la didattica Studiare il pop non è peccato Musicologia storica e musica di consumo a confronto Maria Rosa De Luca S i sono ritrovati, nel sancta sanctorum della musicologia accademica e sistematica, nel tentativo di trovare punti d’incontro su un terreno che fino ad oggi comune non era: quello del rapporto fra musicologia storica e musica di consumo. Mi riferisco al recente incontro, organizzato sotto l’egida dell’associazione ‘Il Saggiatore Musicale’, presso la sede del Dams di Bologna. Dove la discussione s’è fatta talmente interessante e piena di spunti da meritare un momento di riflessione, anche in questa sede. Grande dilemma: la musicologia storica sarà capace di scendere dal piedistallo sul quale si trova altezzosamente e abulicamente collocata, per riservare una parte del proprio campo d’indagine allo studio della popular music? Considerando la questione da una prospettiva strettamente storiografica, risalgono alla fine del XIX sec. i mutamenti sociali che permisero il decollo di generi musicali d’uso quotidiano, quella copiosa produzione ‘minore’ che costituiva una valida alternativa ai generi musicali ‘colti’ e faceva ricorso a mezzi di comunicazione di massa. Tracciare in breve le coordinate di un processo evolutivo dai tratti tortuosi non è certo facile. Mi limiterò a fare un cenno a due snodi cruciali della diffusione del genere popular: la canzone di Tin Pan Alley, che diede il primo segnale di un nuovo modo d’intendere l’ascolto musicale nei primi del ’900; e poi, negli anni ’50, l’affermazione del rock ‘n ‘roll, antecedente storico del rock, avvenuta soprattutto grazie alla contemporanea espansione del disco a microsolco a 33 giri e delle trasmissioni radiofoniche in modulazione di frequenza, che portarono alla ribalta una sensibilità giovanile programmaticamente divergente da quella degli adulti (la musica diventava soprattutto un fatto generazionale). Soltanto collocandosi in un arco storico sufficientemente lungo e prendendo le distanze dall’oggi, è possibile rendersi conto del fatto che il pop non poteva fare a meno di interagire col mondo della musica colta. Gli scambi e le contaminazioni, in entrambe le direzioni, checché 30 ne pensi l’utenza colta e checché non ne pensi l’altra utenza, ci sono stati eccome! Volendo citare un esempio, indicativo della corrispondenza biunivoca, basti pensare all’incidenza della ricerca elettroacustica nel repertorio dei Beatles, che a loro volta vennero reinterpretati da Cathy Berberian, soprano storico nonché compagna di Luciano Berio. L’interscambiabilità è solo uno dei tanti segnali; a conti fatti però rende divergenti le due realtà, perché il divario, invece di ridursi s’è fatto in verità sempre più ampio. È dunque auspicabile che una ricostruzione del fenomeno popular, dall’interno della musicologia storica e sistematica, prenda le mosse da tale constatazione: per districare nodi e per sgombrare il campo dalle perplessità sull’influenza reciproca dei due settori del panorama musicale contemporaneo; ma soprattutto per comprendere quanto l’uno continui a prestarsi all’altro, tenendo nel dovuto conto che prodotto originale e prodotto ibridato non sono la stessa cosa. Il gap di partenza è dato dal fatto che gli strumenti d’indagine impiegati dalla musicologia storica si rivolgono abitualmente a una tradizione che implica la presenza di un testo scritto, che nel repertorio popular risulta invece evanescente (si limita a una indicazione sommaria della linea melodica e a una traccia di armonizzazione), se non addirittura latitante e spesso frutto di trascrizioni a posteriori. Inoltre, lo sguardo retrospettivo, il confronto con un antecedente ‘colto’ della pop music, non ha una sua intrinseca necessità, né per chi scrive né per chi ascolta. I Beatles, come dicevamo, hanno impiegato suggestioni del repertorio colto, ma i loro fans non si preoccupano di sapere da dove attingano i Beatles: a loro basta consumarli e basta. Qui interviene il concetto di remake, di revival, che spesso, dato il consumo veloce, immediato e acritico, soggiogato dalle leggi di un mercato stritolante, non sempre risulta rintracciabile: Madonna recupera American Pie, che il pubblico balla e canta ignorando che si tratta foto di Harry Benson, la didattica di una canzone di trent’anni più vecchia. Le fonti passano in secondo piano rispetto al consumo. Eppure uno studio analitico e critico del meccanismo del revival potrebbe sicuramente risultare utile per capire le condizioni e i meccanismi che determinano un successo. Un altro dilemma sul quale si tenta ancora di trovare un accordo è proprio il significato del termine popular, spesso inteso come musica di consumo, un termine che finora ha localizzato l’attenzione in direzione sociologica. Musica di consumo è sinonimo di musica commerciale, fatta per essere consumata, mentre in senso lato dovrebbe poter comprendere una musica fruita da pubblici tipologicamente diversi da quello della musica colta e del jazz, diffusa attraverso i media, spesso prodotta e riprodotta attraverso l’uso di apparecchiature elettroniche. Tentare una traduzione letterale di musica popolare significherebbe trascinarsi dietro scelte lessicali che interessano altri repertori, quale quello relativo agli studi etnomusicologici. Pop music, musica leggera, rock music, starebbero a significare settori specifici del generico contenitore popular, dei quali si sono occupati i cultural studies di matrice britannica e soprattutto statunitense, all’interno di una prospettiva sociologica basata sull’effetto dei prodotti musicali popular nelle società di massa contemporanee. Nell’ottica di un’indagine principalmente storica del fenomeno bisognerà spostare l’interesse scientifi- co dall’effetto all’oggetto, cioè all’intrinseca consistenza musicale e formale delle opere analizzate. Un esempio per tutti: la proliferazione degli studi sul fenomeno Madonna, soprattutto nel campo dei gender studies, è incomprensibile, data l’irrilevanza estetica della produzione della famosa pop star, quasi insignificante rispetto a quella di molti altri gruppi praticamente ignorati dagli studi sulla musica di consumo, si pensi ai Soft Machine o ai King Crimson, punte avanzate del rock progressivo britannico negli anni Settanta. La cattedra di Storia della musica del nostro ateneo è sempre stata particolarmente sensibile allo studio di fenomeni appartenenti al repertorio popular, come si evince dai molti lavori licenziati in sede di laurea: Frank Zappa, Bob Marley, l’uso della pop music nell’opera di Nick Hornby, per citarne solo alcuni. Senza contare tutta una serie di indagini scaturite da studi personali degli allievi anche in sede di esame. Il tutto supportato da disamine che prendono realmente in considerazione gli aspetti formali del repertorio analizzato. All’università di Catania, quindi, l’attenzione nei confronti di una musicologia della cultura popular, finalmente confortata dall’appassionato dibattito in una sede accademica così prestigiosa come quella del seminario organizzato da ‘Il Saggiatore Musicale’ al quale facevo riferimento all’inizio, è già in atto da tempo. 31