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VOLUME
L’ORIENTALISMO
DI GIACOMO PUCCINI
a cura di
LUCIANA DISTANTE
1. GIACOMO PUCCINI: UOMO E ARTISTA
1.1 Brevi cenni sulla vita.
Nato a Lucca il 22 dicembre 1858, Giacomo fu il sesto dei nove figli di Michele Puccini e Albina Magi. Da molte generazioni i Puccini erano maestri di cappella del Duomo
di Lucca e anche Giacomo, perduto il padre all’età di cinque anni, fu mandato a studiare presso lo zio materno. L’aneddotica ce lo descrive tuttavia come uno scavezzacollo.
Lasciata Lucca, dal 1880 al 1883 Puccini studiò al Conservatorio di Milano, grazie ad
una borsa di studio di cento lire al mese, per un anno, fattagli avere dalla regina Margherita su supplica della madre.Durante questi anni di gaia miseria, divise una camera
con l’amico Mascagni. Tra i suoi insegnanti spiccano i nomi di Amilcare Ponchielli e
Antonio Bazzini. Nel 1883 partecipò al concorso per opere in un atto indetto dall’editore Sonzogno con Le Villi, su libretto di Ferdinando Fontana e non vinse il concorso, ma
nel 1884 fu rappresentata al Teatro dal Verme di Milano sotto il patrocinio dell’editore
Giulio Ricordi, concorrente di Sonzogno.
Nel 1884 Puccini aveva messo su famiglia, iniziando una convivenza destinata a durare
tra varie vicissitudini tutta la vita con Elvira Bonturi, moglie del droghiere lucchese
Narciso Gemignani.Nel 1891 Puccini si trasferì a Torre del Lago (ora Torre del Lago
Puccini, frazione di Viareggio): ne amava il mondo rustico e lo considerava il posto
ideale per coltivare la sua passione per la caccia e per le baldorie tra artisti. Di Torre
del Lago il maestro fece il suo rifugio, prima in una vecchia casa affittata, poi facendosi
costruire la villa che andò ad abitare nel 1900.
Qui furono composte le sue opere di maggior successo. Puccini la descrive così:Dopo il
mezzo passo falso di Edgar, la terza opera – Manon Lescaut – fu un successo straordinario, forse il più autentico della carriera di Puccini. Essa segnò inoltre l’inizio di una
fruttuosa collaborazione con i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, il primo subentrato a Marco Praga e Domenico Oliva nella fase finale della genesi, il secondo in
un ruolo più defilato. Illica e Giacosa avrebbero scritto poi i libretti delle successive tre
opere, le più famose e rappresentate di tutto il teatro pucciniano. La prima, La bohème
(basata sul romanzo a puntate di Henri Murger Scènes de la vie de Bohème), è forse la
sua opera più celebre.
Tra i capolavori del panorama operistico tardoromantico, La bohème è un esempio di
sintesi drammaturgica, strutturata in 4 quadri (è indicativo l’uso di questo termine in
luogo del tradizionale “atti”) di fulminea rapidità. La successiva, Tosca, rappresenta
l’incursione di Puccini nel melodramma storico a tinte forti. Il soggetto, tratto da Victorien Sardou, può richiamare alcuni stereotipi dell’opera verista, ma le soluzioni musicali anticipano piuttosto, specie nel secondo atto, il nascente espressionismo musicale.
Madama Butterfly (basata su un dramma di David Belasco) è la prima opera esotica di
Puccini. Il suo debutto alla Scala nel 1904 fu un solenne fiasco, probabilmente almeno
in parte orchestrato dalla concorrenza. Dopo alcuni rimaneggiamenti, l’opera fu presen-
2.
tata al Teatro Grande di Brescia, dove raccolse un successo pieno, destinato a durare
fino ad oggi. La collaborazione con Illica e Giacosa fu certamente la più produttiva
della carriera artistica di Puccini. L’ultima parola spettava comunque a Puccini, al quale Giulio Ricordi aveva affibbiato il soprannome di «Doge».
L’eclettismo pucciniano, e insieme la sua incessante ricerca di soluzioni originali, trovarono piena attuazione nel cosiddetto Trittico, ossia in tre opere in un atto rappresentate in prima assoluta a New York nel 1918.
I tre pannelli presentano caratteri contrastanti: tragico e verista Il tabarro, elegiaca e
lirica Suor Angelica, comico Gianni Schicchi.Turandot è la prima opera pucciniana di
ambientazione fantastica, Puccini si entusiasmò subito al nuovo soggetto e al personaggio della principessa Turandot, algida e sanguinaria, ma fu assalito dai dubbi al momento di mettere in musica il finale, coronato da un insolito lieto fine, sul quale lavorò
un anno intero senza venirne a capo. L’opera rimase incompiuta perché Puccini morì a
Bruxelles nel 1924, per complicazioni sopraggiunte durante la cura di un tumore alla
gola. Le ultime due scene, di cui non rimaneva che un abbozzo musicale discontinuo,
furono completate da Franco Alfano sotto la supervisione di Arturo Toscanini; ma la
sera della prima rappresentazione lo stesso Toscanini interruppe l’esecuzione sull’ultima nota della partitura pucciniana, ossia dopo il corteo funebre che segue la morte di
Liù. Nel 2001 vide la luce un nuovo finale composto da Luciano Berio, basato sul medesimo libretto e sui medesimi abbozzi. La tomba del maestro si trova nella cappella
della villa di Torre del Lago.
1.2 Puccini e il verismo musicale.
Sotto l'influsso letterario del verismo, nell'ultimo decennio del XIX secolo i compositori italiani privilegiarono soggetti legati alla classe proletaria trattati con gusto realistico,
talvolta evidenziando la brutalità e le ingiustizie di alcune situazioni messe in scena. I
critici degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento accomunarono con l'appellativo
“Giovane scuola” un gruppo di compositori (Ruggero Leoncavallo, Pietro Mascagni,
Umberto Giordano, Francesco Cilea e Giacomo Puccini) dediti al melodramma, che
venne chiamato da allora “verista”.1 Questi musicisti non ebbero una formazione musicale omogenea: Leoncavallo, Giordano e Cilea frequentarono il Conservatorio di Napoli, mentre Puccini e Mascagni si perfezionarono al Conservatorio di Milano sotto la
guida di Amilcare Ponchielli. Tutti i compositori erano legati alla Casa Sonzogno, escluso Puccini, che aveva come editore Ricordi. Ciò che interessava ai compositori
veristi era promuovere l'identificazione del pubblico dell'epoca con i personaggi e le
situazioni emotive messe in scena. Un ruolo importante in questo senso fu svolto dai
1. Per un quadro generale sull’opera verista si consulti Guido Salvetti, La nascita del
Novecento, nuova ed., Torino, EDT, 1991, cap. V.
3.
letterati della “scapigliatura” movimento letterario d'avanguardia che contribuì ad aggiornare la cultura italiana al più avanzato romanticismo d'oltralpe negli ultimi decenni
del XIX secolo.2 Nutriti di un gusto particolare per il grottesco, il sinistro e l'eccentrico,
essi posero l'attenzione sulla necessità di una letteratura non aulica, più vicina al parlato
quotidiano. Alcuni esponenti di questo movimento, tra cui Arrigo Boito ed Emilio Praga, si interessarono fortemente alla musica, cimentandosi anche nella professione di
librettista (soprattutto Boito).3 Gli scapigliati, che criticavano il melodramma tradizionale, si mossero in direzione sia di una migliore qualità letteraria dei libretti, sia di un
forte sperimentalismo linguistico. Si avvertiva inoltre il bisogno di inglobare nel linguaggio operistico il parlato quotidiano. I personaggi dei drammi veristi si esprimono
in un linguaggio semplice e concreto, la lingua di ogni giorno. I testi divengono polimetrici e flessibili, tanto che il sistema metrico che aveva governato il libretto dell'opera italiana per circa due secoli, ossia l'architettura in numeri musicali funzionali al discorso drammatico, viene rivoluzionato. La rigida struttura a numeri (ognuno dei quali
composto da due sezioni cinetiche e due statiche) fu sostituita da forme più flessibili e
dinamiche.4 Assunsero un'importanza determinante le sonorità locali - esotiche, gli
inserti di danza (in precedenza il ballo era separato totalmente dall'azione dell'opera) e
il dispiegamento di masse corali. Per questo tipo di opera fu coniata la nuova definizione di “opera-ballo”, di cui sono celebri esempi Aida di Giuseppe Verdi, La Gioconda di
Amilcare Ponchielli e Le Villi di Giacomo Puccini.
Puccini sviluppa in modo molto personale le innovazioni wagneriane. Naturalmente è
molto legato alla tradizione italiana, ma risente di molte influenze che in qualche modo
lo attirano senza mai convincerlo del tutto. Risente del verismo, ma in qualche maniera
le sue opere si distaccano dal movimento portato avanti da Mascagni, e si dirigono verso sentieri diversi, più indirizzati sul microcosmo della coppia, del quale parleremo,
che alla realtà circostante. È vicino anche all’estetismo dannunziano (e la loro collaborazione fu vicina a realizzarsi), ma l’immobilità estetica dello scrittore mal si combina
con la dinamica sentimentale che sviluppa Puccini.
Un compositore fuori dagli schemi e dalle tradizioni, quindi, così particolare da risultare alla fine unico e inimitabile: Puccini, appunto. Ogni opera è affrontata da Giacomo
Puccini con una attenzione e una dedizione che nel mondo della composizione ha ben
pochi riscontri. Altri compositori, non meno noti al grande pubblico, hanno prodotto
una quantità incredibile di partiture, approfittando di vantaggiosi contratti e lavorando
sulla scia di una fama senza confronti. Leggendo lettere e dichiarazioni di compositori
2. Sul movimento della Scapigliatura si veda Pazzaglia, Letteratura italiana cit., pp. 532-534.
3. Rubens Tedeschi, Addio fiorito asil. Il melodramma italiano da Boito al verismo, nuova ed., Pordenone,
Edizione Studio Tesi, 1992.
4. Una sintesi efficace della storia del melodramma si legge nel volume di Lorenzo Bianconi, Il teatro
d’opera in Italia. Geografia, caratteri, storia, Bologna, Il Mulino, 1993.
4.
o contemporanei possiamo apprendere che alcune opere, che potremmo pensare essere
il frutto di mesi di duro lavoro, con il compositore alla ricerca dell’ispirazione e della
migliore forma stilistica, sono invece il risultato del frenetico lavoro di poche settimane, a volte pochi giorni. In Giacomo Puccini, notiamo una certa riflessione, una cura a
volte esasperata sia nella ricerca del tema che della forma. Naturalmente anche Puccini
ha spesso attinto a temi melodici preesistenti, soprattutto quando si trattava di dover
caratterizzare in modo appropriato una delle sue opere dal gusto esotico (Madama Butterfly, Turandot), però dietro c’è tutta una preparazione atta a integrare nella trama melodica della sua opera questi estratti esotici.
2. L’OPERA PUCCINIANA
2.1 Il linguaggio musicale.
Amato dal pubblico. Rinnegato dalla critica. Nessun operista in passato, tranne forse
Donizetti, ha subito al pari di Puccini una così tenace avversione da parte degli “addetti
ai lavori”. In Butterfly le giapponeserìe, il sentimentalismo svenevole, la leziosaggine
di alcuni episodi incidentali, il tono operettistico di alcune situazioni, certa fanciullaggine di atteggiamenti nella protagonista (una quindicenne, peraltro), l’apparente facilità
delle idee musicali, hanno incontrato e ancora incontrano l’ostilità di critici e studiosi,
fuorviando la comprensione dell’opera e allontanando indagini non superficiali. Facile
sembra infatti la Madama Butterfly, almeno al primo ascolto, a onta di tutta la complessità che vi si cela nel profondo. Proprio per il fatto che questa musica ammantata di
splendore strumentale esercita nella sua apparente facilità un fascino denso di molteplici significati, sorge spontaneo l’impulso di comprenderne la vera natura, studiarne il
segreto dispositivo che ce la rende ancora oggi così seducente. L’apparente banalità
della Butterfly sembra derivare da quel tono ‘operettistico’, specie nel primo atto, tante
volte biasimato dai commentatori. Attraverso una rilettura più attenta e consapevole
dello spartito ci si rende conto che lo scarto stilistico che si stabilisce fra l’ingresso
della protagonista e tutto quanto lo precede si rivela operazione non casuale bensì predeterminata. Quel tono ‘operettistico’ non vuole affatto svolgere una funzione narrativa, bensì esprimere una funzione per così dire alienante: musica di sfondo, una sorta di
tappezzeria sonora, si direbbe, insomma un espediente volutamente calcolato per il suo
stile “basso” al fine di lasciar emergere, isolandola in primo piano ed elevandola a un
livello stilistico superiore, la figura della protagonista. La tecnica compositiva di Puccini nel rapporto fra canto e orchestra si fonda sul procedimento sintattico della musica
di conversazione, che a sua volta discende per via diretta dal parlante dell’opera ottocentesca. Attraverso tale procedimento egli fa ampiamente tesoro di una delle conquiste più rilevanti della tradizione melodrammatica perseguita e realizzata da Verdi: la
fusione degli stili espressivi. In Puccini tale fusione, espressa con grandissima abilità
per transizione (vedi il primo atto di Tosca) o per sovrapposizione (vedi il quartetto di
5.
Bohème) di elementi musicali — dal comico al patetico, dal brillante al tragico, dall’umoristico al descrittivo, dal lirico al
grottesco — viene ulteriormente consentita dalla riduzione della melodia in termini di
durata. In Puccini il procedimento a mosaico che ne risulta è solo apparente, poiché
l’impiego di brevi cellule melodiche rivela a un’attenta analisi un comportamento mai
casuale ma sempre meditato che non lascia traccia di suture. Tale procedimento si basa
principalmente (ma non esclusivamente) sull’uso di temi ricorrenti.5 Nel teatro di Puccini la nuova valutazione della consistenza del tempo nella genesi e nello sviluppo di
caratteri e situazioni, e il senso della durata psicologica si ricollegano per certi aspetti
alla celebre distinzione della memoria volontaria e della memoria involontaria. I Leitmotiven pucciniani non tengono al guinzaglio la memoria dell’ascoltatore, ma al contrario vi si insinuano lentamente, come per via inconscia. Non invocano, come in Wagner, un ascolto cosciente, riflessivo, ma implicano piuttosto un ascolto subcosciente,
emozionale. Nel presentarsi quasi accidentalmente, come tessere di un mosaico, o meglio come cellule connettive del tessuto narrativo del discorso musicale, i temi ricorrenti in Puccini non sembrano denunciare a tutta prima una valenza drammaturgica immediatamente percepibile. Appaiono e scompaiono per riaffiorare fugacemente nel corso
della vicenda drammatica, acquistando in corso d’opera referenze sempre più esplicite,
fino a caricarsi, verso la catastrofe, di una densità di sensazioni e di significati che ci
rivelano solo alla fine la loro vera funzione espressiva. L’etichetta di “verismo” applicata al teatro di Puccini risulta dunque del tutto impropria. Il teatro pucciniano è meno
teatro dell’osservazione (conforme i canoni dell’estetica naturalista, che pure Puccini
sembra apparentemente applicare) e assai più teatro dell’emozione (in direzione di tanta estetica simbolista di quegli anni). L’ascolto, in particolare l’ascolto globale, vale a
dire effettuato direttamente dal vivo, in teatro, è in grado di rivelare elementi strutturali
che lo spartito a tutta prima non sembra denunciare. Si è accennato alla mobilità dei
ritmi e delle transizioni armoniche. All’interno di questa mobilità agiscono altre componenti che rivelano nella melodrammaturgìa pucciniana, un’importanza sostanziale e
decisiva. Un aspetto dell’arte di Puccini che finora non è stato preso in debita considerazione riguarda l’espansione in senso verticale della struttura compositiva e al suo
interno l’uso del timbro in rapporto ai parametri di altezza, di intensità e di durata. A
differenza di un’armonia compatta e del colore strumentale ‘globale’ che ne consegue,
la struttura compositiva di Puccini si basa prevalentemente su un’armonia instabile a
disposizione larga che si apre in ampiezza, in modo da valorizzare i singoli colori timbrici. A livello di struttura compositiva i valori armonici e quelli strumentali si compenetrano pertanto fra loro in modo tale che non è possibile scinderli come entità autonome. L’uno argomenta l’altro. Lo strumentale non è dunque ‘veste’ esteriore o abbellimento del pensiero melodico - armonico, né mero esercizio virtuosistico fine a se stes5. A tal proposito le analogie con il Leitmotiv wagneriano sono state più volte sottolineate dagli studiosi.
6.
so, ma risponde alle esigenze della struttura compositiva stessa, è sostanza del discorso
musicale, una sostanza peraltro dagli effetti così squisitamente armoniosi, dai risultati
così seducenti da trarre in inganno sulla sua vera natura e funzione. La disposizione
larga delle armonie in senso verticale e l’alternanza di contrazioni e distensioni foniche
che Puccini opera per scelte armonico - timbriche sembrano smentire la tanto conclamata consanguineità del suo teatro con l’opéra - lyrique francese (Bizet, Massenet,
ecc.), ma ne rivelano semmai i debiti verso Wagner, successivamente verso Debussy, e
ne denunciano una certa consonanza con l’arte di Mahler. Una tecnica e una tendenza
estetica, quelle di Puccini, che già partecipano alla nuova sensibilità musicale dei grandi compositori del Novecento, da Strawinsky a Bartók, da Schönberg a Webern. Se mai
un addebito è possibile imputare a Puccini è forse quello di troppa modestia, di aver
cioè talvolta sottovalutato le potenzialità che la sua stessa sensibilità musicale era in
grado di esercitare in rapporto all’espressione drammatica, non sposando (lo dico sottovoce e senza troppa convinzione) soggetti meglio adeguati per ricchezza e complessità
di contenuti alla magistrale tecnica compositiva di cui era fornito e allo straordinario
intuito teatrale, tutto orientato verso orizzonti d’avanguardia.
3. MADAMA BUTTERFLY
3.1 Trama.
Formalmente la chiusura del sipario a metà del secondo atto determina la divisione
dell’opera in tre atti. Concettualmente l’azione è continua e interromperla solo per permettere al pubblico di prendere un caffè o fumare una sigaretta, guasta irrimediabilmente l’atmosfera creata nel secondo atto. Oltretutto l’intervallo non è neanche giustificato da motivi tecnici di cambio delle scene, come invece accade nella Manon Lescaut
(anche se al giorno d’oggi talvolta è possibile realizzare un cambio scena senza rumore
e in pochi minuti) e di per sé il terzo atto è quello di durata più breve rispetto agli altri
due. Occorre notare che negli ultimi anni sono divenute più frequenti le messinscene
con il secondo e terzo atto uniti, considerando così l’opera in due atti di cui il secondo
suddiviso in due parti, quasi che si volesse accontentare il desiderio del Maestro. La
storia si svolge a Nagasaki agli inizi del ‘900 («A Nagasaki – Epoca presente).
ATTO PRIMO. Sulla collina presso Nagasaki, Goro mostra a Pinkerton la casa che ha
acquistato tipicamente giapponese con le pareti scorrevoli per creare ambienti diversi a
seconda del gusto e gli presenta Suzuki, cameriera di Butterfly, e gli altri servitori. Tutto è già pronto per le nozze tra Pinkerton e Butterfly. Arriva Sharpless, il console americano a Nagasaki, e intrattiene con Pinkerton una conversazione sulle abitudini libertine dei marinai americani, e sulla facilità di interruzione di tutti i tipi di contratto in
Giappone, compreso il matrimonio, rescindibile ogni mese. Sorseggiano whisky, il
discorso cade poi sulla bellezza e la dolcezza di Butterfly e sulle reali intenzioni di Pin-
7.
kerton, che si dichiara sì infatuato della bella giapponesina, ma per il suo futuro desidera vere nozze e una vera moglie americana. Arriva Butterfly accompagnata dalle amiche, e tutte si inchinano a Pinkerton in segno di rispetto. Sharpless la interroga sulle sue
origini: la sua famiglia un tempo ricca, cadde in disgrazia e lei a quindici anni fa già la
geisha. Giungono in corteo anche i funzionari e i parenti.
Tutte queste usanze orientali sono derise dai due americani. Analogamente, Pinkerton è
deriso dalle amiche di Butterfly e non è ben visto dai parenti e amici di Butterfly che
auspicano un divorzio. Butterfly confida sottovoce a Pinkerton di voler abiurare la propria religione in favore di quella americana. Tra gli oggetti portati da Butterfly nella
nuova casa vi è anche il pugnale con cui suo padre fu costretto all’harakiri. Nonostante
lo scarso gradimento le nozze vengono celebrate con gran solennità da parte giapponese. Durante i festeggiamenti lo zio Bonzo accorre e aggredisce verbalmente Butterfly:
davanti a tutti dichiara di aver scoperto dell’abiura di Butterfly e invita i parenti a ripudiarla. Rimasti soli, Pinkerton la consola. La preghiera di Suzuki annuncia la sera e
Butterfly si prepara per la notte. L’atto si conclude con un lungo duetto d’amore.
ATTO SECONDO.
PARTE PRIMA - Nella camera di Butterfly, Suzuki prega gli dei perché facciano cessare il pianto di Butterfly. Pinkerton è partito da tre anni. Butterfly ormai ridotta in miseria, rinnegata dai parenti, confida ciecamente in un suo prossimo ritorno. Viene a
farle visita Sharpless, il console americano, con una lettera di Pinkerton nella quale
esprime la sua volontà di divorziare. Butterfly non sembra interessata al motivo della
visita di Sharpless, in quanto è distratta dalla presenza di Goro che ha tentato più volte
di farle prendere altri mariti, ultimo dei quali il principe Yamadori, anch’egli venuto a
chiederle ancora la mano.
Butterfly conferma la sua fedeltà a Pinkerton, suscitando sensi di colpa nel console,
nonostante che per la legge giapponese un così lungo abbandono porta automaticamente al divorzio. Butterfly invece si adegua alla legge americana, secondo la quale il divorzio deve essere pronunciato da un giudice. In una conversazione sottovoce, non
udita da Butterfly, i tre uomini si dimostrano preoccupati da tanta illusione della ragazza, e Sharpless confessa di essere venuto per disilluderla sul ritorno di Pinkerton. Un
ultimo tentativo di Yamadori di ottenere il consenso a un nuovo matrimonio, vede il
determinato rifiuto di Butterfly. Rimasti soli, Sharpless ha intenzione di parlare seriamente alla ragazza ma lo interrompe spesso, fino a che il console con tono brutale insinua la possibilità di un non ritorno di Pinkerton. Butterfly non può accettare l’idea e
mostra a Sharpless il bambino avuto dal marito.
A questo punto Sharpless non avendo più il coraggio di dirle la verità se ne va. Mentre
Butterfly consola il suo bambino, un colpo di cannone annuncia l’ingresso in porto
della nave di Pinkerton. Butterfly si fa prendere da un’emozione frenetica, nonostante
che Suzuki tenti di stemperarla, riempie la casa di fiori per accogliere il marito, e si
8.
mette ad aspettarlo con il bambino in braccio.
Intanto scende la sera e poi la notte. Il bambino e Suzuki si addormentano nell’attesa.
Solo Butterfly rimane sveglia fissando immobile l’orizzonte.
ATTO SECONDO.
PARTE SECONDA - Butterfly sta ancora aspettando Pinkerton quando sorge il sole.
Vedendo che il bambino dorme ancora lo prende in braccio per portarlo a letto. Intanto
sopraggiunge Pinkerton, accolto con grande sorpresa da Suzuki, accompagnato da
Sharpless e da una donna, Kate, la moglie di Pinkerton, venuti per prendere il bambino
e portarlo negli Stati Uniti.
I due americani pregano Suzuki di parlare a Butterfly e di prepararla alla notizia. Mentre Sharpless e Suzuki vanno in giardino per parlare con Kate, lui resta in casa ad ammirare come tutto sia rimasto immutato. Sopraffatto dal rimorso, non ha il coraggio di
affrontare Butterfly e prega Sharpless di farlo per lui, ma prima di andarsene per sempre, rivolge un ultimo sguardo di nostalgia alla casa e riconosce la sua vigliaccheria.
Intanto Kate ha convinto Suzuki a parlare con Butterfly per convincerla ad affidarle il
bambino. Intanto Butterfly si risveglia e chiama Suzuki, Kate esce in giardino. Suzuki e
Sharpless le comunicano che Pinkerton non verrà.
Butterfly scorge Kate in giardino: capisce subito che si tratta della moglie americana di
Pinkerton e che sono venuti con l’intenzione di portargli via il bambino. Piegata dal
dolore, Butterfly acconsente a concedere loro il bambino a patto che Pinkerton venga a
prenderlo dopo mezz’ora. Butterfly rimane sola nella sua camera semibuia e prende il
pugnale dal piccolo altare di Budda e legge l’iscrizione «Con onormuore / chi non può
serbar vita con onore». Quando sta per uccidersi, Suzuki fa entrare il bambino: Butterfly gli rivolge l’ultimo addio e guardandolo profondamente negli occhi si augura che
conservi almeno un labile ricordo della sua mamma. Amorevolmente benda gli occhi
del bambino, va dietro il paravento e si ferisce a morte alla gola. Si apre la porta ed
entrano Pinkerton e Sharpless che accorrono verso Butterfly per soccorrerla, ma muore
trascinandosi sul pavimento per indicare il bambino a Pinkerton.
3.2 Ambientazione dell’Opera.
L’importanza dell’ambientazione musicale per Puccini è sempre stato una delle sue
maggiori preoccupazioni, come accadde nelle opere precedenti e soprattutto nella Tosca. Per la Madama Butterfly divenne fondamentale. Il dramma era incentrato principalmente sullo scontro tra due civiltà, americana e giapponese, ed era proposto dalla
prospettiva giapponese, lasciando a quella americana la funzione di intruso. Pertanto si
richiedeva di immergere il lavoro nel clima giapponese e rendere partecipe lo spettatore
di quell’atmosfera. Sappiamo che nel 1902 Puccini contattò una signora giapponese, di
nome Oyama: questa gli fornì diverse indicazioni sulle usanze giapponesi e alcune melodie tradizionali che egli annotò, e gli assicurò che gliene avrebbe procurate altre. I-
9.
noltre ella contestò a Puccini i nomi scelti per alcuni personaggi: ad esempio Yamadori
è un nome femminile, e i nomi dati alle divinità non sono corretti. Tutto questo lavoro
bibliografico di ricerca di fonti musicali, occupa nell’opera circa un quarto della musica
complessiva dell’opera a cui vanno aggiunte le melodie “di colore orientale”.Tra queste
va segnalato anche l’inno nazionale giapponese utilizzato da Puccini nella celebrazione
del matrimonio. Possiamo rintracciare alcuni dei motivi originali giapponesi in alcuni
momenti sensibili dell’opera: ad esempio, nell’aria di Butterfly del Secondo Atto «Che
tua madre» dove dice «e la canzon giuliva e lieta»; nella ninna-nanna «Dormi amor
mio»; e poi anche nella preghiera di Suzuki.
Dal punto di vista armonico, Puccini trovò che la scala pentafonica e quella a toni interi
rendevano perfettamente il clima orientale, integrando così alla perfezione l’elemento
esotico nel sistema armonico occidentale, concretizzato in orchestra da un uso caratteristico dei legni e da un vasto assortimento di percussioni, campane e gongs (ad esempio
tam-tam e campanelli giapponesi, campanelli a tastiera e campane tubolari).
L’atmosfera americana invece viene messa in risalto attraverso l’inno della marina (che
nel 1931 divenne inno nazionale degli Stati Uniti) che compare due volte nel Primo
atto, nell’introduzione all’aria di Pinkerton «Dovunque al mondo» e nel brindisi di Pinkerton e Sharpless «America for ever», e due volte nel Secondo, quando Butterfly rivendica la cittadinanza americana e, dopo, all’arrivo della nave nel porto. Le parti musicali di Pinkerton e Sharpless vengono trattate da Puccini alla maniera occidentale,
tralasciando completamente il colore orientale.
Il colore occidentale ritorna anche nei momenti di espansione lirica, dove Butterfly
dimostra la sua voglia di occidentalizzarsi.
3.3 Tragedia e orientalismo.
Dagli inizi del nuovo secolo era cresciuto il conflitto d'interessi fra editori-impresari
perciò, quando Puccini e Ricordi decisero di tornare alla Scala per la prima assoluta
di Madama Butterfly (17 febbraio 1904), una claque ostile boicottò la recita. L'opera fu
ritirata e riabilitata tre mesi dopo a Brescia: Puccini non la rifece, ma nemmeno si può
affermare che le modifiche apportate fossero di poco conto, se si eccettua la divisione
del secondo atto in due parti, pressoché ininfluente sulla struttura originale - anche se,
così facendo, sminuì l'enorme forza della soluzione precedente, dove il pubblico vive
insieme a Butterfly la sua interminabile attesa.
Tagliò molte scenette di color locale del primo atto, inserì la breve aria di Pinkerton,
ritoccò«Tu, tu, piccolo Iddio!» facendo salire la voce sino al La acuto e incrementandone l'impatto emotivo. Ma soprattutto cambiò il tema che accompagna la protagonista al
suo ingresso in scena e gli scorci melodici ad esso collegati, anticipando la dissonanza
di settima e facendo scendere la melodia: questo prolungamento accresce enormemente
la tensione ed è modifica che decide le sorti di un'opera, che tutta poggia su questo tema.Tanta ingegnosità era dovuta a un soggetto di cui Puccini si era innamorato a prima
10.
vista, assistendo a una recita della Madame Butterfly di Belasco6 a Londra nel giugno
del 1900: si era imbattuto in un dramma dalla forte carica sentimentale, che gli offriva
numerose occasioni di toccare la corda patetica. In questo modo, riallacciandosi al
mondo di Bohème, poteva ritardare ancora per qualche anno una piena presa di coscienza del mutato ruolo del compositore novecentesco, che aveva intuitivamente percepito. Il soggetto giapponese attivò inoltre l'interesse che Puccini provava nei confronti dell'elemento orientale, che agli inizi del Novecento era ingrediente oramai sperimentato della teatralità d'epoca, se non addirittura un'autentica moda che già aveva
raggiunto l'operetta. Per caratterizzare l'atmosfera interrogò artisti e personalità della
cultura giapponese, annotò melodie su pentagrammi, ascoltate da dischi provenienti da
Tokyo, oltre a consultare pubblicazioni che riportavano canti originali. Enorme è il
peso dell'oriente: quasi la metà del solo primo atto è dedicata al colore giapponese,
costruito su temi autentici - almeno dieci sono stati identificati - oppure reinventati.
Puccini seppe inserire con naturalezza gli spunti orientali e quelli orientaleggianti nell'ambito del suo linguaggio armonico, avvicinandosi in modo sensibile ai francesi, e in
particolare a Debussy, e per caratterizzare timbricamente la tragedia rinforzò la batteria, dove compaiono tam-tam e campanelli giapponesi in unione ai campanelli a tastiera
e alle campane tubolari. L'accostamento ad un soggetto che segnava una sorta di ritorno all'antico, e l'argomento stesso, ebbero notevoli ripercussioni sulla drammaturgia
musicale di Madama Butterfly. Più che in tutte le altre sue opere Puccini si avvicinò al
processo di elaborazione leitmotivica in senso wagneriano. Ciò accadde perché per la
prima volta affrontò un dramma eminentemente psicologico, dominato da cima a fondo
da un unico personaggio femminile, a far da elemento catalizzatore rispetto al mondo
esterno. Cio-Cio-San, fanciulla quindicenne, vede il contratto matrimoniale come un
riscatto dall'infamante professione della geisha, ma è puro autoconvincimento, perciò
dovrà ristabilire l'ordine sociale, da lei turbato, col proprio sacrificio. È la legge eterna
di ogni tragedia, che si regge sul contrasto che diviene sempre più lancinante fra l'ostinata fissità delle convinzioni di Butterfly e il mondo circostante che le è estraneo. Puccini rese percepibile tale meccanismo facendo evolvere la situazione «reale» intorno ad
una protagonista che vuole invece viverne, con tutte le sue forze, una virtuale. Per questo i temi musicali si trasformano fino a divenire una realtà che, nel momento stesso in
cui sembra rinsaldare la fermezza della protagonista, gradatamente la contraddice. La
macrostruttura si articola in precise simmetrie: un esteso fugato apre il primo atto, simboleggiando l'efficienza statunitense, un altro fugato, assai più breve, si trascina stancamente all'inizio del successivo, a rappresentare i tre anni di solitudine della protagoni6. Madam Butterfly – David Belasco (1900)
Il dramma in un unico atto di Belasco ricalca fedelmente il racconto di Long, tranne che per aver reso tragico
il finale, come lo conosciamo noi. Il merito di Belasco fu di rendere drammatico e fluido il racconto di Long.
Il dramma si svolge in una sola giornata nella casa di Butterfly.
11.
sta. Allo stesso modo un accordo di sesta, su cui si chiude la scena d'ingresso di Butterfly e delle amiche, ricompare più volte, ma in particolare alla fine del primo atto e
nella tragica conclusione, intessendo di un fil rouge l'intera partitura. In questo contesto, rigorosamente progettato, si situano i brani più celebri, dal duetto d'amore (retto da
una raffinata Bögenform) al grande assolo visionario "Un bel dì vedremo", fino al coro
a bocca chiusa. L'eccessivo successo nuoce a tali brani, troppo spesso estrapolati dal
contesto, mentre sono altrettante tappe su cui il dramma si snoda sino al tragico epilogo. Anche su questa parte Puccini intervenne, alla prima francese del 1906, grazie all'idea del regista Albert Carré di mettere scenicamente in evidenza l'isolamento della protagonista.
Questi volle tener fuori della stanza Kate, la moglie di Pinkerton, e Puccini lo assecondò, passando la maggior parte delle sue battute al console Sharpless, e realizzò così una
prospettiva drammatica molto più coerente.
La posizione scenica della moglie americana acquista un ruolo chiave: rimasta fuori
della stanza essa diviene un vero fantasma delle ossessioni private dell'inavvicinabile
protagonista, cui rimarrà sostanzialmente estranea. Inoltre l'assoluta mancanza d'identità musicale - le toccano pochissime note in un mondo sonoro ove tutto è connotato rende la figura di Kate del tutto funzionale a un traumatico scioglimento: quando Butterfly se la troverà di fronte intuirà in un solo momento quello che per tutta l'opera si è
rifiutata di comprendere.
L'Esodo della tragedia fu così reso definitivo grazie a pochi ritocchi: Butterfly congeda
tutti e rimane sola con Suzuki, immersa nell'oscurità, mentre la musica si fa sussurro
ansioso intorno a lei e i temi dell'opera riprendono a scorrere intrecciandosi in variazioni febbrili, ricordandole il passato e spingendola alla decisione. Infine giunge la morte,
col lacerante accordo di sesta su cui cala il sipario. Quest'ultimo accordo non risolto,
nel rinviare al finale del primo atto, ci rammenta che la bambina quindicenne è divenuta donna diciottenne nell'ultimo giorno di vita, là dove il volo di Butterfly s'è arrestato
per sempre. La trasformazione di temi e melodie ha delineato l'evolversi del dramma
interiore della protagonista.
Ora l'accompagna fino all'ultima tragica presa di coscienza, elevandone la figura al
rango di grande eroina d'una tragedia tanto perfetta quanto capace di muovere a pietà e
compassione i pubblici del mondo intero.
3.4 Il tema Butterfly.
Nella Madama Butterfly Puccini mise in atto con particolare sistematicità procedimenti
di elaborazione leitmotivica7, cui peraltro aveva già fatto ricorso nelle precedenti opere
7. La consistente presenza di Leitmotive nella Madama Butterfly non sfuggì agli osservatori contemporanei:
cfr. A. BRÜGGEMANN, «Madama Butterfly» l’arte di Giacomo Puccini, Milano, Ricordi, 1904, p. 12:
«Puccini sente la legge del leitmotiv, nel senso diretto wagneriano, come pochi altri compositori».
12.
se pur con criteri vieppiù diversi a seconda del contesto drammatico entro il quale s’inserivano8. A differenza del tradizionale motivo di reminiscenza privo di una qualsivoglia forma di rielaborazione9, il Leitmotiv a fronte di un vero e proprio sviluppo subisce
una serie di trasformazioni che ne modificano e ampliano l’essenza semantica e sostanziano di ulteriori significati i luoghi in cui compare.10
Poiché nella Butterfly il nocciolo drammatico si concentra in larghissima misura sul
dramma interiore della protagonista piuttosto che su una vera e propria azione11, è naturale che proprio in quest’opera il Leitmotiv assolva ad un ruolo quanto mai centrale
poiché con le proprie trasformazioni e stratificazioni semantiche è in grado di veicolare
significati che al livello superficiale del libretto resterebbero occultati. Per questo motivo la trama dei rapporti leitmotivici, se correttamente interpretata, può svelare quella
dose di inespresso che di frequente si cela dietro alla comunicazione verbale.
Uno fra i più importanti Leitmotive dell’opera è quello che, dotato di un’inconfondibile
fisionomia melodico-armonica, sigla l’uscita in scena della protagonista12 e a lei si lega
indissolubilmente concretizzando musicalmente i suoi sogni e le sue vane speranze13 e
che pertanto sarà qui denominato «Tema di Butterfly»14.
8. Per una puntuale esplorazione della tecnica del Leitmotiv nell’opera di Puccini cfr. M. GIRARDI, Giacomo Puccini – L’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia, Marsilio, 1995 e, in particolare per le
opere precedenti alla Butterfly, pp. 85-92 (Manon Lescaut), pp.129-147 (Bohème) e pp.166-179 (Tosca). Cfr.
inoltre W. DRABKIN, Il linguaggio musicale della «Bohème», in Puccini, a c. di V. Bernardoni, Bologna, Il
Mulino, 1996, pp.97-120 e J. BUDDEN, La dissociazione del «Leitmotiv» nelle opere di Puccini in Giacomo
Puccini L’uomo, il musicista, il panorama europeo, a c. di Gabriella Biagi Ravenni e Carolyn Gianturco,
Lucca, LIM, 1997, pp. 453-466.
9. P. ROSS, Elaborazione leitmotivica e colore esotico in «Madama Butterfly», in Esotismo e colore locale
nell’opera di Puccini - Atti del I convegno internazionale sull’opera di G. Puccini (Torre del Lago - Festival
pucciniano 1983), a c. di J. Maehder, Giardini Editori e stampatori in Pisa, pp.99-110: 99.
10. Cfr. J. BUDDEN, La dissociazione del «Leitmotiv» nelle opere di Puccini cit., p. 466: «nelle mani del
Puccini maturo il Leitmotiv somiglia a un prisma, che emette un colore diverso secondo la maniera in cui
viene inclinato, cambiando significato in rapporto alla strumentazione, l’agogica ed il contesto verbale. […] a
differenza di tante opere italiane del periodo[«Giovane scuola»] nelle quali la musica scende troppo spesso in
secondo piano come mera illustrazione sonora dei versi cantati, le partiture di Puccini, grazie proprio a quest’impiego variato dei medesimi motivi ricorrenti, rivelano una struttura salda e robusta, anche se non autonoma, a rigore di termini, perché strettamente collegata all’azione drammatica». Per l’uso del Leitmotiv nella
Madama Butterfly cfr. anche M. GIRARDI, Giacomo Puccini cit., pp. 227-235.
11. Cfr. PETER ROSS, Elaborazione leitmotivica cit., p. 105.
12. Cfr. A. BRÜGGEMANN, «Madama Butterfly» cit., p. 39: «Con l’entrata di Madama Butterfly abbiamo
poi un pezzo veramente unico per grandezza e splendore melodico. Mai, in nessun’opera, si diede all’entrata
della donna una forma più indovinata e più affascinante: questo solo pezzo basterebbe a rendere grande l’opera».
13. Michele Girardi lo ha significativamente rubricato con «Amore e illusione». Cfr. M.GIRARDI, Giacomo
Puccini cit., pp. 231-233.
14. Come spiegherò più avanti, ritengo che lo stesso Puccini lo identificasse proprio come un motivo conduttore.
13.
È, però, nel duetto d’amore – agone dell’incontro-scontro tra le contrastanti sensibilità
e aspirazioni di Cio-Cio-San e Pinkerton e loro unica occasione15 di reale confronto –
che si registrano le prime vere e vistose trasformazioni. È la prima notte di nozze ma i
due sposi, finalmente soli, lungi dal condividere un reale afflato amoroso, manifestano
una totale incomunicabilità: laddove Cio-Cio-San indugia sui preliminari assaporando
una magica atmosfera nutrita di ritrosia e di celato desiderio, di stelle, di cielo e di mare, Pinkerton molto poco (se non per nulla) interessato alle implicazioni sentimentali
del momento, per ottenere la mera soddisfazione del proprio desiderio finge di assecondare la sensibilità della sposa senza riuscire, però, a celare l’impazienza. Verso la fine
del duetto, per esempio, le voci di entrambi si uniscono nell’intonazione del «Tema di
Butterfly» quasi a suggellare la loro totale consonanza, ma al «Dolce notte! Quante
stelle» di Butterfly, Pinkerton oppone un ripetuto e insistente «Vieni, vieni! Sei mia»
rivelatore delle proprie reali intenzioni. Ancora più eloquenti sono due passi precedenti
in cui Pinkerton esorta Cio-Cio-San a concedersi: si tratta di «Stolta paura, l’amor non
uccide ma dà vita» e «Via dall’anima in pena … è notte serena» in cui alle parole «ma
dà vita» ed «è notte serena» si appropria del «Tema di Butterfly» simulando partecipazione per la ritrosia e i timori della sposa e ‘affettuoso’ incoraggiamento affinché lei gli
si abbandoni. Le menzogne di Pinkerton sono però smascherate dalla trasformazione
subita dal “tema di Butterfly” che, proposto a velocità raddoppiata con un’orchestrazione più ridondante e sicuramente meno raffinata, conserva solo il profilo melodico svuotato, però di tutte le altre componenti che gli conferivano quella dimensione onirica e
sensuale che aveva segnato la sua prima occorrenza. È come se l’insensibilità di Pinkerton lo avesse, per così dire, ‘contaminato’ imprimendogli trasformazioni tali da caricarlo di una valenza semantica differente. Cio- cio- San comunque si illude circa i sentimenti del marito e il primo atto si conclude con il presunto coronamento del suo sogno d’amore, siglato dal ritorno del “tema di Butterfly”, che riproposto nella sua versione iniziale, sembrerebbe decretare la realizzazione delle sue aspirazioni: in realtà
non è la musica, bensì il testo («vieni, vieni… sei mia» insistentemente ripetuti) a dimostrare che le reali intenzioni di Pinkerton sono solo falsamente ‘consonanti’ con le
aspirazioni della protagonista.
Pinkerton riappare solo nella seconda parte del II atto e – deposta l’arroganza che lo aveva caratterizzato nel
primo atto – non ha il coraggio di incontrare Butterfly.
14.
4. TURANDOT
4.1 Trama.
L’azione si svolge a Pechino «al tempo delle favole».
ATTO I - Intorno alle mura di Pechino c’è un gran tumulto di popolo per la decapitazione di un principe persiano che ha fallito la sfida con la principessa per averla in moglie. Timur, re tartaro spodestato e ramingo, e Liù, sua schiava, ritrovano il principe
che credevano morto, anch’egli fuggiasco. La principessa Turandot si presenta al cospetto del popolo che le chiede la grazia per il principe persiano: al solo vederla il principe ignoto se ne innamora perdutamente e si avvicina al gong per dare il segnale della
prova. Invano trattenuto dal padre, da Liù, e poi dai ministri dell’imperatore e persino
dagli stessi fantasmi dei principi decapitati, come un forsennato si precipita al gong e
battendo tre volte con il martello, invoca il nome di Turandot.
ATTO II - In una sala della reggia i tre ministri, Ping, Pang e Pong, si apprestano a
preparare il rito degli enigmi che sfocerà o in una cerimonia di nozze o in una cerimonia funebre. Rattristati dagli avvenimenti degli ultimi anni, rammentano con nostalgia
le loro case lontane. Intanto sorge il giorno e il palazzo freme dei preparativi. Nel piazzale della reggia tutto è pronto per la cerimonia. Entrano man mano tutti i dignitari di
corte e per ultimi l’imperatore e la principessa Turandot. L’imperatore tenta per l’ultima volta di dissuadere il principe, che vuole proseguire. Turandot inveisce contro il
principe ignoto: in lei rivive un’ava rapita e uccisa da un principe straniero, ed ella per
vendicare l’ava ha giurato che nessun principe potrà averla. La cerimonia continua con
la declamazione degli enigmi che il principe ignoto risolve: il primo ha come risposta
«la speranza», il secondo «il sangue» e il terzo «Turandot». Umiliata, Turandot non
accetta l’applicazione della legge e si scaglia contro il principe. Questi offeso per il
superbo rifiuto, pone a sua volta un nuovo quesito: se ella scoprirà il suo nome prima
dell’alba, egli sarà ucciso.
ATTO III - La principessa Turandot ha inviato araldi nella città con l’ordine di non far
dormire nessuno per scoprire il nome del principe ignoto. Il principe riflettendo tra sé
spera all’alba di far cedere il cuore della principessa facendole sentire tutta la sua passione con un bacio sensuale. Si presentano al principe i tre ministri prima cercando di
corromperlo per ritirarsi, poi minacciandolo per farsi dire il nome. Altri soldati conducono Timur e Liù, essendo stati visti parlare con lui. La folla chiama Turandot: per
primo interroga Timur, ma non ottenendo risposte dà ordine di torturarlo. Liù si getta in
mezzo per difendere il vecchio e viene torturata perché dica il nome. Straziata dai tormenti, riesce a strappare un pugnale a un soldato con il quale si uccide, destando la
commozione di tutta la folla che se ne va lasciando Turandot e il principe soli. In un
15.
appassionato e sensuale afflato, il principe riesce a baciare Turandot stringendola tra le
sua braccia. La passione è corrisposta, e il principe appagato dal solo bacio di lei, le
rivela la sua identità affidandole la sua vita: egli è Calaf figlio di Timur. Sorge il sole e
la reggia è pronta per la cerimonia. Turandot annuncia all’imperatore di conoscere il
nome dello straniero: il suo nome è «Amore».
4.2 Genesi dell’Opera.
Nel marzo del 1920, Simoni propose a Puccini di musicare la fiaba teatrale di Gozzi16
Turandot. Già subito dopo averla letta Puccini ebbe ben chiare le modifiche da apportare: ridurre il numero di atti, alleggerirlo, esaltare la passione di Turandot repressa per
tanti anni dall’orgoglio. Puccini non lesse la fiaba originale di Gozzi, ma dovette lavorare su una traduzione di una versione teatrale tedesca fornitagli da Andrea Maffei.
Questa versione era il frutto di numerose rielaborazioni, compiute da Schiller e Goethe
che ad ogni spettacolo si dilettavano a modificare il testo e la soluzione degli enigmi.
Per questo spettacolo, Weber compose delle musiche di scena nel 1809 (una
ouverture più sette brani orchestrali). Lo stesso soggetto originario del Gozzi venne
ripreso più tardi, nella seconda metà dell’Ottocento, per il teatro da Giacosa con il titolo Il Trionfo d’amore mentre Bazzini (che era stato maestro di conservatorio di Puccini) ne fece l’opera Turanda. L’argomento interessò nel secolo successivo, Busoni, che
nel 1904 scrisse una suite in otto movimenti. Tali musiche vennero riadattate e integrate con altri due pezzi nel 1911 a musiche di scena per quello spettacolo di Berlino di
cui era giunta notizia a Puccini, e infine rielaborate in un’opera nella forma del singspiel di cui egli stesso scrisse il libretto dal titolo Turandot. Per la stesura del libretto
chiamò Adami, affiancandogli Simoni. Nel 1921 Puccini ebbe dei dubbi sulla struttura
in tre atti e per qualche mese progettò una versione in due atti, ma alla fine ritornò alla
soluzione in tre atti. Alla metà del 1922 comunque il libretto era terminato, sebbene
Puccini non fosse del tutto convinto della versione del duetto finale. Il punto di svolta
16. Carlo Gozzi (Venezia 1720-1806) pur essendo scrittore di teatro, non volle mai scrivere un libretto d’opera: ma le sue più belle fiabe teatrali sono state musicate da alcuni dei maggiori musicisti del XX secolo: oltre
a Turandot, musicata sia da Puccini che da Busoni e Weber, L’amore delle tre melarance, venne messo in
musica da Prokof’ev, La donna serpente da Casella e Il re cervo da Henze. La fiaba teatrale Turandot andò in
scena nel 1762. Il soggetto venne tratto dalla fiaba «L’histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine»
presente in un’edizione francese settecentesca del ciclo di fiabe persiane anonime Le mille e un giorno. La
commedia di Gozzi è in 5 atti e vi recitano 13 personaggi più le masse (8 Dottori Cinesi del Divano, Schiave,
Eunuchi, Soldati, Carnefice). Per la maggior parte è scritta in versi, ma vi sono parti in prosa e addirittura
alcune scene e parti di scene sono destinate all’improvvisazione degli attori: in particolare recitano in versi
tutti i personaggi orientali; mentre le maschere (Pantalone, Brighella, Tartaglia e Truffaldino), che commentano l’azione senza prendervi parte attivamente, recitano in prosa (Tartaglia in italiano e Pantalone e Brighella addirittura in veneziano) e talvolta improvvisano. L’alternanza delle battute in poesia e in prosa è presente
all’interno dei dialoghi: ad esempio in un dialogo Calaf-Altoum-Tartaglia i primi due recitano in poesia,
mentre il terzo risponde in prosa.
16.
dell’opera doveva essere quello che lui definiva lo “sgelamento” di Turandot: il primo
passo sarebbe stata la morte di Liù, mentre ciò che l’avrebbe fatta cedere definitivamente sarebbe stato il bacio passionale di Calaf nel duetto finale, rielaborato diverse
volte prima della versione definitiva. La composizione dell’opera subì diverse interruzioni, sia dovute alle perplessità di Puccini sull’evoluzione drammaturgica, sia dovute
alla malattia che comincio a manifestarsi dalla fine del 1923. Nell’agosto del 1924,
ingaggiò Toscanini per la prima alla Scala fissata ad aprile del 1925. Ad ottobre del
’24, si ricoverò a Bruxelles per le ultime cure. La morte interruppe la composizione
dell’opera completata fino alla morte di Liù nel terzo atto, lasciando una serie di bozze
e appunti della parte restante del gran finale.
Dunque Puccini aveva lavorato su una versione divergente da quella di Gozzi, in cui la
differenza più rilevante consiste nel fatto che tutti i personaggi, comprese le maschere
tratte dalla commedia dell’arte, parlano in versi. Gli aspetti che colpirono maggiormente la fantasia di Puccini furono il conflitto fra i sessi maschile/femminile, e il tono maggiormente patetico e umano. Comunque via via che l’opera veniva prendendo forma, si
delineavano anche le modifiche da apportare. Per quanto riguarda i personaggi, la modifica più evidente è l’introduzione del personaggio di Liù, in cui si ritrovano caratteristiche dei personaggi di Adelma e Zelima; le maschere da quattro diventano i tre ministri Ping, Pang e Pong; altri personaggi vengono soppressi, in particolare Schirina, Barach/Assan, Ismaele e delle scene in cui compaiono. Il numero degli atti fu ridotto da
cinque a tre: il primo e il secondo atto dell’opera corrispondono a quelli della fiaba,
mentre nel terzo atto sono stati condensati gli altri tre atti della fiaba. Altre divergenze
presenti nell’opera sono le seguenti: il testo degli enigmi e la loro relativa soluzione è
stato modificato, e reso più poetico; la parte del piano di fuga di Adelma e la rivelazione dei nome di Calaf e Timur sono stati soppressi; è stato introdotto il personaggio di
Liù e la sua morte; la vita di Calaf è a rischio dopo aver proposto il suo enigma, mentre
nella fiaba l’imperatore decide di lasciarlo libero per aver risolto gli enigmi.
4.3 L’ultimo esperimento.
L'ultimo quinquennio della vita di Puccini, interamente dedicato a Turandot, non gli
bastò per finire il lavoro: fu stroncato da un attacco cardiaco - conseguenza di una disperata operazione alla gola per salvarlo da un cancro - nel mattino del 29 novembre
1924, dopo aver completato l'orchestrazione della prima scena del terzo atto. Aveva
fatto in tempo a dipingere in modo indimenticabile il sacrificio per amore della schiava
Liù, ma gli mancava proprio lo scorcio decisivo, dove l'amore fra la principessa cinese
e il principe tartaro Calaf avrebbe dovuto trionfare. L'analisi dell'ultima partitura svela
la sua piena coordinazione sulla base di numerosi parametri musicali, che le assicurano
un grado altissimo di coesione. Il problema della struttura è particolarmente delicato,
poiché accanto a un'articolazione tematica e sinfonica emerge con rilievo del tutto peculiare un'ossatura costituita dal succedersi di ‘numeri chiusi'. Questo dato si può utiliz-
17.
zare a sostegno di chi vede nell'opera cinese il volontario epitaffio apposto dall'autore
sulla tomba del melodramma italiano, interpretandola come un tentativo di ritrovare
l'essenza di un glorioso passato. Ma è altrettanto legittimo ritenere che la crisi novecentesca abbia aperto una lunga fase sperimentale (destinata a non concludersi) della carriera di Puccini, volto a trovare la connessione fra l'apparato del melodramma e le più
avanzate esperienze europee del suo tempo mediante lo studio dell'atmosfera e il polistilismo, vere e proprie costanti di un'incessante nella ricerca su generi e forme. In quest'ottica il capolavoro incompiuto è l'esperimento più ambizioso che mai un compositore italiano abbia tentato, prima della svolta ‘radicale' del secondo dopoguerra.
Non esiste un'opera italiana, prima di Turandot, dove si tenti di sviluppare un progetto
così organico d'interazione fra musica e scena. Puccini partì dall'idea di ricreare il clima
favoloso della Cina antichissima e volle unire strettamente l'elemento orientale al fiabesco mediante una ‘tinta' musicale peculiare. Importa assai poco che molte cineserie
melodiche le abbia colte al volo da un carillon: non ebbe pretesa di vera autenticità, né
ambizioni filologiche, solo l'intento d'imporre lo straniamento dalle convenzioni vigenti
mediante l'originalità dell'invenzione. Quasi un personaggio fra le Dramatis personæ,
l'orchestra, trattata con mano da orafo anche nei momenti più barbarici, determina l'atmosfera passo dopo passo. Puccini si espresse al vertice delle sue capacità, e ai massimi livelli possibili nell'Europa di allora, inventando effetti coloristici violenti e preziosi
al tempo stesso. L'immenso apparato musicale è legato a doppio filo alle esigenze dello
spettacolo nel suo complesso. Numerose volte Puccini aveva ideato le proporzioni musicali della drammaturgia, e vi aveva fatto corrispondere una dimensione scenica, tanto
che in ogni sua opera c'è sempre qualche scorcio grandioso in cui le ragioni dell'occhio
instaurano un rapporto di scambio con quelle dell'orecchio. Per Turandot aveva pensato
un progetto speciale: l'unità aristotelica di tempo, ingrediente in sé tradizionale, diviene
il pretesto per tracciare un percorso nell'arco dei tre atti in cui proprio lo scorrere delle
ore assurge a protagonista del dramma acquisendo un valore emblematico. Lo
"sgelamento" della crudele Principessa, nodo su cui Puccini metteva in gioco la credibilità del finale, è posto al culmine di un simbolico avvicendarsi di colori, dato da luci
costume e scene, che il timbro cangiante asseconda. Dal punto di vista formale le macrostrutture di Turandot si mostrano ambivalenti. In particolare il primo atto, vero
gioiello di coesione, rivela una struttura di foggia sinfonica in quattro movimenti, con
un'introduzione lenta e due scherzi (gli episodi dei tre ministri), ma può essere letto
secondo l'ottica della cosiddetta «solita forma» del ‘numero chiuso' («1. ‘Tempo d'attacco' 2. Adagio 3. ‘Tempo di mezzo' 4. Cabaletta», ). Rimane il dato di fatto che il
finale prevede due arie e un ampio concertato (sestetto con coro); ma anche questa, se
pensiamo al finale primo e a quello centrale di Bohème, non è una novità assoluta, e
altre volte è facile ritrovare con chiarezza lo scheletro del ‘numero tipo' ottocentesco
(come nella pagine conclusive Fanciulla). D'altro canto, sia nell'una che nell'altra ipotesi, si deve tener conto che Puccini impiega temi musicali nel corso dell'intera opera,
18.
sia pure in minor numero rispetto al solito, che perlopiù riappaiono in forma di reminiscenza - tranne il violento motto d'apertura, che viene trattato come un Leitmotiv, sulla
falsariga di Wagner, e come tale percorre la partitura fino alla morte di Liù.
Sembra dunque più legittimo analizzare l'atto primo come costruito per giustapposizione di episodi, ciascuno con un senso proprio, e l'intera partitura come il prodotto di un
metodo compositivo che narra per voluta frammentarietà, ed è questo un tocco di vera
modernità, che si aggiunge a tutte le altre conquiste della partitura. Questa chiave di
lettura permette inoltre di superare la fittizia contrapposizione fra struttura sinfonica e a
numeri, e potrebbe aprire una nuova e più fertile fase d'indagine sull'ultimo capolavoro
di Puccini. Il finale incompiuto di Turandot è viziato dall'insufficiente realizzazione di
Franco Alfano, che portò a termine un'operazione necessaria a che l'opera potesse circolare, ma non fu in grado di sviluppare degnamente i ventitré fogli di appunti lasciati
da Puccini sul comodino della clinica di Bruxelles, su cui aveva lavorato quasi fino
all'ultimo. Ma v'è da riconoscere che l'impresa di un completamento sarebbe stata ardua
per chiunque, e che il finale fu comunque un problema anche per lo stesso Puccini che
già prima di finire la composizione aveva iniziato a strumentare, ed era pratica davvero
insolita rispetto alle sue abitudini. Probabilmente avvertiva la necessità di completare e
rifinire quella che legittimamente riteneva la sua musica migliore, per poggiare la conclusione su un forte piedistallo, tale da condizionare l'articolazione del problematico
duetto. Puccini stava dunque tentando un'impresa titanica, proiettandosi verso un futuro
che era e sarebbe sempre stato la sua mèta, purtroppo non completò il suo ultimo capolavoro, ma se fosse vissuto avrebbe lavorato per eliminare ogni incongruenza, così com'era accaduto altre volte. Ci rimane uno splendido ‘frammento' inconsuetamente esteso, prodotto da un artista in piena forma intellettuale e creativa; lo completa un torso
tormentato, in parte criptico, ma dalle infinite potenzialità.
4.4 Caratteristiche musicali, vocali e d’ambientazione.
Le caratteristiche musicali generali di Turandot rientrano nel cosiddetto «filone borghese» dell’opera verista (tra le altre Manon Lescaut, Tosca e Madama Butterfly) caratterizzata dalla tensione passionale esasperata fino alla concitazione, e da un tono sentimentale-languido. Le melodie sono costruite su scale che procedono di grado o con
piccoli intervalli alternandosi a bruschi cambiamenti per esaltare la sensualità della
situazione o per innalzare il sentimentalismo. Altra caratteristica della vocalità pucciniana è l’aspetto della drammaticità, che prelude alla morte o
alla catastrofe. Infine è notare come le frasi di tipo discorsivo, che nell’opera romantica
erano realizzate attraverso i recitativi, in Puccini assumono la forma di brevi frammenti
melodici, nel tentativo del musicista di conservare l’intonazione della frase parlata senza dover rinunciare alla melodia. L’organico è poderoso e al gran completo. In buca
ritroviamo tutte le tipologie di strumenti classici più un certo numero di percussioni e
idiofoni utili a dare ritmi di sapore orientaleggiante: campane tubolari, celesta, glocken-
19.
spiel, xilofono, fino al gong cinese e al tam-tam. Anche l’orchestra sul palco (ora in
scena ora dietro le quinte) è ricca: oltre a tromboni, trombe, tamburo di legno e gong, e
perfino due sassofoni contralto, un’assoluta novità nel teatro d’opera italiano.
La vocalità di Turandot si concentra per la maggior parte nel registro acuto e intorno
alle note del secondo passaggio di registro. La parte richiede un soprano lirico-spinto o
drammatico per la potenza con cui la cantante deve far fronte alle grandi sonorità orchestrali, specialmente nel secondo atto. Controbilancia l’impegno vocale, la staticità
coreografica del personaggio. Il tipo di tenore adatto per Calaf è senz’altro un tenore
spinto: infatti, la zona ove si articolano la maggior parte delle sue melodie è nel registro
medio-acuto insistendo maggiormente nell’acuto con la relativa zona di passaggio, che
richiede molto impegno.
La tessitura della parte di Liù rimane in prevalenza nel registro medio-acuto, come Turandot, ma si differenzia da questa per il tipo di canto che deve essere molto legato,
dolce e senza forzature. Infine l’aspetto tecnico che merita di essere annotato è il finale
dell’aria «Signore ascolta» di Liù dove si richiede la capacità di saper controllare gli
acuti in «pianissimo».
Per Timur è assegnata la voce di basso, ma dato l’ambito prevalente nelle regioni acute,
la scelta è più timbrica che tecnica.
La storia di Turandot e Calaf è ambientata in una Pechino fiabesca. Tuttavia Puccini
per rendere efficacemente questa atmosfera orientale-favolistica, sfruttò alcuni frammenti melodici cinesi che riuscì a reperire in una pubblicazione di musiche cinesi e
attraverso il carillon che un amico, il barone Fassini di Bagni di Lucca, aveva acquistato in Cina come souvenir. Le quattro melodie tratte
dalla pubblicazione sono state impiegate una per la marcia funebre del principe di Persia (atto I, dove i sacerdoti dicono «O gran Koung-tzè» e altre tre per caratterizzare le
maschere Ping, Pang e Pong (nel terzetto del II atto, e anche nel III atto). Dal carillon,
trasse ancor tre frammenti, utilizzati
uno per l’ingresso delle tre maschere (I atto), un altro per la marcia del corteo imperiale
(II atto), e il terzo per la luna appena sorta in cielo (I atto). Quest’ultimo frammento è
particolare perché riprende la melodia cinese denominata «Mò-Lì-Huà» che significa
«Fiore di gelsomino» che verrà ripresa più volte accompagnata dal coro di voci bianche
per simboleggiare la purezza di Turandot. Il clima rituale - cerimoniale di alcune situazioni è accennato, come una specie di messaggio subliminale, attraverso armonie gregorianeggianti e perfino con l’inserimento dell’organo nell’inno corale nel finale del II
atto.
20.
INDICE
L’ORIENTALISMO
DI GIACOMO PUCCINI.
1.0 Giacomo Puccini: uomo e artista
1.1 Brevi cenni sulla vita
1.2 Puccini e il verismo musicale
2.0 L’Opera pucciniana
2.1 Il linguaggio musicale
3.0 Madama Butterfly
3.1 Trama
3.2 Ambientazione dell’Opera
3.3 Tragedia e orientalismo
3.4 Il tema Butterfly
4.0 Turandot
4.1 Trama
4.2 Genesi dell’Opera
4.3 L’ultimo esperimento
4.4 Caratteristiche musicali, vocali e d’ambientazione
……………………………
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……………………………
Pag. 2
Pag. 2
Pag. 3
Pag. 5
Pag. 5
Pag. 7
Pag. 7
Pag. 9
Pag. 10
Pag. 12
Pag. 15
Pag. 15
Pag. 16
Pag. 17
……………………………
Pag. 19
Indice
Bibliografia
……………………………
……………………………
Pag. 21
Pag. 22
21.
BIBLIOGRAFIA.
Nardi, Piero, Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Milano, Mondadori, 1949.
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Giacosa e le seduzioni della scena. Tra teatro e opera lirica, a cura di Roberto Alonge,
Bari, Edizioni di Pagina, 2007, pp. 39-58.
22.
23.
Indice della collana, pubblicata con la rivista ASSODOLAB del 20
dicembre 2013.
1. Giuseppe Verdi: L’uomo, l’artista e le sue Opere.
2. Il trittico di Puccini: Fonti e Librettisti
3. Il superamento dell’opera: L’Otello di Giuseppe Verdi.
4. La Cenerentola di Gioacchino Rossini.
5. Le folli donne di Gaetano Donizetti.
6. L’Orientalismo di Giacomo Puccini.
7. Pietro Mascagni e i suoi librettisti.
8. Romeo e Giulietta: L’opera di un amore impossibile.
9. Voce e registri nell’Opera Lirica.
10. Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart.
06
VOLUME
Volume n. 6
Allegato alla rivista ASSODOLAB - Anno XIV n. 3 del 20.12.2013.
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