Il collettivo biopolitico Fuxia block nasce
all’interno dell’occupazione del laboratorio
FUOri COntrollo nella primavera 2006: un
percorso di conflitto urbano che ha fatto
della riappropriazione di spazi, tempi e
saperi critici le pratiche e gli obiettivi del
suo agire.
Nel Fuxia sono iscritti autodeterminazione,
autonomia, autogestione, liberazione, laicità.
È una scommessa politica che non tenta di
naturalizzare la storia ma cambiarla attraverso
azioni e riflessioni che mettano in discussione
l’assegnazione di ruoli socialmente determinati,
l’imposizione di ideologie mistificanti rispetto ai
nostri desideri, l’accettazione di dogmi oscurantisti
che tra il velo di una morale universale
normalizzano il controllo soggettivo.
Nella sfiducia di qualunque schema cognitivo
precostituito, il Fuxia block getta uno sguardo
critico e destrutturante sulla realtà.
Non crediamo che ad identità
omologanti si possano contrapporre
altre identità ugualmente omologanti.
Preferiamo tenere aperte tutte le possibilità
di espressione, cambiamento, crescita o
messa in discussione. Il sospetto che, dietro
a qualunque identità immobile e definita, si
nasconda una forma di censura e di
controllo, ci assale inesorabilmente.
Conquistare l’autodeterminazione e
liberare i nostri desideri sempre e
comunque turberà il tranquillo
svolgersi dei cliché quotidiani: e questo
ci piace. Sappiamo anche di avere delle
eredità storiche.
Del pensiero della differenza ci piace la
prospettiva differente, capace di rovesciare
il senso e la percezione della realtà; ma non
siamo certi che il femminismo oggi possa
essere la risposta adeguata al sessismo e al
modello patriarcale della società. Ad un
modello plasmato su un genere non
vogliamo contrapporne uno opposto quanto
speculare.
La domanda che ci poniamo prima di
tutte è: cosa significa essere donna – o
uomo – oggi? Cosa caratterizza la
peculiarità di un genere rispetto all’altro?
Come si possono definire le mille
sfaccettature in cui si manifestano
sessualità, comportamenti, poteri, desideri
e pratiche diffuse nella società? O meglio: è
proprio necessario farlo?
Ci spaventa il sistematico uso strumentale
di categorie che non scaturiscono più da un
conflitto o una contraddizione sociale, ma
che, una volta assunte, vengono utilizzate
dal lessico della politica ufficiale. Quando
tutti gli attori istituzionali concordano su
qualcosa, ci suona automaticamente un
1
sul controllo dei corpi, sul governo della
società. Mettendo tra parentesi i nostri
preconcetti, quelli che ci hanno insegnato,
imposto.
Vogliamo interrogare le protagoniste dei
femminismi di ieri per comprendere l’oggi,
confrontarci con esperti di diritto e bioetica
per studiare gli interventi legislativi sulla
vita (e sulla morte) di ognuno, chiederci e
chiedere se l’identità di genere debba
essere discriminante per scelte politiche e
sociali, in un momento storico in cui ognuno
di noi si porta appresso molteplici ruoli ed
identità sociali.
A partire dai nostri desideri e dalla
consapevolezza delle differenti identità che
compongono il nostro essere sociale, come
possiamo liberarci dal controllo, dal
comando sulle nostre vite, dalle censure
etiche e religiose?
campanello d’allarme: quello del rischio
della mistificazione delle istanze nate nel
conflitto sociale. È quello che vediamo oggi,
quando esponenti donne di estrema destra
si fanno paladine dei diritti delle donne,
mentre additano la violenza degli uomini
immigrati come causa delle violenze
aprendo la strada alla xenofobia dei
pacchetti sicurezza di matrice fascistoide.
La realtà si sovrappone e si sfrangia di
continuo. L’identità rigida non può che
spezzarsi.
Qual è il frame principale su dobbiamo
soffermarci? L’essere donna o uomo è oggi
sufficiente a dare delle risposte rilevanti
rispetto alla nostra condizione? Forse
davvero prima di dare delle risposte
paradossali è sempre meglio formulare
delle domande intelligenti.
Questo è quello che fuxia block si propone
di fare: aprire uno spazio di discussione
critica e di analisi sulla politica della vita,
Cosa vuol dire essere uomo? Cosa vuol
dire essere donna? L’educazione che
riceviamo e la cultura che apprendiamo
attraverso il processo di socializzazione
rende possibile l’assimilazione di valori,
norme, credenze, significati collettivamente
condivisi che ci fanno classificare azioni in
giuste ed ammissibili, piuttosto che
sbagliate ed intollerabili. Così come
apprendiamo il significato di un determinato
gesto, la correttezza di una certa azione, le
norme di convivenza e comportamento con
gli altri, impariamo sin da piccoli a
identificare specifici comportamenti,
atteggiamenti, emozioni come maschili o
femminili. Le bambine giocano con le
bambole indossando un grembiulino
rosa; i maschietti, invece, amano il
calcio e i giochi vivaci. Le donne sono
chiacchierone, sensibili ed emotive; gli
uomini razionali, aggressivi, coraggiosi.
Modelli, questi, che innervano l’intera forma
mentis con cui ci approcciamo al mondo.
Molto spesso questi schemi non si
limitano alla mera delineazione delle
caratteristiche di ciò che viene
considerato come appartenente alla
sfera del maschile e del femminile,
intese come unità separate e distinte; si
addentrano in diversi aspetti della vita
quotidiana, influenzando il comportamento,
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il pensiero, l’aspetto fisico, gli abiti che si
indossano, gli hobbies che si scelgono, il
modo con cui si interagisce con le altre
persone e con l’altro sesso. Ma esiste
veramente un altro sesso? Queste
caratteristiche che vengono considerate
naturali non sono piuttosto manifestazioni di
un indottrinamento culturale? Ci chiediamo
se quest’ultimo non sia stato creato dalle
istituzioni dominanti della società e
riprodotto nel tempo, nel passato come
oggi. La tradizione giustifica, ad esempio, la
divisione dei compiti di cura e di
riproduzione tra i due sessi con tesi
funzionaliste. Ma, contemporaneamente,
l’antropologia e gli studi sul relativismo
culturale ci insegnano che tali
suddivisioni derivano soprattutto da
elementi culturali, determinati, a loro
volta, dall’organizzazione che un gruppo
sociale si è dato in uno specifico contesto,
con determinate caratteristiche geografiche,
naturali e necessità. Quindi, la cultura
influenza le credenze ed il modo di concepire
ruoli e prerogative; data la cultura come
contestuale, anche tutto ciò che da questa
discende lo diviene, perdendo ogni carattere
assolutistico. Di conseguenza, come
relazionarci nei confronti del genere e
dei molteplici modi di intendere e vivere
la sessualità?
Il recente dibattito sulla famiglia, ad
esempio, ha posto la questione su quale sia
l’unità sociale di base da tutelare a livello
legislativo e, culturalmente, da reputare
ammissibile. Ma come si può sostenere che
l’unica famiglia possibile sia quella creata da
un uomo e da una donna, se si considerano i
generi come culturalmente determinati e,
per ciò, suscettibili alla messa in
discussione? Due ragazzi gay o due
ragazze lesbiche non possono creare
una famiglia? Non possono essere
padri? E se no, per quale ragione, dato che
queste convinzioni sono generate da
costruzioni culturali dominanti? Non
nascondono, in realtà, vincolanti rapporti di
forza che nascondono finalità di controllo e
volontà di mantenere queste costruzioni
sociali come permanenti? La procreazione è
una scelta personale o è lecito che sia
controllata da istituzioni esterne al soggetto,
non necessariamente in linea con le idee da
3
difese dal singolo? Un cittadino che esce
dagli schemi imposti e dall’omologazione
non è più beneficiario di diritti e rispetto?
In una società in continua evoluzione
ed in costante mutamento come
l’attuale diventa logico ed automatico
ridefinire anche alcuni principi reputati
fin prima inattaccabili, in quanto un
mutamento culturale genera
inevitabilmente nuove forme, in senso
marxiano, della sovrastruttura e delle
struttura, (o delle espressioni del vivere).
Riteniamo, piuttosto, che l’attribuzione
del genere non possa avvenire puramente
su base biologica e che la componente
culturale non sia solo importante nella
definizione dell’identità di un individuo, ma
soprattutto determinante nello sviluppo
dell’ orientamento sessuale di un individuo.
Forse la scoperta del proprio genere non
avviene, in tali condizioni, attraverso un
viaggio introspettivo durante il quale si
esplorino i propri istinti e tendenze;
addirittura si dà il proprio genere per
scontato e si reputano inclinazioni e
comportamenti differenti da quelli
ordinari come devianti, quando non
deplorevoli e moralmente dissacranti. Ma
non è, invece, la mentalità comune che ci
circonda che canalizza i nostri ragionamenti
e che esclude a priori possibilità altrimenti
praticabili? Tutto ciò non impedisce
riflessioni prive di costrizioni e vincoli
morali?
Altro tema di acceso dibattito è quello
della laicità. Uno Stato che veramente si
definisce tale non dovrebbe garantire parità
di diritti a tutti i cittadini?
Indipendentemente dagli orientamenti
sessuali, senza lasciar spazio ad accuse
etiche da parte della Chiesa o di qualsiasi
altra fonte che basa le proprie tesi ed
accuse su principi etici in realtà discutibili e
non condivisi? Ci chiediamo se allo stato
attuale delle cose possiamo davvero
definirci liberi nei confronti delle istituzioni,
quando quest’ultime legiferano su ciò che
può essere legale o meno, anche in ambiti
profondamente intimi e personali come
quello affettivo e sessuale. Volendo trovare
un modo di eliminare discriminazioni e
categorizzazioni contestabili, non ci sembra
opportuno imporre divieti e limiti alla libera
espressione di forme di genere, derivanti da
particolari vissuti ed esperienze, che
producono semplicemente significati nuovi,
diversi e non inferiori ai precedenti. La
presa di coscienza e
l’autodeterminazione del singolo
diventano necessarie in una società
complessa e frammentata
culturalmente in cui i significati vengono
appresi e definiti localmente e sono
legittimamente messi continuamente in
discussione e rivisitati.
Con queste conferenze intendiamo riaprire
la discussione sul tema di una libera
sessualità, chiedendoci cosa voglia dire
essere uomo, donna, omosessuale, trans,
sviluppando un dibattito nuovo e libero
dalle costrizioni che il vecchio paradigma
impone. Vogliamo approfondire le nostre
conoscenze in merito alle questioni di
genere e alle disposizioni in materia messe
in atto dai soggetti politici, considerando
anche il fatto che simili questioni vengono
troppo spesso tralasciate o trattate
superficialmente. Ma come possiamo
disinteressarci quando ci riguardano così da
vicino, arrivando al profondo delle nostre
identità di persone, qualsiasi sia la forma
che adottiamo nella nostra epifania di
esseri umani?
Da più parti e – ormai – da
troppo tempo assistiamo agli
attacchi proibizionisti,
antistorici e soprattutto
trasversali contro la libertà di
scelta e l’autodeterminazione
individuale portati da politici,
preti e tuttologi televisivi. In
occasione delle ultime leggi,
proposte di legge e
referendum abrogativi
(fecondazione assistita, pacs,
dico…) abbiamo dovuto subire
dibattiti, dichiarazioni ed
encicliche che pontificavano
sull’immodificabilità della
famiglia eterosessuale
derivante dal matrimonio,
sulla naturalità dell’inclinazione femminile
alla maternità, sulla personalità giuridica
del feto ed altre aberrazioni simili.
Abbiamo il forte sospetto che l’ipocrisia
e la violenza di questi discorsi e delle
norme che ne derivano, siano tese ad
ordinare la società eliminando tutte le
differenze e soffocando la libera scelta
di ognuno in relazione agli affetti, ai
rapporti interpersonali, alla sessualità, alla
riproduzione.
Qualunque dispositivo di comando
biopolitico contiene necessariamente al suo
interno forme di discriminazione, di
4
repressione della diversità e imposizione di
modelli di vita omologanti. L’espressione
libera di desideri e fisicità è sostanzialmente
incompatibile al mantenimento di ordine,
limiti, censure, controllo.
Anche quando sembra che le scelte
legislative possano aprirsi ai cambiamenti
della società, dei comportamenti e delle
scelte, la volontà di normare qualunque
aspetto del vivere personale e sessuale
cela la speculare volontà di contenere e
limitare le possibilità di scelta.
Non abbiamo la certezza che interventi
legislativi come quelli sulla fecondazione
assistita o le unioni omosessuali abbiano
esclusivamente a che fare con le identità
sessuate “donna” o “gay”.
Ci sembra piuttosto che abbiano la funzione
di ridurre differenze inclassificabili ed
incalcolabili a categorie riconoscibili e che
riproducano ordinatamente uno schema
“naturale” e gerarchico delle relazioni
umane. La coppia dev’essere
monogama, riconoscibile e catalogabile
nei registri delle anagrafi comunali,
deve comunque riprodurre il modello
familiare unico e chiuso rappresentato
dalla coppia padre e madre, e se i sessi non
si adeguano, si dovranno imitare.
Ne abbiamo parlato con due attivisti nei
movimenti contro la discriminazione
sessuale e le ingerenze del Vaticano:
Nicoletta Poidimani (Facciamo breccia)
e Roberto Aere (Circolo Pink, Verona).
1)Secondo te, in che forma si esprimono e
in che contesto sono inserite nella società
contemporanea le discriminazioni di
genere? Ha senso riconoscere come
legittima la stessa differenziazione che
viene usata come strumento di
discriminazione?
Poidimani:
Le discriminazioni di genere pervadono
ancora oggi tanto la sfera pubblica che
quella privata: dalla disparità di educazione
in famiglia, al permanere dei privilegi
maschili nella stragrande maggioranza degli
ambiti decisionali e lavorativi. Spesso anche
in ambiti ‘di movimento’ troviamo
riproposta la divisione di ruoli dominante
nella società. Mettere in discussione questo
stato di cose implica il ragionare in termini
di rapporti di potere. L’essenzialismo
strategico, proposto da Gayatri Spivak, è a
questo proposito un importante strumento
critico che permette di rendere politico il
proprio posizionamento nel sistema dei
generi senza cadere in pericolosi
essenzialismi biologici (si veda
it.wikipedia.org/wiki/Gayatri_Chakravorty_
Spivak)
Aere:
I generi hanno imparato a differenziarsi
sulla spinta del movimento femminista,
altrimenti per quel che riguarda noi uomini
la divisione sarebbe rimasta su chi comanda
e chi no in famiglia e in ogni ambito sociale.
Proprio per questo, per questa vergognosa
5
miopia maschile è ancora indispensabile
mantenere viva la differenziazione per dare
strumenti di lotta ad ogni forma di
discriminazione e soprattutto per
decostruire un modello che nega alle donne
diritti e dispensa gli uomini dal sentirsi
parte in causa per le violenze perpetrate.
2)Che cosa pensi della proposta di legge sul
50 e 50?
Poidimani:
Le istituzioni attuali, dai partiti al
parlamento alle accademie, hanno una
connotazione fortemente patriarcale. Fin
quando le istituzioni non verranno ripensate
dalla radice, la presenza delle donne, anche
in rapporto numerico equo col maschile,
non cambierà nulla. Non si tratta, infatti, di
un problema meramente quantitativo:
finché non cambia la qualità, la quantità
rimane una questione formale. Basti
pensare ai pochi – tutti maschi, ricchi,
eterosessuali, ecc – che hanno in mano il
potere economico a livello globale. Il G8 ne
è uno specchio significativo…
Aere
Rispondo passando da una altro percorso.
Come gay pretendo il 100 x 100 di
partecipazione e di non discriminazione in
ogni ambito e grado della vita sociale,
pubblica e privata. Certo appartengo ad un
'orientamento sessuale' che non ha i numeri
per definirsi la metà di un tutto escludente
in ogni caso, e mi piacerebbe che una lotta
di genere , di orientamento sessuale e
identità di genere superasse questa logica e
trovasse altri percorsi di lotta che ne
determinassero, indipendentemente dai
numeri piena parità di cittadinanza.
3)Nel dibattito pubblico su unioni di fatto e
procreazione assistita sembrava emergere il
tentativo di imporre un certo modello di
famiglia e un determinato modello di
relazioni interpersonali che veniva condiviso
da tutto l’arco istituzionale, compreso il
Vaticano. Sei d’accordo con questa
affermazione? Se si, che modello pensi si
volesse ordinare e qual è la tua posizione a
riguardo?
Poidimani
Il modello dominante di famiglia e relazioni
è ancora quello clerico-fascista (da cui non
è immune neppure il centro-sinistra) che col
papato dell’integralista Ratzinger sta
riacquisendo nuovo vigore. Si tratta di un
modello che sulla divisione biologica del
lavoro riproduttivo fra uomo e donna –
dunque una parzialità – imposta relazioni di
potere e subordinazione. Un modello che si
regge anche sull’omertà nei confronti della
violenza con cui gli uomini difendono il
proprio ruolo dominante all’interno della
famiglia nei confronti di donne e figli/e.
Condivido ciò che il femminismo più
radicale sostiene da decenni: la famiglia va
abolita, perché è il luogo dove la
subordinazione femminile si attua nelle
forme più feroci e criminali.
Aere
Se hai il tuo modello di inquadramento sei
più tranquillo e faciliti il controllo sociale.
Sei inserito, normato in una dialettica tra
soggetti incasellati torni utile al sistema. In
questo senso credo si potesse trovare una
intesa nell'arco istituzionale. L' apparente
contrapposizione famiglia e pacs è
fuorviante perchè sposta il livello del
confronto sul terreno del 'chi se lo può
permettere' scavalcando la vera e più
profonda spaccatura data dal tentativo di
chi intende fossilizzare la società
precarizzandola e frantumandone le
relazioni sociali, rinchiudendo le persone in
orticelli prestabiliti e ben recintati e chi
cerca in tutti i modi di non farsi 'barrare', di
tenere collegate le lotte sociali, di
scavalcare i recinti e attraversare i territori
ridefinendo così, partendo da un se
transgender migrante e precario il concetto
di cittadinanza. Un'Europa che sempre più
mira ad essere una fortezza economica e
militare accetta ogni sorta di mediazione e
discriminazione in cambio di una definizione
sempre più forte di appartenenza, di
sicurezza, di riconoscimento di radici
comuni , magari cristiane, come garanzia di
difesa da un qualsivoglia attacco esterno e
disordine interno. Questo patto tra poteri
forti punisce ogni diritto di cittadinanza che
sfugge alla logica del controllo sociale e che
si propone 'intrinsecamente disordinato e
destabilizzante' , sia esso migrante, senza
casa, senza reddito , gay, lesbica,
transessuale , rom ...., lasciandolo in balia
di un improbabile riconoscimento da parte
degli stati membri sempre più nazionalisti e
xenofobi. Una politica questa che crea
sempre più marginalità, allontanando la
cittadinanza dal cuore delle città e dal cuore
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della politica.
4) In che modo si articola e come si
esprimono le ingerenze vaticane in Italia?
Secondo te in quali modi è possibile
riappropriarsi di termini e pratiche quali
libertà di scelta e autodeterminazione oggi?
Poidimani
Per essere sintetica, parlo di una piovra dai
mille tentacoli, che vanno dai privilegi
economici, alle ininterrotte ingerenze nella
sfera pubblica, in particolare per quanto
riguarda la sanità e l’istruzione, che arriva a
coinvolgere la sfera affettiva e le scelte e i
diritti di tutte/i.
Primo, irrinunciabile passo è la lotta politica
per la cancellazione del Concordato, che
deve andare di pari passo con la
rivendicazione delle pratiche reali di
autodeterminazione degli stili di vita ‘altri’
dal modello dominante. Con il
coordinamento Facciamo Breccia da un paio
d’anni stiamo cercando di lavorare in questa
direzione agendo su più piani, che vanno
dall’approfondimento culturale alla denuncia
politica della subordinazione della classe
politica italiana – di destra e di sinistra – ai
diktat vaticani. Questi piani convergono,
annualmente, nella manifestazione NoVat
che si tiene a Roma intorno all’11 febbraio,
anniversario dei Patti lateranensi tra
Mussolini e papa Pio XI. Nel 2008 NoVat si
terrà sabato 9 febbraio, questa volta con un
respiro internazionale, perché se il fiato
vaticano sul collo ce lo sentiamo soprattutto
in Italia, anche all’estero comincia a
svilupparsi la sensibilità su queste
tematiche (www.facciamobreccia.org).
Aere
Non basterebbe un libro per mettere in fila
le ingerenze ed i soprusi che il vaticano fa
sull'Italia, penso comunque che una delle
più gravi sia quella di aver privatizzato da
decenni parti dei servizi socio-sanitari, con il
silenzio della sinistra, garantendosi il
controllo sulla malattia e sulla cura, che
dove non arriva il miracolo potrà
'l'assicurazione cattolica'. La cosa che più mi
inquieta è la precisa volontà del Vaticano di
affossare i Diritti Umani e tutte le conquiste
sociali fatte dal dopoguerra ad oggi da parte
dei movimenti, disconoscendoli e
demandandoli al creatore, una operazione
pericolosa di tentativo di rimozione e di
negazione della nostra Memoria collettiva.
Per riappropriarsi simbolicamente di spazi
nostri come prima cosa sarebbe da fare uno
sbattezzo di massa su tutto il territorio
nazionale in una data precisa che ridia
l'autodeterminazione della scelta se volere
la tessera della religione cattolica oppure
no. Sembra poco, una forzatura teatrale .
Ma lo sbattezzo ha un significato
dirompente sul controllo che il Vaticano ha
sui nostri corpi dalla nascita alla morte,
disconoscerlo significa mettere in difficoltà
con mezzi alla nostra portata, una dittatura
millenaria. Lascio a voi immaginare l'effetto.
Negli ultimi anni le ministre delle pari
opportunità di destra e di sinistra si sono
distinte per aver invano tentato di
introdurre nella legislazione delle norme
sulle pari opportunità, seppellite da franchi
tiratori e sessisti dichiarati.
Come è noto, oggi, attraverso la campagna
50e50 ovunque si decide, la questione
viene riproposta dall’Udi con una raccolta di
firme per la presentazione della proposta di
legge ispirata all'art.51 della costituzione:
"Norme di Democrazia Paritaria per le
Assemblee elettive". L'articolato dispone
che in ogni competizione elettorale, ogni
lista di candidati debba essere costituita da
un numero uguale di donne e uomini,
elencati in ordine alternato per sesso e in
caso di disparità numerica, lo scarto debba
essere di una unità (art.3). Così anche per
le liste uninominali, nel loro complesso.
Movimenti, partiti e coalizioni che non
rispettino le predette norme, non sono
ammessi alla competizione elettorale
(art.4). Sostanzialmente si può dire che
questa proposta venga condivisa nell’arco
istituzionale dei partiti politici in maniera
trasversale: da “destra” a “sinistra”
(categorie, ci sembra, ormai desuete) sono
tutti d’accordo sulle pari opportunità, ma,
naturalmente, lo sono più le donne che gli
uomini.
Alla base della proposta c’è la volontà di far
emergere nella dialettica politica
istituzionale una frattura ritenuta principale:
quella della divisione binaria dei generi,
come fattore discriminante e portatore di
significati che, oltre ad avere peso di fatto
sulla società, dovrebbero anche avere
rilevanza sulle scelte, sulle posizioni e sulle
decisioni politiche.
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Il dibattito politico vede alcune
posizioni ruotare intorno alla
opportunità o meno di accedere ad un
sistema di potere prettamente maschile
e in quanto tale, così viene definito,
corrotto, censorio e ingiusto.
All’interno di queste posizioni fra loro
contrapposte emerge però un’idea che le
accomuna: la diversità radicale dell’universo
femminile da quello maschile, e quindi dal
sistema di potere e relazioni di dominio. Chi
sostiene l’istanza delle quote rosa afferma
la necessità di una presenza femminile nei
luoghi istituzionali, presenza che
permetterebbe una gestione diversa della
cosa pubblica proprio perché l’approccio
femminile sarebbe in sé differente.
Viceversa, le posizioni critiche, pur partendo
dallo stesso assunto, quello dell’alterità del
pensiero e delle pratiche femminili,
giungono alle conclusioni opposte: l’assenza
dai luoghi del potere sarebbe espressione
della volontà delle donne stesse di non
entrare nel sistema di rappresentanza
istituzionale e di stare, così si dice, altrove.
Si dà quindi per assunta una definizione
sessuata e biologica dell’essere donna (e
uomo), sottintendendo che esista un’entità
sociale “donna” all’interno della quale
dovremmo tutte riconoscerci e condividere
esperienze, prospettive, approcci. E così,
ancora “naturalmente”, il nostro pensiero
sarebbe volto a dimensioni diverse,
ontologicamente impermeabili a dinamiche
di sopraffazione e comando…
Quello che non ci torna in questo dibattito è
la contraddizione che emerge di fronte
all’evidenza dei fatti: che le donne al potere
per quanto poche ci sono, e, quando ci sono,
sono come gli uomini, e cioè che il problema
non è tanto il sesso di chi accede al potere,
quanto il potere stesso. Così come chi sta in
quell’altrove non sono solo donne.
Crediamo che l’alterità alla politica ufficiale
di palazzo e alle dinamiche di comando sia
prerogativa di scelte politiche e di vita
individuali e consapevoli, e non di eredità
biologiche, ormonali o sessuali.
Che esista una cultura maschilista,
machista e patriarcale è una verità
indiscutibile. Che questo sia un problema
che investe le donne quanto gli uomini lo
è altrettanto, anche se questo non sembra
essere del tutto ammesso dalle donne che
si battono a favore di questa proposta di
legge o che la discutono criticamente.
Questo introduce l’argomento che riteniamo
davvero fondamentale.
Se è vero che trent’anni fa la presa di
coscienza delle donne ha messo in evidenza
la contraddizione della neutralità della
cittadinanza universale, disegnata intorno
all’uomo bianco, cristiano etc, aprendo una
frattura nella rappresentazione dei diritti di
cittadinanza stessi imponendo la loro
presenza sessuata, lo è altrettanto il fatto
che oggi quella frattura si è moltiplicata.
Corre lungo le molteplici linee di ruoli e
identità frammentate dalla crisi della
cittadinanza e dalla modernità liquida
(come la chiama Bauman). Identità che si
sovrappongono, si cumulano, si annullano a
vicenda. Allora pensiamo che prima di
parlare di quote rosa e pari opportunità
sancite per legge si debba partire da
un’altra prospettiva: quella che dà luce
alla materialità dei conflitti che si
esprimono nelle pratiche e che
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percorrono i luoghi reali in cui viviamo.
Pratiche che ognuno di noi agisce
attraversando ruoli, identità meticcie,
inclinazioni diverse.
Queste pratiche derivano spontaneamente
dal pensiero critico sviluppato dai
femminismi: per quanto riguarda la
decostruzione di identità e di categorie che
hanno permesso storicamente la
discriminazione e l’esclusione politica e
sociale delle donne. Ma le superano. Come
sappiamo bene, la presa di coscienza
femminista ha spezzato l’unità neutralizzata
sessualmente imposta dal patriarcato. L’ha
spezzata per farne due parti: quella
maschile e quella femminile.
Ma questo in qualche modo ha riprodotto lo
stesso stereotipo: prima c’erano i cittadini e
adesso ci sono anche le cittadine. E tutti gli
altri? E tutte le altre?
Precari, migranti, clandestini, gay lesbiche e
transgender… i confini flessibili della
cittadinanza non sono più solo sessuati.
Non possiamo fare a meno di farci i conti.
Le leggi che governano la vita e la
riproduzione, assegnano ruoli pubblici e
privati, e definiscono la liceità e i limiti
consentiti alle relazioni, non riguardano
forse ognuno ed ognuna? Non vanno ad
incidere sull’autodeterminazione di ogni
soggetto che abbia scelto la propria
sessualità liberamente?
Crediamo che sia dall’autodeterminazione di
ogni soggetto, a partire dai suoi desideri e
dalle sue esigenze, dalle sue inclinazioni
temporanee o permanenti, che dobbiamo
provare a definire una nuova cittadinanza non
identitaria, flessibile, adattabile e quindi
resistente alle trasformazioni soggettive e
storiche di cui siamo protagonisti e
spettatori in ogni fase della nostra vita?
Non è forse un approccio critico come
questo ciò che resta profondamente attuale
dei femminismi?
Per sconfiggere maschilismo e
discriminazione non è forse più utile
decostruire le stesse categorie che sono
state sempre utilizzate come strumento di
controllo e comando?
Crediamo che un confronto laico con tutti e
tutte, anche a partire dal dibattito sulle pari
opportunità, sia necessario, per provare ad
immaginare come spostarci tutti in
quell’altrove che non è e non deve essere
più, ormai, prerogativa delle sole donne.