di una periferia
A proposito della “rivalutazione”
della Romagna nel secondo dopoguerra
Alla fine della seconda guerra mondiale la Romagna è
cosparsa di macerie. Il fronte vi ha stazionato per mesi
con un impressionante carico di sangue e dolore anche
per la popolazione civile. I bombardamenti l’hanno ferita
pesantemente e ripetutamente. Non basta. Se mettiamo a
fuoco lo sguardo sulla cultura sia dotta sia popolare, che
è il nostro argomento, la Romagna risulta una periferia di
quella più grande periferia che è, ancorché avamposto e
baluardo del cosiddetto mondo “libero” contro i tartari
delle democrazie cosiddette “popolari”, l’Italia. La
Romagna non ha università. L’avrà molti anni dopo; ma
non sua. Non ha propri quotidiani; anche questi tarderanno parecchio a arrivare. La leggendaria socialità degli
indigeni si esercita nel ballo. Il cinema svolge la sua classica funzione d’intrattenimento – anche istruttivo.
In quel clima di riacquistata libertà dalla dittatura
fascista, la piccola regione all’incirca tra gli Appennini,
l’Adriatico e il fiume Reno deve scontare anche un debito: essere stata, nel ventennio precedente, la terra del
duce.
Alla metà degli anni trenta, quando Mussolini riscrive la geografia e la storia della sua Romagna (poteri di un
dittatore), gran parte degli italiani (o quasi) sono fascisti,
per esplicita ammissione di una fonte non sospetta come
lo stesso Togliatti. Ma questo non conta. Adesso aver
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dato i natali e di conseguenza aver ricevuto lustro dal
dittatore, che trascinò la nazione a fianco di un sadico
criminale come Hitler in una guerra perduta, costituisce
un’onta. Soprattutto in Italia dove la vocazione nazionale è da sempre – secondo la caustica battuta di Flaiano –
precipitarsi in soccorso del vincitore.
A rendere la situazione ancor più difficile contribuisce il fatto che la Romagna è “rossa”. Lo era prima del
fascismo e lo è rimasta dopo. Il che a Roma, dove attraverso la democrazia cristiana comandano gli americani,
non aiuta.
In verità, come è noto, non è che i romagnoli avessero goduto sempre buona fama. Anzi. Quella del romagnolo delinquente è un’“immagine” che ebbe, nell’ottocento, ampio credito in ambienti scientifici positivisti:
ambienti che in seguito – ma solo in seguito – fu facile
liquidare come “ingenui” quando non “ideologici” e
“razzisti”. Ma il credito non fu solo scientifico per così
dire. Tutt’altro. Fu assai diffuso come dimostra, per
esempio, un classico per eccellenza della letteratura
mondiale nonché capolavoro dell’Italia unita e della formazione dell’italiano, Cuore di De Amicis del 1886. Un
libro che rappresentò, con la forza “indiretta” della letteratura presso tutta la comunità dei lettori, il romagnolo violento: «con una pezzuola scura sul viso, con due
buchi davanti agli occhi» (queste le parole di De Amicis)
e l’immancabile coltello che trafiggerà a morte il giovane
protagonista Ferruccio. La vicenda, che si svolge presso
Forlì, è contenuta nel racconto Sangue romagnolo. E, a
onor del vero, offre dei romagnoli un’idea controversa.
Perché se da un lato agisce a scopo di rapina il “prototipo” dell’accoltellatore, dall’altro si erge Ferruccio,
monello tredicenne, che s’immola per salvare la nonna.
«[...] non era mica tristo di cuore – precisa De Amicis –,
22
tutt’altro [...]. Buono era, piuttosto che tristo; ma caparbio e difficile molto [...]». Da un lato la colpa (l’assassinio); dall’altra il riscatto (il gesto eroico). Il tutto racchiuso nel sangue e nel cuore di Romagna.
Sia come sia, la Romagna, del dopoguerra, doveva
essere “rivaluta”. Il “movimento” della rinascita – anche
se non è esatto chiamarlo movimento; difatti non lo fu
per nulla non avendo alcuna coscienza di sé – nasce nel
sud della regione. In quel lembo di terra che un linguista austriaco, il più autorevole studioso del dialetto
romagnolo, Friedrich Schürr, definì «isola linguistica del
dittongo». Dove insomma – sia detto così, alla buona –
le vocali di molte parole, attraverso complicati processi
linguistici, si sono raddoppiate in dittonghi. Si tratta dei
comuni di Santarcangelo, San Mauro, Savignano,
Gatteo (frazione Sant’Angelo), Longiano. Il movimento
– continuo a chiamarlo impropriamente in questo modo
– ha “propaggini” riminesi e cesenati. Rimini e Cesena
(con Cesenatico), di fatti, stanno da un lato e dall’altro
della nostra “isola”.
(Digressione. Chi si rechi oggi in quel “piccolo
mondo”, troverà la vecchia Santarcangelo, quella delle
contrade, ormai ampiamente ristrutturata, raccolta su
una collinetta, in cima alla quale s’ergono il “campanone” e la rocca Malatestiana. Terra, da sempre, dell’ospitalità: di fiere e mercati, la città, letteralmente pullula di
ristoranti che hanno sostituito le antiche osterie. Da visitare: il Museo degli usi e costumi della gente di
Romagna. Risalendo la via Emilia, a un pugno di chilometri, Savignano che il duce, alla metà degli anni trenta,
stabilì essere “sul Rubicone”. Quello autentico. Bisogna
sapere che da secoli imperversava un’annosa disputa su
quale fosse il Rubicone attraversato da Cesare con le
legioni. Fu Mussolini che, vista la documentazione,
23
troncò la diatriba con l’autorità che gli derivava dall’essere il dittatore. Chi passi da Savignano, definita un
tempo “l’Atene della Romagna”, non manchi di visitare
la Rubiconia accademia dei filopatridi. Nelle cui stanze
austere si respira ancora l’erudizione dei secoli scorsi: la
si può vedere nella ponderosa biblioteca; la si può persino toccare negli arredi. Due chilometri verso la marina
San Mauro. Nel cuore del paese Casa Pascoli. Poche
sobrie stanze. Modesti gli arredi. Che rimandano all’infanzia di Zvanì. A due chilometri dall’abitato la Torre.
«Nella Torre il silenzio era già alto / sussurravano i pioppi del Rio Salto...» scrive Giovanni Pascoli ricordando la
sua fanciullezza e l’uccisione del padre. La Torre, oggi
ribattezzata Villa Torlonia, è un monumentale edificio:
metà fattoria e metà villa signorile. Non molto lontano
Gatteo conserva i ruderi di un castello medievale.
Longiano è sovrastata da una rocca assai ben conservata, che oggi ospita la Fondazione Balestra; nel paese un
piccolo teatro ottocentesco all’italiana ancora assai attivo. Cesenatico si raccoglie sul porto canale progettato da
Leonardo. Dove s’affaccia, tra le basse case a schiera,
Casa Moretti che conserva la “memoria” dello scrittore.
A Cesena l’antica biblioteca Malatestiana. Tanto importante dal punto di vista scientifico quanto suggestiva; vi
fu direttore, tra gli altri, Renato Serra quello dell’Esame
di coscienza di un letterato. Rimini, che tutti definiscono
la capitale del turismo e del divertimento, è iscritta, l’antica Rimini, tra l’arco d’Augusto e il ponte di Tiberio. Da
una parte e dall’altra il tempio Malatestiano, parto dell’umanesimo, e la rocca che rivendica, in conflitto con
quella di Santarcangelo e non poche altre, d’essere stata
il teatro della tragedia di Paolo e Francesca cantata da
Dante.)
Si diceva, poc’anzi, della riscossa romagnola. Tutto
24
ebbe inizio, se proprio vogliamo fissare una data, nell’immediato dopoguerra. Con la poesia – il bisticcio linguistico è inevitabile – di Tonino Guerra. «Andè a di acsè
mi bu ch’i vaga véa, / che quèl chi a fat i à fat, / che adèss
u s’èra préima se tratòur. // E pianz e’ cór ma tótt, ènca
mu mè, / avdài ch’i à lavurè dal mièri d’an / e adès i à
d’andè véa a tèsta basa / dri ma la córda lònga de mazèl
(Andate a dire ai buoi che vadano via che il loro lavoro
non ci serve più che oggi si fa prima ad arare col trattore. E poi commuoviamoci pure a pensare alla fatica che
hanno fatto per migliaia d’anni mentre eccoli lì che se ne
vanno a testa bassa dietro la corda lunga del macello)».
Canta Tonino. E prende congedo, come ha scritto un
critico letterario, Franco Brevini, dall’universo municipale. Dalla vecchia Romagna.
Non a caso, uno degli alfieri della cultura regionale
dell’anteguerra, Francesco Balilla Pratella, compositore
e musicologo, indicava, come simbolo «dell’anima canterina della Romagna», la cavèja dal j’anëli (caviglia degli
anelli) ovvero il perno di ferro che s’infila nel timone per
tenere fermo il giogo. Tralasciando d’indugiare sull’aspetto sonoro che, per altro, è per noi assai pertinente,
osserviamo che la coppia dei buoi – in Romagna per
antonomasia rò (quello di destra) e bunì (quello aggiogato a sinistra) – è un po’ l’emblema di ogni civiltà contadina. Tonino, che piange la scomparsa dei buoi, indica, allo stesso tempo, la via per andare oltre. Basta con la
Romagna di Mussolini. E anche con quella, ben più
autorevole e suggestiva, di Aldo Spallicci. La Romagna
“propagandata” dalla rivista “La Piê” (La piada). La
Romagna contadina povera e felice o, se non altro, fiera
e di sani principi morali. La Romagna – non poco “ideale” e ideologica – del buon tempo antico. Quella
Romagna, «solatia dolce paese», che trovava ispirazione
25
e sostegno in una certa lettura della sublime poesia
pascoliana.
Ma fino a che punto possiamo credere al congedo di
Tonino? Lui che addirittura scrive in dialetto e fonda i
suoi versi sulla piccola patria santarcangiolese. Sarà
andato anche oltre, ma restando coi piedi ben conficcati nella sua terra. Come Giovanni Pascoli, poeta inimitabile, che, pur avendo ancor bambino abbandonato il
paese natio, nutrì tutta la sua poesia degli umori, dei
dolori dell’infanzia sammaurese. Come Federico Fellini
che non seppe mai – pur avendo sempre desiderato
andarsene e in realtà ben presto se ne andò – staccarsi
dal borgo riminese. È questo un “filo conduttore” del
carattere romagnolo. E Guerra non ne è immune. Come
non ne è esente Secondo Casadei.
A Santarcangelo, attorno a Guerra, si raccoglie un
gruppo di intellettuali e artisti. In poesia guardano a
Montale. In pittura vengono influenzati dal gruppo
romano del Portonaccio (Vespignani, Urbinati,
Muccini) trascinato a Santarcangelo da Guerra, ma tengono lo sguardo fisso sul loro paesaggio. Il cinema che
amano è quello neorealista. De Sica e Zavattini.
Rossellini col quale s’è fatto le ossa, come sceneggiatore,
il giovane Fellini. Sarà un caso. Ma un episodio di quel
capolavoro della nuova Italia che è Paisà è ambientato a
Savignano sul Rubicone (anche se nella realtà girato a
Maiori sulla costiera amalfitana). A Santarcangelo vengono realizzati due film di cortometraggio: La bambola
di Flavio Nicolini con la collaborazione di Gianni Fucci,
voce narrante di Paolo Carlini, anch’egli nativo di
Santarcangelo, già attore affermato; e Nasce un campione, soggetto di Guerra, regia di Elio Petri, sulla passione
tutta romagnola per la bicicletta.
Il gruppo di Santarcangelo, definito non senza ironia
26
“e’ Circal de giudéizi” (il Circolo del giudizio, come dire
il circolo dei sapientoni), intrattiene rapporti col poeta
di Longiano Tito Balestra e i pittori cesenati Sughi,
Caldari, Cappelli. Da Cesenatico Dante Arfelli dà alle
stampe I superflui, ovvero lo spaesamento di un provinciale scivolato nell’indifferenza della metropoli. (Cito
ancora, ancorché non appartenente né limitrofo al territorio delimitato sopra, Francesco Serantini, faentino e il
suo Il fucile di Papa della Genga, ispirato alle gesta del
Passatore e premio Bagutta.)
Il 1952 è, per la Romagna, un anniversario di non
poco conto. Sono quarant’anni dalla morte del più grande dei poeti romagnoli, Giovanni Pascoli. Guido
Guerrasio, già autore di documentari, arriva a San
Mauro e vi gira La cavallina storna: è un film corto,
appena dieci minuti, ma Guerrasio, alternando le riprese documentarie della casa natale del poeta, della Torre
e della campagna circostante, a riprese ricostruite della
tragedia (uccisione del padre di Pascoli) narrata nella
poesia quasi omonima (La cavalla storna), riesce a condensare il senso del rapporto controverso e “fecondo”
tra il poeta e la sua terra. Il film viene presentato alla
Mostra del cinema di Venezia dell’anno successivo. Là
incontra altre immagini di un ipotetico album di famiglia. Sono riminesi. Federico Fellini ha realizzato il suo
secondo film e mezzo come regista. E lo presenta alla
Mostra. Vi otterrà il secondo premio: il Leone d’argento. Si tratta dei Vitelloni. Un ritorno alla provincia natia.
Ai compagni della giovinezza. Alle «loro avventure, le
loro ambizioni, le piccole manie, il loro modo particolarissimo di passare il tempo [...] al biliardo o sulla spiaggia a guardare il mare d’inverno o a cantare canzoncine
oscene nel silenzio notturno delle antiche piazze» ricorda Fellini. E rammenta i loro discorsi: «‘Ma te, se venis27
se Jane Russel e ti dicesse: dai, pianta tutto e vieni con
me, ci andresti?’ ‘Ostia se ci andrei!’». La parola “vitellone”, dopo il film, entrerà di prepotenza nei vocabolari. Ne prendo uno a caso: «Giovane che trascorre il
tempo il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo, senza
cercare di uscire da un ambiente sociale mediocre e
privo di stimoli». Dopo il successo italiano il film comincerà a girare il mondo.
Che poi, nella realtà, I vitelloni non fosse stato girato
Rimini e che, in fondo, rappresentasse la provincia in
generale è una vecchia questione. Luoghi e personaggi
del racconto (e un film è un racconto, una finzione) sono
inequivocabilmente riminesi e romagnoli.
Guerra, intanto, grazie alle sue poesie in dialetto, è
arrivato a Roma. Dove fa lo sceneggiatore. Come narrerà
lui stesso, in seguito, all’inizio tra miseria e privazioni,
ma pur sempre nel cuore pulsante del cinema italiano.
Federico Moroni, antico sodale di Tonino, pittore e
maestro elementare, viene invitato negli Stati Uniti grazie all’esperienza didattica d’avanguardia della scuola di
campagna del Bornaccino che insegna ai figli dei contadini attraverso il disegno e la pittura. San Mauro ritorna
nel cinema con Cavallina storna di Giulio Morelli: vicenda Pascoli riletta secondo i canoni del melodramma
cinematografico. Interpreti: il popolarissimo Gino Cervi
e la maliarda Franca Marzi.
La Romagna esce dai suoi angusti confini. È “buona”
per l’esportazione.
Si tratta, tuttavia, di un fenomeno ancora legato a
delle minoranze. Intellettuali in particolare. Poesia.
Pittura. Cinema. Certo il cinema è anche (e soprattutto)
uno spettacolo popolare. Ma non lo sono i documentari. Né i cortometraggi. E nemmeno Cavallina storna di
Morelli, nonostante si collochi nella scia dei popolarissi28
Alla fine degli anni venti, un Quintetto Casadei, davanti alle scuole
elementari di Sant’Angelo, frazione di Gatteo, e “piccola patria” di
Secondo Casadei. All’epoca, a Sant’Angelo, si ballava dalla Rosina e
da Carlin d’Imbrus. Il veglione più amato dai santangelesi era quello
che si teneva il 19 gennaio per la festa di sant’Antonio protettore
degli animali.
Da sinistra: Primo Lucchi, Secondo Casadei, Giuseppe Fantini,
Giovanni Fantini (il cantante), Giulio Turci. Turci, esercente cinematografico e noto pittore di Santarcangelo, fece parte, assieme a artisti
e intellettuali del suo paese (Federico Moroni, Lucio Bernardi,
Tonino Guerra, Flavio Nicolini, Raffaello Baldini, Nino Pedretti,
Gianni Fucci, Rina Macrelli) di quello che fu definito, non senza ironia, e’ Circal de giudéizi (il Circolo del giudizio, come dire il circolo
di quelli che la sanno lunga).
mi melodrammi di Raffaello Matarazzo, arriva al grande
pubblico. Ci arriva, invece, Federico Fellini. Lui che
sembrava destinato agli ultimi posti dei guadagni ai botteghini, coi Vitelloni, rovescia ogni previsione. Nella stagione cinematografica 1953-54 il film incassa oltre 570
milioni e s’insedia ai primi posti della classifica. Un successo che coinvolge – puntualizza Vittoria Spinazzola in
un originale studio sul pubblico cinematografico –
anche «le platee più schiettamente popolari, come dimostra l’elevato rapporto fra i risultati delle prime visioni
(109 milioni) e quelli dell’intero mercato».
È il momento buono per allargare il “pubblico” della
Romagna. E sarà pure un caso, ma nel ’54 Casadei, ch’è
nativo di Sant’Angelo di Gatteo e s’è trasferito a
Savignano, lancia Romagna mia. Del successo della
quale abbiamo già ampiamente riferito. Secondo non è
un intellettuale. Bensì un capo naturale e un musicista di
talento. E affianca quel gruppetto di intellettuali della
sua terra nel proporre una “nuova immagine” della
Romagna.
Nelle gallerie d’arte, nelle biblioteche e nelle librerie,
nei cineclub in cui si discetta di linguaggio e storia della
settima arte, fino alle affollate e vocianti sale cinematografiche della seconda e terza visione, fino alle balere
grondanti di sudore e di rumore, il riscatto romagnolo
stava per compiersi o, addirittura, era già compiuto.
30
Òs-cia i madéun!
A proposito della Romagna popolare
Alla metà degli anni cinquanta la Romagna, come
gran parte dell’Italia centrale e settentrionale, comincia
a intravedere i segni del “miracolo economico” incipiente. Quella regione che, nella classica (e limpida e icastica) descrizione pascoliana, era «sempre un villaggio,
sempre una campagna»; quel paesaggio che meritava l’esclamazione di Spallicci – «quanta ciarezza in tota la
campagna! (quanta chiarezza in tutta la campagna)» – sta
radicalmente mutando. Tra breve non ci sarà più. Ormai
gli si addice, piuttosto, una bella lirica di Guerra del ’54,
I madéun (I mattoni) che nella versione “storpiata” del
manovale-dicitore del film Amarcord è andata ben oltre
il ristretto nucleo degli appassionati di poesia.
«E’ mi nòn e’ féva i madéun / e’ mi ba e’ féva i madéun
/ mè a faz i madéun: òs-cia i madéun! / Mèlla, dismélla, al
muntagni ad madéun / e mè la chèsa gnént. // Ò fat la cisa
nóva de Sufràz / ò fat tótt quant al chèsi de Paségg, / ò fat
al tòrri, i péunt e di teràz, / ò fat la vélla granda di padréun
ch’la ciapa tótt e’ sòul, / e mè la chèsa gnént (Mio nonno
fabbricava i mattoni mio padre fabbrica i mattoni
anch’io faccio i mattoni, ostia i mattoni! Mille, diecimila, le montagne di mattoni e io la casa non l’ho. Ho
costruito la chiesa nuova del Suffragio, tutte le case del
Passeggio, le torri, i ponti e i terrazzi, la grande villa del
padrone che prende tutto il sole e io la casa non l’ho)».
31
Uno storico romagnolo, Stefano Pivato, notava che
questi versi «sono quanto di più appropriato» per rappresentare l’evoluzione della Romagna dell’ultimo secolo. Con particolare riferimento al dopoguerra e alla
costa: da Cattolica a Milano Marittima. Montagne di
mattoni e di cemento che sono dilagate sul litorale e nell’entroterra. E ancora: un groviglio di asfalto. La “ferita”
aperta dall’autostrada. Fabbriche e ciminiere. Insegne
luminose e raggi laser. Fino agli ultimi esiti: supermercati e poi ipermercati che proiettano questo paesaggio
nella periferia-mondo. Se facessimo nostra l’idea, qui
sopra adombrata, che la poesia costituisce, anche in
forme non sempre dirette, un’efficace descrizione della
realtà, a questo punto dovremmo ricordare una raccolta
– sempre in dialetto – di Giovanni Nadiani: TIR.
Esattamente gli autotreni o autoarticolati adibiti a trasporti internazionali. La Romagna s’è ormai “modernizzata”. Omologata, per usare un termine caro a Pier
Paolo Pasolini, paladino, fino all’ultimo, della società
contadina. Allineata al resto del nord industriale.
E la Romagna tradizionale, la Romagna del popolo,
figlio della cultura contadina e marinara, dov’è finita?
Con ogni probabilità nell’ospitalità della struttura ricettiva (usiamo questa locuzione per indicare alberghi,
ristoranti e affini) e nella passione per il ballo e la vita
associativa.
Premesso che quel romagnolo, prodotto di quella
Romagna, quell’immagine assai diffusa e abbastanza
precisa che circola dall’ottocento a oggi senza sostanziali modifiche, è frutto – come abbiamo già accennato – di
un singolare impasto di realtà e finzione: poesie, opere
letterarie, film, tesi propagandistiche (per esempio: il
citato “mito” del romagnolo criminale generato dalla
criminologia positivista e sostenuto dal potere regio per
32
screditare una regione di oppositori politici, confermato,
in maniera sarcastica, da Olindo Guerrini quando, in
una famosa poesia, lamenta che tutti se la prendano con
la sua regione, dove tutti, invece, si vogliono bene e brillano per onesta: «il male è che vanno via di tanto in tanto
e non si sa più notizia», tant’è vero che il sindaco di
Castrocaro vuole «buttar giù il camposanto che in ogni
modo muoiono tutti in galera»), tradizioni popolari tramandate oralmente come la leggenda della creazione
che, secondo Alfredo Panzini, era ancor assai viva in
Romagna negli anni trenta (quando Dio ebbe creato il
mondo, san Pietro gli disse: «La Romagna è fatta, manca
il romagnolo». Il padre eterno sferrò un calcio per terra
e ne scaturì, nella versione poetica di Spallicci, e’ vigliacaz de rumagnol spudé (letteralmente: il vigliaccaccio del
romagnolo sputato), in maniche di camicia, petto scoperto, agghindato con un cappello da gagà: «A so iquà
me, ció, b... de Signor!»), convinzioni diffuse come quella secondo cui la Romagna comincia, scendendo lungo la
via Emilia da Bologna, dove, se domandate da bere,
smettono di versarvi acqua e vi offrono del vino: “il
bere” per antonomasia in Romagna. Eccetera. Eccetera.
Tutto ciò premesso, avventuriamoci nell’ardua
impresa di abbozzare un possibile ritratto del “cittadino” romagnolo traendo spunto dall’abbondante letteratura su di lui. Ricordiamo, innanzitutto, un articolo di
taglio storico di un giornalista riminese, Guido Nozzoli,
intitolato Il pianeta Romagna, e pubblicato, nel 1963,
nell’insuperato volume collettivo, a cura di Andrea
Emiliani, Questa Romagna.
Nozzoli scrive bene. Una bella scrittura giornalistica.
Ricca e, allo stesso tempo, di agevole comprensione.
Sostiene, detto in estrema sintesi, che la Romagna è una
regione senza precisi confini «che non si riconosce dai
33
boschi, dai monti, dai fiumi, dal clima, ma dalla gente e
dalle sue abitudini. Non una regione geografica, dunque, ma una regione del carattere, un’isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti». (A conclusioni simili era giunto Guido Piovene che, alla metà
degli anni cinquanta, realizzò un “viaggio in Italia” per
conto della Rai: i romagnoli «si compiacciono di romanzarsi» fu la sentenza dello scrittore.) Posta la premessa,
Nozzoli racconta l’evoluzione del “cittadino” romagnolo: dal mito della lontana origine barbarica, che ne spiegherebbe la focosità, fino al suo praticare la violenza, la
sua politicizzazione, il suo prediligere l’opposizione.
Quanto al carattere poi, il romagnolo si distinguerebbe – fonte Olindo Guerrini – perché sputa per terra,
parla a voce alta e non chiude le porte. Nozzoli aggiunge altri particolari: «la loquacità, l’intransigenza, la spavalderia, l’aggressività polemica, l’amore per il paradossale e lo spettacolare, una certa trascuratezza nel vestire,
il gusto delle burle, una finta disinvoltura che maschera
la ruvidezza dei modi e l’impaccio del paesano, quel
disordine un po’ estroso e velleitario del pensiero».
Non basta. Nozzoli elenca ancora: «Gioviale, ciarliero, aperto, fantasioso, di appetiti robusti, di parola grassa e colorita, di gesti clamorosi e teatrali, poco incline
alle smancerie tanto da parere – anzi, da essere – sgarbato, polemista aggressivo e puntiglioso, disposto allo
scherzo ma pronto a impennarsi (e a menar le mani), il
romagnolo di oggi, come quello di ieri, nasconde con un
pudore fanciullesco una sua inconfondibile gentilezza
d’animo che affiora raramente dai tratti esteriori, nei
rapporti con gli estranei e persino con gli amici, ma che
si rivelerà inaspettatamente, insieme a un’illimitata generosità, nei momenti brutti della vostra vita o quando
siete suo ospite, e anche il più povero di loro vuoterà la
34
dispensa e metterà sottosopra la casa perché non vi manchi nulla».
Arduo afferrare un carattere individuale. Quasi
impraticabile la definizione di un carattere collettivo,
regionale. Il carattere è sfuggente per definizione.
Eppure Nozzoli riesce quasi a convincerci. Convince,
magari, soprattutto il sottoscritto. Che se pensa ai suoi
nonni, romagnoli doc, che praticavano entrambi la religione della generosità e dell’ospitalità, non può che
assentire. Ma se queste potrebbero, in fondo, essere
rubricate come “impressioni” personali, Nozzoli risulta
incontrovertibile quando definisce, anticipando con
acume il tema dell’“invenzione della tradizione” introdotto vent’anni dopo da Hobsbawm e Ranger, la
Romagna una regione “inventata dai suoi abitanti”. In
altre parole: l’identità romagnola è il frutto di un processo culturale. Nozzoli insiste anche, a ulteriore conferma della sua già condivisibile argomentazione, sulla
variabilità e dunque di fatto sull’assenza di confini della
Romagna. Ma qui sono costretto a contraddirlo: almeno
dalla fine dell’ottocento un confine più o meno accettato esiste: è quello stabilito da Rosetti.
Un altro libro di storia, che desidero segnalare, è La
Romagna di Roberto Balzani. Un libro recente. Più
impegnativo. Ma assai stimolante e molto ben documentato. Balzani, al quale chiedo venia della semplificazione
che sto per proporne, afferma che la principale caratteristica dei romagnoli è l’estroversione. Come dire che
essi non trovano la loro identità in se stessi ma nel rapporto con gli altri. Ritorna come un metronomo il tema
della socialità.
Si dice che le origini del romagnolo si debbano cercare nelle antiche popolazioni che abitavano la zona
prima della colonizzazione romana: i bellicosissimini
35
galli senoni che, prima di soccombere, si permisero il
lusso di mettere a sacco Roma e quindi tornarsene in
patria. Se ciò che andiamo ripetendo è vero, chi, che
cosa, avrà trasformato l’iniziale aggressività in genuina
socialità?
Non so. Certo è che questo dei romagnoli estroversi
è molto più che un luogo comune. Essi si confrontano
costantemente con gli altri. Fuori dal loro “pianeta”, per
seguitare nell’uso della felice espressione di Nozzoli, e
dentro il loro “pianeta”. Con gli italiani, gli europei e,
oggi, gli extraeuropei in generale e, altresì, con gli altri
romagnoli. Rincontriamo così, fatalmente, l’ospitalità
romagnola, la socialità romagnola. Come sintomi più
evidenti di un modo di essere e di comportarsi.
I luoghi di ritrovo degli indigeni di questa “isola del
sentimento” sono famosi fin dall’ottocento. All’inizio,
almeno per chi comanda, in senso negativo. L’associarsi,
lo stare assieme nei “circoli”, anche per ballare (divertimento che i cattolici non vedevano di buon occhio per
le sue potenzialità peccaminose e in Romagna fino all’unità d’Italia governò il papa-re), fonda il teorema della
sovversione. L’associarsi, lo stare assieme sfocerebbe
nella politica. Nel variegato arcipelago dei luoghi di
ritrovo, in quella che è stata definita «ipertrofica dimensione associativa romagnola», troverebbero un terreno
di coltura o un trampolino di lancio bello e pronto, gli
agitatori politici nemici del re e del neonato regno
sabaudo.
Invano il deputato ravennate Domenico Farini s’affanna a spiegare a una camera dei deputati incredula –
annota Balzani – che nei circoli non si fa politica, ma si
tratta di «luoghi di festevole ritrovo, vi si mangia, vi si
beve, vi si sta l’inverno al riparo dei rigori del freddo,
così come si potrebbe stare in un caffè o in un’osteria
36
colla differenza che, invece di essere luoghi pubblici,
sono privati, e che per intervenirvi bisogna esserne soci
e pagare uno scotto mensile. Questi festevoli ritrovi raccolgono gente di ogni età, di ogni condizione e di ogni
opinione politica. Io non avrei mai neppure sognato che
i contadini delle ville di Mezzano, Piangipane, Santerno,
di Sant’Alberto [paesi del ravennate] [...] potessero
venire un giorno confusi con settari; le loro riunioni
dipinte come altrettanti clubs giacobini».
Il fatto è che la gente di queste terre – come dimostrano gli studi di Maurizio Ridolfi – si era costruita, da
tempo, dei luoghi di ritrovo con funzione prevalentemente ricreativa al di fuori della famiglia. E che questi luoghi
erano assai più diffusi in Romagna che altrove e, in
Romagna, avevano un’accentuata dimensione interclassista: vi convivevano i contadini coi piccoli borghesi, il proletariato urbano con la nobiltà più o meno decaduta.
Se, dunque, possiamo ragionevolmente convenire
che era questa la Romagna di un tempo, dobbiamo, allo
stesso tempo, ammettere che detta Romagna è cambiata.
È cambiata negli anni cinquanta. Quando il “miracolo
economico”, in pochi anni, ha trasformato ciò che nei
secoli era rimasto, nella sostanza, immobile: ha portato
la ricchezza e, attraverso la televisione, nuovi stili di vita
insieme a una lingua italiana standard che ha sopraffatto
i dialetti.
Dov’è finita, allora, la Romagna di un tempo (un po’
vera e un po’ inventata dai suoi abitanti: nessuno potrà
mai stabilire il confine tra realtà e finzione), la mitica
Romagna del popolo? L’ho già detto e lo ribadisco. Se ne
possono trovare ancora esempi, tracce e riflessi soprattutto nell’ospitalità proposta da alberghi, ristoranti e
affini, e nella socialità e ricreazione offerta da balere,
locali notturni, discoteche (luoghi della più volte citata
37
passione ballerina locale che pare contagiare anche turisti in gran copia), pub (come dire un ritorno – vi alludeva lo scrittore Eraldo Baldini – ai celti che abitarono
queste terre avanti i romani), sale giochi, cinema, parchi
tematici, fino (è notizia di questi giorni) a buddha bar,
disco pub, risto dance, wine bar, dinner club, beach
dance che, nonostante i nomi esotici o fondati sull’inglese dominante, sono luoghi dove si balla e si mangia: un
ritorno, in forme mutate ovviamente, agli antichi veglioni romagnoli?
38
In principio era Zaclèn...
Due o tre cose che so su Carlo Brighi
e la musica popolare romagnola
Non poco è stato scritto e detto sulla musica popolare romagnola. Che nasce e s’afferma come musica da
ballo. E, insieme, della relativa passione locale per il
ballo.
Per cercare di rendere un’idea e magari qualche sensazione (certo non meno importante) di questo singolare fenomeno, mi rivolgerò, questa volta, alla letteratura.
Sono certo che essa, sebbene affabulata, offrirà un’immagine “fedele” di ciò che poteva capitare nella seconda
metà dell’ottocento in Romagna (e che è seguitato a
accadere).
Rino Alessi, giornalista, romanziere, autore teatrale,
nato nel 1885 a Cervia (città della costa che esibisce,
assieme a Milano Marittima, una folta pineta proprio
dietro la spiaggia), pubblicò nel secondo dopoguerra, un
ciclo di romanzi, tra invenzione, “amarcord” e ricostruzione storica, dedicati alla Romagna tra otto e novecento. Il primo di questi, Calda era la terra (1958), secondo
un giudizio comune, il più bello, in alcune pagine evoca
ciò che viene definito il romagnolo “demone della
danza”. Che, per esempio, s’era impossessato della casata cervese dei Balach.
«Il vecchio, detto e Gagg, per il fulvo colore della
pelle e dei radi capelli – scrive Alessi –, aveva chiamato
le figlie Tersicore e Euterpe, spiegando agli amici che
39
avrebbe voluto crescerle sacerdotesse del ballo e della
musica. E il suo proposito non era andato deluso [...].
Un romagnolo che non sappia ballare il valzer non è
un romagnolo – sentenziava spesso e Gagg. E del modo
di ballarlo conosceva tutti gli stili: dal valzer stretto, girato su un soldo, si udiva dire, dei forlivesi a quello largo
e strisciante dei cesenati, dal valzer intervallato da furiosi mulinelli dei faentini a quello lento e slanciato dei
lughesi [...].
Allora per ballare, fatta eccezione delle feste all’aperto durante l’estate balneare, che dava i suoi primi segni
di vita, bisognava attendere il carnevale. I balli pubblici
si alternavano coi balli politici. I partiti, le associazioni, i
circoli si mettevano in gara per assicurarsi la partecipazione delle più famose orchestre e delle più acclamate
coppie. Tersicore e Euterpe erano le trionfatrici: ma nessuno le avrebbe volute avere per mogli. Quelle due scatenate! Chi sarebbe riuscito a domarle?
I tre fratelli Balach non erano da meno delle sorelle.
Iscritti al partito repubblicano, quando veniva il periodo
delle ‘feste danzanti’, dal cui esito dipendeva in certa
guisa il buon nome della loro organizzazione politica, si
mettevano all’opera con segreto entusiasmo, con spirito
di dedizione, come se avessero dovuto organizzare un
moto insurrezionale [...].
Ogni paese di Romagna aveva le sue orchestre. I
Balach le conoscevano tutte. Chiamavano a nome i suonatori con cui familiarizzavano. Erano suonatori campagnoli, quelli. Qualcuno non conosceva nemmeno le note
musicali. Ma che orecchi fini! Che senso del ritmo! Che
genialità nell’inventare temi melodici e accompagnamenti con intonazioni impeccabili!
La più famosa delle orchestre da ballo della Romagna
fu per molto tempo quella del cesenate Zaclèn. Un vio40
lino primo, un violino secondo, una chitarra, un contrabbasso e un clarinetto, gorgheggiante a orecchio
come un usignolo. Zaclèn, con i suoi valzer travolgenti,
faceva impazzire i ballerini. L’orchestra suonava senza
musica. Il clarino inventava il controcanto con una fantasia inesauribile. Il contrabbasso batteva il tempo sulla
corda con il fragore di una cannonata. Si portava dietro
una misteriosa cassetta sulla quale poggiava il puntale
dello strumento per rinforzare il suono [...].
I Balach avevano fatto del ballo il piacere più alto
della loro vita. Il loro caso era l’indice rivelatore di un
costume.
Può darsi che anche la Romagna oggi paghi il suo tributo ad altre passioni. Ma se i partiti allora volevano
avere un’influenza sull’anima popolare, non potevano
disinteressarsi del ballo. Ciò spiega perché un inverno
anche i cattolici di Faenza e dell’alta valle del Lamone –
attivi e combattivi quanto i repubblicani e i socialisti, sia
nel campo politico che in quello economico – avessero
anch’essi deciso di organizzare le loro veglie danzanti,
con premi, gare di ballo, banchetti e oratori.
Venne, così, fuori una canzonetta un po’ sguaiata, di
sapore polemico, che nemmeno a farlo apposta, proprio
su un ritmo di valzer diceva: ‘Al saviv i mi burdell / quell
ch’ià fatt i squaciarell! / ià mess so una societé / che st’invern i vo balè. // Par paghèr i sunadur / ià vindù tot i
signur; / par paghèr al balarèn / ià vindudi al madunèn.’
Tradotte alla meglio le strofette dicevano: ‘Lo sapete
ragazzi, ciò che hanno fatto i squaciarell? (Squaciarell
erano soprannominati i democristiani avanti lettera della
vallata del Lamone). Hanno messo su un circolo perché
nei prossimi inverni vogliono ballare. Per pagare i suonatori hanno venduto tutte le immagini del Signore e per
pagare le ballerine, quelle della Madonna’. [...]
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Bevitore a nessuno secondo il vecchio Balach morì di
un colpo secco (un genere di morte apprezzato, almeno
dai romagnoli, i quali, di solito, si consolavano commentando: ‘poveraccio, almeno non ha sofferto!’). Quando i
figli apersero il testamento, fecero un salto; e benché
ancora commossi per la imprevista dipartita del loro
capo, sbottarono in una fragorosa risata.
Balach non aveva terre da lasciare all’infuori della
tomba di famiglia. Il testamento conteneva soltanto una
volontà: essere accompagnato al cimitero a tempo di valzer invece che con la solita marcia funebre della banda
municipale».
La richiesta che, all’epoca, dovette apparire a qualcuno irrispettosa al limite dell’indecenza o ai più benevoli
quanto meno bizzarra (ma in seguito diverrà una
“volontà” diffusa specie se accompagnata dall’inno
Romagna mia eseguito dall’Orchestra Casadei), dette la
stura all’immancabile polemica col parroco che sovrintendeva al cimitero. Alla fine, però, l’accordo fu raggiunto. Il valzer venne eseguito, davanti al morto, dal
«concertino di strumenti a fiato» diretto da Zvanì ad
Baroia, prima che venisse chiuso nella cassa, alla sola
presenza dei figli. Pare che la gente fuori ridesse mentre
i figli piangevano. Poi si formò il corteo e tutto filò liscio.
Con grande afflusso di popolo.
Da un’intesa tra la casata dei Baroia e quella dei
Pulétt era nata la fanfara socialista Andrea Costa, ma
pure il concertino da ballo, diretto da Zvanì, che suonò
in morte del vecchio Balach, e che era assai richiesto
nella zona. Alessi descrive un’altra esibizione del gruppo
e ci propone un’assai vivida descrizione di un locale da
ballo dell’epoca. Gli lascio un’altra volta, l’ultima, la
parola.
«Il nostro arrivo venne salutato festosamente dai diri42
All’inizio degli anni trenta, l’epoca delle sfide musicali tra le formazioni che eseguivano musica romagnola. L’Orchestra Casadei esibisce
la sua divisa. Da sinistra: Guido Rossi, Secondo Casadei, Elmo
Bonoli, Primo Lucchi, Giovanni Fantini, Olindo Brighi. Una delle
tante innovazioni che Casadei introdusse nella sua orchestra fu,
appunto, l’uso della divisa.
genti [s’inaugurava una sezione socialista], i quali si
affrettarono ad indicarci una specie di lungo pulpito,
sotto il soffitto della stamberga, destinato all’orchestra.
Dal centro del soffitto pendeva una grossa lampada a
gas acetilene, di un genere assai diffuso nella ‘bassa’.
Essa spandeva raggi accecanti che, per altro, a causa del
violento contrasto tra luce ed ombre, impedivano di
distinguere nettamente volti e fattezze delle persone.
La sala rigurgitava di uomini e donne, prevalentemente giovani. Tutti attendevano in silenzio che le prime
note del concertino rompessero quell’atmosfera dando
inizio al ballo.
Salimmo sul pulpito, piuttosto traballante. A stento
riuscimmo a sistemarci su vecchie sedie che, sotto il peso
dei nostri corpi, scricchiolarono [...].
Attaccammo un valzer; anzi, il famoso valzer del
Faust di Gounod, che Zaclèn, con il suo portentoso violino, aveva reso popolare. La folla, che si era addensata
compatta sotto l’orchestra, fu come frustata da un
improvviso brivido collettivo. Le coppie, pronte per lanciarsi come in una gara, furono travolte dalle prime battute. Un denso polverone si levò dal pavimento sino a
formare un’impenetrabile cortina sopra la testa dei ballerini. Ci sembrò di suonare cavalcando una nuvola; ma
una nuvola che salisse da un enorme pentolone di pece
in ebollizione.
Rassegnati al nostro destino, continuammo a suonare
un valzer dietro l’altro senza preoccuparci di quello che
stava avvenendo sotto di noi. Ogni tanto consultavamo
l’orologio invocando la mezzanotte, l’ora del discorso
[inaugurale] e del banchetto, che ci avrebbero permesso
di uscire dalla bolgia, di andare un po’ all’aperto a respirare».
Nelle pagine di Rino Alessi, dedicate al “demone
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della danza”, campeggia un altro demone quello della
politica. Che, nell’opinione comune, sopravanza di gran
lunga quello medesimo della danza. A esso avevamo già
alluso. E non potevamo non incontrarlo di nuovo. Con
tutto il suo peso di sentimenti e valori. Subito ce ne congediamo. Non perché di poco momento. Anzi. Ma perché ci trascinerebbe fuori dal nostro tema. Che riprendiamo soffermandoci su un personaggio sbucato da
Calda era la terra: Zaclèn musicista e compositore.
Zaclèn, al secolo Carlo Brighi, nasce a Fiumicino, da
una famiglia di contadini, nel 1853. Secondo un uso
assai diffuso in Romagna gli viene affibbiato, a un certo
punto della sua vita, il nomignolo di “anatroccolo”
dovuto alla sua passione per la caccia alle anitre.
Fiumicino è frazione di Savignano di Romagna (poi
Savignano sul Rubicone). Era (e è ancora) un pugno di
case addossate al fiume Rubicone o meglio al Fiumicino:
al quale, solo dopo lunga diatriba – alla quale abbiamo
già fatto cenno – con i limitrofi Pisciatello e Uso, venne
assegnata ufficialmente la qualifica di Rubicone: quello
attraversato da Cesare con le legioni dando inizio alla
guerra civile. Fiumicino sta tra Savignano, San Mauro,
Gatteo e Sant’Angelo (terra natale, già lo sappiamo, di
Secondo Casadei). Nel cuore di quella che abbiamo
definito area linguistica “del dittongo”. Lì (o qui dato il
punto di vista di chi scrive) anatra si dice zàqual invece
di zàcul, e anatroccolo, non zaclèn ma, a seconda del
luogo: zacléin (a Savignano), zaclòin (a San Mauro),
zaclòen (a Bellaria) ecc. Tutto ciò, ovviamente, con reciproche influenze e scambi. Dato il luogo di nascita di
Carlo Brighi il soprannome ovvio e dovuto è quello nella
parlata savignanese. Al massimo si potrebbe accettare
un’influenza della vicinissima San Mauro. O di Bellaria,
la cui spiaggia e il cui mare furono assai amati da Panzini
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che vi tenne casa, proprio quando Brighi vi si trasferì
aprendo una balera. O magari la versione Zaclain che
compare, inopinatamente, in una poesia del savignanese
Gino Vendemini: «La saira i bala e’ boston da Zaclain».
Non certo il soprannome, Zaclèn, ecumenico, per così
dire, romagnolo.
In un bel libro sul dialetto di Pascoli, Il dialetto di
Gulì, Claudio Marabini, fine letterato e giornalista faentino, dati alla mano, dimostra che il poeta di San Mauro
non usava il dialetto materno. Insomma si serviva di una
lingua priva di dittonghi. Augusto Campana, che è probabilmente il più grande studioso della cultura romagnola, originario di Santarcangelo, ebbe a sostenere la
seguente tesi: «noi quando siamo con romagnoli di altre
zone, in Romagna o fuori, ci vergogniamo di questa
nostra particolarità e la correggiamo» adeguandoci alla
parlata dominante. Zaclèn, che il successo portò ben
presto oltre i confini paesani, avrà fatto lo stesso – come
confermerebbero anche appunti autografi nei quali egli
firma Zaclèn. Oppure, più verosimilmente, sarà stato
l’ampio pubblico romagnolo a imporgli, con la forza dei
numeri, della quantità, la propria dizione. L’esortazione
al suonatore, «Taca Zaclèn!» (alla lettera: comincia
Anatroccolo), è divenuta proverbiale. E a essa, per non
dare l’impressione di un ingiustificato sussulto campanilistico, anch’io, rigorosamente, mi attengo.
Quella che noi oggi chiamiamo musica popolare
romagnola o, più comunemente, liscio ha origini lontane. Sia spaziali sia temporali. Il luogo: la Mitteleuropa. Il
tempo: la prima metà dell’ottocento. Accade, là e allora,
che le danze cortigiane, come per esempio i minuetti,
cedono il passo a valzer, polche e mazurche. La classe
borghese, che ormai sopravanza quella nobile, non s’identifica più (a patto che si sia mai identificata) negli
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stantii rituali delle danze cortigiane, ma ambisce a nuove
musiche, a diversi balli. Che possano essere ascoltate e
danzate fuori dai saloni nobiliari: nell’ambiente vivo e
frenetico delle città, nei luoghi pubblici destinati a ritrovo come i caffè concerto che si diffondono sempre più.
Le vecchie tradizioni scompaiono in fretta. S’impone
il ballo di coppia che s’esegue abbracciati volteggiando.
I corpi entrano in contatto. Anche questo è un segno dei
nuovi tempi. Di un pur se timido mutamento, in senso
liberale, delle abitudini sessuali. O, per dirla con più
esattezza, della prossemica: dello spazio che l’uomo, in
ogni società storica, interpone tra sé e gli altri. Più vicina è la donna. Più facile è l’occasione. Il che non mancarono di notare, aspramente, i moralisti allora in cattedra sottoponendo i balli di coppia a una violenta propaganda censoria. Ma nulla valsero le loro proteste. La passione per le nuove danze dilagò in fretta in tutta
l’Europa. Il valzer ne fu il principale veicolo.
In Romagna, dove la passione per la danza – almeno
secondo a quanto si dice – è già forte, il valzer s’impone
ben presto come ballo urbano. Nelle sale o nei capannoni di paese o di città. Solo in seguito dilagherà nelle campagne dove sono ancora in voga le caratteristiche danze
di gruppo saltate: furlana, monferrina, saltarello e trescone che pare fosse tipicamente romagnolo.
È a questo punto che entra in scena Carlo Brighi. Il
padre è violinista autodidatta e gli trasmette forse, il
“demone” della musica che, certo, mal si concilia con le
dure necessità del lavoro dei campi. Immaginiamo che il
giovane Carlo abbia discusso e lottato non poco per
seguire la sua passione: per riuscire a acquisire un’educazione musicale; per diventare un suonatore. Sappiamo
che ci riuscì e si perfezionò in violino a Cesena col maestro Antonio Righi presso la scuola di musica comunale.
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All’epoca le scuole di musica comunali e le bande municipali erano assai diffuse. Furono queste l’“accademia”
di generazioni di suonatori e compositori romagnoli di
estrazione popolare.
Brighi è un ragazzo di talento è viene subito arruolato in orchestre di rango dirette da maestri autorevoli tra
cui lo stesso Toscanini. Più tardi abbandona quel tipo di
attività musicale che si svolgeva a teatro per suonare in
giro per la Romagna. Non sono a conoscenza di testimonianze circa le motivazioni che indussero Carlo.
Suppongo che, essendo lui un socialista della prima ora
(aderì al Partito socialista rivoluzionario di Romagna di
Andrea Costa che precorse la nascita del Partito socialista italiano di Turati), fosse spinto da un senso di giustizia. Mi piace pensare, insomma, e credo di non sbagliare, che egli avesse come scopo principale quello di portare, opportunamente da lui rielaborata, la musica dei
ricchi, dei benestanti, dei borghesi, ai poveri, al popolo
della sua terra. Fu così che «per circa cinquant’anni, con
la sua orchestra errò trionfalmente per la Romagna –
come testimonia Dario Mazzotti – suonando musica da
ballo, nel suo salone di legno, che innalzava a sera sulle
aie, nei campi, nei paesi», e solo «alle prime luci dell’alba faceva smontare». Nel salone «la gente ballava tutta
la notte senza stancarsi. I ballerini pagavano un soldo
ogni due balli, poi tiravano la corda ed il baraccone si
sfollava per riempirsi tra urtoni e gomitate sino al mattino». Era questo il caratteristico bal de’ baiòch regolamentato da una corda tesa che serviva a dividere quelli
che avevano pagato per ballare da quelli che non l’avevano fatto. Accorrevano da tutta la Romagna per danzare con Brighi e il suo complesso che risultava, oltre a
Brighi, direttore e primo violino, così composto: Emilio
Brighi, suo figlio, secondo violino; Lugaresi, padre, di
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Villalta, clarinetto in Do; Francesco Bugli di Savignano,
chitarra; Lugaresi, figlio, di Villalta, contrabbasso.
Ma non basta suonare, occorre pure comporre. La
domanda di musica da ballo “romagnola” è crescente. E
Brighi, in quel periodo così fervido, non si risparmia.
Compone circa 1200 tra valzer, polche e mazurche. Per
se stesso e per altri. Soprattutto per i direttori d’orchestra di campagna che ormai pullulano. Nasce allora, probabilmente, l’esortazione eponima «Taca Zaclèn!». Che
è anzitutto la richiesta di eseguire un pezzo o magari di
replicarlo; ma rappresenta più in generale un modo di
essere romagnoli e un mondo fatto di musica e danza.
Zaclèn intanto si è sposato e si è trasferito in quel di
Bellaria, dove, al piano terra della propria casa, apre una
sala da ballo nota come il “capannone Brighi”: qui, nei
pomeriggi della domenica, affluisce gente da ogni parte.
Ma quali sono le caratteristiche di questa musica da
ballo che per alcuni costituisce la semplice trasmigrazione
di una moda borghese (quella del ballo a coppia chiusa,
in particolare il valzer) ai ceti popolari urbani e contadini
che semplicemente l’assimilano e per altri, invece, rappresenta l’autentica, la genuina espressione dell’“anima”
popolare romagnola?
Sono pochi anni ch’è caduto il vieto pregiudizio che
gravava sulla musica da ballo come oggetto di studio
mentre, purtroppo, non è del tutto scomparsa la sufficienza con cui spesso s’è trattata la musica popolare
romagnola, Lauro Malusi, uno dei primi studiosi, assieme a Franco Dell’Amore, a occuparsi con serietà di questi argomenti ci aiuta a rispondere alla domanda.
«Fu certamente una musica assai diversa da quella
che si crede fosse; una musica dallo stile inconfondibile
la cui caratteristica grintosa e particolare la differenzia
assai da quella delle altre regioni [...].
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Queste musiche si basavano essenzialmente sull’andamento veloce e sul virtuosismo tecnico strumentale,
sulla accentuazione ritmica e dinamica dei tempi quasi
sempre ternari – i balli lenti non esistevano affatto, né
tanto meno canzoni o melodie cantate – perciò le coppie
di ballerini erano costrette ad un vero e proprio tour de
force specialmente a causa dell’ossessione ritmica e della
lunghezza dell’intero ballabile.
Se queste composizioni virtuosistiche venissero eseguite oggi in un pubblico concerto – cosa non certo difficile da realizzare – si stenterebbe ad immaginare che
nel secolo scorso servivano da semplici ballabili a piccoli complessi (quintetto) che li eseguivano in ampie sale
da ballo [...] affollatissime di persone vocianti e allegre,
affumicate dai lumi a petrolio e frastornate da suoni che
arrivavano ai loro orecchi sempre assai distinti e brillanti, nonostante la mancanza di qualsiasi mezzo di amplificazione.
Il violinista, che quasi sempre era il capogruppo
(capo-orchestra), era anche il compositore dei ballabili
che costituivano l’intero repertorio; esso ispirava il suo
virtuosismo strumentale sul modello paganiniano, tanto
che era raro trovare un complesso di un certo nome che
non avesse in repertorio qualche brano di Paganini,
come per esempio Il carnevale di Venezia o qualche altro
pezzo del genere, naturalmente adattato alle esigenze
tecniche, sia dello stesso violinista che a quelle degli altri
elementi del complesso.
Era un genere quindi di non facile esecuzione, che
richiedeva soprattutto un violinista abilissimo ed un
altrettanto bravo clarinettista [...].
La formazione tipica di questi complessi era composta da due violini, clarinetto in Do, chitarra e contrabbasso; solo nelle grandi occasioni, nei veglioni a teatro o
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nei luoghi all’aperto, a questa formazione si andavano ad
aggiungere altri strumenti ad arco, gli ottoni (due trombe e trombone) e qualche altro strumento d’accompagnamento».
Il repertorio dei gruppi era composto di ballabili,
creati dallo stesso capo-orchestra o da qualche collega
con l’aggiunta di «brani in voga tratti da opere liriche,
operette e ballabili viennesi». Il tutto veniva raccolto in
album manoscritti. I ballabili venivano ordinati per
numero. Assai di rado avevano un titolo, per esempio un
nome femminile.
Non siamo in grado di addentrarci in sofisticate disquisizioni di carattere musicale. Dunque ci accontenteremo
di affermare – confidando di non incappare nelle ire di
musicisti e musicologi – che il valzer romagnolo come la
polca e la mazurca sono caratterizzati dal virtuosismo dell’esecuzione e dalla velocità dell’andamento (assai più
veloce, per esempio, di quello del valzer viennese che è
all’origine). Insomma più grinta nell’esecuzione musicale;
più grinta nei gesti della danza. Se nel valzer viennese si è
come cullati dal tempo e dal ritmo: si “galleggia”; nel
romagnolo si è come sospinti da ritmi più rapidi: si
“salta”. Si salta al ritmo degli archi ma soprattutto a quello del clarinetto in Do che è, secondo l’opinione comune,
la “vera voce della Romagna”. Poiché esegue il cosiddetto
stile “staccato”. Che consiste appunto nello “staccare”
tutte le note slegando ogni frase musicale. Una melodia
“saltellante” che i ballerini romagnoli apprezzano in
modo particolare, che sentono e eseguono come loro.
Non a caso, a detta di Raoul Casadei, lo «stile della musica romagnola è determinato dall’uso del clarinetto». Che
in seguito, ma solo in seguito, quando Secondo, suo zio, lo
introdurrà, «lavorerà in coppia col sax contralto». Ma su
questo avremo occasione di ritornare.
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Raoul confessa di chiamare il clarinetto in Do (così
detto per distinguerlo dal clarinetto in Si bemolle, «dal
suono robusto, con la voce più bella») «clarinaccio, per
la sua violenza, la sua capacità di trascinare, di far muovere le gambe alla gente. Uno col clarinaccio è costretto
a ballare anche se non ne ha voglia». (Tutto romagnolo,
osservo di passaggio, quest’uso del suffisso dispregiativo
“accio”, in dialetto “az”: indica l’esatto contrario: non
spregio ma simpatia e anche ammirazione. Come dire
che un romagnolo, per una strana espressione di quel
pudore a cui abbiamo accennato, quando ama qualcosa
deve, in qualche modo, ostentare un certo distacco, e
disprezzo.) Il clarinetto in Do, rispetto a quello in Si
bemolle, «ha il suono più acerbo, più stridulo, più allegro». Nei conservatori nemmeno si studia. E «si fabbrica esclusivamente per la Romagna». Sempre a detta di
Raoul, i romagnoli, anche quando non ballano, ma semplicemente ascoltano, si piazzano accanto al clarinettista
per cogliere, oltre alle note, persino la sua mimica facciale. Poi, nel bar, discutono di clarinettisti come fossero capi politici o campioni del calcio e della bicicletta.
Resta di dire, infine, sulla controversa questione,
sopra adombrata, se la musica popolare romagnola
costituisca una forma di supina assimilazione di pratiche
e modi d’essere e d’agire di classi superiori o, al contrario, rappresenti una sorta di genuina e spontanea espressione popolare.
La cultura, intesa come la più ampia estrinsecazione
dell’attività umana, non funziona come la logica astratta
(a è l’esatto contrario di non-a, secondo la filosofia di
Aristotele). Non vi domina il chiaro e lo scuro. Le persone, le cose, gli avvenimenti s’incontrano, si scontrano,
s’influenzano a vicenda in un andirivieni perenne.
Perché ciò non dovrebbe succedere nel campo della
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musica e della Romagna? I romagnoli, “estroversi per
natura”, hanno accolto a braccia aperte la nuova moda
che, per di più, incontrava una loro esigenza di socialità.
L’hanno assimilata. E hanno prodotto qualcosa di
nuovo. Con le caratteristiche che abbiamo sommariamente tracciato sopra.
Se a qualcuno le mie affermazioni sembrassero una
modesta applicazione di un altrettanto mediocre presunto “giusto mezzo” o niente di più che una semplice
applicazione del buon senso, mi atterrò, per concludere,
ai sintetici fatti seguenti.
Quando Zaclèn muore, nel 1915, la sua musica è
affermata in Romagna. Ha conosciuto, è vero, una sorta
di appannamento nell’ultimo ventennio dell’ottocento.
Ma poi, grazie anche al turismo balneare nascente, ha
ripreso smalto e brio nei primi decenni del novecento.
A cavallo dei due secoli nella scia di Zaclèn, in
Romagna, hanno operato un gran numero di gruppi
musicali (in dialetto squèdri, squèdra al singolare). Che si
spostavano col calesse o la carrozza, zeppa all’inverosimile di strumenti, musicisti e l’immancabile cassa contenente gli album col repertorio dei ballabili. Malusi ne ha
stilato un catalogo: Galvên, i fratelli Fusconi di Massa
Matelica, Ravenna; Aldo Bovolenta di Cervia; Bitelli di
Fusignano; Bond, Gaspare Bondi di Ravenna; Bruto,
Bruto Gentili e la figlia Lidia di Cesenatico; Cappelli di
Predappio; Carletto e i Febar ad San Martên, Carlo
Barbieri e i fratelli Rinaldi di Forlì; Chiccöun, i fratelli
Checconi di Lugo; Giustinett di Ravenna; Leonardi, i
fratelli Mario e Nino Leonardi di Ravenna; Mentore,
Mentore Dallamora di Cervia; Negri di Conselice;
Ortolani e Bernabè di Faenza; Resta, Alfredo Resta di
Faenza; Semprini di Rimini; Spaghet; Geremia
Fusignani di Matelica; Zangheri, Domenico Zangheri di
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Meldola; Zanzi, Romolo Zanzi di Ravenna; Zcarel e
Brustol di Cesena; Zaclèn figlio... In alcuni casi (pochi)
ci è pervenuto il nome del complesso. In altri (di più)
quello del capo-orchestra. Che dava il nome all’intero
gruppo.
Anche se la storia non s’è data troppa pena di conservare a futura memoria nomi e vicende dei suonatori
romagnoli, non c’è alcun dubbio che c’erano; erano assai
attivi; e piacevano. È questo il clima, quando irrompe
sulla scena Secondo Casadei.
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... e poi venne Casadei e’ sunadòur
Due o tre cose che so su Secondo Casadei
l’uomo della musica
Secondo Casadei nasce a Sant’Angelo, l’abbiamo
detto, una frazione di un piccolo paese, Gatteo, il primo
aprile del 1906, da Federico e Ernesta Massari, nella
«prima casa a sinistra dopo il ponte sulla Rigossa, andando verso il centro del paese» ricorda Angelina, la sorella
minore. All’anagrafe gli viene imposto il nome Aurelio.
Ma, come per tutti i romagnoli che si rispettano, questo
nome non viene usato. Gli si preferisce, nell’uso quotidiano, diverso da quello delle carte comunali e statali,
ufficiale, ma discosto dalla vita di tutti i giorni, il soprannome. Secondo appunto. Che certifica l’appartenenza a
una comunità assai più e meglio degli astratti registri
parrocchiali o comunali. Legittimati da un potere lontano e neanche tanto amichevole: prima il papa-re; poi un
generale francese, anche se di nome italiano, che diventerà imperatore; infine un re italiano, con non sporadiche ascendenze francesi.
Il soprannome era «diffusissimo, un tempo, in
Romagna, ‘colpiva’ – ci racconta nel suo sapido
Dizionario romagnolo (ragionato) Gianni Quondamatteo
– sia il singolo individuo, sia il nucleo famigliare: accompagnava il primo dall’infanzia alla morte, accompagnava
il secondo di generazione in generazione. Impietoso o
meno, ridicolo o no, il soprannome personale aveva
cento motivazioni cui aggrapparsi, mille giustificazioni
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da addurre: muoveva da un tratto caratteristico del fisico, a un portamento, difetto, inclinazione, fino alle pieghe del carattere, del cuore, del sentimento. La fantasia,
la creatività, l’inventiva nel campo dei nomignoli meriterebbero ben altra attenzione. Restiamo in superficie: il
nomignolo colora, accarezza, fotografa colui cui è stato
affibbiato: l’ironia è molto spesso presente, la politica
non manca, così come, a torto o a ragione, la guerra e i
grandi avvenimenti. Il nomignolo del gruppo famigliare
nasceva spesso, invece, da una distorsione del vero
cognome, da una vecchia professione o attività, dal
luogo di origine. Il fatto è che nel passato – conclude
Quondamatteo – nove persone su dieci, e anche più
conoscevano Bruglòn e non Giovanni Fabbri, Saraghina
e non Giuseppe Rossi, e che spesso era il manifesto funebre che ci rivelava, è proprio il caso di dire ‘in extremis’,
il vero nome dell’amico defunto».
Così Aurelio diventa Secondo. In ragione del fatto
che la primogenita dei Casadei muore prematuramente
pochi giorni dopo la nascita. Aurelio-Secondo manifesta
in breve tempo la sua vocazione musicale. Sarà lui l’erede di Zaclèn. Sarà lui il rinnovatore della musica popolare romagnola. Sarà lui il fondatore della moda del ballo
liscio. Secondo il seguente percorso. L’aristocrazia e la
borghesia romagnola s’appassionano alle musiche da
ballo dell’Europa centrale. Zaclèn & Co. le metabolizzano e le portano dai centri urbani nelle campagne e nei
villaggi. Secondo, attraverso le modalità che vedremo, le
riporterà nelle città, in Italia e nel mondo (come dimostra il successo di Romagna mia).
Fatto bizzarro. «Anche se il genere folcloristico
romagnolo oggi viene chiamato liscio, Secondo Casadei
non usa mai tale espressione negli anni dell’anteguerra e
si stupirà, anzi, di sentire definire in tale modo la sua
56
musica negli anni sessanta e confida alla figlia Riccarda:
‘Sai che fuori dalla Romagna chiamano liscio il nostro
genere? Non mi convince questo termine, anche perché
la nostra musica frizzante e briosa tutto mi sembra essere, fuorché una cosa liscia’. Forse gli sfugge in quel
momento – annota Riccardo Chiesa in un puntuale resoconto della prima parte della vita di Casadei – che l’espressione ‘liscio’ non vuol riferirsi tanto al tipo di musica, quanto al modo di ballarla, che richiede un continuo
lisciare di piedi».
Malusi, che concorda con Secondo, spiega: «In epoca
recente, probabilmente per esigenze commerciali, si è
voluto chiamare questo genere musicale nostrano con il
termine improprio di liscio, un termine che non si addice affatto alla caratteristica di questa musica che, proprio per il suo stile spiritoso, vivace, elettrizzante, col
genere liscio proprio non ha nulla a che fare».
Castellani, biografo ufficiale, rincara la dose: «Lo
chiamano ballo liscio, perché si balla strisciando i piedi
sulla pista della balera. Ma quando mai! I piedi volano,
saltellano, punta e tacco, audaci giravolte e imprevedibili figure, come in un film di Gene Kelly. Anzi meglio!»
Raoul attribuisce ai soliti giornalisti l’introduzione
del termine. Si sarebbero ispirati ai milanesi che (tanto
per non smentire un luogo comune da loro stessi accreditato, che li vede sempre protagonisti) dicono di averlo
inventato loro, il liscio, tanti anni fa: si chiamava liscio
ambrosiano. Sarà pur vero – chiosa Raoul. Fatto sta che
il liscio autentico, quello che la gente conosce, nel quale
crede, che ha impresso nella testa, è il romagnolo. E questo è fuori discussione.
Chiediamo soccorso ai musicologi. Il termine liscio,
secondo gli esperti, è effettivamente di origine settentrionale. Nasce per distinguere balli ottocenteschi come
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valzer, polca, mazurca e, in seguito, one-step e tango, dai
tradizionali balli “saltati”. Sono queste le nuove danze
che – l’abbiamo detto – rivoluzionano il concetto stesso
di ballo: catturano prima aristocratici e borghesi, quindi
dilagano tra le masse popolari.
Torniamo a Secondo. Il padre Federico (detto
Richéin) fa il sarto per i contadini. Come quel mestiere
fosse buono, dati il luogo e i tempi, ce lo spiega argutamente Secondo stesso in un suo diario inedito. Nel quale
rivela qualità non banali di narratore.
«Mio padre faceva il sarto, un mestiere rinomatissimo
in quei momenti, ed era conosciuto in tutta la zona. Non
appena ebbi finito le elementari, mi avviò subito a questa
professione con grande entusiasmo perché sapeva di
darmi un lavoro sicuro e di soddisfazione. Infatti in quei
tempi regnava la miseria in tutte le case ma nella nostra si
andava molto bene, perché mio padre aveva una clientela per la maggior parte di contadini ed alla fine del raccolto si passava da queste famiglie in campagna con un
somarello, generalmente lo guidavo io, e ci si riempiva un
po’ di tutto. Chi ci dava mezzo quintale di grano oppure
ottanta chili di granturco, chi legna, chi uova; insomma il
fabbisogno per tutto l’anno in cambio dei lavori da sarto
ricevuti. La nostra era una delle posizioni migliori: infatti quando una famiglia poteva avere tutto questo ben di
dio in casa, era allora considerata benestante [...]».
Siamo nel 1916, un anno dopo la dipartita di Zaclèn,
e Secondo giustamente insiste sulle caratteristiche di
economia di sussistenza e di scambio del luogo. I contadini ricavano i prodotti della terra che servono a vivere;
i borghesi o meglio i borghigiani (il termine borghese
potrebbe generare confusione) producono beni che
scambiano coi contadini. Tutto questo, che sembra
remoto anni luce, accadeva poco più di ottant’anni fa.
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Chi, disponendo di un lavoro sicuro e stimato (che gli
sarebbe arrivato in eredità dal padre, un artista, il sarto
più rinomato dei dintorni), avrebbe rinunciato, lì e allora, scegliendo un altra strada? Per di più incerta come
quella del suonatore. Per di più in una società patriarcale nella quale i voleri del capo famiglia sono ordini. Non
è dato sapere se Richéin fosse un patriarca “liberale”; di
certo Secondo era un ribelle, un “maledetto” come sottolinea Angelina, e prese risoluto il suo cammino.
Un ritratto divertente della Sant’Angelo dell’epoca ce
lo propone, sul filo della memoria, Grazia Bravetti
Magnoni. «[...] era solo un borgatino di poche case, con
la stessa chiesa e un palazzo di chi sa quale epoca sul
ponte della Rigossa, che ora non c’è più. Di sicuro c’era
tanta miseria e poco lavoro, perché mancavano le industrie che ci sono adesso. In giro c’era solo disoccupazione, perché le possibilità di lavorare erano solo d’estate.
Lavori difficili, sempre insicuri e così si diceva:
‘Santanzal: i piénta i fasul e i nas i lédar (Sant’Angelo:
piantano i fagioli e nascono i ladri)’ e alcuni aggiungevano: ‘... e i pórta vi ènca e’ fóm me vapòur (e portano via
anche il fumo al vapore)’. Le donne, più che potevano,
andavano a arraffare l’erba dai campi, un po’ d’erba
dappertutto che sarebbe servita per i carrettieri del
luogo. Di carrettieri ce n’erano quattro o cinque nel
paese, come Pelota, che lavorava con tutta la famiglia, o
come i parint dla Rusina ad Scarnécia. Loro, partendo dal
Marecchia, arrivavano fino a Ravenna. Trasportavano la
ghiaia che serviva per le strade e poi portavano anche le
bietole fino alla stazione di Gambettola e le bietole servivano allo zuccherificio di Cesena. I due fiumiciattoli
della borgata erano il Re e la Rigossa, ma non ci si andava neanche a lavare i panni e servivano solo come scoli.
Nel centro della borgata s’incontrava lo spaccio, due
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osterie, il barbiere e nelle scuole elementari c’era solo la
prima, la seconda e la terza. C’erano anche il fabbro e il
fornaio [...]».
Un sarto era il babbo di Secondo, «l’altro sarto abitava su per la Rigossa. Per l’uno e per l’altro i clienti
erano i contadini, che per il pagamento contrattavano
col sarto per tutta l’annata e pagavano di solito col raccolto di grano. Il sarto, come il calzolaio, andava anche
a lavorare nella casa del contadino per due tre o più giorni e, a mezzogiorno, mangiava lì e se era d’inverno,
quando s’ammazza il maiale, al sarto si chiedeva:
‘Mèstar, a magné se bagòin? (alla lettera: Maestro, mangiate col maiale?)’. E il sarto: ‘Mó... s’un da ’d mórs?
(Mah... se non morde?)’. Il lavoro del sarto si poteva
pagare anche col maiale o coi polli o col vino, oltre che
con la farina.
Trovandosi così spesso, sia sarto che calzolaio coi
contadini nelle loro case, era spontaneo che ne nascessero battute o barzellette come quella sull’insalata, che si
mangiava in quei tempi soltanto la sera. Una volta capitò
che una famiglia, in campagna, la mangiasse a mezzogiorno. Dopo il pranzo l’arzdóra [reggitrice, colei che
governa la casa], andando di sopra a controllare il lavoro del sarto, si accorse che nella stanza dove lavorava, il
sarto stava dormendo. Svegliandolo, gli chiese se stava
poco bene e il sarto, tranquillamente volle precisare:
‘No, no, mèl a n stag, mó mè, ma chèsa mi, quant ò magnè
l’insalèda, a vag a lèt parchè l è nòta (No, no, non sto
male, ma io, a casa mia, quando ho mangiato l’insalata,
vado a letto perché è notte)’. E l’altra barzelletta: ‘A
magné sa nòun òz? (Mangiate con noi oggi?)’ chiese
l’arzdóra al mèstar, mentre lei faceva la sfoglia. E lui che
la stava osservando vicino al tagliere, infreddolita e con
la goccia al naso: ‘Mó sgnòura, sgònd duò ch’la chésca
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(Ma signora, secondo dove cade)’ con l’equivoco tra
moccolo e sfoglia».
Se la miseria non mancava, non potevano mancare
neppure le danze. «Il veglione più sentito, a
Sant’Angelo, era quello del 19 gennaio, sant’Antonio
abate. Di solito si teneva dalla Rosina, perché da Carlin
d’Imbrus c’era stato l’ultimo dell’anno. [...] i giorni
prima del 19, il parroco passava in tutte le stalle a dare
la benedizione agli animali, lasciando all’arzdóra della
casa dei piccoli panini per darne pezzettini ad ogni animale. Erano panini insipidi ma i bambini, incuriositi, li
rubacchiavano per assaggiarli. Il parroco lasciava anche
l’immagine del santo che ogni anno veniva posta sulla
porta della stalla. La ricompensa data dai contadini
poteva consistere in uova, ‘parchè znèr l è uvèr (perché
gennaio è ovaiolo)’, ma se si era tanti in famiglia, le uova
servivano tutte, allora si lasciavano due, tre, anche cinque lire. Con quell’offerta, per il 19, i priori organizzavano una festicciola con messa cantata e i violini e moltissimi addobbi. Per la messa sarebbe entrata moltissima
gente; se la giornata era buona, poteva darsi che il pomeriggio ci fosse la banda. Non era come adesso, che
durante la giornata si portano gli animaletti da cortile,
ma allora, dopo il passeggio, verso le quattro, c’era la
predica e la benedizione e i ragazzi accostavano le ragazze per combinare la serata».
È questo, all’incirca, l’ambiente nel quale Secondo
muove i primi passi e ascolta le prime note musicali che
gl’instillano il demone musicale e ballerino. Nel suo diario annota che il lavoro di suo padre gli piaceva “abbastanza”. Ma immediatamente aggiunge: «a tredici anni,
quando ebbi modo di ascoltare le prime orchestrine da
ballo nelle balere, fui subito preso da una grande passione per la musica ed il giorno dopo cantavo i motivi
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della sera precedente, facendo la parte del clarino a
voce, imitando con due bastoncini i movimenti del violino, mentre i miei genitori mi guardavano con una certa
meraviglia e anche con una certa soddisfazione». Che si
sarà tramutata, in breve, in preoccupazione. Secondo è
sempre più attratto. A Richéin, ago e filo in mano, quel
figlio sfugge. Non si riesce più a trattenerlo dentro le
mura di casa perché qualcosa lo sospinge irresistibilmente là dove si balla. «Allora – ricorda Secondo –, per
la maggior parte, i minorenni non li volevano, ma io in
un modo o nell’altro (ero molto furbo e soprattutto desideravo entrare a tutti i costi) con qualche trucco o scherzetto ci riuscivo, però non poche erano le volte che mi
prendevo, dai soci organizzatori di queste feste, qualche
scapaccione, ma ne valeva la pena!»
Sempre più spesso Richéin, che supponiamo, all’uso
del tempo, si sarà servito anche della maniera forte, la
cinghia, deve recuperare Secondo, al mattino, all’uscita
dei locali da ballo, dove suonano Zaclèn figlio, al secolo
Emilio Brighi, i Galvên, Bruto Gentili eccetera. Secondo
è ubriaco di musica e di danze, e distrutto dal sonno.
Una rinfrescata con l’acqua di fonte e poi via. Sulla strada. Verso le case dei contadini. A zcurté (accorciare) o
slunghé (allungare). Arpzè (rattoppare) o arvultè (rivoltare un vestito vecchio) o, più raramente, arnuvè (confezionare un vestito nuovo). Solo nel primo pomeriggio
Secondo può recuperare almeno una parte del sonno
perduto nella balera il giorno avanti. Allora si appisola
sotto il portico della casa colonica che sta visitando con
suo padre. Ma non è quella la sua strada. Non è la polvere e il silenzio della campagna: i ritmi lenti e lunghi
della società contadina. Desidera altro. Sogna – quando
riesce a dormire – altro. Magari altra polvere: quella
delle piste da ballo improvvisate. Magari altri ritmi:
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quelli rapidi dei violini. «La passione della musica – confessa – stava sempre di più aumentando: in certi momenti la sentivo tanto dentro me stesso, che mi sembrava di
scoppiare».
A Secondo non c’è verso di farlo desistere. Così,
complice la madre, viene mandato a imparare i primi
rudimenti musicali da un rinomato liutaio, il maestro
Arturo Fracassi. Forse i genitori pensano che, costretto
a studiare, quel benedetto figlio magari cambierà d’avviso. Si stuferà allineandosi alla vita normale della sua borgata. Tempi regolari. A letto preso alla sera; sveglia presto al mattino. La madre Ernesta ha un’altra chance, l’ultima a suo parere: il servizio militare. Se non lei e
Richéin, provvederà, quando sarà il momento, il servizio
militare a raddrizzare il suo discolo insegnandoli soprattutto a alzarsi al mattino all’ora di tutti i cristiani. Non a
mezzogiorno. Che manca poco ormai a tornare di nuovo
nel letto. Ma quando sarà il momento, Secondo avrà già
imboccato al sua strada. E, comunque, da soldato sarà
riformato per insufficienza toracica.
Il maestro Fracassi lo istruisce. Secondo studia di
buona lena. «Mio padre, le prime volte che mi vide solfeggiare – racconta – e fare quegli strani movimenti con
le mani, rimase molto male e quasi si impressionò.
Cominciò a dire con mia madre: abbiamo un pazzo in
casa». Ben presto Fracassi, visti i risultati ottenuti, gli
suggerisce di presentarsi dal professor Achille
Alessandri che insegna violino alla scuola comunale di
Cesena. Costui mugugna che non si porta qualcuno a
imparare a suonare a tredici anni. Poi, data la testardaggine e il talento del ragazzo, è costretto a ravvedersi.
«Dopo due anni che studiavo – conferma Secondo –
il maestro mandò a chiamare i miei genitori che nel frattempo, pur notando una certa volontà da parte mia, spe63
ravano sempre ardentemente che prima o poi mi stancassi e riprendessi l’antico mestiere, per informarli che
andavo molto bene e di continuare a farmi studiare perché sarei riuscito in pieno».
Secondo è una di quelle persone che nascono con un
progetto in testa, anche se magari all’inizio un po’ confuso, e lo perseguono senza tentennamenti. Non aveva
dato retta ai genitori. Figurarsi se avrebbe ubbidito al
maestro di violino. E non sarà stata certo la distanza del
suo borgo dalla città: l’essere costretto a pedalare fino a
Cesena con qualsiasi tempo (colla pioggia, col freddo) a
farlo desistere. Come lui stesso confessa nel suo diario.
«Purtroppo invece [di continuare nello studio del violino], appena imparate le prime sonatine che trovavo nei
libri di studio, cominciai a andare a fare le serenate sotto
le finestre delle ragazze che conoscevo, accompagnato
da mio fratello Dino che suonava la chitarra. Questo
succedeva tutte le sere». Ma non basta. C’è un altro passatempo prediletto. «Poiché queste serenate portavano a
una certa ora della notte, approfittando del fatto che
non c’era in giro anima viva, cambiavo le insegne; magari c’era Osteria, mettevo quella di Sale & Tabacchi, dove
c’era Macellaio, il giorno dopo si trovava Farmacia e così
via; insomma ne combinavo di tutti i colori. Ero anche
capace, in collaborazione di qualche amico compiacente, di spostare il pagliaio di un contadino dall’aia al
campo vicino». Addirittura, una notte, un mucchio di
paglia e legna prende fuoco. Il mattino seguente e’ Gag
(il Rosso) piomba in casa Casadei minacciando l’esterrefatto Richéin: «A n la i ò sa vò ch’a si un galantòm. Mó sa
ciap che delinquént de’ vòst fiul a i spach la pènza te’ mèz
e a stend al budèli sla siva! (Non ho nulla contro di voi
che siete un galantuomo. Ma se prendo quel delinquente di vostro figlio gli apro la pancia a metà e stendo tutte
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1934. Una fotografia scattata in uno studio milanese. Da sinistra:
Elmo Bonoli, Guido Rossi, Primo Lucchi, Secondo Casadei, Leo
Sirri, Giovanni Fantini, Olindo Brighi.
In questi anni l’Orchestra Casadei, oltre a incidere dischi, ha ormai
conquistato, una dopo l’altra, tutte le piazze romagnole: le cosiddette sette sorelle che una filastrocca di un tempo così definiva: Rimini
per navigare, Cesena per cantare, Forlì per ballare, Lugo per tendere imbrogli, Faenza per lavorare, Imola per far l’amore, Ravenna per
mangiare.
le budella sulla siepe!)». Immaginarsi il disappunto del
povero Richéin...
Così andavano le cose, almeno secondo la bella biografia, più volte citata, di Castellani. Una biografia che
assomiglia a una sceneggiatura cinematografica. E a
quando, a proposito di sceneggiatura, il film su Secondo
Casadei? Discorrendo di cinema, poi, non possiamo non
ricordare analoghi episodi della vita di altri illustri romagnoli. Penso a Amarcord, alle vicende della Rimini del
giovane Fellini, e in particolare al malcapitato spettatore
del cinema Fulgor che si presenta inferocito in casa di
Aurelio, padre del protagonista Titta, perché il ragazzo
gli orinato nel cappello dalla galleria del cinema. È questo, in realtà, un ricordo autobiografico di Tonino
Guerra, che scrisse con Fellini la sceneggiatura di
Amarcord, e il fatto avvenne non già al Fulgor ma
all’Eden di Santarcangelo.
Un’impresa che Tonino Guerra avrà compiuto qualche anno dopo (pochi) degli scherzi e delle serenate di
Secondo Casadei. Quelle serenate che sono l’ovvio e
naturale prologo del debutto come suonatore. Alle
veglie nelle stalle, il luogo più tiepido di tutta la casa,
vicino alle bestie che fungevano da calorifero, quando
s’ammazzava il maiale, con piadina, salame e musica.
Oppure per l’Epifania a cantare la Pasquella di casa in
casa per riceverne qualche soldo, un po’ d’olio o di vino
o qualche uovo. Finché a mezzanotte ci si ritrovava nel
luogo fissato per il “cenone”; poi danze fino al mattino.
Oppure, l’estate, alle feste nelle aie in una polvere accecante per la trebbiatura e poco tempo dopo per la vendemmia.
Secondo ricorda con soddisfazione i suoi anni di
apprendistato tra la gente delle sue borgate e delle campagne. Tutti gli «volevano bene» e gli «dimostravano
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simpatia e affetto». Lo pagavano, per così dire, immancabilmente «in natura: Sangiovese, polli, salami,
uova...». E quando arrivava «si sentiva dire: ‘L è ’rivat
Casadei, e’ sunadòur’».
Il giovane violinista, che verosimilmente indossa
ancora i calzoni corti, s’è conquistato una certa fama. Il
suo nome comincia a circolare sulle bocche dei romagnoli e giunge alle orecchie dei diversi capiorchestra.
Finché arriva il giorno del debutto sul palcoscenico.
Secondo la testimonianza di un musicista di Cesena, tal
Guglielmo Benvenuti, tra la fine degli anni dieci e l’inizio dei venti.
«[...] avevo l’impegno di una festa da ballo di una
certa importanza e, trattandosi inoltre dell’inaugurazione di un nuovo locale, il proprietario mi richiese per
l’occasione un elemento in più del solito [...]. Io che
avevo udito suonare questo ragazzetto che mi aveva fatto
un’ottima impressione mi premurai di chiamarlo a venire a suonare con noi. [...] Il proprietario del locale, appena lo vide col violino sottobraccio in calzoni corti, mi
fece quasi un rimprovero. [...] In quei tempi l’orchestra
usava fare gli assolo richiesti dal pubblico. [...] Io
responsabile dell’orchestra chiesi un cortese breve silenzio e detti subito avvertimento al ragazzetto, il quale
alzandosi in piedi eseguì la difficile celebre Mazurca
variata di Migliavacca (che in quei tempi non era pane
per tutti i giorni) e tra un religioso silenzio del pubblico
gli venne proprio eseguita bene tanto che alla fine si
sentì uno scroscio di applausi che insistentemente dovette fare il bis».
L’episodio non trova conferma nel diario di Casadei
che colloca il suo esordio nel 1922 e ricorda un suo assolo con la Mazurca variata, accolto con applausi scroscianti, nel 1924. Siamo più portati a credere a Secondo, pur
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non sentendoci di escludere del tutto la testimonianza di
Benvenuti. Sul quale, tuttavia, aleggia il sospetto di essersi attribuito la scoperta di un famoso musicista.
E così – nello stesso anno della “marcia su Roma” di
un altro romagnolo, questi originario di Predappio: di
nome Benito, in onore di un celebre rivoluzionario messicano, e cognome Mussolini: che all’inizio indossava la
casacca socialista (la stessa di Secondo, anche se il musicista non s’è mai impegnato direttamente)
che poi mutò in fascista – Casadei debutta nei locali
della Società di mutuo soccorso di Borella di Cesenatico
con l’orchestra di Aurelio Bazzocchi, suonatore di contrabbasso.
«Dal palco al soffitto c’era poca altezza – ricorda
Secondo –, tanto che bisognava stare un po’ curvi e la
gente per guardarci doveva tenere il collo proteso verso
l’alto, rischiando un sicuro torcicollo. Eravamo quattro
elementi: violino, clarino, chitarra e contrabbasso. Per
leggere bene la musica avevamo una candela appoggiata
all’asse dove tenevamo la cartella con gli spartiti. In
mezzo alla sala c’era un lume a carburo e negli angoli
due lumini a petrolio che servivano per i casi di emergenza. Essendo il pavimento di mattoni grezzi c’era un
gran polverone, ed a fine serata, verso il mattino eravamo irriconoscibili».
Tempi duri, ancorché entusiasmanti, per suonatori e
ballerini. Il suonatore Casadei, che riceve quattro lire di
compenso, ormai è lanciato. Sedici anni – oggi quasi l’infanzia – all’epoca erano il momento giusto per costruirsi un avvenire.
Incontra Giovanni Fantini di Gambettola, chitarrista, che diventerà suo sodale per eccellenza. E poi il
padre di lui, Giuseppe, che suona il clarinetto nell’orchestra di Emilio Brighi, figlio del grande Zaclèn.
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Formano un trio che si dedica al cinema. La settima arte,
che ha qualche anno in più di Secondo (dieci e mezzo
scarsi a voler essere pignoli), s’avvia a occupare il posto
di divertimento popolare per eccellenza, a superare persino – anche in Romagna – la musica da ballo. E a lui,
che nel popolo ci sguazza, non può non suscitare interesse. E poi il cinema è ancora muto. O meglio necessità
di un accompagnamento di voci e suoni. Il trio, poco
prima dell’inizio dei film, si piazza davanti all’ingresso
della sala e comincia a suonare. Attira gente e l’accompagna all’interno continuando la melodia fino all’inizio
della proiezione. «[...] accompagnavamo con gli strumenti i film muti – spiega Secondo –, adattando i motivetti ai soggetti dei film. Componevamo praticamente
quella che ora si chiama colonna sonora». Ma non si
tratta solo di cinematografo: quella specie di rito laico
che trascina il pubblico all’immersione nella sala buia
per ricevere la luce che emana dallo schermo. Casadei
irrompe – è il caso di dirlo – anche nel luogo ufficiale
della funzione religiosa: per gli italiani l’unica. «Per le
feste di chiesa soprattutto a Natale formavo un complessino con un piccolo coro di cantanti collaborando a
tutte le funzioni. Avevo scritto un paio di litanie e a
tempo di 3/4 andante, ma con l’istinto che avevo dell’un-pa-pa a poco a poco andavamo a finire a tempo di
valzer, e le donne in chiesa cominciavano a battere il
tempo con i piedi. Il parroco durante la funzione mandava da me il sagrestano tutto scandalizzato ad avvisare
di andare molto più adagio, perché altrimenti avrei fatto
ballare la gente che assisteva alla messa!»
Il suo attivismo sfrenato lo induce a suonare anche
come contrabbassista, a conferma della sua versatilità,
nell’orchestra di Arturo Fracassi. Finché gli arriva una
cartolina da Cesena. Mittente Emilio Brighi, alias Emilio
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ad Zaclèn, il capo della più famosa orchestra di
Romagna. Che lo vuole a suonare nel suo gruppo come
secondo violino. Potrebbe trattarsi di uno scherzo.
Qualcuno che ricambia le burle di un tempo. Oppure si
tratta di un suggerimento di Giuseppe Fantini. Fatto sta
che Secondo inforca la bicicletta e si presenta all’appuntamento. Partono su un automobile stipata all’inverosimile. Raggiungono il locale da ballo alla ragguardevole
velocità di venticinque chilometri all’ora. Cominciano a
suonare. Al momento degli assolo la gente prende a gridare: «Vogliamo il ragazzetto». «Il capo – scrive Casadei
– mi guardò e mi chiese se me la sentivo di fare qualcosa da solo. ‘Volentieri’ risposi e attaccai immediatamente con la solita popolarissima mazurca di Migliavacca.
[...] Fu uno scroscio di applausi tanto ma tanto insistenti, che per accontentare il pubblico, dovetti con l’approvazione del maestro Brighi, bissare il pezzo e poi suonarne un altro. La gente non finiva mai di battere le
mani». La performance gli vale l’arruolamento in servizio
permanente effettivo (il che significa, più o meno, che
poteva campare suonando) nell’orchestra di Zaclèn
figlio. E dimostra definitivamente la sua valentia di
musicista. Doveva ancora rivelare, del tutto, le sue doti
di capo. Che comincia a sperimentare costituendo
un’orchestra che suona nelle occasioni meno importanti. Ne fanno parte i già citati Giovanni e Giuseppe
Fantini (rispettivamente chitarra e clarinetto), Edgardo
Gusella di Cesenatico alla batteria: una novità che anticipa uno dei talenti di Casadei: la capacità di innovare e
di rinnovarsi. Il gruppo (che dispone di un calesse per
trasportare gli strumenti, dove siede accanto al conducente il capo-orchestra; gli orchestrali seguono in bicicletta) si avvale, nelle serate più rilevanti, di Iris
Mordenti come secondo violino.
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Tornando a casa da una veglia, il canto del cuculo gli
ispira la prima composizione: il suo primo valzer intitolato, appunto, Cucù. Alla quale, visto il successo, seguiranno molte altre. Casadei svela l’ennesimo dei suoi
talenti: quello di compositore. «Già in questo primo
brano – commenta Castellani – la musica di Secondo
possiede in modo inequivocabile le caratteristiche che
definiranno il suo stile: una linea melodica semplice e
accattivante, un accompagnamento martellato, un controcanto ricco e preciso, tutti elementi che faranno dei
suoi brani irresistibili ‘inviti alla danza’».
Mentre si perfeziona, come musicista, con Emilio
Gironi, nelle sere libere va a “spiare” cosa accade sulle
spiagge della riviera «dove venivano lanciate le novità.
Vidi – ricorda – la prima batteria moderna, il primo
saxofono bello e lucidissimo, divise fatte all’ultima moda
con stoffe molto colorate (di solito noi orchestrali vestivamo sempre in nero e comunque in scuro) e dei cantanti che cantavano in degli imbuti di cartone (i microfoni erano ancora lontani): il tutto era di grande effetto».
Ode anche le canzonette alla moda del momento,
sospinte soprattutto da nuovi media come la radio e il
disco, e convince – come abbiamo ricordato all’inizio –
il capo-orchestra a introdurle nel repertorio.
Ormai all’esuberanza del giovane di Sant’Angelo, l’abito scuro di Brighi va sempre più striminzito. Emilio,
pur dimostrandosi un valido suonatore e un autorevole
capo-orchestra, si limita a ripercorrere il cammino del
vecchio Zaclèn: non possiede la sua capacità di intuire e
praticare il nuovo. Secondo invece sì. E progetta un
abbandono. Il destino di un capo non è esente da lacerazioni. Chissà quali sentimenti avranno scosso Emilio
Brighi, capo-orchestra, quando il suo secondo violino gli
squadernò che se ne sarebbe andato per fondare una sua
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orchestra. Si sarà sentito tradito? Avrà ringhiato contro
l’ingratitudine? O avrà tratto contentezza dall’abbandono? Vuoi per genuina generosità ovvero per togliersi di
mezzo – sentimento meno nobile – questo ragazzo che è
sempre più invadente. Il ragazzo in questione, nel suo
diario, si limita a annotare: «[...] lasciai il maestro Brighi
con molta tristezza, con suo grande dispiacere e con un
bellissimo ricordo di tutti».
Il mondo va avanti. Secondo va avanti. E il suo progetto è sempre più chiaro. Lo definiamo col seguente
slogan: innovare e conservare. Che i linguisti definirebbero endiadi cioè esprimere un concetto attraverso due
termini coordinati, e ossimoro cioè accostare due termini contraddittori. La scommessa di Secondo è, allo stesso tempo, semplice e irta di difficoltà. Attraverso la sua
nuova orchestra, che suonerà ballabili da lui composti,
vuole offrire al pubblico un repertorio musicale rinnovato, ancorché saldamente radicato in quella che – come
sappiamo – con Zaclèn & Co., è diventata la “tradizione” della musica da ballo romagnola, fino a allora impostata sulla coppia violino-clarinetto.
Canzonette, megafono di cartone per il cantante,
divise per gli orchestrali, il ritmo scandito dalla batteria
in luogo del contrabbasso e delle chitarre, la pubblicità
(Casadei si rivelerà anche un eccellente promotore della
propria musica e della propria orchestra): ecco le novità
da innestare sulla tradizione. A cui Secondo aggiunge il
sax contralto. Dalla combinazione di voce che canta, clarinetto in Do, tipico della musica romagnola, e sax contralto ha origine lo “stile” Casadei. Il primo strumento
«fiorisce»; il secondo «canta la melodia» – spiega Raoul.
È 21 giugno 1928. Pensione Rubicone di Gatteo
Mare: una piccola località turistica costituita da una frazione di Gatteo. Giovanni Fantini, nel ruolo di cantante
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e presentatore, introduce, la voce amplificata dal
megafono di cartone, il debutto dell’Orchestra Casadei.
Non manca la sigla di chiusura e d’apertura. I musicisti,
che indossano un’elegante divisa, sono pronti al via del
capo-orchestra e primo violino Secondo Casadei. Si tratta, oltre al citato Giovanni Fantini, di Elmo Bonoli,
secondo violino; Guido Rossi, clarinetto; Primo Lucchi,
sax; Olindo Brighi, batteria.
Come Zaclèn anni avanti a Bellaria, Secondo s’impianta in un posto del turismo nascente, Gatteo Mare,
non abbandonando, di certo, i luoghi soliti della musica
popolare: aie o cambaréun (cameroni). Ovvero le balere
dell’epoca. In genere delle ampie sale rettangolari disadorne: su un lato il palco di legno dell’orchestra, tutt’intorno delle panche (oppure tavolini e sedie), nel centro
la pista. In un angolo della sala il bar che fornisce vino,
liquori e bibite. Come liquore va di moda e’ turchèt
(miscela composta per metà di caffè, per metà di rum
con un goccio di gin). I bicchieri vengono lavati in una
bacinella d’acqua che sta lì da qualche parte. Le madri,
che accompagnano e sorvegliano le ragazze, portano
seco cibarie nelle sporte: ciambella, pollo, coniglio... A
mezzanotte si cena. Non di rado il pretendente, purché
gradito anche all’accompagnatrice, viene invitato.
L’orchestra, invece, è ospite di una delle famiglie benestanti. A volte si pratica il metodo del già citato bal de’
baiòch; altre volte è previsto un biglietto d’ingresso: in
genere solo per gli uomini. La maggior parte delle orchestre espone a ogni tornata di balli un cartello con l’indicazione delle musiche che saranno suonate. Dominano
valzer, polca e mazurca. Meno praticato il tango.
Sempre in quell’anno, il 1928, Casadei compone
anche la sua prima canzone: ispirata a un campione dell’automobilismo. Mentre sfreccia la Mille miglia, si sor73
prende – parole sue – «a canticchiare un motivo» al
bordo della strada. Immediatamente, con la collaborazione di Primo Lucchi, il suo sassofonista, abbozza le
note e il relativo testo su un foglio di carta gialla che
avvolgeva dei panini con la mortadella. La sera stessa il
brano venne eseguito a Case Finali di Cesena che equivaleva, in Romagna, alla Scala di Milano – parola di
Secondo. Fu un successo.
Più o meno nello stesso periodo Casadei inaugura un
altro filone, quello della canzone dialettale romagnola.
Che consolida lo stile e l’“immagine” dell’Orchestra
Casadei. Rinnovare pur rimanendo ben piantati nella
cultura della terra di Romagna. La prima canzone in dialetto è Burdèla avèra (Ragazza avara). Naturalmente un
valzer. Alla quale seguiranno molte altre. Famosissima è
Un bès in biciclèta (Un bacio in bicicletta) della prima
metà degli anni trenta, composta al ritmo avanguardistico dell’one-step. Secondo mescola costantemente il vecchio e il nuovo. Contamina la lingua antica dei padri con
i ritmi moderni d’oltreoceano. E se provoca sconcerto,
soprattutto nei “puristi”, se sconvolge i guardiani della
porta delle tradizioni (che, come sappiamo, sono state
stabilite solo nel secolo precedente), affascina i giovani,
i ballerini disponibili alle novità. E conquista un pubblico sempre più vasto. Un bès in biciclèta è una canzonetta delicata e ironica che ruota attorno a un oggetto assai
amato dai romagnoli: la bicicletta. Le canzoni di
Secondo parlano dell’eterno tema dell’amore e dei contingenti argomenti della cronaca. Lo fanno in italiano e
in dialetto. Al tempo “classico” di valzer, polca e mazurca. Senza disdegnare tango e one-step. Come abbiamo
già detto, e osiamo ripetere, la direzione di Secondo ha
una bussola: il pubblico danzante. Col quale il musicista
ha un rapporto fecondo. Non ne è succube. Anzi. Come
74
ogni “creativo” che si rispetti, pur guardandone con
attenzione i gusti, riesce sempre a farli evolvere, a cambiarli.
La conferma definitiva che la musica e le canzoni di
Casadei ormai oltrepassano i confini della “piccola
patria”, sono buone per l’esportazione in tutta la penisola, arriva con una proposta della casa discografica
Fonit di Milano.
Secondo confessa tutta l’euforia e i timori del provinciale che deve “affrontare” la grande città. «Vivevo nella
mia Sant’Angelo, una piccola frazione, e potete immaginare quando per la prima volta vidi Milano!» Si era preparato meticolosamente e col solito entusiasmo. Ciò
nonostante quella notte non chiuse occhio: «non feci
altro che ripassare più di una volta il programma». Al
mattino, in sala d’incisione, cominciò con un suo valzer,
Ricordo. «Il direttore dell’incisione fu soddisfatto del
primo pezzo e subito diedi il via al secondo che fu
Nuvolari, seguito da Attenti al treno, La nostra orchestra,
Bimba bionda, Alla pesca...». L’anno successivo abbandona la Fonit e passa alla Voce del Padrone, con la quale
resterà per ben trentasette anni.
Gli anni trenta sono per Casadei anche il periodo
della conquista di tutta la Romagna. E del matrimonio:
il 10 gennaio del 1934 sposa Maria Boschetti alla quale
dedicherà oltre venti canzoni. Maria gli darà due figli:
Giampiero e Riccarda. Casadei coltiva, nella pratica
quotidiana, un culto della famiglia. Alla quale, appagato
il demone musicale che lo infiamma, dedica gran parte
del suo tempo.
I suoi biografi collegano gli anni trenta, oltre agli
avvenimenti citati, alle cosiddette sfide. I proprietari
delle sale da ballo per rendere più spettacolari le serate
e accrescere l’interesse del pubblico mettevano a con75
fronto due o più orchestre. Se l’idea che ci siamo fatti di
Secondo Casadei è giusta, lui di gran lunga preferiva alle
algide sale d’incisione, che aveva pur preso a frequentare con entusiasmo, all’atmosfera fredda e anonima della
grande città settentrionale, il calore, il rumore, il sudore,
la passione delle sue balere romagnole. Nelle quali il
termometro cresceva all’atto delle sfide. Giovanni
Fantini non ha dubbi. Con la vittoria contro il Emilio
Brighi, figlio del mitico Zaclèn, alla disfida di Fratta, cittadina termale del forlivese, comincia, nell’agosto del
1930, l’invasione della Romagna. Una ad una le principali città della regione vengono “espugnate” dal brio
dell’Orchestra Casadei. Che – come sottolinea qualcuno
– a differenza delle altre orchestre era costituita di professionisti; di fatto un’orchestra stabile che l’entusiasmo
e il talento del capo tenevano insieme e guidavano sempre più avanti.
Ma questo periodo felice subirà, nel 1937, una battuta d’arresto. Casadei è coinvolto in un grave incidente
stradale nel quale, addirittura, rischia la vita. Durante la
sua assenza nel gruppo esplodono discussioni e contrasti. Occorre intervenire. Secondo ricorda, nel suo diario,
che tutto ingessato lo issarono sul palco che era collocato molto in alto, prossimo al soffitto secondo l’uso dell’epoca; poi lo appoggiarono letteralmente contro il
muro. «Davo solo le disposizioni necessarie – precisa –
per evitare che il complesso si sgretolasse». La presenza
del capo riporta la pace.
«Era per me un periodo particolarmente positivo:
felice in famiglia, felice per il lavoro, giovane ed ottimista [...]. L’orchestra era considerata la migliore in assoluto nella Romagna. Ero chiamato l’Angelini di questa
terra e questo complimento mi faceva un enorme piacere e tanto onore [...]». Aveva, insomma, conquistato –
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Casadei e la sua orchestra nel 1935. La tenuta è estiva. Mentre i musicisti sfoggiano le mezze maniche, il fondale dietro a loro mostra un
paesaggio innevato.
A sinistra: Primo Lucchi e Guido Rossi. Casadei è il quinto, accanto
a lui Elmo Bonoli.
Nelle formazioni estive venivano arruolati musicisti “stagionali”.
come s’è detto – le città della regione: le cosiddette sette
sorelle – nessuna parentela con le temibili multinazionali statunitensi – avevano, non senza resistenza – dato il
municipalismo particolarmente tenace tra loro –, una
dopo l’altra, allineato il passo (di danza) al violino di
Secondo. Già ricordate nei versi della Divina Commedia
(Inferno, Canto XXVII) un bel po’ di secoli or sono, a
esse è stata dedicata anche una filastrocca genuinamente popolare: Rimini per navigare, Cesena per cantare,
Forlì per ballare, Lugo per tendere imbrogli, Faenza per
lavorare, Imola per far l’amore, Ravenna per mangiare.
Una filastrocca va presa per quello che è. E la presente,
in particolare, necessita di aggiornamento. Nessuno
pensa oggi il riminese come un marinaio. Semmai sarà il
ravennate, per quanto lo consentono i fondali
dell’Adriatico, ad aver diritto a questa qualifica. Per il
riminese si potrebbe poporre il “ruolo” di albergatore o
bagnino o gestore di discoteca... Sta di fatto che la
Romagna è varia e diversi tra loro i romagnoli.
Allo scadere degli anni trenta Casadei ha composto
oltre 230 pezzi. E la sua vena creativa sembra inesauribile. Pare che niente e nessuno possa arrestarne lo slancio. Intanto, però, la guerra ha cominciato a sconvolgere l’Europa. Le armate naziste avanzano col ferro e col
fuoco infrangendo ogni resistenza. Mussolini, che s’è
accodato all’infamia delle cosiddette legge razziali contro gli ebrei, si prepara a scendere in campo a fianco dell’alleato tedesco. A offrire qualche migliaio di morti per
sedere vincitore al tavolo della pace – come ebbe a affermare col cinismo, per non dire peggio, che lo contraddistingueva. Secondo non si è mai interessato direttamente di politica. Non è mai stato un militante. Però le sue
idee le ha. Di certo non ama la retorica e la magniloquenza del regime. È senza dubbio uno spirito libero e
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non sembra il tipo da porgere “servo encomio”. Appena
ragazzo ha subito un pestaggio da parte delle camicie
nere. Un musicista suo compaesano, figlio del già citato
Carlin d’Imbrus e di dichiarata fede fascista, con la scusa
che il fratello di Secondo, Dino, s’è portato a casa l’immagine del deputato socialista, Matteotti, martire della
violenza fascista, se la prende assieme ai suoi camerati
con Secondo. Con tutta evidenza non si tratta di politica bensì di un uso strumentale della stessa: Casadei,
come musicista, era incomparabilmente superiore al
figlio di Carlin.
Si dice che il duce del fascismo, tra l’altro suonatore
di violino (ma all’epoca lui era tutto: cavaliere, aviatore,
contadino, scrittore, soldato, amatore eccetera eccetera),
apprezzasse la musica di Casadei. Certo è che entrando
in guerra lo precipitò nella disoccupazione ma soprattutto gl’impedì di suonare in pubblico, di far ballare la
gente. Secondo, nonostante non si ballasse più a causa
del conflitto, non si perse d’animo. Le donne più anziane ancora lo ricordano, con la sua valigetta da commesso viaggiatore, girare le campagne attorno al suo paese
per vendere qualche pezzo di stoffa. Memore dell’insegnamento paterno s’ingegna anche come sarto. E continua a comporre. Sono di quegli anni brani musicali e
canzoni ispirati a vicende famigliari, liete e tristi, come
Giampiero per la nascita del figlio o Dolore e A mamma
per la morte del padre e della madre o la canzone A
Riccarda per festeggiare la nascita della figlia.
Intanto le sorti della guerra volgono a favore degli
alleati. Le loro armate risalgono lentamente la penisola.
Finché il fronte si stabilizza (o forse più esattamente ristagna) sulla linea gotica che attraversa proprio il sud della
Romagna. La guerra arriva a Sant’Angelo di Gatteo.
«Ci siamo trovati nel bel mezzo della linea gotica – rac79
conta Raoul –, in trincea lungo il fiume Rigossa un affluente del Rubicone. Avevamo fatto un rifugio sotterraneo scavando nell’argine del fiume. Per proteggerci meglio, papà
Dino e zio Secondo misero nel bunker un bancone di
legno prelevato nella sartoria di famiglia e per un mese,
tutti e due i nuclei, il nostro e quello dello zio, vissero sotto
un bancone e sottoterra. Eravamo sulla linea di sparo.
Dalla nostra parte del fiume c’erano ancora i tedeschi, sull’altra sponda gli inglesi, che per liberarci per poco non ci
ammazzavano. Infatti i bombardamenti alleati sulle truppe
tedesche erano regolari, ma lì c’eravamo anche noi».
Sant’Angelo e lo zone circostanti sono duramente
colpite dai bombardamenti. La casa dei Casadei distrutta. Si decide di sfollare a Savignano in casa della sorella
Angelina. A Savignano, in seguito, Casadei si stabilirà
definitivamente.
«Attraversammo la linea del fronte di notte – testimonia ancora Raoul –, i tedeschi erano ormai poche
decine, ma per far credere che fossero in tanti passavano
continuamente da un cannone all’altro. Per salvarci
dovemmo attraversare il fiume. Fu una notte drammatica. C’era acqua da tutte le parti: dal cielo diluviava un
misto di acqua e di bombe».
Finalmente il fronte passa oltre; sale a nord. I paesi
romagnoli si liberano dai crucchi. Si riprende a ballare.
In principio per i militari. Poi la vita riprende a scorrere
come prima. Le ferite della guerra – e quelle più drammatiche della guerra civile – cominciano a rimarginarsi.
Si respira, come appresso ogni grande tragedia, un’aria
di rinnovamento. La gente vuole ricostruire, dimenticare e, allo stesso tempo, ricordare per non ricadere più
nell’orrore. C’è voglia di festa: di canti, di danze.
Parrebbe l’ambiente ideale di Secondo Casadei...
Si torna a ballare nei vecchi cameroni. Dove è cam80
biato ben poco dall’anteguerra. Certo aleggia un altro
spirito ma i luoghi si presentano, le persone si muovono
nello stesso modo. Salvo un particolare, almeno per
quanto riguarda il nostro discorso: la gente, soprattutto
i giovani, vuole ballare lo swing, il boogie-woogie: i ritmi
moderni arrivati con gli alleati.
È con gli alleati, gl’inglesi in particolare che controllano questo settore del fronte, che si torna a ballare. Ci
chiamavano e ci davano «molte am-lire: abbiamo trovato l’America» ricorda Giovanni Fantini. Non manca,
però, il rovescio della medaglia. Lo stile alla Glenn
Miller, con trombe, tromboni, pianoforte, relega valzer,
polche e mazurche nel passato. I giovani, appena sentono un pezzo romagnolo, fischiano. Anche a Sant’Angelo.
Proprio lì. Nella piccolissima patria. Un sabato sera del
carnevale del ’48. Con il camerone che rigurgita di
gente.
«Il camerone – spiega Raoul – era la più grande sala
da ballo allora esistente. Lo chiamavano così perché era
una grande stanza di quindici metri per venti [...].
Sant’Angelo è una borgata allungata di lato a una strada.
La chiamavano la strada delle botteghe, perché c’erano i
due o tre negozi che davano vita al paese, ed in fondo ad
essa c’era un ristorante famoso per la cacciagione: da
Carlein. Ed era da Carlein che c’era il camerone: una
sala un po’ affumicata, con grossi travi che sporgevano
sul soffitto e che sembrava dovessero crollare da un
momento all’altro».
Quella sera tutta Sant’Angelo era lì. C’erano anche le
mamme, che accompagnavano le figlie. Sedute sulle panche sistemate attorno al muro, data la quasi impossibilità
di disporre di tavoli, controllavano le figlie. «Quando un
ragazzo chiedeva di ballare alla figlia di una di esse, la
vecchia faceva col capo un cenno di assenso o di rifiuto,
81
decidendo così se la figlia doveva accettare o non quel
cavaliere. Ad un certo punto della serata, quando l’orchestra attaccava un lento, tutte le madri salivano in piedi
sulle panche per controllare dall’alto le figlie», che cercavano di sottrarsi alla sorveglianza e stringersi al proprio
compagno. «Ma alle vecchie non sfuggiva niente».
In questo clima Secondo Casadei, al violino, chiuse
la prima serie di balli con un valzer «tra i fischi dei giovani, che lo contestavano urlando» parola di Raoul.
«Suonare un valzer – chiarisce Remo Panzavolta, un
musicista di Forlì, amico e collaboratore di Casadei – era
come parlare di cose sconce davanti a una signora. Fino
a che suonavano le musiche di moda andava tutto bene,
ma quando cominciava a voler provare a fare il valzer,
oppure una polca o una mazurca, erano fischi, perché gli
spettatori si sentivano offesi, come fossero trattati da
retrogradi, e lo dicevano: ‘È venuto Casadei, con un clarinetto, truliruliru...’. Lo mettevano in ridicolo». Proprio
il clarino in Do: la voce della Romagna.
Ma Casadei non è tipo da mollare. E tanto meno uno
da “ribaltoni”. Seguita per la sua strada. Disposto a rinnovare ma senza abbandonare – come ha capito o intuito sin da ragazzo – gl’insegnamenti del passato.
Una certa ripresa comincia con le polche. Che lui
battezza atomiche. Un aggettivo terribile che ha assunto,
in quegli anni, una connotazione positiva. Moderna.
Esuberante. L’atollo di Bikini, dove si fanno esperimenti nucleari, è diventato addirittura il nome di un costume
da bagno: il famoso “due pezzi”.
Alla polca romagnola – commenta Castellani –
manca «l’energia estroflessa, ostentata, del boogie-woogie». Rivela, in compenso, un’energia compressa e
«repressa, scattante, cronometrica e inesorabile». Come
negli anni trenta, alla base di tutto è il brio, l’aggressività.
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Darci nelle gambe. Spiccarli dal muro. Per Secondo queste frasi esprimono quasi una visione del mondo. E,
com’è sua abitudine, non aggiorna solo il repertorio
musicale. Modifica anche l’orchestra. Aggiunge, secondo il modello americano, i fiati: tromba e trombone. E il
sax tenore. Non basta. Nel 1952 lancia Arte Tamburini,
con ogni probabilità, la prima voce femminile introdotta da un capo-orchestra. Mentre compaiono i primi
microfoni e le chitarre cominciano a essere amplificate.
Il gruppo risale lentamente la china. Ma manca la
consacrazione definitiva. Che arriverà – già lo sappiamo
– con un valzer. La mazurca, la polca saranno pure
diventate romagnole. Magari anche il tango. E l’onestep. Ma il valzer è un’altra cosa: Romagna mia.
L’Orchestra Casadei entra trionfalmente negli anni
del “boom economico”. Conquista la radio e il juke-box.
Secondo diventa “il liberatore”. Così almeno lo definisce
un autorevole giornalista, Dino Biondi. Liberatore, per
una sorta di risarcimento o di legge del contrappasso,
dagli americani. O, per meglio dire, dalle musiche d’importazione, dalle mode esterofile. Casadei ha composto
una canzone a ritmo di valzer che racconta come andò.
Intitolata, appunto, Il liberatore. Dopo l’ubriacatura
americana canta: «Il valzer è tornato / quanta gente ha
liberato. / È ritornato a tutti l’amore / tutti mi chiamano
il liberatore. / La mamma tu vedi ballare / la nonna felice guardar. / Il figlio danzando si mette a cantar / dicendo che bello mi par di sognar».
Accade così che le generazioni si ricompongono. E
Secondo seguita nella sua carriera di musicista, capoorchestra, compositore, promotore della propria musica. Non è possibile, difatti, definirlo con una o due parole: musicista totale non vuol dir niente. Forse lo si
potrebbe dire uomo della musica.
83
All’inizio degli anni sessanta entra in scena il nipote
Raoul. Che diventa, ben presto, il successore designato
dello zio. Iniziano anche i dissapori e le separazioni nell’orchestra. Nel ’62 se ne va Carlo Baiardi per costruire
un suo gruppo. Nel ’68 un’altra pesantissima defezione:
sei orchestrali escono per fondare il gruppo Folklore di
Romagna. Intanto, l’anno prima, l’orchestra ha cambiato nome in Secondo & Raoul Casadei. E continua, nonostante gli abbandoni, a mietere successi nella Romagna
che è diventata ricca. E altrove. Si trasforma sempre più
in orchestra spettacolo nella linea di Raoul. Con storielle e numeri di ballo. Ma questa, che comincia, è un’altra
storia.
Secondo è ormai un musicista acclamato. I giornali e
la televisione gli prestano sempre maggiore attenzione.
Proprio allora lo coglie la morte, all’età di sessantacinque anni. Lascia – tanto per citare un numero, uno solo
– oltre mille incisioni. Con lui si congeda l’ultimo esponente di un mondo che aveva saputo coniugare il vecchio e il nuovo. Con lui se ne va lo Strauss della
Romagna.
Ma per noi romagnoli, che oggi abbiamo attorno ai
cinquant’anni, ultimi sopravvissuti di un mondo scomparso (il suo mondo), e, confidiamo, per le generazioni a
venire, egli seguita a restare, semplicemente, nella lingua
della sua terra: Casadei e’ sunadòur!
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La figlia, l’appassionato, la cantante
Conversazione con Riccarda Casadei,
Riccardo Chiesa e Arte Tamburini
Nei nuovi locali delle Edizioni musicali Casadei
Sonora, a Savignano sul Rubicone all’incrocio tra viale
della Libertà e via della Pace, accanto alla casa di
Secondo Casadei, dove si può visitare lo studio del musicista conservato com’era ai suoi tempi, abbiamo incontrato la figlia di Secondo, Riccarda, che dirige la Casadei
Sonora istituita per diffondere e conservare (tra breve
sarà allestito anche un centro di documentazione) la
musica e la memoria del padre. Insieme a lei, Riccardo
Chiesa, studioso e appassionato di musica e canzoni
romagnole e Arte Tamburini, la prima voce femminile di
un’orchestra romagnola, che si esibì per sedici anni a
fianco di Casadei. Riportiamo di seguito una sintesi del
colloquio.
GORI: Cominciamo dal vostro rapporto con Secondo
Casadei.
CASADEI: Come figlia ho sempre avuto con lui un rapporto profondo e affettuoso. Era molto legato alla
famiglia. Magari non molto presente. Ma certo premuroso. E poi brillante, spassoso, da compagnia... Lo
ricordo sorridente. Ci veniva sempre a svegliare, a me
e a mio fratello Piero, per raccontarci com’era anda85
ta la serata. Aveva bisogno di comunicare il suo entusiasmo. Spesso non andava neanche a letto. Si metteva a scrivere...
A volte mi chiedo perché mi ha dedicato un tango e
non un valzer o...?
CHIESA: Tuo padre è da rivalutare come autore di tanghi.
Era un genere che amava molto.
TAMBURINI: Sono salita sul palco per cantare con
Casadei, per caso, poco più che ragazzina, a Cella di
Faenza. Il mio debutto vero e proprio, però, è stato a
Novalfetria. Andò bene. Ricordo, come fosse adesso,
quando alla fine il Maestro disse al gestore: la cantante non è inclusa nel contratto; è un regalo al
veglione. Così ricevetti 3.000 lire dal gestore e 3.000
lire da Casadei. Una bella cifra che mi fece prendere
seriamente in considerazione la professione di cantante.
Con Casadei sul palco bisognava dare il massimo.
Diceva: voglio che la gente si balli le gambe! La sua
musica è una musica d’istinto; viene diritta dal cuore.
Il Maestro m’incuteva un certo timore. E per lui ho
sempre nutrito un profondo rispetto. Che lui contraccambiava. D’altra parte aveva un grande rispetto
per tutti i suoi collaboratori. E anche per i colleghi e
il loro lavoro.
Era un generoso. Parlava sempre di musica. Faremo
ballare tutto il mondo! amava ripetere.
CHIESA: Non ho conosciuto personalmente Casadei che,
per me, è da accostare a Spallicci. Uno è il cantore in
musica, l’altro in prosa della Romagna. Essendo io
uno dei fondatori del festival della canzone dialettale
86
romagnola, ho un solo grande rimpianto: non averlo
invitato a partecipare: temevo che ci avrebbe snobbato, poiché era un personaggio famoso e “viaggiava” con cachet elevati. E noi non avevamo soldi o ne
avevamo veramente pochi.
TAMBURINI: Non credo che l’avrebbe fermato il denaro.
Se la proposta gli fosse andata a genio, sarebbe venuto gratis. Per esempio, quando gli affari per gli organizzatori dei veglioni non andavano troppo bene,
Casadei praticava spontaneamente uno sconto. «Con
Casadei non si rimette!». Era soprattutto un generoso, come ho detto. Anche se girava sempre senza
soldi. Invitava un amico a bere poi si accorgeva che
non aveva il denaro per pagare.
GORI: Parliamo dell’uomo allora. Per esempio delle sue
simpatie politiche.
CASADEI: Di politica non parlava. Ritengo, però, che
nutrisse simpatie socialiste. Anche Cristo era un
socialista, diceva.
GORI: E Casadei il romagnolo? che rapporto aveva col
cibo, tanto per parlare di un altro “stereotipo”
appioppato ai romagnoli?
CASADEI: Non era il “classico” romagnolo vorace. Anzi,
mangiava poco soprattutto quando doveva salire sul
palcoscenico. A casa le sue preferenze andavano alla
piadina con le erbe (che una contadina gli portava
sempre fresche) e un bicchiere di Sangiovese. In ogni
caso piatti semplici. Spesso, da mia mamma, si faceva
cucinare i tagliolini cotti nell’acqua con un filo d’olio.
87
Milano, aprile 1940. Nei pressi della casa discografica La Voce del
Padrone l’Orchestra Casadei (Brighi, Rossi, Borghesi, Bonoli, Lucchi,
Fenati, Casadei, Fantini, Bargossi) schierata davanti alla lussuosa
Lancia Landa acquistata dal Vaticano. L’abbigliamento e l’atteggiamento rimandano al cinema americano degli anni trenta. Casadei
amava molto il cinema e ne trasse anche ispirazione per l’abbigliamento e l’immagine complessiva dell’orchestra. L’autista, fuori dal
gruppo, sorride. Sul tetto dell’automobile il profilo del contrabbasso
(e’ liròn) incontenibile per il furgone portastrumenti al traino.
Per disintossicarsi, diceva. Alla fine prendeva la chitarra e suonava con noi.
TAMBURINI: Aveva anche una predilezione per i “gobbi”
cioè i cardi in umido. E poi la fava col formaggio e la
piadina.
CASADEI: E anche per le cantarelle [schiacciatine di farina olio e zucchero, impastate con acqua e cotte sul
testo].
TAMBURINI: Ma soprattutto amava vedere mangiare gli
altri, l’atmosfera conviviale.
CASADEI: Come ogni romagnolo che si rispetti era pure
un appassionato di motociclette.
TAMBURINI: La patente, però, non l’ha mai presa. Era
troppo distratto. Troppo preso dalla sua musica. Le
sue autiste preferite eravamo io e la Riccarda. Amava
anche il giardinaggio.
CASADEI: Non dimentichiamo, tra le sue passioni, il cinema. Andavamo spesso al cinema. Gli piaceva molto e
ne ricavava anche degli spunti, delle idee: soprattutto
dai film musicali per le divise, le scarpe, i leggii...
Insomma tutto quanto riguardava l’immagine dell’orchestra.
GORI: Che tipo di musica preferiva?
CASADEI: Gli piaceva tutta: dal jazz alla napoletana fino
all’opera e l’operetta. Ascoltando la musica classica si
commuoveva al punto di piangere.
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GORI: Qual è il fondamento, la caratteristica peculiare
della sua musica?
TAMBURINI: L’amore, la capacità di trasmettere emozioni
alla gente.
CHIESA: Anzitutto occorre ricordare che lui fu il naturale erede e continuatore di Zaclèn. Cosa aveva fatto
Zaclèn? Aveva introdotto la musica mitteleuropea
nella cultura romagnola eseguendola in modo assai
più rapido.
Casadei coglie la “rivoluzione” di Zaclèn e la completa. Certo, in tutta questa vicenda, non può essere
stato ininfluente, per Casadei, l’apprendistato come
secondo violino nell’orchestra di Emilio Brighi, il
figlio di Zaclèn. Il quale, forse, intuì il talento del giovane Secondo. Tant’è vero che eseguì la sua prima
composizione, Cucù, in deroga alla norma ferrea
secondo cui si suonavano solo dei ballabili.
Casadei, da parte sua, introduce la batteria e il sax
contralto, un tipico strumento jazz. Non va dimenticato che lui, a differenza di Zaclèn che aveva una cultura musicale di stampo classico, possedeva una cultura jazzistica. E, infine, l’invenzione della canzone in
dialetto romagnolo che è ben altra cosa rispetto alla
“canta” che è corale e non è ballabile.
Quanto allo specifico della domanda, direi: la capacità di far suonare l’orchestra. Con lui suonavano
tutti. Se guardiamo un’orchestra con attenzione, ci
accorgiamo che spesso suonano solo alcuni musicisti.
Con lui no. Suonano tutti. E nessuno esegue la nota
di un altro. Non è la banda, dove tutti fanno la stessa
nota; c’è veramente armonia. Insomma era un grande
arrangiatore.
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Proviamo a dirla in un altro modo. Nell’Orchestra
Casadei non ci sono comprimari. Ognuno ha la sua
parte; diversa dagli altri ma in totale armonia con gli
altri. Riuscire a far convivere un violino, un sax e un
clarinetto, tutti valenti, non è facile. Lui riusciva a far
esprimere tutti, senza che nessuno calpestasse gli
altri, prevaricasse.
CASADEI: Scriveva per ogni orchestrale la cosa giusta. E
con semplicità.
CHIESA: Cose semplici. Ma mai banali. E soprattutto
non si scriveva addosso.
TAMBURINI: Non componeva un pezzo per il sax ma per
il suo sax. E tutti gli strumenti trovavano il loro posto
nella melodia. Ma ancora prima, lo ripeto, c’è il sentimento. Che si esprimeva soprattutto attraverso il
ritmo. Se un solista “davanti” non era in serata, andava così così, il Maestro si stringeva un po’ nelle spalle e continuava a suonare. Ma se qualcuno “didietro”
non “tirava”, per esempio il batterista, allora lo spronava: «... T é magné mèl staséira! (Hai mangiato male
stasera)». Ciò che contava era “il didietro”.
Poi lui era un vero trascinatore. Me lo ricordo nelle
sfide. Si vedeva proprio che “tirava”. Con tutto il
corpo.
CASADEI: È vero. Forse non era un grande violinista. Ma
di certo era un trascinatore impareggiabile.
TAMBURINI: C’era sentimento. Adesso è troppo facile.
Col playback basta che ridano, che salutino. Al resto
provvede la registrazione. Allora, invece, sì che si can92
tava. Adesso c’è più tecnica ma allora c’era il cuore.
Ricordo che una volta facemmo un’incisione alla Voce
del Padrone; e venne fuori una piccola imperfezione.
Il maestro D’Amico, che era il direttore artistico della
casa discografica, disse: la vostra musica è come il jazz
è una musica d’espressione. Non stiamo a sottilizzare
sulla tecnica. Anche nei dischi di Charlie Parker c’è
qualche errore. Così abbiamo lasciato quell’imperfezione nel disco. Perché è l’istinto che conta.
GORI: Parliamo del pubblico.
CASADEI: Il pubblico della musica popolare romagnola è
esigentissimo. Addirittura, oltre ai ballerini, c’era
sempre un gruppo che stazionava davanti al palcoscenico senza ballare.
TAMBURINI: Stavano lì attenti a ogni nota: afferravano il
minimo errore...
Noi di certo non ci risparmiavamo. Siamo arrivati
fino a 34 servizi in un mese. E i veglioni fino alle sei
di mattina. A Ospedaletto, l’ultimo dell’anno, suonavamo fino alle otto. E Casadei l era cuntént! (era contento). Soprattutto quando gli altri orchestrali che
avevano finito il loro servizio ci venivano a trovare.
Allora “ci dava”...
CASADEI: Bastava rimanesse una sola coppia in pista a
ballare che lui andava avanti a oltranza.
TAMBURINI: Aveva amore. E istinto.
CASADEI: È vero: anche quando scriveva, lo faceva d’istinto. Di getto.
93
TAMBURINI: L’ispirazione poteva arrivargli in qualsiasi
momento. I tovaglioli erano la sua “carta” preferita.
GORI: Componeva prima le musiche o i testi?
CHIESA: Nella tradizione musicale italiana è sempre nata
prima la musica. Le parole venivano dopo. Erano i
francesi che puntavano di più sul testo.
CASADEI: Anche lui partiva dalla musica, credo, non dai
testi. Fumava le Diana. Buttava giù le note sui pacchetti e sul fazzoletto su cui appoggiava il violino. Poi
a casa completava quello che aveva abbozzato.
GORI: Prendiamo Romagna mia.
CASADEI: Penso abbia scritto simultaneamente parole e
musica.
CHIESA: Romagna mia è una canzone. Le parole non
sono al servizio della musica, come succede in genere. Parole e musica hanno, come dire? pari dignità.
GORI: Immaginiamo un disastro generale. Possiamo salvare solo pochi pezzi, a parte Romagna mia che conserviamo come “monumento”, cosa salvereste di
Secondo Casadei?
TAMBURINI: Un valzer: Dolore. A mamma per la bellezza
del testo. Poi una polca. Ce ne sono di bellissime.
CHIESA: Campane romagnole, un grande valzer lento. Un
tango: Signora. Poi Dolore. Una mazurca: Lia. Una
polca: Marlene.
94
CASADEI: A me piace molto Maria.
TAMBURINI: E Giampiero? è un gran bel valzer.
GORI: Il pubblico, però, al di là delle vostre scelte personali da specialisti, tende a identificare la musica
romagnola col valzer.
CHIESA: Certo la musica popolare romagnola è il valzer.
CASADEI: Non a caso la prima composizione di mio
babbo è un valzer: Cucù.
TAMBURINI: Anche nei programmi prevaleva il valzer: si
suonavano prima due valzer, poi una mazurca, ancora un valzer e infine una polca.
CHIESA: Insistiamo a parlare di ballo. Ma vorrei sottolineare che la musica di Casadei non è soltanto da
ballo. Anzi, è un’autentica musica da spettacolo. Per
troppo tempo è stata considerata semplicemente
musica da balera.
D’altra parte siamo stati noi romagnoli a fare il peggior servizio al liscio. Abbiamo fatto circolare, negli
anni sessanta e settanta, della musica e dei musicisti
pietosi.
TAMBURINI: Hai detto liscio. Ma quando andavamo a
suonare alla Perla di Torino, per esempio, la nostra
musica non veniva presentata come liscio ma come
musica “alla romagnola”. Di liscio, nella musica di
Casadei, non c’è proprio niente. Non c’è nei valzer e
tanto meno nelle polche e nelle mazurche.
95
CHIESA: Forse il riferimento non è tanto al ritmo quanto
allo strisciare dei piedi dei ballerini...
Probabilmente è stato Raoul, il nipote di Casadei, a
far trionfare il termine. Cercava di “emanciparsi” un
po’ dalla Romagna.
TAMBURINI: Lui, putroppo, ha cambiato molte cose.
GORI: È ancora possibile ballare la musica popolare
romagnola di Secondo Casadei?
TAMBURINI: In tutti i locali della Romagna. Pure le
orchestre non romagnole, nel loro repertorio, hanno
almeno un pezzo del Maestro. D’altra parte anche
con Casadei non si eseguivano solo brani romagnoli.
Il programma era vario e spaziava fino ai ritmi latino
americani...
Il nome di qualche locale? il Bul-Bul di Castrocaro
Terme, la Ca’ del Liscio, le Cupole di
Castelbolognese, l’Odeon di Santarcangelo,
l’Euroclub, famoso un tempo come Bastia, a
Savignano; il Rio Grande a Igea, il Piteco a Godo di
Russi... Non mancano locali nel pesarese: il Tris a
Schieppe di Orciano e il Nuova Europa a Mercatino
Conca... E il Pamela a Faenza...
CASADEI: Lì si respira proprio l’atmosfera di una volta.
96
Secondo, Zaclèn e la Romagna
Qualche libro
Questa “guida” si fonda, essenzialmente, sulla bella
biografia di Leandro Castellani, Lo Strauss della
Romagna. Le avventure di Secondo Casadei, Camunia,
Milano 1989 e sul saggio di Riccardo Chiesa, con la collaborazione di Riccarda Casadei, Secondo Casadei: dagli
inizi al 1940 pubblicato in Il ballo liscio. Alle origini di
un fenomeno musicale e di costume, a cura di Mario
Turci, Museo degli usi e costumi della gente di
Romagna, Santarcangelo di Romagna 1989.
Mi sono stati molto utili anche: Franco Dell’Amore,
La musica di Carlo Brighi detto Zaclèn e le origini del
ballo popolare in Romagna (1870-1915) in Il ballo liscio,
cit.; Lauro Malusi, Il ballo popolare romagnolo,
“Romagna arte e storia”, n. 13, 1985; Raoul Casadei, Il
mio libro del liscio, Anthropos, Roma 1981; la tesi di laurea di Marco Maretti, Secondo Casadei. La vita e l’opera
“d’un sonadour”, Università degli studi di Bologna, Anno
accademico 1998-1999; nonché Guido Nozzoli, Il pianeta Romagna in Questa Romagna, documenti di storia,
costumi e tradizioni, a cura di Andrea Emiliani, Alfa,
Bologna 1963.
Mi sono servito inoltre di:
Rino Alessi, Calda era la terra, 1958, ristampa Il Ponte
Vecchio, Cesena 2000.
Eraldo Baldini, La metà oscura della Romagna. Nostalgia
97
del mistero, provocazione sul futuro in Tra lun e scur.
L’immagine del romagnolo nella poesia, nel dialetto,
nel cinema e altrove, a cura di Paolo Guiducci, Il
Ponte, Rimini, sd.
Roberto Balzani, La Romagna, Il Mulino, Bologna 2001
Grazia Bravetti Magnoni, Sant’Angelo di Gatteo: terra di
orchestrali e suonatori, ma una volta..., “Romagna
Mia”, 26 maggio 1992.
Franco Brevini, La linea romagnola nella poesia dialettale del novecento in La poesia dialettale romagnola del
novecento, a cura di Gualtiero De Santi, Maggioli,
Rimini 1994.
Augusto Campana, Intervento in Lingua dialetto poesia.
Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, Edizioni del Girasole,
Ravenna 1976.
Franco Dassisti, Raoul Casadei. La storia vera, una canzone lunga 70 anni, De Agostini, Novara 1988.
Federico Fellini, Strada sbarrata via libera ai vitelloni,
“Cinema nuovo”, n. 2, 1953.
Tonino Guerra, I bu, Rizzoli, Milano 1972, ristampa
Maggioli, Rimini 1993.
Olindo Guerrini, Sonetti romagnoli, Zanichelli, Bologna
1920.
Eric J. Hobsbawm, Terence Ranger, L’invenzione della
tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987.
Claudio Marabini, Il dialetto di Gulì. Il Pascoli e il dialetto romagnolo, Edizioni del Girasole, Ravenna 1973.
Luca Marchi, Il liscio: pratica sociale e genere musicale in
Dal blues al liscio. Studi sull’esperienza musicale
comune, a cura di G. Stefani, Ianua, Verona 1992.
Dario Mazzotti, Carlo Brighi (E Zacléin) nel primo centenario della sua nascita, “Il Pensiero Romagnolo”,
1954 ora in Il ballo liscio cit.
98
Una cartolina pubblicitaria dell’immediato dopoguerra. Casadei
poneva molta cura nella promozione pubblicitaria del suo gruppo
che seguiva di persona. Ma, in questo caso, pare che avesse suscitato
le attenzioni poco benevole di una censura assai occhiuta e decisamente sessuofoba. Il nodo del contendere: la ballerina troppo discinta e audace. Per quell’epoca naturalmente.
Giovanni Nadiani, TIR, Mobydick, Faenza 1994.
Alfredo Panzini, Romagna, Nemi, Firenze 1932, ristampa Edizioni di Romagna arte e storia, Rimini 1982.
Guido Piovene, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano
1966.
Stefano Pivato, L’isola dei sentimenti. Tipi stereotipi e
immagini in Romagna tra ’800 e ’900, Il Ponte
Vecchio, Cesena 2000.
Gianni Quondamatteo, Dizionario romagnolo (ragionato), La Pieve, Villa Verucchio 1982.
Maurizio Ridolfi, Il circolo virtuoso. Sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica
nell’Ottocento, Centro Editoriale Toscano, Firenze
1990.
Emilio Rosetti, La Romagna geografia e storia, ristampa
anastatica a cura di S. Pivato, University Press,
Bologna 1995.
Luciano Sampaoli, Non solo canzonette, “Romagna mia.
Speciale Quarantesimo”, 8 aprile 1994.
Aldo Spallicci, La madunê, Milano, Mondadori 1926,
ora in Id. Opera omnia, Maggioli, Rimini 1988-1993.
Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano 1974.
Angelo Varni, Storia della Romagna e storia d’Italia,
“Padania”, n. 9, 1991.
Gino Vendemini, Aegri somnia e Una capa ad sunétt t’e’
patuvà rumagnol (cm’u ’s zcorr a Savgnen), 1908,
ristampa Pazzini, Villa Verucchio 2001.
100
Notizie utili e alcuni consigli
a cura di Giuliano Ghirardelli
Per scoprire ciò che rimane
della Romagna popolare
Non si può pensare alla Romagna trascurando, o sottovalutando, il suo carattere popolare. Fortemente
popolare. Pure passionale. E non solo in politica.
La voglia di vivere, in Romagna, ha sempre trovato
modo di esprimersi: si doveva far di tutto per raggiungere un’esistenza piena. Con la lotta e con il lavoro. Dai
mazziniani ai garibaldini, dagli anarchici ai socialisti, dagli
avanguardisti della prima guerra mondiale (poi vestitisi di
“nero”) ai comunisti dell’ultimo dopoguerra… La politica italiana, nelle sue espressioni più forti, sembra che
abbia preso il via ogni volta da qui, dalla Romagna, dal
suo popolo di braccianti, salinari, mezzadri, ciabattini,
fiaccheristi, unitamente a maestri e studenti squattrinati,
ai medici dei poveri o ai nobili convertiti alla causa.
Ma con il tempo prevalse, piano piano, al posto del
fanatismo politico, il buon senso. I romagnoli si sono
detti: perché non impegnarsi soprattutto nel lavoro, nell’iniziativa privata? visto che possiamo – seguendo questa
strada – risolvere rapidamente i nostri problemi economici, perché non tentare la fortuna mettendosi in proprio,
dando vita ad una piccola impresa o ad una cooperativa?
E, così, nella seconda parte del novecento, qui, tutti
furono costretti (e ben contenti) ad impegnarsi duramente: era arrivata per moltissimi l’occasione di sottrarsi definitivamente ad una esistenza povera e dura.
101
Chi lasciò le campagne, chi emigrò, chi venne sulla
costa in cerca di fortuna: fu una grande epopea che, fra
alti e bassi, tra pace e guerra, fra dittature e libertà ritrovate, portò un popolo, una regione, a conquistare un
discreto benessere, all’interno di un’Italia diventata definitivamente – e finalmente – democratica e civile.
Non va dimenticato, appunto, che qui da noi il turismo ha un cuore antico: proprio da queste radici si è sviluppato lo strepitoso successo di questa esperienza.
Questo nucleo, queste radici, hanno un carattere ben
preciso: e sono le qualità migliori di una certa Romagna,
di una Romagna abile, operosa, desiderosa in tutti i
modi di emanciparsi: che non relegava le donne al chiuso delle cucine, che amava il contatto con gli altri… che
credette di rovesciare e di rivoluzionare il mondo. Le
cose poi andarono in un certo modo: questi uomini e
queste donne hanno innalzato – dal nulla – un gigantesco impero dell’ospitalità. Un’epopea del lavoro, variopinta, cordiale, rumorosa. Hanno giocato se stessi fino in
fondo, costruendo – oltre agli alberghi – amicizie sparse
in tutta Europa, legami profondi quanto tenaci.
Ed è alle cose migliori di questa Romagna – popolare, si è detto – che noi vogliamo affidare la Vostra vacanza, piena di relax e di interessi da soddisfare. Non solo
la cortesia e l’ospitalità che in tanti ci riconoscono, ma il
meglio di questa terra, di una “certa Romagna popolare”: il meglio in fatto di cucina, di divertimento, di musica e ballo, dancing & balere, di feste e variopinti mercati, di centri storici e di … centri sociali, di punti di ritrovo e di botteghe artigiane, di cooperative (qui sono nate
e qui resistono!). Concentriamo l’attenzione sulle località della riviera, da Cattolica a Cervia, dove più forte
batte il cuore dell’ospitalità e del divertimento, e su
quell’entroterra romagnolo a portata di mano.
102
NON C’È FESTA SENZA BALLO,
NON C’È BALLO SENZA LISCIO
Qui tutto è subito festa. Quasi per vocazione. Tenete
ben presente che anche i “comitati turistici” organizzano – lungo la riviera e per tutta la stagione – feste in piazza e sui lungomari, dove su di un palco si esibisce di solito un complessino romagnolo: si balla, magari, sull’asfalto, si assaggia la “rustida” di pesce, e l’immancabile
ciambella e Sangiovese, tutto offerto gratuitamente: un
modo per onorare la vecchia ospitalità, per rinnovarne la
fama, per dare il benvenuto, o l’arrivederci, agli ospiti.
Pure alle Feste dell’“Unità”, e a quelle degli altri partiti,
si cena all’aperto, si balla o si ascolta un concerto, in un
clima sempre cordiale, in cui la politica sembra non esistere e tutti sono ben accetti, indipendentemente dalle
idee di ciascuno. Un giorno sì e uno no, c’è una festa, da
qualche parte. Basta chiederlo al vicino ufficio informazioni o al proprio albergatore. Senza contare le serate,
programmate o improvvisate, negli hotel che ospitano la
vostra comitiva. Se non c’è niente in vista, è sufficiente
lanciare l’idea. Gli albergatori non si faranno pregare.
Buon sangue (romagnolo) non mente. Per le serate assolutamente vuote, ricordatevi che la nostra riviera offre
un numero spropositato di locali da ballo. Attenzione:
non sono tutte “discoteche”, ci sono tanti ambienti in
cui prevale il ballo di coppia, il liscio, i ballabili degli
anni sessanta, ma soprattutto c’è la musica dal vivo, con
piccole o grandi orchestre. Sono dancing che stanno
registrando un rinnovato successo. Anzi, nei prossimi
anni è facilmente prevedibile un loro “boom”. Ci volete
scommettere?
Ed ecco dove si coltiva, espressamente, questa passione.
103
I FAMOSI DANCING,
PICCOLI TEMPLI DEL LISCIO E DEL BALLO DI COPPIA
A Bellaria-Igea Marina
• C’è il “tempio del liscio”, dove si balla di tutto, a
grandi numeri, con una capacità ricettiva che supera
le duemila persone, con ristorante, gran giardino e
servizio di bus navetta gratuito (come dire: vi veniamo a prendere…), in aperta campagna, Rio Grande,
via Abba 18, Igea Marina, tel. 0541331764.
• Mentre in centro, a Bellaria, c’è Il Giardino delle
Magnolie, via Fratelli Cervi, 27, tel. 0541345014.
A Castelbolognese
• Le Cupole, sulla via Emilia.
A Castrocaro Terme
• Il Bul-Bul, in via Mengozzi, 1, tel. 0543766170.
A Cattolica
• Alla Bell’Italia, pizzeria trattoria con intrattenimento,
si balla… in via Marconi, 24, tel. 0541 967752.
• Da Antonio, originalissima trattoria-dancing, in via
Nazionale Adriatica, 10, tel. 0541962290.
A Cervia
• Sul lungomare accanto al Grand Hotel, il Kursaal
Lido, con orchestra, lungomare D’Annunzio, 1, tel.
054471474, un locale sulla spiaggia, con una classe ed
una tradizione che supera i quarant’anni.
A Cesena
• L’Orchidea, a Ronta di Cesena.
104
A Cesenatico
• Besame (l’ex Kiss Kiss), zona ponente, via Magrini 24,
054784842.
A Coriano
• La Torre Folk, nelle campagne a monte di Riccione,
precisamente a Coriano, in via Rio Melo, 2, tel.
0541657110, si balla di tutto, si cena pure, con una
capacità che supera le 400 persone.
A Gatteo Mare
• Ippocampo Dancing, piazza della Libertà, tel.
0547680060, dal liscio alla musica latino-americana.
A Godo di Russi
• Il Piteco, via Faentina nord, tel. 0544419493.
A Misano Monte
• Il Grillo Bianco, in via Arsiano, 9, tel. 0541600745,
dancing, ristorante, pizzeria più liscio, revival e musica latino-americana.
A Ravenna
• La Ca’ del Liscio, in via Vismano, tel. 0544497878,
lungo la strada che da Ravenna porta a Cesena, un
vero tempio del liscio!
A Riccione
• Il Sirenella, in via D’Azeglio, 12, tel. 0541641777, con
il liscio, gli anni sessanta e il ballo di coppia… è tra i
locali più apprezzati.
A Rimini
• 007 Dancing a Rivazzurra, in viale Mantova 31, tel.
105
•
0541373398, regno del liscio e della musica anni sessanta e settanta.
Tra Rimini e Riccione, esattamente a Miramare, c’è il
Mon Amour, viale Principe di Piemonte, 30, tel.
0541373434. Per tutte le età e tutte le musiche.
A Santarcangelo
• L’Odeon, in via De Garattoni, 6, tel. 0541626562.
A Savignano sul Rubicone
• L’Euroclub, in via Bastia, 475, tel. 0541932401.
A Verucchio
• La Tramontana, su una collinetta sopra Villa
Verucchio, nella Val Marecchia, via Serra
Tramontana, 181, tel. 0541678282.
I NOSTRI CENTRI SOCIALI,
APERTI ALL’INCONTRO CON GLI OSPITI
Cercate qualcosa di ancor più familiare dei dancing?
Si possono trascorrere piacevoli serate in alcuni centri
sociali della riviera, particolarmente attrezzati e pieni di
attività. Sono “centri” nati come punti d’incontro dei
residenti, appartenenti alla fascia della terza età: durante la stagione ospitano volentieri singoli turisti e comitive (per queste ultime è consigliabile accordarsi con
una telefonata, anche per verificare, in linea di massima, se possono accogliere ospiti non iscritti alle loro
associazioni).
•
A Cattolica, in via XX Settembre 8, è attivo il Centro
Anziani Domus Nostra Pio XII.
106
•
A Cesenatico, nel Parco di Levante, nei presso dello
stadio, si trova il Centro Sociale, tel. 0547672922:
anche lì si gioca a carte e si balla, oppure si possono
fare due chiacchiere in tutta tranquillità.
•
A Igea Marina, vicino al canale, è sorto il Centro
Sociale Alta Marea; attività ludiche e culturali si
mescolano nel programma: dalle serate danzanti alla
presentazione di libri.
•
A Riccione, nel vecchio paese, è nato da poco un
punto d’incontro culturale-ricreativo over-anta, si
chiama Nautilus e si trova in viale Lazio, 18, tel.
0541601866; al Nautilus si balla il liscio tutte le
domenica, con orchestre tipiche, o si organizzano
eventi e piccole feste su richiesta: interpellare il presidente Franco Baratti, tel. 3387443949 oppure
0541643622.
•
Al Centro Sociale di Miramare di Rimini, in piazzale
Raggi, 1, si balla quattro volte alla settimana: il martedì, il giovedì, il sabato e la domenica. Per informazioni telefonate al presidente di quell’associazione,
Antonio Castellucci, allo 0541378536.
•
A Rimini, San Giuliano a Mare: Centro Sociale Casa
Colonica, via Brandolino, 25, Parco Briolini, tel.
054124551. Presidente: Giorgio Innocenti. Orario
estivo, tutti i giorni: ore 14.00-18.00/20.00-23.30;
sabato e domenica si balla.
•
A Rimini, Viserba, a monte della ferrovia: Centro
Sociale Viserba 2000, in via Barone 9, tel.
0541733846. Il presidente è Donato Briscese, vera
107
“forza della natura”, vulcanico organizzatore di
manifestazioni a getto continuo; conta settantatre primavere, è originario di Venosa (Potenza), e dal ’46
vive a Rimini. Soprattutto a lui si deve la realizzazione di questo “centro”, imponente e moderno; lì è
sempre festa. Provare per credere. Briscese ci ha
lasciato anche il suo numero di cellulare 3392611810,
pronto com’è ad andare a prendere le comitive… di
persona.
LE CASE DEL POPOLO
Un discorso a parte meriterebbero le “Case del Popolo”:
un fenomeno che rappresenta una vecchia eredità ottocentesca della Romagna che sapeva “mettersi insieme”:
società di mutuo soccorso, cooperative, circoli e associazioni, qui nascevano come funghi.
Ce ne sono, sparse sul territorio, di antiche e di
recenti; nella maggioranza dei casi hanno subito grosse
trasformazioni, e assomigliano a bar e caffè tradizionali.
E neppure la politica è presente più di tanto. Due esempi, a portata degli ospiti, a Rimini, nelle frazioni vicine al
mare: quella del “Ghetto Turco”, in via Rosmini, a
Marebello, e il Circolo Innocenti, in via Meucci a
Rivazzurra.
QUELLA MARINARA E QUELLA CAMPAGNOLA:
DUE CUCINE AL PREZZO DI UNA
E, in ordine di importanza, dopo il ballo viene la
tavola. O viceversa. La Romagna a tavola non è così
unita come potrebbe pensare qualcuno. Sulla costa si
108
sentono di meno le radici propriamente romagnole: qui
non siamo a Lugo, a Faenza o a Forlì, dove essere romagnoli è un fatto di prestigio, molto sentito, come essere
napoletani veraci a Napoli. E, così, anche nella cucina la
costa si distingue dall’entroterra romagnolo, sanguigno e
terragno. Prendiamo, per esempio, la piada. Quella dell’interno è proprio gravida, spessa, dorata, umorale;
sulla costa, nel riminese, è sottile, friabile, più leggera ma
non per questo meno gustosa; per inciso, pensate alla
nostra piadina sfogliata, unta e saporosa, così come si
può apprezzare nella “mitica” Grotta Rossa, alle porte di
Rimini, uscendo dalla città, sulla vecchia strada che
porta a San Marino. Così pure la tagliatella, ancor oggi
cavallo di battaglia della cucina regionale: la sfoglia fatta
in casa, tirata a mano – una tradizione quasi scomparsa
nel resto dell’Italia. Tanto alta, larga, tosta quella classica, quanto sottile, stretta e digeribile quella riminese: ad
un passo dall’ormai dominante “tagliolino”, che domina
– a giusto titolo – i menù di tutti i ristoranti di pesce.
Sulla costa, in quest’ultimo mezzo secolo, la cucina di
pesce ha preso il sopravvento su quella contadina.
Quest’ultima presenta ancora molti “santuari”, meta di
pellegrinaggio da parte dei fedeli. Volete qualche nome?
EccoVi serviti. Zanni a Villa Verucchio, sulla statale
Marecchiese (quella che porta in Toscana, con le vicine
tappe di Verucchio e San Leo), che si rifornisce di carne
nella adiacente macelleria di sua proprietà (specialità
principali: castrato, salumi, tagliatelle larghe e saporose,
piadine servite in cesta). Oppure a Santarcangelo, da
Zaghini, che oltre alle tagliatelle offre (per non citare
tutto) un favoloso coniglio in porchetta. E nelle campagne attorno, e precisamente a Canonica, da Renzi, altre
classiche tagliatelle (e piada), all’ombra di betulle e ippocastani. Nella “sperduta” San Giovanni in Galilea
109
(comune di Sogliano), infine, Rigoni, che offre abbondante cucina di carne “allevata in proprio”.
Ben più difficile fare delle scelte se si passa a parlare di
cucina a base di pesce: cavallo di battaglia della stragrande maggioranza dei ristoranti della costa. La creatività dei
nostri ristoratori si sbizzarrisce negli antipasti e nei primi.
Per i “secondi” nessuno ha il coraggio di rinunciare a proporre la famosa “grigliata mista dell’Adriatico”. Sono nate
qui, sulle nostre località marine, alcune ricette che stanno
facendo – o hanno già fatto da tempo – il giro d’Italia:
tagliolini allo scoglio, insalata di mare, maccheroncini alle
canocchie, tortellini ripieni di pesce, sardoncini marinati… Piatti ormai consueti da noi, ma mai banali, e arricchiti sempre da qualche piccola trovata. E qui c’è solo
l’imbarazzo della scelta: Oberdan e lo Squero sul molo di
Rimini, da Elio all’Embassy lungo la passeggiata di viale
Vespucci, e in via Roma, non distante dalla stazione, Piero
e Gilberto; senza trascurare il recente Storie di mare, sulla
sinistra del porto, sempre a Rimini. Oppure le trattorie
del vecchio Borgo San Giuliano, a Rimini al di là del
Ponte di Tiberio: dal Lurido, dalla Marianna, da Marco…
E così per tutte le località della costa romagnola:
Cesenatico, Bellaria, Riccione e Cattolica, che in comune
hanno la caratteristica di presentare ristorantini e trattorie
a base di pesce attorno, o lungo, il porto canale.
La costa romagnola? una suggestiva (e “prelibata”)
terra di frontiera tra la cucina contadina e quella marinara. Ma ecco le coordinate.
A Rimini
• Per il pesce, al Ristorante Marinelli, da Vittorio, viale
Valturio, 39, tel. 0541783289: una buona creatività
applicata alla tradizione; da segnalare i “bianchetti”
fritti, i cosiddetti uomini nudi.
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•
•
•
•
•
Sempre per il pesce, dal Lurido, la famosa trattoria
del Borgo San Giuliano, in piazzetta Ortaggi, tel.
054124834. Abbondanza e tradizione.
A due passi dal Lurido c’è l’Osteria del Borgo Osteria de Borg, via Forzieri 12, tel. 054156071: la
vera cucina romagnola in edizione moderna.
Invece da Piero e Gilberto - Ristorante Europa, via
Roma, 51, zona stazione, tel. 054128761, la cucina è
veramente ricercata, a base di carne e di pesce.
A Marebello, c’è L’Osteria del mare, viale Regina
Margherita, 77, tel. 0541376622. Ad attendervi c’è,
assieme alla squisita gentilezza di Gaetano, una cucina a base di pesce e fantasia; per esempio, “i petali di
branzino” e “le foglie di polipo”.
Sempre a Marebello, in via Siracusa, 73, L’angolo blu,
tel. 0541370931, del simpatico e disponibile Leo,
rappresenta un bell’esempio di quei locali ormai tipici sulla riviera, specializzati in pesce & pizze, dove
puoi consumare anche uno spuntino.
Lasciando Rimini
• Fatti pochi chilometri sulla superstrada che porta a
San Marino, in località Sant’Aquilina, c’è la trattoria
Sole, via S. Aquilina, 34, tel. 0541756396: ottime
tagliatelle e prezzi popolarissimi.
•
Invece, in direzione della Toscana, sulla Marecchiese,
le trattorie “a base” di tagliatelle si sprecano: dalla
Delinda, o nel piccolo e lindo Ristorante Spadarolo
(dove al ragù romagnolo si aggiungono i fagioli, alla
marchigiana) o da Rinaldi, a San Paolo, per i cappelletti in brodo e il galletto al tegame.
•
Sempre nella Valmarecchia, in località Torriana, un
111
locale quanto meno originale risponde al nome di
Osteria i Malardot, in via Castello 35, tel.
0541675194: sembra un piccolo museo della nostra
civiltà contadina.
•
Sulla strada che porta nella Valconca, appena fuori la
città di Rimini, in via Coriano 161, tel. 0541731215,
c’è l’Osteria del Quartino, sempre per una cucina
romagnola sapientemente “rivisitata”.
•
A Bellaria, Da Gianola, in via Alicata, 1, tel.
0541347839, dove Roberto ce la mette tutta per recuperare gli antichi piatti: dal brodetto di pesce, quello
povero che si preparava sulle barche, al pesce cotto
sulla teglia, alla polenta alle vongole, ai sughi a base
di “stridoli” e di rigaglie…
•
Nella località di Bordonchio, sempre nel comune di
Bellaria-Igea Marina, in via San Vito 7, tel.
0541330162, par magné cumè di sgnur c’è l’ Osteria
della Contessa, un nuovo ristorante che rilancia nell’arredo e nella gastronomia la nostra grande tradizione; basta leggere il suo menù per capire come sia
in linea con la cucina di una classica famiglia romagnola, di ieri e di oggi: tagliatelle al ragù, strozzapreti salsiccia e piselli, cappelletti in brodo, grigliata
mista, piccione ripieno, galletto in umido, coniglio
alla cacciatora, patate arrosto, gratinati e verdura alla
griglia.
•
Sul porto di Cattolica, gestita da Marco e dalla bellissima Gloria, c’è la moderna trattoria Forza e
Coraggio, valida come cucina e come punto di ritrovo. Lì, tirano a far tardi personaggi legati al mondo
112
1953. Teatro Verdi di Cesena. Tradizionale veglione del valzer. In
queste occasioni l’Orchestra Casadei si esibiva in formazione “teatrale” ovvero potenziata da altri musicisti. Da sinistra: Marino Gori
(tromba), Domenico Bucchi (tromba e trombone), Guido Rossi (clarinetto), Elmo Bonoli (sax tenore e violino), Carlo Baiardi (sax contralto), Iris Mordenti (secondo violino), Secondo Casadei (capoorchestra, primo violino), Arte Tamburini (voce), Nevis Bazzocchi
(batteria); in seconda fila: Terzo Fariselli (contrabbasso), Ettore
Battelli (chitarra), Pasquale Vincenzi (pianoforte).
Le danze duravano dalle 20 alle 6. Le mamme, che, immancabilmente, accompagnavano le ragazze, arrivavano con sporte colme di cibo
per la cena di mezzanotte. Se gradito alla madre, il corteggiatore della
figlia veniva invitato a cenare.
della musica, a partire dal “leggendario” Henghel
Gualdi, che vive tra Cattolica e Bologna: è persona
squisita, con la quale si può parlare di tutto e di tutti
(lui ha conosciuto, e frequentato, Pavarotti,
Armstrong, Romano Mussolini…). Due parole sulla
cucina: da non perdere i primi (pasta e fagioli, spaghetti alla carbonara e la polenta alle vongole rosse) e
la trippa. Henghel, per inciso, passa le sue serate
anche al Bistrot, sul Lungomare Rasi e Spinelli.
•
Mentre a Santarcangelo di Romagna, non dovete perdere, oltre alle antiche Contrade, La Sangiovesa, più
che un ristorante è un “monumento”, disegnato e
progettato dal poeta e sceneggiatore Tonino Guerra:
preziosa e originale la serie di stufe, presenti in tutti
gli ambienti che compongono questa grande osteria.
Si trova in piazza Balacchi, 14, ed è chiusa il lunedì,
tel. 0541/626710.
•
Vicinissima a Santarcangelo, nelle campagne, località
Canonica, una trattoria “storica”, Renzi, da ricordare
per le tagliatelle e per il pollo al coccio, nonché per le
piante, per il verde che ospita i tavoli all’aperto.
VECCHIE (ED AUTENTICHE) OSTERIE E TRATTORIE:
TRE INDICAZIONI SOLTANTO, PER NON SBAGLIARE
•
A Cattolica, da Antonio: osteria, trattoria, dancing,
vicino al sottopassaggio della ferrovia; chiedere di
Giorgio o della Milena: crostini, tris di minestre,
gnocchi all’anatra, ravioli e tagliatelle ai piselli, pollo
alla cacciatora o coniglio alla porchetta, via Nazionale
Adriatica, 10, tel. 0541962290; sull’elenco telefonico
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c’è scritto Da Antonio Danze, il che depone bene; dal
centro ci si arriva a piedi; si balla il liscio, soprattutto, dalle ore 20 a mezzanotte, ma se siete nottambuli
nessuno vi manda via.
•
Sempre a Cattolica, Dalla Gina, in via Giordano
Bruno, 31, tel. 0541962954, da non perdere, come si
usa dire; nel cuore della vecchia Cattolica, una cucina altrettanto antica: risotto alle vongole, quadrucci
con le seppie, brodetto di canocchie…
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A Cesenatico la trattoria San Marco, nella zona del
porto, dalle 11 in poi ci trovi, per l’aperitivo e per il
caffè, tutti i vecchi “personaggi” del centro storico.
LA PIADINA
Un discorso a parte va fatto per la piadina, che si
può apprezzare ormai in tutti i ristoranti e le trattorie,
ma che in riviera e nell’entroterra viene offerta in tanti
negozietti o chioschi; un nome per tutti: Dalla Lella, in
viale Rimembranze, a Rimini, piadine e cassoni alle
erbe, di prim’ordine (il figlio ha aperto un negozio a
New York!).
BOCCE CHE PASSIONE
In spiaggia, lungo tutta la riviera, il gioco delle bocce
è diffusissimo, ma esistono anche tanti campi, veri e propri bocciodromi, nelle cittadine della costa e nelle periferie. Ecco i principali.
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A Cattolica da segnalare un moderno bocciodromo al
coperto, in via Quarto, 3, sulla vecchia Statale, tel.
0541962939.
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A Cervia, a monte di Pinarella, nella via Caduti per la
Libertà, al centro sportivo, si trovano grossi impianti
per bocciofili.
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A Cesenatico, sulla spiaggia di Ponente, tutti i bagnini, ovvero tutti gli stabilimenti balneari hanno il gioco
delle bocce: una vera specializzazione.
•
A Riccione, il Bocciodromo del centro sportivo di via
Forlimpopoli (più precisamente in viale Carpi),
anche al coperto, tel. 0541643914; lì c’è il ritrovo di
numerosi “personaggi” riccionesi, e le occasioni per
organizzare feste non mancano.
•
Sempre a Riccione, nella zona Colle dei Pini, esiste
una bocciofila annessa al locale Centro Sociale, vicino alla chiesa di San Francesco; feste e serate danzanti sono frequenti.
•
Bocciodromo al coperto a Rimini, al “mitico”
Dopolavoro Ferroviario D.L.F., in via Roma, 70, tel.
0541643914.
ANGOLI DA VISITARE E PUNTI DI RITROVO
A Bellaria non c’è solo quello straordinario salotto
che è l’Isola dei Platani, ma c’è anche la Borgata Vecchia,
lungo il fiume, che organizza sul posto tante serate speciali (per saperne di più, telefonate a Bramante Vasini, il
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presidente del locale Comitato, allo 0541344777). E, nel
maggio, una grossa iniziativa: “La Borgata che danza”, e
d’estate, concerti e operette. Oppure ci si ritrova lungo
“la palata”, sul porto canale, lato Bellaria, dalle parti
della Pescheria.
A Cattolica, non perdetevi la passeggiata nella vasta
area pedonale (un vero e proprio esempio di come
dovrebbero essere organizzate le cittadine… occhio
all’arredo), nei viali Bovio, Curiel e Dante, ma anche in
piazzale Primo Maggio o in piazza del Mercato Coperto
(che belle ristrutturazioni! che fontane!), in questi
ambienti si tengono spesso dei concerti, offerti agli ospiti; oppure al porto, per arrivare al ponte mobile che unisce la Romagna alle Marche, Cattolica a Gabicce, separate dal fiume Tavollo. Una cittadina all’insegna dell’arredo (come si deve) e del relax. La “vecchia guardia cattolichina” si riunisce, d’inverno e d’estate, nel piazzale
Primo Maggio: e non mancano gli ex-pescatori, con le
loro storie dell’Adriatico.
A Cesenatico, tutto gravita intorno al Porto: dalla
Romagna delle Vele, un museo galleggiante di vecchie
imbarcazioni, all’asta del pesce, uno spettacolo che si
ripete quotidianamente, al mercato Ittico: lì c’è anche
un’asta esterna a cui si può assistere; a due passi puoi
trovare la piazza delle Conserve (gli antichi “frigoriferi”
del Centro storico); senza dimenticare la passeggiata, la
mattina presto, lungo il Molo di Levante (quello lato
Rimini), dove puoi incontrare tutta la “vecchia
Cesenatico”. La Romagna tutta bici, donne e motori, si
dà invece appuntamento al chiosco della famiglia
Pantani, in viale Torino: è il regno del Pirata e della piadina.
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A Rimini, consigliamo di fare un salto ai “Venerdì sera
del Centro”: durante l’estate le piazze e il Corso, nella città
vecchia, si animano d’improvviso una sera alla settimana.
Mercatini, bar sfavillanti, “bella gente”, traffico zero.
Mentre di giorno il “Senato” riminese si riunisce in
piazza Cavour e lì sentenzia… magari contro i giovani;
questi ultimi sono attratti, invece, dal nuovo ed elegante
arredo di piazza Tre Martiri.
Per chi volesse immergersi nella folla, tra Rivazzurra
e Miramare, d’estate; sembra che il mondo sia tutto lì,
ordinato e festoso. La gente che scorre, in massa, lungo
la passeggiata, è uno degli spettacoli più belli della riviera. E, tanto per essere più precisi, segnaliamo viale
Oliveti, viale Catania e viale dei Martiri.
LA SPIAGGIA
Sulla riviera, la spiaggia, voi lo sapete, è uno straordinario luogo d’incontro: ve ne potere stare tranquilli a
leggere il giornale, come partecipare all’animazione e
alla ginnastica – di solito la mattina – organizzata ed
offerta gratuitamente a tutti gli ospiti; ginnastica con
musica, ginnastica in acqua, per adulti o per bambini
(tutte le località organizzano qualcosa).
MERCATI E MERCATINI
Da noi c’è solo l’imbarazzo delle scelta: ci sono località che tutte le sere ospitano un mercatino. Qui, però, vi
vogliamo segnalare i più importanti, quelli consolidati,
dove si può trovare di tutto, compresa l’allegria, il colore e il nostro dialetto.
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A Rimini, in piazza Malatesta e nelle strade e nelle
piazze vicine: le mattinate del mercoledì e del sabato. Da
non perdere. È l’occasione per visitare un centro storico
più vitale che mai. Mentre al mare, segnaliamo quello
estivo, a Bellariva sul lungomare, dal Bagno 100 fino a
Marebello; ci si va anche in costume. A Cattolica, il sabato mattina, in via Petrarca. A Bellaria, attorno al nuovo
Comune, tutti i mercoledì mattina (e tutte le sere, in via
Perugia, puoi visitare un mercatino specializzato: quello
dell’artigianato artistico). Mentre a Igea, il venerdì mattina, in via Calatafimi si svolge il mercato “generalista”.
E così pure a Riccione, in piazza Unità, il venerdì mattina. A Misano, il martedì (fuori stagione) si tiene in via
Toscana, mentre d’estate lo puoi frequentare, sempre di
martedì, in via Verdi.
ALTRI PERSONAGGI DA CONTATTARE
Chi sa tutto su Bellaria-Igea Marina è Marco
Campana: lavora da anni nel locale ufficio informazioni
(IAT, tel. 0541344108), scrive e legge “cose” sulla sua
terra, e i suoi consigli sono sempre giusti e calibrati.
Mentre per gli studiosi segnaliamo il Centro di documentazione sulla nostra tradizione popolare, presso il
Municipio di Bellaria. Il responsabile è Gualtiero Gori.
Il “personaggio” che va associato a Cattolica è lui,
Mario Ceccarelli, rintracciabile presso lo IAT, Cattolica
0541963341, in via Matteotti, 44; Mario, oltre ad occuparsi dell’ufficio informazioni, è il numero uno nelle
pubbliche relazioni di questa località; è lui ad accogliere giornalisti, ospiti speciali e tour operators esteri,
da perfetto anfitrione, a tempo pieno. Sempre disponibile ad organizzare visite, cene ed incontri. E oltre
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alla professionalità c’è l’amicizia, che lui non nega a
nessuno. È proprio vero: questi single hanno una marcia in più!
Se capitate al Borgo San Giuliano, la “Trastevere di
Rimini”, chiedete di Mario Pasquinelli e Dino Spadoni,
al bar Auto, a due passi dal Ponte di Tiberio: loro son
capaci di mollar le carte ed accompagnarvi subito lungo
quel dedalo di stradine e piazzette che compongono il
quartiere “più riminese del mondo”. Anche per ammirare i murales dedicati a Fellini. Ma c’è di più: ogni due
anni, ai primi di settembre, i borghigiani organizzano
“La Festa de’ Borg”, diventata con il passare degli anni
la festa della città e della “Rimini popolare”. Nel 2002,
l’evento è previsto per il 7 e l’8 settembre.
Anche il nostro turismo ha una storia – anch’essa
popolare –, ed Elio Tosi ne è il “cantore”: nel suo ristorante Embassy, in viale Vespucci, rivivono le stagioni
riminesi di Berlusconi (giovane cantante squattrinato) e
di Fred Buscaglione, un artista legato a doppio filo alla
nostra riviera.
“Dogi”, Domenico Galavotti, tel. 0541640536, testimone anche della Riccione di Mussolini, uomo squisito, insegnante in pensione, conosce assai bene la storia della Perla
Verde; così pure Orio Rossetti, intellettuale appartato; con
lui si può ripercorrere la storia di Riccione dagli anni cinquanta in poi: lo si trova tutti i pomeriggi a casa, rintanato
in una soffitta piena di libri, ma sempre disponibile.
Ma in un tipo di turismo dalle origini popolari come
il nostro, ogni albergatore è un buon anfitrione, ben
disposto a dialogare e ad indicare le cose migliori, capace perfino di introdurvi nei retroscena della nostra realtà.
Assieme ai bagnini, logicamente. Ed è proprio sulla
spiaggia che possiamo capire, più facilmente, i mutamenti “antopologici” della stirpe romagnola, dove si va dal
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bagnino (magari un po’ attempato) che rinnova e tramanda la vecchia cultura marinara, al giovane gestore di
quei moderni stabilimenti balneari che fanno pensare alla
California, con le loro palestre a cielo aperto dedicate al
fitness e gli ombrelloni di paglia. E tanto per fare degli
esempi, tratti dall’arenile riminese: dal mitico Edmo
Nanni, capo storico della vecchia cooperativa bagnini
(Bagno 134), al culturista e “tecnologico” Giampietro
(Bagno 63A). E non fatevi fuorviare dalla “numerazione”
(gli stabilimenti sono centinaia e centinaia, e per orientarsi non c’era altro sistema): ogni Bagno, ed ogni bagnino, è un mondo a sé: non c’è nulla di standard!
E PER FINIRE, ATTENZIONE ALLE DIFFERENZE!
Tutte le località sulla Costa sono uguali fra loro? Solo
chi non ci conosce bene può pensare una cosa del genere. Ogni cittadina che compone questa “capitale dell’estate” ha una sua forte personalità: come accade tra
sorelle tanto diverse tra loro.
E se Riccione è, soprattutto, viale Ceccarini (ma oggi
anche via Dante), luogo in cui si coltiva più che altrove
l’immagine e la bella presenza, Cervia-Milano Marittima
vuol dire, innanzitutto, “pineta”, infatti si tratta dell’unica grande località turistica italiana cresciuta senza
distruggere la ricchezza di verde che aveva ereditato…
Mentre Cesenatico è il paese dei ristoranti di pesce, più
di 70, e tutti di ottima qualità: una cittadina che ha saputo trasformare la zona del porto in un vero e proprio
salotto, che ospita, tra l’altro, un museo galleggiante di
vecchie barche. Per non parlare di Cattolica, che in fatto
di isole pedonali teme solo la concorrenza di Bellaria.
Quest’ultima, con la sua Isola dei Platani, ha creato un
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ambiente unico: non c’è luogo più piacevole per starsene, la mattina, a leggere il giornale. Lì accanto, un po’
più a nord, la minuscola San Mauro Mare, luogo
“ameno”, a un pugno di chilometri dal capoluogo San
Mauro Pascoli, con la Torre e la casa natale del grande
poeta: Giovanni Pascoli. E poi c’è Rimini, capoluogo
della riviera, città in cui c’è tutto e il contrario di tutto:
dal Grand Hotel per gli sceicchi arabi (immortalato da
Fellini in Amarcord) alla mensa del dopolavoro ferroviario, dall’aeroporto in cui atterrano i jet con i capi di stato
al Borgo San Giuliano, da dove partiva ogni giorno, fino
a poco tempo fa, la carrozzella trainata dal cavallo.
COME PRENOTARE
L’agenzia Montanari Tour, in questi ultimi anni, ha
realizzato esperienze significative nell’organizzazione di
vacanze e di stage legati alla storia, ai personaggi e alle
vicende della “Romagna popolare”; la sua sede è in via
Circonvallazione Occidentale, 104, 47900 Rimini, tel.
0541786501-786517, fax 0541786159, e-mail:
[email protected] ; http://www.montanaritour.it
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INDICE
Da rimpiangere c’è poco, però…
di Giovannino Montanari
5
Il lungo viaggio di una “casetta”
A proposito di Romagna mia
9
La periferia di una periferia
A proposito della “rivalutazione”
della Romagna nel secondo dopoguerra
21
Òs-cia i madéun!
A proposito della Romagna popolare
31
In principio era Zaclèn...
Due o tre cose che so su Carlo Brighi
e la musica popolare romagnola
39
... e poi venne Casadei e’ sunadòur
Due o tre cose che so su Secondo Casadei
l’uomo della musica
55
La figlia, l’appassionato, la cantante
Conversazione con Riccarda Casadei,
Riccardo Chiesa e Arte Tamburini
85
Secondo, Zaclèn e la Romagna
Qualche libro
97
Notizie utili e alcuni consigli
Per scoprire ciò che rimane della Romagna popolare
a cura di Giuliano Ghirardelli
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