Valutare correttamente i costi indiretti ed i costi fissi,Come calcolare

Valutare
correttamente
i
costi indiretti ed i costi
fissi
In molte piccole imprese manifatturiere che
lavorano conto terzi, ovvero producendo su
commessa su specifiche del cliente , la
determinazione del costo del prodotto, e
quindi del prezzo da proporre in offerta, si
imbatte in uno scoglio difficile da affrontare
con la consapevolezza di fare la cosa giusta:
la valutazione dei costi indiretti e dei costi fissi o di
struttura da considerare in aggiunta ai costi variabili del
prodotto, sicuramente meno ostici.
La problematica del calcolò del costo del prodotto e della
determinazione del prezzo da formulare in offerta è già stata
trattata in precedenti articoli (“Come calcolare il prezzo del
prodotto“, “Come calcolare il costo vero del prodotto“) ma in
questo articolo vorrei approfondire la valutazione dei costi
“non variabili”, ovvero quelli derivanti da attività indirette
o di struttura.
Riepilogando le tipologie dei costi che riguardano
principalmente la nostra analisi sono le seguenti:
costi variabili: variano in funzione del volume di
lavoro svolto , ferma restando la capacità produttiva
totale. La variabilità può essere percepita come
evitabilità di un certo costo (se non sussiste la
richiesta del cliente o interna) in un dato periodo di
tempo;
costi fissi: sono costi il cui ammontare è costante al
variare del volume di lavoro svolto in un intervallo di
tempo definito e non breve;
costi diretti: compongono direttamente il prodotto
finito o la commessa. Rientrano in questa categoria le
materie prime, la manodopera diretta, gli acquisti di
prodotti e servizi forniti da terzi;
costi indiretti: sono tutti quelli non classificati come
diretti, ad esempio, i costi di manutenzione, gli
ammortamenti, l’energia ed i costi generali;
costi speciali o specifici: si riferiscono in maniera
esclusiva all’oggetto osservato; ad esempio,
l’ammortamento di una risorsa tecnica usato
esclusivamente per un prodotto/servizio/commessa;
costi comuni: sono costi non collegabili ad un unico
oggetto di osservazione, come ad esempio il costo del
personale del reparto IT o sistemi informativi.
Queste tipologie sono a due a due complementari. I costi
variabili si contrappongono ai costi fissi, i costi diretti
agli indiretti, i costi speciali (o specifici) ai comuni. Ogni
costo può dunque rientrare in ciascuno dei tre gruppi, facendo
parte delle varie tipologie.
Concentriamoci sulla determinazione dei costi fissi, anche
denominati “a spese generali” o di struttura, e dei costi
indiretti. Generalmente questi costi vengono valutati in modo
forfettario come una percentuale dei costi variabili senza una
precisa motivazione, se non che sono troppo difficoltosi da
calcolare in modo preciso.
Tra i costi indiretti rientrano normalmente quelli relativi al
lavoro del personale indiretto (ufficio commerciale,
magazzinieri, addetti al controllo qualità, capi reparto e
capi officina, ufficio pianificazione della produzione,
addetti alle spedizioni) e relative attrezzature (strumenti di
misura e controllo, materiale di consumo, ecc.).
Determinare in modo preciso il tempo speso dalle suddette
persone e l’impegno delle attrezzature è spesso molto arduo. È
quindi opportuno determinare un criterio di ripartizione di
tali costi, attraverso un driver opportuno, che permetta di
allocare i costi indiretti alla singola commessa e quindi al
prodotto.
I sopracitati driver non sono altro che indicatori
quantitativi che ci permettono di stabilire quanto più una
commessa ha assorbito le risorse indirette rispetto ad
un’altra. Se da un lato il volume di produzione, ovvero il
numero di unità prodotte per la commessa o il lotto, è un
facile driver che ci consente di ripartire tutti i costi
indiretti, è altresì vero che non tutte le commesse assorbono
risorse indirette allo stesso modo. Ad esempio il tempo
impiegato da magazzinieri ed operatori di produzione dipende
dal volume dei prodotti, il tempo per il controllo qualità dai
piani di campionamento e dal numero di unità prodotte, i costi
per l’utilizzo delle apparecchiature di controllo dai tempi di
controllo e dal valore delle stesse apparecchiature e dei
relativi costi di taratura.
Un buon ciclo di produzione gestito informaticamente
permetterà di determinare in modo preciso anche i tempi di
controllo/collaudo e, quindi, di rendere diretti tali costi.
In generale se la produzione è molto variabile per tipologia
di articoli e dimensione degli stessi potrebbero essere validi
anche altri driver quali il peso del materiale impiegato per
la commessa o il tempo totale di produzione del lotto.
I costi di struttura, quali i costi degli uffici
amministrativi e della direzione, i costi di affitto dei
locali e le altre spese generali potrebbero essere ripartire
mediante gli stessi driver identificati per ripartire i costi
indiretti, ma non necessariamente i medesimi impiegati allo
scopo. Mi spiego meglio: un’azienda potrebbe decidere di
ripartire i costi indiretti o parte di essi secondo il numero
di unità prodotte ed i costi fissi o di struttura mediante il
volume o il peso di materiale prodotto.
Per quanto riguarda i costi commerciali (costi per la
preparazione di offerte e gestione ordini, eventuali verifiche
della progettazione e del disegno del cliente), essi dipendono
per lo più dal numero di ordini ricevuti, piuttosto che dalle
quantità prodotte.
Il sistema più corretto è quello di definire dei centri di
costo (ufficio commerciale, amministrazione, ufficio
produzione, magazzino, laboratorio, costi di affitto e
manutenzione dei locali, sistemi informatici, ecc.) a cui
imputare i costi sostenuti e poi “ribaltare” tali costi
complessivi sulle commesse/prodotti in funzione di diversi
criteri o driver stabiliti.
Ripartire i costi indiretti e di struttura in base al valore
del prodotto potrebbe mettere tutti d’accordo e semplificare
le cose: è quello che molti fanno – come abbiamo detto
all’inizio – ossia aggiungere ai costi variabili una
percentuale determinata in base all’incidenza generale dei
costi fissi ed indiretti sul totale dei costi a bilancio.
Purtroppo tale procedura potrebbe ingenerare errori in quanto
l’incidenza dei costi fissi nell’anno n potrebbe essere molto
diversa da quella dell’anno n+1 in periodi di forti
fluttuazioni del mercato come quello che stiamo passando.
Alcuni imprenditori, poi, estremizzano il concetto di costi
variabili e considerano i costi per il personale dipendente ed
i costi per le macchine di produzione come costi fissi,
seguendo il ragionamento seguente: «indipendentemente dai
volumi di produzione i dipendenti li devo pagare e le macchine
sono di proprietà dell’azienda e dunque i relativi costi di
ammortamento vengono sostenuti.»
Tale visione non cambia la sostanza del calcolo del costo del
prodotto: occorre ripartire i costi di personale e
macchine/attrezzature sulle varie commesse. A questo punto
bisogna fare attenzione a non trascurare parte dei costi
sostenuti, infatti si può imputare alla commessa le ore di
manodopera e le ore macchina effettivamente impiegate per
realizzare i prodotti (parte variabile dei costi di personale
ed attrezzature) e considerare come costi fissi le ore di
manodopera e le ore macchina non allocate alle commesse
produttive, nella fattispecie per il personale trattasi di ore
impiegate per manutenzioni, organizzazione interna,
formazione/addestramento, ecc.; per le macchine i fermi per
rotture e manutenzioni programmate ed a guasto. Ma per
entrambe le risorse rientrano le ore non lavorate dal
personale e dalle macchine “inoperosi” per mancanza di lavoro!
Una visione secondo il direct costing, anziché il full
costing, eviterebbe di commettere errori nella ripartizione
dei costi fissi sulle diverse commesse/prodotti, permettendo
un confronto più reale fra di essi. In molte realtà, però, il
problema resta il corretto calcolo di alcune voci di costo,
soprattutto quelli relativi alle macchine di produzione e,
comunque, in tutti i casi in cui la classificazione dei costi
della contabilità generale è molto diversa da quelle che sono
le esigenze della contabilità analitica e del controllo di
gestione.
Il predetto calcolo dei costi delle macchine, infatti, prevede
il conteggio esatto dei costi di possesso e di manutenzione
per ogni singola apparecchiatura. Se da un lato i costi di
ammortamento (o i canoni di leasing) contabilizzati per ogni
risorsa in contabilità generale non sono esattamente quello
che serve ai nostri scopi, ma si avvicinano ad una valutazione
reale, per i costi di manutenzione, invece, è necessario
imputare ogni singola spesa alla macchina di pertinenza. Ciò
richiede che ogni intervento di riparazione o manutenzione
esterna abbia una fattura con voci di costo chiaramente
attribuibili ad una macchina piuttosto che ad un’altra, idem
per i canoni di manutenzione che il fornitore spesso potrebbe
addebitare in forma indivisibile per tutte le apparecchiature
da lui assistite.
Tornando ai costi di ammortamento civilistico, oppure ai
canoni di leasing per le macchine in locazione finanziaria,
essi rappresentano spesso valori poco realistici rispetto al
prezzo di mercato attuale della macchina ed alla sua vita
utile (comunque difficilmente prevedibile).
Infine vanno imputati alla macchina anche i costi per
manutenzione interna (manodopera e materiale) ed i costi degli
utensili e di altro materiale di consumo. Tali costi, tra
l’altro,
generalmente
dipendono
dall’obsolescenza
dell’apparecchiatura.
Quando si sente un imprenditore dire che una determinata
macchina (se non addirittura tutte) lavora, ad esempio, a 50
euro all’ora, forse bisognerebbe riflettere e capire bene
quali costi ha effettivamente considerato per arrivare a tale
valore.
In pratica occorrerebbe implementare un piccolo sistema
informativo in grado di contabilizzare, per ogni risorsa
fisica:
il valore di acquisto della macchina;
la vita stimata della stessa e gli eventuali costi di
smaltimento al momento della sua dismissione;
il tasso di deprezzamento della macchina (le quote di
ammortamento reali non saranno probabilmente costanti);
i costi di manutenzione/riparazione esterna;
i costi di manutenzione/riparazione interna (ore di
manodopera interna valorizzate e costo dei materiali e
ricambi impiegati);
i costi per materiali di consumo ed utensili;
i costi di funzionamento (energia elettrica ed altri
eventuali costi);
le ore effettivamente lavorate dalla macchina per un
determinato periodo.
In tal modo ogni anno sapremo il costo orario di ogni risorsa
da attribuire alle commesse/prodotti.
In conclusione il problema non è solo come ripartire i costi
indiretti ed i costi di struttura, ma anche come calcolarli in
modo sufficientemente accurato quando le registrazioni della
contabilità generale non è in grado di supportarci per
tempistiche e criteri di imputazione.
Come
calcolare
il
“vero” del prodotto
costo
In questi tempi di crisi o di lenta ripresa è
molto importante riuscire a valutare nel modo
corretto il costo reale del prodotto, soprattutto
per la piccola e media impresa (PMI). Ciò serve ad
una serie di scopi che possono essere riepilogati
nei seguenti:
stabilire un giusto prezzo da proporre nell’offerta al
cliente;
valutare la remuneratività di una determinata commessa;
fornire alla contabilità analitica uno degli elementi
fondamentali per il controllo di gestione.
Se esaminiamo il caso della determinazione del costo del
prodotto in un’industria manifatturiera, in particolare in
un’azienda meccanica che realizza prodotti meccanici finiti,
possiamo identificare una serie di problematiche connesse al
costo del prodotto ed anche alcuni errori che vengono
sistematicamente commessi da piccole (e talvolta anche medie)
imprese del settore meccanico.
Innanzitutto identifichiamo le componenti che determinano il
costo del prodotto. Per semplicità consideriamo un
prodotto/componente con distinta base mono-livello, ovvero non
costituito da componenti che debbano essere realizzati o
acquistati individualmente e poi assemblati fra loro per
formare l’assieme. Tale semplificazione – a parte il fatto che
non ci costringe a considerare una distinta base a più livelli
del nostro prodotto – non comporta alcuna differenza
nell’analisi dei concetti fondamentali su cui si basa il costo
del singolo componente, infatti, nel caso di prodotto
costituito da più componenti, sarà sufficiente sommare i costi
dei singoli componenti per determinare il costo dell’assieme
realizzato assemblando tutti i componenti di cui è composto.
La teoria della determinazione del costo del prodotto ha
individuato due tecniche di aggregazione dei costi ben
distinte: il criterio del costo pieno (full costing) ed il
criterio del costo variabile (direct costing). Nessuno dei due
è valido in assoluto, entrambi hanno pregi e difetti.
Soprattutto, le informazioni offerte dai due metodi sono molto
differenti.
L’approccio più corretto nel calcolare i costi è quello di
utilizzare il full costing o il direct costing in funzione
della decisione da prendere. Il che è quello che viene
generalmente fatto, magari senza rendersene conto, da coloro
che non posseggono un sistema formalizzato di Contabilità
Analitica.
Il full costing fornisce un’immagine immediata del costo
totale dell’oggetto analizzato (nel nostro caso il prodotto).
Questa metodologia è ampiamente accettata: ai costi diretti
dell’oggetto (materie prime, manodopera, consumi diretti) si
somma una quota “convenzionalmente congrua” dei costi
indiretti
(ammortamenti,
costi
commerciali,
costi
distributivi, spese generali) in modo tale da configurare un
costo totale.
Il direct costing, d’altro lato, è una metodologia di calcolo
più moderna, nei sistemi di Contabilità Analitica, che
consiste nel considerare i costi fissi non come costi da
imputare al singolo prodotto, ma piuttosto come costi di
periodo che devono essere necessariamente coperti per
raggiungere un pareggio economico. Al prodotto vengono
imputati solamente quei costi che gli sono oggettivamente
riferibili, cioè i costi variabili.
Accanto a queste due tecniche tradizionali si è aggiunta la
metodologia dell’ABC Costing (Activity Based Costing), basata
sull’assorbimento di risorse (e di costi) da parte di attività
che poi permettono di realizzare il prodotto.
Se un piccolo imprenditore avesse voglia di leggersi uno dei
tanti testi teorici sulla contabilità analitica e sul
controllo di gestione al fine di determinare il costo del
prodotto si troverebbe disorientato dagli esempi proposti
nella letteratura che prendono in esame la produzione di pochi
prodotti con volumi ben determinati. La realtà della piccola
impresa del nostro esempio è ben diversa: il costo presunto
del prodotto deve essere determinato in fase di formulazione
del preventivo, quando i volumi di produzione non sono ancora
ben noti ed i tempi di realizzazione del particolare possono
solo essere stimati.
Vediamo quindi quali sono le componenti che, sommate fra loro,
andranno a costituire il costo finale (costo pieno, secondo la
teoria del full costing) del prodotto, prendendo anche in
considerazione le esigenze informative che sono richieste al
sistema informatico gestionale per supportare l’imprenditore
nelle scelte legate al costo del prodotto.
Il primo elemento che si prende in considerazione è il costo
del materiale. Esso va, ovviamente, determinato calcolando il
peso del materiale necessario per realizzare ogni singolo
particolare e moltiplicandolo per il costo (al kg o al grammo)
del materiale. Tale valore, ideale, dovrà subire parametri
correttivi dovuti a diversi fattori:
sfridi e scarti di materiale, dovuti anche al fatto che
spesso materie prime come. ad esempio. l’acciaio vengono
vendute in barre di una determinata lunghezza (e peso) e
che l’alimentazione delle macchine automatiche genera
delle rimanenze (spezzoni) che non possono essere
riutilizzate;
la fluttuazione dei prezzi della materia prima nel
tempo, che può influenzare il costo del prodotto nel
lungo periodo;
la gestione dell’acquisto del materiale, che implica
tempo del personale coinvolto ed oneri di gestione,
compresi costi di immagazzinamento e rischi di
obsolescenza. In alcune situazioni questo suggerisce di
applicare un piccolo sovrapprezzo sul costo della
materia prima.
E’ necessario, infine, tenere presente che talvolta il
materiale è fornito in conto lavoro dal cliente, quindi non
costituisce un costo per il fornitore che deve comunque
gestirne l’immagazzinamento ed i controlli in accettazione,
oltre ad eventuali sfridi e scarti di lavorazione.
Il secondo macro-elemento da considerare nella determinazione
del costo del prodotto è il costo delle lavorazioni, il vero
valore aggiunto che fornisce la nostra azienda al cliente. Qui
l’azienda si gioca gran parte della propria competitività
perché su queste attività c’è la maggior parte del margine
aziendale, la ragione per cui il cliente ha scelto la nostra
azienda per realizzare il suo prodotto.
Il costo delle lavorazioni è dato dalla somma dei costi di
tutte le fasi di lavorazione – interne ed esterne – comprese
nel ciclo di lavorazione e controllo. Le fasi di lavoro si
possono suddividere in quattro categorie: lavorazioni interne,
lavorazioni esterne, operazioni di controllo ed attività
logistiche (imballaggio, immagazzinamento, spedizione).
Ogni fase di lavoro svolta internamente può richiedere o meno
una operazione di setup o attrezzaggio macchina – eseguita una
volta per ogni commessa di lavorazione, salvo eccezioni – e
comprende una lavorazione vera e propria effettuata su ogni
singolo pezzo oppure sull’intero lotto produttivo. Dunque ogni
fase di lavoro ha un costo pari a:
[1] Costo fase i-esima = Costo orario di setup x tempo di
setup + Costo orario di lavorazione x Tempo di lavorazione.
Da questa scomposizione emerge subito il fatto che mentre il
primo addendo è indipendente dal numero dei pezzi lavorati, il
secondo cresce proporzionalmente al numero dei pezzi lavorati;
pertanto, ai fini del calcolo del costo del prodotto, la
componente unitaria del costo di lavorazione della fase iesima per unità lavorata è dato dal
Costo di setup/numero di unità lavorate + costo di lavorazione
unitario
Nella formula [1] Il costo orario di setup è costituito da due
componenti: il costo orario della macchina ed il costo orario
dell’operatore, perché in questa fase sia la macchina, sia
l’operatore che la attrezza impiegano contemporaneamente il
loro tempo nella fase di atrezzaggio, di realizzazione dei
primi pezzi (campione) e nel loro controllo, fintantoché non
vengono realizzati particolari pienamente conformi alle
specifiche e, quindi, avviene il cosiddetto Benestare Avvio
alla Produzione (BAP).
Il costo dell’operatore è pari al costo della manodopera di
quel livello di specializzazione, infatti solitamente è il
personale più esperto (e meglio
all’attrezzaggio delle macchine.
pagato)
che
si
deica
Il costo orario della macchina viene invece determinato
dividendo il costo complessivo di utilizzo della macchina o
TCO = Total Cost of Ownership (costo di acquisto + costi di
manutenzione e smaltimento) per il periodo ipotetico di
utilizzo, costituito non dal periodo di ammortamento fiscale,
ma dall’ammortamento reale, ovvero il periodo di vita stimato
della macchina. Il tempo di utilizzo della macchina, espresso
in anni e poi convertito in ore di lavoro, dovrà essere
corretto con un opportuno coefficiente che rappresenta la
quota parte di effettivo lavoro della macchina dopo la
sottrazione dei fermi macchina per rotture, manutenzioni
programmate ed indisponibilità di lavorazioni o personale che
sia in grado di attrezzarla.
Molti imprenditori sono soliti considerare che le proprie
macchine lavorino a “x euro all’ora”, ma non hanno ben chiari
i meccanismi attraverso i quali si è giunti alla
determinazione del costo orario, spesso il dato è fornito dal
consulente contabile in base all’ammortamento fiscale o alla
rata del leasing, senza considerare fermi macchina e costi di
manutenzione.
Il costo del setup di macchina è poi influenzato
significativamente dalla variabile tempo: spesso i tempi
standard considerati in fase di preventivo per il piazzamento
della macchina si discostano notevolmente dai tempi effettivi
impiegati per il piazzamento, che raramente vengono rilevati
da un sistema di raccolta dati efficiente e preciso.
Il costo orario di lavorazione della suddetta formula [1] è
costituito, anche in questo caso, dal costo orario della
macchina e dal costo dell’operatore, ma mentre il primo
elemento è identico al precedente, il secondo dipende dal
tempo effettivo di impegno dell’operatore sul centro di
lavoro.
Nelle moderne lavorazioni meccaniche effettuate con macchine a
controllo numerico di ultima generazione l’operatore non ha la
necessità di presidiare la macchina ed è impegnato solo nelle
attività di caricamento materia prima, controllo a frequenze
prefissate di alcuni pezzi, sistemazione dei pezzi lavorati
negli appositi contenitori, cambio utensili, gestione degli
imprevisti, ecc.. La stima del tempo dell’operatore
(generalmente di profilo più basso rispetto a colui che
attrezza la macchina ed a chi è dedicato ad operazioni di
collaudo) è difficile ed altrettanto complicata è anche la
rilevazione del tempo effettivo impiegato dall’operatore.
Normalmente è opportuno utilizzare dei parametri fissi,
determinati a livello aziendale in funzione del rapporto
macchine/operatori. Ad esempio se in un reparto lavorano 2
operatori che supervisionano e controllano 4 centri di lavoro,
si dovrà considerare il costo orario dell’operatore al 50%
rispetto a quello effettivo (2 persone/4 lavorazioni). In
tutto questo bisogna considerare il costo per i controlli in
produzione, effettuati a cadenza prefissata (ad. 3 pezzi ogni
100 prodotti).
Diverso è il caso per lavorazioni eseguite manualmente
dall’operatore pezzo per pezzo: in tal caso occorre
considerare il costo orario pieno della manodopera come
addendo del costo della lavorazione per tutta la durata della
stessa.
Anche per la lavorazione la variabile tempo è importante: la
determinazione del tempo standard unitario di produzione di un
singolo pezzo spesso differisce da dati reali che, se raccolti
informaticamente, possono permetterci di elaborare statistiche
adeguate sui tempi effettivi di lavoro.
Vari metodi di calcolo possono essere attuati per determinare
il tempo effettivo di lavorazione di un pezzo: si può
considerare la media generale di un numero minimo di
lavorazioni, ad esempio si può:
escludere dal calcolo del tempo medio il valore minimo e
quello massimo (spesso causati da situazioni anomale);
determinare una media pesata in funzione della
dimensione del lotto (lotti maggiori possono fornire
stime più affidabili);
considerare un valore prudenziale dato dal valor medio
incrementato della deviazione standard al fine di
comprendere comunque la maggior parte delle situazioni;
ecc..
Altre considerazioni vanno fatte per le lavorazioni quali
trattamenti termici o superficiali che richiedono un tempo di
setup (dei parametri del processo) inferiore ed un tempo di
lavorazione complessivo per l’intero lotto, indipendentemente
dalle dimensioni dello stesso, o meglio fino ad un certo
limite, oltre il quale è necessario effettuare una seconda
lavorazione sulla seconda parte del lotto, raddoppiando così i
tempi.
Spesso sono proprio queste le lavorazioni svolte esternamente,
il cui costo è predeterminato dal prezzo del fornitore, che
varia in maniera discreta/discontinua in funzione del lotto
(ad es. fino a 1000 pezzi un certo prezzo, da 1000 a 5000 un
altro prezzo e così via).
Molta attenzione è poi necessaria nella stima dei costi per
fasi
di
lavoro
particolari
quali
imballaggio,
immagazzinamento, collaudo finale, ecc., nelle quali il costo
dell’operatore incide in maniera diversa sul lotto di unità
prodotte. Ad esempio al collaudo finale il tempo dell’addetto
è proporzionale al numero di pezzi controllati, non alla
dimensione del lotto oppure per l’imballaggio il tempo dipende
dal numero di colli realizzati.
Dopo aver sommato il costo del materiale e quello di tutte le
lavorazioni occorre, per arrivare a determinare il costo pieno
del prodotto, stimare i costi indiretti, che dovrebbero
costituire una quota minoritaria del costo complessivo, ma
talvolta non sono trascurabili, soprattutto in periodi di
crisi.
Qui nasce
il
problema
di
come
ripartire
fra
i
vari
prodotti/commesse (in gergo si utilizza il termine “spalmare”)
tutti gli altri costi non imputati direttamente al prodotto.
La regola basilare è quella di non calcolare due volte una
parte di costo, né di non coprire tutte le voci di costo
dell’azienda.
Le voci di costo che solitamente non sono state attribuite
direttamente ai prodotti possono essere raggruppate nelle
seguenti:
costi di struttura (affitto locali, forniture per la
struttura, consulenze, ecc.);
costi commerciali (pubblicità e marketing, provvigioni
commerciali, spese di rappresentanza,…);
costi del personale dipendente non direttamente
impiegato nelle lavorazioni (impiegati amministrativi,
responsabili ed addetti delle funzioni acquisti,
qualità, sistemi informativi, ecc.), considerando anche
le quote parte del personale della produzione che non
viene impiegato nella produzione stessa per
inefficienze, scarso lavoro, ecc.;
consumi (energia elettrica, riscaldamento, ecc.),
eventualmente depurati dei consumi direttamente imputati
ai costi macchina;
materiali di consumo;
quote di ammortamento (reali) di beni strumentali e
licenze software;
tutte le spese non considerate nelle voci sopraelencate.
Alcune semplificazioni possono essere effettuate senza
alterare l’accuratezza del risultato. Considerando i costi
indiretti e la produzione dell’esercizio precedente si può
considerare che i costi indiretti da ribaltare siano una certa
percentuale del costo del prodotto, ma occorre la massima
attenzione per non incorrere in errori significativi. Poiché,
infatti, la maggior parte dei costi indiretti sono anche costi
fissi, cioè sono indipendenti dai volumi produttivi, il
calcolo suddetto potrebbe essere inficiato da notevoli
variazioni nei volumi produttivi, cosa molto frequente in
questo periodo di crisi. Facciamo un esempio: se nel 2008
l’azienda ha fatturato 10.000 (in migliaia di euro) con costi
della produzione pari a 6.000 e costi indiretti 2.000 (per un
margine di contribuzione lordo pari a 2.000), l’incidenza dei
costi indiretti è del 2000/6000 = 33% sui costi della
produzione. Supponiamo che nel 2009 il fatturato cali a 6.000
(-40%) ed i costi della produzione siano pari a 3.600 (sempre
il 60% di ricavi), mentre i costi indiretti siano sempre
2.000. Per il 2009 l’incidenza dei costi indiretti sul costo
della produzione è 2000/3600 = 56%, dunque quale percentuale
consideriamo (33% o 56%) nella determinazione del costo del
prodotto nel 2010 se non sappiamo quale sarà l’andamento
dell’azienda? In periodi di forti fluttuazioni alcuni schemi
di calcolo non sono più validi!
Altre valutazioni possono essere fatte, ad esempio si può
ripartire i costi indiretti sulla base di altri cost driver,
come ad esempio il tempo impiegato per produrre un singolo
pezzo (comprensivo del tempo di setup della macchina): i costi
indiretti possono essere suddivisi per giornata lavorativa e
quindi per postazione/centro di lavoro, ottenendo un costo
orario indiretto di ogni centro di lavoro, consumato dai pezzi
lavorati per il lotto di produzione. Oppure utilizzare il
metodo del direct costing per superare il problema.
Infine, al costo del prodotto, va aggiunto un piccolo margine
percentuale (utile d’impresa) per determinare il prezzo da
formulare nel preventivo. Tale prezzo, nel nostro algoritmo di
calcolo, potrà essere variato in modo semplice in funzione di
diverse variabili, modificabili a richiesta: costo del
materiale, numerosità del lotto, frequenza e numerosità dei
controlli, costo manodopera, sostituzione di una macchina per
la produzione con un’altra equivalente dal punto di vista
tecnico, ma con velocità produttiva diversa, capability
differente (e diversa probabilità di genrare prodotti non
conformi), ecc..
In conclusione il calcolo del costo del prodotto è molto
articolato e le considerazioni sopra esposte possono variare
in realtà diverse. Per ottenere risultati affidabili sono
necessarie competenze adeguate (all’interno o all’esterno
dell’azienda), sistemi informatici efficienti, rilevazioni dei
tempi di produzione precise ed affidabili.
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