La riflessione luminosa corneale nell`Ottica, nell`Arte e nell`Optometria

La riflessione luminosa corneale nell’Ottica, nell’Arte e
nell’Optometria
Silvio Maffioletti, optometrista
Andrea Maiocchi, optometrista
Maria Elena Notari Nardari, operatrice didattica
La luce che giunge alla cornea viene rifratta e, in minima parte, riflessa e assorbita. La riflessione
luminosa corneale è un fenomeno che risponde alle leggi dell’ottica; la parte di luce incidente che
viene riflessa forma, con la normale alla superficie corneale, un angolo di riflessione uguale
all’angolo di incidenza e giacente sullo stesso piano.
L’osservazione e la verifica clinica della riflessione luminosa corneale attraverso opportuni test
clinici optometrici consente di valutare l’orientamento degli assi visivi. In tali test viene valutata la
posizione e la simmetria o dissimmetria del riflesso luminoso corneale indotto anteponendo agli
occhi del soggetto una mira luminosa puntiforme.
La dimensione, la posizione e l’intensità del riflesso luminoso corneale sono state utilizzate nella
ritrattistica per evidenziare le fonti di illuminazione presenti nell’ambiente e riflesse dalle superfici
corneali del soggetto ritratto. Oltre a ciò i pittori, interessati a esplorare ogni possibilità espressiva
capace di suscitare emozioni e suggestioni, hanno utilizzato la riflessione luminosa corneale anche
come elemento espressivo, come segno significativo di volti capaci di esprimere efficacemente i
“movimenti dell'anima”. Per questo ogni grande opera d’arte che ritrae un soggetto in primo
piano pone l’osservatore di fronte a un silenzio, a una sospiro, a una ribellione, a una nostalgia, a
un’angoscia che hanno suggestioni profonde e lontane.
La riflessione luminosa corneale avviene grazie alle proprietà speculari della superficie corneale,
che otticamente si comporta in modo simile a uno specchio convesso. Il raggio di luce incidente
forma, con la normale alla superficie corneale, un angolo di riflessione uguale all’angolo di
incidenza e giacente sullo stesso piano [Cappa S., 1985].
La quantità di luce che viene riflessa dalla superficie corneale dipende da λ (lunghezza d’onda della
radiazione luminosa incidente), da n1 (indice di rifrazione dell’aria) e da n2 (indice di rifrazione
della cornea). Nel caso di luce che in condizioni ordinarie incide dall’aria sulla superficie corneale,
circa il 2% viene riflessa; tale percentuale vale per un’incidenza perpendicolare alla superficie,
diversamente aumenta notevolmente [Rossetti A., 1993].
La specularità della cornea
Anatomicamente la cornea è la porzione trasparente della tonaca fibrosa e ha la forma di una lente
convesso-concava a forma lievemente ellittica. Istologicamente si compone di cinque strati:
epitelio, membrana limitante anteriore o di Bowman, stroma o parenchima corneale, membrana
limitante posteriore o di Descemet, endotelio.
La cornea ha uno spessore medio di 0,8 mm alla periferia e di 0,6 mm al centro; il raggio di
curvatura della porzione centrale della sua superficie esterna è mediamente di 7,7 mm
orizzontalmente e di 7,6 mm verticalmente, mentre quella interna ha un raggio di circa 6,5 mm
[Bianchi C. et al., 1995].
La cornea è il principale mezzo rifrangente oculare. L’occhio ha un potere complessivo di 60-62
diottrie e la cornea, da sola, ha un potere convergente di circa 43 diottrie. Il potere diottrico totale
della cornea è determinato da circa 49 diottrie di potere convergente della sua superficie anteriore e
da circa 6 diottrie di potere divergente della sua superficie posteriore [Giacaman R. et al.,1998].
L’elevata trasparenza permette alla cornea di adempiere adeguatamente alla sua funzione ottica. La
sua struttura differisce da quella della sclera, che è completamente opaca, soltanto per l’estrema
regolarità nella disposizione delle lamelle fibrillari da cui è composta, una disposizione che rende
minima la diffusione e massima la trasmissione della luce; la distanza tra le fibre stesse, inferiore
alla lunghezza d’onda della luce, rende trascurabili i fenomeni di interferenza luminosa che si
verificano [Rossetti A., 1993].
Lo strumento fondamentale per l’esame qualitativo della cornea è il biomicroscopio, che permette
un’osservazione dettagliata attraverso diverse tecniche: illuminazione diffusa, illuminazione diretta
o focale, illuminazione indiretta o prossimale, diffusione sclerale, retro-illuminazione,
illuminazione tangenziale, riflessione speculare [Reverdy G. et al., 1999].
Per quantificare la curvatura corneale è sfruttata la sua specularità e le immagini da essa riflesse
sono in vario modo valutate attraverso modalità sempre più precise e raffinate:
• Immagini di Purkinje-Sanson. E’ stato il primo metodo di indagine delle immagini catottriche a
fini diagnostici. Le immagini sono ottenute utilizzando una sorgente luminosa posta a 50 cm
dall’occhio in posizione eccentrica all’asse visivo. La prima immagine, la più luminosa, viene
riflessa dalla superficie anteriore della cornea e permette di determinare la curvatura della
superficie corneale anteriore: l’immagine è virtuale, diritta, più piccola dell’oggetto, situata 6-7
mm dietro la cornea. La seconda immagine, che viene riflessa dalla superficie posteriore della
cornea e poi viene rifratta attraversando lo stroma corneale, permette di determinare la curvatura
della superficie corneale posteriore: è un’immagine meno luminosa della prima, virtuale, diritta,
più piccola dell’oggetto e situata circa sullo stesso piano della precedente.
• Disco di Placido. E’ stata la prima forma di cheratoscopio conosciuta, consistente
semplicemente in una serie di cerchi bianchi e neri concentrici con una lente positiva al centro.
Veniva utilizzato per osservare l’aspetto delle immagini riflesse dalla superficie corneale e
valutare approssimativamente, sulla base della deformazione dei cerchi riflessi, il grado e l’asse
di un eventuale astigmatismo. In caso di astigmatismo regolare i cerchi si presentano più o meno
ovalizzati, in caso di astigmatismo irregolare (come nel cheratocono) i cerchi sono
irregolarmente deformati.
• Cheratometria. Consente la rilevazione oggettiva del raggio di curvatura della superficie
anteriore della cornea attraverso mire proiettate sulla cornea e da essa riflesse. La misura, che è
limitata alla zona centrale in relazione alla posizione e alla dimensione delle mire, utilizza la
prima immagine di Purkinje ed è particolarmente precisa. Il raggio di curvatura può essere
espresso in diottrie o in millimetri.
• Topografia corneale computerizzata. E’ una rilevazione in grado di determinare il raggio di
curvatura della cornea non soltanto attorno all’apice, ma fino alla media periferia. Lo strumento
proietta una serie di cerchi concentrici sulla cornea e una telecamera ne acquisisce l’immagine
riflessa; un computer, mediante appositi algoritmi, elabora tale immagine e ricostruisce la
superficie corneale attraverso mappe colorate, nelle quali a ogni valore di curvatura corneale
viene abbinato uno specifico colore.
La diminuzione della trasparenza corneale
La cornea presenta normalmente un’idratazione del 78%, condizione definita di deturgescenza. Il
mantenimento di questa idratazione, indispensabile per garantire la sua trasparenza, dipende
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dall’integrità delle barriere cellulari epiteliale ed endoteliale ma soprattutto dall’azione dei sistemi
attivi endoteliali, che contrastano la pressione intraoculare e l’effetto osmotico dello stroma
trasferendo continuamente liquidi dallo stroma corneale alla camera anteriore [Spalton D.J. et al.,
1995].
Tra le cause responsabili di una riduzione della trasparenza corneale, l’edema rappresenta la più
diffusa. L’edema corneale è un assorbimento eccessivo di liquidi che altera la regolare disposizione
delle fibre collagene dello stroma corneale; in questo modo provoca una diminuzione della
trasparenza corneale e modifica, in maniera reversibile, lo stato rifrattivo sferico e cilindrico
originario. L’edema corneale può presentarsi in tre forme [Rossetti A., 1993]:
1. Anossica: mancanza o ridotto apporto di ossigeno al metabolismo corneale (esempio: lente a
contatto chiusa);
2. Osmotica: eccessiva quantità di lacrimazione o irrigazione, con formazione di un gradiente
osmotico (esempio: lacrimazione prolungata nella prima fase di applicazione di lenti a contatto);
3. Meccanica: aumento della permeabilità delle barriere epiteliale ed endoteliale (esempio:
pressione intraoculare oltre 50 mmHg).
In presenza di edema corneale il soggetto può segnalare, in relazione alla sua gravità, svariati
sintomi: fotofobia, cambiamento rapido e inspiegabile della condizione rifrattiva, ipersensibilità a
fonti luminose ravvicinate, visione annebbiata, presenza di arco irideo attorno alle fonti luminose
osservate.
La pupilla, sfondo scuro della riflessione luminosa corneale
La pupilla, oltre a essere il diaframma anatomico dell’occhio, è il fondale scuro sul quale brilla il
riflesso luminoso corneale. Le caratteristiche fisiologiche della pupilla mutano nel tempo, i bambini
hanno una pupilla più reattiva e di dimensioni maggiori rispetto alle persone anziane.
Dal punto di vista ottico, l’iride è la pupilla reale del sistema oculare a cui corrisponde dal lato
oggetto la pupilla d’entrata e dal lato immagine la pupilla d’uscita. La possibilità di apprezzare a
occhio nudo il riflesso luminoso corneale è conseguente al forte contrasto garantito dalla pupilla
d’entrata, che all’osservatore appare circa il 4% più grande della pupilla reale [Cappa S., 1985].
Il diametro della pupilla può venire quantificato attraverso diversi metodi; il più semplice è l’uso
del pupillometro, consistente in una serie di cerchi graduati il cui diametro viene raffrontato con la
dimensione della pupilla. Si può anche misurare il diametro pupillare, dopo appropriata calibrazione
del metodo, con fotografie o filmati [Rossetti A., 1993].
Il diametro pupillare evidenzia un’instabilità fisiologica di base e varia con continue
microscillazioni; tale fenomeno, definito hippus pupillare, consiste in lievi variazioni ritmiche della
dimensione pupillare la cui frequenza è di circa 1,4 Hz; esse sono presenti in tutte le persone e
aumentano lievemente alle elevate intensità luminose [Forrest E., 1988].
Il diametro pupillare è correlato a diverse variabili. Anzitutto ai cambiamenti di intensità
dell’illuminazione ambientale, ai quali risponde con una modificazione molto rapida definita
riflesso fotomotore; con l’aumento dell’irraggiamento retinico il diametro pupillare si riduce,
mentre la pupilla diviene progressivamente midriatica se l’irraggiamento retinico diminuisce. Il
cambiamento di illuminazione relativo a un singolo occhio provoca una risposta diretta nell’occhio
interessato ma agisce comunque, attraverso il riflesso consensuale, anche sul diametro pupillare
dell’occhio adelfo [Bianchi C. et al., 1995].
Il diametro pupillare anche è legato all’accomodazione e alla convergenza attraverso il riflesso per
vicino, che si realizza attraverso una triade contemporanea di risposte: costrizione delle pupille,
convergenza degli occhi, aumento della convessità del cristallino.
Il diametro pupillare è altresì correlato alle emozioni e all’attività mentale; la risposta simpatica
provoca midriasi, mentre la miosi si realizza al prevalere dell’attività parasimpatica [Forrest E.,
1988].
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La dilatazione pupillare è un segno di interesse verso stimoli inattesi e piacevoli, come la foto di un
bambino per le donne e un nudo femminile per gli uomini, oppure espressione tangibile di paura,
collera, aggressività [D’Urso V. et al., 1998]. La variazione del diametro pupillare è un’espressione
di interesse sessuale primordiale e assai potente; forse per questo le donne usano l’estratto di
belladonna e gli uomini cercano di sedurre le possibili partner al lume di candela: sia il farmaco che
la luce fioca fanno dilatare le pupille, rafforzando i segni d’interesse sessuale [Ramachandran V.S.
et al., 1999].
La superficie corneale anteriore come specchio convesso
La cornea ha un profilo di natura asferica, appiattendosi quanto più ci si sposta in periferia; tuttavia,
può essere considerata sferica, applicando un’approssimazione adeguata all’utilità del caso, in una
porzione centrale con diametro di circa 4 mm. La superficie corneale anteriore può pertanto essere
considerata uno specchio convesso e, come tale, possiede i tre punti caratteristici di ogni superficie
catadiottrica: il vertice, il centro di curvatura ed il fuoco.
Le figure che seguono rappresentano lo specchio sferico con un segmento verticale e un tratteggio
obliquo, secondo le convenzioni dell’ottica geometrica. Il vertice è rappresentato dall’apice
corneale anteriore, il centro di curvatura C si trova a destra della superficie esterna a una distanza r
pari al raggio di curvatura, mentre il fuoco (quello oggetto F coincide con il fuoco immagine F’) è
posto a una distanza f dall’apice pari alla metà del raggio di curvatura.
Fissato un punto oggetto P a una distanza definita S, l’immagine si forma in P’ a una distanza
chiamata S’: l’immagine riflessa si posiziona sempre tra il vertice corneale e il fuoco, come
rappresentato nella figura.
La relazione matematica che lega le posizioni di immagine e oggetto è: 1/S’ + 1/S = 2/r.
Quanto maggiore è la curvatura corneale, tanto più vicina all’apice si forma l’immagine.
In caso di oggetto esteso, la formazione dell’immagine segue alcune regole comuni a tutti i diottri di
questo genere: un raggio luminoso che incide sul vertice viene riflesso con lo stesso angolo
d’incidenza, un raggio luminoso che proviene dall’infinito viene riflesso in modo che il suo
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proseguimento passi per il fuoco, mentre un raggio luminoso diretto verso il centro viene riflesso
senza deviazione, cioè con lo stesso orientamento con cui ha inciso.
Graficamente due delle regole sopra elencate si traducono nel seguente modo:
Come si può dedurre dalla figura in caso di riflessione di un oggetto esteso è necessario introdurre il
concetto di ingrandimento, il cui valore è calcolabile in uno dei due modi seguenti:
• I = y’/y ;
• I = - S’/S.
Più l’oggetto è vicino alla cornea, più l’immagine si avvicina anch’essa e si ingrandisce.
Nel caso in cui l’oggetto non si trova sull’asse ottico, ovvero è decentrato rispetto alla cornea, si
può notare come l’immagine si sposta nella stessa direzione in cui si è spostato l’oggetto:
Un riflesso corneale tanto più distante dal centro della cornea indica una sorgente luminosa più
decentrata rispetto al punto di fissazione. Questa caratteristica permette di quantificare le deviazioni
manifeste con il test di Hirschberg: si misura il decentramento del riflesso luminoso corneale in mm
e si risale all’entità della deviazione attraverso un valore fisso, il fattore moltiplicatore, da applicare
a tale distanza.
Diversi autori danno differenti indicazioni riguardo al fattore moltiplicatori da utilizzare, con valori
che partono da 11 e possono arrivare fino a 25 circa. Tale significativa differenza è indotta da due
variabili: la distanza di effettuazione del test e il raggio di curvatura corneale rilevato nel punto del
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riflesso luminoso corneale (che, in caso di deviazione strabismica significativa, si trova in una
porzione corneale periferica e quindi più piatta).
Se, per esempio, poniamo r = 8,00 mm e il test viene effettuato a 30 cm:
1/S’ – 1/300 = 2/8
S’ = 3,95 mm
Quindi l’immagine si forma 3,95 mm a destra dell’apice corneale.
Calcoliamo ora l’ingrandimento introdotto da una cornea con quel raggio di curvatura:
I = +3,95/300 = 0,013 x.
Ora poniamo che l’immagine sia spostata di 1 mm dal centro corneale. E’ possibile, sfruttando
l’ingrandimento, risalire a quanto è realmente lo scostamento del polo corneale rispetto alla
posizione necessaria per fissare perfettamente l’oggetto proposto:
I = y’/y
y = y’/I = 1/0,013 = 76
Ciò significa che, con quella cornea, a ogni millimetro di eccentricità del riflesso luminoso corneale
corrispondono 76 mm di separazione tra l’oggetto e l’asse ottico o quello pupillare; siccome a 30
cm di distanza 3 mm di eccentricità corrispondono a 1 Dp, il fattore moltiplicativo è uguale a 76:3,
cioè 25 circa. Di conseguenza, la deviazione y è pari a y’ (distanza tra centro corneale e riflesso
luminoso) x 25.
E’ evidente che se il raggio corneale è differente da quello considerato, il fattore moltiplicativo deve
adeguarsi e, nella fattispecie, essere inferiore se il raggio corneale centrale medio è più piatto ed
essere superiore se il raggio è più curvo.
Il fattore moltiplicativo può essere calcolato anche con la seguente formula, che è il risultato di tutti
i passaggi effettuati nell’esempio precedente:
(600 + r)/3r (distanza operativa: 30 cm)
Quindi per effettuare con la massima precisione il test di Hirschberg bisogna prima rilevare la
curvatura della superficie anteriore della cornea.
Gli assi dell’occhio
In ambito clinico la riflessione luminosa corneale è utilizzata per lo studio e la quantificazione delle
deviazioni oculari. Tale valutazione deve tenere conto della posizione della fovea, che non occupa
precisamente il polo posteriore del globo oculare ma è situata verso l’esterno; l’asse visivo che
unisce la fovea all’oggetto fissato quindi non coincide con l’asse ottico geometrico, il quale unisce
invece il polo posteriore geometrico al centro della cornea [Saraux H. et al., 1986].
Si possono distinguere:
• Asse ottico, che passa per l’apice geometrico della cornea, il centro geometrico del globo
oculare e raggiunge il polo posteriore dell’occhio, tra fovea e papilla.
• Asse visivo, che congiunge il punto fissato e la fovea, passando attraverso i punti nodali. E’
l’asse di maggiore interesse nella pratica clinica optometrica.
• Asse pupillare, la linea perpendicolare al piano pupillare che passa per il centro della pupilla e
raggiunge i punti nodali, discostandosi pochissimo dall’asse ottico geometrico.
• Angolo k, formato dall’asse visivo e dall’asse pupillare.
• Angolo α, formato dall’asse ottico geometrico e dall’asse visivo.
Nella pratica clinica l’asse ottico geometrico non è visivamente rilevabile per cui si preferisce
ricorrere alla localizzazione dell’asse pupillare, nonostante i due assi non siano precisamente
coincidenti a causa della leggera eccentricità della pupilla che è spostata verso il basso e l’interno
nei confronti dell’asse ottico geometrico. Le lievi differenze tra l’asse ottico e l’asse pupillare sono
comunque lievi e i due assi vengono considerati coincidenti; per i medesimi motivi anche l’angolo
α e l’angolo k vengono considerati coincidenti [Faini M., 2001].
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Lo scostamento del riflesso luminoso corneale rispetto all’apice corneale è conseguente
all’esistenza dell’angolo α, l’angolo formato dall’asse ottico geometrico e dall’asse visivo. Lo
scostamento del riflesso luminoso corneale rispetto al centro del diaframma pupillare è invece
conseguente all’esistenza dell’angolo k, l’angolo formato dall’asse pupillare e dall’asse visivo
[Saraux H. et al., 1986].
L’angolo k rappresenta la discrepanza esistente tra l’asse visivo e l’asse pupillare e quindi evidenzia
oggettivamente la differenza tra la direzione anatomica dell’occhio (legata all’asse ottico, pressoché
coincidente con l’asse pupillare) e la sua direzione visiva effettiva, legata all’asse visivo che
coniuga l’area foveale con l’oggetto fissato [Rossetti A., 1993].
L’angolo k è detto positivo quando l’asse visivo passa all’interno dell’asse pupillare, è detto
negativo quando l’asse pupillare è all’interno dell’asse visivo [Saraux H. et al., 1986].
L’angolo k e la posizione del riflesso luminoso corneale
La posizione del riflesso luminoso corneale in soggetti normotropici è conseguente al tipo e
all’entità dell’angolo k. Con il test si può riscontrare:
• Angolo k assente;
• Angolo k positivo con riflesso paracentrale nasale nei due occhi ovvero in prossimità del centro
pupillare in zona nasale;
• Angolo k positivo con riflesso pericentrale nasale nei due occhi ovvero tra il centro e il margine
pupillare in zona nasale;
• Angolo k positivo con riflesso extracentrale nasale nei due occhi ovvero al margine pupillare in
zona nasale;
• Angolo k negativo con riflesso paracentrale temporale nei due occhi ovvero in prossimità del
centro pupillare in zona temporale;
• Angolo k negativo con riflesso pericentrale temporale nei due occhi ovvero tra il centro e il
margine pupillare in zona temporale;
• Angolo k negativo con riflesso extracentrale temporale nei due occhi ovvero al margine
pupillare in zona temporale.
La condizione di gran lunga più frequente è quella in cui l’angolo k è positivo, il suo valore medio è
di +5° [Rossetti A., 1993].
L’angolo k è correlato alle ametropie assiali. Aumenta in relazione alla diminuzione della lunghezza
assiale dell’occhio e quindi nell’ipermetropia assiale, mentre diminuisce in relazione all’aumentare
della lunghezza assiale dell’occhio ovvero nella miopia assiale [Faini M., 2001].
Oltre alla componente orizzontale correlata all’angolo k, la posizione del riflesso corneale in
soggetti normotropici può avere anche una componente verticale. Si può riscontrare un riflesso
luminoso superiore o inferiore associato a tutte le situazioni orizzontali descritte precedentemente.
Lo pseudostrabismo
Esistono situazioni particolari che inducono a sospettare una deviazione che in realtà non è
presente; sono gli pseudostrabismi, condizioni nelle quali il test del riflesso luminoso corneale è di
grande aiuto per una corretta valutazione. Gli pseudostrabismi più comuni sono [Faini M., 2001]:
• Pseudostrabismo convergente da epicanto;
• Pseudostrabismo divergente da allungamento nasale della rima palpebrale;
• Pseudostrabismo convergente da allungamento temporale della rima palpebrale;
• Pseudostrabismo divergente da angolo k molto positivo;
• Pseudostrabismo convergente da angolo k molto negativo.
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Altre cause di pseudostrabismo sono l’elevata distanza interpupillare, la miopia monolaterale,
l’esoftalmo, l’assimetria facciale [Spalton D.J. et al, 1995].
Il modo più sicuro per distinguere uno strabismo reale da uno apparente è l’esecuzione accurata del
cover test.
Il test del riflesso luminoso corneale
La luce riflessa dalla cornea è utilizzata per verificare la condizione binoculare attraverso il test del
riflesso luminoso corneale. Nel test l’esatta condizione di allineamento dei due occhi viene rilevata
valutando la prima immagine di Purkinje e deducendo se i riflessi prodotti dai due occhi sono
simmetrici, oppure se si evidenzia una dissimmetria e quindi una deviazione [Faini M., 2001].
E’ un test che non richiede cooperazione da parte del soggetto esaminato e può quindi essere
effettuato a persone di ogni età, in quanto la fissazione verso una sorgente luminosa è un riflesso
innato [Rossetti A., 1993]. L’esaminatore utilizza una luce puntiforme e la posiziona appena sotto
il proprio occhio dominante; quindi invita il soggetto a fissarla avendo cura di non abbagliarlo.
Tiene la sorgente luminosa in posizione mediale rispetto agli occhi del soggetto esaminato, alla
distanza di 30 cm e leggermente al di sotto della loro altezza. Si può eseguire il test anche a
distanze diverse; alcuni autori suggeriscono una distanza superiore, tra 50 e 100 cm, per
minimizzare l’influenza della variabile accomodativa [Griffin J.R., 1979].
Il riflesso che si forma sulla superficie corneale, in virtù dell’effetto speculare della cornea che si
comporta come uno specchio convesso, è posto esattamente lungo l’asse visivo nel punto in cui il
flusso di luce proveniente dalla sorgente puntiforme incontra la cornea del soggetto esaminato e ne
viene in minima parte riflessa; la maggior parte della luce attraversa la cornea, passa attraverso i
punti nodali e termina nella fovea il proprio percorso.
Il riflesso luminoso corneale può trovarsi in varie posizioni e viene valutato in relazione al
diaframma pupillare. La valutazione del riflesso luminoso corneale richiede un rilevamento prima
monoculare (occludendo un occhio) e poi con entrambi gli occhi scoperti. L’esatta simmetria dei
riflessi corneali nei due occhi caratterizza un soggetto normotropico; una dissimmetria tra l’occhio
fissante e l’adelfo è un forte indizio di una deviazione. Un successivo e accurato cover test è
necessario per distinguere uno strabismo reale da uno apparente [Dale R.T., 1988].
La misura della deviazione
La misura della deviazione strabismica può essere espressa in gradi o in diottrie prismatiche.
• Grado (°): è l’unità di misura degli angoli, la trecentosessantesima parte dell’angolo giro;
• Diottria prismatica (Dp, dp, Dpt, ∆): è l’equivalente della deviazione di un centimetro a un
metro di distanza su una superficie piana. E’ un’unità di misura di esclusivo uso optometrico.
Il rapporto tra diottrie prismatiche e gradi è il seguente:
• 1° = 1,74 Dp
• 1 Dp = 0,57°
La misura della deviazione attraverso i test del riflesso luminoso corneale assume importanza non
solo per determinare l’ampiezza esatta della deviazione in posizione primaria, ma anche per
verificarne eventuali variazioni nelle posizioni secondarie; una variazione significativa indica una
deviazione incomitante.
Durante l’esame della motilità oculare una dissimmetria dell’occhio deviato nelle posizioni
secondarie è poco evidente se è lieve, mentre è più facile da osservare in presenza del riflesso
luminoso corneale. Ciò rende il test assai indicato nella verifica della concomitanza o
dell’incomitanza delle deviazioni [Griffin J.R.., 1979].
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Il test di Hirschberg
E’ l’applicazione del test del riflesso luminoso corneale a soggetti strabici per ottenere una
valutazione oggettiva approssimata dell’angolo di deviazione [Faini M., 2001].
L’esaminato è posto frontalmente all’esaminatore, che valuta la posizione del riflesso corneale
mentre il soggetto fissa la mira luminosa. L’entità della deviazione dipende approssimativamente
dallo spostamento del riflesso luminoso corneale rispetto al centro della pupilla [Rossetti A.,1993].
Per valutare l’entità della deviazione con il test di Hirschberg va tenuto in considerazione l’angolo k
valutato prima monocularmente e poi binocularmente. [Faini M., 2001].
Si può quantificare l’entità della deviazione secondo criteri definiti da vari autori. Vi è una certa
discordanza nella quantificazione della deviazione, che è in parte giustificata dalla variazione delle
dimensioni oculari riscontrabile da persona a persona:
• Hirschberg, autore del primo test di valutazione del riflesso luminoso corneale nel 1886, ha
indicato che una dissimmetria dei riflessi corneali di 1 mm corrisponde a 8° oppure a 14 Dp.
• Una dissimmetria di 1 mm corrisponde, secondo calcoli teorici e risultati sperimentali, a circa
12° o 22 Dp [Griffin J.R.,1979].
• Confrontando il riflesso corneale dei due occhi, 1 mm di spostamento corrisponde a 13-20 Dp
[Pickwell D., 1989].
• Una dissimmetria di 1 mm corrisponde a 11-13 Dp [Bredemeyer H. et al, 1986].
• Se un riflesso corneale è centrale e l’altro è sul bordo pupillare, l’angolo di strabismo è di
circa15°; se è a metà tra margine pupillare e limbus, l’angolo di strabismo è di circa 22°; se è al
limbus, l’angolo di strabismo è di circa 45° [Lang J.,1976].
• Se un riflesso corneale è centrale e l’altro è sul bordo pupillare l’angolo di strabismo è di 1520°; se è a metà tra margine pupillare e limbus l’angolo di strabismo è di 30-33°; se è al limbus
l’angolo di strabismo è di 45° [Dale R.T., 1988].
Il test di Krimsky
E’ un test più preciso di quello di Hirschberg, eseguibile soltanto per vicino, consigliato soprattutto
nell’esame di bambini oppure di soggetti con deficit visivo monolaterale. La valutazione della
deviazione utilizza il riflesso luminoso corneale dei due occhi e può essere eseguita in posizione
primaria oppure secondaria.
La posizione del riflesso luminoso corneale dell’occhio disallineato, quando non simmetrica e
quindi espressione di una deviazione oculare, viene modificata attraverso l’anteposizione di un
prisma di potere crescente fino a farne corrispondere la posizione con quella dell’occhio adelfo. La
misura dell’angolo di deviazione è espressa dal potere prismatico che è stato necessario per
ripristinare la precisa simmetria del riflesso luminoso corneale nei due occhi.
Il test può essere eseguito anche centrando il riflesso luminoso sull’occhio deviato e anteponendo il
prisma all’occhio fissante per realizzare una precisa simmetria nei due occhi. Questa seconda
modalità è definita test di Krimsky modificato [Spalton D.J. et al, 1995].
Il test obiettivo al sinottoforo
Il test del riflesso luminoso corneale può essere eseguito anche al sinottoforo, che permette di
effettuarlo anche inserendo nello strumento lenti positive che inibiscono l’accomodazione e
simulano la visione per lontano.
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Il soggetto fissa la mira luminosa del sinottoforo mentre l’esaminatore ne osserva il riflesso nei due
occhi e, muovendo i bracci dello strumento, ne modifica la posizione fino a che l’immagine riflessa
della luce si trova su punti simmetrici delle due cornee.
La misura dell’angolo di deviazione viene letta in Dp direttamente sulla scala dello strumento [Dale
R.T., 1988].
Il test del perimetro ad arco
E’ un test che utilizza il riflesso luminoso corneale per quantificare una dissimmetria degli assi
visivi. Il soggetto osserva con l’occhio fissante la mira luminosa situata al centro del perimetro,
mentre l’occhio deviato è diretto verso un altro punto lungo l’arco del perimetro stesso.
L’esaminatore sposta una luce puntiforme lungo l’arco del perimetro e la segue mantenendo il suo
occhio dietro a essa, finché la sua immagine riflessa nella cornea dell’occhio deviato non risulta
simmetrica a quella dell’occhio fissante [Dale R.T., 1988].
Gli occhi nella ritrattistica
La dimensione, la posizione e l’intensità del riflesso luminoso corneale sono state utilizzate anche
nella ritrattistica per evidenziare le fonti di illuminazione presenti nell’ambiente e riflesse dalle
superfici corneali del soggetto raffigurato. Oltre a ciò i pittori, interessati a esplorare ogni possibilità
espressiva capace di suscitare suggestioni ed emozioni, hanno utilizzato la riflessione corneale
come elemento espressivo, come segno significativo di volti capaci di esprimere efficacemente i
“movimenti dell'anima” [Fagin G., 2001].
Gli occhi sono uno dei punti maggiormente indagati dallo sguardo analitico dell’osservatore, in essi
la riflessione luminosa corneale fornisce informazioni visive di primaria importanza a chi osserva i
soggetti ritratti in primo piano nelle opere d’arte pittoriche. Un ritratto è tanto più naturale e
realistico quanto più coerenti sono tra loro la posizione del riflesso luminoso corneale e le ombre
degli altri particolari del viso
La rappresentazione degli occhi e di quanto essi esprimono è sempre stata importante nella pittura
di ogni epoca: occhio e sopracciglio costituiscono la parte più interessante e magnetica del viso e
mettono in contatto direttamente gli osservatori con le persone rappresentate nel dipinto [Prette
M.C., 1994].
La ritrattistica, dal Quattrocento in poi, è stata usata dagli artisti per esprimere anche
l’atteggiamento psicologico dei soggetti ritratti; in precedenza il soggetto posava con il volto
disteso, ma piuttosto inespressivo. Con Leonardo da Vinci e Antonello da Messina è iniziata
l’indagine psicologica sul carattere della persona raffigurata; essi hanno inaugurato un genere
nuovo, il ritratto psicologico, che avrebbe avuto grande seguito nei secoli successivi. Dal
Quattrocento in poi ogni grande pittore occidentale è stato un maestro dell'espressione: il
Caravaggio, Diego Velázquez, Rembrandt van Rijn, Giandomenico Tiepolo, Pieter Paul Rubens e
altri grandi pittori hanno saputo svelare l’interiorità dei soggetti ritratti, risvegliando
nell’osservatore profonde risonanze e intense emozioni [AA.VV., 2002].
Il modo di rappresentare le espressioni nel ritratto dipende anche dal periodo storico in cui esso si
colloca. Nel tardo Settecento, ad esempio, si era più portati a dipingere le emozioni usando gesti
ovvi e teatrali piuttosto che ponendo l'accento sui sottili movimenti del viso.
I pittori attivi nel tardo Ottocento, in modo particolare tra il 1860 e il 1890, hanno invece tradotto su
tela la loro attenta osservazione della vita. Si erano ormai perse le pitture di ninfe oppure eroi
classici: al loro posto venivano dipinte scene della vita reale di contadini, artigiani, famiglie
borghesi, che i pittori ritraevano nella quotidianità; nessun artista fino ad allora aveva dipinto quadri
così psicologicamente veri nella loro descrizione del viso.
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Nel Novecento si è sviluppato un atteggiamento molto differente verso i valori della verità visiva. I
pittori hanno esaurito la vena di inseguire il “meramente visibile” e hanno espresso un’arte
indipendente dalla natura in cui i colori, le forme e le espressioni sono stati valutati semplicemente
in se stessi. Tale pittura è stata concepita come un linguaggio universale in grado di risvegliare le
emozioni senza nessun riferimento a elementi riconoscibili [Fagin G., 2001].
La riflessione luminosa corneale inserita nelle caratteristiche del volto
Le caratteristiche del volto umano sono ricordate in relazione a precise condizioni di luce tanto che
il ricordo di una persona è spesso legato all’aspetto del suo viso in una certa luce, a come luce e
ombra convivono su quel volto.
I grandi pittori hanno evitato di rappresentare i volti i piena luce: le ombre fanno parte della vita. Lo
ha espresso Pierre Auguste Renoir nella tenerezza con cui disegnava i volti e i seni delle donne. Lo
ha dimostrato Rembrandt van Rijn con i suoi famosi chiaroscuri in cui un fascio di luce sottolineava
il volto illuminandone una parte e lasciandone un’altra in ombra [AA.VV., 2000].
Non c'è alcun panorama conosciuto bene quanto il volto umano. I circa sessanta centimetri quadrati
che contengono i connotati del viso sono la parte dell’essere umano più intimamente e
costantemente scrutata del corso dell'esistenza, un’area esaminata con particolare attenzione e con
un interesse molto più che intellettuale. Ogni dettaglio del naso, degli occhi, della bocca, ogni regolarità nelle proporzioni, ogni variazione da un individuo all'altro sono una materia nella quale le
persone, in ogni luogo e con qualsiasi cultura, sono particolarmente competenti.
L’essere umano conosce il viso così bene perché lo ritiene molto importante, lo considera infatti il
centro della vita emotiva. Dalla nascita alla morte il volto unisce la persona agli amici, alla famiglia,
alle persone care: poche situazioni sono in grado di commuovere tanto profondamente come il volto
di una persona amata, niente attira l’interesse quanto guardare il viso di una persona conosciuta
scrutandone gli umori, le espressioni, l’evoluzione nel tempo [Fagin G., 2001].
Non stupisce quindi che le espressioni facciali, così come i piccoli movimenti che alterano l'aspetto
dei lineamenti, possano avere un significato così importante: il leggero accenno di un sorriso può
fare iniziare una conversazione tra estranei, una fronte aggrottata può provocare una discussione tra
amici, i lineamenti induriti possono far temere che qualcosa di grave sia accaduto o stia per
realizzarsi.
Guardando le persone intente in conversazione si nota come raramente abbiano volti a riposo; i loro
lineamenti hanno continuamente modificazioni mentre essi parlano e ascoltano. Essere così
comunicativi con il proprio volto è di grande aiuto nella vita sociale; gli interlocutori ne traggono
elementi di valutazione per apprezzare il benessere di chi sorride o per riconoscere chi è triste o
preoccupato [AA.VV., 2002].
Il volto umano è così espressivo grazie a un complesso gruppo di muscoli piccoli ed esili, i muscoli
dell’espressione facciale. Essi formano una rete che corre al di sotto della superficie del viso, sottile
e rifinita come una ragnatela. Con il loro movimento essi possono alterare completamente l'aspetto
di un volto; sebbene siano relativamente piccoli e deboli, sono così attaccati alla superficie della
pelle che una loro lieve contrazione provoca un significativo mutamento in grado di esprimere gli
stati emotivi e costituire le espressioni facciali [Fagin G., 2001].
In termini anatomo-fisiologici l’espressione facciale, come ad esempio un sorriso o una fronte
aggrottata, comporta variazioni molto lievi e riconoscibili soltanto a distanza ravvicinata: è
immediata tale percezione colloquiando con una persona a 50-60 cm ma è assai difficile notarla, e
così interpretarne il significato espressivo in maniera corretta, se essa si trova alla distanza di 5
metri o più.
La mimica del volto è un codice di segni. L'abilità nel leggere le espressioni del volto è di
importanza vitale e fa parte del bagaglio istintivo di ogni essere umano, così come l'avversione al
dolore o la sensazione di paura che si prova di fronte a grossi animali con folta pelliccia e grandi
occhi. L’abilità a interpretare l’espressione facciale è così radicata che è possibile confondere un
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viso con un altro, ma non un sorriso con un’espressione accigliata [AA.VV., 2002].
La capacità umana di esprimere le emozioni attraverso le espressioni del viso è innata: i bambini
non imparano a sorridere o a piangere guardando gli adulti. Le espressioni del viso nascono
prepotentemente e involontariamente, come gli starnuti o i brividi: un bambino che nasce cieco ride
e piange esattamente come gli altri bambini.
I ricercatori ritengono che le espressioni facciali fondamentali (paura, gioia, tristezza, sorpresa,
disgusto e ira) siano comuni a tutte le società umane e che siano rimaste fondamentalmente
inalterate per migliaia di anni. Le ricerche hanno evidenziato che le persone differiscono
notevolmente l’una dall’altra nella capacità di identificare le emozioni delle espressioni facciali. E’
emersa in particolare una superiorità delle donne sugli uomini nella codifica e nel riconoscimento
delle emozioni fondamentali; essa sembra legata alla superiore specializzazione dell’emisfero destro
femminile, quello che interviene nel riconoscimento delle espressioni facciali. La superiorità
femminile non si evidenzia invece quando il riconoscimento di emozioni è affidato a segnali vocali
o corporei [D’Urso V. et al., 1998].
La posizione degli occhi
I grandi pittori hanno considerato gli occhi raffigurati nei ritratti non come meri portatori di
informazioni ottiche ma piuttosto come veicoli della dimensione dello spirito. Essi hanno assegnato
agli occhi un valore altamente simbolico alla cui formazione concorrono l’apertura palpebrale, la
posizione degli occhi, il diametro della pupilla, la posizione e l’intensità del riflesso luminoso
corneale [AA.VV., 2002].
La posizione degli occhi è un elemento fortemente evocativo nel ritratto; i pittori la utilizzano per
rappresentare l’atteggiamento psicologico delle persone raffigurate e il loro mondo interiore. Occhi
rivolti in basso, in alto o di lato indicano diversi, caratteristici e suggestivi stati mentali.
Nei dipinti con significato religioso, lo sguardo al cielo veniva convenzionalmente utilizzato per
indicare uno stato di profonda comunione con Dio. Ma anche oggi, nell'era secolare, è difficile
ritrarre qualcuno con gli occhi al cielo senza suggerire un significato metaforico, a meno che sia
evidente che la persona ritratta sta osservando qualcosa che si trova in alto [Fagin G., 2001].
Il segnale grafico più precipuo dello sguardo verso l’alto è il profilo del bordo palpebrale in
rapporto con l'iride. Quando lo sguardo sale, il primo cambiamento che interviene è il rapporto
dell’iride con il bordo palpebrale inferiore; nella maggior parte degli occhi, quando lo sguardo è in
posizione primaria, una piccola parte dell'iride si trova coperta dal bordo palpebrale inferiore
mentre guardando in alto tutta l’iride sale sopra questo livello. Quando lo sguardo sale ancora più
su, i bordi palpebrali prendono una forma a cupola e divengono come una D maiuscola messa su un
fianco; nel contempo la prospettiva fa apparire l'iride non più con una forma circolare bensì con la
forma di un’ellissi: più alto sale lo sguardo, più schiacciata appare l’ellissi. Il limite dello sguardo in
alto si raggiunge quando la pupilla incontra il margine della palpebra superiore, una posizione
scomoda e penalizzante che il soggetto non può mantenere a lungo [AA.VV., 2002].
Quando viene ritratto un soggetto che guarda in basso, l’immagine può evocare diverse attività tra
cui la lettura, la riflessione, la rassegnazione. Rispetto a quello verso l’alto, lo sguardo in basso è
più confortevole e può essere mantenuto più a lungo con minore sforzo. Il problema principale per
l'artista che rappresenta gli occhi rivolti in basso è quello di evitare ambiguità espressive, data la
notevole somiglianza esistente tra gli occhi che guardano in basso e gli occhi chiusi. L’aspetto
diverso delle due azioni si basa quasi esclusivamente sulla posizione della palpebra inferiore:
quando un soggetto guarda in basso la palpebra inferiore scende, permettendo di mantenere aperta
una fessura nella quale si colloca la pupilla. Mentre la palpebra inferiore scende, sotto il suo bordo
iniziano a sorgere delle pieghe di pelle simili ai segni lasciati da un aratro nella terra. Più si guarda
in basso, più le pieghe si approfondiscono [Fagin G., 2001].
Disegnare un soggetto che guarda di lato può animare e dare vivacità a un ritratto. Come il guardare
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in alto, anche guardare di lato suggerisce un atteggiamento attivo: più lo sguardo si sposta di lato
più esso sarà momentaneo, perché le posizioni estreme sono più faticose da mantenere e la testa
tende a seguire lo sguardo.
Rispetto allo sguardo in alto o in basso, quello di lato è più facile da disegnare. Quando lo sguardo è
in posizione primaria, la parte più alta del bordo palpebrale superiore è al centro dell'occhio.
Quando lo sguardo si sposta di lato, il punto più alto del bordo palpebrale si muove con l'iride e
rimane sopra l'iride dovunque essa vada a posizionarsi [AA.VV., 2002].
La sclera visibile, spazio bianco posto ai lati dell'iride, aiuta l’osservatore a giudicare da quale parte
è ruotato l'occhio del soggetto ritratto. Se gli occhi sono rivolti in avanti in posizione primaria, lo
spazio bianco sarà approssimativamente uguale in entrambi i lati dell’iride. Se lo sguardo si sposta
di lato, la sclera visibile diviene asimmetrica; nel contempo l'iride sembra divenire gradualmente
meno circolare e lo scorcio ne restringe la larghezza esattamente come accade quando la testa ruota
in una vista di tre quarti [Fagin G., 2001].
Dipingere è un approfondimento dello sguardo
Gli occhi sono lo specchio dell’anima, o almeno ne evidenziano uno scorcio. L’artista che raffigura
pittoricamente uno sguardo, un volto, una persona, compie un’operazione complessa passando dal
piano della rappresentazione a quello della conoscenza e invitando l’osservatore a fare a sua volta
un originale percorso di apprendimento, che scardina alcuni automatismi del proprio modo di
“riconoscere” [Prette M.C., 1994].
L’opera d’arte ha questo grande potere, che è il suo vero fascino: può cambiare lo sguardo sulle
cose permettendo alle persone di cogliere, sia nel mondo esterno che nel proprio mondo interiore,
realtà che non avrebbero mai riconosciuto.
In questo senso dipingere è un “approfondimento dello sguardo” [AA.VV., 2000].
Ogni grande opera d’arte che ritrae un soggetto in primo piano pone l’osservatore di fronte a un
silenzio, a una sospiro, a una ribellione, a una nostalgia, a un’angoscia che hanno echi lontani.
L’immagine pittorica ha questo grande potere di sintesi e di comunicazione, che richiede però
all’osservatore una partecipazione attiva. In chi osserva, l’atto del percepire deve abbandonare un
atteggiamento razionale e passivo per assumerne uno più aperto ed emotivamente disponibile
[Pocaterra R., 2001]. Davanti a un ritratto inizialmente si osserva con gli occhi, poi si riconosce con
la mente, infine nell’opera d’arte si entra con l’anima accettando di introdursi in un mondo
straordinariamente ricco e stimolante, nel quale si percepisce in profondità e si gusta in pienezza.
[Prette M.C., 1994].
Non è possibile accedere a un’opera d’arte senza accettare la fatica di comprendere un linguaggio
diverso. Per questo non si apprezza un ritratto pittorico senza un percorso che richiede attenzione e
impegno: raccogliersi, penetrare, cogliere, apprendere, gustare. E’ il prezzo richiesto da tutte le
esperienze significative della vita umana.
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